SIMBOLISMI E SIGNIFICAFICAZIONI MASSONICHE NELLA TURANDOT DI GIACOMO PUCCINI
di Livio De Luca
Non è facile compendiare in poche pagine una ricerca la cui maggiore difficoltà è consistita nel proporre delle risultanze che possano risultare significative sia per eventuali lettori profani che Massoni: per i primi risulterà interessante comprendere come il nostro patrimonio artistico e culturale sia costellato di riferimenti simbolici e concettuali ascrivibili al patrimonio valoriale della Libera Muratoria.
Per i Fratelli il lavoro potrà costituire motivo di esortazione a non adagiarsi nell’esaltazione di un obsoleto repertorio di testimonianze massoniche, sforzandosi invece di individuare di quei segni iniziatici che adornano la nostra esistenza e che troppo spesso vengono sottovalutati o misconosciuti: è nostro fermo convincimento che se si intende operare per il Bene ed il Progresso dell’Umanità sia necessario recuperare la capacità di “meravigliarsi”, ovvero di osservare sotto una diversa ottica le tante componenti che costituiscono il nostro sistema ideale e relazionale, una rinnovata capacità interpretativa quale primaria conseguenza della rinascita iniziatica.
È proprio da una simile circostanza che trae origine questo studio, una sorta di serendipità che ci ha indotto a riconsiderare secondo una rinnovata prospettiva alcune informazioni rinvenute nel corso di uno studio che tanti anni fa abbiamo condotto circa alcuni aspetti del rapporto tra Fascismo e Musica, allorché ci imbattemmo in una pubblicazione in cui era contenuta un’ampia descrizione delle circostanze riguardanti la morte di Giacomo Puccini e le onoranze che gli furono tributate: nel leggere il paragrafo “L’omaggio alla salma” ci destò meraviglia notare che l’immensa corona con la scritta «La tua Elvira» è di crisantemi e mimose. Se ha suscitato il nostro stupore la presenza di questo fiore, raramente se non straordinariamente incluso nelle composizioni floreali funebri, maggiore interesse ci ha destato il successivo passo «La bara di Giacomo Puccini è posta, quindi, sul catafalco. Ora Antonio [il figlio) con impeto d’amore, ritorna ad aggiustare la cravatta che si era un poco scomposta e depone nelle mani un ramoscello di mimose preso dalla corona inviata dalla mamma. Sono gli unici fiori che Giacomo Puccini porterà con sé sotto terra».
Indipendentemente dalle contingenze geografiche e meteorologiche che invalidano l’ipotesi di un inserimento casuale di tale fiore nell’omaggio che gli affetti più cari gli tributarono, in questo gesto non siamo riusciti a rintracciare alcun simbolismo ulteriore se non quello ben noto ai Fratelli, del “Funerale Massonico”, tributato ai Liberi Muratori passati all’Oriente Eterno. Ovviamente non abbiamo la presunzione di fornire risposte certe ed inequivocabili, potendo soltanto proporre degli spunti di riflessione; non sarebbe, d’altronde, possibile altrimenti se si considera la natura dell’argomento trattato, quell’ambito esoterico la cui ineffabilità comporta appunto un percorso costituito da successive verità, anche contraddittorie, delle quali nessuna può essere considerata conclusiva.
Per correttezza metodologica ricorderemo che la Massoneria è un Ordine iniziatico di carattere tradizionale e simbolico e che questi due aggettivi stanno ad indicare prerogative imprescindibili per assumere lo status di Massone, ovvero che si sia stati sottoposti ad una regolare iniziazione officiata da persone e secondo modalità tramandate nel corso di una ininterrotta tradizione: precisiamo tali concetti per chiarire che non attribuiremo la qualifica di Massone a seguito di un’adesione a principi ed ideali muratori o per l’appartenenza a generiche correnti iniziatiche o esoteriche mentre, nell’impossibilità di effettuare ricerche approfondite, ci limiteremo ad accettare tale qualifica se ci sono più fonti concordanti che lo attestano o studi che lo abbiano verificato anche senza riportare i riferimenti documentali.
