Alcuni interrogativi su Pinocchio e sul suo autore
Conferenza tenuta a Collodi venerdì 16 aprile dall’Arcivescovo di Bologna, Cardinale Giacomo Biffi,
Devo molto a Pinocchio. Il mirabile burattino mi ha tra l’altro procurato l’onore inatteso dell’attenzione garbatamente critica di Giovanni Spadolini, il compianto storico e uomo politico che tutti abbiamo stimato.
Per il centenario della morte di Carlo Collodi, all’Archiginnasio di Bologna, avevo svolto un tema abbastanza singolare e per la verità anche un po’ provocatorio: “Pinocchio e la questione italiana”.
A differenza di altri che hanno reagito “a caldo” e senza diretta conoscenza di ciò che avevo detto, Spadolini molto correttamente si era fatto inviare il testo dell’intervento, e dopo qualche settimana ha reso pubbliche le sue considerazioni in un articolo della Stampa di Torino. Quelle argomentazioni sono state poi riproposte in un capitolo del suo ultimo libro (Il mondo frantumato, Milano 1992); un capitolo intitolato: Burattino d’Italia: l’unità secondo Pinocchio, che è tutto dedicato a discutere le mie posizioni.
Senza dubbio la preoccupazione principale di quelle pagine è di contestare una valutazione del Risorgimento che certo egli non poteva condividere. Ma questa è una discussione che non è il caso qui di riprendere.
Spadolini però esprimeva anche contestualmente alcune persuasioni a proposito di Collodi e di Pinocchio, che si possono sintetizzare in cinque punti.
1) Per l’intelligenza della personalità e dell’opera del Lorenzini è fondamentale non dimenticarsi della sua adesione al messaggio politico e alla filosofia di Giuseppe Mazzini. È il suo mondo ideale, anche se bisogna riconoscere che con la partecipazione alle due prime guerre d’indipendenza egli si è poi di fatto adeguato a sostenere l’iniziativa sabauda del Regno Sardo, che risulterà vincente (cfr p. 386).
2) Il pensiero mazziniano è perciò il sostrato teorico dell’inimitabile capolavoro, il quale manifesta il desiderio e la “finalità ideale, tipicamente mazziniana, di una società migliore” (p. 387).
3) Sicché “la morale di Collodi è la morale dei doveri dell’uomo” (ib.), l’opera in cui Mazzini traccia la sua strada verso la rigenerazione dell’umanità.
4) Pinocchio è un libro che annuncia questa “redenzione”: “la redenzione laica di chi si appoggia sulle proprie forze, di chi fa leva sul libero arbitrio, sullo sforzo individuale, sul lavoro” (ib.).
5) Nel lavoro si ravvisa appunto il mezzo salvifico decisivo: “solo il lavoro può difendere l’uomo da tutte le tentazioni e da tutte le perdizioni” (ib.).
Le ragioni delle mie riserve nei confronti dell’analisi spadoliniana emergeranno dal seguito di questa mia conversazione, che intende più che altro richiamare l’attenzione su alcuni interrogativi, ai quali non si è ancora data, mi sembra, una risposta esauriente e persuasiva.
Le questioni essenziali saranno due: una prima che concerne la biografia interiore di Carlo Lorenzini e una seconda che indirettamente tocca l’indole della famosa e impareggiabile fiaba. Ne aggiungerei una terza – e mi scuso di dover discorrere di qualcosa che mi riguarda personalmente – circa la mia “lettura teologica” di Pinocchio.
La questione della “crisi” di Carlo Lorenzini
Ferdinando Martini ha affermato che il Lorenzini “tornò a Firenze dalla guerra nell’agosto del ’48 mazziniano sfegatato”. Che valore possiamo dare a questa notizia?
Nell’infanzia era stato educato da una madre religiosissima. Nell’adolescenza era andato a scuola dai preti, alunno per cinque anni del Seminario di Colle Val d’Elsa. Poi fino a diciotto anni frequenta i corsi di retorica e filosofia dei padri scolopi.
Ma tra il 1845 e il 1848 – mentre è impiegato alla libreria Piatti – ha tempo di assimilare le nuove idee di libertà civile e di indipendenza nazionale. Ed è plausibile che il magistero mazziniano si facesse sentire e apprezzare anche nell’atmosfera un po’ sonnolenta del Granducato.
