COME SI COSTRUISCE UN’ICONA

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(di Emanuela de Leva-Vacca)

COME SI COSTRUISCE UN’ICONA

Dicono i greci che l’icona è “deuteròtypos toù prototypoù”, cioè “riflesso della realtà di Dio”, perchè dà all’immagine una dimensione trascendente.

L’iconografia è una cosa sacra, pertanto, anche la scelta del materiale di preparazione dell’icona è di natura trascendentale. I colori venivano preparati con materiali del tutto naturali: la pietra, il guscio dell’uovo (di gallina, di struzzo, oppure di legno o metallo), la pelle di pecora o materiali fabbricati dall’uomo come la carta pergamena, la tela, il vetro, lo smalto. Si prepara il medium all’uovo,una miscela di rosso d’uovo, acqua demineralizzata e pigmenti colorati.

Le icone erano dipinte su tavole di legno di tiglio, di larice, di abete o di pino. Con l’accetta si taglia il tronco, scegliendone il punto più duro. Il processo è faticoso e lungo.

La parte frontale della tavola ha un avvallamento: lo scrigno, limitato da bordi. Per determinare il tempo e il luogo di preparazione di un’icona spesso si è analizzato il tipo di colla usato, la profondità dello scrigno e la larghezza dei bordi. I bordi delle icone del XI-XII secolo sono larghi e lo scrigno è profondo. Le icone del XIV secolo sono spesso senza bordi.

Per la qualità del fondo s’impiegava il levkas (miscela di alabastro e colla). La tavola dell’icona viene lavata alcune volte con una colla calda e liquida. S’incolla un tessuto di lino. Quando è asciutto, si mette la miscela di alabastro con colla. Si mettono diversi strati di levkas. Si raddrizza la superficie. Sull’ultimo strato viene fatto il rilievo.

Nelle icone dal XII secolo, si faceva la “cesellatura” sull’alabastro dorato. A volte la cesellatura era fatta sulle aureole. Dal XVI secolo,si opera un intaglio sull’alabastro prima di dipingere. In un secondo tempo si esegue la doratura.

Finita la preparazione della superficie del fondo si opera il disegno. Si fa un primo schizzo della rappresentazione con un morbido carbone di ramoscelli di betulla, poi un secondo, più preciso, con una vernice nera oppure rossa. Il tutto in modo delicatissimo. Dopo di che, finalmente s’inizia il vero e proprio processo di pittura.

All’inizio la doratura: i bordi dell’icona, lo sfondo, le corone, le pieghe dei vestiti. Poi i vestiti, gli edifici, il paesaggio. Per ultimi i lichi, i volti. In fine si spalma la raffigurazione con una speciale vernice – lacca – di olio di lino cotto.

Il lavoro con i colori si faceva secondo una sequenza ben definita: il fondo, le montagne, gli edifici, i vestiti, le parti del corpo scoperte, i lichi. Dopo si illuminavano i dettagli dando rilievo agli oggetti con la biacca. Infine i balenii di luce chiari sulle parti in rilievo del volto: fronte, zigomi, naso, ciocche dei capelli, con la biacca o con l’ocra mescolata a biacca. Il roseo: la vernice rossa si poneva con uno strato delicato sulle labbra, sulle guance, sulla punta del naso, negli angoli degli occhi, sulle orecchie. Infine, con una vernice marrone liquida si disegnavano le pupille degli occhi, i capelli, le ciglia, i baffi, la barba.

Come paradigma per la pittura delle icone si usavano gli originali.

L’iconografia era un’arte molto forte e difficile. Il pittore si prepara appositamente per creare l’opera iconografica mettendosi in relazione con Dio, operando una purificazione spirituale e fisica: “…lui, quando dipingeva una santa icona, toccava cibo soltanto i sabati e le domeniche, non concedendosi pace né di giorno né di notte. Passava le notti in veglia, in preghiera e adorazione. Di giorno si dedicava all’iconografia con umiltà, semplicità, purezza, pazienza, amore, digiunando e pensando solo a Dio”. Le icone ben dipinte si consideravano dipinte non dall’iconografo, ma da Dio.

Si sono conservati pochissimi nomi di antichi iconografi perché era inopportuno porre il nome della persona di cui Dio si era servito.

