IL MISTERO DELLE AFFINITÀ

IL MISTERO DELLE AFFINITÀ

Amedeo De Giovanni

Questo lavoro dell’amatissimo e carissimo Fratello Amedeo De Giovanni, passato all’Oriente Eterno nell’anno di Vera Luce fu pubblicato sul numero 4 di Luz, editrice Har Tzion Latina.

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La lettura del libro di Martin BUBER, “Gog e Magog”, nella sua  recente edizione italiana (Neri Pozza, Vicenza 1999), al di là dell’indubbio fascino per la rappresentazione di un mondo ebraico isolato, come quello stanziatosi in Polonia, ma anche per questo più legato alla tradizione antica di quel popolo, tra i più religiosi del mondo, ed alla sua aspettativa messianica, mi ha riproposto un problema sempre presente degli studi tradizionali: la ricorrenza della fioritura, nel tempo, di consorterie e di comunità mistiche presso popoli del tutto diversi e lontani, nonché le sorprendenti affinità che si riscontrano in esse, non solo negli obiettivi, per così dire, ma anche nelle personalità che esprimono e nel  parallelismo di certe vite,  che fa pensare talvolta a medesime sorgenti misteriose e quasi soprannaturali, che in qualche momento vengono in evidenza, nello scorrere della vita dei popoli.

E’ il mistero delle affinità, che affascina il nostro pensiero, che si esprime soprattutto nella constatazione della somiglianza di certe vicende, che, nel loro svolgimento seguono anche un percorso quasi predeterminato e fatale.

Il tema del libro di BUBER riguarda la storia di un rapporto spirituale e di vita tra maestro e discepolo di una comunità chassidica della fine del Settecento in Polonia a Lublino.

Il maestro è Jaqov Iizchaq, detto il Veggente, di Lublino, ed il discepolo stranamente ha lo stesso nome del maestro, Jaqov Jizchaq, detto l’Ebreo, di Pzsha.

Il maestro vive la sua religione, nel rispetto assoluto delle forme e del comportamento, mistico e teurgico, dell’interpretazione e dell’ispirazione chassidista, con la bontà, ma anche con la rigidezza che essa richiede per il conseguimento del fine: la preparazione all’avvento messianico, per la riconduzione della comunità israelitica alla consacrazione elettiva originaria, attraverso il ricongiungimento con la Shekinàh, e della Shekinàh con Dio, da cui dipende tutta la storia umana. Per questo, non disdegnerà l’attenzione verso la Qabalah pratica, dai confini confusi tra teurgia e magia, nella fiducia di poter chiudere il ciclo storico della dispersione e di realizzare la grande opera universale del riscatto.

La sua visione dello Tzadiq è quella del misterioso tramite tra Dio e l’uomo, giusto ma anche spietato nella sua giustizia, in cui si fondono le funzioni di profeta e di giudice, che attraverso certe personalità Dio ha suscitato per il popolo eletto, in certi momenti della sua storia e per mezzo dei quali ha mantenuto il contatto con esso.

Nel suo discepolo invece, l’attenzione è rivolta verso la purezza interiore: egli sente profondamente in sé stesso la pietà per il distacco di cui soffre la Shekinàh, a causa soprattutto dei nostri peccati e delle nostre presunzioni, ed avverte la necessità della santità e dell’umiltà senza aggettivi (egli sarà chiamato il santo Ebreo), un raggiungimento personale, che diventa realizzazione di un misticismo assoluto, dove il ritorno non è negli accadimenti del mondo, e il cui risvolto pratico, per così dire, è involontario: è solo nell’esempio di espressione e di vita che può offrire.

Questa diversa visione del rapporto e del contatto possibile tra umano e divino appare sullo sfondo escatologico della convulsione finale del Settecento e delle guerre napoleoniche che coinvolgeranno presto la Polonia e tutta l’Europa, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, viste dal maestro e da altri chassidisti appunto come le lotte di Gog e Magog della visione apocalittica di Ezechiele, annunciatrici dell’avvento messianico e quindi da indirizzare teurgicamente in tal senso, fino a determinare, richiedere quasi, da parte del maestro, il sacrificio mistico del discepolo più amato, del santo, che per questo “si comanda” di morire.

