LA CATTEDRALE VERDE
di
Diego Brancati
Tutti noi conosciamo il carciofo, pianta offense, della famiglia delle composite, che in Italia è coltivata su un’estensione di circa 60mila ettari, principalmente in Lazio, Puglia, Sardegna e Sicilia. Il vegetale abbisogna per il suo sviluppo di terreni profondi, permeabili, impiegabili e di clima mite, in poche parole ciò di cui necessita è quell’ambiente mediterraneo che l’Italia di qualsiasi altro paese che si affaccia sul mare e che fa dell ‘ Italia stessa la duttrice ed esportatrice di carciofo nel mondo (circa i 2/3 della produzione totale).
Il CYNARA SCOLYMUS, questo è i1 Suo nome scientifico, oltre che primo ingrediente di gustosi e innumerevoli piatti della nostra cucina è apprezzato per la sua azione terapeutica sulla ghiandola epatica. Come coleretico, diuretico e leggero lassativo, stimola beneficamente la funzione del fegato, esercitando un’azione-benefica sulle forme itteriche, subacute e croniche, e mente nei casi in cui l’insufficienza epatica manifesta sotto forma di stitichezza e oliguria; inoltre è antinfiammatorio ed antipruriginoso e gli amari è stato anche usato come lotta contro il paludismo.
Nell’ analisi della pianta tra i vari zuccheri ed enzimi è stato individuato il principio attivo che è all’ origine di tale azione terapeutica: la CINARINA Con questo nome è indicato l’estere dicaffeico dell’ acido chinico ovvero una molecola organica nata dall’’unione dell’acido caffeico e dell’ acido chinico e che oggi è il componente principale di pillole, fiale, sciroppi, bevande utilizzati nella terapia del fegato ammalato.
Ma il carciofo, umile e generoso al quale oggi si rivolge l’interesse scientifico ha una lunga storia, che si perde nelle nebbie del tempo e sfuma in mitiche lontananze da leggenda. Già il suo nome scientifico, CYNARA SCOLYMUS, richiama alla memoria la sfortunata e bella fanciulla di nome CYNARA, dai lunghi capelli color cenere (dalla quale il nome), che concupita da Giove, volle imporre il suo rifiuto al Dio, il quale sdegnato la mutò nella pianta, oggetto del nostro studio, spinosa, appuntita, pungente al tatto: (SKOLYMOS), in greco. Tale il mito, del quale peraltro non si rileva traccia nei maggiori autori antichi, ma che noi interpretiamo in tal senso: CYNARA SCOLYMUS è il simbolo della Dea Madre, sovrana assoluta della natura feconda, ovvero la bella fanciulla dai cinerei capelli, che è una probabile ninfa legata alla Madre Terra e al di Lei sposo Vulcano, dio delle manifestazioni endogene ed eruttive del nostro pianeta (ecco spiegati i capelli color cenere), rifiuta l’imposizione ordinatrice del Cielo che le si manifesta sotto le spoglie di un dio e sacrificando se stessa riafferma la -—ïofie non subordinata della Madre Terra e del
‘dLei sposo nei confronti del Cielo. Ma come vedremo inseguito gli esiti di simili vicende non sempre gli stessi.
Attori classici ed archeologi del nostro tempo, rispettivamente, trasmettono conoscenze sul carciofo a beneficio di noi uomini del XX secolo e che le avevamo perse quasi totalmente.
Veniamo a sapere che là nostra pianta è originaria ria dell’Etiopia ed attraverso l’Egitto giunge nel bacino in tempi remoti, precedenti alla nostra era.. Essa, però non è il carciofo spinoso che noi conosciamo, il quale prende il nome dalla parola araba HARSCIOF o AL-KHARSHUF che significa “spina di terra” e “pianta che punge” e che fa la sua apparizione definitiva in Toscana, nel 400, ad opera di agricoltori italiani e sotto il patrocinio di Caterina de’ Medici. Il CYNARA dell’antichità è il caro, pianta allo stato selvatico, ovvero il CYNARA CARDUNCULUS coltura e selezione successiva deriverà il nostro
In campo medico-farmacologico Pedanio Dioscoride con il suo “SCOLIMO”, galeno di Pergamo con il suo CYNARA Teofrato con il suo “Cactoo”, ci illustrano l’impiego terapeutico della pianta, descrivendone la collocazione sistematica, le caratteristiche, le droghe e le preparazioni.
