“La nostra psiche
è costituita in armonia con la struttura dell’universo,
e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente
negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell’anima”.
“Colui che conosce gli altri è sapiente; colui che conosce se stesso è illuminato. Colui che vince un altro è potente; colui che vince se stesso è superiore”.
Lao-Tzû (IV o nel V secolo A.C.)
Un saggio disse ai suoi discepoli: “spiegate questo mio gesto!” e gettò a terra il suo bastone. Quelli andarono e tornarono da lui con mille spiegazioni, ma nessuno lo accontentò. I discepoli perplessi gli chiesero quale fosse allora la vera interpretazione: il saggio prese il suo bastone e di nuovo lo gettò a terra.
Anonimo
“Non vi è nulla di
nascosto che non debba essere rivelato.
Né cosa segreta che non venga alla luce”.
Matteo, cap. X, v. 26 – Marco, cap. IV, v. 22
Luca, cap. VIII, v. 17 – cap. XII, v. 2
“È mondanità
quando si abbandona il mondo,
ma interiormente si è parte di quel mondo di invidia, cupidigia, paura;
si accetta l’autorità e la divisione fra colui che sa e colui che non sa”.
“Sulle ginocchia
dei genitori eri un neonato che piangeva,
mentre tutti intorno a te sorridevano.
Vivi, dunque, affinché scivolando nel tuo ultimo lungo sonno,
tu possa sorridere mentre tutti intorno a te piangeranno”.
“La scienza ha
radici nell’immanente,
ma porta l’uomo verso il trascendente”.
Papa Giovanni
Paolo II
Frase incisa sul lucernario della
Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri in Roma “Fa che i miei
occhi vedano sempre il rosso e il viola dei tramonti.
Rendimi saggio, così che io possa conoscere le cose
che tu hai insegnato alla mia gente,
i misteri che hai nascosto in ogni foglia e in ogni roccia.
Fa che io sia sempre pronto a venire a Te
con le mani pulite e a testa alta,
in modo che quando la vita svanirà come svanisce il tramonto,
il mio Spirito possa raggiungerti senza vergogna”
Tom White Cloud –
Ojibway “Il calunniatore è simile all’uomo che getta polvere contro un
altro
quando il vento è contrario;
la polvere non fa che ricadere addosso a colui che l’ha gettata.
L’uomo virtuoso non può essere leso e il dolore che l’altro vorrebbe
infliggere, ricade su lui stesso”.
L’Agape rituale costituisce una vera e
propria Operazione Iniziatica la cui tecnica consiste nel trasmutare, “in
compagnia” (da cum pane), il cibo materiale in “Cibo
Spirituale”. E’ quindi necessario impiegare tutte le proprie facoltà
affinché tale operazione conduca alla Realizzazione voluta. Pertanto si
raccomanda di:
1-
lasciare fuori dal luogo d’Agape ogni cura profana;
2-
entrare nel luogo d’Agape in abito scuro, con le insegne massoniche del grado,
in dignitoso silenzio (l’entrata sarà regolata dal Maestro delle Cerimonie);
3-
osservare, durante i lavori, il migliore raccoglimento possibile (qualora si
voglia parlare o commentare col vicino, lo si faccia sommessamente), compiere
quanto è necessario per raggiungere il massimo della serenità interiore;
4-
non essere frettolosi nella “consumazione” dei cibi e trovare il
“ritmo” con i Fratelli;
5-
impiegare tutte le facoltà nella penetrazione del Rito, onde parteciparne attivamente
; al riguardo si raccomanda particolarmente di concentrarsi su quanto esporranno
il Maestro Venerabile ed il Fr. Oratore;
6-
riservarsi di parlare costruttivamente quando sarà concessa la parola,
preventivamente richiesta al proprio Sorvegliante;
7-
uscire dal luogo d’Agape in dignitoso silenzio, secondo l’ordine che verrà
regolato alla fine dei lavori;
8-
dopo la fine dei lavori, sistemare con ordine gli Arredi, gli Strumenti e gli
indumenti rituali;
9-
infine, dopo aver riordinato tutto, sostare con i Fratelli in letizia. Questo
“sostare in letizia” è di fondamentale importanza, poiché in questo
momento avviene la “digestione” di tutto il lavoro di cibi per
l’Agape Rituale
1.
Pane azzimo
2.
Vino rosso d’uva
3.
Uova non gallate, cotte in 5′
4.
Verdure e ortaggi di stagione, freschi, e olive verdi
5.
Agnello cotto arrosto su carboni di legna
6.
Frutta fresca di stagione e frutta secca
7.
Acqua di fonte.
–
Tutti i cibi e le bevande saranno serviti dai FF. Serventi (gli Apprendisti più
giovani).
–
Durante il Rituale va messo pochissimo cibo nel piatto.
–
Solo dopo, quando la Loggia sarà in libertà, si consumeranno i cibi più
copiosamente, seppure moderatamente.
–
Saranno intercalati brani musicali prescelti e/o letture del Fr. Oratore,
predisposte opportunamente.
–
La tavola d’Agape deve essere approntata in ogni dettaglio, prima dell’ingresso
dei Fratelli;
–
Saranno stati predisposti i candelieri, il libro sacro, la squadra e il
compasso, il Testimonio, il braciere, la Menorah, il bruciaprofumi con i
carboncini e le resine (Incenso e Mastice) preparate dal Maestro Venerabile, i
Rituali ai loro posti, il candelino presso il Testimonio, carta e lapis di
carbone per il tracciamento del Quadro di Loggia.
– I
FF. si riuniranno in silenziosa attesa e, con l’aiuto dei FF. Esperti,
procederanno ad “allineare” i loro corpi con il Rito d’Agape;
–
Il M. V. accende col suo fuoco il candelino tenuto nella mano destra del
M. d. C..
–
Il M. d. C. entra, accende il Testimonio, pone sui carboncini le resine
indicate dal M. V., poi esce, per introdurre nell’ordine dovuto i FF., prima gli
Apprendisti, poi i Compagni, indi i Maestri, poi gli Ufficiali e i Dignitari,
ultimo il M. V. (n.b.: gli Ospiti entrano con gli altri FF. secondo l’ordine
che sarà predisposto dal M. V., coadiuvato dal M. d. C. e dai FF. Esperti).
I BRINDISI:
AL GRANDE ARCHITETTO
DELL’UNIVERSO (si beve un poco)
ALLA MASSONERIA UNIVERSALE (si
beve un poco)
ALLE SUE GUIDE (si
beve un poco)
A TUTTI GLI ESSERI VIVENTI (si
beve un poco)
ALLE NOSTRE FAMIGLIE (si
beve un poco)
ALLA NOSTRA TERRA (si
beve un poco)
AL SOLE FECONDATORE DELLA
NATURA (SI
VUOTA LA COPPA)
Ido Fabrizi (Roma 1905
– Roma 1990) e Paolo Stoppa (Roma 1906 – Roma 1988) nascono a Roma e pur nella
diversità dei ruoli interpretati, sono entrambi espressione di quella romanità
sagace e capace di cogliere dettagli rivelatori. Dettagli che una volta colti e
isolati diventano l’elemento sul quale costruire personaggi che compongono una
galleria fotografica di vezzi, vizi e virtù di una società, quella italiana,
fascista e contadina e poi repubblicana e industrializzata. Si tratta del
dettaglio che tradisce le origini sociali tenacemente nascoste o le vere
intenzioni al di là dei sorrisi e delle disponibilità dichiarate o, al
contrario, che racconta di buoni sentimenti celati per pudore. Sono i caratteri
autentici dell’umanità che affolla le strade della capitale e oltre, sino a
ricomprendere caratteri generali che appartengono agli uomini di ogni epoca e
di ogni latitudine. Più che una lunga ed esaustiva elencazione di titoli e di
collaborazioni, è questo l’aspetto al centro della mia breve riflessione.
Entrambi appartengono a
quella ristretta élite di attori che possiedono ben altri stru-
menti oltre la capacità di
recitazione e trasformazione. Gli occhi sono macchine fotografiche pronte a
cogliere quel particolare che una volta elaborato, seguendo lo stesso
procedimento della fotografia nella camera oscura, rende nitida l’immagine che
diventa un nuovo personaggio dallo spessore unico.
Entrambi hanno in comune,
ancora, lo stesso tipo di allenamento, frequentano infatti la stessa palestra:
la loggia massonica. Aderiscono alla Gran Loggia degli Antichi Liberi Accettati
Muratori e sono legati alla Loggia Gustavo Modena come molto altri colleghi,
altrettanto noti, del mondo dello spettacolo di quegli anni. Nonostante Stoppa
abbia sempre negato la sua affiliazione, durante il fascismo il suo nome
compariva negli elenchi dei potenziali sovversivi controllati dal regime in
quanto iscritto alla massoneria.
Sebbene storicamente la
massoneria abbia sempre accolto in loggia artisti di ogni tipo, in Italia la
persecuzione fascista prima e l’influenza della gerarchia vaticana sul regime
democristiano in seguito, hanno rappresentato un forte disincentivo a
dichiarare la propria affiliazione. Nell’Italia cattolica e bacchettona del
secondo dopoguerra, il veto di un potente dell’establishment poteva
rappresentare un ostacolo insormontabile. Per non parlare della reazione che
avrebbe potuto determinare nella società e quindi tra il pubblico. Eppure,
questa identità apparentemente celata si disvela nella capacità di cogliere e
rivelare l’umanità al pubblico che è fonte d’ispirazione suo malgrado e che suo
malgrado è messo di fronte a una visione (teatrale e cinematografica)
rivelatrice: la connessione tra comportamenti e caratteri. Il pubblico ride e
si commuove di sé stesso, prova turbamento perché ognuno nel proprio intimo –
nel buio della sala cinematografica, del teatro o del proprio salotto – è per
un attimo costretto a fare i conti con il vero sé stesso gelosamente nascosto
nelle pieghe del proprio animo e ad ammettere se c’è più dell’eroico don Pietro
interpretato da Fabrizi nel film capolavoro di Rossellini, Roma città aperta
(1945) o dell’ex fascista pusillamine a cui presta il volto Paolo Stoppa in un
celebre episodio della serie Peppone e don Camillo.
Aldo Fabrizi
nasce in un quartiere popolare e debutta in periferia]. A teatro. Stoppa
appartiene a una Roma più agiata, quella della borghesia. Dopo avere
abbandonato gli studi giuridici entra nella scuola di recitazione Eleonora Duse.
Non deve preoccuparsi del suo mantenimento né di quello della famiglia e le
condizioni economiche di cui gode, gli consentono di seguire la sua vocazione
cimentandosi in ruoli brillanti e poi via via in personaggi più duri, ambigui,
malinconici. Tanto grande nel ruolo di uomini tanto piccoli che riescono,
nonostante tutto, a strappare un sorriso non disgiunto da pena e fors’anche da
fastidio. Fabrizi è il primogenito di sei figli e deve, ancora bambino, abbandonare gli
studi per lavorare e aiutare la famiglia svolgendo i lavori più disparati. La
sua scuola di recitazione è la vita.
Per entrambi il debutto avviene a teatro nel corso degli
anni Venti. Fabrizi esordisce in quelli di periferia, dove i sogni sono più
grandi e il pubblico nazional-popolare. Un pubblico che Fabrizi conosce bene
perché anche lui è uno di loro. E’ un pubblico più difficile, che interrompe e
rumoreggia e che sai tenere a bada o finisce per prendere il tuo posto.
Esordio da macchiettista, seguendo una passione che è
vocazione, anche se a teatro
ha già prestato le sue parole come canzoniere. A portare in
scena le sue canzoni è Beatrice Rocchi in arte Reginella, con la quale gira
tutti i teatri d’Italia, diventa sua moglie e lascia poi il palcoscenico per
occuparsi dei due figli.
Seguono radio, cinema – come attore e regista -, ancora teatro e televisione.
La consacrazione c’è con il ruolo drammatico di don Pietro a fianco di Anna
Magnani nel 1945 in Roma città aperta. La stagione neorealista vede Fabrizi tra
i suoi protagonisti (diretto nel 1948 da De Sica in Ladri di biciclette). Una
carriera lunga e ricca di collaborazioni, a teatro, nel cinema, in televisione,
con Steno, Monicelli, Scola, Garinei e Giovannini, Fellini.
La sua passione per la cucina è più di un hobby, è
un’altra espressione della sua arte, è un omaggio alle sue origini popolari, di
(ex) giovane affamato di cibo e di vita che celebra in versi la pastasciutta.
Buongustaio, palato allenato e lingua al vetriolo stando al racconto del
Fabrizi privato tracciato da uno dei figli .
Anche per Stoppa l’esordio avviene
sul palcoscenico del teatro e prosegue con il cinema e la televisione. Dalla
fine degli anni Venti interpreta via via ruoli sempre più significativi. Negli
anni Trenta entra a fare parte della compagnia stabile del Teatro Eliseo e
stabilmente fa coppia artistica e di vita con l’attrice Rina Morelli e con lei
forma la compagnia Stoppa-Morelli che sotto la direzione di Luchino Visconti
diviene una delle compagnie teatrali più importanti. L’esordio al cinema vede
protagonista la sua voce, un po’ come per il Fabrizi cantante degli inizi con
la sua Reginella, è infatti doppiatore di molti attori famosi (Fred Astaire e
Kirk Douglas ad esempio) e tra i fondatori della Cooperativa Doppiatori
Cinematografici. Una carriera che lo porta a lavorare con i più grandi maestri
del cinema: Monicelli, De Sica, Visconti, Rossellini, Risi, Luigi Comencini,
Dino Risi, Leone.
Le interpretazioni di Fabrizi e Stoppa sembrano un
trattato sociologico più che una galleria di personaggi.
L’italiano che si arrangia confonde e sovrappone la grande risorsa della
creatività italica con l’imbroglio. Il tranviere, il pescivendolo, il
bigliettaio e i tanti personaggi interpretati da Fabrizi sono uomini ingenui,
impiccioni, rompiscatole, di buon cuore, egoisti, furbi. Sono uomini che
appartengono a tutte le epoche. La guardia che rimbrotta severamente il
ladruncolo Totò in Guardie e ladri (1951), non viene meno al proprio dovere di
tutore della legge se in fondo prova comprensione per la povertà e le
difficoltà quotidiane del ladro.
Lo straordinario PaoloStoppa/Calogero Sedara ne [l
Gattopardo (1963) è un parvenu senza tempo. I caporali che Stoppa interpreta in
Siamo uomini o caporali (1955) sono opportunisti e trasformisti come tanti
troppo uomini di potere di ogni stagione politica; sono forti con i deboli e
viceversa come tanti troppi uomini tout court. Eppure strappano un sorriso
anche i personaggi più sgradevoli, come l’ex fascista al quale è ancora Stoppa
a prestare il volto in uno dei film della serie Peppone e don Camillo
(interpretati rispettivamente da Fernandel e Cervi). Un vile che non ha
semplicemente seguito il corso degli eventi. Il suo essere fascista è una sorta
di travestimento perfetto per celare e al tempo stesso manifestare la sua
natura di prevaricatore, si, ma solo se spalleggiato dal gruppo degli
squadristi. A guerra finita, per tornare nel suo paese deve aspettare
l’occasione fornita dal Carnevale, ricorrendo ancora a un travestimento. Il
costume da indiano che dovrebbe proteggerne l’identità, svela la sua natura di
uomo vile e pieno di paura nel momento in cui resta solo ad affrontare le
conseguenze delle sue azioni.
Stoppa e Fabrizi portano in scena l’uomo in tutte le
sue sfaccettature, con una incredibile capacità di cogliere la verità nel
dettaglio e di rivelarla spietatamente, senza giustificare, senza condannare.
Il giudizio è lasciato al pubblico, e al singolo la possibilità di
identificarsi e riflettere.
ti
parlo in maniera diretta, usando il presente, perché sono convinto che stasera
tu sia ancora con noi. L’invisibile catena d’unione basata sull’affetto e sull’amore
fraterno ci lega ancora con te.
Ti
ricordiamo tutti come un fratello che è passato nella nostra Istituzione in
silenzio, quasi in punta di piedi. Ma, se è vero che la Massoneria si esalta
nei semplici e nei puri di cuore, certamente insieme a te è morto un vero
Maestro Massone.
Ti
ricordiamo anche come colui che ha portato sulle sue spalle enormi fardelli di
problemi quotidiani: il tuo trasferimento da T…. a Follonica, l’impossibilità
di proseguire qui il tuo rapporto di lavoro e la necessità di trovarne uno
alternativo a N…., la morte di tua moglie solo due anni fa a causa del tuo
stesso male, il pensiero per i tuoi figli soli a casa qui a Follonica, le corse
per arrivare in tempo ai Lavori di Loggia.
E
tutti noi ti apprezzavamo perché sapevi portare questi fardelli con dignità,
coltivando la forza dello spirito per difenderti da un destino così crudele.
Ma,
nonostante tutto, dopo essere stato colpito alla gola dai problemi del lavoro
ed al cuore negli affetti più cari, hai dovuto cedere quando questo male
incurabile, più forte di tutti e di tutto, ti ha colpito alla testa.
Ti
ricordiamo infine nella fase acuta della malattia quando molti si chiedevano
come tu facessi a sopportare il dolore. Ed anche questa volta hai dato
dimostrazione di soffrire con dignità, conoscendo bene il male che avevi, senza
comunque esternare niente a chi ti era vicino, quasi tu volessi preparare da
solo, piano piano, il tuo passaggio.
Adesso
ti sei ricongiunto con la nostra Grande Madre Natura facendoti purificare con
il fuoco, ma tutti noi, Figli della Vedova, non ti dimenticheremo.
Di fronte alla perdita
di una persona cara la mente umana sembra smarrirsi e le parole, anche le più
belle, sembrano perdere il loro significato.