Dichiariamo che allo stato non si è in possesso di alcuna testimonianza da cui si possa desumere che Giacomo Puccini sia stato iniziato a quest’Ordine tradizionale: lo stesso Grande Oriente d’Italia, che pure non esita ad inserire il compositore nell’elenco dei “Massoni Illustri”, da noi interpellato ha dovuto ammettere che nell’Archivio Storico non è presente documentazione a riguardo, mentre non ci è stato possibile rivolgere la medesima richiesta ad altre Comunioni massoniche, Per converso non si può sottovalutare che sono innumerevoli le fonti, italiane e straniere, che asseriscono fermamente l’adesione del compositore toscano alla Libera Muratoria: la nostra proposta è inoltre confortata da un’evidenza inoppugnabile, ovvero che la prima rappresentazione di “Turandot”, il 25 aprile 1926 al Teatro alfa Scala di Milano, fu realizzata con musiche di Giacomo Puccini – indicato come Massone, essendo completata da Franco Alfano – Massone•, diretta da Arturo Toscanini – indicato come Massone- e sotto la regia di Giovacchino Forzano – Massone-, mentre ci sentiamo confortati dalla necessità di individuare giustificazioni a particolari che ci appaiono incongruenti e che di seguito proporremo congiuntamente ad una rinnovata prospettiva interpretativa. A tale proposito, è necessaria un’ineludibile considerazione per giudicare le modalità metodologiche e le finalità del presente studio: non si può non tener conto della sua valenza “pionieristica” in quanto sono pressoché, se non totalmente, assenti altre indagini orientate in questa prospettiva, il che determina l’impossibilità di ricorrere a confronti con altre fonti o con riferimenti documentali o interpretativi precedenti.
Si renderà necessario condurre l’indagine su due filoni paralleli ma distinti: il primo, proponendo una serie di testimonianze che possano contribuire a far luce su aspetti della personalità e delle modalità relazionali di Puccini, l’altro teso a rintracciare se nelle sue manifestazioni espressive sussistano elementi simbolici o significazionali che possano rappresentare espliciti richiami al patrimonio valoriale e rituale della Libera Muratoria.
L’epistolario pucciniano sin qui pubblicato comprende soltanto la corrispondenza inviata dal compositore fino a tutto il 1904 ed in esso sono rari i riferimenti riconducibili alla Libera Muratoria: tra questi, tuttavia, ci limiteremo ad indicare quello contenuto nella lettera del 26 maggio 1893 al cognato Raffaello Franceschini, quando utilizza una formula alquanto particolare «…cercare di conservare quell’armonia che è la reggitrice dell’universo mondo civile e fraterno».
Nella lettera del 1 4 giugno 1898 ad Alexandre Luigini – che il successivo 1 9 giugno dirigerà la prima rappresentazione di Bohème a Parigi- scrive «Mon cher e valereux maestro, il faut queje remercie du profond de mon coeur, pour le soin fraternel…» [fraterne cure]. Desta poi interesse l’incipit della lettera indirizzata a Jules Massenet «Caro ed Illustre Maestro, Mille grazie del vostro Mattiniero biglietto- L’ho gradito moltissimo perché mi arriva da un insigne confratello…»: significativo che anche Massenet rivolgendosi a Puccini in un biglietto da visita non datato esordisca con «Mon Illustre e cher confrere…». Potrà inoltre stupire la particolare imprecazione contenuta nella lettera inviata alla sorella Ramelde il 21 settembre 1898, «Accidenti a Guido Monaco col suo Ut Resonare…nel culo a Lui e al suo predecessore magnano vile Tubalcain».
Se per ragioni di spazio non ci dilunghiamo su altri particolari del carteggio pucciniano, per gli stessi motivi non riporteremo la carrellata di personaggi che costituiva l’entourage del musicista limitandoci a segnalare che moltissime delle sue frequentazioni erano rappresentate da Liberi Muratori: senza entrare nello specifico della loro appartenenza, fra questi ci limiteremo a ricordare Arrigo Boito, Mattia Calandrelli, Gabriele D’Annunzio, Luigi Illica, Giuseppe Martucci, Leopoldo Mugnone, Giovanni Pascoli, Giulio Ricordi, Edoardo Sonzogno, Arturo Toscanini.
