IL CAFFÈ LETTERARIO DELLE “GIUBBE ROSSE” A FIRENZE IN PIAZZA DELLA REPUBBLICA

IL CAFFÈ LETTERARIO DELLE “GIUBBE ROSSE” A FIRENZE IN PIAZZA DELLA REPUBBLICA

di

Guido D’Andrea

Il vecchio Centro di Firenze, o per essere più precisi il quartiere del Mercato Vecchio, comprendeva tutta quella parte, molto vasta a forma di quadrilatero, delimitata dalle seguenti arterie principali: via dei Calzaioli, Via dei Cerretani, Via dei Tornabuoni e Via Porta Rossa.

La Piazza del Mercato Vecchio era il punto più caratteristico di questo singolare quartiere nel quale i maestosi resti del passato e di uno splendore ormai tramontato apparivano e si confondevano tra le meschine e indecenti baracche del mercato, tra catapecchie luride e malsane e tra superfetazioni di ogni mole e genere.

Nel 1861 dopo l’ annessione,  l’Ingegner Luigi Del Sarto, capo dell’Ufficio Tecnico del Comune di Firenze, progettò un intervento di demolizione e ricostruzione per un nuovo mercato delle vettovaglie, tra Piazza Brunelleschi e Via dei Cardinali, nel vecchio Centro. Altri progetti furono anche elaborati, nel 1869, da un gruppo di finanzieri e “autorevoli” cittadini.

Nel 1884 furono avviate le pratiche per l’esproprio e nel 1885 il Ghetto fu evacuato. In una pianta geometrica dell’Istituto Geografico Militare del 1890 sono già evidenziate tutte le demolizioni previste nella piazza e già ubicati i due palazzi oggi denominati “della Fondiaria” e delle “Giubbe Rosse”

Artisti, poeti, uomini di cultura, non hanno mai perdonato al governo municipale di aver cancellato memorie storiche ed artistiche di importanza incomparabile, tori, chiese, palazzi, vicoli e piazzette che un accurato restauro avrebbe potuto facilmente valorizzare e che oggi sono note soltanto grazie ai dipinti dei macchiaioli e alle vecchie foto di Brogi e Alinari.

-settembre

“Telemaco, o piangi sulle porcherie che vanno giù? ” domandò scherzando un ingegnere comunale a Telemaco Signorini, che continuava imperterrito a dipingere gli antichi vicoli corso di demolizione. “No, piango sulle porcherie che vengono su”, rispose il pittore.

Ma quella che piacque meno fu proprio la pretenziosa Piazza Vittorio Emanuele II, con il suo grosso arco di trionfo, inaugurato nel 1895, assieme al Caffè che poi sarà chiamato delle Giubbe Rosse.

Il Caffè delle Giubbe Rosse

Questo Caffè, che ha avuto una parte importante nella storia della letteratura, dell ‘ arte e anche della politica italiana, nacque all’inizio del 1900..

Era stato fondato da due tedeschi, i fratelli Reininghaus, fabbricanti di birra, che ne avevano fatto il punto di riferimento della numerosa comunità tedesca fiorentina. Seconda la moda del tempo i proprietari vestivano i camerieri con giubbe rosse, all’uso viennese, e da questa particolarità fil Caffè sarà poi chiamato “delle Giubbe Rosse”

Alberto Viviani, nel 1933 ci ha lasciato il più vivace ricordo del caffè: “Due grandi vetrate, una chiusa ed una che serviva da ingresso, sormontate da un fregio in legno massiccio con un angiolo ghiotto di birra, sotto una grande scritta: “Reininghaus”; molte lampade ad arco, di quelle che oggi si riscontrano soltanto a Parigi e che spandono una strana luce riposante, sfolgoravano all ‘ingresso.

I camerieri attillati in uno smoking rosso fiamma e con un ampio grembiule bianco che li fasciava tutti come una sottana davano all ‘ ambiente una nota di originale gaiezza difficilmente dimenticabile. Nella prima sala con le pareti cariche di specchi molati, placidi e massicci tedeschi immersi nella lettura del “Die Wache” e del “Berliner Tageblat” con a portata di mano enormi stivali di vetro colmi di birra nera; e qualche vecchia “fraülein” con gli occhi estatici e sgomenti piantati al soffitto.