Massimo Pallottino, archeologo insigne, ci testimonia la presenza e la coltivazione del cardo in terra di Etruria già durante il periodo di egemonia della Confederazione delle 12 città-stato.
Afri autori antichi, fra tutti L.G.M. Columella, Plinio il vecchio, Esiodo ed Alceo, ci tramandano nozioni interessanti: Columella nel suo “De Re Rustica” da una descrizione sui tempi e i modi della coltivazione del carciofo spinoso e ci comunica che è bene piantarlo perché “…è il tempo che il mondo si scalda, che figlia il mondo e concepe Amo»; già s ‘affretta all ‘unione, già il grande respiro dell’orbe s ‘affanna per Venere, e spinto da desideri ardenti, i suoi parti carezza e riempie di vita…”; che caro sarà al bevitore Bacco e non ad Apollo canoro; che abbisognerà “di molta cenere, perché a questo ortaggio sembra adattarsi specialmente tale tipo di ingrasso“. Plinio il vecchio nel suo “Naturalis Historia” annovera diverse varietà di Cardui: lo Scolimo, schiacciato e spremuto prima della fioritura, fornisce un succo utile alla cura dell’ alopecia; lo Scolimo Orientale (Limonia) è diuretico, elimina il cattivo odore delle ascelle attraverso l’urina, unito all ‘ aceto è utile nella cura di alcune affezioni cutanee, nel vino ha effetto afrodisiaco. Inoltre la radice di qualsiasi varietà di Carduo, bollita in acqua, tonifica lo stomaco e l ‘utero, sembra influire nel concepimento di figli maschi e provoca la sete ai bevitori.
Esiodo, in “Opere e Giorni”, ed Alceo, tratto dai frammenti, ci riferiscono che, quando questa pianta è in fiore, le cicale cantano più forte, e le donne sono più avide di piacere, mentre gli uomini sono più fiacchi nei riguardi del coito: per una sorta di provvidenza della natura, le proprietà eccitanti del carciofo sono allora massimamente attive.
Degli autori citati è bene mettere in evidenza alcune elle notizie forniteci:
- la pianta è particolarmente cara a Venere, l’ antica Dea italica, che Varrone e Plinio ci dicono divinità agricola, e quindi della fertilità, oltre che dell’ Amore, e che Etruschi e Romani conoscono ed identificano con i nomi di Turan e di Venere-Afrodite. Riappare in tal modo la Dea Madre in una delle sue tante identità e dona ai suoi figli mortali un frutto prodigioso (Pharmakon) per i dolci incontri amorosi e per la procreazione.
- Il carciofo abbisogna di cenere… Un ‘ulteriore ipotesi sul nome della pianta lo ritiene derivante dal vocabolo cenere, che ricca di potassio fertilizzante, ricopre la terra dove la pianta cresce. Ipotesi plausibile, ma a noi piace vedere, soprattutto in questa pratica concimante la più poetica ripetizione rituale e simbolica del connubio tra Venere e Vulcano.
- Il carciofo provoca la sete ed è caro al bevitore Bacco e non ad Apollo canoro… Sembra la descrizione dei sintomi provocati dall’eccessivo alimentarsi con il carciofo (molta sete e poca voce), ma come anche testimoniato da un rinvenimento archeologico presso la Città del Vaticano, evinciamo che il carciofo selvatico è caro allo stesso Dioniso e non solo a Venere. Il reperto, che suffraga la nostra tesi, è una fontana fatta costruire per la propria residenza decentrata dall ‘ imperatore Nerone e consacrata al dio del monte Nisa, del quale era adepto lo stesso imperatore. La fontana culmina con il tipico tirso bacchico, che tradizionalmente è un’ asta sormontata da un viluppo di foglie di edera, o di vite, o da una pigna, ma che in questo caso sembra essere proprio un carciofo spinoso (come da ipotesi degli stessi archeologi). Sappiamo che il tirso, oltre ad essere portato nei cortei dai seguaci del dio, era utilizzato nelle iniziazioni sessuali femminili durante i riti dionisiaci. Questo ci porta ad ipotizzare che pigna, carciofo o foglie che siano, in quanto simbolo del dio e del mondo vegetale a lui caro il tirso in ultima analisi è sacro alla divinità della natura feconda: Venere, appunto. Ogni forma vegetale che Etruschi e Romani sfruttano nella coltivazione è dono della Dea delle Messi, delf ‘ Agricoltura, della Fertilità e così anche ogni pianta che selvatica, cresce libemda ogni intervento umano. Ma per Dioniso il nesso con il mondo naturale è duplice ed innegabile. Lo stesso mito del concepimento e della nascita del Dio è altamente significativo: Semele, futura madre del Dio, che secondo due versioni distinte è figlia di Cadmo ed Armonia o Dea Madre di Frigia, viene concupita da Giove ed ella stessa accetta le attenzioni amorose del Dio, a patto che le si mostri nella propria pienezza. Allora il Padre Celeste, nell’ unione amorosa, si rivela nella sua piena potenza folgoratrice e al momento del concepimento Semele rimane incenerita dal la visione stessa del suo amante, che, pietoso, decide di salvare da morte certa e portare fino al momento della nascita protetto nella sua coscia il frutto del suo amore per la sfortunata Semele. Dioniso è il frutto, che nasce per così dire due volte: la prima come mortale sottoposto alle leggi di Madre Terra, la seconda come Dio, figlio della maggior potenza ordinatrice del Cielo. Questa volta Giove riesce, esprimendo la sua tremenda potenza, a vincere una già arresa Dea Madre. che aveva sì accettato I ‘ imposizione del Cielo, ma che l’aveva pur sempre sfidata volendone cogliere la pienezza qual pari divinità.
