RIFLESSIONE 1

“La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell’universo,
e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente
negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell’anima”.

da: Ricordi Sogni Riflessioni di Carl Gustav Jung (1875-1961)

“Colui che conosce gli altri è sapiente;
colui che conosce se stesso è illuminato.
Colui che vince un altro è potente;
colui che vince se stesso è superiore”.

Lao-Tzû (IV o nel V secolo A.C.)

Un saggio disse ai suoi discepoli:
“spiegate questo mio gesto!” e gettò a terra il suo bastone.
Quelli andarono e tornarono da lui con mille spiegazioni,
ma nessuno lo accontentò.
I discepoli perplessi gli chiesero quale fosse allora la vera interpretazione:
il saggio prese il suo bastone e di nuovo lo gettò a terra.

Anonimo

“Non vi è nulla di nascosto che non debba essere rivelato.
Né cosa segreta che non venga alla luce”.

Matteo, cap. X, v. 26 – Marco, cap. IV, v. 22
Luca, cap. VIII, v. 17 – cap. XII, v. 2

“Possiamo essere liberi solo se tutti lo sanno”.

G. W. F. Hegel (1770-1831)

“È mondanità quando si abbandona il mondo,
ma interiormente si è parte di quel mondo di invidia, cupidigia, paura;
si accetta l’autorità e la divisione fra colui che sa e colui che non sa”.

Krishnamurti (1895-1986)

“Tutte le cose erano insieme;
poi venne la mente e le dispose in ordine”.

Anassagora (499-428 a.C.)

“Sulle ginocchia dei genitori eri un neonato che piangeva,
mentre tutti intorno a te sorridevano.
Vivi, dunque, affinché scivolando nel tuo ultimo lungo sonno,
tu possa sorridere mentre tutti intorno a te piangeranno”.

Hafiz (1325 ca.-1389 ca.)

“La scienza ha radici nell’immanente,
ma porta l’uomo verso il trascendente”.

Papa Giovanni Paolo II


Frase incisa sul lucernario della Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri in Roma “Fa che i miei occhi vedano sempre il rosso e il viola dei tramonti.
Rendimi saggio, così che io possa conoscere le cose
che tu hai insegnato alla mia gente,
i misteri che hai nascosto in ogni foglia e in ogni roccia.
Fa che io sia sempre pronto a venire a Te
con le mani pulite e a testa alta,
in modo che quando la vita svanirà come svanisce il tramonto,
il mio Spirito possa raggiungerti senza vergogna”



Tom White Cloud – Ojibway “Il calunniatore è simile all’uomo che getta polvere contro un altro
quando il vento è contrario;
la polvere non fa che ricadere addosso a colui che l’ha gettata.
L’uomo virtuoso non può essere leso e il dolore che l’altro vorrebbe infliggere, ricade su lui stesso”.



Buddha

“Non si può cogliere nell’altro ciò che non si conosce in sé”.

Holmes

“Noi non soffriamo per le cose del mondo,
ma per le nostre credenze sulle cose del mondo”.

Epitteto (50 ca.-138 ca.)

“Se non conosci bene te stesso, come fai a conoscere un altro?
E quando conosci te stesso, tu sei l’altro.”

Nisargadatta Maharaj (1897-1982)

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L’AGAPE IL RITUALE

L’Agape rituale costituisce una vera e propria Operazione Iniziatica la cui tecnica consiste nel trasmutare, “in compagnia” (da cum pane), il cibo materiale in “Cibo Spirituale”. E’ quindi necessario impiegare tutte le proprie facoltà affinché tale operazione conduca alla Realizzazione voluta. Pertanto si raccomanda di:

1- lasciare fuori dal luogo d’Agape ogni cura profana;

2- entrare nel luogo d’Agape in abito scuro, con le insegne massoniche del grado, in dignitoso silenzio (l’entrata sarà regolata dal Maestro delle Cerimonie);

3- osservare, durante i lavori, il migliore raccoglimento possibile (qualora si voglia parlare o commentare col vicino, lo si faccia sommessamente), compiere quanto è necessario per raggiungere il massimo della serenità interiore;

4- non essere frettolosi nella “consumazione” dei cibi e trovare il “ritmo” con i Fratelli;