Sarà anche stato mazziniano, e dunque repubblicano e federalista. Ma nel 1859 prende la divisa del Re di Sardegna e serve la causa annessionistica e unitaria del Governo Piemontese.
Quando poi torna dalla seconda guerra d’indipendenza, il suo mazzinianesimo si è ormai dissolto. Nel 1860 – Pinocchio comincerà a percorrere le vie del mondo più di vent’anni dopo – su La Nazione il Collodi arriva a scrivere: “Tutto è favola in questo mondo, tutto è invenzione, dall’idea di Mazzini all’Ippogrifo dell’Ariosto… Che il cielo mi perdoni, ma l’anarchia regna nello Zodiaco…” (citato da Bruno Traversetti, Introduzione a Collodi, p. 65, Bari 1993).
[È curiosa l’analogia con una frase di Euripide: “Nelle cose divine e nelle umane regna un grande disordine” (Ifigenia fra i Tauri)].
È una confessione sorprendente, e non va trascurata. Se nella prima frase ci rivela lo scolorimento delle sue precedenti convinzioni politiche, la seconda ci dà la misura della sua profonda inquietudine che qui pare raggiungere addirittura una dimensione cosmica e, per così dire, metafisica.
Del resto, facciamo fatica a pensare che tra il padre di Pinocchio e il pensatore ligure potesse istituirsi una consonanza autentica e duratura, tanto i due erano umanamente lontani e diversi; scanzonato e spregiudicato, ma concreto e realistico il primo; serioso, sistematico, intransigente, ma astratto e utopistico l’altro.
Collodi non avrebbe mai scritto un libro intitolato I doveri (e si ha qualche dubbio che potesse mai leggerlo). Il 3 agosto 1860, recensendo la commedia di Pietro Thouar (Dovere), così annotava: “I doveri sono sempre un peso! Ed io, che non sono mai stato troppo appassionato per i pesi né per i doveri, avrei fatto volentieri a meno di sentire per la seconda volta il Dovere e il peso in tre atti del sig. Pietro Thouar” (citato da Renato Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 183).
Ma non era solo la visione mazziniana a diventargli sempre più estranea: un po’ tutte le idee ispiratrici del sommovimento risorgimentale, che pure avevano affascinato seriamente la sua giovinezza, non lo incantano più.
Beninteso, non rinnega niente del suo passato, non diventa affatto un reazionario; ma i risultati della grande impresa, cui aveva fattivamente contribuito, non gli piacciono. Non arriva a essere un nostalgico dell’Ancien Régime, anche se è stato notato che l’ambientazione del suo più famoso racconto sembra essere quella del casalingo e pacioso mondo del Granducato. Forse faceva capolino inconsciamente in lui anche l’insofferenza toscana nel dover ammettere che in fin dei conti l’Italia l’avevano fatta i “buzzurri”. Più profondamente, è deluso della meschinità e della scarsa attenzione all’uomo del nuovo stato; e gli stessi miti dell’illuminismo, perfino l’istruzione obbligatoria per tutti, cadono sotto la sua ironia.
Comunque, a partire dal 1860 il suo malessere è così intenso da trasparire anche all’esterno e da essere percepito da chi gli sta attorno: “Non era più del suo umore di una volta – scrive il nipote Paolo Lorenzini – appariva chiuso, taciturno, malinconico, per quanto avesse sempre pronta la barzelletta e la facezia quando si animava un po’” (citato da E. Petrini in Studi collodiani, p. 486).
È sintomatico che la crisi spirituale e politica del Collodi coincida col suo “ritorno a casa”. A partire proprio dal 1860 egli ricomincia a vivere con la madre, cui rimase sempre attaccatissimo. Angelina morirà solo quattro anni prima del figlio nel 1886 quando già il fatale burattino aveva cominciato la sua fortunata corsa nel mondo.
Non sarebbe il caso di studiare un po’ più da vicino, accantonando gli schematismi ripetuti e convenzionali, la vicenda interiore del Lorenzini? E in che misura la sua lunga “crisi” sta all’origine della sua decisione – nel 1875 con la traduzione dei Contes di Perrault – di dedicarsi a scrivere per i bambini? Forse anche Le avventure di Pinocchio potrebbero ricevere un po’ di luce in più.
Renato Bertacchini ha ben capito la fondatezza e anzi l’ineludibilità della problematica sulla quale ho cercato di attirare l’attenzione. Gli sono grato e gli lascio la parola.