Se, come nel Vostro
caso, la morte dell’amato Padre segue di poco quella già dolorosissima della
propria adorata Madre, diventa veramente difficile trovare le frasi giuste per
penetrare nei Vostri cuori.
Noi sappiamo che i
Massoni di F….. e di C….. Vi sono stati vicini,
Vi hanno sostenuto, Vi hanno dato tutto il calore di cui sono capaci per
alleviare in qualche misura il Vostro dolore.
L’amore genuino che
essi provavano per il loro Fratello L….. si è riverberato su di Voi, a testimonianza che i valori
e gli ideali ai quali Vostro Padre ha creduto nel suo essere Massone, sono per
noi un modo di intendere la vita e il rapporto con gli uomini, un rapporto che
è ricco di amore, di fratellanza, di
solidarietà.
Vi conforti il pensiero
che Vostro Padre ha vissuto da persona giusta e onesta, stimato da tutti, e Vi
sia di guida il suo modo di affrontare la Prova Suprema, con estrema dignità,
con il costante pensiero di non turbarVi, forse, con la segreta speranza di
riabbracciare la sua adorata Moglie, con la certezza che i suoi Fratelli Massoni non Vi avrebbero mai
abbandonati.
Sappiate che L…. sarà sempre fra
noi, Massone tra Massoni, unito a noi da una
catena di Fratellanza che la
morte non puòspezzare; sappiate che Vi saremo sempre vicini e che
potrete contare su di noi in ogni momento della Vostra vita.
Vi abbracciamo con tutta la
forza del nostro animo e con tutta la tenerezza del nostro amore.
La vita d’ogni singolo massone si presenta come un
cammino che prende
l’avvio
con la prima morte, profana (il rito d’iniziazione), si svolge
nel viaggio
continuo nel tempio
interiore e nel mondo, si conclude con la morte
iniziatica (la morte
corporea) e si proietta verso ciò che va oltre la vita.
Le vie del cammino sono
parallele in quanto possono essere percorse allo
stesso tempo,
complementari perché si completano vicendevolmente, ma
non sono alternative
perché solo percorrendole tutte si può dare attuazione
piena e duratura alla
radice massonica.
La via veritativa (o della ricerca della verità)
Non di rado si ritiene che né la
Massoneria né il singolo massone abbiano
verità da presentare e
da difendere e in ciò risiederebbe il loro
atteggiamento tollerante
e antidogmatico e la loro libertà di pensiero. Si
parla così di
relativismo massonico in riferimento alla verità e a ogni altro
aspetto del pensiero e
dell’azione della Massoneria. Questa
concezione non
solo non rispecchia la
natura e la prassi massonica nei templi e nel mondo e
non tiene conto di
quanto affermato nelle Costituzioni e nella tradizione
massonica, ma porta con
sé una profonda confusione tra ricerca della verità,
assolutezza delle verità
e fondamento della verità. Solo un chiarimento su
questi temi può fare
luce sulla nozione massonica di verità e chiarire che il
pensiero massonico non
si fonda in alcun modo sul relativismo.
La via veritativa (della
ricerca della verità) presuppone che esista la verità,
intesa come insieme di
verità diverse, e che sia accessibile all’uomo. Questa
affermazione non
dichiara in alcun modo che la verità sia già raggiunta
interamente dall’uomo
o che l’uomo possa coglierla e raggiungerla in
modo
globale e definitivo.
Per questo è più corretto parlare di universo delle verità
piuttosto che di una
verità unica, definitiva e incontrovertibile. In ambito
massonico l’universo
delle verità è concepito come sempre aperto e costituito
da una infinità di
diverse e singole verità: un universo limite verso cui si
tende con continuità
raggiungendolo e cogliendolo poco alla volta.
Questa via veritativa si
differenzia da quella posizione secondo cui l’universo
delle verità è dato
tutto in una volta ed ad esso nulla si può aggiungere. La
prima posizione (quella
massonica) invece, ritiene che vi siano verità
raggiunte dalla mente umana
e quindi come tali possono essere considerate
come accettate anche se
non tutte come definitive e che, allo stesso tempo,
l’universo
delle verità sia illimitato e quindi raggiungibile dalla mente
umana solo in parte e
poco alla volta.
Un altro carattere
discriminante della posizione massonica consiste nel
ritenere che l’uomo
sia compartecipe della costruzione dell’universo
veritativo: questo
universo è costituito da verità che l’uomo ha raggiunto,
da
altre a cui l’uomo
tende, da verità sconosciute ancora dall’uomo e da verità a
cui l’uomo
ha partecipato alla loro costituzione. La ricerca della verità è una
via fondamentale al
cammino iniziatico per cui si può asserire che:
1.la tradizione massonica è portatrice di verità il cui fondamento è relato
allo sviluppo storico del pensiero e della prassi massonica. Queste
verità hanno un diverso fondamento: sono verità razionali, esoteriche,
intuitive e spirituali;
2.la
ricerca della verità è un obiettivo fondamentale del cammino
massonico;
3.l’istituzione
massonica si propone di presentare e difendere le proprie
verità.
Per completare la concezione massonica rispetto alla verità è utile introdurre
almeno due distinzioni.
La prima riguarda la verità della conoscenza e la
verità dell’essenza;
l’altra, invece, concerne l’ambito
delle verità. La prima
distinzione vuole
indicare che quando si parla di verità non ci si riferisce
solo alla conoscenza,
cioè a verità che riguardano i rapporti conoscitivi tra
l’uomo
e il mondo; in questo caso, si considera vero, o meglio una
conoscenza vera, quando,
dopo adeguati controlli, si asserisce che questa
conoscenza afferma
qualcosa che corrisponde a ciò che esiste nel mondo.
Nel secondo senso, la
verità dell’essenza, sostiene che si può considerare
come vero ciò che si
ritiene sia esistente; in tal modo ci si riferisce alla
struttura e alla natura
del reale e quindi alla sua essenza: il concetto di
verità corrisponde a
quello di essenza.
La seconda distinzione
riguarda, come s’è detto, gli ambiti della verità; si
può dire che la verità
secondo il pensiero massonico riguarda il mondo
concreto, la realtà e la
sua essenza, il mondo dello spirito e del
trascendente, l’uomo
e il suo mondo interiore, la società umana e la natura
del bene e della virtù.
La concezione massonica
della verità, quindi, nega ogni forma di relativismo,
secondo cui esistono
solo opinioni e non verità, e allo stesso tempo sollecita
un atteggiamento di
rispetto e di dialogo verso le diverse verità considerate
come differenti
prospettive che si completano vicendevolmente.
La ricerca della verità
è una delle vie fondamentali del cammino massonico:
ciò significa sia
affermazione delle verità massoniche sia ricerca della verità.
In tal senso, la Massoneria si muove
sempre mirando a penetrare più a
fondo nell’universo
delle verità.
La via spirituale
La nozione di spirito pervade molti settori della cultura, in senso lato, della
filosofia, della
religione, di molte correnti iniziatiche ed esoteriche e
dell’intero
edificio filosofico-culturale della tradizione massonica. La
dimensione spirituale
concerne sia l’uomo e la sua natura sia il mondo e la
realtà in senso globale.
Si potrà così parlare della dimensione spirituale
dell’uomo
e degli aspetti spirituali della realtà.
Per dimensione
spirituale si può intendere quella dimensione della realtà
costituita da tutto ciò
che non è riducibile al mondo fisico e materiale in
senso lato e all’apparenza
e che è protesa verso ciò che è sempre oltre a ogni
condizione. La
dimensione dello spirito può essere considerata come la
dimensione dell’oltre
che è posta al di là dello spazio e del tempo dei
fenomeni e della vita
quotidiana.
In tal senso, vivere
nella dimensione spirituale significa vivere mirando a
porsi al di sopra e al
di là di ciò che si è e proiettarsi verso l’oltre che è
costituito dall’origine,
dal fondamento, dall’essenza, dal senso e dal fine di
tutte le cose e della vita
individuale ed umana. Per ogni cosa, per ogni
evento e per ogni uomo,
vi è sempre qualcosa che è in più e oltre che gli è
proprio e che al
contempo se ne distanzia. Lo spirito è quindi al contempo
l’origine,
il fondamento, l’essenza, il senso e il fine di ogni
cosa. Per questo
intraprendere la via
dello spirito significa muoversi nella ricerca che mira a
comprendere e a fare
propri questi costituenti della vita e di ogni cosa.
Questa ricerca è
certamente di natura interiore e gradualistica e ad ogni
passo percorso, ad ogni
levigazione della pietra, non solo si accresce la
propria partecipazione
alla dimensione spirituale ma si arricchisce di
spiritualità la propria
vita. Questa dimensione è una mèta della vita
iniziatica per cui ogni
massone tende a vivere in essa con una continua
trasformazione di se
stesso mirando ad accrescere la propria spiritualità.
Lo spiritualismo
massonico tuttavia non considera la spiritualità come una
dimensione che totalizza
l’esistenza negando valore agli altri
aspetti della
vita e ad altre
concezioni della realtà. Questo spiritualismo non è un
riduzionismo che non
assegna valore né alla vita pratica né alla conoscenza
quotidiana e
scientifica; al contrario, esso tende ad assegnare ad ognuno di
questi aspetti quella
accezione che mira a farli partecipi della dimensione
spirituale. Per questo
lo spiritualismo massonico non distingue due mondi
separati, distinti e
inconciliabili, quello dello spirito e quello del fenomenico,
al contrario, pur non
negando le differenze, sostiene la loro compatibilità e il
fatto che l’uno,
quello dello spirito, riesce anche ad accettare l’altro e ad
assegnare ad esso una
attributo spirituale.
Questa dimensione dello
spirito è al contempo la via dell’ascesi verso il
trascendente come
obiettivo ultimo della via spirituale. La via spirituale è
certamente una via
percorsa entro la propria coscienza che tuttavia può
svolgersi sia in una
condizione ascetica e mistica, in una sorta di isolamento
dal mondo, sia in una
dimensione quotidiana di impegno e di dialogo nel
mondo con tutti gli
uomini.
La via etica (o via dei valori)
La vita di ogni massone si svolge sempre su un piano etico per cui il suo
comportamento e il suo
pensiero si pongono entro l’ambito dell’etica.
La via
etica è un percorso che
segna la vita di ogni massone in riferimento a se
stesso (il rispetto
etico della sua persona), al suo prossimo (il rispetto etico di
ogni uomo) e al suo
comportamento nel mondo. Il Massone non può vivere
senza la guida etica,
proprio perché è fondamentale per il suo cammino
iniziatico: non vi può
essere cammino di perfezionamento iniziatico se non
accompagnato da un modo
di essere che poggia sui valori etici. Il percorso
iniziatico non è certo
solo un cammino etico, ma è rivolto alla verità e allo
spirito, tuttavia, la
valenza etica è un elemento fondamentale su cui partire
per la via iniziatica.
L’etica
massonica non corrisponde necessariamente alle diverse morali
accettate e può porsi
anche in contrapposizione con esse come è accaduto
spesso in passato e come
accade ancora oggi, per esempio in riferimento alla
pena di morte o ai
diritti umani. La
Massoneria in campo etico si fonda sulle
seguenti tesi:
1.essa accetta e persegue valori etici,
2.pur
condividendo specifici valori etici rispetta i valori altrui mirando a
una pacifica convivenza di vie etiche differenti;
3.ritiene che i valori etici in cui crede abbiano un fondamento umano e
ultraumano e che vi sia una gerarchia di valori (fondamentalismo etico)
per cui non accetta il relativismo secondo cui ogni ’valore’
è accettabile
e ognuno di essi è al pari di ogni altro;
4.sostiene che vi siano valori che debbano valere per l’intera
comunità
umana (universalismo etico);
5.l’etica
non è riducibile a un insieme di norme di comportamento (la
morale positiva), ma è correlata con le dimensioni della verità e dello
spirito (eticismo).
Per questo la Massoneria
è portatrice e promulgatrice di valori etici e allo
stesso tempo si dispone
all’apertura etica verso prospettive etiche
che non
risultino in contrasto
con valori universali validi per l’intera comunità
umana. L’etica
massonica si fonda su alcuni principi fondamentali:
1.il rispetto del mondo naturale, della vita e della persona umana con la
sua dignità,
2.il
rispetto delle idee altrui,
3.l’accettazione
dell’altro,
4.il
dialogo aperto tra gli uomini,
5.la
compassione, la solidarietà, la fratellanza e la pace tra tutti gli
uomini.
L’etica massonica è un’etica
che trova il suo fondamento nella condizione
ontologica dell’uomo,
nella universalità dei valori e nella tradizione culturale
della Massoneria; essa
non solo è fondata nel modo indicato ma è fondativa
in quanto stabilisce i
principi generali della azione umana e dei fini
dell’esistenza.
Per questo, essa non è solo mirata a guidare il
comportamento
individuale e sociale, ma tende a indicare le vie per
raggiungere obiettivi
che superano la dimensione del quotidiano e in tal
modo è un etica che
tende al raggiungimento e al completamento del bene e
della virtù. In effetti,
il massone non riduce l’etica, come avviene in una
concezione positiva, a
guida del comportamento interpersonale ma la
considera come una via
che può perseguire non solo insieme agli altri, ma
anche solo con se stesso
in un confronto continuo tra il suo modo di essere,
di agire e di pensare e
l’obiettivo del bene, della virtù e il
perseguimento del
cammino iniziatico.
L’etica
massonica è un’etica principalmente interiore che solo
una volta che
si sia affermata nel
mondo intimo di ogni massone può trasformarsi in una
guida per il
comportamento (cioè sotto forma di norme morali). L’etica
massonica non si
sottopone al giudizio degli altri, ma solo al giudizio della
coscienza. Per questo,
come si è detto, l’etica massonica è una via
strettamente correlata
con la via spirituale e con quella veritativa: essa è
parte del globale
cammino iniziatico.
All’iniziato
non è sufficiente comportarsi bene, ma è necessario vivere il
bene all’interno
del suo mondo interiore e solo così percorre la via etica.
La via etica massonica,
allora, non si fonda su una morale positiva mirata
solo a guidare il
comportamento con gli altri, anche se questo è un elemento
fondamentale, ma su un
confronto continuo con ciò che viene considerato il
bene e la virtù come
obiettivo della via iniziatica verso la luce che non è solo
luce conoscitiva, ma
veritativa, etica e spirituale fondata sul senso assegnato
all’uomo,
alla realtà e a ciò che è oltre.
La via mondana
La via mondana è quella via che il massone percorre nel mondo con la sua
vita concreta
giornaliera nei diversi ambiti in cui egli opera. In questa via si
collocano, da un lato, l’impegno
del singolo massone nella vita di tutti i
giorni (i rapporti di
lavoro, le relazioni interpersonali, l’impegno sociale e
politico); dall’altro,
tutte quelle azioni che il singolo massone e l’istituzione
massonica progettano e
realizzano per il bene dell’uomo e dell’umanità
e
per la loro elevazione.
In questo ambito si collocano tutte quelle azioni che la
Massoneria nel suo
complesso svolge in diversi settori come i diritti umani,
la solidarietà, la
cultura, l’emarginazione sociale.
Il Massone non nega
valore al mondo e alla vita mondana degli uomini. Egli
pur muovendo verso ciò
che è oltre la mondanità, considera come un valore
tutto ciò che la mente e
lo spirito dell’uomo hanno prodotto e potranno
produrre nel futuro.
Egli allo stesso tempo sostiene che ciò che rende piena
la vita umana è
costituito anche dalla sua vita nel mondo: questa vita per il
massone è anch’essa
un viaggio che lo deve vedere impegnato non solo
secondo le vie indicate,
ma anche in uno sforzo giornaliero che partendo
dalle vie etica,
veritativa e spirituale possa permettergli di dare un
contributo non solo al
benessere dell’umanità, ma anche al coronamento
del bene e della
spiritualità. Anche in questo caso il suo impegno mondano
non è solo positivo,
cioè mirato al benessere materiale dell’umanità (che non
deve certo essere
sottovalutato) ma è anche trascendente nel senso che mira
ad accrescere la
spiritualità e l’eticità dell’umanità.
Per questo l’impegno del
massone nel mondo è
fortemente distinto da ogni impegno meramente
positivo, o se si vuole
laico, rivolto al bene quotidiano degli uomini. Ciò
sarebbe restrittivo per
il massone in quanto egli come iniziato anche nel
mondo si impegna secondo
le vie massoniche. Anche in questo senso il
massone non può
denominarsi laico in quanto non intende vivere
laicamente o
positivamente la sua vita, ma si propone di svolgere il suo
viaggio mondano seguendo
quelle vie indicate che lo portano verso il bene,
la verità e lo spirito.
La via mondana è allora
duplice: da un lato, l’impegno positivo verso le
condizioni dell’uomo
per liberarlo dalle schiavitù materiali, sociali ed
esistenziali; dall’altro,
per liberarlo dalle ristrettezze della vita quotidiana e
fare in modo che un
numero sempre maggiore di uomini siano rivolti alla
grande opera della
realizzazione e del completamento del Bene, della Verità
e dello Spirito.
La via fondativa (o del senso, dell’origine
e del fondamento)
La via del senso, dell’origine e del fondamento è l’ultima
via del percorso
massonico. Si può dire
che essa si pone come ultima rispetto alle altre in
quanto i risultati
ottenuti in ognuna di esse acquistano valore una volta che
ad esse sia stato un
assegnato un senso, un’origine e un fondamento. Per
questo il senso, l’origine
e il fondamento appaiono vie fondamentali della
vita massonica. In
questa direzione, le verità, i valori etici, la dimensione
dello spirito e l’impegno
mondano acquistano il loro profondo significato solo
se sono accompagnati dai
risultati della ricerca che possa dare loro un
origine, un fondamento e
un senso. Ricercare l’origine, il fondamento e il
senso significa porsi al
di là di ciò che è materiale, fenomenico ed apparente
e rivolgersi verso le
essenze e verso ciò che è oltre. La dimensione di ciò che
è oltre e delle essenze
è, per così dire, la mèta ultima e limite di tutte le vie
massoniche che, proprio
in quanto è una mèta limite, è sempre al di là di
ogni sforzo, proprio
come accade nella metafora di Zenone in cui il bersaglio
non è mai raggiunto
dalla freccia scoccata.