5- impiegare tutte le facoltà nella penetrazione del Rito, onde parteciparne attivamente ; al riguardo si raccomanda particolarmente di concentrarsi su quanto esporranno il Maestro Venerabile ed il Fr. Oratore;

6- riservarsi di parlare costruttivamente quando sarà concessa la parola, preventivamente richiesta al proprio Sorvegliante;

7- uscire dal luogo d’Agape in dignitoso silenzio, secondo l’ordine che verrà regolato alla fine dei lavori;

8- dopo la fine dei lavori, sistemare con ordine gli Arredi, gli Strumenti e gli indumenti rituali;

9- infine, dopo aver riordinato tutto, sostare con i Fratelli in letizia. Questo “sostare in letizia” è di fondamentale importanza, poiché in questo momento avviene la “digestione” di tutto il lavoro di cibi per l’Agape Rituale

1. Pane azzimo

2. Vino rosso d’uva

3. Uova non gallate, cotte in 5′

4. Verdure e ortaggi di stagione, freschi, e olive verdi

5. Agnello cotto arrosto su carboni di legna

6. Frutta fresca di stagione e frutta secca

7. Acqua di fonte.

– Tutti i cibi e le bevande saranno serviti dai FF. Serventi (gli Apprendisti più giovani).

– Durante il Rituale va messo pochissimo cibo nel piatto.

– Solo dopo, quando la Loggia sarà in libertà, si consumeranno i cibi più copiosamente, seppure moderatamente.

– Saranno intercalati brani musicali prescelti e/o letture del Fr. Oratore, predisposte opportunamente.

– La tavola d’Agape deve essere approntata in ogni dettaglio, prima dell’ingresso dei Fratelli;

– Saranno stati predisposti i candelieri, il libro sacro, la squadra e il compasso, il Testimonio, il braciere, la Menorah, il bruciaprofumi con i carboncini e le resine (Incenso e Mastice) preparate dal Maestro Venerabile, i Rituali ai loro posti, il candelino presso il Testimonio, carta e lapis di carbone per il tracciamento del Quadro di Loggia.

– I FF. si riuniranno in silenziosa attesa e, con l’aiuto dei FF. Esperti, procederanno ad “allineare” i loro corpi con il Rito d’Agape;

– Il M. V. accende col suo fuoco il candelino tenuto nella mano destra del M. d. C..

– Il M. d. C. entra, accende il Testimonio, pone sui carboncini le resine indicate dal M. V., poi esce, per introdurre nell’ordine dovuto i FF., prima gli Apprendisti, poi i Compagni, indi i Maestri, poi gli Ufficiali e i Dignitari, ultimo il M. V. (n.b.: gli Ospiti entrano con gli altri FF. secondo l’ordine che sarà predisposto dal M. V., coadiuvato dal M. d. C. e dai FF. Esperti).

I  BRINDISI:

            AL GRANDE ARCHITETTO DELL’UNIVERSO             (si beve un poco)

            ALLA MASSONERIA UNIVERSALE                               (si beve un poco)

            ALLE SUE GUIDE                                                              (si beve un poco)

            A TUTTI GLI ESSERI VIVENTI                                        (si beve un poco)

            ALLE NOSTRE FAMIGLIE                                                (si beve un poco)

            ALLA NOSTRA TERRA                                                     (si beve un poco)

            AL SOLE FECONDATORE DELLA NATURA                (SI VUOTA LA COPPA)

                Oppure [od anche (in tal caso il Ven. ripete:

                FF., colmate le coppe.

            (pausa)

                FF. in piedi per gli altri sette brindisi.

            (pausa)

            (al brindisi si beve senza dire “fuoco”)

Alzate i calici]:

            AL SOLE                               (si beve un poco)

            ALLA LUNA                         (si beve un poco)

            A MERCURIO                      (si beve un poco)

            A MARTE                             (si beve un poco)

            A VENERE                            (si beve un poco)

            A GIOVE                               (si beve un poco)

            A SATURNO                        (SI VUOTA LA COPPA)

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FOTOGRAFI D’ITALIA: ALDO FABRIZI E PAOLO STOPPA

FOTOGRAFI D’ITALIA:

ALDO FABRIZI E PAOLO STOPPA

Ido Fabrizi (Roma 1905 – Roma 1990) e Paolo Stoppa (Roma 1906 – Roma 1988) nascono a Roma e pur nella diversità dei ruoli interpretati, sono entrambi espressione di quella romanità sagace e capace di cogliere dettagli rivelatori. Dettagli che una volta colti e isolati diventano l’elemento sul quale costruire personaggi che compongono una galleria fotografica di vezzi, vizi e virtù di una società, quella italiana, fascista e contadina e poi repubblicana e industrializzata. Si tratta del dettaglio che tradisce le origini sociali tenacemente nascoste o le vere intenzioni al di là dei sorrisi e delle disponibilità dichiarate o, al contrario, che racconta di buoni sentimenti celati per pudore. Sono i caratteri autentici dell’umanità che affolla le strade della capitale e oltre, sino a ricomprendere caratteri generali che appartengono agli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine. Più che una lunga ed esaustiva elencazione di titoli e di collaborazioni, è questo l’aspetto al centro della mia breve riflessione.

Entrambi appartengono a quella ristretta élite di attori che possiedono ben altri stru-

menti oltre la capacità di recitazione e trasformazione. Gli occhi sono macchine fotografiche pronte a cogliere quel particolare che una volta elaborato, seguendo lo stesso procedimento della fotografia nella camera oscura, rende nitida l’immagine che diventa un nuovo personaggio dallo spessore unico.

Entrambi hanno in comune, ancora, lo stesso tipo di allenamento, frequentano infatti la stessa palestra: la loggia massonica. Aderiscono alla Gran Loggia degli Antichi Liberi Accettati Muratori e sono legati alla Loggia Gustavo Modena come molto altri colleghi, altrettanto noti, del mondo dello spettacolo di quegli anni. Nonostante Stoppa abbia sempre negato la sua affiliazione, durante il fascismo il suo nome compariva negli elenchi dei potenziali sovversivi controllati dal regime in quanto iscritto alla massoneria.

Sebbene storicamente la massoneria abbia sempre accolto in loggia artisti di ogni tipo, in Italia la persecuzione fascista prima e l’influenza della gerarchia vaticana sul regime democristiano in seguito, hanno rappresentato un forte disincentivo a dichiarare la propria affiliazione. Nell’Italia cattolica e bacchettona del secondo dopoguerra, il veto di un potente dell’establishment poteva rappresentare un ostacolo insormontabile. Per non parlare della reazione che avrebbe potuto determinare nella società e quindi tra il pubblico. Eppure, questa identità apparentemente celata si disvela nella capacità di cogliere e rivelare l’umanità al pubblico che è fonte d’ispirazione suo malgrado e che suo malgrado è messo di fronte a una visione (teatrale e cinematografica) rivelatrice: la connessione tra comportamenti e caratteri. Il pubblico ride e si commuove di sé stesso, prova turbamento perché ognuno nel proprio intimo – nel buio della sala cinematografica, del teatro o del proprio salotto – è per un attimo costretto a fare i conti con il vero sé stesso gelosamente nascosto nelle pieghe del proprio animo e ad ammettere se c’è più dell’eroico don Pietro interpretato da Fabrizi nel film capolavoro di Rossellini, Roma città aperta (1945) o dell’ex fascista pusillamine a cui presta il volto Paolo Stoppa in un celebre episodio della serie Peppone e don Camillo.

Aldo Fabrizi nasce in un quartiere popolare e debutta in periferia]. A teatro. Stoppa appartiene a una Roma più agiata, quella della borghesia. Dopo avere abbandonato gli studi giuridici entra nella scuola di recitazione Eleonora Duse. Non deve preoccuparsi del suo mantenimento né di quello della famiglia e le condizioni economiche di cui gode, gli consentono di seguire la sua vocazione cimentandosi in ruoli brillanti e poi via via in personaggi più duri, ambigui, malinconici. Tanto grande nel ruolo di uomini tanto piccoli che riescono, nonostante tutto, a strappare un sorriso non disgiunto da pena e fors’anche da fastidio. Fabrizi è il primogenito di sei figli e deve, ancora bambino, abbandonare gli studi per lavorare e aiutare la famiglia svolgendo i lavori più disparati. La sua scuola di recitazione è la vita.