Possiamo, quindi, disporci ad individuare elementi cui possa essere attribuita una significazione muratoria, ma per effettuare tale indagine diventa essenziale comprendere di quale natura siano le componenti che possano indurre a tale considerazione: sono numerosissime le testimonianze massoniche presenti nel patrimonio artistico afferente al nostro sistema culturale, risultando immediatamente evidenti quelle che dichiaratamente trattano una tematica moratoria, come le poesie “La Loggia Madre” di Kipling o “La livella” del Fratello de Curtis, ma anche quelle che si riferiscono alla nostra Istituzione pur senza indicarla chiaramente, come nel caso della commedia “Le donne curiose” di Goldoni. Altrettanto agevole risulta individuarle nel contesto delle arti visuali o in ambito cinematografico o addirittura fumettistico ma non è a questa tipologia di esempi cui ci vogliamo riferire; per comprendere l’indagine da noi compiuta intendiamo ricordare la “meraviglia” da noi precedentemente invocata che ci induce a riconoscere significazione simbolica ad elementi che a prima vista apparirebbero privi di ogni valenza esoterica. Presentiamo un’esemplificazione, pur consapevoli che la nostra proposta possa risultare non condivisa, ricordando che il Simbolo, per sua stessa natura, non trasla una significazione univoca ma una pluralità di valenze che inducono a differenti interpretazioni: ci stiamo riferendo ad alcune statue presenti nel Palazzo Reale di Napoli tra le quali, ospitata nella sua facciata, quella di Gioacchino Murat, Re di Napoli dal 1808 al 181 5 e fondatore nel 1809 del Supremo Consiglio di Napoli del Rito Scozzese Antico ed Accettato, ‘a cui posa è dai più interpretata come l’atteggiamento confacente alla sua volontà di essere fucilato al cuore, non potendo però sfuggire che la sua postura è la medesima che viene assunta dai Fratelli nel corso della ritualità di Apprendista Libero Muratore. Soprattutto, però, vogliamo proporre una riflessione su una circostanza che ha sempre colpito la nostra attenzione ma che non abbiamo visto sottolineata da altre fonti: la presenza ai Iati dello scalone monumentale di tre statue identificabili come Ercole, Venere e Minerva e non può sfuggire che proprio sotto l’egida di queste tre figure emblematiche si svolgono i Lavori rituali nei diversi gradi.
Riferendoci, invece, al rapporto tra simbologia massonica e linguaggio musicale dobbiamo dolorosamente constatare che nella storia dell’arte occidentale non è mai stata codificata una simbologia massonica realizzata per mezzo di componenti musicali: una trattazione compiuta della problematica risulterebbe troppo lunga ed esulerebbe dagli intendimenti del presente scritto per cui ci limiteremo ad affermare che proprio i musicisti massoni non hanno mai redatto un lessico condiviso di strutture nutazionali in grado di rappresentare i simboli della ritualità moratoria, potendo così identificare tante musiche massoniche ma senza mai poter individuare una “Musica massonica” nel senso di un linguaggio riconosciuto e condiviso che ponga in relazione strutturazioni musicali e simbolismo.
Probabilmente una spiegazione di tale carenza può essere individuata nelle modalità che fin dalla nascita dell’istituzione massonica hanno conformato il rapporto tra questa e la musica, in quanto già dalle “Constitution of the Freemasons” redatte dal reverendo Anderson nel 1723, non viene fatta menzione della musica quale componente della ritualità: l’autore si limitò ad accludere 4 songs da intonarsi durante il banchetto che faceva seguito alla Tornata rituale, favorendo una considerazione dell’elemento musicale quale modalità per accomunare i Fratelli nel proclamare i medesimi ideali oppure a fini emotivi ed evocativi. Appare dunque evidente che la qualificazione massonica può essere attribuita in relazione alla componente testuale o, in subordine, alla destinazione d’uso, non giudicando sufficienti quei pochi elementi vagamente interpretabili come “muratori” quali fa triplice ripetizione di una clausola musicale, presente in innumerevoli composizioni, o l’armatura di chiave formata da tre bemolli, per Io più giustificata dall’utilizzo di tonalità agevoli per gli strumenti a fiato oppure particolari secondari suscettibili di qualsiasi giudizio, come <le note legate a due a due, simbolica allusione al legame di amicizia che stringe j fratelli>.
