MASTRO COLLODI, MASTRO PINOCCHIO

MASTROCOLLODI, MASTROPINOCCHIO

di Gabriele Duma

Le avventure di Pinocchio visto da

Enrico Mazzanti, Firenze,

Hanno un suono alcuni scritti, alcune opere letterarie, che già solo contiene tutto il senso che decenni, secoli di lettori d’ogni genere potrà, tempo per tempo sfogliare.

Quel suono è maestro di visioni, significati e con­traddizioni utili alla coscienza, prima che alla co­noscenza. È probabilmente, lo dico con l’entusiasmo del fruitore, senza pretesa scientifica, la caratteristica dei classici, dei capolavori che non tramontano, che restano, per dirla con Eco, opere aperte in cui il beneficiario si specchia e cui ag­giunge nuovo senso ad ogni incontro.

Un testo che ad ogni occasione mi conferma in questa considerazione è Le avventure di Pinocchio di Collodi.

Certo sarebbe giusto scrivere di Carlo Lorenzini anche a prescindere dal suo capolavoro. Sarebbe corretto raccontare di quell’uomo, che le biografie rivelano intellettuale, beffardo scrittore formatosi  fra la strada, il seminario e la prima libreria in cui lavorò come commesso; di quel giovane soldato dell’esercito toscano nelle guerre italiane d’indi­pendenza; del patriota attivo, che si avvia alla car­riera di scrittore come giornalista satirico sul giornale La Lanterna; che scrive di musica, di tea­tro, e che dalla metà degli anni ’70 dell’ottocento, forse fedele al motto valevole tuttora, che fatta  l’Italia restava da fare gli italiani, dedicò poi la sua penna quasi esclusivamente all’infanzia e alla gio­ventù, anche esibendo una certa indolenza col dire che “gli adulti sono troppo difficili da acconten­tare”. Sarebbe corretto, molto interessante, per una volta dribblare il capolavoro e osservare diretta­mente l’artigiano che lo produsse, ma non lo farò. Non riesco, non ancora a parlare di Collodi senza idealmente scorrere Le Avventure di Pinocchio. È troppo viva ed efficace la suggestione di quella fa­bulazione che con semplicità e una immediatezza da vernacolo, apre vedute sull’anima al pari di Dante o di Shakespeare. “Quando tu non cono­scevi nemmeno ciò che pensavi, e mugolavi come una bestia, io ho dato ai tuoi intenti parole per far­teli conoscere…” dice nella Tempesta, Prospero al suo Caliban. Potrà sembrare un azzardo, ma qual­cosa risuona fra quei due selvatici che, ognuno a suo modo, sperimentando la disobbedienza al padre, e guidati da una volontà magica e materna che loro malgrado li comprende, si avviano ad attraversare buffonerie grottesche e molte angosce, per realizzare, o almeno intuire il proprio umana­mento.

La sorprendente coniugazione di profondità e leg­gerezza, il gioco di luce e ombra, di giubilo e se­rietà fanno de Le avventure di Pinocchio un testo importante vestito di semplicità, vestito di carta e col cappello di pane come il burattino di cui narra. Un testo che invita, soprattutto chi fa parte del­l’Istituzione massonica, a considerare l’arguta ric­chezza del gioco di simboli che gli dà materia, quale prova inequivocabile dell’appartenenza di Carlo Collodi alla Massoneria. Collodi fu ed è Maestro, i cui insegnamenti, segreti perché intimi, ossia pertinenti alla sfera interiore, continuano a raggiungere e sollecitare l’umanità con indubbia serietà, senno, benefizio e giubilo. Persone ed eventi sono ben di più dei pensieri e delle ragioni che li hanno formati, e se pure ha una sua impor­tanza ricercare le ragioni nella storia (ossia le prove), le ragioni della storia sono quelle che pre­valgono e si rinnovano, sopravvivono alle contin­genze originarie.