I quattro percorsi per intraprendere le cinque vie
Il massone intraprende le vie massoniche attraverso diversi percorsi che
svolgono anche il ruolo
di metodi che regolano ed indicano le mète graduali
del cammino. Si possono
individuare quattro percorsi: esoterico-iniziatico,
intellettivo-razionale,
intrapsichico e dialogico.
Il percorso
esoterico-iniziatico poggia su due requisiti: la conoscenza e la
ritualità del sapere
della tradizione esoterica, iniziatica, simbolica ed
ermetica nella sua
universalità (cioè nella sua articolazione transculturale) e
la sua possibilità di
essere applicate nel cammino delle cinque vie.
All’interno
di questo percorso sono fondamentali le nozioni di gradualità
iniziatica e di
svelamento. La prima riguarda il fatto che le vie massoniche si
percorrono sempre
attraverso cammini graduali segnati dal raggiungimento
di risultati che sono la
base per intraprendere nuovi cammini e per
raggiungere nuovi
obiettivi; la seconda che il rivolgimento riflessivo e
speculativo mira alla
ricerca dell’essenza, dell’origine
e del fondamento e per
questo tende a muoversi
sempre oltre il naturale, il fenomenico, le
apparenze e l’attualità.
In tal senso la realtà, qualunque essa sia, è sempre
qualcosa di più di ciò
che appare e di ciò che si intende sia compreso in
essa, per questo risulta
fondamentale cogliere continuamente l’oltre e in
questa direzione si
raggiungono obiettivi da cui ripartire che sono costituiti
da ciò che si ritiene l’origine,
l’essenza e il fondamento delle cose su
cui si
rivolge l’attenzione
riflessiva.
Il percorso
intellettivo-razionale coniuga le capacità globali della mente
umana: quelle di natura
tipicamente razionale, cioè l’uso della ragione
investigativa ed
organizzativa, e quelle di natura diversa che si fondano su
aspetti come l’intuizione
e il sentimento come dimensioni intellettive in
grado di far raggiungere
risultati propri di ognuna delle cinque vie.
Il percorso
intrapsichico, tipico delle tradizioni iniziatiche, opera come
rapporto del sé con se
stesso e si contraddistingue dallo scavo all’interno
non solo della mente ma
dell’intero mondo interiore.
Il percorso dialogico è
quello per cui le cinque vie vengono attraversate non
in un solitario isolamento
ma con un rapporto e con un confronto continuo
con gli altri, massoni e
non massoni.
La vita massonica quindi
intraprende cinque vie diverse e per ognuna di
esse segue uno o tutti e
quattro i percorsi. Scegliendo un percorso le vie
vengono solcate in modi
diversi e così si raggiungono gradi e livelli diversi.
Per esempio, la via
veritativa, può essere intrapresa scegliendo il percorso
intellettivo-razionale,
come seguito da alcuni massoni, od ancora da un
percorso intrapsichico o
da tutti i quattro percorsi. Il cammino in ogni via e
solcato da percorsi
diversi dà luogo al raggiungimento di saperi, conoscenze
e stati differenti.
Se consideriamo le vie massoniche come parte del cammino massonico che
si muove dal basso verso
ciò che è oltre, allora queste vie sono ognuna il
proseguimento dell’altra
e in tal senso si possono rappresentare sotto forma
di una doppia spirale,
che possiamo chiamare spirale essenziale in quanto
mira a cogliere
gradualmente le essenze; essa è costituita da una via
ascendente dal mondo al
fondamento e da una via discendente dal
fondamento al mondo,
seguendo così, in modo dinamico, da un lato, il
principio fondamentale
esoterico della corrispondenza (tra macrocosmo e
microcosmo) e, dall’altro,
il simbolismo dell’uroboros.
A questo punto, dopo
aver chiarito la natura delle vie massoniche e i relativi
percorsi con cui si
attraversano è necessario chiedersi: dove si svolgono
queste vie?
I luoghi e il tempo delle vie
massoniche
Le vie massoniche si svolgono in tre luoghi differenti. Si tratta di luoghi non
fisicamente determinati
anche se possono coincidere con luoghi fisici.
Questi luoghi sono: il
tempio, l’interiorità e il mondo. Il luogo del
tempio è la
dimora rituale e
profonda in cui le vie massoniche vengono intraprese
attraverso specifici
rituali simbolici e la esplicitazione della tradizione
esoterico-iniziatica.
Esso è costituito dalla loggia come spazio simbolico delle
vie massoniche: la
loggia come comunità fisica di massoni che opera in uno
specifico tempio.
Il luogo interiore è il
mondo interiore proprio di ogni uomo: la sua caverna
in cui egli ricerca se
stesso e lo ritrova nelle diverse fasi dello sviluppo del
suo intelletto e del suo
spirito, e in cui egli colloca i risultati di ciò che ha
raggiunto e si
predispone per raggiungere nuove mète.
Il mondo è la dimora
dell’esteriore che è costituita dal mondo non
templare,
quindi da ciò che è
esterno all’interiorità e al tempio. Questo luogo è
costituito quindi dalla
realtà fenomenica, naturale, umana e sociale.
Questi tre luoghi sono
innanzitutto luoghi simbolici ed astratti in cui si
svolgono le vie
massoniche, ma al contempo corrispondono anche agli
analoghi reali e fisici:
l’interiorità psichica (mente e cervello),
il tempio fisico
e il mondo fisico-
naturale, umano e sociale. Tuttavia, proprio perché le vie
massoniche sono
soprattutto vie che si svolgono su un piano non fisico, si
può dire che la
relazione con questi mondi è innanzitutto di natura non
fisica e solo
successivamente diventa fisica. Il massone opera in un tempio
simbolico che è poi
concretizzato in uno specifico tempio. Così come la via
mondana è vissuta nel
mondo umano e sociale simbolico ed è vivendo in
esso che successivamente
si opera concretamente negli analoghi e concreti
luoghi fisici, naturali,
umani e sociali. Il massone opera sempre nella sua
interiorità e nel
tempio, cioè in una realtà che è primariamente simbolica,
che si colloca al di là
ed oltre la realtà fisica, ma che si coniuga con essa,
nell’azione
concreta del massone nel mondo una volta che la realtà
simbolica viene
interpretata e trasferita nella specifica realtà naturale,
umana e sociale
caratterizzata dalla determinazione specifica di ogni epoca
storica. Proprio per
questo i risultati della tradizione massonica, svolti in
una realtà simbolica,
acquistano il carattere della atemporalità e della
universalità.
Si è detto che le vie
massoniche si svolgono sul duplice piano della realtà
simbolica e di quella
fisica e a questi luoghi corrispondono tempi diversi.
Al luogo templare
corrisponde il tempo del tempio scandito dalla ritualità,
dai gesti, dalle
cerimonie sacre, dalla vita comunitaria durante le tenute nel
tempio.
Al luogo dell’interiorità
corrisponde quel tempo non fisico in cui vengono
collocati gli eventi
mentali e psichici della vita interiore di ogni uomo.
Al luogo della
naturalità e della socialità corrisponde il tempo tipico di
queste realtà che muta a
seconda delle epoche storiche e delle diverse
condizioni umane e
sociali.
La loggia
A questo punto è necessario sottolineare che il tempio e la loggia sono i
luoghi privilegiati
della vita massonica. E’ infatti in essi che le vie
massoniche possono
essere percorse seguendo i quattro metodi. Per questo
ogni massone è tale solo
se partecipa con profonda intensità alla vita della
loggia ed è solo in essa
che egli può perseguire i fini iniziatici verso la verità,
la virtù e lo spirito.
In effetti un massone potrebbe vivere isolato nel mondo
sociale, lontano da ogni
uomo, ma non per questo egli non seguirebbe le
cinque vie, anche quella
mondana, se lavora assiduamente nella loggia,
perché, come si è detto,
la sua opera è in primo luogo un’opera nel mondo
simbolico. Da qui quelle
che possiamo dire le diversità dei percorsi dei
singoli massoni:
mistico, simbolico, razionale, esoterico, mondano, in cui
ogni massone sceglie di
operare esprimendo la sua tensione vitale.
Da quanto detto la vita
massonica, attraversata nelle cinque vie, intessuta
dai quattro percorsi e
vissuta nei luoghi sacri e profani, non solo è articolata
ma tortuosa, irta di
difficoltà, di sforzi e di sofferenze, ma è anche sempre
pregna di proiezioni
verso le essenze e ciò che è oltre recando entusiasmo,
forza, serenità, senso
alla vita umana e aprendo l’orizzonte verso
l’irraggiungibile
colto nella sua apparenza umana.
Pinocchio, l’Oca e il labirinto: sui significati della
favola.
La favola di Pinocchio è diventata, nel giro di un secolo o poco più, una
storia condivisa da un’intera cultura e oramai fatta propria anche da molte
altre. Viene naturale chiedersi il perché di tanta fortuna di un testo che,
nato in una situazione biografica, storica e letteraria ben precisa, farebbe
pensare ad una impossibilità di tradurne completamente il senso. Non è certo
una questione nuova, questa: fa parte di quell’appassionato dibattito che da
tempo cerca di indagare le ragioni per cui un classico è e rimane un classico,
per qualsiasi lettore di qualsiasi cultura.
Le
tante interpretazioni date a Pinocchio creano spesso l’impressione di essere
legate al contesto storico e culturale cui fanno riferimento. Solo qualche
esempio:
PINOCCHIO
MASSONE – Geppetto e Cavour
” Gli anni cari di Collodi, di De Amicis…in cui l’Italietta
aveva incominciato a farsi le ossa, a trovare uno stile, a trovare una misura
dì vita e di civiltà”.
Giovanni Spadolini
“Dirozzare le menti delle classi meno agiate, sottraendole
all’ignoranza ed alla speculatrice superstizione… nell’intendimento di
togliere i fanciulli dalle ugne del clero”. Rivista della massoneria italiana, 1873
PINOCCHIO
CATTOLICO – Geppetto e Dio
“Carlo Collodi ebbe la gran ventura di inserirsi, con la sua
fantasia, nel filone della verità. Anche Pinocchio, come tutti i capolavori
italiani, ha fondamento nella verità della dottrina cattolica”. PieroBargellini
“L’agonia di Pinocchio , appeso all’albero da tre ore… di
Cristo in croce riecheggia, perfino l’estrema nostalgia del Padre e il
desiderio di affidare a lui la vita fuggente: Oh babbo mio!… se tu fossi qui”..
Card.
Giacomo Biffi
PINOCCHIO
FREUDIANO – Com’è lungo quel naso
“Non starò a dire quali interpretazioni abbia suggerito alla
critica psicanalitica il fatto che a Pinocchio il naso cominci a crescere
proprio davanti a Fatina!”
Gianni Turcheda
“Ravvisato quindi un collegamento iniziatico-sacrale
Pan-Priapo-Pinocchio, diviene ora più agevole… comprendere la fisionomia
rino-fallica del Burattino”.
Nicola Coco-Alfredo Zambrano
PINOCCHIO
ESOTERICO – Falegname o stregone
“Solitario, in quella stanza simile a un antro magico…
l’opera di Geppetto non è stata opera di intaglio… Il suo è stato un lavoro
di alchimia”.
Rodolfo Tommasi
“Leggiadro,
delicato, abissale è l’atto di leggere Pinocchio a un bambino. Portiamo
l’innocente tra le figure stesse che gli si parerebbero dinanzi in una radura
sacra… introduciamo il piccolo al culto della Fata o
Signora-degli-animali”.
Elémire Zolla
PINOCCHIO
POLITICO 1 – L’anarchico di legno
” E la sera… si sentiva passare, rassicurante, sul sonno di
tutti, il calmo passo doppio dei carabinieri. Non
ridete; dietro a Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di
re Umberto”
Pietro Pancrazi
“Nel paese degli Acchiappacitrulli sono gli onesti, che
vengono senz’altro condannati… Un episodio che la dice lunga sulle venature
anarcoidi e sulla sfiducia nelle istituzioni di Collodi”. Gianni Turchetta
PINOCCHIO
POLITICO 2 – La new-economy ed il paese dei balocchi
“Ma
gli altri? Dico la folla silenziosa e smarrita che ogni mattina, da mesi,
quando apre il computer sul sito “Campo dei Miracoli” non trova più i
suoi zecchini, e bestemmia il giorno in cui ha creduto che davvero la vecchia
economia, quella fondata sulla maledizione del lavoro e del sudore, fosse
rimpiazzata da una nuova di zecca, nella quale dal denaro nasce il denaro,
ininterrottamente, per naturale clonazione?… La moneta come un seme di
cuccagna, da lanciare nel campo infinito della Chiocciola @ per vederlo
germinare, e generare intere foreste di fronde tintinnati d’oro… E infatti
Pinocchio esita, e si domanda, “a bocca aperta per lo stupore: ‘Ma com’è
mai possibile che diventino tanti?’” Michele Serra, da “Il Pinocchio delle Borse e il
barbiere di Agnelli”, Repubblica 16.03.2001 http://www.rutelli2001.it/dalpaesedeibalocchi.php
Se si rimane nell’ottica di comprendere la ragione della fortuna
di Pinocchio, nessuna di queste potrebbe a buona ragione essere definita come
un’interpretazione “classica”, ma solamente una delle tante possibili,
distinguibile eventualmente dal grado di autorità conferitole
dall’argomentazione o dall’autore.
Ma il numero e dalla varietà delle interpretazioni ci fanno
azzardare a muovere noi un suggerimento per una risposta alla nostra questione:
Pinocchio è senza dubbio una buona metafora, un buon modello per
spostare un discorso più o meno complesso sul piano delle immagini, per aiutare
a comprenderne il senso. Esistono però metafore create dalla letteratura che si
prestano più di altre ad entrare nell’universo linguistico e culturale umano,
perché possiedono alcune caratteristiche che le rendono archetipi, modi
generali di vedere il mondo, strutture concettuali fondanti della natura e
della cultura dell’uomo.
Ci viene in aiuto un piccolo libro di Carlo Lapucci, “Il libro delle
filastrocche” (Domino Vallardi editore), dove si legge un parallelo tra
la favola di Pinocchio ed i giochi della più antica tradizione: “Se si
collegasse la storia di Collodi con i giochi popolari come quello dell’Oca, Pela
il chiù, Carica l’asino (guarda caso Scaricalasino, con Bengodi e Cuccagna, è
un paese citato nel libro), il Gioco del Barone, ecc., vi si riconoscerebbero
immagini consuete, comuni al “Libro dei sogni”, come ai Tarocchi: il
Bagatto, il Matto, l’Impiccato, la
Pozza del Gambero, la Morte, la Prigione…”
Il gioco dell’Oca appartiene a quei giochi che sono una metafora
del vivere sociale e della comunicazione narrativa: un inizio ed una fine, la
presenza della natura e degli animali, l’impedimento al movimento (il carcere),
i pericoli, il caso (i dadi), e soprattutto il viaggio labirintico
dell’esistenza, con le sue imprevedibili direzioni.
L’idea di concepire Pinocchio come il percorso stabilito dal Gioco
dell’Oca o come una narrazione determinata dalle carte dei Tarocchi, oltre a
fare la felicità di Calvino e delle teorie strutturali sulla narrazione, ci
porta su un piano interpretativo con cui abbiamo più confidenza: la dimensione
narrativa del gioco (o l’essenza ludica delle storie), e il raccontare storie
come attività fondante della natura umana.
Pinocchio è un libro scritto per essere raccontato, per la
narrazione orale.
L’intersecarsi degli eventi di una favola, e di una storia in
generale, è un vero e proprio labirinto, una rete di possibilità virtuali
che ha bisogno, per esprimersi, del filo di Arianna, della guida di Virgilio,
dell’opera del narratore. Inoltre, “la fantasia popolare reinventa
liberamente poi queste immagini: il labirinto può diventare tanto una tela di
ragno, quanto un serpente, giocando quindi una partita più con
l’inconscio che con la razionalità che stenta a rintracciare l’identità delle
immagini”.
“Con lo smarrimento di
Pinocchio davanti al serpente siamo arrivati alla spirale, il simbolo del
labirinto che si trova verso la metà del libro, come verso la metà del gioco è
appunto lo smarrimento di colui che segue il percorso paradigmatico: è la selva
oscura dello smarrimento che si incontra nel “mezzo del cammin di nostra
vita”, smarrimento che l’eroe è destinato a superare in molti
modi, poiché si tratta di una prova vinta a suo modo anche dal burattino. Il
fatto che costituisca il centro è anche indice che il labirinto è l’elemento
che riassume e condensa l’intero…”
Le storie nascono da strutture di pensiero talmente conNATURAte al
vivere umano che costituiscono il mezzo più efficace (e talvolta più
scientifico) per conoscerne il produttore, l’uomo stesso. L’uomo vive di storie
ed in esse vi si riconosce; in alcune di queste molto di più, per il fatto che
vanno a pescare a fondo nella natura culturale dell’uomo, perché
recuperano immagini che sono a fondamento della conoscenza che l’uomo ha del
suo mondo: il senso di mancanza (sia esso povertà o solitudine o prigione), il
nascere, il morire, il rapporto di comunicazione con la natura e gli animali,
il perdersi, il pericolo, la pazzia, il desiderio, …
( tratto dal Periodico Due Sicilie
Novembre/Dicembre 2002 )
*****
1869:
ANTICONCILIO A NAPOLI
Nell’anno 1869, un anno prima della caduta definitiva dello Stato
Pontificio, il papa Pio IX indisse il Concilio Vaticano I° da tenersi dall’otto
di dicembre in Roma. Alla notizia, l’invidia e il sulfureo odio massonico ne
misero in gestazione uno antisimmetrico, in odio al Papa e alla religione
cristiana cattolica. Gli apostoli del vero avrebbero costituito un concistoro
di antilupi, si sarebbero cioè riuniti nell’Anticoncilio di Napoli (poi
miseramente abortito), promosso dal libero muratore conte Giuseppe Napoleone
Ricciardi. A codesti antilupi il Garibaldi, in data 11 ottobre da Caprera,
inviava un indirizzo di saluto e di incitamento che merita di essere riportato
per intero perché i nostri lettori si facciano un’idea precisa dei
sentimenti che il sublime grado 33 della consorteria massonica
italiana (in realtà, con qualche eccezione, carboneria, associazione di
rivoluzionari bombardieri) nutriva nei confronti della vera Chiesa e del
Papa:
“A’ miei amici e fratelli d’armi,
Una delle più solenni circostanze che mai abbiano illustrato la patria
dei Savonarola e degli Arnaldi, è certamente quella dell’anticoncilio, iniziato
dall’illustre Ricciardi e che avrà luogo nella grande metropoli italiana l’otto
dicembre di quest’anno.