Volendo approssimarci all’argomento principale di questo studio, premetteremo l’osservazione dei riferimenti muratori e di tutti quei particolari che hanno comunque richiamato la nostra attenzione nelle precedenti opere di Giacomo Puccini, presentandone, per ragioni comprensibili, un’esigua selezione. Appare indubbio che nell”‘Edgar” non mancano elementi suscettibili di traslare un significato simbolico con chiara correlazione con la ritualità muratoria: tra essi indichiamo la bara vuota, la “resurrezione” di Edgar, il raggio di sole foriero dell’apparizione del protagonista e le sue parole «Per conoscer la vita/io simulai la morte», esplicitamente riconducibili alla cerimonia massonica di elevazione al III grado.
Riguardo a “Madama Butterfly”, non
sottolineeremo quelle numerose componenti testuali, parole o frasi, ripetute
tre volte, tra le quali la triplice invocazione «Butterfly!» proferita da
Pinkerton a chiusura dell’intera opera, o al «Tu?» ripetuto 7 volte dalla
protagonista nella sua ultima aria ma non possiamo trascurare
che espressamente indicati in partitura, nel I atto sono presenti 3 triplici battute di mani (due volte Goro e una volta Pinkerton), mentre nella II sequenza di tintinnii di campanelli “per attirare l’attenzione degli Dei” è composta da 5 (3+2) rintocchi, e nel III la bussata alla porta d’ingresso è indicata in 7 (3+4) colpi: tali numeri corrispondono a quelli simbolici che connotano rispettivamente le Camere di Apprendista, di Compagno e di Maestro nel lavoro muratorio. Ne “La Fanciulla del West” è da notarsi innanzitutto la geometria della “Polka”, lo stanzone nel quale si svolge l’azione iniziale, esplicitamente indicata nella prima didascalia «a forma di triangolo; indubbiamente sono poi correlabili col rituale di iniziazione massonica i preparativi per l’impiccagione del protagonista, il cavaliere che tiene stretto, innanzi a sé, sulla sella Johnson’ non può non ricordare la figura del Fratello Esperto che conduce il recipiendario nel corso della cerimonia, i minatori espressamente indicati in numero di 3 incontrovertibilmente rappresentano le Tre Luci della Loggia che officiano il rito, mentre il “laccio al collo” e la “camicia strappata su una spalla” descrivono precisamente l’aspetto dell’iniziando; non si può inoltre sottovalutare la valenza simbolica dell’atto, cui viene esplicitamente attribuito un significato di “rinascita” dalle parole di Minnie che esclama «Il bandito che fu è morto laggiù».
Giudichiamo, però che sia giunto il momento di rivolgere la nostra attenzione all’ultimo capolavoro del Maestro toscano indicando un particolare ignoto ai più, ovvero che in persiano Türândokht vuol dire “fanciulla del Turan”, antica denominazione iranica dell tAsia Centrale, e tale nome è attribuibile ad un personaggio presente nel poema “Haft Peykar” composto da uno dei maggiori poeti persiani, Ilyas ibn Yusuf Nizami (1 141-1209): risultando impossibile la disamina dei numerosi lavori dedicati a quest’argomento, non potremo sottacere la versione teatrale realizzata dai Fratelli Schiller e Goethe, da cui trae spunto il capolavoro pucciniano, né la prima trasposizione italiana per il teatro musicale della fiaba di Gozzi, ossia “Turanda”, musicata da quell’Antonio Bazzini che fu maestro di Giacomo Puccini, assolutamente pervasa di religiosità zoroastriana, in cui frequenti sono i riferimenti al “Sole” ed alla Luce.
Dal punto di vista strutturale è incontrovertibile che la trama della Turandot si strutturi partendo da un’azione funebre, ed si sviluppi attraverso una duplice serie di tre prove e due momenti sacrificali, fino una risoluzione “magica” che implica una “trasfigurazione” della protagonista («Il contatto incredibile l’ha trasfigurata>), concludendosi con l’esaltazione dell”‘Amore” e della “Luce” che hanno operato tale rinascita. Merita invece di essere chiarita la questione del “finale incompiuto”, da alcuni studiosi non esclusivamente implicato dalla morte del compositore mentre da altri posto in correlazione con l’incompiutezza del Tempio: giudichiamo tale tesi ampiamente smentita dal contenuto del carteggio tra Puccini ed i suoi librettisti ma anche dalla testimonianza di Guido Marotti, frequentatore ed amico del compositore, che dichiara «Pensi che gli ho visto scrivere Turandot e Turandot l’ha virtualmente finita. Se ci fossero stati i registratori si poteva incidere quello che mi ha suonato più di una volta, cioè il duetto finale e ricordo che non era per niente affatto simile a quello che poi ha scritto Alfano […l Naturalmente non era sempre uguale, ma su quegli appunti, suonando e cantando, dimostrava chiaramente che già aveva completato la Turandot».
