QUANDO LA TECNICA È SENZA EMOZIONE …

QUANDO LA TECNICA È SENZA EMOZIONE …

NON C’È PIÙ TEMPO PER L’UOMO … (!?)

di Salvatore Sansone  Avvocato

Con la velocita con la quale consumiamo gli straordinari strumenti di comunicazione di cui disponiamo senza limite, ho la sensazione di un sopravvalutato, diffuso impegno diretto a valutare gli effetti e l’impatto dei cosiddetti “social networks” sulle nostre abitudini, sul nostro lavoro, sulla nostra vita … trascurando invece una riflessione più ampia, e ritengo più profonda, sulle origini del fenomeno e quindi sulla tecnica.

Oggi lo spazio per comunicare e rapidissimo, virtualmente infinito; riuscire a contenere i messaggi e i pensieri e una grande sfida. E infatti a dispetto di questa gamma infinita di opportunità, uno dei sistemi di comunicazione più diffusi, il cosiddetto “cinguettio” di Twitter consente

solo 140 caratteri, tutto compreso … anche gli spazi!

Riuscire a sintetizzare un pensiero in 140 caratteri, senza banalizzarlo e senza spogliarlo delle giuste sfumature rappresenta un eccellente esercizio mentale, linguistico e analitico: e una nuova tecnica di comunicazione. La presenza di vincoli riesce a tirare fuori la creatività che è nell’utente, non a caso Twitter e costantemente percorsa da invenzioni, mode e nuovi giochi: tutto in 140 caratteri.

Partendo da queste nuove poderose tecniche di comunicazione è interessante, ritengo, proporre una riflessione su quanto strumenti cosi sconvolgenti e incidenti sulle nostre abitudini e sulle nostre vite, influenzino il nostro modo di sentire e agire etico. Nonché sul ruolo che l’uomo deve interpretare in tale contesto per una revisione del suo spazio di libertà e indipendenza.

Un mondo che si autocelebra come globalizzato e che grazie alla tecnica abbatte tutte le frontiere di circolazione delle idee e degli uomini, ha certamente bisogno di una riflessione sull’influenza che tutte queste novità trasferiscono nel nostro quotidiano. In questa ricerca, una riflessione sulla tecnica e certamente il punto di partenza.

Il problema della tecnica non è un problema tra gli altri, sia pure importante, delle riflessioni del Novecento, ma è il tema dominante, perlopiù esplicito ma presente anche là dove non appare, di tutta la riflessione e della cultura del secolo (G. Vattimo nella presentazione di Pensare la tecnica. Un secolo d’incomprensioni di M. Nacci)

La tecnica è una esplicazione del nostro essere uomini. E’ con la tecnica che risolviamo il nostro bisogno di sopravvivenza e benessere; e il riflesso della volontà di potenza. L’uomo sa che deve morire: con la tecnica egli risolve il proprio desiderio di vincere il tempo.

Se così è, non è possibile dichiarare quasi compiacendosene, come spesso accade, la propria incapacità “tecnica”; la propria “vezzosa” rinunzia a coltivare una rapporto profondo e coinvolto con la tecnica e la tecnologia. La tecnica e il nostro modo di essere, il nostro modo di esplicarci, di vivere e sopravvivere … non possiamo rinunziarvi, o peggio, non possiamo “delegarla”. Oggi, nella complessità dei rapporti del nostro mondo, sarebbe come chiedere ad altri di vivere per noi.

La tecnica è espressione della nostra natura, del nostro essere uomini.

Con questa consapevolezza, abbiamo bisogno di una maturità che ci consenta di vivere e usare la tecnica come concreta espressione delle nostre emozioni, come modo di tradurre i nostri sentimenti.

Ecco allora la domanda: in un mondo dominato da un malinteso senso della tecnica; da uno “snaturato” e totalizzante sviluppo tecnico, “C’e ancora tempo per l’Uomo?”; C’e tempo per una visione della vita che comprenda ancora l’emozione, il sentimento … lo spirito? C’è modo di vivere la tecnica in un profondo rapporto emozionale?

Oppure dobbiamo subire una idea di tecnologia totalizzante, inevitabile, invasiva e invadente, snaturata ed estranea all’uomo ?

Qualche recente lettura mi ha consentito di raffrontare proprio su questo tema il pensiero di due filosofi del XX secolo, il tedesco Oswald Spengler e lo spagnolo Jose Ortega y Gasset. Entrambi rappresentano

un importante punto di riferimento per chi intenda approfondire la riflessione filosofica sulla tecnica .

Nel 1931 O. Spengler pubblica un testo concepito originariamente come conferenza che tenne in un posto personalmente a me molto caro: il Deutsches Museum di Monaco di Baviera (conferenza tenuta il 6 maggio 1931, sul tema relazione tra cultura e tecnica”).