La seconda saletta che di giorno accoglieva sotto la sua blanda luce di lucernario poche coppie internazionali in cerca di quiete era adibita la sera al servizio di restaurant. “Le Giubbe Rosse” erano fornite dei quotidiani e delle riviste di tutto il mondo e si doveva a ciò credo, in buona parte, l’affluenza della clientela straniera. Più di un caffè, le prime due sale avevano l’ aspetto di un circolo di lettura.

Certi bei tipi avevano fondato un “circolo scacchistico fiorentino” in fondo alla terza sala e pagavano un piccolo affitto mensile. Gente metodica e malinconica per eccellenza, quasi tutti cancellieri e magistrati della Corte d’ Appello, farmacisti, ingegneri senza progetti e avvocati senza più cause.

Ma la pace sonnacchiosa del caffè fu sconvolta quando dal 1913 la terza sala diventò la sede fissa del gruppo di “Lacerba” e quindi dei futuristi fiorentini. A nulla valsero le proteste degli scacchisti. Si diffuse presto la strofetta:

“Giubbe Rosse è quella cosa, che ci vanno i futuristi, se discuton non c’è cristi, non puoi più giocare a dam…

Fucina di sogni e di passioni

Così Alberto Viviani definisce le “Giubbe Rosse” e quella terza sala del caffè Fiorentino dove fiorì, lottò, dilagò la rivoluzione futurista.

Le “Giubbe Rosse” restano nella storia della cultura italiana, un laboratorio di pensiero, di progetti, di passioni.

“Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità… Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno… Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie di ogni specie, e combattere contro il moralismo… E’ dall’Italia che noi lanciamo per il mondo questo manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo “, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e di antiquari… ‘ .

Così tuonava Marinetti dalle pagine del Figaro del 20 febbraio 1909 tentando invano di scuotere il mondo sonnacchioso e perbenista della cultura italiana.

Il violento appello lanciato da Parigi rimbalzò fino alla tradizionalissima Firenze sui tavolini delle

Giubbe Rosse e fu accolto con gioia da Giovanni Papini: “Quando arrivò il Primo Manifesto – ricorda qualche anno dopo lo scrittore – lo feci vedere subito al Soffici al Caffè delle Giubbe Rosse: E si disse. “Finalmente c’è qualcuno anche in Italia che sente il disgusto e il peso di tutti gli anticumi che ci mettono sul capo e fra le gambe i nostri inrispettabili  maestri! C’è qualcuno che tenta qualcosa di nuovo, che celebra la temerità e la violenza ed è per la libertà e la distruzione!… Peccato, però, che sentano il bisogno di scrivere con questa enfasi, con queste secentisterie appena mascherate dalla meccanica, e che si presentino coll ‘aria di clowns tragici che voglion far paura ai placidi spettatori di una matinée politeamica. Si può esser più crudi e più forti senza tanto fracasso “. “Per queste ragioni non volemmo dimostrare in nessuna maniera la nostra simpatia per il nuovo movimento “

Le riserve erano quasi tutte da parte del Soffici. Papini in realtà era già da allora tentato di aderire al futurismo. Per saperne di più cercò di procurarsi tutti i testi al riguardo che riusciva a trovare e volle personalmente conoscere Palazzeschi, l’unico futurista che in quel periodo risiedeva a Firenze. Ne divenne ben presto amico.

Ancor prima di fondare con Prezzolini e Cecchi la rivista “Leonardo”, prima di pubblicare libri controcorrente come il ” Crepuscolo dei Filosofi” o di bersagliare i miti culturali dell ‘ epoca con le feroci “Stroncature”, Giovanni Papini era stato un futurista “ante litteram”, piccolo David armato di fionda contro il gigante Golia, contro il mondo ostile delle convenzioni e dei compromessi.

Le continue lotte contro i mulini a vento lo avevano portato dall’entusiasmo e dall’ adolescenza a un disperato scetticismo, come lui stesso rivela nel suo celebre autoritratto letterario “Un uomo finito”.

Al tempo del manifesto futurista di Marinetti il gruppo fiorentino si era da poco nuovamente riunito intorno a “La Voce” di Prezzolini e dalle pagine della rivista Ardengo Soffici stroncò violentemente la prima mostra di pittura futurista a Milano, nella quale esponevano tra gli altri Boccioni, Carrà e Russolo. L’ articolo fu la causa del primo incontro-scontro tra i due gruppi fino ad allora separati. Scrive Carlo Carrà nei suoi ricordi: Marinetti, Boccioni, Russolo ed io decidemmo di rispondere subito in modo adeguato all ‘ingiuria e partimmo per Firenze.

