IL FIGLIO DELLA VEDOVA

IL FIGLIO DELLA VEDOVA (Don Pipeta l’Asilé ) di Giacomo Durio

Nel numero 8 di Delta abbiamo pubblicato una presentazione del libro Don Pipeta l’Asilé di Luigi Pietracqua. Oggi viene esaminata un’opera di Augusto Monti, che da quella direttamente deriva * AUGUSTO MONTI, 11 figlio della vedova (Don Pipeta l’Asi1é), Torino 1978, Viglongo Ed

Il libro, nelle stesse dichiarazioni dell’Autore, è definito più che una semplice « traduzione » dell’originale in piemontese di Luigi Pietracqua, un vero e proprio « rinnovamento » fatto per la convinzione della sua attualità in relazione a vari episodi inquadrati dai particolari rapporti tra Inquisizione cruentemente tirannica e anticlericalismo da raffrontare, per analogia, con similari episodi del tempo del fascismo e del Tribunale Speciale, Questa sua attualità e questo suo richiamo sono stati alla base della sua originaria pubblicazione nell’edizione torinese del giornale « l’Unità » come romanzo d’appendice a puntate. Ma questa sua attualità mi è stato agevole intravvederla anche da un diverso angolo visuale e cioè quello massonico e non soltanto perché anche nel romanzo viene affermata la perennità dei principii dell’ideologia nonché dell’essenza e sostanza massonica, ma anche perché vi si possono cogliere spunti di raffronto con figure, problemi, situazioni, aspettative e, purtroppo, anche delusioni del nostro tempo. È proprio a questi aspetti cui dedicherò l’ultima parte di questa discussione, avendo prima descritto tempi e modi di una iniziazione, come sono presentati nel libro.

Alcuni personaggi che più ci interessano direttamente:

Battista, ossia Don Pipeta l’Asilé, così chiamato perché sempre in giro, e specialmente di notte, con la botticella dell’aceto da vendere, aceto ritrovato nelle botti del vino sistemate nel retrobottega della bettola di Caterina, sua madre, in vicolo delle Asine, che univa via

Porta Palatina a Porta Palazzo a Torino. Alcuni lustri prima, infatti, quando Don Pipeta era ancora un ragazzo, la bettola, essendo stata tenuta aperta dalla madre, la quale aveva anche fornito cibo e vino durante Feste di precetto, ed in particolare durante la Festa del Corpus Domini, « quando ogni buon cristiano deve compiere fedelmente le pratiche religiose di Santa Madre Chiesa », era stata chiusa, non solo, d’ordine del Sant’Ufizio, ma la madre con la sorella arrestate e torturate a morte dall’lnquisizione. Il solo Battista, fuggendo attraverso il retrobottega, si era sottratto alla cattura. Tutto questo antefatto, per meglio capire « perché » il ragazzo, fatto uomo, lo ritroviamo Fratello Massone pur senza conoscere il « come Il tintore Stefano Borello uomo dabbene tutto dedito al suo lavoro ed alla famiglia, che, proposto per l’affiliazione alla Massoneria, troveremo protagonista della cerimonia di iniziazione e che unitamente ai componenti della sua famiglia formerà successivamente oggetto della solidarietà dell ‘Istituzione contro le persecuzioni dell’ Inquisizione messa in moto, purtroppo, dalle delazioni di altro Fratello. Quest’ultimo, anteponendo uno smodato affetto per il figlio degenere e soggiacendo al desiderio di vendetta, si ritrova dimentico di tutti i suoi doveri di massone.

Ed abbiamo così conosciuto anche la trista figura del notaio Roggero. Altri personaggi della « Vedova » operano a favore del Borello prima e della sua famiglia poi, salvandoli dai carnefici persecutori della Inquisizione.

Desidero però ricordare particolarmente la figura del professor Parodi.

