CAPELLO MASSONE

Capello massone

ARMANDO CORONA

Gran Maestro della Massoneria Italiana

Da poco restituito alla famiglia — ma senza formale annullamento della parte residua della pena inflittagli dieci anni prima dal Tribunale Speciale — in risposta al dott. Della Villa, che gli aveva sottoposto il dattiloscritto di un’opera intesa a narrarne le vicende, a proposito del « materialismo » che gli veniva addebitato il gen. Capello replicò con una pagina emblematica: Ho le mie idee e le ho assunte non aprioristicamente per settarismo, e tanto meno per interesse. Vi sono pervenuto per istudio e riflessione. Forse avrò errato… non lo so! Comunque non ne ho mai fatto pompa Né propaganda. Le ho tenute per me. Fui sempre alieno dal proselitismo. Nella mia famiglia tutti sono cattolici osservanti e non vj furono mai fra noi né discussioni né diatribe SN questo riguardo. Due mie figlie furono educate in Germania in Istituto religioso dalle Suore Inglesi, perché così desiderò mia moglie. Non mi opposi affatto, ne compresi anzi la convenienza. Il grande rispetto che ho sempre sentito e dimostrato per le oneste opinioni attrai, onestamente professate, mi ha valso intime e care amicizie di Sacerdoti, e tali amicizie hanno resistito alla bufera assai meglio delle altre. Durante la guerra facilitai come meglio potei l’opera dei cappellani militari e la assecondai. L’Ordinario Militare, mons. Bartoiomasi, e tutti i cappellani, che furono con me, possono attestarlo, e lo stesso padre Semeria, se fosse ancor vivo, lo confermerebbe certamente. Le mie idee, Lo ripeto, le bo sempre tenute per me » *

Si trattava dell’espressione sincera di sentimenti profondamente radicati nell’animo del generale. Essa infatti ricalcava — quasi con identiche parole — quanto Luigi Capello aveva scritto da Formia il 19 aprile 1931 al passionista padre Bernardino, che gli aveva accompagnato una lettera nella quale una suora aveva confidato di pregare per la sorte (non solo terrena, evidentemente) dell’illustre prigioniero del regime. « È ben naturale che io sia profondamente grato a chi, pur nelle mie sventure, mi ri” corda, e procura di recarmi conforto » aveva risposto dopo lunga riflessione. « Lo stato del mio spirito *ton è dovuto a capriccio, e nemmeno a partito preso. Sono giunto a tale dopo lunghe meditazioni e severi studi. Ella dirà che sono caduto in errore, può darsi che ciò possa essere, ma io, in buona fede, non lo ritengo e se pare così fosse, non ne è tanto pervasa la mia mente da colmarne il mio pensiero e da investirne [pervaderne] tatto il mio essere. Ella mi conobbe in momenti tristissimi [per l’esattezza net periodo di detenzione a Soriano sul Cimino: n.d.a.] e poté forse leggere in fondo all’animo mio; ebbi la fortuna anche di affrontare con lei qualche spunto filosofico…! Se ne ricorda? Ella ha quindi potuto convincersi che io tengo per me le mie idee, molto chiare e decise, tanto che nella mia famiglia tutti sotto credenti praticanti ed osservanti.  Ed io, in omaggio al rispetto delta libertà di coscienza che riconosco come un diritto umano MO” ho mai biasimato né tanto meno ostacolato il loro modo di sentire e di agire a questo riguardo. I…] Queste mie dichiarazioni  — concludeva Capello, soprattuttopreoccupato che qualcuno lo credesse disposto a barattare la coscienza con un’attenuazione del rigido regime carcerario — hanno sollazzo lo scopo di dimostrarle: 1) Come, a malgrado delle mie ferme e precise convinzioni, non alberghi in me  spirito intransigente né tanto meno settario; 2) come io rispetti la Religione e ne riconosca la scrietà e l’importanza per il numero grandissimo di persone che ne seggono le dottrine e ne hanno la fede. Ora, ammesso questo stato d’animo, è mai possibile che io possa, senza offendere la religione che rispetto e gli stessi credenti tatti, piegarmi’ ad atti che sarebbero in contrasto col mio pensiero? Io so bene che se ciò facessi ne trarrei forse qualche vantaggio materiale, ma non è nel mio carattere (checché da qualcuno  si pensi o si dica) agire contro coscienza e tanto meno per secondi fitti