Giunti, ci recammo guidati dal Palazzeschi al caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevamo di trovare il gruppo vociano. Ben presto, infatti, ci fu indicato Soffici, e Boccioni lo apostrofò “E’ lei Ardengo Soffici?” Alla risposta. affermativa volò uno schiaffo. Soffici reagì energicamente tirando colpi a destra e a sinistra col suo bastone. In breve il pandemonio fu infernale:  tavolini che si rovesciarono, trascinando con se i vassoi carichi di bicchieri e di chicchere, vicini che scappavano gridando, camerieri che accorrevano per ristabilire l’ordine; e arrivò anche un commissario di polizia, che si interpose facendo cessare la mischia. Anche Prezzolini, che accompagnava Soffici, si prese una bella dose di ceffoni.

Il giorno dopo, nuova rissa alla stazione, fino a che, passando sul piano della discussione, ci si rese conto che gli ideali e le aspirazioni erano gli stessi e si passò dall’odio all’amicizia.

Futurismo e vocianesimo erano infatti due forme giovanili ed impetuose, provenienti da uno stesso ceppo: entrambe volevano fare del nuovo, abbattere il vecchio pesante edificio di cultura borghese, stretta in schemi ormai superati che soffocavano il libero divenire dell ‘ arte. Da quel momento si crearono le premesse per l’adesione del gruppo di Firenze al futurismo.

Il quartier generale del Futurismo a Firenze fu il caffè Giubbe Rosse. Negli anni eroici del movimento ne era proprietario uno svizzero tedesco, Andrea Joun, che i suoi vivaci clienti chiamavano ” i’ ssor’ Andrea”.

Alberto Viviani lo ricorda “compitissimo e signorile, sempre attillato in una impeccabile rendigote nera d’inverno e grigia d’estate; si aggirava di continuo tra la clientela da lui prediletta distribuendo inchini saluti, vigile nel porgere i giornali abituali, sollecito in tutto ciò che riguardasse il buon andamento del servizio “

I camerieri del caffè avevano nomi che parevano usciti da libri sull ‘ impero romano, Cesare, Augusto, Ottaviano, e spesso intervenivano nelle accese discussioni dei tavolini della terza sala.

Il povero “Sor Andrea” faticava non poco a riportare la calma, in seguito alle immancabili proteste del pacifico gruppo degli scacchisti. Del resto anche la clientela internazionale che sostava nelle prime due sale era spesso eterogenea e difficile e non mancava di crear problemi

Viviani ricorda che tra gli ospiti fissi “rivoluzionari russi scampati dalla Siberia e alla forca (anche Lenin vi fece in quel tempo una rapida apparizione di due o tre giorni); teosofi e teosofe inglesi e americane; l’indiano Kundan Lall profeta, antesignano del Krishnamurti, pieno di mogli, di favorite e favoriti; due vecchi inglesi amici intimi di Oscar Wilde con il loro circolo di ammiratori; due giovani anarchici spagnoli con tanto di “sombrero” e di pantaloni a campana, pittori a tempo avanzato, un principe annamita discendente da una qualche terribile divinità del suo paese; una giovane donna georgiana, la Nino, meravigliosa ma sempre ubriaca di champagne

Nel 1913, in contrasto con Prezzolini, Papini e Soffici abbandonarono “La Voce” e fondarono, sui tavolini delle Giubbe Rosse una nuova rivista, “Lacerba”. Sebbene l’ editore Vallecchi avesse messo a disposizione un piccolo locale, che venne utilizzato solamente come deposito, la redazione vera e propria era il caffè di Piazza Vittorio.

Dalle Giubbe Rosse partirono i polemici articoli di Papini, gli studi sulla filosofia e sulla pittura del Soffici, il manifesto del “Controdolore” di Palazzeschi, lo studio di Italo Tavolato “Contro la morale sessuale” e il “Manifesto della Lussuria” della Valentine di Saint Point, nipote di Mallarmè, questi ultimi, a causa di un vero e proprio pandemonio per le accuse di immoralità, portarono autori e direttore fin sui banchi del Tribunale.

