DICEMBRE 2017 GLSA
Dobbiamo avere paura della morte?
Che cos’è la morte? Benché si tratti di un fenomeno naturale ed universale la risposta presenta svariate difficoltà. Già a partire dalla definizione ci sono divergenze. Un’altra domanda è quella di sapere come sfuggire all’angoscia della morte. In questa Tavola presenteremo alcune delle più significative risposte a tale questione.
Fino agli anni sessanta la morte era definita a partire dall’arresto respiratorio (il segno dello specchio davanti alla bocca) e dall’arresto del cuore. Nel 1966 l’Accademia di medicina ridefinisce la morte come arresto del funzionamento cerebrale. Quando il tracciato encefalografico è piatto durante un certo numero di ore si considera che la morte è certa anche se le complesse apparecchiature di rianimazione sono riuscite a mantenere nell’organismo una circolazione e una respirazione artificiale. Sorge allora il problema morale attorno alla legittimità o meno di tenere artificialmente in vita un organismo il cui cervello è ormai irrecuperabilmente morto e il problema dell’accanimento terapeutico.
La pensabilità della morte
Molti sostengono addirittura che la morte sia un fenomeno impensabile, inconcepibile in prima persona. La morte in terza persona è banale e quotidiana, è la morte delle pratiche amministrative, interessa diverse scienze come la demografia, la biologia e la medicina ed è quindi perfettamente concepibile.
La morte in seconda persona è un’esperienza tragica, e come tale è perfettamente intelligibile. È la morte di qualcuno che si ama e di cui non vorremmo mai distaccarci. La possibilità o l’eventualità di questa separazione è la principale sorgente del dolore davanti alla morte (eventualità che nello stesso tempo è una fatalità dal momento che se l’ora è incerta il fatto stesso è inevitabile).
La morte in prima persona è invece la notte enigmatica dove la nostra vita sparirà. L’idea di non essere più, di sprofondare nel nulla è per molti una fonte di angoscia. È forse l’angoscia fondamentale nascosta in fondo a tutte le nostre paure. È la morte di cui, contrariamente alla terza e alla seconda persona, non possiamo fare esperienza e per tale ragione si ritiene quindi impensabile.
In ogni caso la morte è un tema che riguarda tutti. Sia coloro che credono che sopravvivranno alla morte dei loro corpi, per andare in Paradiso o all’Inferno, o in qualche altro luogo diventando uno spirito, o ritornando sulla terra in un corpo differente, forse non più come essere umano. Sia coloro che credono che cesseranno di esistere e che quindi il sé si estingue quando il corpo muore.
La questione tocca tutti perché è in primo luogo un fenomeno biologico. Prima di essere una categoria del vissuto della coscienza, la morte si presenta a noi come un processo biologico, prescritto dal programma genetico, essa non è un incidente o una realtà contingente, ma una parte integrante del sistema vivente. Il vecchio sogno dell’immortalità non è compatibile con i dati biologici che convergono per dimostrarci che la morte è una necessità ineluttabile e un’esigenza della vita.
La morte come fenomeno culturale
La morte interessa tutti non solo in quanto processo biologico ineluttabile, ma anche come fenomeno culturale generale. Da un punto di vista antropologico la prima caratteristica di un essere umano, che segna il passaggio dalla natura alla cultura, è l’organizzazione della sepoltura. L’uomo è il solo animale che sotterra i suoi morti. In tutte le epoche e in tutte le civiltà l’uomo non abbandona mai i suoi cadaveri. Li seppellisce, li imbalsama e li brucia ma compie sempre per loro una cerimonia sacra. Nessun gruppo umano abbandona i suoi morti senza riti e senza sepoltura. Da questo punto di vista il lutto è forse la vera e propria origine della cultura.
Gli assassini di Socrate sono senza potere sulle idee vere che sosteneva.
Probabilmente solo per l’uomo, tra gli esseri viventi, si può parlare di una coscienza della morte. L’intensità di questa coscienza sembra inoltre variare da una persona all’altra, come da un’epoca, o una cultura, all’altra. Da una cinquantina d’anni la morte sembra stia diventando un vero e proprio tabu. Il lutto è ormai nascosto (l’abito scuro, prima di regola, ora non si usa quasi più), le tombe sono visitate sempre meno e appaiono abbandonate all’incuria. Il periodo di divieti che seguivano la morte (astensione da spettacoli, cene, da feste) si è notevolmente accorciato. Non si muore quasi più a casa attorniati da familiari ed amici ma all’ospedale tra professionisti sovente freddi e distaccati. Il prima e il dopo la morte è organizzato nei minimi dettagli per dare il minor fastidio possibile ai parenti.
Questo atteggiamento è un segno e allo stesso tempo un tentativo di sfuggire all’angoscia che la morte suscita. Per lottare contro quest’ultima l’uomo, nel corso dei secoli, ha intrapreso i più diversi stratagemmi.
Il più elementare è quello di fuggire la morte cercando di dimenticarla immergendosi nel lavoro, nelle occupazioni quotidiane o nel piacere.
Un altro atteggiamento corrente è quello di rifugiarsi nella speranza di una vita eterna. È l’attitudine religiosa.
Una possibilità storicamente assai conosciuta è quella di tentare di vincere la paura che ispira. Per esempio secondo Epicuro è per ignoranza che noi temiamo la morte. Questa in effetti è un puro nulla dal momento che fintanto che esistiamo, lei non c’è. D’altra parte quando sopravverrà non ci saremo più noi per preoccuparcene. Per gli stoici il saggio deve imparare ad accettare con serenità la morte ed è la filosofia che dovrebbe insegnare questa serenità. Per filosofi come Platone o Montaigne filosofare è appunto imparare a morire.
Un’altra soluzione è quella di rifiutare ogni consolazione e accettare la sua dimensione tragica. Secondo Heidegger l’uomo è un essere per la morte e l’angoscia che essa implica è il dato essenziale dell’esistenza umana. Rifiutarla è dunque rifiutare di vivere una vita autenticamente umana.
Nelle religioni la simbologia della morte è onnipresente. Serve a ricordarci sempre che polvere eravamo e che rapidamente polvere diventeremo. (Come scrive il poeta Salvatore Quasimodo: Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera)
Se Heidegger ha il merito di ricordarci che nessuna riflessione autentica può dimenticare la morte od occultarla, tuttavia sarebbe sterile e vano assorbirsi unicamente nella contemplazione della nostra finitezza. Proprio perché siamo finiti e mortali dobbiamo agire perché è solo in questo ambito che riusciamo ad accedere a un mondo dove la morte perde il suo potere. Gli assassini di Socrate sono senza potere sulle idee vere che sosteneva. Le sue, così come le idee per le quali noi Liberi Muratori siamo qui ad impegnarci, sono e sempre saranno, indistruttibili ed eterne. D. B.