PURUN BHAGAT

PURUN BHAGAT

Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni dignità e grado carissimi,
nella tornata del 26 settembre scorso, un Fratello Maestro ha parlato di un problema attuale,
che riveste particolare importanza anche per me. Ero assente in tale tornata, ed ho conosciuto solo
in tempi successivi il contenuto della tavola.
All’argomento trattato con chiarezza e completezza dal predetto Fratello, desidero aggiungere
qualcosa. Come molti sanno, in uno dei suoi racconti, Kipling narra il “Miracolo di Purun Dass”.
Purun Dass che era stato primo ministro del regno, amato e stimato da viceré e da missionari,
membro di molte società scientifiche e storiche, aveva vissuto 20 anni di giovinezza, 20 di battaglie
e 20 di governo; ed ora si apprestava a vivere la parte migliore della sua vita: quella contemplativa.
In 3 giorni Purun Dass diventa Purun Bhagat; un mendico vagabondo, senza né tetto né pane, volto
solo a trovare la pace e la serenità. Cito questo racconto del Fratello Kipling, non solo per
appoggiare la tesi della tavola del Fratello menzionato, ma per sostenere anche la necessità, nella
vita dell’uomo, di una ricerca.
Sarebbe impossibile, di certo, riportare nella nostra società una ricerca come quella di Purun
Bhagat; essa è lontana dai nostri schemi di vita, ed esula troppo dal nostro contesto culturale;
eppure mi sembra mettere in luce quello che per tutti gli uomini è l’unico e vero fine da realizzare;
la ricerca della Conoscenza, che è Pace e Serenità.
Lungi dal chiedermi cosa in realtà esse siano, ed in che cosa si realizzino, oso affermare che
pace e serenità si ottengono in un solo caso; con l’arrivare alla Verità.
È pur certo, la vita convulsa d’oggi non riserva alcuno spazio ai vecchi, agli anziani, ma
intendiamoci: quali vecchi, quali anziani?
In fondo, la società moderna non è che lo specchio di giovani-vecchi, giovani che, con le ali
tarpate, non sanno e non vogliono vedere nulla al di fuori di un rigido e disperato materialismo
pseudo-realistico, che li porta ad alienare la miglior parte di sé; ed altri giovani che sentono,
confusamente ma violentemente, l’assurdità di una società che non offre loro che un consumismo
frenetico, una scala di valori basata sulle possessioni materiali, e la prospettiva di una vita sboccante
in una vecchiaia emarginata; e contestano, rifiutano codesta società.
Si è persa la cosa più semplice, la cosa più facile: il “giusto mezzo”, che non è il
compromesso, ma l’equilibrio dell’animo, della mente e dell’anima, che solo consente di indagare
intorno a se stessi, intorno ai misteri della vita e della morte, che solo ci consente un giudizio equo
nelle vicende della vita, e che porta, soprattutto, al giusto rispetto per gli altri.
Tra un vecchio che apre il suo spirito alla Ricerca ed un giovane incapace di reagire ai mass
media non ho dubbi; scelgo di sentirmi un vecchio, perché so che a me è dato qualcosa di
infinitamente superiore: la sete della Verità.
L’ideale sarebbe che in tutta la vita l’uomo fosse sostenuto da un ideale superiore, unico bene
personale ed inalienabile. In realtà non è così: pochi infatti, troppo pochi sono gli interlocutori in un
dialogo che voglia essere insieme filosofico ed essenziale. Invece, man mano che l’uomo si eleva
dal campo del puro pragmatismo o dalla semplice estrinsecazione di una certa Weltanschaung, alla
riflessione più fenomenologica ed all’analisi più filosofica, aumenta sempre di più le proprie
possibilità di comunicazione e, con esse, di una ricerca che non è più solo un fatto personale.
Ma come può un giovane accettare un simile dialogo? Come può centrare la sua vita su di una
ricerca morale se è sempre distratto, direi sempre più distratto, dai modelli di vita che la società
consumistica continua a proporre ed imporre?
In fondo, ciò che condanna il giovane è l’abitudine, che è sia assuefazione, che lo avvezza alla
ricezione di determinati stimoli, sia addestramento, cioè quel processo con il quale si assorbono
determinati principi che prima non si avevano.
L’abitudine, poi, genera l’inerzia – tamas -, l’immobilità che, in un’epoca come la nostra,
origina l’inquietudine del bisogno. Questa è l’inquietudine che il giovane sente e dalla quale viene
pungolato; ma spesso si tratta di un’inquietudine insana che non nasce dal desiderio di fare, ma da
quello di possedere e di godere; e che viene via via soddisfatta dai beni materiali che il mercato crea
in sempre maggior varietà e quantità, e ad un ritmo frenetico.
È questa la Verità?, È scopo supremo della nostra vita il conseguimento, dopo una rincorsa
incessante, di soddisfazioni che appena ottenute si mostrano già appassite e consunte?
In un simile contesto, che coinvolge non solo i giovani, ma purtroppo spesso anche la
generalità dei vecchi che non si rassegnano ad invecchiare, la verità diventa qualcosa di definibile
puramente in un ambito storico; diventa un fatto di contingenza.
Invece, come Kant, io ritengo che vi sia un unico appello al Tribunale dell’uomo: la Verità
che è unica, irripetibile, universale; la Verità che è patrimonio della specie umana; ad a Quella, nel
senso più pregnante della parola, ogni uomo può e deve appellarsi.
Sperare nel raggiungimento della Verità non è utopia, è certezza; è una certezza che è la sola
che possa sorreggere l’uomo e dare un senso ed uno scopo alla sua vita. Forse non è dato a tutti
raggiungerla e prenderne totale coscienza, identificarsi totalmente con Essa; non tutti siamo
preparati a ciò. È quella trasformazione che culminerebbe in una evoluzione integrale, e ben pochi
l’hanno raggiunta. Ma la cosa per tutti più importante è il cercare questa Verità; sapere che esiste e
che è raggiungibile. Questa è una certezza che è solo un bagliore di quell’Assoluto ed è ciò che può
sorreggere e dare scopo ad una vita intera.

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