Verso la fine del 1913 si preparò una grande serata “Serata Futurista” per la sera del 12 dicembre, al Teatro Verdi.

“Proprio nei giorni della preparazione – ricorda il Viviani – le Giubbe Rosse furono letteralmente assediate di curiosi che con il naso appiccicato ai vetri appannati (i più fortunati in prima fila) spiavano ogni nostra mossa quasi che stessimo confezionando delle bombe o fossimo dei pericolosi congiurati.

Certo però che nessuno di quei curiosi sfaccendati, croce e disperazione costante di tutti i camerieri delle Giubbe Rosse e più ancora del compitissimo Sor’ Andrea, brillava affatto per coraggio e disinvoltura; quando uscivamo in gruppo dal Caffè ci allontanavamo alla svelta e cheti in tutte le direzioni come i ragazzi presi in flagrante a rubar l’uva”.

Del fatidico giorno ci parla il pittore e umorista Filiberto Scarpelli: “Sembrava che dalle Giubbe Rosse dovesse partire la rivoluzione intellettuale che avrebbe capovolto il mondo intero. Il caffè era affollato di amici, conoscenti, curiosi, i quali avevano discusso, fumato, bevuto e cenato, in attesa dell ‘ ora dello spettacolo. V ‘erano anche delle signore. Ricordo Amalia Guglielminetti, che in quel tempo era ancora fresca e piacente donna, con la Marchesa della Stufa, dinanzi a un vermiglio piatto di napoletani al pomodoro, appetitosissimi. Poi il caffè rimase vuoto. Tutti dietro al manipolo di ribelli!”

La “Serata Futurista” consisté in due ore di urla e fischi e tiro di uova, pesce, pastasciutta, frutta, ortaggi e lampadine, all’indirizzo di Marinetti, Papini, Boccioni, Carrà, Soffici, Cangiullo, Tavolato e Scarpelli. Anche Palazzeschi e Amalia Guglielminetti, in una barcaccia di proscenio, furono investiti da una raffica di cipolle marce che rovinarono irrimediabilmente l’elegante vestito della poetessa. Marinetti venne ferito a un occhio da una patata. Scarpelli al naso da una lampadina: Cangiullo rispose agli attacchi rilanciando i proiettili vegetali sul pubblico, fino a che non intervennero le forze dell ‘ ordine e lo spettacolo ebbe fine senza che nessuno fosse riuscito a far udire una parola dei discorsi che erano stati preparati.