In esso verranno rappresentate tutte le nazioni dai loro campioni del
diritto e del vero. Spettacolo sublime, vero simulacro della fratellanza umana,
e vera antitesi del concistoro di lupi, che avrà luogo in Roma, nello stesso
giorno! Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla
verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa
veramente alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo
d’inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet
qualunque. Sacrilegio, che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano
d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente
sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX.
Là nell’antica Partenope, si riuniranno gli apostoli del vero, gli
alunni di Galileo, di Newton, di Kepler, di Voltaire, di Franklin, gli
sterminatori delle torture e dei roghi, le superbe colonne della dignità umana.
Che contrasto!
E se questo secolo, ancor tanto amareggiato dall’arbitrio e
dall’oscurantismo, non dovesse presentare all’afflitta umanità che questo
consesso della libertà e della ragione, esso potrà contarsi tra i famosi della
storia del progresso umano.
Un giorno, e ben avventurato della mia vita, io, con non pochi compagni,
c’inoltrammo nel centro della grande metropoli, fidenti solo nel valore e nel
patriottismo del popolo napoletano. L’esercito borbonico occupava ancora i
forti, ed i posti più importanti della città. I cannoni erano puntati contro di
noi, e la fanteria altro non aspettava che l’ordine di fucilarci. Ebbene!
All’imponente contegno del gran popolo, noi dovemmo esser salutati cogli onori
militari dell’esercito nemico.
Un’altra volta, dal del palazzo della Foresteria, io diceva a
cotesto popolo: – Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa.
Il popolo applaudì al veritiero mio detto; ed ha potuto persuadersi in
questi nove anni, ch’io non l’ingannavo.
Ebbene, vecchi miei amici e fratelli d’armi! Fra due mesi voi sarete
visitati da tutto ciò che il mondo ha di più rispettabile, l’eletta parte delle
nazioni, i rappresentanti dell’intelligenza e del diritto umano. E voi, vi
lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica, che gl’impostori
vi spacciano come sangue di S. Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti
anni.
Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno!
Ed i confessionali fatti a pezzi, e resi utili a far bollire i maccheroni della
povera gente… che ve ne pare?
Sì: disfacetevi di tutti questi emblemi delle vergogne italiane, ciò lo
potete fare. Non lasciate le vostre donne ed i vostri bimbi contaminarsi nella
bottega dei preti. E credetemi: sanando la piaga italiana del fanatismo, delle
superstizioni, voi spianerete la via dell’eliminazione d’altri malanni, più
formidabili in apparenza, ma che non potranno reggere senza il piedistallo
della menzogna.
Gl’illustri vostri ospiti torneranno nelle loro contrade, proclamando
che la patria del Tasso, di Masaniello e di Giordano Bruno, è ben degna
dell’iniziativa dell’emancipazione del diritto e della coscienza umana. Io con
tutta l’anima fo un appello a tutte le Società [massoniche, ndr] italiane che mi
onorarono col titolo di socio o di presidente onorario, a quanti in Italia
hanno cara la dignità del nostro popolo, nella certezza, che più la parte
culta, liberale e razionale della nazione, sarà rappresentata
nell’anticoncilio, di più lustro risplenderà la nostra patria, tra le sorelle
nazioni del mondo.
Io spero di più: che nelle cento città d’Italia per l’otto dicembre, si
riuniranno numerosissimi meetings ad acclamare i principii del vero, sostenuti
dall’illustre congresso di Napoli, ed a maledire le turpi menzogne e la cabala
infernale del Vaticano. G. Garibaldi”.
Il bellicismo ideologico, antiecclesiale, anticristiano, del Garibaldi,
che per il suo grado massonico avrebbe dovuto essere “Uomo trascendente”, cioè
un santo al di sopra delle umane passioni, non era una manifestazione
estemporanea ad incitamento dei figli della vera luce che avrebbero celebrato
quell’Anticoncilio. Anche nell’Inno romano la sua penna non era stata meno
leggera in fatto di anticlericalismo: “Giù le mitre, vergogna del mondo,/
giù le tiare, nel fango calpeste;…/ dei chercuti, orrenda setta,/ Roma nostra a
liberar!”. Nei suoi romanzetti poi (Il governo dei preti, Cantoni il
volontario, I Mille) i personaggi negativi, abietti, schiavi del ventre e
della lussuria, truculenti, incestuosi, sono, manco a dirlo, vescovi,
cardinali, preti, che, secondo la sua obliqua visione, avrebbero “fatto delle
nazioni tante belve che si distruggono barbaramente a vicenda” (discorso tenuto
a Frascati il 14 giugno 1875), travisando quelle che sono le vere radici
cristiane dell’Europa, nel cui seno anche lui era stato battezzato col nome
(francese!) Joseph. A questo sodalizio truculento dava degno rincalzo il
luciferiano Carducci, che salutava in Satana il Re del convito (Inno a
Satana).
L’anticlericalismo, abito mentale di quasi tutta la classe politica
liberale, sul piano pratico aveva portato nel Sud, come si sa, dopo il
1860, alla espropriazione dei beni ecclesiastici, alla rimozione, all’esilio o
all’incarcerazione una settantina di vescovi, in sostanza quasi tutto il corpo
episcopale del Regno, all’incarcerazione o alla fucilazione centinaia di preti,
e alla più nera miseria oltre 12.000 frati e suore, oltre che alla fame e al
sangue tutti i Duosiciliani in omaggio alla follia unitarista. Per i
nuovi padroni dello stivale, che s’adornavano il cappello con la fronda
dell’alloro risorgimentale, leva buona per ogni occasione di
arraffamento, esso era un’arma potentissima per controbilanciare anche le
tensioni antiunitarie, un cemento per l’unità della classe liberale che aveva
portato all’Italia una. Pian piano, però, a mano a mano che la situazione
politica interna era andata stabilizzandosi ed ormai esaurendosi la fase
delle espropriazioni, quel bellicismo cominciò a perdere i connotati più beceri
fino a diventare quasi irriconoscibile.
UN MANUALE DI MASSONERIA
Il libro Cuore definito, dallo scrittore Vittorio Messori, “manuale di
massoneria per il popolo” (Pensare la storia, Ediz. San Paolo, pag. 104), è un
esempio di quella trasformazione. Di Edmondo De Amicis, il Messori
riferisce che è provato essere stato quello <<un fratello a pieno titolo
della Gran Loggia torinese>> ed avvisa che <<Non c’era del resto
bisogno della prova dell’affiliazione per riconoscere subito l’impronta della
massoneria più classica nell’opera dello scrittore ligure-piemontese>>. E
si domanda: <<perché quello massonico è il pericolo che la Chiesa, con un
istinto significativo, avvertì subito come talmente insidioso da dedicargli il
maggior numero di condanne?>>. La risposta dello scrittore è abbastanza
convincente: <<Ma perché niente è in apparenza più rassicurante e
ragionevole – anche per un cristiano non scaltrito – dell’ideologia delle
Logge: amore per l’umanità con relativo impegno filantropico, fratellanza, tolleranza,
mutuo rispetto, universalismo non disgiunto dall’amor di patria, impegno per il
miglioramento morale proprio e degli altri; e così via>>. Esiste un
convergenza con i valori del Cristianesimo? <<Certo: ma con l’avvertenza
che ciò che caratterizza questa visione del mondo (che è quella che sta alla
base di organizzazioni pur rispettabili e non di rado meritorie come la Croce
Rossa, la Società delle Nazioni, certi club a diffusione internazionale) è
un’apparenza evangelica senza più la sostanza, la base. Un cristianesimo, ma
evirato, perché senza Cristo. “Religiosità” se si vuole: fondata però non sullo
scandalo e la follia del figlio di Dio che muore sulla croce, ma sulla
“ragionevolezza” di un Dio immaginato a sua misura dalla “sapienza” umana, un tranquillizzante
Grande Architetto dell’Universo, il Garante dell’ordine sociale (la massoneria,
non lo si dimentichi, fu sempre, ed è, fenomeno di aristocratici e di borghesi,
senza base popolare, che del resto non cerca, non vuole). La croce è segno di contraddizione,
divide; l’innocua idea di un “Dio” senza volto sembra unire. La reazione
cattolica (ma non la protestante…) dunque fu dura proprio per questo aspetto
ingannevole…>>. Quindi lo scrittore passa ad analizzare
<<l’aspetto di “manuale divulgativo” della ideologia del massone De
Amicis>>: <<la “morale” sembra davvero “cristiana”, ma non è
basata sulla fede nel Cristo (di cui mai si parla) né sull’attesa della Vita
Eterna, bensì sulla fede nell’Umanità e nel Progresso. Il processo di
svuotamento e di sostituzione è completo: non vi è alcun cenno, in Cuore, al
Natale, alla Pasqua, o ad alcuna altra ricorrenza cristiana. I soli accenni
religiosi sono lasciati, significativamente, alla madre di Enrico: cose da
compatire in quelle donne che, non a caso, non hanno accesso alle Logge… Le
antiche feste cristiane sono sostituite da quelle civili; il Vangelo dallo
Statuto e dai Codici; i santi dai padri della patria (Garibaldi, Vittorio
Emanuele, Cavour, Mazzini); gli ordini religiosi dall’Esercito, visto come
“fucina di virtù”; i martiri dagli eroi (il Tamburino sardo, la Piccola
vedetta lombarda); l’impegno ascetico dalle virtù del cittadino esemplare; il
Decalogo e il Discorso della Montagna dai buoni sentimenti su cui tutti
concordano; le processioni dalle sfilate militari>>…. Il Messori mette in
guardia e conclude: <<Non dimentichiamo però di giudicare l’albero dai
frutti: i ragazzi di Cuore, cresciuti in quel commovente clima filantropico,
saranno poi gli interventisti del 1914. Saranno gli “oscurantisti”, i
cattolici, che tenteranno di opporsi a quella che il papa (Benedetto XV, al
secolo Giacomo Della Chiesa, 1914-1922, genovese, ndr) chiamerà “l’inutile
strage”. Gli “amici dell’umanità” li troveremo in piazza a invocare “il
bagno di sangue rigeneratore”, in nome di quella patria che i De Amicis avevano
sostituito alla Chiesa. Tutta la svenevole melassa della pedagogia “nuova” di
cui Cuore – pur in perfetta buona fede – è manuale, era l’ideologia, non
dimentichiamolo mai, di quella borghesia europea che gestiva con mano spietata
gli imperi coloniali, schiacciando sotto il tallone dell’Occidente,
proclamatosi “faro del mondo civile”, ogni altra cultura, disprezzata come
inferiore>>, del quale “faro” anche i Duosiciliani hanno sperimentato la
“bontà” dal 1860 ad oggi.
NOZZE CHIMICHE
Dove dunque si parla apertamente, come in Cuore, si rivela, anche
per i non esperti, l’ideologia che intride il racconto. Più difficile è
invece scoprirne il messaggio laddove il linguaggio è criptico, nascosto cioè
“sotto’l velame de li versi strani” o figurato. Ma è soprattutto da tenere
presente che dove gli adepti a qualche dottrina occulta, o esoterica, parlano
chiaramente, lì non dicono assolutamente nulla, dicono invece tantissimo quando
parlano per enigmi. Ne dà conferma il libro dei Rosa Croce (anno 1459) “Le
nozze chimiche di Cristiano Rosacroce” (Chymische Hochzeit Christiani
Rosencreuz): Arcana publicata vilescunt; gratiam prophanata amittunt. Ergo: ne
Margaritas obijce porcis, seu Asino substerne rosas” cioè le cose arcane, rese
di dominio pubblico, si sviliscono e perdono la grazia se pervengono in bocca
profana. Non si gettino dunque le perle (Margaritas) ai porci e non si
sottometta agli asini un giaciglio di rose.
IL CARDINALE BIFFI E PINOCCHIO
In tempi recentissimi è apparso, del cardinale Giacomo Biffi,
arcivescovo di Bologna, un estratto di saggio critico, dal titolo Pinocchio
senza bugie. Nell’articolo, apparso sul Sole-24 Ore domenica 16 giugno 2002,
dedicato alla favola di Carlo Lorenzini autoappellatosi Collodi, l’alto prelato
afferma che: “Questo è un libro incantevole e misterioso”. L’affermazione
conferma, nella sua scarna sinteticità, l’impressione che se ne trae dopo
un’attenta lettura. Ma di estremo interesse è quel che il cardinale Biffi afferma
successivamente: “Si può ben supporre che la saltuaria stesura obbedisse a un
disegno tracciato preliminarmente e meditato con cura” e ancora: “resta
comunque da verificare in che senso e in che misura sia consentito ravvisare in
Pinocchio l’eco e quasi il “manifesto” della cultura
risorgimentale…>> ma conclude stranamente che <<nelle
avventure di Pinocchio non c’è la minima traccia degli avvenimenti che hanno
mutato l’assetto istituzionale d’Italia, nonostante che a tali avvenimenti Carlo
Lorenzini avesse partecipato in prima persona. Né è dato di percepire in quelle
pagine la più flebile eco dei convincimenti e delle passioni che hanno percorso
e animato l’epopea risorgimentale…In realtà, sarebbe meno lontano dal vero chi
trovasse nella narrazione l’atmosfera, per così dire “metastorica” e
“atemporale”, che è propria delle fiabe e delle parabole, le quali non
patiscono di essere cronologicamente situate>>. Bisogna convenirne,
in apparenza è proprio così: la favola pinocchiesca è stata sognata nella cornice
dei canoni classici dell’affabulazione, sul sentiero maestro già tracciato
dagli antichi favolisti, a partire dall’Asino d’oro di Apuleio. Ci si lascia
trasportare dalla ricca fantastica trama del racconto, dagli inverosimili
personaggi, dalle più inverosimili avventure, e, paghi del piacere che ne
riportiamo al termine della lettura, non si percepisce la tensione polemica,
violenta che la favola nasconde sotto velame fin dalle prime battute, velame
che è, come oggigiorno si afferma per certa pubblicità televisiva, di natura
subliminale. Come per la Divina Commedia, di cui Dante stesso afferma essere il
suo poema di natura ermetica (O voi ch’avete li’ntelletti sani, / mirate la
dottrina che s’asconde / sotto’l velame de li versi strani [Inf. IX, 61-63]),
anche la favola di Collodi ha i connotati di opera ermetica, per cui almeno due
chiavi di lettura sono possibili (ma se ne possono intravedere almeno cinque):
di manuale iniziatico per adepti e di polemica violenta nei confronti della
Chiesa se non addirittura di scontro ideologico con questa.
Nelle righe che seguono cercheremo di enucleare alcuni elementi di
carattere esoterico, propri delle dottrine ermetiche, e alcuni altri del
bellicismo ideologico contro la Chiesa cattolica, la fede cristiana e il Papato
che il Collodi vuole umiliare, ma anche spunti politici riflettenti le tensioni
del tempo.
IL NOME DEI PROTAGONISTI
Bisogna cominciare dai nomi dei protagonisti e in primo luogo da quello
del burattino. Quel nome, Pinocchio, con cui il burattino viene “battezzato” da
Geppetto, è programmatico. Ad un’analisi attenta e penetrando con la
vista oltre il velo della favola, una favola, si badi bene, essenzialmente
pagana, si trovano elementi di lettura molto preziosi per capire in che senso
si estrinsecherà la virulenza anticristiana, anticattolica, antipapale, dello
scrittore fiorentino, anche in riguardo al quale, facendo nostro quanto il
Messori afferma per il De Amicis, possiamo dire che “non c’è bisogno della
prova dell’affiliazione per riconoscere subito l’impronta della massoneria”.
Cos’è il pinocchio se non la mandorla, il frutto mangiabile del pino, albero
mediterraneo per eccellenza? Ancora oggi in Toscana, ma anche in certi luoghi
della Puglia, con tal nome si indica quello che commercialmente è noto col nome
di pinolo, un seme saporito che conserva dentro di sé il ricordo sottilmente
inebriante della resina dell’albero madre. Quel nome, se la metafora
cristologica del passo evangelico viene riconosciuta, ricorda il granello di
senape dei Vangeli, preso a similitudine per indicare la potenza escatologica
(Mt, 13, 31) del messaggio cristiano. Dunque Pinocchio è un seme che contiene
in sé potenzialmente una vitalità e un vigore immensi: perché diventi albero
occorre solamente che sia seminato nel terreno adatto, fra zolle ubertose e non
fra le aride pietre di un deserto. Quale sia questo terreno lo vedremo tra
poco.