Essere maestri non è solo la conseguenza di una semplice abilitazione. Maestri si diventa quando qualcuno ti sceglie e ti riconosce come tale, collo­candoti nella scomoda posizione di chi per tra­smettere conoscenza ha il difficile dovere di disobbedire alle aspettative. A guardarli i grandi maestri della storia, sembrano uomini impegnati a contrabbandare il sapere più che a predicarlo,  dispensando inciampi per promuovere il cam­mino. Insomma saggi o idioti, a seconda della luce con cui li si guarda, che più o meno deliberata­mente, dissimulano la mole di ciò che hanno com­preso, perché non ingombri o scoraggi il viaggio di chi punta il piede nel loro orto per andare al­trove. Dunque un burattino, votato a superare il suo essere burattino, può essere maestro d’arte, reale.

Un maestro, come l’opera che produce, non porta contenuti finiti e risolti una volta per tutte, rac­conta perfezioni e semina dubbi e disagi utili ad attraversare l’avventura, che una volta cominciata non ti lascia più, mai più tornare come prima.

Così Mastro Collodi e Mastro Pinocchio, accom­pagnano schiere di lettori innanzi a bivi, a di­lemmi irrisolvibili. Diventare uomini è prima di tutto convivere con quei dilemmi, è attraversare in qualche modo quei crocicchi: chi è il padre Geppetto? La madre maga? Il mondo degli adulti è così “illuminato“ da desiderare di farne  parte?  La giustizia umana da cui è bene guardarsi, le au­torità terrene di cui è meglio diffidare, la povertà materiale, il Gatto e la Volpe e Mangiafuoco e la morte, che ruolo interpretano in quella messa inscena che Carmelo Bene definì lo spettacolo della provvidenza?

Domande… a cui i millenni non forniranno mai risposte definitive e a cui però possono essere date risposte parziali di grande fascino e utilità.

Nel 1992, in un saggio edito da Adelphi, Elemire  Zolla include il Pinocchio di Collodi in una per­sonale lista di occasioni date all’umanità che inti­tola “Uscite dal mondo”, e ce lo racconta come “un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intol­lerabile”, perché “un bambino che legga con tutto il cuore questo libro ne esce trasformato.” Nel suo libro Zolla raccoglie una serie di percorsi che comin­ciano in luoghi e tempi lontani, o con incontri let­terari, e conducono “fuori dallo spazio che hanno incurvato su di noi secoli e secoli, …fuori dal determini­smo dello spazio e del tempo, dall’egocentrismo, dai doveri sociali” in un luogo improvvisamente libero e da sempre aperto a chi sappia percepirlo. Una sorta di quarta dimensione che può arricchire ogni no­stra esperienza.

Scrive Zolla: “In molte tradizioni è di prammatica esporre gli archetipi supremi in forma domestica, puerile. È questa la formula che ne garantisce la conservazione più sicura, ne affida la custodia ai vecchi e ai bambini.”

Custodi della tradizione si fanno dunque quelle voci che nell’intimità si parlano, si sussurrano, si prendono cura, tramandano qualcosa che tra­scende le loro stesse parole. È la tradizione che si sostanzia in calore e vicinanza, in occhi che si guardano, si accolgono e si lanciano, con la luce del passato, attraverso il buio che porta al futuro.

La semplicità di quella relazione fra chi dice e chi ascolta una fiaba, relazione fondamentale del me­todo lato mistico, è la porta blindata al regno della filosofia perenne, blindata perché, come continua Zolla, “la superbia intellettuale è ostacolo principale di­nanzi all’entrata nel regno degli archetipi. …Passeranno oltre i superbi. O faranno mostra del loro vezzo preferito, sociologico o psicoanalitico che sia, accanendosi sulla mo­ralità borghesotta che a loro parrà l’essenza dell’intratte­nimento. …Resterà il pubblico degli innocenti. Gli unici ai quali valga la pena di schiudere i misteri.”