LE ICONE DELLA MADRE DI DIO

Ad eccezione del Salvatore, non c’è nella iconografia cristiana un altro soggetto raffigurato così spesso come il volto della Santa Vergine. In tutti i tempi gli iconografi hanno cercato di dare al volto della Vergine tutta la bellezza, la tenerezza, la dignità e la grandezza, che potevano immaginare.
La Madre di Dio nelle icone russe è sempre triste. Questa tristezza è ora piena di dolore, ora piena di luce, però sempre carica di saggezza e forza spirituale. La Vergine Maria a volte “mostra” al mondo il Bambino, a volte “stringe” a sé il Figlio con tenerezza, altre lo “sostiene”. Porta sulla testa un velo, secondo il costume delle donne ebree di quel tempo. Questo velo, o drappo, si chiama in greco maforij. Esso è dipinto di solito in rosso (simbolo regale e di sofferenza). I vestiti sono dipinti in azzurro, segno di purezza. Il vestito della Vergine ha le “soprammaniche” che simboleggiano la “concelebrazione” della Vergine Maria con Cristo.
Sulla fronte e sulle spalle della Vergine sono dipinte tre stelle dorate. Simili ornamenti, fatti di metallo, erano molto diffusi tra gli antichi. Nelle icone le stelle si dipingono come segno che la Madonna è rimasta Vergine prima, durante e dopo il parto. Le tre stelle sono anche simbolo della Santissima Trinità. In alcune icone la figura di Gesù Bambino copre una delle stelle, simboleggiando così l’Incarnazione della seconda ipostasi della Santissima Trinità, il Verbo.
Esistono cinque tipi principali d’icone della Vergine Maria:
1. La Vergine Orante o “Panaghia” o “del Segno”
2. La Vergine che mostra la via o “Odighitria”
3. La Vergine della Tenerezza o “Eleousa”
4. La Vergine Kyriotissa o “Panachranta”
5. La Vergine della Supplica o “Haghiosoritissa”

VERGINE ODIGHITRIA
Bari è molto collegata all’Impero bizantino. Nella sua Cattedrale infatti c’è l’icona della Madonna di Costantinopoli conservata nella cripta, in precedenza dedicata alla Vergine Odegitria, che in alcuni documenti è anche ricordata con il nome popolare greco di “Metizza” , o “Madre Divina”.
‘icona era molto venerata a Costantinopoli, capitale dell’Impero Bizantino,e, secondo la tradizione fu dipinta da San Luca. Prese il nome di “Odegitria” dal luogo in cui era collocata, nel monastero dei monaci Calogeri di san Basilio, detto “delle guide” – “ton Odegòn”, cioè “indicatrice della via”, fatto edificare dalla regina Pulcheria sulla strada retta, chiamata dai greci “Odilonica”, da cui deriva il termine “Odegitria”, cioè che “mostra la via”. L’icona andò distrutta nel 1453 durante la conquista turca. L’immagine attuale è una copia di una più antica eseguita, probabilmente, dal pittore Onofrio Palvisino da Monopoli nella prima metà del 1500. Ancor oggi si festeggia, come avveniva anticamente a Costantinopoli, il primo martedì di marzo.

CRISTO PANTOCRATOR

L’immagine sacra, forse più conosciuta al mondo, è quella del Cristo ortodosso, Pantocratore, letteralmente “sovrano di tutte le cose”. In Italia vi sono molte sue immagini di rara e particolare bellezza e perfettamente conservate. Le più famose sono sicuramente a Ravenna, Palermo e Cefalù in Sicilia, Firenze. Una delle più famose, è a Istanbul, nella Basilica di Santa Sofia o Santa Sapienza, principale monumento della città e oggi adibita a museo.

Il Cristo Pantocrator è stato rappresentato nelle icone, negli affreschi, nei manoscritti, nei mosaici, nelle grandi absidi e cori delle cattedrali e nelle cupole, sempre, più o meno, con le medesime sembianze.