Incamminandoci invece alla ricerca di elementi che possano supportare una valenza simbolica all’interno della componente letteraria della “Turandot”, riferiremo di particolari minimi, secondari, apparentemente insignificanti, confermando la tesi per cui il simbolismo risulta antitetico alla spettacolarità, ma che proprio per questo giustificheranno la loro presenza, in quanto avulsi dal contesto o dall’economia musicale e drammatica. Proponiamo quindi dei rimandi numerali, notando che sono ben 35 le triplici sequenze terminologiche ovvero le ripetizioni di vocaboli o di espressioni complesse, che si susseguono senza interpolazione di altri elementi, e se alcune di esse possono essere state imposte da esigenze di simmetria, ad altre non sembra attribuibile alcuna motivazione razionale o razionalizzabile; non possiamo, poi, non porre in risalto i 3 colpi di gong con cui il Principe ignoto chiede di essere sottoposto alla prova sottolineando che essi sono preceduti da una triplice invocazione a Turandot.
Quanto invece cattura la nostra attenzione è costituito da dettagli descritti con precisione nelle didascalie ma che non ricorrono successivamente nella scenografia o nell’azione drammatica: ci riferiamo a particolari che a molti potranno apparire insignificanti o marginali ma che a noi richiamano corrispondenze caricate di un pregnante valore iniziatico. Sia nel I che nel II atto la didascalia iniziale descrive la presenza di 3 porte <A sinistra e sul fondo si aprono tre gigantesche porte> (I), «[a scena…ha tre aperture: una centrale e due laterali> (II); sebbene possa essere giudicata una forzatura, l’assenza di ulteriori riferimenti funzionali rimanda la nostra memoria alle “Tre porte» incluse da Hiram Abif nel progetto del Tempio di Salomone. Parimenti altre due didascalie, poste l’una all’inizio del Quadro secondo del II atto e l’altra all’inizio del Quadro primo dell’atto III, prevedono fa prima <La scala è a tre larghi ripiani> e la seconda <A destra sorge un padiglione di cinque gradini>: oltre a notare la ricorsività dei numeri 3 e 5, che rappresentano rispettivamente il “maschile” ed il “femminile”, non possiamo dimenticare un passo del Rituale che riporta «L’ho visto salire una scala divisa in due rampe, l’una di tre scalini, l’altra di cinque>.
Mentre trascureremo l’aggettivo “venerabile” che compare nella descrizione di Altoum all’inizio del Quadro secondo del II atto, non sottovaluteremo l’invocazione intonata da Ping nel Quadro primo del medesimo atto «O grande Marescialla de/ Cielo» espressione che può agevolmente essere considerata un calco di “Grande Reggitore (Architetto) dell’Universo”, il che avvalorerebbe l’idea che la Principessa rappresenti un personaggio emblematico e non soltanto drammatico. Riguardo alle prove cui viene sottoposto il Principe ignoto, la libertà esegetica ci consente di riconoscere nelle prime 3 risposte – “La Speranza”, “II Sangue”, “Turandot”• una correlazione con l’elemento aeriforme, quello liquido e quello igneo: è poi da sottolinearsi che una seconda serie di prove – quella cui viene sottoposto dai tre dignitari che gli prospettano “il Piacere”, “la Ricchezza” e “la Morte”• è presente soltanto in questa trama mentre manca nelle altre versioni letterarie o teatrali della vicenda. È poi innegabile che il percorso iniziatico si sviluppi attraverso il sacrificio di due personaggi, il Principe di Persia e Liù, ed è proprio attorno a questa circostanza che si incentra la nostra attenzione: appare incredibile che in un melodramma il cui libretto si conclude con la parola «Amor» vengano messi a morte due innocenti, rei soltanto di aver amato.