Giove vince e pone il suo ordine sul mondo naturale, che già aveva regole e leggi antecedenti alla stessa Forza Celeste. Ma qual figlio ha generato! Il Dio, nato due volte, conserva in sé il corredo genetico della madre sacrificata ed in tal senso non fa che manifestarsi come sovvertitore e vendicatore.
Primo passo di Dioniso, accolto tra gli Dei, è di condurre la Madre dall ‘ Oltretomba alle sedi celesti per restituire la dignità divina che le compete.
Successivo passo è quello di avvicinarsi al mondo della natura ed ai mortali. Dona agli uomini la viticoltura, la vendemmia e la preparazione del vino, ma principalmente reca il divino nella vita umana. Dioniso si presenta agli uomini sovvertendo con i suoi principi le leggi umane derivanti dall ‘ ordine superiore divino: viene soprannominato “Lo straniero in città”. Travolge le norme mortali e lo fa con la pazzia violenta ed incontrollata (vedasi a questo proposito la vicenda di Penteo, re di Tebe, ne: “Le Baccanti”), ma soprattutto con un contatto istintivo e diretto con il divino, senza bisogno di frapporre lunghi e stereotipati cerimoniafi per comunicare con il Superiore. Travolge in tal modo l’ordine divino che prevede gli uomini, e per prime le donne, alla base di una piramide senza possibilità di sottrarsi alla gerarchia e ai rituali religiosi. A Lui, inizialmente, si rivolgono ceti bassi o frustrati, ma soprattutto donne, che nello stile di vita e nella filosofia religiosa del Dio, vedono il modo di fuggire una realtà che le vede relegate, come per l’ordine divino, agli ultimi posti. Dioniso riporta a una dimensione naturale il divino e come reca il divino nella vita umana, altrettanto reca I ‘uomo nella vita divina. Ma il criterio e il percorso seguiti sono più semplici di quelli codificati in quanto il contatto è raggiunto con l’estasi, irrazionale, lontana dalla logica umana, che poco comprende di altri tipi di razionalità. Attraverso l’ebbrezza che il vino da al suo bevitore si raggiunge l’ acme di tale processo. Qui interviene il nostro carciofo, C YNARA, che secondo un etimo del nome potrebbe derivare dal verbo greco ” ” (Kineo), che vuol dire: eccitare, sconvolgere, agitare, scuotere. Qui interviene come predisponente al bere, come incrementante la sete, e spinge ad un più alto livello di ebbrezza estatica, lontano da ogni freno inibitorio stabilito dalle leggi scritte e non della società mortale, lontano dai criteri apollinei del quotidiano. Qui arriva la “Menade”, o comunque il seguace del Dio, che, come un asino (vedansi Apuleio ne “L’ Asino d’ oro”, Luciano in “Lucio”), sprofonda nell’ infimo per giungere al superno. Questa è la più grossa vittoria delle energie naturali, forze divine, ma sottoposte all’ ordine celeste. Forze che Dioniso condivide, ma che si rifanno tutte alla Dea Madre, madre del Dio e di tutti i mortali. per quanto riguarda l’Italia? In Italia il culto del Dio del Monte Nisa giunge prima in Etruria e in Italia meridionale, poi a Roma. Dai “Rasenna” Dioniso viene battezzato “FUFLUN” probabilmente dall ‘ appellativo greco ‘ . ‘ (della città di Biblos) e gli venne consacrata la città di Popluna (Populania). In breve il Dio acquista un notevole seguito perché nei suoi insegnamenti i Tirreni vedono la via di fuga da un edificio religioso che molto pessimisticamente non si sottrae in alcun modo al volere dei SUPERIORES INVOLUTI Dl (il fato greco e latino). FUFLUN e’ soprannominato PACHIE (Bacchico) e i suoi seguaci si riuniscono nei “PACHANA”.