Resteranno gli apprendisti veri, desiderosi e pronti al viaggio. È qui che Zolla azzarda qualche traduzione del racconto. Questo “travestimento della sapienza nella più modesta tra le forme è, esso stesso, un archetipo fra i maggiori. In verità è nientemeno che l’archetipo stesso dell’Incarnazione.” Sfila, così, come in un familiare gioco fra nonno e nipote, o fra fi­glio e genitore, o tra fratelli, una lunga e meravi­gliosa teoria di immagini potenti. Ne riporto, con le parole di Elemire Zolla, una sintesi, che mi pare proficuo meditare senza nulla aggiungere. “Le fi­gure eterne sono in buona parte presenti in Pinocchio. Quella del burattino simbolico innanzitutto. Quella della donna beatificante o Vergine Sapienza: la fatina collo­di ana continua la tradizione di Beatrice e di Laura con sommo onore. Quella degli aiutanti e degli avversari so­prannaturali che accompagnano o ostacolano il cammino dell’iniziazione. Quella del prologo nei cieli. Il demiurgo in molte tradizioni è un falegname e marionetta io. …L’archetipo della morte” e della rinascita, “nella forma simbolica d’un inghiottimento nel ventre della balena o nelle sofferenze asinine o nel serpente verde che atterri­sce… E, dopo l’iniziatica morte,…Non può Pinocchio  sfuggire alle classiche prove dell’acqua col naufragio, del fuoco presso il pescatore, dell’aria durante il volo del co­lombo o Spirito.…Non credo si trovi un episodio del Pi­nocchio che non si possa rintracciare in quel curioso mondo che è l’iconografia alchemica…”, conclude Zolla.

Sappiamo bene che questo non vuole assoluta­mente dire che tale corrispondenza rispecchi le in­tenzioni di Mastro Collodi, ma dice altre sì certamente, che Mastro Pinocchio, forse a prescin­dere dalla volontà della generosa penna che gli ha dato vita, ce ne offre, in un eccellente atto di di­sobbedienza, tutta la possibilità! Zolla continua:

“Il campo di cui favoleggiano il gatto e la volpe? Che Col­lodi chiama proprio il ‘campo benedetto’ o ‘campo dei mi­racoli’? Lo troverete nel Mutus liber, il capo lavoro dell’alchimia secentesca francese. Pinocchio non è soltanto una rassegna di figure squisitamente ed esotericamente simboliche, contiene suggerimenti sottili su come si opera  per liberarsi da se stessi, dalla propria natura di burat­tini… per rompere i propri limiti. Il primo suggerimento  è frequentare i morti”, che mi piace interpretare coma  ‘memoria’, passaggio nel senza-tempo. Collodi mo­stra come per ottenerla si deve rinunciare a ogni fede nelle istituzioni umane, liberarsi interamente dalla illusione della giustizia…”

Illusione di giustizia che si fa essa stessa prigione per l’uomo-burattino preoccupato di imporre la propria idea di verità. Con Mastro Collodi e Ma­stro Pinocchio siamo al fatidico bivio fra l’aver ra­gione e l’essere felici, direzioni inconciliabili.

“… Chi non ha bisogno di una parvenza, d’una speranza di giustizia? Chi non perde il suo tempo a dimostrare, a se stesso soprattutto, di aver ragione, di essere nel giusto? …Collodi ci mostra come si fa a insegnarlo… perfino ai bam­bini… che a denunciare i ladri è naturale che si finisca in galera e quanto più si è nel giusto tanto più ci si rimanga… e se si vuole un condono è meglio farsi passare per criminali”.

E così si procede, di mistero in mistero, fino al mo­mento in cui l’Essere celato nel burattino-asino, l’Uomo, si realizza.

Lascio Zolla e la sua ricchissima lettura, alla cu­riosità e all’interesse di chi vorrà approfondire. Torno all’originale con la sensazione che davvero, più che un testo  concluso, Le avventure di Pinocchio siano una finestra sull’infinito, una occasione per ognuno di rimeditare il personale cammino, di trarre frutto dalla memoria del percorso, dalla piena coscienza di ciò che si è stati, dal leggere le cicatrici per riconoscersi umani, e scongiurare l’oblio, la consolante rimozione che trasforme­rebbe l’automa di legno in automa in pelle e ossa, essere ben più pericoloso al mondo, della ricono­scibile marionetta.

—E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?—Eccolo là —rispose Geppetto: e gli accennò un grosso bu­rattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocic­chiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima com­piacenza: — Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino per­bene!…—

In conclusione se, come Gibran ha scritto, buon maestro è colui che non invita ad entrare nella di­mora del suo sapere, ma guida ognuno alla soglia della propria mente, Collodi e Pinocchio ne pos­siedono a buon diritto tutta la qualità.

DA MASSONICAmente  n. 17/2020

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