A noi però interessa il mondo delle icone e in quanto tale non può essere paragonato a nessun altra opera d’arte. L’icona non è un quadro, in molti sostengono che per comprendere l’arte iconografica, si debba avere fede e la vista spirituale. Non sono d’accordo. Sono convinta che, l’ispirazione di un pittore, può essere del tutto simile a quella di un monaco che nel ‘300, accostandosi a creare un’icona, digiunava e si purificava. Non vedo molte differenze, era tra l’estasi ossessiva di Van Gogh e quella religiosa e mistica di un monaco del Monte Athos. L’icona è sicuramente una finestra su un mondo trascendentale e forse per apprezzarla bisogna avere la vista spirituale, ma quando mi fermo in estasi davanti ad un opera di Michelangelo e la sindrome di Stendhal s’impossessa di me, credo, anzi, sono convinta di essere in una dimensione mistica, questo lo dico senza nulla levare alla leggiadra perfezione delle mie adorate icone. Scusate la digressione, torniamo al Nostro Cristo Pantocratore. Quello che voglio dire è che per poter apprezzare un’icona non è necessario essere per forza un credente, ve lo dice una che appunto, non è preda dello zelo religioso. Qui ci vuole una piccola “boucle” per spiegare il perchè nacque l’“iconoclastia”, la feroce caccia alle icone. Ogni tanto la Chiesa deve epurare il mondo dal male, questa volta non sono streghe o catari o templari, ma icone, innocui quanto bellissimi oggetti sacri. Siamo nel 730, l ‘imperatore bizantino Leone III proibisce il culto delle icone. Bisanzio, divenuta Costantinopoli e poi l’attuale Istanbul, era si sa, molto vicina al mondo mussulmano e da esso sicuramente influenzata. Molti re e imperatori, pur essendo cristiani, nei fatti seguivano gli usi arabi e quindi mal tolleravano chi si perdeva in quello che loro definivano “mera idolatria”, che anche gli ebrei condannavano, ma senza sposarne il cieco fanatismo. Nell’islam l’interdizione della venerazione degli idoli, ai quali i musulmani aggiungono anche la croce e le icone, è assoluta. I vescovi dell’Asia Minore erano quindi influenzati dall’islam, e cercavano di purificare la religione cristiana da ogni elemento materiale che per loro appunto diventava idolatria. Si aprì quindi la caccia a tutto ciò che rappresentava visivamente Dio, la Santa Trinità , santi e angeli. Icone, mosaici, affreschi furono distrutti e i seguaci ferocemente perseguitati. Ma si sa, se uccidi un simbolo, non ne annienti la fede, quindi, nell’ombra i cultori di quest’arte, proseguirono la loro opera.
Il culto delle icone fu riammesso temporaneamente nel 787 dal VII Concilio Ecumenico, e definitivamente nel 843. Uno dei più autorevoli difensori della venerazione delle icone fu il teologo Giovanni Damasceno (675-750 circa).
Le prime rappresentazioni del Cristo erano molto semplici e simboliche: l’agnello, il pesce, a volte un pastore. In seguito il simbolismo si evolve fino a diventare figura umana. Solo nel IX secolo abbiamo la descrizione fisica di Gesù: “…di bell’aspetto… ciglia aggrottate, occhi bellissimi, con il naso lungo, capelli chiari, inclinato, umile, con un bellissimo colore del corpo, barba scura, dall’aspetto color di frumento, somigliante alla madre, con dita sottili, mite, silenzioso, paziente…”. Le icone che rappresentano il Cristo non sembrano rispecchiare molto questa descrizione, anzi, spesso, come alcune Madonne, Egli è scuro di pelle, di capelli e ha un aspetto che incute reverenza e rispetto, a volte anzi è severo e terribile. Un Cristo in totale antitesi con quello europeo o comunque cattolico che lo vuole chiarissimo, efebico, effeminato, rassegnato e spesso sottomesso, mai forte e volitivo. Nell’iconografia vi sono diversi tipi di rappresentazione del Cristo, le più ricorrenti e famose sono:
1. Spas Pantocrator “ Signore creatore del mondo”. Nelle immagini ha l’età della sua predicazione. Indossa un mantello coi colori divini, il rosso e l’azzurro, con la mano sinistra tiene il vangelo, con la destra benedice.
2. Spas in trono La figura di Cristo è su di un trono. Il trono è il simbolo dell’Universo, di tutto il mondo visibile e invisibile ed inoltre, è il simbolo della gloria regale del Salvatore.
3. Spas tra le potenze è l’immagine centrale nell’ “iconostasi”, parete della chiesa ortodossa sulla quale si distribuiscono, in un ordine prestabilito, le icone del tempio ortodosso (dal greco eikon, immagine, e histemi posto). Sullo sfondo di questa icona si vede di solito un quadrato rosso, sotto un cerchio azzurro. Il simbolo della terra e il simbolo del mondo spirituale, il quadrato e il rosso, il cerchio e l’azzurro. Nel cerchio ci sono gli angeli, le potenze celesti, da cui prende il nome l’icona. Nel quadrato i simboli dei quattro evangelisti.
4. Spas Emmanuele, icona rara. L’immagine di Cristo è di quando aveva dodici anni.
5. Spas Beato Silenzio è un’icona di Cristo rarissima. Rappresenta il cristo “prima” della sua discesa tra gli uomini. Nell’aureola c’è una stella a otto punte: due quadrati, la divinità e l’impenetrabilità della Divinità. Il Salvatore è raffigurato sotto forma di un angelo.