Per entrambi il debutto avviene a teatro nel corso degli anni Venti. Fabrizi esordisce in quelli di periferia, dove i sogni sono più grandi e il pubblico nazional-popolare. Un pubblico che Fabrizi conosce bene perché anche lui è uno di loro. E’ un pubblico più difficile, che interrompe e rumoreggia e che sai tenere a bada o finisce per prendere il tuo posto.

Esordio da macchiettista, seguendo una passione che è vocazione, anche se a teatro

ha già prestato le sue parole come canzoniere. A portare in scena le sue canzoni è Beatrice Rocchi in arte Reginella, con la quale gira tutti i teatri d’Italia, diventa sua moglie e lascia poi il palcoscenico per occuparsi dei due figli.

Seguono radio, cinema – come attore e regista -, ancora teatro e televisione. La consacrazione c’è con il ruolo drammatico di don Pietro a fianco di Anna Magnani nel 1945 in Roma città aperta. La stagione neorealista vede Fabrizi tra i suoi protagonisti (diretto nel 1948 da De Sica in Ladri di biciclette). Una carriera lunga e ricca di collaborazioni, a teatro, nel cinema, in televisione, con Steno, Monicelli, Scola, Garinei e Giovannini, Fellini.

La sua passione per la cucina è più di un hobby, è un’altra espressione della sua arte, è un omaggio alle sue origini popolari, di (ex) giovane affamato di cibo e di vita che celebra in versi la pastasciutta. Buongustaio, palato allenato e lingua al vetriolo stando al racconto del Fabrizi privato tracciato da uno dei figli  .

Anche per Stoppa l’esordio avviene sul palcoscenico del teatro e prosegue con il cinema e la televisione. Dalla fine degli anni Venti interpreta via via ruoli sempre più significativi. Negli anni Trenta entra a fare parte della compagnia stabile del Teatro Eliseo e stabilmente fa coppia artistica e di vita con l’attrice Rina Morelli e con lei forma la compagnia Stoppa-Morelli che sotto la direzione di Luchino Visconti diviene una delle compagnie teatrali più importanti. L’esordio al cinema vede protagonista la sua voce, un po’ come per il Fabrizi cantante degli inizi con la sua Reginella, è infatti doppiatore di molti attori famosi (Fred Astaire e Kirk Douglas ad esempio) e tra i fondatori della Cooperativa Doppiatori Cinematografici. Una carriera che lo porta a lavorare con i più grandi maestri del cinema: Monicelli, De Sica, Visconti, Rossellini, Risi, Luigi Comencini, Dino Risi, Leone.

Le interpretazioni di Fabrizi e Stoppa sembrano un trattato sociologico più  che una galleria di personaggi. L’italiano che si arrangia confonde e sovrappone la grande risorsa della creatività italica con l’imbroglio. Il tranviere, il pescivendolo, il bigliettaio e i tanti personaggi interpretati da Fabrizi sono uomini ingenui, impiccioni, rompiscatole, di buon cuore, egoisti, furbi. Sono uomini che appartengono a tutte le epoche. La guardia che rimbrotta severamente il ladruncolo Totò in Guardie e ladri (1951), non viene meno al proprio dovere di tutore della legge se in fondo prova comprensione per la povertà e le difficoltà quotidiane del ladro.

Lo straordinario PaoloStoppa/Calogero Sedara ne [l Gattopardo (1963) è un parvenu senza tempo. I caporali che Stoppa interpreta in Siamo uomini o caporali (1955) sono opportunisti e trasformisti come tanti troppo uomini di potere di ogni stagione politica; sono forti con i deboli e viceversa come tanti troppi uomini tout court. Eppure strappano un sorriso anche i personaggi più sgradevoli, come l’ex fascista al quale è ancora Stoppa a prestare il volto in uno dei film della serie Peppone e don Camillo (interpretati rispettivamente da Fernandel e Cervi). Un vile che non ha semplicemente seguito il corso degli eventi. Il suo essere fascista è una sorta di travestimento perfetto per celare e al tempo stesso manifestare la sua natura di prevaricatore, si, ma solo se spalleggiato dal gruppo degli squadristi. A guerra finita, per tornare nel suo paese deve aspettare l’occasione fornita dal Carnevale, ricorrendo ancora a un travestimento. Il costume da indiano che dovrebbe proteggerne l’identità, svela la sua natura di uomo vile e pieno di paura nel momento in cui resta solo ad affrontare le conseguenze delle sue azioni.