Egli, arrestato per errore al posto del Borello, durante l’interrogatorio degli Inquisitori, al frate che gli contesta « di ammettere d’essere in stretta relazione coi più perfidi nemici d’ogni ordine sociale, con i più pericolosi fautori d’ogni più infame eresia, con i… » r sponde testualmente continuando: « con i mangiatori di bambini, coi bevitori di sangue umano, con gli uomini dal piede forcuto… che le umili donnette dicano e pensino così, transeat, ma che voi discepoli dell’onnisciente Santo d’Aquino veniate a dipingermi come nemici della società, come infami eretici i discendenti se mai di quei maestri comacini che hanno arricchito l’Europa di tante e leggiadre case di Dio, i membri di una società filantropica la quale può essere maestra a chicchessia di amore e di carità cristiana… ». Difesa dell’Istituzione, di cui non faceva parte, che lo perse e che naturalmente gli fu fatale malgrado l’interessamento a suo favore di persone influenti che chiamarono in causa le più alte autorità civili e cioè il ministro Bogino e suo tramite il Re Carlo Emanuele III.

Nell’edizione piemontese il profano muore sotto o a seguito delle torture, il Monti, invece, lo fa suicida in carcere richiamandosi a « Catone… Uticense… suicida per sfuggire al tiranno… cercando ” Libertà ” ».

È giunto il momento di tratteggiare l’Iniziazione.

L’Autore dopo brevissimi cenni su origini e primi sviluppi della Massoneria in Inghilterra e Francia afferma che all’epoca del racconto anche Torino, dopo Chambéry, aveva la sua brava Loggia all’Obbedienza di una Loggia Madre di Ginevra. L’iniziando è il buon tintore Borello che dispiaciuto di non aver potuto saper nulla « circa le istruzioni preventive per il suo ricevimento » si rassegna a vedere « cosa succederà ».

Rilevato a tarda sera a casa sua dal Notaio Roggero, incontra l’Acetaio nel suo rifugio dove gli vengono fatti posare gli ori e i denari per non dare sospetto in famiglia con un ritorno a casa per lasciarli. Sono sintomatiche le raccomandazioni: « qualunque cosa sentiate o vediate, qualunque cosa vi comandino di fare, dovrete mettervi in testa di prestarvi a tutto, senza fare la più piccola osservazione e senza mostrare, soprattutto, neppure l’ombra della paura. Non vi sarà fatto un male al mondo, ma dovrete sottostare a certe prove che ci vorrà anima buona e fegato sano per sostenerle… ». Malgrado l’oscurità il profano viene bendato e senza parlare si cammina per alcune miglia (sapremo dopo che si è trattato di un’uscita e di un  rientro in Torino) finché un « Chi va là » accompagnato da rumore di maneggio d’armi li ferma.

« Figli della Vedova » è la parola di passo. Dopo poco si sente un rumore sordo come d’acqua d’un fiume che al profano bendato pare un immane fragore di cascata che gli stia per piombare addosso.

Egli ha un momento di debolezza e un mancamento, ma con il sostegno dei due accompagnatori si giunge finalmente ad una stanza illuminata da una lampada d’ottone a tre becchi. Seduto su di una panca e sbendato, egli si ritrova davanti ad un tavolo parato d’un tappeto nero. La vista dei due accompagnatori sun po’ lo rinfranca ed egli si scusa per la sua debolezza. Lasciato solo osserva sul tavolo l’occorrente per scrivere, un teschio, una spada.

Convinto di farlo mentalmente sussurra « Mio Dio dove sono mai adesso?

« Sul limitare del Tempio della Luce » gli risponde una figura incappucciata e armata di spada, che subito incalza « Profano sei veramente deciso a entrare in questo Tempio? ». Malgrado il tremore la risposta è positiva e allora l’ingiunzione: « Ebbene scrivi il tuo testamento ». Sorpresa e spiegazione « L’uomo acquistando la vita contrae tre debiti gravi e sacrosanti, ai quali deve saper soddisfare con tutto l’amore di giustizia e la virtù del sacrificio. Il primo verso Dio; il secondo verso sé medesimo; il terzo verso i suoi fratelli. Scrivi in che maniera intendi soddisfare questi tre debiti. Hai tempo mezz’ora ».

Con una breve parentesi, sottolineo qui, condividendola, la notazione del Boucher sul fatto che la Massoneria modernizzandosi ha soppresso, forse a torto, la interrogazione del dovere verso Dio sostituendola con quella, più limitativa, del dovere verso la Patria. Indubbiamente vi sono state delle motivazioni la cui ricerca rimando all’indagine del lettore.