“Le recenti polemiche suscitate dal Cardinale Giacomo Biffi …hanno fatto perdere di vista almeno due punti fondamentali riguardanti la “svolta” collodiana…
“La crisi e il “rifugio” nella cosiddetta letteratura infantile che segnano gli ultimi quindici anni di vita e di lavoro del Lorenzini non sono un fatto soggettivo, ma devono iscriversi oggettivamente nella vicenda storica del Risorgimento, in quanto il padre di Pinocchio era deluso dai miti illuministici (alla base del processo risorgimentale), non meno che degli altri, moderni miti professati dal socialismo, dai quali non fu mai persuaso.
“Fino allora, da pubblicista, il Lorenzini si era rivolto soprattutto “alla classe di quelli che contano, a quanti erano occupati nell’azione politica”; a un certo momento, il suo pessimismo, o meglio “il pessimismo del suo realismo” lo convince dell’inutilità di un simile orientamento. “Egli decide allora di cambiare destinatari e di spendere le sue fatiche non più per gli adulti, non più per i personaggi importanti sì sulla scena pubblica ma ormai ideologicamente fissati e sclerotizzati senza rimedio, bensì per i ragazzi che possiedono un’umanità ancora nativamente fresca aperta alla verità”” (R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 203).
La fortuna dell’opera
Le avventure di Pinocchio costituiscono un fenomeno letterario che a prima vista non è agevole giustificare.
L’Italia unita non ha dato all’umanità nessun’altra opera che, per il successo senza confini e la risonanza in ogni cultura, possa essere paragonata a questa.
Ed è libro nato quasi per caso. Anzi, si ha proprio l’impressione che il libro sia stato anche scritto di malavoglia. Apparso a puntate con scadenze irregolari sul Giornale per i bambini di Ferdinando Martini, non si ha notizia che sia stato preceduto da un disegno accuratamente elaborato e rifinito.
Due volte la pubblicazione è stata interrotta, e la prima addirittura con il proposito di non dare altro seguito alla vicenda.
È difficile immaginare peggiori premesse e condizioni più sfavorevoli alla nascita di un capolavoro.
Eppure Pinocchio si è imposto all’attenzione universale, è stato tradotto in quasi tutte le lingue, continua dopo più di un secolo a provocare dotti commenti e disquisizioni sottili. C’è dunque una evidente e strana sproporzione tra le premesse e gli esiti, che incuriosisce e fa riflettere.
Qual è la ragione di tanta fortuna? La domanda non ha ancora trovato una risposta decisiva e convincente.
Innegabilmente il fascino del libro è dato anche dalla freschezza della lingua, asciutta, essenziale, ma sempre scintillante e briosa. Siamo conquistati tutti, piccoli e grandi, dall’originalità e dalla imprevedibilità della trama. Una fantasia inesauribile sorregge l’intera favola e avvince ineluttabilmente chi si pone in ascolto di questo straordinario narratore.
Ma sono spiegazioni che francamente non ci sembrano sufficienti. Quei pregi si ritrovano, magari in misura minore, in altri scritti collodiani che, fossero rimasti soli, non avrebbero assicurato al Lorenzini molta fama oltre gli ultimi decenni dell’Ottocento e di là da un ambito poco più che regionale. Se quelle pagine ancora ci interessano, è perché sono del padre di Pinocchio.
Tanto meno si può indicare tra le cause della riuscita “cosmica” del racconto il suo messaggio etico e il suo valore educativo.
C’è sì del moralismo facile e convenzionale ne Le avventure di Pinocchio. Ma è precisamente l’aspetto del libro che alla mia giovinezza l’aveva reso uggioso e insopportabile. Per fortuna – e me ne sono poi avveduto – è un moralismo alleggerito e superiormente riscattato dal distacco e dall’ironia dell’autore, il quale (è già stato notato) dimostra più simpatia per il suo sfaticato e trasgressivo protagonista che non per il Grillo parlante (il solo di tutta la storia che poteva forse aver letto I doveri di Giuseppe Mazzini).
C’è anche in quelle pagine, doverosamente, l’esaltazione del lavoro. Ma su questo argomento il Lorenzini si è sempre dimostrato allergico a ogni enfatizzazione e a ogni retorica. Proprio nel 1881 – anno di nascita dell’immortale burattino – a chi si congratulava con lui che aveva raggiunto il giorno bellissimo della pensione, rispondeva: “Potrà essere un bel giorno per chi ha sgobbato cento anni, ma per me, che non ho fatto nulla, è un giorno come tutti gli altri”.