Da due anni Benedetto Croce, votando contro quei Patti Lateranensi che son rimasti a lungo in eredità alla Repubblica, aveva affermato in Senato che v ‘erano ancora Italiani pei quali « Parigi non valeva una messa». Tra questi — dobbiamo ricordarlo proprio perché quel filosofo non si mostrò affatto informato né rispettoso circa la storia e gl’ideali della Libera Muratoria — figuravano anzitutto proprio i massoni. Come Capello, il cui pensiero abbiamo ora sentito dalla sua stessa voce; come Giuseppe Meoni, Gran Maestro Aggiunto, condannato nell’anno della Conciliazione a cinque anni di confino per la sola imputazione d’esser « massone come il venerando Ettore Ferrari — lo scultore del Giordano Bruno di Campo de’ Fiori e del monumento a Giuseppe Mazzini, deliberato dalla

Camera nel 1890 su proposta dell’albese Michele Coppino, massone e già ministro della Istruzione Pubblica, ma realizzato sull’Aventino solo nel 1949 — confinato nell’abitazione romana più volte assalita e devastata dagli squadristi. Ma al di là dei nomi più sonanti furono migliaia i Fratelli — oggi per Io più dimenticati — a tener fede agli ideali che li avevano condotti in Loggia e che in Loggia avevano avuto modo di approfondire, perfezionare, sempre più levigando la pietra della propria educazione etica e intellettuale,

Riccardo Scoffone — che i presenti, i più anziani soprattutto, bene ricordano perché in Cuneo egli venne a praticare la sua arte di fotografo di gran classe — non arrivava infatti dall’esser Maestro Venerabile, nel 1924-1925, della Loggia torinese « Giovanni Bovio »? Quanto ai locali, bastino i nomi dei fratelli Fernando e Lamberto Milardi, di Adolfo Lattes e di Angelo Segre — l’avvocato che aveva spianato la via al successo elettorale di Marco Cassin e di Marcello Soleri nel 1912-13 —, succeduto al maestro Pietro Musso nella carica di Venerabile della « Vita Nova »: un cenacolo d’uomini, questo, al quale per continuare sua intrepida battaglia antifascista si rivolse il Presidente dell’Opera Nazionale Combattenti e creatore del nucleo cuneese di « Italia Libera » , l’avv. Felice Bertolino, già deputato del Partito popolate e che durante la troveremo a fianco di Duccio Galimberti e Arturo Felici nelle file di « Giustizia e Libertà e, nelle prime elezioni libere, della primavera 1946, venne eletto consigliere comunale nelle file del Partito d’azione accanto a uno scrittore a sua volta figlio di massone, Nuto Revelli, attratto nelle bande « G.L. » da un altro celebre cuneese di adozione, sua volta figlio di massone: Dante Livio Bianco, il cui padre fu attivo nel triangolo di Valdieri che, con quelli di Borgo S. Dalmazzn, Caraglio, Ceva, Saluzzo e Savigliano e la Loggia « Fiamma e Vita » di Mondovì (Venerabile il prof. Ercolano Pompei), completava il paesaggio massonico cuneese. Abbiamo voluto ricordare questi nomi non perché i comprovinciali li abbiano dimenticati o ignorino del tutto questo aspetto della loro biografia, bensì poiché essi, come le migliaia di altri più o meno celebri “fratelli”, pongono un interrogativo storico che ancora attende risposta esauriente: quale impulso li condusse a bussare alle porte dei Templi? quale alimento ne trassero? come lo spesero?