Stoppa e Fabrizi portano in scena l’uomo in tutte le sue sfaccettature, con una incredibile capacità di cogliere la verità nel dettaglio e di rivelarla spietatamente, senza giustificare, senza condannare. Il giudizio è lasciato al pubblico, e al singolo la possibilità di identificarsi e riflettere.

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ALLA MEMORIA DEL FRATELLO LORENO CINI

Alla memoria del Fratello Loreno Cini

Caro L.,

ti parlo in maniera diretta, usando il presente, perché sono convinto che stasera tu sia ancora con noi. L’invisibile catena d’unione basata sull’affetto e sull’amore fraterno ci lega ancora con te.

Ti ricordiamo tutti come un fratello che è passato nella nostra Istituzione in silenzio, quasi in punta di piedi. Ma, se è vero che la Massoneria si esalta nei semplici e nei puri di cuore, certamente insieme a te è morto un vero Maestro Massone.

Ti ricordiamo anche come colui che ha portato sulle sue spalle enormi fardelli di problemi quotidiani: il tuo trasferimento da T…. a Follonica, l’impossibilità di proseguire qui il tuo rapporto di lavoro e la necessità di trovarne uno alternativo a N…., la morte di tua moglie solo due anni fa a causa del tuo stesso male, il pensiero per i tuoi figli soli a casa qui a Follonica, le corse per arrivare in tempo ai Lavori di Loggia.

E tutti noi ti apprezzavamo perché sapevi portare questi fardelli con dignità, coltivando la forza dello spirito per difenderti da un destino così crudele.

Ma, nonostante tutto, dopo essere stato colpito alla gola dai problemi del lavoro ed al cuore negli affetti più cari, hai dovuto cedere quando questo male incurabile, più forte di tutti e di tutto, ti ha colpito alla testa.

Ti ricordiamo infine nella fase acuta della malattia quando molti si chiedevano come tu facessi a sopportare il dolore. Ed anche questa volta hai dato dimostrazione di soffrire con dignità, conoscendo bene il male che avevi, senza comunque esternare niente a chi ti era vicino, quasi tu volessi preparare da solo, piano piano, il tuo passaggio.

Adesso ti sei ricongiunto con la nostra Grande Madre Natura facendoti purificare con il fuoco, ma tutti noi, Figli della Vedova, non ti dimenticheremo.

(M. L.)

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CANDOGLIANZE

                                                                                                                               ——–

Carissimi A… e E…,

Di fronte alla perdita di una persona cara la mente umana sembra smarrirsi e le parole, anche le più belle, sembrano perdere il loro significato.

Se, come nel Vostro caso, la morte dell’amato Padre segue di poco quella già dolorosissima della propria adorata Madre, diventa veramente difficile trovare le frasi giuste per penetrare nei Vostri cuori.

Noi sappiamo che i Massoni di F….. e di C….. Vi sono stati vicini, Vi hanno sostenuto, Vi hanno dato tutto il calore di cui sono capaci per alleviare in qualche misura il Vostro dolore.

                            L’amore genuino che essi provavano per il loro Fratello L….. si è riverberato su di Voi, a  testimonianza  che i valori e gli ideali ai quali Vostro Padre ha creduto nel suo essere Massone, sono per noi un modo di intendere la vita e il rapporto con gli uomini, un rapporto che è ricco di amore, di fratellanza, di solidarietà.

Vi conforti il pensiero che Vostro Padre ha vissuto da persona giusta e onesta, stimato da tutti, e Vi sia di guida il suo modo di affrontare la Prova Suprema, con estrema dignità, con il costante pensiero di non turbarVi, forse, con la segreta speranza di riabbracciare la sua adorata Moglie, con la certezza che i suoi Fratelli Massoni non Vi avrebbero mai abbandonati.

                                  Sappiate che L…. sarà sempre fra noi, Massone tra Massoni, unito a noi da una   catena di  Fratellanza che la morte non puòspezzare; sappiate che Vi saremo sempre vicini e che potrete contare su di noi in ogni momento della Vostra vita.