Si sente una certa condivisione e un’attitudine di simpatia nei confronti del suo accuratamente delineato “ragazzo di strada”.
“L’uomo che lavora, dice il ragazzo di strada nella sua arguta ignoranza, non può essere fatto a immagine e somiglianza di Dio: perché Dio lavorò appena sette giorni e sono ormai seimila anni che riposa” (Collodi, Opere, Milano 1995, p. 181).
Penso che il Lorenzini si sarebbe meravigliato – e probabilmente anche divertito – nel sentirsi lodare come il cantore di quella religione del lavoro, “segno distintivo del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo stato italiano” (Spadolini, c.c., p. 387).
Egli del resto si è sempre compiaciuto di presentarsi non solo come uno scrittore ma anche come un lettore che non aveva propensioni pedagogiche prevalenti: io chiamo belli i libri che mi piacciono, e se, oltre a piacermi, si provano anche a volermi istruire, chiudo un occhio e tiro via. All’opposto chiamo brutti i libri che mi annoiano…”.
Come si può risolvere allora questa questione?
La mia ipotesi è che la forza intrinseca e l’attrazione nascosta di Pinocchio stanno nel fatto che vi si raffigura oggettivamente la realtà delle cose come è davanti agli occhi del Creatore, come è stata rivelata dal figlio di Dio, unico Salvatore e unico vero Maestro, come è da sempre offerta alle genti dalla predicazione ecclesiale.
“Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, una carisma profetico più alto della sua militanza politica. Così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo.
“L’ortodossia, che non avrebbe potuto superare con le proprie vesti gli sbarramenti censori della dittatura culturale dell’epoca e della stessa coscienza esplicita dello scrittore, travestita da fiaba eruppe dal profondo dello spirito e risonò apertamente. In quella fiaba gli italiani di istinto riconobbero la loro canzone di sempre e gli uomini di tutti i paesi avvertirono inconsciamente la presenza cifrata di un messaggio universale” (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia, Milano 1998, pp. 16-17).
Legittimità e correttezza di una lettura teologica
È quasi un luogo comune che i massimi libri italiani per l’infanzia – Pinocchio appunto, e il Cuore di De Amicis – siano del tutto areligiosi: non vi compare mai il nome di Dio e meno che meno c’è in essi qualche traccia o qualche flebile eco del culto cristiano.
Possiamo convenirne, anche se nessun collodiano degno di questo nome dovrebbe sentirsi lusingato dall’accostamento.
Non meraviglia perciò che un commento teologico a Le avventure di Pinocchio sia stato accolto, fuori dall’area cattolica, con poco entusiasmo e molta sufficienza, in alcuni casi con qualche fastidio e persino con indignazione.
Si è parlato di “libro parallelo”, e dunque estrinseco, gratuito e arbitrariamente giustapposto a quello del Lorenzini: un’operazione illegittima di annessione di un autore assolutamente “laico” a una “parrocchia” che non era la sua. Insomma, un ennesimo caso di invadenza clericale.
Per la verità, mi ero dato premura di informare i miei eventuali lettori del carattere innocente e pacifico dei miei intendimenti: lungi da me il pensiero – dicevo – “di incolonnare dietro i santi stendardi uno spirito laico e libero come il Collodi” (G. Biffi, o.c., p. 222).
Con giovanile impertinenza avevo anzi dichiarato che il pensiero dell’autore non mi interessava affatto: mi bastava rendermi conto della stupefacente analogia – di più, della perfetta concordanza – tra la struttura oggettiva del racconto e la struttura oggettiva della visione di fede.
Confessavo di essere stato ammaliato e divertito dal “gioco del Padre che si compiace di caricare del suo messaggio le parole più disparate, anche quelle che a un primo esame sembrerebbero disadatte o lontane” (o.c. p. 223). Che se il Lorenzini fosse stato ateo – scrivevo – “il gioco mi sarebbe piaciuto anche di più, perché sarebbe apparso più scintillante l’umorismo di Dio” (ib).
Il problema è dunque uno solo: quello di appurare la fondatezza di quella “analogia” e di quella “concordanza” di cui si parlava. Il volume da me pubblicato non mira ad altro.
Non potendo qui infliggere l’esposizione analitica dell’intero suo contenuto, mi limiterò a indicare gli elementi più rilevanti e, a mio parere, meno contestabili.