Il nome Geppetto, l’artefice, o demiurgo, del burattino, strano in
apparenza, va letto come una variante di Giuseppetto, cioè diminutivo di
Giuseppe. Giuseppe, padre di Gesù, è colui che ai fedeli, nella iconografia
cristiana, regge il figlioletto, quasi del tutto nudo, sul braccio sinistro
mentre con la mano destra stringe una verga fiorita, questa da intendersi anche
come asse intorno a cui ruota il mondo cristiano. La lettura dell’immagine è
chiara: San Giuseppe falegname (notare l’attributo) è colui che è in grado di
rendere vivente ciò che è morto, cioè, fuor di metafora, è colui che è capace
(ri)dare vita spirituale e forza salvifica a coloro che lo mirano, cioè seguono
la dottrina (i vangeli), che si incarna nel figlio nudo, come dire che la
dottrina cristiana non nasconde messaggi occulti, in chiave ermetica,
intelligibili solo dagli adepti. Notare però che nella favola Geppetto non è
un semplice falegname, cioè un operaio non molto abile, che abbisogna e
adopera nel suo mestiere solo ascia e pialla, due strumenti utili in sostanza a
sgrossare il legno (Ohi! Tu mi hai fatto male!, grida il potenziale
Pinocchio quando maestro Ciliegia vibra il primo, che è anche l’ultimo, colpo
d’ascia sul pezzo di legno informe), ma un artista di gran lunga esperto,
un superiore intagliatore in legno capace di compiere con gli attrezzi della
sua arte non solo di dare movimento, quindi vita, ad un pezzo di legno in
apparenza morto, ma di produrre anche “una bellissima cornice ricca di
fogliami, di fiori e di testine di diversi animali” (cap. XXXVI). Le due
figure, S. Giuseppe e Geppetto, viaggiano quindi su binari paralleli ma
nel contempo divergenti e trasversali. Li accomuna: il nome, la facoltà
teurgica, la “parentela” tra l’aureola color oro che cinge il capo del santo e
la parrucca gialla con cui Geppetto copre la sua calvizie, segno inequivocabile
della sua antichità.
MAESTRO CILIEGIA: NON C’E’ MA C’E’
E maestro Ciliegia brontolone, fifone, falegname, colui che all’inizio
del racconto <<si sbertuccia>> ben bene con Geppetto? E’,
maestro Ciliegia, il più misterioso dei personaggi della favola
collodiana. Esso appare una volta sola: all’inizio del racconto, poi esce
definitivamente di scena dopo una solenne pellicciata e non se ne fa più motto.
Sembra un personaggio minore di cui non vale occuparsi, un personaggio
artificioso, stupido, inutile nella economia del racconto, tuttavia una specie di
araldo, un coreuta, che trascina sulla scena i personaggi maggiori cioè
Geppetto e il pezzo di legno amorfo da cui sarà tratto il burattino Pinocchio.
Sembra quasi, maestro Ciliegia, che dica: “ecco, ho fatto il mio dovere, adesso
vedetevela con loro, io sono entrato nella favola quasi per sbaglio”. Ed egli
rimane ai nostri occhi immobile, ibernato per l’eternità, in quel vano
contendere con maestro Geppetto, che nella lotta perde solo due bottoni, ma
lui, maestro Ciliegia, ne esce col naso graffiato, segno inequivocabile che
Geppetto, vecchietto arzillo, ha più vigore e dunque più capacità creativa. Di
tale differenza, ma anche del diverso spessore psichico e intellettivo di
questo maldestro stupido falegname, se ne era già accorto il Pinocchio ancora in
nuce, il Pinocchio potenziale di là da venire, ancora celato nel pezzo di
legno, celato cioè nel regno delle Madri, in attesa di pervenire al mondo
dell’essere, pezzo di legno ancora informe ma vitale, che per vendicarsi della
ottusità di maestro Ciliegia, che lo aveva sbatacchiato ben bene, si scaglia
“con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto” per far nascere un
secondo bisticcio tra i due vegliardi. Esce dunque di scena maestro Ciliegia
dopo essere stato graffiato ben bene sul naso. Ma la sua presenza, come ombra
gigantesca, è presente continuamente fino alla fine: egli è il referente
occulto di tutta la favola, dalla nascita, o meglio dalla creazione, del
burattino fino alla sua metamorfosi in fanciullo in carne ed ossa,
trasformazione che egli, maestro Ciliegia, non è in grado di compiere, perché
incapace di percepire la “vocina” che gli giungeva sì alle orecchie ma che non
captava né con la mente né con l’anima. Quella metamorfosi, che è lecito
definire metànoia, cioè capovolgimento mentale, porta dunque al passaggio dallo
stato vegetativo, primordiale, attraverso quello sensitivo, a quello
intellettivo.
L’ANIMA SECONDO ARISTOTELE
Ma non sono questi tre aspetti – il vegetativo, il sensitivo,
intellettivo – i tre aspetti dell’anima di cui ha trattato
Aristotele? Recita infatti l’ottimo Dizionario di filosofia edito dalla
BUR (1976) circa il De Anima del filosofo (pag. 490): “Conformemente alla sua
dottrina fisica, imperniata sulla distinzione tra materia e forma, ovvero tra
potenza e atto, Aristotele ritiene l’anima <<forma di un corpo naturale
che abbia la vita in potenza>>. Essa svolge tre tipi di attività,
vegetativa, sensitiva e intellettiva, le prime due in comunicazione con il
corpo, la terza separatamente da esso”. Importantissima la proposizione
“le prime due in comunicazione con il corpo”, che decodifica alla perfezione
l’allungamento del naso di Pinocchio, cioè la regressione dallo stato sensitivo
a quello vegetativo (o vegetale) quando il burattino combina una delle sue, dato
che questi due aspetti sono in comunicazione con il corpo, come vuole il
filosofo. Si spiega analogamente come il favolista ha voluto connotare la poca
virtù iniziatica di maestro Ciliegia, che nell’ultimo bisticcio con Geppetto ne
sortisce graffiato proprio sul naso: come dire che l’anima di costui, come
vedremo tra poco, partecipava ancora dell’aspetto vegetativo, e quindi per
forza di cose non sarebbe stato in grado, difettandogli la potenza teurgica, di
portare il pezzo di legno alla metamorfosi.
MAESTRO CILIEGIA UN DEMONIO
E se dunque Geppetto è il demiurgo creatore, maestro Ciliegia (a
proposito di questo frutto bisogna notarne la piccolezza senza dimenticarne il
colore, rossa come lo zucchetto e la mantelletta cardinalizi) non può che
esserne l’ombra, cioè il demonio, il male del mondo, secondo il dualismo
manicheo, dato che il falegname maestro Ciliegia è incapace di percepire la
flebile vocina del potenziale Pinocchio nascosto nel pezzo di legno grezzo. Lo
scrittore introduce maestro Ciliegia nel modo seguente: “ … C’era una
volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da
catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per
accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto
gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un
vecchio falegname, il quale aveva il nome mastr’Antonio, se non che tutti lo
chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre
lustra e paonazza, come una ciliegia matura…”. Il naso all’interno della favola
vuole esprimere la connotazione dello stato umano più elementare, più basso,
tangente lo stato vegetale. Esso, il naso, ha, infatti, tra l’altro, la
funzione di percepire gli odori, si comporta cioè come un radar capace di
ravvisare e di avvisare se gli effluvii ambientali sono compatibili con la
conservazione della vita, la parte vegetativa di ogni essere vivente, priva di
razionalità ma anche di sensibilità, perché proprio nelle sensazioni trovano a
loro volta le idee la prima radice. Allontanarsi dalla strada virtuosa,
soggiacere cioè alle tentazioni e alle forze istintuali e passionali, significa
produrre regressione in seno all’anima: Collodi, con immagine felicissima,
l’allungamento del naso, indica proprio tale transizione, cioè il passaggio
negativo da un gradino più elevato nel travaglio dell’anima verso la perfezione
a uno più basso, cioè vegetativo, che la riporta nei vortici della materia
bruta. L’immagine metaforica è concettualmente più espressiva di qualunque
descrizione verbale, un salto filosofico e di immaginazione meraviglioso.
Che cosa intende fare maestro Ciliegia (in cui i nostri lettori, messi
sulla strada e ormai smagati, dovrebbero ravvisare, sotto il velo della
metafora, la Chiesa Cattolica e il Papa) del pezzo di legno capitato nella sua
bottega? Un’opera morta, la gamba di un tavolo: ”Questo legno è capitato a
tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino” (cap. I). In
alternativa lo ritiene buono “per far bollire una pentola di fagioli”. La
cecità d’occhi e di mente di maestro Ciliegia/Chiesa è dunque, per il
favolista, assoluta: pur percependo la vocina, egli indirizza le sue ricerche
altrove, ad un armadio sempre chiuso in cui forse tiene riposti, o meglio nascosti
perché non sa più adoperarli, i ferri del suo mestiere (cioè, al di là della
metafora, gli “attrezzi” della sua arte teurgica e demiurgica, cioè salvifica),
al corbello dei trucioli e della segatura, alla strada…Un leit motiv massonico
che il Venerabile della Loggia italiana in esilio a Parigi, Ubaldo Triaca, il
12 marzo 1929, un mese dopo la firma dei Patti Lateranensi, ripeterà in un
documento inviato a tutte le Officine clandestine: “… il papa non è
purtroppo, o non è più, il capo di una Chiesa depositaria di un insegnamento
esoterico formante degli iniziati dediti al perfezionamento dell’umanità, ma è
semplicemente il guardiano di un dogma che esclude il progresso…” (R. Gervaso,
I fratelli maledetti, Casa Ed. Bompiani, pag. 306).
IL PANE E IL VINO
Al contrario, quali sono le intenzioni di maestro (attenzione, la parola
indica anche un grado massonico) Geppetto (cioè la Massoneria o il maestro
della Massoneria) circa il burattino che intende creare? “Con questo burattino
voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino”
(cap. II). Pane e vino: la metafora cristologica di quelli che sono gli
strumenti sacri della Messa è patente. Il pane e il vino come elementi di
sacralità, salvifici, sono parte dei patrimoni religiosi fin dai tempi
remotissimi. Anche Ulisse (in greco, Odüsseus, “colui che vede la strada [con
la mente]”, nome simbolico molto significativo, composto dei termini odòs,
strada, via, e òssomai, vedo con la mente, prevedo, pervenuto nel mondo latino
attraverso la variante Olüsseus, òlos, tutto, quindi Ulisse “colui che vede
tutto con la mente”) quando parte dall’isola dei Feaci (gli “splendenti”) reca
con sé pane e vino rosso, donatigli da Arète (in greco la “Virtù”) regina di
quel popolo, sposa felice di re Alcinoo (la “mente vigorosa”): “ E Arète
gli mandò dietro alcune sue schiave, / una recante un mantello pulito e una
tunica, / un’altra a portare l’arca massiccia mandava, / e un’altra pane e vino
rosso portava” (Odissea, XIII, vv. 66-69), versi di uno dei capitoli (“libri”)
più belli e misteriosi dell’Odissea che precedono di poco lo sbarco dell’eroe
ad Itaca (all’incirca la “terra pura”), nel porto sacro a Forchis, padre di
mostri, dove si trovano però un olivo frondoso, pianta sacra alla vergine Atena,
la Sapienza, nata dalla mente di Dio (Zeus, variante di Deus) e un antro
“amabile, oscuro, sacro alle ninfe che si chiamano Naiadi” con “due porte, /
una da Borea, accessibile agli uomini; / l’altra, dal Noto, è dei numi e per
quella / non passano uomini, degli immortali è la via” (vv.
109-112)(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1970). E non ci vuol molto
per intendere che sotto il velo del simbolo, il Poeta Omero comunica con
linguaggio ermetico il bivio a cui un’anima può trovarsi, il male (Forchis), e
il bene (l’olivo), la sapienza, pur dopo tante traversie ed essere quasi giunta
alla meta finale, al sospirato porto (la casa del Padre, Laerte, “colui che è
forte come la roccia”). E si intuisce che Ulisse imboccherà felicemente “degli
immortali la via”, perché “egli vede la strada”. Piace qui ricordare che Dante,
cavaliere Kadosh (“santo”) [ 30° grado della Massoneria scozzese] (René Guenon
L’esoterismo di Dante, cap. II, Ed. Atanòr, 1976) nel suo Poema [IV, 85-86]
presenta Omero con una spada in mano per significarne il ruolo di grande
Maestro iniziato, un gran prete, un jerofante mistagogo capace di guidare le
anime alla salvezza: l’arma, oltre che caratterizzarlo come maestro di
giustizia, lo individua anche padrone della perfetta conoscenza, per aver
tagliato cioè tutte le passioni carnali, le Erinni telluriche, e non perché
cantore delle armi, come erroneamente si argomenta. Si veda l’analogia
con il Buddha, che, mai cantore di armi, tuttavia è spesso rappresentato con la
stessa arma in mano.
LA LITE
Nella lite tra i due vecchietti, maestro Geppetto/Massoneria offende il
suo avversario con epiteti molto pesanti: bugiardo, asino, somaro, brutto
scimmiotto, termini che indicano il primo (“bugiardo”) la regressione allo
stato vegetale, sulla scia di quanto accade al naso di Pinocchio, gli altri
(“asino, somaro, brutto scimmiotto) regressione dallo stato razionale a
quello animalesco, sensitivo: in tutto ciò è palese l’accusa di incapacità
rivolta alla Chiesa Cattolica, di avere cioè fallito nella sua missione
salvifica: in questa missione, secondo la favola collodiana, il vuoto teurgico,
salvifico, viene colmato da Geppetto/Massoneria. Al contrario, maestro
Ciliegia, vecchietto svigorito e brontolone, al limite della demenza senile,
quantunque sbertucciato ben bene, si limita ad inveire col gentile nomignolo di
Polendina, come se fosse affetto dalla malattia demenziale nota come ecolalia.
Ma la polenta, sappiamo, è nutrimento di colore giallo, come il colore
dell’aureola che cinge il capo di S. Giuseppe. La lite iniziale tra il
falegname Ciliegia/Chiesa e l’intagliatore Geppetto/Massoneria adombra, senza
dubbio, le grandi tenzoni, non solo ideologiche, che queste due confessioni,
Chiesa e Controchiesa, hanno sostenuto l’una contro l’altra, da tempo immemorabile,
come indica anche l’età dei due bellicosi litiganti, entrambi calvi e
parruccati.
I VOLTI DI MAESTRO CILIEGIA
Ma maestro Ciliegia non esce di scena, come sembra ad una lettura
superficiale, difettante di chiave ermeneutica. Egli vien proiettato sulla
scena con altri volti, tutti negativi, disumani, perfino diabolici: egli è
(attenzione ai simboli) “il rivenditore di panni usati” (cap. IX), un essere
insignificante, che, acquattato dietro al burattino, desideroso di entrare nel
teatro (metafora del mondo) dei suoi simili per godersi lo spettacolo, acquista
da Pinocchio per quattro soldi l’abbecedario, procuratogli da
Geppetto/Massoneria, che ne avrebbe fatto un essere (massonicamente) istruito
(si noti per inciso che la parola abbecedario è coniata sulle prime tre lettere
dell’alfabeto, a, b, c; sarà un caso, ma tre sono i gradini che nel rito
massonico scozzese antico e accettato elevano un adepto a Maestro); egli,
maestro Ciliegia, è il satanico burattinaio Mangiafoco nei cui tratti
fisici e psicologici si assommano i danteschi demonii Cerbero “Li occhi ha
vermigli, la barba unta e atra / e’l ventre largo, e unghiate le mani”, Caronte
il “nocchiero della livida palude, / che ‘ntorno alli occhi avea di fiamme
rote” [ruote, ndr] (Inf. III, 98-99), l’iracondo Flegiàs (Inf. VIII,
18-24) e il mostro Gerione dal corpo di serpente, il mostro simbolo della frode
(Inf. XVII, 1-30): “Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che
metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno
scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a
terra: basti dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca
era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col
lume acceso di dietro, e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di
serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme” (cap. X); e con quella
frusta, fatta di serpenti, cioè di veleno come la coda di Gerione, e di code di
volpe, cioè di astuzia, si fa obbedire dai poveri burattini Arlecchino,
Pulcinella e compagni, che, agghiacciati dal terrore, “tremavano come tante
foglie”; egli è l’Omino (cap. XXXI), “ più largo che lungo, tenero e untuoso
come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva
sempre e con una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si
raccomanda al buon cuore della padrona di casa”, che trasporta su un carro,
“senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa
e di cenci”, Pinocchio, Lucignolo (vero nome Romeo!) ed altri ragazzi al Paese
dei balocchi nel qual paese, paese di vita spensierata, essi pian piano si
trasformano ognuno in asino, animale che, per lunga tradizione favolistica è
simbolo archetipico della perfetta ignoranza. Si noti che la parola “cenci” fa
tutt’uno con lo straccivendolo che, che all’inizio della favola, per quattro
soldi, cioè quasi per niente, acquista l’abbecedario. L’Omino è, insomma, colui
che travia i fanciulli, cioè i Massoni già fatti o in fieri, facendoli
regredire, precipitare, dallo stato razionale, illuminato, a quello animalesco,
sensitivo.
Maestro Ciliegia/Chiesa va dunque integrato con questi tre personaggi,
allo stesso modo che nell’Inferno dantesco i demonii, che atterriscono il Poeta
nel suo viaggio ultraterreno, altro non sono che la proiezione di Satana, anche
lui con tre teste.
MANGIAFOCO
Il capitolo in cui appare Mangiafoco è della massima importanza: merita
di essere approfondito perché da quell’incontro iniziano le vere e proprie
(dis)avventure del burattino.