Le vicende personali del generale Luigi Capello ci sembrano molto illuminanti al riguardo. In massoneria egli entrò sulla scia del contributo recato dai Liberi Muratori al Risorgimento e all’unificazione nazionale e perché l’Ordine nei cui banchetti — o agapi fraterne — il primo brindisi vien levato al capo dello Stato, era e appunto intendeva essere il pilastro dello Stata nascente dalla fusione fra regni, ducati, granducati,

domini pontifici: uno Stato la cui « macchina » dai massoni era chiamata ad accelerare la formazione degl’italiani come uomini liberi e di buoni costumi, cioè cittadini responsabili, diversi per tradizioni, ideologia, confessione religiosa (anche l’Italia ha le sue minoranze c lo sa bene il Pie. monte, culla dei Valdesi! ) ma accomunati da un ideale supremo: la Patria.

La massoneria frequentata dal soldato Capello — diciamo “sol• dato” perché così egli amava autodefinirsi nei discorsi pubblici e nella corrispondenza privata — fu un’istituzione eminentemente patriottica, votata alla tutela dei supremi interessi nazionali: la pubblica istruzione (così da realizzare 1’« incivilimento » voluto dagl’illuministi — i piemontesi fratelli Vasco e Radicati di Passerano e i giacobini partenopei — che in Italia presero a far circolare idee, gusti, stili di respiro europeo) e la difesa nazionale anzitutto. Ma istruzione e difesa dopo lo Statuto significavano espansione e rafforzamento della libertà, non certo limitazione o repressione. L’istruzione — quella vera, che non si restringe alle nozioni impartite dalla cattedra ma diviene abito culturale, misura dell’uomo — era intesa come rapporto pedagogico tra le classi più fortunate e quelle più umili, unite in un unico disegno civile, così come sono accomunate nel lavoro, nella circolazione sociale, nelle speranze e nel destino storico. Le logge massoniche — non solo allora: ma certo con maggior evidenza proprio quelle tra Ottocento e Novecento — realizzarono perfettamente questa visione e questa pratica transclassista, accomunando celebri statisti, intellettuali di grido, professionisti famosi con esponenti della piccola borghesia e del proletariato, largamente presente al loro interno. Crediamo di poter dire che l’attenzione da Capello sempre riservata alla con. dizione degli uomini ai suoi ordini — dagli alti ufficiali al più oscuro fra i soldati — venne plasmata proprio nella frequentazione di Loggia. Le dichiarazioni raccolte dalla commissione senatoriale istituita con decreto 12-4-1922 per la revisione delle risultanze dell’inchiesta su Caporetto del 12-1-1918 insistono sulla straordinaria capacità di Capello di penetrare la psicologia degli uomini e di valorizzarne le qualità individuali, sforzandosi di conoscere le situazioni, anche domestiche, di ciascuno, nella consapevolezza della stretta connessione fra l’impegno ed il retroterra umano del soldato. « Di tutto si occupavatestimoniò il generale Egidi, già Capo di Stato Maggiore della II Armata e al quale si devono quei sunti delle conferenze tenute da Capello, che meriterebbero d’essere pubblicati integralmente del vitto, dei baraccamenti, dei divertimenti, delle case del soldato, dei castighi, dei premi Mei quali abbondava. Visitava frequentemente le truppe, sia in trincea sia in riposo; assisteva spessissimo alle esercitazioni; visitava frequentemente gli ospedali [ ] ». Al centro delle sue cure v’era dunque l’uomo nella sua globalità e complessità, non un mero numero, un supporto dell’arma. Di lì la speciale cura dedicata alla propaganda: non la gonfia retorica dei nazionalisti, ma la parola pacata di chi sapeva spiegare le ragioni vere e profonde della disciplina militare, giacché — strenuo « liberale-democratico » come i nostri Giovanni Amendola, Alberto Beneduce e lo stesso Giolitti — egli definiva la guerra una « calamità ancora possibile.. calamità  dunque, non eroica avventura quale l’avrebbero dipinta taluni letterati da retrovia; e calamità che però, una volta sopraggiunta, doveva essere fronteggiata con ogni  mezzo, giacché — sono sue parole — « la guerra si fa come si deve, non come si può » , sicché « la produzione nazionale deve svilupparsi in modo da concedere alla guerra tutta la pienezza delle sue esplicazioni », insomma con la massima tensione morale, Quale fascino egli abbia saputo esercitare sugli uomini ai suoi ordini venne attestato anche dal grande storico inglese che operò al seguito della Croce Rossa britannica (da Capello preferita all’italiana perché più efficiente, anche a costo di urtarsi con la duchessa d’Aosta), George Macaulay Trevelyan, massimo biografo di Garibaldi e memorialista della nostra guerra, il quale il 23 novembre 1951 da Cambridge dichiarava al dott, Giovanni Knapp (che aveva conosciuto at fronte) la sua soddisfazione nel vedere finalmente onorata la memoria del generale: Un vero gentiluomo e un bravo soldato » ,