- La prima corrispondenza che si impone riguarda la concezione della storia del mondo e dell’uomo.
Nell’Orlando Furioso – cui Pinocchio è stato giustamente paragonato per la felice arbitrarietà degli accadimenti e l’indole quasi marionettistica dei personaggi – la vicenda non ha un inizio necessario né una fine obbligata: il poema potrebbe cominciare e concludersi in qualsivoglia punto, senza che l’economia generale dell’opera ne risulti alterata. È la visione del paganesimo greco: la storia è una interminabile tela di Penelope. Qui invece c’è un avvio (creazione e fuga dal creatore) che è la premessa indispensabile e il senso di tutto ciò che poi avviene: c’è lo sviluppo di un dramma in cui si determina la scelta tra due opposti destini (quello di Pinocchio e quello di Lucignolo); c’è una “escatologia” conclusiva (ritorno al Padre e trasnaturazione). Vale a dire, qui c’è esattamente la prospettiva cristiana. - Pinocchio all’origine non è “generato”, è “costruito”: c’è dunque una eterogeneità di natura col “costruttore”. Ma il “costruttore” lo chiama subito “figlio”. Il Creatore misteriosamente vuol essere anche “padre”, in questo modo viene immessa nella creatura l’aspirazione a oltrepassare l’alterità e a elevarsi ontologicamente.
È la verità della “vocazione soprannaturale”: colui che è stato fatto dal niente è destinato a partecipare nella vita di grazia alla natura divina.
- La nostra libertà è una libertà ferita. Pinocchio in tutte le occasioni capisce sempre qual è la cosa giusta da fare e la vorrebbe, ma sceglie infallibilmente la cosa sbagliata.
È l’incapacità dell’uomo a operare secondo giustizia in virtù del solo libero arbitrio, come è denunciata da san Paolo: “Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (Rm 7, 29). - La drammaticità della nostra condizione è accresciuta per la presenza attiva di forze estranee che spingono al male. Esse sono raffigurate primariamente dal Gatto e la Volpe, ma raggiungono la migliore e più efficace rappresentazione nell’Omino, corruttore mellifluo che conduce i ragazzi al Paese dei Balocchi.
Non c’è in tutta la letteratura della cristianità immagine del demonio più intelligentemente effigiata. Tenero in apparenza, perfido nella realtà, è il nostro insonne nemico: “Tutti la notte dormono, e io non dormo mai” (Pinocchio c. 1).
- L’ideologia illuministica aveva diffuso l’orgogliosa affermazione di una possibile “autoredenzione” dell’uomo. Ebbene, tutta la seconda parte di questo libro (dal capitolo 16 alla fine) parrebbe costruita proprio per smentire questa che è l’illusione dominante della nostra cultura. Pinocchio, interiormente svigorito, esteriormente insidiato da esseri maligni più astuti di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza nonostante la sincerità dei suoi sforzi, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo al padre, di riportarlo a casa, di dargli una nuova natura.
Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini manifesta appunto questa necessaria mediazione salvifica, che secondo la fede è svolta dal Figlio di Dio fatto uomo, il quale prolunga la sua azione nella storia per mezzo della Chiesa.
Non mi resta allora che rivendicare l’intemerata correttezza metodologica della mia lettura.
A darne una giusta valutazione, il pensiero personale del Lorenzini, le idee diffuse nella società in cui viveva, la cultura all’epoca dominante, non vanno chiamate in causa. Il nocciolo del problema si riduce ad accertare se ci sia o non ci sia questa sorprendente correlazione tra il racconto collodiano, come è in se stesso a prescindere dagli intenti dell’estensore, e la storia della salvezza, come è contenuta e proclamata nell’annuncio evangelico.
Né gli studiosi della vita e delle opere del Collodi né i critici letterari né gli indagatori del nostro Ottocento, propriamente parlando, hanno a questo proposito qualcosa da dire. Competente a giudicare se la struttura oggettiva di una narrazione sia o no conforme alla struttura oggettiva della verità rivelata è il teologo e, in ultima analisi, il magistero della Chiesa.
Senza dubbio, questo modo di accostarsi a Pinocchio abbastanza spregiudicato e divertito non è esente da un certo gusto di cantare fuori dal coro.
Ma proprio per questo – se non mi illudo – non è troppo lontano dallo stile e dall’estro del Collodi. Se è presunzione, posso ancora sperare nella misericordia del Signore e nella vostra.