Se c’è un personaggio che in quest’opera incarna l “‘Amore”, quell’Amore costantemente ricercato dall’uomo Giacomo Puccini che ha sempre mirato a celebrarlo ed esaltarlo nella sua produzione artistica, quello è senza dubbio Liù, la donna che sceglie volontariamente il sacrificio per donare felicità all’uomo che ama. Oseremmo definire “raccapricciante” l’assoluta mancanza di pietà che suscita la morte della fanciulla: “La Folla”, che pure si era commossa alla vista del Principe di Persia, appare solo preoccupata per le ripercussioni che potranno essere causate dalla morte di un’innocente, mentre addirittura “disumano” può essere considerato l’atteggiamento del Principe ignoto che si limita a rivolgerle poche parole «Ah! tu sei morta, tu sei morta o mia piccola Liù!» senza mostrare alcun segno di coinvolgimento o di pietà; l’unico che sembra mostrare dolore per la triste sorte della ragazza è Timur, il quale, nell’accompagnare la fanciulla in una specie di corteo funebre e presagendo la propria prossima scomparsa, insieme ad espressioni di sentito affetto verso la fanciulla, pronunzia una frase che ha colpito la nostra attenzione: le dichiara, infatti, che presto sarà a lei vicino «nella gran notte che non ha mattino… che siamo portati ad identificare con una sorta di “perenne occidente” da contrapporsi alfa locuzione “Oriente Eterno” con cui i Liberi Muratori simbolizzano la condizione cui si perverrà dopo la morte terrena.
Crediamo sia ipotizzabile una lettura diversa della storia per cui ai tanti conflitti particolari ne sia sotteso uno ben più essenziale: quello tra le due componenti conflittuali ma complementari, che in ogni cultura raffigurano la dialettica vitale, costituite da Liù e da Turandot, e che rappresentano i due opposti approcci alla conoscenza, l’illuminazione e l’annichilamento.
L’antinomia tra i
due personaggi risulta evidente già dalle parole con cui essi sintetizzano la
propria natura, «Nulla sono!» (Liù) «Cosa umana non sono» (Turandot), segnando
la differenza tra le antitetiche strade che possono essere intraprese, quella che
denominiamo “lunare” contrapposta alla “solare”. La prima è
indubbiamente di stampo taoista, la cui spiritualità pervade costantemente le
parole affidate nel libretto ai tre dignitari «O ragazzo dementenurandot non
esiste!/Non esiste che il Niente/nel qual ti annulli! »; per converso è
innegabile riconoscere i numerosi riferimenti tesi a mostrare un percorso di
perfezionamento «solare”: «O sole! Vita! Eternità! Luce del
mondo è amore. Il tuo nome, o Principessa, è Luce» e «L’alba! Luce» (La Folla), «È l’alba!… e amor nasce col sole» (Calaf), «Nel cielo è la luce!» (Turandot), così come espressioni che indicano chiaramente il termine di una fase e l’inizio di una nuova condizione «È l’alba! È l’alba! Turandot tramonta!» mentre la didascalia sottolinea cielo è tutto soffuso di luce» La nostra proposta interpretativa può certamente risultare poco fondata ma non riusciamo ad individuare differenti significazioni ad una celebrazione della “Luce” identificata con I’«Amore», la «Vita», l’«Eternità», il «Sole»: da un sacrificio, una “morte sacrificale”, si genera la nuova esistenza nell’Amore e nella
La nostra lettura, seppur confutabile, conferisce pienezza di significato all’ambientazione temporale indicata all’inizio dell’opera, quell'<Al tempo delle favole> che colloca la vicenda in una dimensione extratemporale senza però vanificarne la connotazione umana:
1906 quell’ambito metafisico che spinge molti individui a ricercare il proprio itinerario di perfezionamento nell’ambito di una scuola iniziatica quale, appunto, la Massoneria. Siamo consapevoli che in molti potranno rimanere delusi dalle risultanze di questo lavoro ma non bisogna inoltre dimenticare che l’oggetto della ricerca interagisce dialetticamente con le modalità metodologiche: quando ci si incammina lungo gli indeterminati percorsi dell’esoterismo non ci si può illudere di giungere a conclusioni certe ed incontrovertibili. La sapienza, diversamente dalla conoscenza, si alimenta delle progressive crisi che ogni nuovo apprendimento genera, vivificando i simboli del “Pavimento a Scacchi” e dell “Incompiutezza del Tempio”.