                 Vi abbracciamo con tutta la forza del nostro animo e con tutta la tenerezza del nostro amore.

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LE CINQUE VIR E I QUATTRO PERCORSI

Le cinque vie e i quattro percorsi


          La radice massonica: le cinque vie del cammino

          La vita d’ogni singolo massone si presenta come un cammino che prende
          l’avvio con la prima morte, profana (il rito d’iniziazione), si svolge nel viaggio
          continuo nel tempio interiore e nel mondo, si conclude con la morte
          iniziatica (la morte corporea) e si proietta verso ciò che va oltre la vita.
          Le vie del cammino sono parallele in quanto possono essere percorse allo
          stesso tempo, complementari perché si completano vicendevolmente, ma
          non sono alternative perché solo percorrendole tutte si può dare attuazione
          piena e duratura alla radice massonica.
 

          La via veritativa (o della ricerca della verità)

          Non di rado si ritiene che né la Massoneria né il singolo massone abbiano
          verità da presentare e da difendere e in ciò risiederebbe il loro
          atteggiamento tollerante e antidogmatico e la loro libertà di pensiero. Si
          parla così di relativismo massonico in riferimento alla verità e a ogni altro
          aspetto del pensiero e dell’azione della Massoneria. Questa concezione non
          solo non rispecchia la natura e la prassi massonica nei templi e nel mondo e
          non tiene conto di quanto affermato nelle Costituzioni e nella tradizione
          massonica, ma porta con sé una profonda confusione tra ricerca della verità,
          assolutezza delle verità e fondamento della verità. Solo un chiarimento su
          questi temi può fare luce sulla nozione massonica di verità e chiarire che il
          pensiero massonico non si fonda in alcun modo sul relativismo.
          La via veritativa (della ricerca della verità) presuppone che esista la verità,
          intesa come insieme di verità diverse, e che sia accessibile all’uomo. Questa
          affermazione non dichiara in alcun modo che la verità sia già raggiunta
          interamente dall’uomo o che l’uomo possa coglierla e raggiungerla in modo
          globale e definitivo. Per questo è più corretto parlare di universo delle verità
          piuttosto che di una verità unica, definitiva e incontrovertibile. In ambito
          massonico l’universo delle verità è concepito come sempre aperto e costituito
          da una infinità di diverse e singole verità: un universo limite verso cui si
          tende con continuità raggiungendolo e cogliendolo poco alla volta.
          Questa via veritativa si differenzia da quella posizione secondo cui l’universo
          delle verità è dato tutto in una volta ed ad esso nulla si può aggiungere. La
          prima posizione (quella massonica) invece, ritiene che vi siano verità
          raggiunte dalla mente umana e quindi come tali possono essere considerate
          come accettate anche se non tutte come definitive e che, allo stesso tempo,
          l’universo delle verità sia illimitato e quindi raggiungibile dalla mente
          umana solo in parte e poco alla volta.
          Un altro carattere discriminante della posizione massonica consiste nel
          ritenere che l’uomo sia compartecipe della costruzione dell’universo
          veritativo: questo universo è costituito da verità che l’uomo ha raggiunto, da
          altre a cui l’uomo tende, da verità sconosciute ancora dall’uomo e da verità a
          cui l’uomo ha partecipato alla loro costituzione. La ricerca della verità è una
          via fondamentale al cammino iniziatico per cui si può asserire che:

             1.la tradizione massonica è portatrice di verità il cui fondamento è relato
               allo sviluppo storico del pensiero e della prassi massonica. Queste
               verità hanno un diverso fondamento: sono verità razionali, esoteriche,
               intuitive e spirituali;
             2.la ricerca della verità è un obiettivo fondamentale del cammino
               massonico;
             3.l’istituzione massonica si propone di presentare e difendere le proprie
               verità.