A Roma, proveniente dall’Etruria e dall’Italia meridionale (Magna Grecia), Dioniso viene unificato con, Libero, dio italico della fecondità, con Bacco romano e con lacco, figlio di Cerere.
Dal sincretismo delle quattro divinità ne scaturisce la figura di Dioniso con caratteri che fondano spensierata allegria, benessere naturale e simbolismo filosofico-religioso.
Interessante e’ notare che il Dio ha contatti con Cibele di Frigia, Demetra greca e la figlia di lei Persefone, tutte divinità della natura feconda e personificazioni della vegetazione in tutto il suo rigoglio, tutte divinità che a lui sono associate o nei riti di origine agreste o nei Misteri a lui dedicati.
Ma ancor più interessante e’ dare un’occhiata al seguito divino di Dioniso. Intorno a lui si stringono le divinità naturali, che la religione del Panthen grecolatino ha emarginato o dimenticato del tutto. Sono i Daimones a cui si rivolgevano le popolazioni italiche prima che gli dei del cielo imponessero la loro supremazia unificatrice. Sono i Re-sacerdoti degli albori della civiltà, elevati a rango di divinità dopo la loro morte. Venerati come protettori dei campi, dei raccolti, delle foreste, aleggiavano come spiriti sorveglianti sulle comunità, ma in vita erano stati uomini dalle potenti doti soprannaturali, a lungo punto di riferimento per società che tramite loro si mettevano in contatto con il Superiore. Sciamani in grado di viaggiare lungo l’asse del Cosmo e attraverso i suoi molteplici piani, capaci di guarire le malattie dell’uomo non più in equilibrio con l’ Universo, dotati del dono della preveggenza. Questi saggi abitavano le foreste e le grotte, vivevano in piena sintonia con la Natura, con la Dea Madre, cogliendone i più intimi segreü. In simbiosi con gli animali (principalmente l’ orso, il lupo, il cervo e il capro) sentivano con loro e come loro lo scorrere dei flussi magici nell ‘Universo.
Ad essi da voce nuovamente Dioniso, recuperandoli ad un mondo divino che li ha accantonati, dimenticandone il valore.
Alla corte del Dio Bromio sono presenti:
Sileno, precettore e compagno del Dio, famoso per la saggezza, per il bel canto ed il dono della preveggenza.
Fauno Luperco, detto Fatuo ovvero il vaticinatore, che in sogno appariva agli oracoli dei boschi a Lui consacrati.
Pan l’arcadico, Dio dei pastori, dei cacciatori e del bestiame, preveggente e taumaturgo.
Silvano (l ‘ etrusco Selvans), protettore delle selve, dei fmtteti e della campagna,’abitatore del bosco sacro di Cerveteri, quel bosco sacro (Vipina in eù-usco) che Virgilio, nel libro VIII de “L’ Eneide”, nomina quando Enea inconÙa la madre Venere presso le rive del Caetiüs Amnis (Fosso Vaccina). Bosco che Silvano, annoverato tra gli antichi pelasgi, divide con Lasa Mpinas (la Dea della foresta – Diana la Dea), in connubio con ella: sua sposa, sua madre, sua sorella.
Insomma, Dioniso il sovvertitore, si oppone anche con i suoi cortigiani alle catalogazioni, alle norme, alle leggi scritte ed imposte; così fa contrapponendo all’Ars Haruspicina di Tagete, genio fanciullo dai canuti capelli, e all’ Ars Fulgatoria della ninfa Vegoia il sentire più istintivo e diretto degli DeiSciamani. Ai Libri Sibyllini, che impongono l’interpretazione catalogata dei segni divini, risponde con la comunicazione continua, con il rapporto naturale tra Uomo e Divino, attraverso “canali” che non necessitano della gestione di schiere di sacerdoti indottrinati. Alla lettura del fegato degli animali, come prescritto nella Disciplina Etrusca, che tanto influirà sulla divinazione romana, ribatte con la stimolazione diretta del fegato di ognuno dei suoi adepti. Stimolazione che si ottiene anche con il carciofo spinoso, che da quanto sappiamo oggi in merito alla “cinarina”, agisce sulla ghiandola epatica attivandone le funzioni. Funzioni che per gli antichi, e non solo, vanno ben oltre la consueta fisiologia medica, poiché il fegato è considerato sede delle passioni e del coraggio, generatore delle forze endogene e recettore delle esogene.