LA VERGINE DI VLADIMIR
Una delle icone più famose al mondo è la Vergine di Vladimir che vanta una storia molto strana e intrigante. L’icona è stata dipinta forse da Teofane il Greco, architetto e autore di affreschi di portata immensa, che visse per molto tempo a Novgorod, in Russia sede incontrastata della cultura nei secoli XIII-XIV. La tradizione vuole che la Madre di Dio di Vladimir, come numerose altre icone, sia stata dipinta da San Luca. Secondo il racconto di un cronista, l’icona fu portata nel XII secolo da Costantinopoli a Kiev e che appartenga all’arte bizantina dell’epoca macedone. Trovò collocazione definitiva nella città di Vladimir (Vladirmiskaija) nel 1164. Dopo il 1395 è stata trasferita nella Cattedrale della dormizione al Cremlino. Celebre per i suoi interventi miracolosi, è sfuggita a diversi saccheggi ed incendi; la si trova presente ad ogni importante avvenimento della Russia come vero tesoro sacro della nazione.

LA REGINA TAMARA E LA MADONNA DI KHAKHULI
Figlia primogenita del re georgiano Giorgio III, Tamara governò durante quella che è detta età dell’oro della Georgia. Fu un’eccellente sovrana, tanto che fu ribattezzata “re dei re e regina delle regine”. È considerata tra i più grandi monarchi georgiani ed il suo regno ha visto la conquista di quasi tutti gli stati confinanti di religione musulmana. Nel 1185 un gruppo di nobili georgiani organizzarono un matrimonio per Tamara ed il candidato sposo sarebbe stato il principe russo Yuri Bogolyubsky. Tamara accettò la proposta dei nobili e lo sposò, ma da questo matrimonio non nacquero figli. La regina ben presto fu delusa dal marito, che aveva dimostrato di essere immorale, ubriacone e per giunta impotente. Divorziò dopo soli due anni nel 1187 e si scelse un marito più consono alle sue esigenze, il principe Davide Soslani. Davide fu re solo di nome, di fatto Tamara continuò ad essere chiamata “re dei re e regina delle regine”, il sovrano effettivo. L’ex marito di Tamara, Yuri, sì alleò con un potente gruppo di nobili georgiani e con essi organizzò due rivolte, ma nella seconda (1191) soccombette nel tentativo di conquistare il potere. Dopo aver riportato l’ordine negli affari interni Tamara si dedicò all’espansionismo, seguendo le orme del padre e anche qui ebbe un notevole successo, grazie alla sua capacità strategica e alla lungimiranza nella organizzazione e riorganizzazione del regno. Contribuì a fondare l’impero di Trebisonda, sulla riva meridionale del Mar Nero, fornendo ai nipoti bizantini un esercito con il quale conquistare questi territori. Durante il suo regno la Georgia raggiunse l’apice della sua potenza politica, economica e culturale. Come gli altri monarchici medievali, Tamara svolse un ruolo attivo nella religione e nella cultura del proprio paese, infatti fece costruire numerose chiese ortodosse in Georgia. Tamara morì nel 1212 e dopo la sua morte fu canonizzata dalla chiesa apostolica autocefala ortodossa georgiana. A tutt’oggi il nome di donna più diffuso in Georgia è ancora Tamara.

La Madonna di Khakhuli è forse la più prestigiosa icona georgiana. Il trittico di Khakhuli, della Theotokos Vergine Maria, deve il suo nome al monastero medievale di Khakhuli (ora Haho, Turchia), dove era originariamente conservato. Essa è stata creata tra l’VIII e il XII secolo e incorpora oltre 100 esemplari bizantini di smalto cloisonné. All’inizio del 12 ° secolo, il re georgiano Davide il Costruttore, aveva aggiunto diverse pietre preziose all’icona ritenuta miracolosa. Venne in seguito trasferita al monastero di Gelati, dove la regina Tamara, la ornò di una cornice d’oro con le ali d’argento dorato. Secondo le cronache medievali, nella battaglia di Shamkor nel 1195, quando furono sequestrate grandi quantità di bottino ai mussulmani, la regina Tamara, che aveva una grande venerazione per l’icona, donò alla Madonna di Khakhuli, lo stendardo vinto al califfo di Shamkor. L’icona fu rubata da Gelati nel 1859, presumibilmente su iniziativa del governatore russo di Kutaisi, conte Levashov. La maggior parte dell’oro e dei gioielli furono strappati e venduti in Russia. Più tardi, Levashov commissionò una riproduzione da un orafo di Mosca e la offrì al monastero di Gelati nel 1865. L ‘icona originale, così come molti dei suoi medaglioni, entrò successivamente nella collezione privata del pittore Botkin russo Mikhail (1839-1914) per poi finire al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. L’icona fu restituita alla Georgia solo nel 1923 in avanzato stato di degrado.

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