RIFLESSIONI SULLA PENA DI MORTE

RIFLESSIONI SULLA PENA DI MORTE

Di Paula Cooper, la ragazza di colore condannata a morte per un orrendo delitto commesso quando era appena quattordicenne, hanno parlato tutti i giornali. Si è creato un movimento di opinione che, come sempre avviene in questi casi, ha trovato oppositori e sostenitori. Atteggiamento legittimo per entrambi.

Ho davanti agli occhi la foto segnaletica di Paula Cooper. Un volto statico, impietrito; la testa come se fosse sospesa nel vuoto, decapitata. Un volto drammatico, che sembra non aver mai conosciuto la dolcezza di un sorriso.

Rifletto sulla pena di morte. So di non essere particolarmente originale in questo. Altri, e ben più qualificati di me, lo hanno fatto e continueranno a farlo. Ma è giusto avere le proprie opinioni, è un modo di sentirsi vivi e partecipi alla vita che viviamo.

Di fronte a un delitto — e non solo quando annienta una vita, ma quando è tortura fisica e morale, aberrazione, corruzione — il primo impulso è di voler per sempre cancellato dalla faccia della terra il colpevole. Io stessa non ne sono stata aliena.

Ma poi penso che il male non può essere estirpato con un colpo di spugna. -È una soluzione, quella della pena di morte, certo drastica e veloce, ma non risolve nulla. Ed è un controsenso perché punisce il delitto con un altro delitto. Questo legalizzato che non risveglia, in chi Io compie, rimorsi o ripensamenti.

La pena di morte è retaggio di tempi autoritari. Nel contrasto fra forti e deboli, fra dominatori e dominati — soprattutto in tempi di tirannide — rendeva i secondi succubi e timorosi. E sottomessi. Le condanne, e le torture erano inflitte anche per colpe immaginate, lievi, inesistenti. Se le mura di Castel Sant’Angelo, o della Torre di Londra potessero parlare! Se un ipotetico film potesse mostrarci le scene di orrore intorno a capestri e ghigliottine! Questo per fermarci a tempi lontani.

Da Caino e Abele il male esiste da sempre, è nell’uomo, è nella natura. Oggi, con i mezzi di comunicazione di cui siamo forniti, il terribile fatto di cronaca ci fa inorridire. Ma che dire di quel

male subdolo, mimetizzato, invadente — che non è il delitto — che penetra, corrompe e moralmente uccide?

Di chi la colpa?

Pensiamo alla miriade di vite umane, al percorso della vita dalla nascita alla morte, a tutti gli stimoli o freni, esaltazioni o umiliazioni, pensiamo alla salute e alla malattia, alla socialità e alla solitudine, alle tentazioni, alle crudeltà, agli inganni che si incontrano nel corso di questo cammino. Ai successi ed agli insuccessi, alle tragedie. Ogni individuo ha reazioni diverse, aderenti alla personalità che si è sviluppata o che non si è potuta sviluppare.

L’individuo nasce con una impronta genetica, ma il ruolo della famiglia e della società è determinante per la sua formazione. Un Impegno consapevole e responsabile dà sostegno, fiducia e speranza. Ma che avviene quando la famiglia è addirittura inesistente o peggio, quando la società è non partecipe o essa stessa corrotta? Quali miserie, quale incuria e abbandono possono aver influito su Paula Cooper e su tutti quei meschini in attesa di morire nel braccio della morte?

Mi si potrà opporre che molti di quei meschini sono delinquenti incalliti, irricuperabili, che hanno compiuto azioni orrende. Sì, è vero. Ma questo è un punto di arrivo. Penso che un gesto di pietà, di cortesia, di gentilezza, di umanità in un certo momento della loro vita avrebbe svelato un lato sensibile e nascosto. Forse ancora oggi, nella cella della morte, si potrebbe fare qualcosa che restituisca, o dia loro per la prima volta, la dignità di esseri umani, non da annientare ma da ricuperare.

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