Dioniso ci indica che non v’è bisogno di ulteriori metodi, di ulteriori strumenti, nell’uomo è già insito “…(l’organon) che lo pone in diretto contatto con il divino…”
La caduta dell’impero romano d’occidente determina il crollo definitivo dell ‘edificio socio-politico-religioso del mondo antico, che peraltro già aveva dato segni di cedimento strutturale.
La sapienza, accumulata in secoli di civiltà, sembra sparire calpestata dalla violenza e dall ‘ ignoranza; incalzata dalla barbarie si nasconde, come un animale braccato, in rifugi lontani dalla luce, in attesa di tempi propizi…
Il carciofo, continua ad essere coltivato, o meglio raccolto, per la preparazione degli infusi, decotti tisane, misto al vino e all’aceto, oltre che per una alimentazione che già Eratostene di Cirene aveva definito ”per poveri” (e noi aggiungiamo, se il carciofo è alla base di tutta l’ alimentazione).
In tal modo la cultura contadina conserva tratti della sapienza di un tempo.
Ma per il resto?
Per il resto bisogna aspettare qualche secolo, attendere che il Medio Evo sappia esprimere un ordine e se pur precario, dopo il caos della barbarie.
Ed ora spunta di nuovo il carciofo, ma come altrc da sé. Compare come motivo decorativo nei capitelli che sostengono le statue della Cattedrale di Chartres.
Se prestiamo fede agli scfitti di Fulcanelli, una cattedrale è un libro di alchimia scolpito nella pietra, dove ogni elemento architettonico è un simbolo con precisi riferimento alchemici. E allora, come interpretare il carciofo?
L’alchimista dopo aver colto nei “campi” il Cinabro, lo deve sottoporre nell’ Atanor alle operazioni di trasmutazione secondo il criterio del “solve et coagula”. Il Cinabro, in quanto sale minerale, è composto di mercurio e zolfo, sotto forma di solfuro. I solfuri in alchinua sono detti “fegati”.
Sappiamo che il carciofo agisce sul fegato, ovvero il solfuro nell’ Atanor umano. Il solfuro deriva dallo zolfo. Insieme mercurio, zolfo e sale hanno colori distintivi e rappresentativi in ambito alchemico: il nero, il bianco, il rosso, rispettivamente. Questi stessi indicano le tre fasi della “Grande Opera”. Nelle rappresentazioni pittoriche l’Opera alchemica è raffigurata come un alambicco che contiene tre colombe: una nera, una bianca, una rossa (evidente il significato, come sopra detto), ma che rappresentano anche il corpo (mercurio/nero), I ‘anima (zolfo/bianco), lo spirito (sale/rosso).
L’anima, dunque, è una colomba bianca derivante dai solfuri.
Jung, nella sua interpretazione dell’ Arte Regia, mette in evidenza che I ‘ anima è per I ‘ alchimista l’ architetto femminile presente nell ‘uomo, comunque è sempre presente.
Gli antichi ci hanno tramandato che la colomba è simbolo dell’Eros sublimato e in quanto sublimato e in quanto sublimato è puro, ovvero bianco. Per questo Dodona inviava una colomba quale messaggera per vaticini e presagi favorevoli nella foresta a lei dedicata. Nella stessa foresta la quercia di Dodona aveva accanto a sé le colombe sacre, simboli della Grande Madre Tellufica. Panmenti, ad Afrodite, Dea della fecondità, erano offerte in dono, dagli amanti, colombe, perché care alla Dea. Nei bassorilievi funebli si vede spesso una colomba bianca, simbolo dell’anima.
Allora, se il carciofo contribuisce a far reagire i solfufi, i fegati/solfuri derivano dallo zolfo, ovvero dall ‘ anima, possiamo, senza timore di smentita, affermare:
Comunque è sempre, ognuno ha in sé la Dea…
Bentornata, Dea!•
neaAgox•