Riprendendo, bellissima la descrizione dell’imbarazzo del profano e di tutte le strane idee che gli frullano in testa. Lascio un attimo il lettore al ricordo di quelle che sono state le sue nel gabinetto di riflessione.

Bellissime comunque le risposte:

— A Dio, creatore dell’Universo, ogni mortale deve conoscenza e venerazione.

— A me stesso, debbo ogni sforzo per giungere all’acquisizione della vera virtù e quei savi miglioramenti che rendono sempre più onorata l’umana natura.

— Ai miei simili, debbo assistenza, amore, fedeltà.

Dopo che il foglio, piegato in quattro, è stato portato via sulla punta di una spada, un’altra figura incappucciata lo benda di bel nuovo e gli fa iniziare un nuovo viaggio lungo, vario, pieno di peripezie, se pur non gravi, diverse e curiose tutte quante, rumori sordi inesplicabili, invocazioni di aiuto, passaggi a quattro gambe in cunicoli bassi e stretti, ecc. fino ad un secondo alt di una voce che chiede dove vada la carovana:

« ln pellegrinaggio per trovar la luce ed entrar sotto gli auspici della “Vedova”. Ma la gamba sinistra è ancora calzata!! ». « Il profano aspetta solo un ordine del F. Terribile per scalzarsela ». Dopo di che il profano viene seduto sopra una poltrona sostenuta da quattro corde e fatto precipitare come in un pozzo, in un abisso senza fondo, solo, abbandonato e pieno di emozione e di dubbi sul dove sarebbe andato a finire. Un tonfo di contatto e un folto brusìo di voci lo accoglie e tre colpi ripetuti tre volte echeggiano intorno a lui. Segue un serrato interrogatorio condotto magari da « curiali e gente di penna », ma al quale il buon Borello, forte del suo robusto buon senso di popolano lavoratore e soprattutto della sua illibata coscienza di gran galantuomo, risponde con naturalezza e semplicità. Ricondotto alla poltrona dopo vari giri, che l’A. descrive eseguiti sotto la volta di acciaio delle spade, si sente domandare « Cosa desideri più ardentemente in questo istante? »: d’essere liberato da questa benda che mi impedisce di vedere la luce! « Sia esaudito il tuo desiderio ».

Ma il profano non vede nulla perché l’oscurità è profonda. Poi in successione gli vengono presentate due visioni. La prima di maestose figure candide in una nebbia luminosa, che rappresenta i fratelli più cari passati a seconda vita; la seconda di scheletri e macilente figure macchiate di sangue che rappresentano coloro che han ricevuto il meritato castigo dei traditori. « La Verità e la Giustizia, ammonisce una voce, devono essere l’unica nostra guida, guai a chi tradisce i nostri Segreti, guai a chi tenta di violare la santità del nostro Tempio e della nostra Istituzione ».

Tre colpi di martello, ripetuti da due parti opposte, danno inizio al terzo ed ultimo viaggio. Nuovamente bendato riparte all’insù sulla poltrona. Riavuto lo stivale si cammina ancora incontro a quel

terribile e maledetto rumor d’acqua in cascata. Vento umido, spruzzi, uno spintone che pare precipitarlo nel vuoto, una gran paura, al fine si ritrova in piedi e sano, ma l’istinto gli fa chiedere aiuto. Una voce lo invita a proseguire. Procede a stento brancicando finché si sente afferrare per le due braccia. La cerimonia continua con l’ingresso rituale nella sala dei passi perduti e poi nel Tempio, ma poiché prosegue con uno strano intreccio fra formalità e rituali della leggenda di Hiram, lasciamo il neofita al suo giuramento finale, alla vestizione e all’abbraccio fraterno che lo consacra nuovo fratello, finalmente rasserenato dopo tante peripezie.

Una breve considerazione sui luoghi e poi passiamo all’ultima parte. Il rumore dell’acqua, che non è pensabile sia riprodotto, fa ritenere si tratti di sotterranei tra la Cittadella torinese e la via Dora Grossa, l’attuate via Garibaldi, collocazione che può essere confermata dal successivo, relativamente breve, percorso per raggiungere le rispettive case.