Appena entrato in teatro, Pinocchio viene riconosciuto dai burattini
Arlecchino e Pulcinella, attori, ma anche schiavi prigionieri di
Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa: “Numi del firmamento! (notare l’esclamazione
pagana) Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio” urla Arlecchino
smettendo di recitare. Gli fa eco Pulcinella: “E’ Pinocchio davvero”. E tutti i
burattini: “E’ nostro fratello Pinocchio”. E comincia una indescrivibile
gazzarra in cui “gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti
dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza” si sprecano
(notare che le Costituzioni di Anderson affermano testualmente: “autentica
fratellanza”). Come mai i burattini si dicono tutti fratelli? Chi li ha
fabbricati? Anche loro, prima che divenissero burattini, erano racchiusi in
potenza in un pezzo di legno e avrebbero potuto seguire la strada che
percorrerà Pinocchio. E’ escluso, anche perché non è detto in nessun luogo, che
siano stati tutti fabbricati da maestro Geppetto/Massoneria e che siano caduti
nelle grinfie di Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa divenendone vittime e reclusi in
quella specie di campo di concentramento che è il teatro dei burattini. In
quella schiera vegetale è facile individuare tutti coloro che non si
redimeranno mai perché adescati dalla fascinazione potentissima che promana da
Mangiafoco. La loro è non solamente una fratellanza di sventura perché
costretti a recitare una parte che non è la loro, ma anche una fratellanza
ideale, massonica, almeno per coloro che eventualmente riuscissero a liberarsi.
E’ proprio quel che il burattinaio teme: “Perché sei venuto a mettere lo
scompiglio nel mio teatro?” egli grida col suo terribile vocione facendo
raggelare tutti i burattini-schiavi che tremano come tante foglie,
interrompendo ovviamente tutti gli abbracciamenti “della vera e sincera
fratellanza“ (massonica). Ma l’accusa del favolista è ancora più sottile e
tagliente: dando un nome preciso ai due burattini, Arlecchino e
Pulcinella, maschere topiche delle Venezie e delle Due Sicilie, fa anche capire
quali erano le regioni del nuovo regno d’Italia meno integrate in ambito
massonico e più ossequenti alla Chiesa Cattolica. Ma c’è di più. Oltre che da
Arlecchino e Pulcinella, Pinocchio è riconosciuto anche dalla signora Rosaura:
“E’ proprio lui – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla
scena”. Rosaura, in fondo alla scena, è dunque accanto al burattinaio
Mangiafoco, compagna se non sposa. Chi è costei, nominata solo in questo punto
della favola? In una commedia di Goldoni, Le donne curiose, in cui lo scrittore
difende ed esalta la Fratellanza massonica, Rosaura è la giovane ignorante e
credulona, convinta che entro le logge massoniche si tengano baccanali
sacrileghi. Dunque Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa è in buona compagnia, in
compagnia dell’ignoranza.
CHI E’ MANGIAFOCO
Come si sa Pinocchio rischia di essere abbrustolito da Mangiafoco, che
però, impietosito dagli strilli e dalle implorazioni del burattino, finisce per
fargli grazia della vita. Ma il crudele burattinaio, per portare a termine la
cottura di un suo montone allo spiedo, metafora della crapula che imbestia,
ordina che, al posto del graziato Pinocchio, sia messo al fuoco il povero
Arlecchino, il quale “fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono
e cadde bocconi per terra”. Lo scambio sacrificale fa scoccare in Pinocchio la
prima scintilla di umanità. Il burattino “andò a gettarsi ai piedi del
burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della
lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:
– Pietà, signor
Mangiafoco!…
– Qui non ci sono
signori! Replicò duramente il burattinaio.
– Pietà, signor
Cavaliere!…
– Qui non ci sono
cavalieri!
– Pietà, signor
Commendatore!…
– Qui non ci sono
commendatori!
– Pietà, Eccellenza!
A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino
tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a
Pinocchio:
– Ebbene, che cosa vuoi
da me?
– Vi domando grazia per
il povero Arlecchino”.
In questo dramma (dis)umano-vegetale è racchiusa, per il lettore ancora
scettico, la chiave che spazza via ogni residuo dubbio sulla comprensione della
favola: Mangiafoco non è signore, non è Cavaliere, non è Commendatore:
effettivamente all’interno della Chiesa questi titoli non esistono, ma, a parte
“signore” che è un titolo “laico”, Maestro, Cavaliere e Commendatore sono gradi
massonici: per l’esattezza nel rito scozzese antico e accettato: Maestro, nelle
Logge simboliche muratorie, in cui vengono assegnati i gradi primitivi o
simbolici, il 3° grado; nelle Logge di Perfezione il 4° (Maestro Segreto), il
5° (Maestro Perfetto), il 9° (Maestro Cavaliere Eletto dei Nove), il 12° (Gran
Maestro Architetto); negli Areopaghi o Consigli il 20° (Venerabile Gran
Maestro a vita); Cavaliere, nelle Logge di perfezione, il 9° (Maestro
Cavaliere Eletto dei Nove), l’11° (Sublime Cavaliere Eletto) e il 13°
(Cavaliere dell’Arco Reale); nei Capitoli, il 15° (Cavaliere d’Oriente o della
Spada), il 17° (Cavaliere d’Oriente e d’Occidente), il 18° (Cavaliere
dell’Aquila e del Pellicano); negli Areopaghi, il 21° (Cavaliere Prussiano), il
22° (Cavaliere dell’Ascia Reale), il 25° (Cavaliere del Serpente di Bronzo), il
28° (Cavaliere del Sole), il 30° (Grande Eletto Cavaliere Kadosh o Cavaliere
dell’Aquila Bianca e Nera); Commendatore, negli Areopaghi, il 27° (Gran
Commendatore del Tempio); nel Tribunale, il 31° (Grande Ispettore Inquisitore Commendatore).
Mangiafoco si commuove a sentirsi chiamare “Eccellenza”, titolo che si dava e
si dà specialmente ai gradi eccelsi della Chiesa Cattolica, a Cardinali e
Vescovi, cioè alle massime autorità spirituali di una diocesi. La parola
“Eccellenza” salva dunque il povero Arlecchino. Anzi quella “magica” parola fa
nascere addirittura amicizia tra Mangiafoco e Pinocchio.
IL DONO DEL BURATTINAIO
Alla fine, Mangiafoco, conosciute le povere condizioni economiche di
maestro Geppetto, regala al burattino cinque monete d’oro. Attenzione
però: non si tratta di un’opera di disinteressata bontà. Il dono di Mangiafoco
nasconde la serpe in seno, come dicevano gli antichi in cauda venenum, cioè
nella coda il veleno. Non si dimentichi che la sua frusta è costituita da
serpenti e code di volpe, cioè astuzia e veleno, e quindi le cinque monete
(zecchini) donate da Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa al burattino (incamminatosi
sulla strada della “redenzione” massonica) sono intrise – secondo il favolista
– di veleno. Ma, di grazia, che cosa vogliono rappresentare le cinque monete
d’oro? La risposta non può che essere trovata nei sacramenti che vengono
elargiti ai comuni mortali (i burattini del teatro di Mangiafoco) che si
affidano alla religione cristiana cattolica: battesimo, prima comunione,
cresima, matrimonio, estrema unzione. L’ultimo sacramento sarebbe inutile ai
fini della redenzione perché dato in extremis, quando ormai si è a un passo
dalla fossa: infatti una moneta viene consumata all’osteria del Gambero Rosso,
animale che, come si dice, invece di procedere in avanti, va a ritroso. Il
simbolo è più che evidente: in possesso degli zecchini d’oro donati da
Mangiafoco/Ciliagia/Chiesa, fallaci e maligni, si prende la strada del ritorno
allo stato vegetale. In contrapposizione, alla fine della favola, ad avvenuta
metamorfosi del burattino in fanciullo in carne ed ossa, la Fata dai capelli
turchini, proiezione di Geppetto-demiurgo/Iside, gli regalerà invece “quaranta
zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca” , dal chiaro significato metafisico ed
escatologico, in antitesi evidentissima con i miseri cinque donati da
Mangiafoco/Chiesa/Ciliegia, forieri di perdizione e quindi di caduta
dell’anima.
IL SEGRETO DEI NUMERI
Ma, possiamo domandarci, perché proprio quaranta? Il numero va inteso
come 33 + 7: dove 33 sono i gradi massonici del Rito Scozzese Antico e
Accettato e 7 le virtù etiche che devono costituire, e forgiano, l’abito
mentale dell’uomo superiore, vale a dire: il coraggio, la moderazione, la
magnanimità, la generosità, la mansuetudine, la franchezza, e soprattutto la
giustizia, che è la maggiore di tutte, aventi come fine il bene (Aristotele).
Non si può escludere, in via sussidiaria, che il numero 7 possa tuttavia
rappresentare anche i cieli, o sfere planetarie (ovviamente in senso figurato,
metafisico: Saturno [piombo, luogo delle tenebre, stato iniziale dell’anima
greve, ghiacciata, prigioniera della carne e del peccato, cioè dell’inferno],
Venere [stagno], Giove [bronzo], Mercurio [ferro], Marte [lega], Luna
[argento]
, Sole [oro, luce e simbolo di perfezione]) attraverso cui trasmutano
via via coloro che, convertendosi alla dottrina dei Figli della Luce, ne
percorrano i Misteri Minori (che mirano alla perfezione dello stato umano) e
Maggiori (che concernono la realizzazione degli stati sopra-umani), che passino
cioè dal grado di Apprendista (cioè burattino) a quello di Adepto – Uomo
trascendente, jerofante mistagogo che riesce ad aprire la porta del tempio di
Dio, dove la luce celeste e la verità consentono all’anima il ritorno alla vera
patria.
IL GATTO E LA VOLPE
Appena congedatosi da Mangiafoco, il burattino incontra sulla sua strada
il Gatto e la Volpe, cioè la frode moltiplicata, proiezioni della frusta del
burattinaio “fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”, se
non il burattinaio stesso capace di trasformarsi come il Proteo omerico. I due
birbanti consigliano a Pinocchio di portare le monete nel paese dei
Barbagianni, cioè degli sciocchi, e di seminarle nel Campo de’ miracoli, cosa
che, ingenuamente, il burattino andrà a fare. Similia similibus: le monete
donate da Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa non potevano che essere seminate nel Campo
de’ miracoli, ma lungo la strada il burattino incontra gli assassini, in realtà
il Gatto e la Volpe mascherati, alle cui grinfie cerca di sfuggire. Scappa,
scappa, e non trovando scampo, si arrampica in cima ad un albero di pino, di
cui è seme, alla radice della sua esistenza vegetale, cioè al massimo della
regressione allo stato vegetativo, a cui lo portano gli zecchini, che si
rivelano, così, inutili dal punto di vista salvifico.
PINOCCHIO SALTA IL FOSSO
Sennonché saranno proprio gli assassini a bruciare la pianta, da cui
Pinocchio si salva con un gran salto. Ma quelli lo inseguono sempre: a
qualunque costo vogliono derubarlo del piccolo tesoro “quand’ecco che
Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e
profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che
fare? <<Una, due! tre!>> gridò il burattino, e slanciandosi con una
gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma
non avendo preso bene la misura, patapunfete!… cascarono giù nel bel mezzo del
fosso”. Saltare il fosso tutto pieno di acquaccia sudicia, simbolo dei
“peccati” del mondo, come fa Pinocchio, creatura ormai incamminatasi sulla
strada massonica, o camminare sull’acqua in esso contenuta è un passo topico,
metaforico e metafisico, delle iniziazioni misteriche ed esoteriche. Si veda
anche quanto afferma Dante (Inf. IV, vv. 106-111) accompagnato dal suo guru
Virgilio: “Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte
mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello. / Questo passammo come terra dura;
/ per sette porte intrai con questi savi: / giugnemmo in prato di fresca
verdura”. Gli assassini, caduti nel fosso largo e profondissimo, riemersi
dall’acquaccia sudicia, ovviamente più sporchi di prima, non demordono
dall’inseguimento. “Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul
punto di gettarsi in terra e darsi per vinto, quando nel girare gli occhi
all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in
lontananza una casina candida come la neve”.
PINOCCHIO IMPICCATO
Ma alla fine il burattino viene acciuffato ed impiccato perché si
rifiuta di consegnare il suo tesoretto alle due canaglie metafisiche. A questo,
alla morte, lo portano dunque gli zecchini d’oro regalatigli dal perfido
Mangiafoco, proiezione, o per dirla con Jung, Ombra di maestro Ciliegia/Chiesa:
“A poco a poco gli occhi gli si appannarono… aprì la bocca, stirò le gambe e,
dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito” perché soffiava “un
forte vento di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava
in qua e in là il povero impiccato”, che, all’estremo respiro invoca il padre,
cioè colui, il maestro, che lo aveva tratto, anzi estratto, con gli attrezzi
della sua arte, dal legno informe dello stato vegetale: “Oh babbo mio se tu
fossi qui!…” (cap. XV). Questa morte di Pinocchio è morte iniziatica: un passaggio
di morte-rinascita, l’incantesimo da cui per il burattino sorgerà nuova vita.
E’ l’inizio della metamorfosi del burattino-adepto. Anche il viaggio
oltremondano di Dante è scandito da passaggi di morte-rinascita, da cui il
Poeta assurgerà a nuova, più profonda, consapevolezza interiore (es. Inf. I,
vv. 1-2; III, vv. 136; e soprattutto V, v. 142, “caddi come corpo morto cade”).
TRE GIORNI
Dalla nascita di Pinocchio fino a questa sua “morte” sono trascorsi tre
giorni, tre giorni in cui Pinocchio ha vissuto come un morto: notare bene
questo lasso di tempo. Nel terzo giorno Pinocchio ritorna alla vita, risorge,
lo riporterà in vita la Bambina (cioè la Fata) dai capelli turchini/Iside. Noi
a questo punto invitiamo i nostri lettori a leggersi, dei Vangeli, la parte
relativa all’agonia e morte di Gesù, che invoca il Padre, ma soprattutto il
Vangelo di Matteo (27, 45/46 ) e confrontarne i luoghi con quelli collodiani.
L’analogia tra i due racconti è stupefacente, dalla meteorologia, gli elementi
aerei che si scatenano, all’invocazione del Padre.
Un altro punto della favola che fa il paio col passo appena citato è
quanto vien narrato al cap. XXXIII. Qui Pinocchio, che per le sue male azioni,
si era trasformato in asino, aveva cioè patito e sperimentato la condizione
animalesca, condizione spirituale di gran lunga inferiore a quella di burattino
in fase di redenzione, si riburattinizza. Colui che lo aveva comperato
“condusse il ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e
legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente
uno spintone e lo gettò nell’acqua. Pinocchio con quel macigno al collo, andò
subito al fondo…”. Dopo un po’ di tempo, il compratore pensando che l’asino
fosse affogato, lo tirò su per recuperarne la pelle e “invece di un ciuchino
morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo, che scodinzolava come
un’anguilla”.
MORTE-RINASCITA DI PINOCCHIO
Seconda morte-rinascita, metafora cristologica del battesimo. Che cosa
era stata per il burattino l’esperienza asinesca? “Una vergogna, caro padrone –
confessa Pinocchio a colui che era stato il suo padrone – che sant’Antonio
benedetto non la faccia provare neppure a voi!”. Questo scongiuro apotropaico è
il clou del bellicismo ideologico massonico: è l’accusa che la sventura asinina
vissuta da Pinocchio è stata opera di sant’Antonio, come fa intendere
l’avverbio neppure. Ma il nome Antonio, guarda caso, l’abbiamo visto essere il
vero nome di maestro Ciliegia, nome di frutto tanto dolce, tanto piccolo, ma –
secondo la visione del favolista Collodi – velenifero. Il potere diabolico di
maestro Ciliegia, con le sue proiezioni di
Chiesa/Mangiafoco/straccivendolo/Omino, è per tanti versi simile a quello di
Crise, il sacerdote di Apollo, che, nell’Iliade, fa nascere una pestilenza nel
campo acheo. Anche Lucio, il protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio, dopo la
sua metamorfosi, si esprime con le stesse parole di Pinocchio: “Provai vergogna
di me, una vergogna tutta asinina, s’intende” (Metamorphoseon, XI, 23). Dall’analisi
dell’ermetismo della favola possiamo argomentare che l’unico vero massone del
secolo XIX in Italia, maestro di dottrina, fu Collodi; i consorti, quelli che
comunemente si autodefinivano massoni, erano in realtà, semplicemente, una
consorteria di carbonari rivoluzionari bombaroli che avevano mutato nome e
casacca.
IL PESCE-CANE E LA STELLA
Non si può in poche pagine analizzare tutti i passi simbolici di questa
favola pagana, così complessa ed ermetica, ad uso dei soli iniziati. Tuttavia
si rende necessario illustrarne ancora due passi fondamentali. Il Pesce-cane e
la stella. Pinocchio, ingoiato dal grande “terribile” animale, ritrova, nel
lungo oscuro e profondo budello del “mostro”, il padre Geppetto, cioè, ovunque
voi andiate, anche nei luoghi più oscuri, profondi e lontani, ritroverete la
Massoneria, che in questo particolare luogo della favola si ammanta del
tricolore: infatti Geppetto, “vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve”,
ha davanti a sé una candela, infilata in una bottiglia di cristallo verde e
accesa che spande intorno luce (che sarà per forza rossa, dato che la
temperatura di combustione della candela non è molto elevata, avviene cioè con
emissione di radiazione rossa e infrarossa). (Si noti per inciso che anche
Beatrice si manifesta a Dante vestita con abiti dagli stessi colori, Purg. XXX,
31-33). Ma nello stesso tempo il verde è simbolo di speranza, speranza di
salvarsi dalle fauci del “mostro” Pesce-cane, e il colore di maestro
Geppetto “un vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve o di panna
montata”(metafora cristologica) è indice di trasfigurazione cioè il
maestro, ingoiato dal mostro, nelle sue viscere si è trasfigurato (effetto del
pane e del vino di cui si è detto), ha raggiunto lo stato di Uomo trascendente,
cioè adepto trasformato in un centro irradiante Luce, messaggero o ambasciatore
del Logos, “il Figlio di Dio”, che discende nella materia (R. Guénon). Si
legga al riguardo quanto Matteo riporta a proposito della trasfigurazione del
Cristo: “Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la
neve” (Mt. 28, 3). Con la trasfigurazione di maestro Geppetto, il favolista
afferma dunque che solo nella comunione massonica gli adepti, i Figli della
Luce, possono pervenire all’illuminazione, cioè alla visione di Dio, alla
santità.