I Massoni alle Giubbe Rosse: 1913-1915

Arturo Reghini, matematico, filosofo pitagorico, notevole scrittore di cose massoniche nonché, secondo il Papini che lo ebbe amico e che lo ricordò nel suo Diario del 1946, “l’unico mago rispettabile ch ‘io abbia mai incontrato ” fu un personaggio singolare, amato e rispettato dalle maggiore intelligenze dell ‘epoca. Altissimo, magro, vestito con una eleganza che niente concedeva alle eccentricità ed alle provocazione degli amici futuristi, torreggiava fra i tavolini delle Giubbe Rosse come l’antica asta di una nuovissima bandiera. Austero assertore di dottrine eterne che nemmeno Marinetti il distruttore osteggiava, era fautore e diffusore di una sorta di nazionalismo arcaicheggiante ed anticristiano, quell’imperialismo pagano che nei ricordi della grandezza romana manifestava il desiderio di una rinnovata grandezza italica che, come altre e diverse tendenze e dottrine, sfociò nell ‘ interventismo antiasburgico, cui la stragrande maggioranza dei massoni partecipò con foga e convinzione. Reghini, fondatore e colonna ideologica delle riviste massoniche ed esoteriche del suo tempo, Atanòr, Ignis, Ur, portò la sua grande mente e la sua profonda cultura nella corrente del rinnovamento europeo, per la distruzione di un vecchio mondo in cui permanevano ancora gli epigoni e le decadenti idee dell’ancien régime. Nel coro irruento e giovanile dei futuristi, dei nazionalisti, dei vociani, rappresentò la voce arcaica, bassa e profonda, della tradizione primordiale, senza la quale non vi è vera rivoluzione né cambiamento non effimero. Gli era compagno abituale Edgardo Frosini, dal vigoroso piglio carducciano, Maestro Venerabile della Loggia “Lucifero” all’ Oriente di Firenze e poi fondatore della Loggia “Hermes”, Madre Loggia del Rito Filosofico Italiano, che nella sua breve, ma gloriosa vita, reinserì le dottrine pitagoriche nell ‘ alveo della massoneria italiana ed europea. Loro compagni furono Papini, allora piuttosto fosforico, il segaligno Soffici, il Palazzeschi un po’ molle, l’ardito Rosai degli “omini” e dei bevitori, sia nelle trattorie e nelle mescite del centro che nelle accese discussioni delle notti d’estate, dove i tavolini delle Giubbe Rosse a volte volavano, a sostegno delle idee troppo accese. L’ orgoglio intellettuale del Reghini, che veniva considerato un vero maestro, cedeva solo di fronte ad un misterioso personaggio, ben poco conosciuto fuori dagli ambienti massonici. Questo era Amedeo Armentano che veniva di tanto in tanto dalla natia Calabria nelle Logge massoniche fiorentine, e nelle vie e nelle piazze di una Firenze allora così viva e vera. Nicola Lisi, nel suo libro Parlata dalla finestra di casa (Vallecchi Firenze 1973) ne parla affermando: “il Reghini, soltanto in una occasione rinunziava con semplicità di convinzione alla investitura di maestro che gli era, del resto, congeniale. La deroga, ogni volta che al Caffè (delle Giubbe Rosse) appariva un forte e singolare personaggio il cui nome era Armentano. I suoi precedenti erano da tutti, e credo anche dal Reghini, sconosciuti. Si sapeva che, in corrispondenze solari, abitava in un castello della costa calabrese”. Augusto Hermet nel suo La Ventura delle Riviste 1903-1940 non esita ad attribuire ad Armentano la qualifica di Jerofante.. Mario Manlio Rossi nel suo Lo spaccio dei Maghi (Doxa 1929) afferma che le sue parole venivano commentate come il Vangelo”. Anche Musatti e Servadio, noti psicologi, venivano da Roma a Firenze ad incontrare gli amici e fratelli fiorentini ed in particolare quel Roberto Assagioli (padre di una fortunata, ed ancora vivente ed attuale, scuola psicologica: la psicosintesi) a parlare della mente e dei suoi simboli, del nuovo verbo di Freud e di Jung e della sua connessione con l’esoterismo, la magia, l’ alchimia, terminando in gloria, come di consueto, nella trattoria del Paoli. Poi l’ avventura nazionale dell’interventismo, la guerra, la ritrovata unità nazionale, e poi un’ altra generazione, a rovesciare ancora i tavolini delle Giubbe Rosse.

Quella famosa “Terza saletta

La sala del Caffè Giubbe Rosse fu rifugio e casa di artisti e letterati negli anni che precedettero la Grande Guerra. Lì nacque “Solaria”, la rivista aperta alla cultura europea.

L’ambiente e i personaggi di quegli anni furono descritti da Elio Vittorini del 1932.

“Non la casa, non ho casa. Non la piazza… Non la campagna… Ma il mio Caffè, ma il mio cantuccio nella terza saletta: Questo è il mio caldo nido, è la mia casa, la mia fortezza. Qui nessun dio mi avvilisce, qui tutto è umano; la luce elettrica e il tepore del termosifone e la brezza del ventilatore e la bellezza dei tavolini rettangolari e tondi” scriveva Italo Tavolato.

E Viviani ricorda: .Com ‘era bella la terza saletta delle Giubbe Rosse, specialmente nei pomeriggi d’autunno o d’inverno! Nei divani lungo le pareti, al centro, sedevano Papini con a fianco Soffici e Palazzeschi; era quasi sempre tacito e sorridente e, d’inverno, raccolto nel suo magnifico pastrano marrone che non si toglieva mai nonostante l’aria surriscaldata dai termosifoni’

Il Caffè delle “Giubbe Rosse” fu una vera e propria casa per i letterati e gli artisti che vivevano a Firenze negli anni che precedettero la Grande Guerra. Spesso le loro abitazioni erano anguste, fredde e tutt’altro che accoglienti, come nel caso di Papini, che scrisse nella celebre terza saletta gran parte del suo libro “Uomo finito”.