Per capire l’essenza della tecnica, non si deve partire dalla tecnica meccanica […]. Solo partendo dall’Anima si può trovare il valore della tecnica. Perché la vita degli animali è lotta e niente altro, è la tattica di vita, la superiorità o inferiorità nei confronti degli altri è ciò che determina la Storia di quella vita, che decide se essa sia destinata a subire la Storia

di altri o a essere la Storia per altri. La tecnica e la tattica della vita intera. (da L’uomo e la tecnica. Ascesa e declino della società delle macchine, O. Spengler, 1931) Spengler propone una dimensione “intimamente profonda” della tecnica nella quale il coinvolgimento emotivo svolge un ruolo di altrettanto vigoroso contributo.

Il sentimento, le emozioni sono parte del bagaglio tecnico che ci fa vivere.

Eppure, oggi, e difficile parlare di sentimento, di emozione. In un’epoca dove sembra che tutto sia concesso e dove i principi di riferimento della morale, della religione e della politica hanno diminuito il loro potere normativo, c’è una certa ritrosia a valorizzare le emozioni, i sentimenti.

Sembra che provare emozioni e trasferirle faccia perdere autorevolezza alla propria tesi, alla propria visione o proposta di soluzione di un problema.

Chi prova sentimento e coinvolge l’emozione nella propria azione, appare come un sognatore. Più uso a seguire le circonvoluzioni, poco intellettuali, del suo spirito che le leggi della scienza. Egli appare come un inutile interlocutore, un “folle” che viola i principi del razionale.

Eppure non dovrebbe essere così! Il tema non e nuovo.

Nella nostra società le emozioni in generale vengono scoraggiate. Benché senza dubbio il pensiero creativo – come ogni altra attività creativa – sia inseparabilmente legato ad emozioni, e diventato un ideale pensare e vivere senza emozioni. Essere “emotivo” è diventato sinonimo di instabile e squilibrato. Nell’accettare questa regola, l’individuo si è molto indebolito; il suo pensiero si è impoverito e appiattito. D’altro canto le emozioni non potendo essere completamente eliminate, debbono avere una esistenza totalmente separata dall’aspetto intellettuale della personalità. (E. Fromm, Fuga dalla Liberta)

Tutta la nostra cultura occidentale è pervasa dall’idea che le emozioni vadano controllate dalla ragione affinché non interferiscano con il retto comportamento.

Eppure le emozioni sono parte essenziale della tecnica. Già Aristotele nella sua Poetica analizza le emozioni come condizioni indispensabili della ricerca di benessere e interazione sociale, quindi parte essenziale

della nostra azione di sopravvivenza. Le emozioni sono interpretazioni

del mondo e modalità nell’abitarlo.

E allora, se è il sentimento che conferisce  anima alla tecnica, intesa come parte essenziale del nostro riflesso di volontà di potenza: perché la nostra emozione oggi non ha quel riconoscimento che le spetta ossia di centralità nel ruolo che da essenza alla tecnica? Perché l’emozione non è ritenuta parte importante della conoscenza? Giambattista Vico nella sua Scienza Nuova rivela ciò che l’Uomo può conoscere.

Vico fu consapevole che l’io non può conoscere altro che se stesso e la propria specie attraverso la memoria storica. Questa e l’unica conoscenza possibile: quella intrisa di ciò che l’Uomo sente e crea. Ogni altro tipo di conoscenza è arbitraria perché avviene al di fuori della propria esperienza, con la sola eccezione della matematica, la scienza dei numeri creati dalla nostra mente.

Quindi anche per Vico l’emozione è parte essenziale della conoscenza(!).

Ma ritorniamo al confronto Spengler – Jose  Ortega y Gasset: nella sua opera la Ribellione delle masse, Jose Ortega y Gasset ripropone sostanzialmente la stessa visione di Spengler circa i temi della rilevanza della tecnica e della sua emotiva profondità quale espressione della volontà di potenza dell’Uomo.

La differenza tra i due sta nel fatto che la visione di Spengler è ispirata da un determinismo pessimista dove la tecnica è espressione del declino dell’uomo. Per Ortegay Gasset invece la tecnica è certamente un pericolo ma anche una opportunità.

La tecnica è una forma vuota che può essere riempita di disperazione e stupidita come di sogni di benessere e giustizia.

Da tali presupposti muove e si arricchisce la nostra riflessione. L’uomo nel suo evolversi e nel suo esplicarsi ha sviluppato e alimenta una tecnologia che risponde ad ideali di sé ed a progetti di vita che dipendono per una parte da processi interiori e per un’altra da condizionamenti esterni posti e dipendenti dalla cultura in cui egli vive: fatta da modelli e ideali di vita.

Quando in questi modelli condizionanti prevale la mancanza di rapporto profondo con gli intimi bisogni naturali e gli stessi sono manipolati e strumentalizzati a solo fine di profitto, si sviluppa una tecnologia aggressiva, improntata allo spreco, alla distruzione, al depauperamento delle risorse ambientali. La tecnica e la tecnologia sono allora “snaturate” ed assoggettano l’uomo rendendolo angosciato, solo, alienato, incapace di prevalere sugli strumenti tecnici.