IL MOSTRO METAFORA DELL’INFERNO
Il mostro, da cui tra poco i due protagonisti emergeranno, è dunque
metafora dell’Inferno (non della biblica balena di Giona o di Moby Dick).
Essere stati da lui ingoiati adombra la discesa agli Inferi, cioè al regno dei
morti, ad imitazione del viaggio infero di Ulisse, Enea, Dante, e del primo di
tutti gli eroi mistici Gilgamesh, l’uomo divenuto carne degli Dei, “per due
terzi dio e per un terzo uomo” che, per la conquista dell’immortalità, attraversò
la montagna oscura lunga dodici leghe all’uscita della quale trovò il giardino
degli Dei e la luce di Shamash, il Sole, cioè la stella, che gli
abbagliava la vista col suo fulgore. La presenza di Geppetto nella bocca del
Pesce-cane ha un solo significato: la discesa agli Inferi non può essere fatta
da soli, deve essere preceduta e accompagnata dal Maestro, che svolge così il
ruolo di guru, jerofante mistagogo, ruolo che in Dante viene svolto da
Virgilio. Non stiamo qui a delucidare il simbolo astronomico del Pesce-cane
(parola scritta con un trattino di unione, un trattino molto importante) che ci
porterebbe molto lontano. Diremo solamente che richiama la costellazione dei
Pesci, sotto cui si trovava il sole nel secolo XIX, e quella del Cane Maggiore,
nella quale ultima arde Sirio, la stella più brillante del firmamento, ritenuta
da sempre ipostasi di Iside, la Gran Madre, Regina della notte, del cielo e del
mondo sotterraneo, ma anche, in Pinocchio, la Fata dai capelli turchini. I due,
maestro ed allievo, stanno per emergere dalla bocca del mostro e Pinocchio (è
lui che deve guardare) “affacciandosi al principio della gola e guardando in
su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di
cielo stellato e un bellissimo lume di luna”. L’apparizione della stella palesa
la fine del viaggio, cioè la metamorfosi dell’adepto, il compimento del
passaggio da Apprendista, a Compagno, a Maestro, a colui che possiede ormai la
perfetta conoscenza, la Gnosi, la conoscenza che permette di dare una risposta
al quesito: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo? La trasformazione è ormai
prossima e la visione della luna è un omaggio ad un altro aspetto di Iside, a
Proserpina, Regina dei morti, degli Inferi, che anche Enea (Eneide, VI, 142)
chiama bella (pulchra Proserpina). La presenza della stella, alla fine delle
traversie o prove affrontate e superate dall’eroe mistico, ha un solo
significato: siamo in presenza di un testo iniziatico. Vedi, esempio molto
esplicito e luminoso, nella Divina Commedia, la chiusa delle tre cantiche.
Anche nei Promessi Sposi di Manzoni, favola esoterica cristiana modellata
sull’Odissea di Omero, Renzo (cioè Manzoni)(cap. XXXIII, ultime righe)
“s’incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un
brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale
e porta Nuova, e molto vicino a questa”. Dichiarazione questa, molto esplicita,
di ripudio della Massoneria, a cui lo scrittore era stato affiliato in
gioventù, come fa fede la stesura del suo Fermo e Lucia, cioè, anagrammando e
spostando la m e la a, Lucifero (cioè portatore di luce) A. M. (Alessandro
Manzoni)
ASPETTI POLITICI
Dalla favola di Pinocchio abbiamo enucleato alcuni elementi sufficienti
ad illustrarne gli aspetti apparentemente oscuri. Ma il mondo di Pinocchio è
anche un riflesso del mondo reale, ma alla rovescia, capovolto.
La favola non è del tutto apolitica e atemporale come vorrebbe il
cardinale Biffi. Oltre agli aspetti esoterici e al bellicismo antiecclesiale
precedentemente esaminati, è possibile anche un altro livello di lettura,
quello di critica del sistema politico dittatoriale instaurato dai savoiardi.
Nessuno scrittore, infatti, per quanto attento o impolitico, sfugge alla
dinamica politica e sociale del suo tempo.
L’operazione di Pinocchio, seminare le cinque monete nel Campo dei
Miracoli, a parte l’aspetto denigratorio dei sacramenti elargiti dalla Chiesa
ai laici, dal punto di vista economico (un simbolo ha sempre un significato
principale e vari significati accessorii, sussidiarii o complementari, ad
esempio nel caso specifico dei cinque zecchini donati da Mangiafoco possiamo
vedere anche una parodia della parabola cristologica dei talenti riportata nei
vangeli) non è una operazione industriale, bensì una speculazione finanziaria.
Quegli anni, anni della stesura e pubblicazione della favola, furono anni di
intensa speculazione economica ed edilizia, di scandali bancarii e di rapine a
danno dei meno abbienti tra cui la famigerata e spietata tassa sul macinato. Il
pranzo del Gatto e la Volpe all’osteria del Gambero Rosso, un luogo, come vuole
il nome, dove invece di andare avanti si va indietro, è un’accusa spietata
contro quel parlamento dittatoriale italiano che governava con gli stati
d’assedio e con le prigioni, stracolme di prigionieri politici nonostante la
patente di “democraticità” di cui si vantava e sproloquiava per via del
cosiddetto Statuto, osannato ma messo sotto i piedi.
LA GRANDE ABBUFFATA
Che cosa mangiano infatti il Gatto e la Volpe all’osteria del Gambero
Rosso? Cibo che in quei tempi si trovava quasi solamente sulle mense dei ricchi
borghesi: “Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non
poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro
porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita
abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!
La Volpe avrebbe spilluzzicato qualche cosa anche lei: ma siccome il
medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una
semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre
ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per
tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di
lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il
cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca”
Politicamente il Gatto e la Volpe sono metafore non facilmente
estrapolabili. Quali personaggi politici siano adombrati sotto quelle due
sfingi non è dato sapere. E’ tuttavia molto probabile che in questa particolare
fauna di pappatori, Gatto e Volpe, siano da focalizzare il Savoia, la cui lista
civile (stipendio) superava di quattro volte quella della Regina Vittoria e di
cinque volte quella del Presidente degli Stati Uniti d’America, e il Primo
Ministro Depretis, ridottisi, da “titani” (non credeteci) del cosiddetto
risorgimento a biechi sfruttatori del popolo che si ribellava dando
violenti scossoni al sistema politico con conseguente caos sociale e caduta di
governi. Anzi il governo Depretis fece di più: quando nel 1878 in parlamento fu
ridiscussa la tassa sul macinato, approvò una legge che aboliva, per favorire i
contadini del nord, l’imposta sui cereali “inferiori” come il mais,
discriminando in tal modo i contadini del Sud, che coltivavano grano. La cosa,
in quel mondo ancora molto contadino, non era andata a genio ai parlamentari
(ormai) meridionali, sicché, quando nel 1879 la questione della tassa sul
macinato tornò in parlamento, ci fu chi ne trasse argomento per vendicarsi e il
governo Depretis cadde, travolto anche dagli scandali bancari. Ma risultò
ancora una volta Presidente del Consiglio un tale del nord, il Cairoli, e le
cose non cambiarono. Correva l’anno 1881 quando la favola vide la luce, ma essa
dovette avere un lungo travaglio intellettuale prima di essere portata alle
stampe. Qualunque fosse il governo in carica, in quell’intorno di anni i
tributi venivano ancora quasi sempre imposti dalla dittatura parlamentare (noi
siamo autoritari fino alle ossa, aveva affermato Giustino Fortunato) per
decreto invece che per legge, sempre più aumentati per coprire la voragine
senza fondo dei conti dello Stato, che spendeva oltre il settantacinque per
cento delle entrate in armamenti, una pacchia per le industrie del nord.
LA GIUSTIZIA SAVOIARDA
Per il Gatto e la Volpe il povero Pinocchio è costretto a pagare il
conto della loro crapula all’osteria, e sono loro, il Gatto e la Volpe,
che, successivamente, lo derubano delle restanti quattro monete d’oro
seminate nel Campo de’ miracoli, come dire che il popolo veniva spolpato fino
all’osso (rapine bancarie con finti fallimenti).
Pinocchio, dopo la truffa gattovolpinesca, fiducioso nella giustizia,
corre in tribunale per denunziare i due malandrini. “Il giudice era uno
scimmione della razza dei gorilla… lo ascoltò con molta benignità: prese
vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non
ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da
giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: – quel
povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e
mettetelo subito in prigione”. Nella giustizia, senza appello, dello
scimmione-gorilla (parodia del dantesco Minosse, savio giudice infernale) che
fa patire gli innocenti al posto dei rei, è sintetizzata la giustizia dei
regimi totalitari, da cui quello imperante in Italia, il savoiardo, non si
discostava in nulla. Anche la libertà, che Pinocchio recupererà, dopo ben
quattro mesi di gattabuia, è basata sullo stravolgimento di ogni principio
giuridico: per uscir di prigione il burattino sarà costretto a dichiararsi malandrino,
perché solo a costoro è concesso, a seguito amnistia, riottenere la libertà:
“Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io – disse Pinocchio al
carceriere.
– Voi no, – rispose il carceriere – perché voi non siete del bel numero…
– Domando scusa –
replicò Pinocchio – sono un malandrino anch’io.
– In questo caso avete
mille ragioni – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e
salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare”.
LA LEGGE SICCARDI
L’ordinamento giudiziario vigente in Italia all’epoca della
pubblicazione della favola era ancora quello, non tanto rispettoso dei diritti
civili, della legge Siccardi del 19 maggio 1851, reso molto più restrittivo dal
decreto Rattazzi del 13 novembre 1859, un decreto molto illiberale che
risentiva degli effetti della guerra “sostenuta” dal Piemonte in quell’anno
insieme a Napoleone III. Nel 1860 l’ordinamento giudiziario piemontese
risultava essere il più arretrato della penisola, ma fu imposto per diritto di
spada alle regioni conquistate. Le parole di Giuseppe Maranini, professore di
diritto costituzionale, riportate nel suo interessantissimo studio “Storia del
potere in Italia 1848 – 1867” (ed. Corbaccio, 1995) sono illuminanti
al riguardo: “Così quell’illiberale decreto, imposto di sorpresa e con scarsa
correttezza al regno di Piemonte, era destinato a diventare, per diritto di
annessione, lo statuto della giustizia dell’Italia liberata e unificata. Che la
rapida vicenda delle conquiste e delle annessioni plebiscitarie tra il 59 e il
61 potesse richiedere una momentanea sospensione delle garanzie liberali è
comprensibile. Grave è il fatto che quella sospensione venisse utilizzata per
dare all’Italia unificata il suo nuovo ordinamento giudiziario, un ordinamento
imposto dal potere esecutivo e interamente rivolto a subordinare la giustizia
all’esecutivo” (pag. 265). Col decreto Rattazzi i magistrati si trovarono a
svolgere il loro ruolo in condizioni molto più precarie rispetto al passato,
soggetti ai capricci del ministro dell’interno, arbitro del loro destino, che
poteva, in difetto di giudizi politicamente non conformi, trasferire, punire,
impedire avanzamenti. “Il povero magistrato che si ostinasse ad applicare
imparziale giustizia in materie di grave pregiudizio politico, poteva ormai
tenere in perpetuo le valigie pronte per lunghe peregrinazioni nelle allora
remotissime province del regno; e sempre che non gli accadesse di incappare in
qualche giudizio disciplinare” (pag. 266). A differenza dei comuni mortali che
potevano godere, in un processo, di un minimo di assistenza legale, il
magistrato caduto in disgrazia, o solamente sospettato di deviazione, veniva
sottoposto, con metodi canaglieschi, molto staliniani, a processo segreto, senza
difensore: “Ma il processo segreto, senza intervento di difensore, davanti a
magistrati essi medesimi esposti a insindacabile <<tramutamento>>
di sede per il bene del servizio, ed anche alle pericolose iniziative
disciplinari del pubblico ministero, costituiva una triste parodia di
giustizia…Se l’esecutivo con un regolamento deformava o violava una legge, il
magistrato era così obbligato a rendersi complice della deformazione o
violazione (pag. 267)… e la pubblica accusa era, in virtù delle leggi,
agli ordini del governo, fossero ordini di viltà oppure ordini di sopraffazione
e persecuzione” (pag. 274). Era questa dunque la giustizia estesa all’Italia
intera dal regime savoiardo. Un sistema stalinista privo di qualunque garanzia
costituzionale in cui poteva inserirsi liberamente l’azione sadico-criminale
(legge marziale) dei ferocissimi comandanti militari operanti al Sud che, con i
loro mortiferi pseudotribunali, decidevano del destino del popolo duosiciliano,
fucilando, imprigionando, deportando, senza che la magistratura meridionale,
terrorizzata, agghiacciata, tremante come i burattini del teatro di Mangiafoco,
potesse far valere un minimo di legalità. In questo sistema già privo di
garanzie costituzionali e giudiziarie poteva prendere corpo, nel 1863, la
criminale infame legge Pica-Peruzzi votata da un parlamento di canaglie
giacobine, legge che in solo sei mesi portò davanti al plotone di esecuzione
circa sessantacinquemila patrioti delle Due Sicilie. Era dunque questa triste
parodia di giustizia che Collodi metaforizza (e contrabbanda) nella
figura del giudice-scimmione, che incarcera gli innocenti e mantiene liberi i
rei, cioè mafiosi e delinquenti politici. Non si addice dunque a quella di
Pinocchio l’etichetta di favola metastorica e atemporale; essa, sia per
gli aspetti ermetico-massonici che per il bellicismo anticristiano e antipapale
ereditato dal 1848, e per la polemica sulla legislazione giudiziaria e sulle
truffe bancarie, è figlia verace del cosiddetto risorgimento.
Astutissimo, intelligentissimo, fu il Collodi, impegnato giornalisticamente,
nel camuffare, per salvaguardarsi da eventuali incriminazioni per crimen lesae
e per non rischiare la fucilazione funzionante a gogò, nel camuffare, si
diceva, in una cornice mitica le sue istanze polemiche contro leggi e
comportamenti vomitevoli di un parlamento e di un sovrano criminali, connivente
quasi tutta la classe baronale e borghese delle Due Sicilie, che aveva forse
fatto proprio il motto del principe Windischgrätz: “L’uomo comincia col
barone” (Der Mensch fängt beim Baron an)[UP1] .
Solo sotto il velo della metafora fiabesca, destinata in apparenza a bambini, e
pubblicata su un giornaletto per bambini, gli era possibile, in quei truci anni
di piombo, farsi intendere dai pochi che sapevano intendere e lasciare ai
posteri un messaggio critico, anche di suo non-collaborazionismo, alle future
generazioni. Solamente con la legge Zanardelli nel 1889 si pose in parte riparo
a quella pseudogiustizia, ma le tare di quest’ultima legge erano ancora tali e
tante che ”il fascismo ereditò un ordinamento giudiziario perfettamente
adeguato alle sue necessità e al suo indirizzo” (pag. 273).
Pinocchio è il simbolo dell’uomo; egli nasce da un pezzo di legno
rozzamente tagliato, ed è la materia, l’ignoranza, l’intelligenza; come un
neonato, andrà incontro ad esperienze, vicissitudini, traversie e guai, che
sono quelli della vita umana, che lo plasmano e lo modificano, i furbi ne
abusano, i malvagi lo tartassano, un grosso animale lo ingoia come ha già fatto
col babbo, ne escono, una fata l’aiuta ed infine diviene ragazzo, non più legno
ma essere umano; è un mutamento dovuto a innumerevoli colpi del male, e nella
sua nuova veste dovrà ancora misurarsi con esso, che è comune a tutti gli
uomini, procederà fra disavventure e difficoltà, aspirando alla felicità, come
tutti…
Pinocchio: da legno (materia, inerzia, ignoranza) a uomo (spirito,
volontà, sapienza). Dov’è il suo Paradiso Perduto? Potremmo localizzarlo per
lui, ma sarebbe ben triste, nell’essere burattino, legno, ignorante, inetto,
senza costruttiva esperienza del passato e senza consapevoli previsioni del
futuro. E d’altronde, dopo la fortunata (o sventurata?) trasformazione andrà
trovando conoscenza, esperienza, forza potere, emozioni e sentimenti, navigherà
fra i marosi d’una perenne tempesta, dovrà eliminare tutto il male possibile e
solo allora, se avrà successo, potrà trovare il suo Paradiso Cercato.
Trascorsi i primi undici anni
della mia vita a Pescia, praticamente ad un tiro di schioppo da Collodi, e
quindi posso dire di aver respirato l’aria di Pinocchio nel vero senso della
parola. Non solo Collodi era la meta di frequenti passeggiate a piedi,
tagliando per il colle e riscendendo dalla parte opposta con appena un’ora di
cammino, ma “Le avventure di Pinocchio” era allora spesso e
volentieri letto nelle scuole elementari, prima che sedicenti poeti o anonimi
cinesi vari infestassero i libri di testo e le “bibliotechine” di
classe.
Anche la vita quotidiana, e
non solo per quel che riguardava la scuola, faceva di questo personaggio un
essere ogni e sempre presente: nei rimproveri dei genitori… “studia o ti
crescono le orecchie lunghe e pelose”, nei consigli di una mamma
premurosa… “…butta giù la medicina sennò vengono i coniglioli neri a
portarti via”, o nelle serate fredde e buie d’inverno… “Sta’ attento
col caldano che ti bruci i piedi come Pinocchio”.