Sarebbe lungo e forse impossibile ricordare tutti coloro che vissero il periodo esaltante della loro giovinezza artistica tra i tavolini del Caffè di Piazza Vittorio: per “gli anni incendiari 1913-1915” ci soccorre il libro di Alberto Viviani che traccia vivaci ricordi di Giuseppe Vannicola, Nicola Moscardelli, Arrigo Levasti, Giannotto Bastianelli, Angelo Cecconi (Thomas Neal), Dino Campana (che cercava di vendere copie dei suoi Canti Orfici ai clienti del Caffè), Ottone Rosai, Ugo Tommei, Federico Tozzi, Raffaello Franchi, Luciano Folgore, Marino Moretti, Fernando Agnoletti, Mario Novaro (fratello di Angiolo Silvio) con il figlio Cellino, Arturo Reghini, Medardo Rosso, Andrè Gide, Gordon Craig, il giovane Primo Conti, il gruppo dei triestini, Tavolato, Daubler, Slataper.

“Gennaio del 1915: incominciarono i posti vuoti ai tavolini delle “Giubbe Rosse “, e le scacchiere del gioco a dama ebbero le loro meritate ferie. Richiami alle anni, partenze volontarie, arruolamenti di leva. La prima guerra mondiale pose fine alla prima grande stagione del Caffè fiorentino.”

Quando cominciarono ad arrivare al Caffè le prime cartoline dal fronte, gli amici rimasti erano pochi ed erano tornati alle “Giubbe Rosse” i clienti di un tempo: gente tranquilla, pensionati “benpensanti”; insomma “panciafichisti” come li definì Luigi Bertelli (Wamba) con un nomignolo che fece fortuna!.

Nel dopoguerra la conversione di Papini, l’abbandono del Soffici, la partenza definitiva di molti dei vecchi amici impedirono la ripresa dello spirito dei vecchi tempi.

Le Giubbe Rosse del dopo guerra si popolarono di nuova gente; qualcuno dei vecchi ci tornò, ma il clima era mutato.

Meno eroico e meno “folle”, più letterario forse: Palazzeschi, Carrà, Severini, Conti, De Robertis, Rosai; si mutarono anche gli arredi del Caffè e le stesse insegne esterne; apparvero le prime macchine da “espresso”, i tavolini nella Piazza aumentarono di numero. La “nuova gente” cui si fa riferimento in questo brano, così viene definita da Piero Jahier: “erano dei perdigiorno che passavano serate e nottate in ciarle inutili. Non dovevano lavorare per vivere. I più erano studenti ma, studenti o no, erano mantenuti dalle famiglie, o da qualche donna o, anche, da qualche uomo”.

Con l’inizio degli anni ’20 una nuova generazione di artisti e letterati si sostituì alla precedente. Nel 1926 sui tavolini delle “Giubbe Rosse” tre giovani studenti, Alberto Carocci, Giansiro Ferrata e Leo Ferrero, fondarono una rivista destinata a un ruolo importante nella cultura italiana fra le due guerre, “Solaria”: “Non siamo idolatri di stilismi e di purismi esagerati e se tra noi qualcuno sacrifica il bel tentativo di dar fiato a un’ arte singolarmente drammatica e umana gli perdoniamo in anticipo. Per noi, insomma, Dostoiewski è un grande scrittore.

Ma non perdoneremo nemmeno ai fraterni ospiti le licenze che non siano perfettamente giustificate e in questo ci sentiamo rondeschi. Senza preciso programma, ma con una coscienza di alcuni fondamentali problemi dell’arte che si suppone concorde, ci siamo avvistati nei caffè e concertati alla buona per vestire una commedia in un teatrino di campagna”. Quanta differenza con il “Manifesto” di Marinetti e gli ideali lacerbiani? Ma non si trattò di un ritorno all ‘ ordine secondo i dettami mussoliniani.

Il gruppo’di “Solaria”, si pose al di fuori della cultura ufficiale rifiutando ogni impegno politico, L’impegno della nuova gestione è gravoso ma i risultati hanno ripagato l’entusiasmo e la tenacia, risultati raggiunti grazie ai collaboratori: Paolo Emilio Poesio, Massimo Mori, Paolo Marini, Tommaso Paloscia, Arnaldo Pini, Leopoldo Paciscopi, Cosimo Ceccuti, Aglaia Paoletti, Il Gruppo di Quinto Alto con il suo coordinatore Vittorio Biagini e tanti altri. Massimo Tanzini, sapiente e impeccabile direttore del bar e carissimo amico, Angelo Mazzi, preparato e paziente chef, capace di conciliare le raffinatezze della cucina internazionale coi sapori popolareschi della cucina toscana. Già nel primo anno di ripresa delle attività culturali, sono state fatte presentazioni di libri, incontri con performances di poeti. Col proposito di ricollegare la vita presente del Caffè al suo grande passato si è organizzato il ciclo di “Incontri Letterari alle Giubbe Rosse”.