Ma ovviamente il mondo va avanti e l’inconoscibile resta tale: anche il maestro morirà, chiedendosi dove ha sbagliato.

Il tema del contrasto resta quindi quello tra mezzo materiale e mezzo spirituale di riscatto, se veramente l’intervento umano possa indirizzare le forze misteriose e sconosciute dello spirito verso la realizzazione del disegno divino di questo mondo, se questo anzi sia il vero dovere e la vera qualificazione o essenza dell’uomo e se non vi sia qualcuno tra noi, tra gli uomini, che sappia di essere designato a tutto questo.

Sono queste le domande che mi sembrano ricorrenti, o cui si pensa di aver dato risposta, in tutte le diverse insorgenze di gruppi, comunità o istituzioni, molto vicine del resto all’esoterismo nella pratica e che comunque si esprimono in un comandamento di ritorno alla purezza primitiva attraverso la purificazione di se stessi.

Questa stessa esigenza di purità, di ritorno allo spirito, diede origine al movimento chassidista in Polonia, verso la metà del ‘700, attorno alla figura del Baal-shem Tov, il “signore dal buon nome”, come era chiamato Yisrael ben Eliezer, dopo l’immersione nella materialità operata, sempre a buon fine, dal sabbatianesimo, ed è ricorrente nella storia ebraica, ma – si può dire – in tutta la storia dell’Occidente mediterraneo, dove ha radici molto antiche: basti pensare alla comunità degli Esseni, tra il II secolo a.C. e l’inizio dell’Era Volgare, alle successive comunità politico-religiose giudeo-cristiane, allo sviluppo di comunità gnostiche, tra cui i Pauliciani e i Bogomili, variamente esclusi e perseguitati, per finire ai Catari – anch’essi pii o puri nella denominazione, come i Chassidim – e agli Albigesi, contro cui si sviluppò la famosa Crociata nel XIII secolo.

Storicamente, la vera e propria diaspora del mondo ebraico è iniziata dopo il 130 della nuova Era [1], e da quel momento possono essere sicuramente cominciati quei reciproci apporti tra filoni tradizionali, di cui parlavamo a proposito delle “affinità”, che hanno costituito gradualmente una possibile confluenza o un intreccio dei fili stessi, in cui si è rafforzato e specificato quel gene comune di pensiero recondito e riservato, concesso solo ad iniziati, che è forse all’origine di quel  mistero delle affinità stesse, che si riscontrano poi senza apparenti contatti, a distanza di tempo o contemporanee, tra uomini e comunità lontane e diverse.

Gli “Ashkenaziti” – come vengono chiamati gli Ebrei dispersi nelle regioni continentali europee più interne e principalmente in Germania e Polonia – rimasero più chiusi agli apporti culturali estranei alla loro origine, forse anche per il corrispondente isolamento delle stesse nazioni in cui si erano venuti a stanziare, rimaste anch’esse al di fuori del fluire e dell’arricchirsi delle esperienze e delle tradizioni dei popoli dell’area mediterranea, la cui storia politica, spirituale e religiosa spesso si intreccia e si condiziona reciprocamente. [Segue]

[1] Sotto l’Imperatore Adriano, a seguito della ricostruzione di Gerusalemme – già distrutta da Tito nel 70 – con il nuovo nome di Aelia Capitolina e dell’erezione di un Tempio a Giove al posto dell’antico Tempio di Salomone, vi fu l’ultima rivolta ebraica, guidata da Bar Kokhba e repressa sanguinosamente nel 132. La città venne di nuovo distrutta e ricostruita dai Romani, divenendo colonia romana, ma priva di ius italicum. Agli Ebrei fu ingiunto di non risiedervi, dando così inizio all’ultima e più rilevante dispersione delle superstiti famiglie ebraiche palestinesi. Gruppi ebraici tuttavia, a seguito delle precedenti vicende storiche, si erano già allontanati dalla Palestina, insediandosi in diverse località del Medio Oriente, in Egitto, in Grecia e a Roma. [Torna al testo]

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