Poi gli anni passarono: io
venni via da Pescia e mi trasferii a Livorno, i termosifoni presero il posto
dei caldani di brace, inventarono le medicine al gusto di prugna e ciliegia e
se non studiavo l’unica cosa che cresceva erano i due sulla pagella. Ma
Pinocchio, il mio vecchio compagno di birichinate, non mi aveva abbandonato del
tutto: troppo era stato con me, durante le sassaiole sul greto del fiume, o
quando c’era da scaricare qualche vigna, o imbambolati e senza una lira davanti
a una giostra, a sognare il Paese dei Balocchi ed alberi ridondanti di zecchini
d’oro. Troppo lo avevo assimilato per poterlo dimenticare, e lui me. Purtroppo
i fatti della vita ci portarono a un distacco durato decenni fino a quando,
qualche tempo fa, capitandomi per caso un brano di Giuseppe Prezzolini lessi
“…Pinocchio, il più grande capolavoro della letteratura italiana”. Mi
tornò allora presente l’amico burattino e la voglia di rileggerne le avventure.
Andai in libreria e comprai un’edizione classica che assomigliava al vecchio
libro della mia infanzia. Cominciai a leggerlo quasi con vergogna,
nascondendomi alla vista dei miei figli e con l’intima preoccupazione che non
sarei riuscito a portare a termine quella lettura, così leggera, futile,
sciocca…
Non è andata così; anzi le
pagine mi scorrevano via ed ogni tanto mi fermavo a pensare e a rileggere,
analizzavo il testo attentamente come se esso ora mi parlasse in una lingua
nuova e mi svelasse cose che, quasi cinquant’anni prima, non ero riuscito ad
afferrare e comprendere… e quando finalmente, arrivato all’ultimo rigo, ho
chiuso il libro, dentro di me ho pensato “Pinocchio, tu sei mio
Fratello”.
Una nuova esaltante
lettura
Esistono secondo me due
chiavi di lettura per “Le avventure di Pinocchio”: la prima chiamiamola
“profana”, nella quale il lettore, certamente un bambino, prende
coscienza di quelle che io definirei “disavventure”, piuttosto che
avventure, del povero burattino di legno. La seconda è una lettura in chiave
massonica dove uno spiccato simbolismo si integra, pur senza sostituirla, in
quella che è la semplice e lineare narrazione dei fatti. L’appartenenza di
Carlo Collodi alla Massoneria, pur non comprovata da alcun documento ufficiale,
è universalmente riconosciuta e i riferimenti in tal senso sono numerosissimi.
Aldo Mola, non massone ma che comunemente viene definito come lo storico
ufficiale della Massoneria italiana, dà per certa l’appartenenza dello
scrittore alla Famiglia Massonica. Alcuni fatti biografici inoltre sembrano
convalidare questa tesi: la fondazione nel 1848 di un periodico liberale
intitolato “Il Lampione”, che come ebbe a dire il Lorenzini stesso
doveva “far lume a chi brancolava nelle tenebre”, la partecipazione
alle prime due guerre d’indipendenza, con i volontari toscani nel ’48 e come
volontario arruolato nell’esercito piemontese nel ’59, e la sua estrema
vicinanza ideologica con il Mazzini per la quale egli stesso si definiva
“Mazziniano sfegatato”.
Ma qual era allora
l’intenzione primaria del Collodi, comporre una storia per bambini o uno
scritto massonico?
Difficile rispondere, anche
perché se si tiene presente la prima stesura del libro “Storia di un
burattino”, che al capitolo XV°, sui 36 dell’opera definitiva, si
concludeva con la morte di Pinocchio impiccato alla grande quercia, non
possiamo parlare né di storia per bambini, perché essa non è certo divertente
né tanto meno didattica nella sua estrema truculenza; né possiamo vedere in
essa un alcunché di esoterismo massonico perché ne manca la filosofia di fondo.
Allora forse la risposta è in quei 20 centesimi a riga che lo scrittore
percepiva dall’editore. Ma nel 1881 il Collodi riprende il suo vecchio scritto,
lo cambia e lo amplia portando a termine quell’opera che tutti conosciamo.
C’era stato quindi nell’autore un ripensamento: da una storiella sterile, cupa,
senza speranza, era nata quella che diventerà nel volgere di pochi anni la
storia più famosa del mondo.
Pinocchio tra Libertà,
Uguaglianza e Fraternità
Rifacciamoci allora la
domanda: Comporre una storia per bambini o uno scritto massonico? Ritengo vera
e naturale la prima delle due ipotesi, ma altrettanto vero è che egli abbia
voluto descrivere e criticare uno spaccato della società del suo tempo ed è
infine naturale il fatto che egli abbia trasferito nella narrazione della
storia quegli elementi simbolici ed esoterici propri della cultura
dell’Istituzione di cui faceva parte, riuscendo a fondere i due elementi in
misura così profonda per cui questi ultimi possono risultare evidenti solamente
a chi, come l’autore, sia stato educato ad un certo modo di vedere e
interpretare le cose. Nel corso degli anni molti critici hanno dato del romanzo
un’interpretazione religiosa in senso cattolico; ultimo della serie il
Cardinale Giacomo Biffi: non mi sembra proprio, almeno che per religiosità non
si intendano quei concetti e quei valori, quali la bontà, la generosità, il
perdono, la famiglia, che sono alla base anche di ogni istituzione civile. Nel
romanzo però non appare nessun personaggio legato al mondo della religione, e
tutti sappiamo quale importanza non solo spirituale ma anche politica avesse la
Chiesa nell’800 e come essa cercasse di influire sulla cultura e
sull’educazione nazionale: sarebbe stato quindi normale che in una storia che
vede per protagonista un burattino-bambino che vive in un paesino di campagna,
si inserisse in qualche modo la figura di un prete, o come minimo si facesse
accenno a qualche attività connessa alla religione praticata: al contrario, di
preti, chiese, immagini sacre, feste, cerimonie e pratiche religiose, neppure
l’ombra, e direi che questo è stato deliberatamente voluto, anche perché il
Lorenzini non era certamente all’oscuro di manifestazioni e teorie religiose,
avendo studiato presso gli Scolopi per qualche anno.
Analizzando bene tutta la
struttura del libro, questa risulta imperniata su tre componenti fondamentali:
la LIBERTA’, perché Pinocchio è un essere libero che ama la libertà;
l’EGUAGLIANZA sia perché l’unica aspirazione di Pinocchio è di essere simile
agli altri sia perché nessun personaggio prevale sull’altro né per importanza,
né per rango o ceto sociale; la FRATERNITA’, perché questo è il sentimento
principale per cui agiscono i personaggi della storia nelle più disparate
situazioni.
Il Tempio di Pinocchio
Che cos’è quindi “Le
avventure di Pinocchio”? Apriamo il libro ed entriamo in un Tempio
Massonico, un Tempio dove sta per svolgersi la cerimonia più importante della
vita massonica, cioè un’Iniziazione, un’iniziazione completa, cioè nei suoi tre
gradi. E chi sta per essere iniziato? Pinocchio forse? No! …ma procediamo con
ordine.
“C’era una volta…”
– “un re….” – “no…, un pezzo di legno!”, o forse sarebbe
meglio dire “all’inizio c’è un Maestro”, Mastro Antonio, detto
Maestro Ciliegia che potrebbe essere benissimo il Maestro Venerabile di questa
ipotetica Loggia. Mastro Antonio è un bravo falegname che si trova tra le mani
un pezzo di legno; se fosse stato uno scalpellino avrebbe avuto certamente a
che fare con una pietra. Fatto sta che da questa “pietra” il nostro
Maestro vuole ricavarne qualcosa di buono, anzi di utile come una zampa di
tavolino: e così -dice il Collodi- prese un’ascia arrotata per cominciare a
digrossarlo. Ma il bravo Maestro falegname si accorge ben presto che quel pezzo
di legno, quasi informe, un semplice pezzo da catasta, non un legno di lusso,
ha però in sé nascosta una qualità eccezionale: è vivo; dovrà quindi servire a
qualcosa di più importante che non diventare una zampa da tavolino o finire
addirittura nel focolare.
“In quel punto fu
bussato alla porta” – “Si bussa da profano alla Porta del
Tempio”. Ed ecco entrare il nostro bussante, Geppetto.
Geppetto è un vecchietto
bizzosissimo, facile a diventare subito una bestia e non c’è più verso di
tenerlo, non è che la tolleranza sia il suo forte ma fondamentalmente è un
brav’uomo. A chi meglio di lui potrebbe il venerabile maestro Antonio affidare
l’incarico di digrossare quel pezzo di legno e farne qualcosa di buono? Ed è
così che Geppetto si porta il suo rozzo pezzo di legno, o se vogliamo la sua
pietra grezza, nella sua misera casa che guarda caso assomiglia molto ad un ,
“…una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala, una seggiola
cattiva, un tavolino tutto rovinato, un fuoco acceso ma dipinto, come dipinta è
la pentola dell’acqua che bolle, come altrettanto dipinto è il fumo che essa
manda fuori. Qui Geppetto compila il suo Testamento: fabbricherò un burattino,
lo voglio chiamar Pinocchio, il nome gli porterà fortuna; ho conosciuto una
famiglia di Pinocchi, tutti se la passavano bene… il più ricco chiedeva
l’elemosina. E, trovato il nome al suo burattino, Geppetto comincia a lavorare
a buono, armato di semplici arnesi e tanta volontà, in mezzo a tanti dubbi e a
tante speranze; passando attraverso varie difficoltà, riesce finalmente a
digrossare il pezzo di legno e a farne un burattino, un burattino perfetto nel
suo essere burattino, ma pur sempre un burattino. Nasce Pinocchio dunque, un
burattino di sani costumi, ma non del tutto formato, e suscettibile quindi di
essere spesso traviato dai richiami allettanti della vita profana. Da questo
momento in poi Geppetto e la sua creatura vivono quasi in simbiosi, l’artefice
si identifica con la sua opera, soffrono l’uno delle sofferenze dell’altro,
gioiscono delle reciproche speranze, affrontano le stesse traversie, sia pure
in modi e luoghi diversi. Nel capitolo VI°, mentre Geppetto è in prigione,
Pinocchio si trova ad affrontare un ventaccio freddo e strapazzone, una
catinellata d’acqua ed infine il fuoco che gli brucerà i piedi: aria, acqua,
fuoco… può essere tutto questo casuale?
Da Apprendista a Compagno
Sgrossata la pietra grezza,
Geppetto è riuscito a passare dal primo al secondo grado: ha fatto
indubbiamente progressi ma è ancora lontano dalla perfezione a cui idealmente
aspirava; egli comunque non è più il tipo irascibile descritto nei primi
capitoli, così come il burattino abbandona progressivamente la sua mentalità di
rozzo pezzo di legno per assumere, almeno a sprazzi, larvati comportamenti
mentali umani. Con i piedi rifatti, dopo essere passato attraverso la prova del
fuoco, Pinocchio comincia a fare dei ragionamenti: “Vi prometto, babbo,
che anderò a scuola, studierò e mi farò onore… imparerò un’arte e che sarò la
consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”. Come non cedere a
simili prospettive? E così Geppetto pur di vedere la sua opera realizzata, e
lui stesso in essa, non esita un attimo a vendere la vecchia casacca per
comprare l’abbecedario, e da questo momento in poi tutto il succo della vicenda
sarà imperniato sulla scuola, sull’istruzione, sulla maturazione del burattino
fino alla completa trasformazione. Ma quante prove ancora, e tutte imperniate
sul trinomio aria-acqua-fuoco, dovrà egli affrontare?!?! Rischia di essere
bruciato nel barbecue di Mangiafuoco o di essere bruciato dal falò acceso dagli
assassini (Il Gatto e la Volpe), ondeggia al vento impetuoso di tramontana
impiccato alla Grande Quercia, si libra nell’aria a cavalcioni di un colombo,
si getta in mare per raggiungere il babbo, sarà gettato in mare sotto le
sembianze di ciuchino per essere affogato, e poiché attraverso queste prove
egli passerà dopo una qualche malefatta dovuta alle tentazioni della vita
profana, esse assumono una funzione purificatrice ed infatti da ognuna di
queste prove egli uscirà progressivamente sempre più rafforzato e migliorato.
Una fatina massonica
E la Fatina dai Capelli
Turchini? Possibile che di questo personaggio così importante ci siamo
dimenticati fin qui? No assolutamente, perché pur senza mai nominarla
direttamente essa è stata sempre presente; essa è l’anima della nostra
esposizione: essa è la personificazione della Massoneria, è l’espressione della
Ragione: i suoi interventi non sono ispirati né dalla fede, né dalla speranza
né tanto meno dalla carità. Essi sono improntati al massimo del Razionalismo,
una razionalismo esasperato nella sua semplicità (vedi cap. XXV°). Nella
narrazione la Fatina interviene per la prima volta quando, battendo tre colpi,
dà il segno per soccorrere Pinocchio appeso per il collo alla Grande Quercia:
lo accoglie nella sua casa luminosa e piena di delizie ma prima ha bisogno di
tre dottori che le confermino se egli è vivo o morto. Le diagnosi, sia pur
positive nel complesso, lasciano tuttavia adito a qualche perplessità per cui
il burattino deve prendere coscienza di che cosa vuol dire rimanere a vivere in
quella casa: Pinocchio ottiene lo zuccherino ma subito dopo deve ingerire la
medicina amara e di lì a poco la Fatina, raffigurata in questa prima
apparizione come una bambina, dirà a Pinocchio: “Tu sarai il mio Fratellino…”:
è tale la corrispondenza con il rituale di iniziazione che non è pensabile che
questo riferimento da parte del Collodi sia inconsapevole e casuale.
La seconda volta che
Pinocchio incontra la Fatina, questa non è più bambina ma è diventata donna ed è
a lei che Pinocchio esprime per la prima volta il desiderio di divenire un
bambino vero, un uomo. La Fata gli premette che dovrà superare alcune prove e
dovrà soprattutto e prima di tutto andare a scuola ed imparare; Pinocchio
promette, giura e… spergiura. Effettivamente il comportamento del burattino
sembra intraprendere la strada giusta, tanto che un bel giorno la Fatina gli
annuncia che il giorno dopo egli diventerà un bambino in carne ed ossa:
addirittura si prepara la festa e si fanno gli inviti, ma ancora una volta il
mondo profano attrae fatalmente Pinocchio trasportandolo nel Paese de’
Balocchi. Dopo questa paurosa esperienza avrà inizio la redenzione e Pinocchio
rivedrà solo indirettamente una terza volta la Fata dai Capelli Turchini ma
nelle sembianze di una capretta che lo assiste e cerca di aiutarlo mentre sta
per essere inghiottito dal pescecane, avviandosi così verso la sua catarsi
definitiva.
Da Compagno a Maestro
Entrando nelle fauci del
terrificante pesce, Pinocchio inizia il passaggio al terzo grado, la morte e la
definitiva rinascita. “Pinocchio -scrive il Collodi- battè un colpo così
screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora”. Quando ritorna in
sé si trova immerso in un buio così nero e profondo da sembrare entrato in un
calamaio pieno d’inchiostro. Immerso in questa oscurità totale, con il terrore
di essere “digerito” dal pesce, finalmente Pinocchio vede una specie
di chiarore, un lumicino, “forse qualche compagno di sventura che aspetta
anche lui di essere digerito…”, “Voglio andare a trovarlo. Non
potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la
strada per fuggire?”. E così Pinocchio si mette a percorrere quella strada
indicata dal lumicino e, riporto testualmente, “più andava avanti, più il
chiarore si faceva rilucente e distinto”. Il burattino arriva finalmente
alla fonte di quella luce: è una candela accesa da Geppetto, raffigurato come
un vecchiettino tutto bianco in condizioni pietose. L’artefice e la sua opera
sono di nuovo insieme, uniti e pronti per vedere finalmente la luce che appare
loro sotto forma di un cielo stellato e un bellissimo lume di luna. Geppetto
viene preso a cavalluccio da Pinocchio e portato in salvo: l’artista torna alla
vita per tramite della sua opera.
Ora il burattino è pronto per
diventare uomo; la pietra grezza è stata completamente digrossata; manca
solamente l’ultimo passaggio, la levigatura. Pinocchio infatti comincia a
studiare e lavorare forte per suo padre e contemporaneamente manda i frutti
della sua fatica alla buona Fata che ha bisogno di lui anzi, per aiutarla,
rinuncia a comprarsi un vestito nuovo. E il momento è arrivato: una mattina
Pinocchio apre gli occhi e si accorge di non essere più un burattino di legno
ma un ragazzo; non è più in una capanna dalle pareti di paglia ma vede una
bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante; è
ricco perché i quaranta soldi mandati alla Fatina gli sono ritornati sotto
forma di quaranta zecchini d’oro: gli sono stati resi i metalli. Pinocchio
corre dal povero babbo nella stanza accanto e si trova davanti un Geppetto sano
e arzillo e di buon umore. E così il passaggio al Terzo Grado è compiuto,
l’iniziazione si è completata.
La scena si chiude nel Tempio
con il buon Geppetto che soddisfatto da una parte contempla Pinocchio divenuto
uomo, cioè la pietra ben squadrata e finalmente levigata, dall’altra osserva il
vecchio burattino di legno, appoggiato, rigirato, con le braccia ciondoloni e
le gambe incrocicchiate. In questo sta l’originalità del romanzo: Pinocchio non
ha subito una metamorfosi, non si è trasformato in “umano”: è nato
invece un nuovo essere ed il burattino è rimasto là quasi a testimoniare un
messaggio di continuità. E’ nell’ultima frase del romanzo, che il Collodi fa dire
a Pinocchio, che si racchiude e si concentra l’orgoglio di essere iniziato
Fratello Libero Muratore: “Com’ero buffo, quando ero un burattino! E come
ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…”.