Legata alla riscoperta e valorizzazione del patrimonio artistico letterario del passato, propugnata dai gestori del Caffè è stato presentato un “Quaderno della Nuova Antologia” con il titolo “Galleria”, ristampa anastatica di cinque fascicoli allegati al “Corriere Italiano”, dal gennaio al maggio 1924, sotto la direzione di Ardengo Soffici, divenuti da tempo una rarità bibliografica.

Nel settembre 1991 il Caffè organizzò una serata sul tema “La guerra non è l’ igiene del mondo”, capovolgendo la nota frase dei futuristi e alla quale intervennero trenta poeti di tutta Italia.

Nella primavera del ’92 in collaborazione con la Cooperativa Italiana Librai si è tenuto un ciclo di conferenze; inoltre con la stessa, in questo periodo in cui scrivo, stanno nascendo in Italia la catena di librerie col nome “Giubbe Rosse”. Le prime sono a Firenze, Milano, Rimini e Verona. Particolarmente interessanti le mostre “Per una nuova iconografia”, degli della Pop Art italiana, Franco Angeli, Tano Festa, Mario Schifano, Silvio Loffredo e l’altra “Immagini della scrittura”, raccolta di piccole opere di Poeti visivi degli ultimi trent’anni presentata da Giò Ferri.

Grande successo ha ottenuto la già menzionata iniziativa “Foyer” incontri con i protagonisti della scena teatrale in collaborazione col Teatro Niccolini.

L’anno 1992-93 ha portato alle Giubbe Rosse una nuova manifestazione culturale: ‘ ‘Gli incontro con i filosofi” con il già ricordato “Gruppo di Quinto Alto”. Nello stesso anno importante è stata la collaborazione con ‘L’Insti% Francais de Florence” il quale ha portato al Caffè poeti belgi e francesi tra i quali Bemard Noel, e la bellissima mostra fotografica di Andrè Villers.

Il 4 Marzo del 1996 ha avuto inizio una importante attività di conferenze pubbliche di storia, cultura epensiero massonico, ideata da Guido D’ Andrea e poi patrocinata dall ‘ attuale Presidente del Collegio Toscano, Mauro Lastraioli, sotto l’egida “Incontri del Grande Oriente” e sotto quella di “Lettere e simboli” altra manifestazione a carattere a carattere simbolico, artistico e culturale. Da quella data al maggio 1998 vi sono stati 25 “Incontri” e 37 “Lettere e simboli” che testimoniano l’ intensa e faticosa opera degli organizzatori Vittorio Vanni e Guido D’ Andrea, che ha inoltre curato la presentazione dei conferenzieri e delle loro tematiche. Nel corse degli incontri sono stati distribuiti oltre duemila test che hanno testimoniato delI ‘ opinione sulla massoneria da parte di altrettanti profani, test che sono stati elaborato scientificamente in forma di relazione da Guido D’ Andrea. Le manifestazioni sono state seguite con attenzione dalla stampa locale, che le ha definite come opera di “Importanti personaggi del mondo culturale fiorentino”. Chi visiti oggi il Caffè dopo averlo frequentato negli anni ’70-80, troverà un ambiente totalmente trasformato. Vecchie immagini, fotografie, numeri delle celebri riviste del passato, memorie raccolte faticosamente per recuperarne la storia, si uniscono ad opere d’ arte contemporanea. Giornali, periodici, libri sono posti in consultazione negli ambienti intimi del locale dove è nuovamente possibile assistere ad animate discussioni di letteratura, di arte, di teatro, e, finalmente, anche di Massoneria. La storia va avanti. cambiano i volti, le idee ma resta quella accogliente, magica ‘terza saletta” per accogliere i sogni e le speranze di quanti ancora si battono per una cultura libera e viva. • Ringraziamo Blasco Mucci, Fiorenzo Smalzi e Vittorio Vanni per aver fornite materiale e scritti per la stesura di questa piccola “Storia delle Giubbe Rosse.    ‘

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