E lo sa chi vi parla, avendo presenti i ricordi che di Capello serbarono gli uomini della Brigata Sassari, per sua volontà composta esclusivamente da sardi.

Altri ha già analizzato l’ampio e più complesso dramma della libera democrazia, entro il quale — per intenderlo senza preconcetti faziosi — va collocato il ruolo medianico assunto da Luigi Capello fin da quando comprese sino in fondo la necessità di rifondare la società su una riforma coraggiosa, anche a costo di chiudere i conti aperti fin dall’età dei Mazzini e Garibaldi alla cui scuola ideale s’era formato. Non staremo qui a ripetere quant’è ovvio e purtuttavia troppo spesso viene obliato, e cioè che se Capello operò nel movimento fascista come già ebbe a dire il socialista Zaniboni lo si dovette al fatto che a quel modo — con tanti altri patrioti d’indiscutibile fede liberale — credette di salvare la libertà minacciata ». D’altro canto — prosegue l’illustre esponente dell’antifascismo — « egli s’affrettò a gettare alle ortiche la camicia nera quando s’accorse della cattiva piega che prendevano le cose nel movimento diventato partito e tentò di opporsi, con ogni mezzo, alle nuove tendenze

Realtà oggettiva e ben chiara a protagonisti della crisi quali Angelo Tasca e a storici come Renzo De Felice, codesti eventi van richiamati per i meno giovani, formati su una manualistica scolastica partitante, parziale, faziosa. Parallelo a quello di Capello fu il cammino del vertice del Grande Oriente d’Italia, che in lui peraltro riconobbe costantemente un dignitario di prestigio e di sicuro giudizio.

Il Gran Maestro Domizio Torrigiani non tardò a render manifesto l’orientamento dell’Ordine non appena ebbe sentore che il corso della crisi conduceva a minacciare le libertà. All’Assemblea Generale straordinaria della Comunione il 28 gennaio 1923 ricordò: « Lavorammo come educatori e come uomini d’azione a persuadere te classi operaie della santità della Nazione, idea e cosa augusta, contro i falsi profeti. Difendemmo lo Stato contro tutti i suoi nemici… La Massoneria, fuori e sopra i partiti, aspira a trarre dall’opera di tutti una sintesi nazionale che non è impossibile intravvedere e favorire ove si segga la lotta civile con cuore puro e mente scevra di passione faziosa. [ x ] Non è più questione di partito; è invece una questione di patriottismo elementare

Il patriottismo, la difesa dello Stato al di sopra delle parti — non solo ideologiche ma anche economiche — costituiva del resto l’eredità più alta dell’età liberale La sua affermazione risaliva a Cavour e aveva conosciuto l’ultima netta rivendicazione con Giovanni Giolitti. Per tradurre quell’ideale in realtà concreta s’adoprò tutta la classe dirigente dei diversi settori del riformismo, in larga misura filtrata dalle logge massoniche: fra i tanti possibili bastino i nomi di Arturo Labriola, Ivanoe nomi e di Alberto Beneduce, già creatore dell’Ina, accanto a Francesco Fausto Nitti, e poi chiamato a dar vita all’Iri e a riformare in senso moderno la Banca d’Italia.