Sarà una tecnologia avulsa dalla naturale esplicazione dei bisogni umani, svuotata da ogni coinvolgimento emotivo e spirituale: protagonista per se e non per il bene che produce.

Da questo squilibrio, nasce il bisogno di ritrovarsi.

Un breve scritto, Non c’è tempo per l’Uomo. Una discesa nel maelstrom della tecnica (edizioni La Zisa), di un giovane filosofo siciliano, Pietro Piro, propone in proposito una bella riflessione.

Il bisogno oggi, osserva Piro, è proprio di ritrovare una dimensione nella quale l’uomo riconquisti il valore guida delle componenti emozionali e spirituali del suo modo di essere ed esplicarsi, che ritrovi in sostanza “un suo tempo”, un tempo che permetta di ristabilire un rapporto profondo con se stessi per evitare di cadere nel vortice di ideali senza principi e valori, di piaceri senza desiderio, di bisogni senza necessità.

Su tali premesse è insulso l’atteggiamento di un preconcetto e aprioristico rifiuto della tecnica: una ostilità dichiarata ma perdente che non scalfisce e di cui non resta traccia.

Abbiamo il bisogno di divenire tecnorealisti. Abbiamo bisogno di comprendere l’intrinseca necessita e il valore della tecnica ma con la coscienza critica di chi è in condizione di servirsene con liberta e convenienza e non di servirla e di esserne soggetto.

Come osserva il Prof. Giacomo Pezzano dell’Università di Torino (cfr. G. Pezzano, Oltre la tecno-fobia/mania: prospettive di “tecno-realismo” a partire dall’antropologia filosofica, in Etica & Politica / Ethics & Politics,

XIV, 2012, 1, pp. 125-173):

E necessario superare tanto un’apocalittica tecno-fobia, quanto una infantile tecno-mania. Dobbiamo avere il coraggio di considerare per intero il processo che ha portato all’attuale fase dello sviluppo tecnologico con tutti i suoi aspetti positivi e negativi e scegliere una forma organizzativa politica e sociale che riesca a coniugare insieme diritti civili, rispetto per l’ambiente e innovazione tecnologica. Una forma integrata

Alzando il livello e il contesto di riferimento della riflessione, ci accorgiamo che occorre allora analizzare il ruolo delle tecnologie nella società̀ complessa.

È necessario avere una consapevole cognizione delle dinamiche dello sviluppo tecnologico ed accettandole, accompagnarle ad una profonda riflessione sull’uomo, la società̀ e sulla sua organizzazione.

Le nuove tecnologie, per es. quelle dell’informazione e della comunicazione, influenzano e condizionano enormemente il mondo del lavoro, l’opinione pubblica e, in misura crescente, le relazioni private. Esse minacciano la qualità̀ del lavoro, la formazione della volontà̀, la nostra libertà critica e di proposta; ovunque vengano impiegate unilateralmente per favorire interessi di profitto o di potere,  ne favoriscono e rafforzano le spinte alla manipolazione ed alla strumentalizzazione.

Per bilanciare il concreto pericolo di un utilizzo degenerato della tecnica e della tecnologia finalizzati unicamente all’interesse e al profitto, occorre, come conclude il Prof. Piro, rimettere al centro di tutto l’uomo: un uomo fatto di spirito ed emozione, consapevole della necessita di uno sviluppo armonico di tutte le componenti. Capace di comprendere la centralità della tecnica ma sia nella condizione di usarla, controllarla e non subirla … Certo tra gli esempi che la realtà oggi comunemente ci propone, non è facile trovare conforto. Il mondo è complesso, le nostre

relazioni sono complesse e condizionate da una concezione e un uso irrazionale della tecnica: è una tecnica che favorisce l’egoismo, il protagonismo, un’annoiata ignoranza.

Lo sforzo, credo, debba allora essere rivolto alla ricerca di un rimedio per equilibrare l’affermazione e il consolidamento di una crescita e di uno sviluppo tecnico privi di “emozione”, di spiritualità. Abbiamo bisogno di pensare, lavorare, poetare, amare, vivere … usando la tecnica e non subendola.

Abbiamo bisogno di recuperare lo spazio naturale che ci è dovuto: il tempo dell’uomo.

Un tempo senza paure e senza angosce. Un tempo che dipende solamente da noi e dalle nostre scelte.

Dovremmo restituire valore alle attività improduttive e irrazionali come la meditazione, la preghiera, il gioco, il girovagare.

Avere il coraggio di stupirsi e di meravigliarsi.

“Non abbiate paura di provare e manifestare tenerezza” ha detto recentemente papa Francesco …

Non abbiamo bisogno di approntare cambiamenti radicali: abbiamo bisogno di predispone l’uomo all’ascolto profondo del Cosmo e della sua coscienza. In questa prospettiva, speranzosa e luminosa, si colloca lo sviluppo della tecnica di cui abbiamo bisogno e che rispetta e valorizza

il tempo dell’uomo. (da Non c’è tempo per l’Uomo. Una discesa nel maelstrom della tecnica, di Pietro Piro)

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