La prima considerazione che viene alla mente è quella sul proselitismo. Troviamo infatti tra i Figli della Vedova dal conte Ferdinando (membro di una delle più illustri famiglie della nobiltà piemontese, che ospita nella sua gran fattoria fuori Torino la famiglia Borello in fuga), al notaio, al negoziante di chincaglierie all’ingrosso, al vecchio benestante, all’artista, fino al povero Battista che vive in quel tugurio che è la vecchia bettola della madre, ma che è una delle figure di spicco nel contesto della operatività di allora volta al progresso della vita civile e della libertà di pensiero. Pare davvero non vi sia distinzione di classi sociali o di censo purché il fratello sia effettivamente di buoni costumi e libero ed intenda essere partecipe concretamente delle due principali essenze della Massoneria: quella più propriamente spirituale volta alla ricerca del Vero e quella più particolarmente sociale volta al raggiungimento del Giusto. E mi pare che questo possa e debba essere un criterio tuttora valido.

I Fratelli cioè sono uguali, nel rispetto di uno dei cardini del sacro trinomio, ma in una eguaglianza che non è basata sui diritti, ma essenzialmente sui doveri e sulla capacità dei singoli di una ascesi individuale che si trasforma poi in una ascesi collettiva.

Anche allora, come oggi, vi sono le pecore nere che soggiacciono alle debolezze umane o nel senso di pensare che la Massoneria possa essere uno strumento di forza da poter plasmare per avvalersene a fini particolari o nel senso egoistico che calpesta la fratellanza di fronte al soddisfacimento di sentimenti deteriori e personalistici o settarii.

Ma l’Istituzione ben sapendo che l’inazione è sempre sterile, può e deve reagire con atti di giustizia, che hanno anche una salutare veste ammonitrice, volta a salvaguardare le sue finalità e le sue strutture. La solidarietà si manifesta nel libro nella sua piena concretezza, svolta con atti ed azioni risolute, non scevra da pericoli personali, ma sempre permeata da prudenza, coraggio e tempestività. Essa è veramente emblematica e densa di insegnamenti per tutti noi.

La tutela del segreto appare vitale nel senso più letterale della parola. La delazione o anche soltanto l’imprudenza pone il malcapitato alla mercé dell’inquisizione e della sua macchina che stritola libertà fisica e di pensiero. Oggi le condizioni sono fortunatamente cambiate in meglio e certo noi ci auguriamo che anche in Italia l’evoluzione porti ad una diminuzione sempre più accentuata della necessità di un segreto difensivo contro l’ambiente profano, ma mi piace ricordare qui la conclusione di una tavola di un nostro fratello sul segreto massonico:

« Esiste un segreto che permane tale anche ove la Massoneria possa vivere i fasti della vita pubblica: è quello che racchiude in sé chi ha raggiunte la catarsi e la esoteria, la purificazione interiore e la perfezione. E questo è il segreto che affratella i massoni, quelli veri e correttamente istradati sul cammino iniziatico, rispettosi del monito della Sfinge, simbolo di tale segreto: l’uomo deve osare, volere, sapere e tacersi

Ritornando alla operatività appare essenziale l’azione di Don Pipeta che, mimetizzato nella sua veste di venditore ambulante di aceto, mantiene i collegamenti con l’Ambasciata di Francia presso la Repubblica genovese con azioni pericolose, ma preziose per mantenere

relazioni con gli assertori dei principii di quella Rivoluzione dell’Illuminismo che si stava sviluppando al di là delle Alpi non solo ideologicamente.

Oggi il compito dei singoli Massoni è duplice, all’interno per inserirsi, sia pure non per risolverli direttamente, nei grandi problemi sociali e operare per diffondere in un mondo, dove queste vanno sempre più scomparendo, spiritualità e tranquillità al fine della realizzazione di una maggiore giustizia, della difesa della libertà individuale e collettiva.

All’esterno per favorire, con la collaborazione dei Fratelli di tutte le obbedienze, la realizzazione di quell’unità Europea che appare sempre più l’unico rimedio per tanti mali cui gli Stati nazionali non sono più in grado di porre singolarmente rimedio.

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