Che Luigi Capello anche nella fase più aspra della crisi italiana abbia continuato a operare in stretta intesa col Gran Maestro Tortigiani è fuor di dubbio. All’indomani della dichiarazione d’incompatibilità tra appartenenza alla Massoneria e iscrizione al Partito nazionale fascista, il generale — che al movimento fascista aveva aderito, com’è ora ampiamente documentato dalla relazione del prof. Mola, per farvi prevalere le correnti democratiche effettivamente presenti al suo interno — assunse pubblicamente la posizione che doveva risultare paradigmatica per tutti i “casi” aperti dalla dichiarazione del Gran Consiglio, e il 22 febbraio 1923 si dimise dal partito, con una lettera pubblicata con rilievo nella Rivista massonica » accanto a quelle del senese Cesare Ferretti, massone da 40 anni, di Gastone Cavalieri, membro del Governo dell’Ordine, e di Germano Torsello, il quale ultimo, sintetizzando temi e formule ricorrenti nelle dichiarazioni di altri fratelli dimissionari dal Partito fascista, ricordò che « la libertà è la più grande e più vera conquista individuale e collettiva e, più che consistere nell’abolizione di una qualsiasi oppressione materiate, costituisce il conseguimento di una interna conquista dello spirito La Massoneria era appunto la « grande Scuola di educazione spirituale, morale e intellettuale » conducente alla libertà, ora aggredita da chi « vuol penetrare nel Sacrario della coscienza, vuol  calpestare lo spirito alato di libertà che da innumerevoli secoli si conserva gelosamente nelle Logge Massoniche di tutto il mondo ».

È su questo terreno della lotta di principio e sui principi che va esaminato e inteso il conflitto radicale ed effettivamente incomponibile venutosi a determinare tra i massoni e il fascismo da quando questo, approfittando dei consensi. parlamentari recatigli da liberali,  partito popolare (cioè dai partiti cattolici »), cominciò a modificare regole del gioco e scenario della vita pubblica, puntando all’instaurazione del regime.

11 21 aprile 1925 — anniversario della fondazione di Roma, talora assunta dal Rito Scozzese quale termine a quo della nuova èra — Torrigiani indirizzò a tutte le logge d’Italia una circolare di larga risonanza pubblica nella quale ricordò: « Scuola di carattere, la Massoneria si onora di avere nelle sue file magistrati che nulla vale a piegare nell’adempimento del loro dovere austero e pericoloso, militari che sono modelli di valore e di lealtà (i re d’Italia non ebbero mai a dolersi della Massoneria nell’Esercito o nell’Armata) e funzionari di tutte le amministrazioni pubbliche i quali sanno vigilare fieramente contro tutti l’uso del pubblico danaro Il disegno governativo di escludere i massoni dai pubblici impieghi si sarebbe quindi tradotto nell’impoverimento dello Stato, depauperato della parte migliore della sua dirigenza e dei suoi funzionari e impiegati e avrebbe una volta di più reso attuale il monito di Efraim Lcssing, il grande filosofo della Massoneria settecentesca: « Il più certo segno della stabilità e del vigore di un Governo fu sempre la libertà che lasciò alla Massoneria di vivere accanto a sé ed anche oggi è prova infallibile della debolezza e della scarsa fiducia in sé di uno Stato non sopportare francamente la Massoneria

Ispirato a questi principi quando, in applicazione della legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati alle associazioni, molti militari (fra i quali Dino Parri, Giuseppe Pavone, Giovanni Ugli, aiutante di campo della Brigata Cuneo, il comandante di corpo d’armata Ugo Sani, il comandante della Divisione territoriale di Roma, Lorenzo Barco e tanti altri) palesarono la propria appartenenza all’Ordine, se già non si fosse trovato in stato d’arresto sotto la falsa accusa di complicità nell’attentato Zaniboni alla vita di Mussolini, Capello non avrebbe certo mancato di ribadire la sua antica e leale militanza massonica. Dei principi appresi e coltivati in loggia egli fece però tesoro nella lunga segregazione e nella severa detenzione seguita alla condanna che, quasi settantenne, lo colpì, il 22 aprile 1927.

Circondato dall’affetto dei famigliari e dall’indefettibile stima degli amici — e soprattutto da quelli di Cuneo, la cui tenacia egli stimò sempre al sommo grado — in quegli anni Capello affidò i suoi pensieri e i suoi sentimenti a lettere che sapeva scrutate con occhio severo dalla censura carceraria e quindi sobrie e, se possibile, anche più schiette e veridiche. Sicché esse oggi sono il documento fondamentale per riesaminarne la biografia con serenità di giudizio, cogliendo, al di là dello stratega e del ‘ ‘politico”, ciò che a Capello più premeva dei suoi simili: l’uomo. E l’uomo Capello ci appare dall’epistolario, ora prossimo alla edizione critica, nutrito di un francescanesimo e di una non comune sensibilità verso i suoi simili e soprattutto per gl’infelici, i bisognosi, i deboli. Ne sono prova le osservazioni sulla condizione carceraria: «Il maggior tormento per chi abbia un poco di intelligenza, qualche corredo di studi, anche se modesti, non abbia perduto il senso morale e conservi il sentimento della propria dignità — egli scrisse — è quello di essere sottoposto a persone troppo spesso sprovviste totalmente delle suaccennate qualità… Questa misera gente non sa concepire che i poveri disgraziati che la legge umana, a torto o a  ragiono loro affida, possono avere un animo non soltanto non pervertito, ma forse anche nobilissimo ed invitto; una coscienza che conservi, nonostante gli errori, un alto senso di dignità… ». Sentimenti che vogliamo credere il piemontese Luigi Capello apprese a coltivare essendo cresciuto — dentro e fuori la Massoneria — nell’età lungo la quale le logge subalpine posero mano a tin imponente programma di iniziative d’assistenza sociale, a cominciare da quegli Asili notturni il cui primo centenario abbiamo recentemente celebrato in Torino. e con la promozione del mutualismo fiorente anche nella Cuneo del notaio Berrini, che precedette nella guida della locale Cassa di Risparmio un altro fedele parente e amico di Capello, Bongiovanni, mai iscritto al Partito fascista e molto vicino a quella Vita Nova » di cui già abbiamo discorso. Quel forte Piemonte del resto costituì sempre il termine di riferimento di Capello, e soprattutto da quando egli cominciò ad abituarsi, « colla massima serenità di spirito al « pensiero dell’ineluttabile » e ad esortare la moglie, Lydia Bongiovanni, a familiarizzarsi con esso. Pro, rio allora il massone, che taluno anche recentemente ha ancora dipinto coine “ateo”, dalla cella di Soriano sul Cimino il 30 ottobre 1928, vigilia dei “morti”, evocando un bozzetto che sarebbe piaciuto al vostro scrittore Edoardo Calandra, dichiarava la sua nostalgia « del tradizionale rosario familiare del nostro vecchio Piemonte cow relative… “balote” innaffiate da un buon bicchiere di barolo od anche semplicemente di barbera ».

Anche questo è il Luigi Capello che la storiografia deve saper ricoprire al di là delle dispute talvolta sterili e gonfie di preconcetti sui meriti e le responsabilità di questo o quel fatto d’armi, di questo o quell’episodio della nostra storia politica, per intendere quali siano stati i metri, gli ideali, i valori cui s’ispirò un’intera classe dirigente del nostro Paese e per cogliere quali nessi sian corsi tra la sua formazione e il grande patrimonio dei principi tenuti in serbo e proposti all’interno delle logge e, loro tramite, nella società italiana, così da comprendere — diremmo con Hegel e con Croce — ciò ch’è vivo e ciò ch’è morto della Massoneria quale essa venne intesa e vissuta dalle generazioni precedenti il fascismo. Anche perché a noi la Libera Muratoria è giunta attraverso la mediazione tra quella e la stagione del forzato esilio di molti fratelli costretti a rifugiarsi all’estero e che colà si batterono per tener desti i principi di libertà per i quali — dichiararono concordemente Torrigiani e Capello nell’ora più difficile — i massoni sapevano e sanno che si può vivere ma, in determinate circostanze, si deve anche sacrificare la vita, come avevano saputo fare i fratelli immolatisi nella repubblica napoletana del 1799, per l’unificazione nazionale e, in tempi più recenti, trucidati alle Fosse Ardeatine  o caduti nella guerra di Liberazione. Dallo stesso tronco trasse ali. mento anche il generale Luigi Capello.

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