          Per completare la concezione massonica rispetto alla verità è utile introdurre
          almeno due distinzioni. La prima riguarda la verità della conoscenza e la
          verità dell’essenza; l’altra, invece, concerne l’ambito delle verità. La prima
          distinzione vuole indicare che quando si parla di verità non ci si riferisce
          solo alla conoscenza, cioè a verità che riguardano i rapporti conoscitivi tra
          l’uomo e il mondo; in questo caso, si considera vero, o meglio una
          conoscenza vera, quando, dopo adeguati controlli, si asserisce che questa
          conoscenza afferma qualcosa che corrisponde a ciò che esiste nel mondo.
          Nel secondo senso, la verità dell’essenza, sostiene che si può considerare
          come vero ciò che si ritiene sia esistente; in tal modo ci si riferisce alla
          struttura e alla natura del reale e quindi alla sua essenza: il concetto di
          verità corrisponde a quello di essenza.
          La seconda distinzione riguarda, come s’è detto, gli ambiti della verità; si
          può dire che la verità secondo il pensiero massonico riguarda il mondo
          concreto, la realtà e la sua essenza, il mondo dello spirito e del
          trascendente, l’uomo e il suo mondo interiore, la società umana e la natura
          del bene e della virtù.
          La concezione massonica della verità, quindi, nega ogni forma di relativismo,
          secondo cui esistono solo opinioni e non verità, e allo stesso tempo sollecita
          un atteggiamento di rispetto e di dialogo verso le diverse verità considerate
          come differenti prospettive che si completano vicendevolmente.
          La ricerca della verità è una delle vie fondamentali del cammino massonico:
          ciò significa sia affermazione delle verità massoniche sia ricerca della verità.
          In tal senso, la Massoneria si muove sempre mirando a penetrare più a
          fondo nell’universo delle verità.
 

          La via spirituale

          La nozione di spirito pervade molti settori della cultura, in senso lato, della
          filosofia, della religione, di molte correnti iniziatiche ed esoteriche e
          dell’intero edificio filosofico-culturale della tradizione massonica. La
          dimensione spirituale concerne sia l’uomo e la sua natura sia il mondo e la
          realtà in senso globale. Si potrà così parlare della dimensione spirituale
          dell’uomo e degli aspetti spirituali della realtà.
          Per dimensione spirituale si può intendere quella dimensione della realtà
          costituita da tutto ciò che non è riducibile al mondo fisico e materiale in
          senso lato e all’apparenza e che è protesa verso ciò che è sempre oltre a ogni
          condizione. La dimensione dello spirito può essere considerata come la
          dimensione dell’oltre che è posta al di là dello spazio e del tempo dei
          fenomeni e della vita quotidiana.
          In tal senso, vivere nella dimensione spirituale significa vivere mirando a
          porsi al di sopra e al di là di ciò che si è e proiettarsi verso l’oltre che è
          costituito dall’origine, dal fondamento, dall’essenza, dal senso e dal fine di
          tutte le cose e della vita individuale ed umana. Per ogni cosa, per ogni
          evento e per ogni uomo, vi è sempre qualcosa che è in più e oltre che gli è
          proprio e che al contempo se ne distanzia. Lo spirito è quindi al contempo
          l’origine, il fondamento, l’essenza, il senso e il fine di ogni cosa. Per questo
          intraprendere la via dello spirito significa muoversi nella ricerca che mira a
          comprendere e a fare propri questi costituenti della vita e di ogni cosa.
          Questa ricerca è certamente di natura interiore e gradualistica e ad ogni
          passo percorso, ad ogni levigazione della pietra, non solo si accresce la
          propria partecipazione alla dimensione spirituale ma si arricchisce di
          spiritualità la propria vita. Questa dimensione è una mèta della vita
          iniziatica per cui ogni massone tende a vivere in essa con una continua
          trasformazione di se stesso mirando ad accrescere la propria spiritualità.
          Lo spiritualismo massonico tuttavia non considera la spiritualità come una
          dimensione che totalizza l’esistenza negando valore agli altri aspetti della
          vita e ad altre concezioni della realtà. Questo spiritualismo non è un
          riduzionismo che non assegna valore né alla vita pratica né alla conoscenza
          quotidiana e scientifica; al contrario, esso tende ad assegnare ad ognuno di
          questi aspetti quella accezione che mira a farli partecipi della dimensione
          spirituale. Per questo lo spiritualismo massonico non distingue due mondi
          separati, distinti e inconciliabili, quello dello spirito e quello del fenomenico,
          al contrario, pur non negando le differenze, sostiene la loro compatibilità e il
          fatto che l’uno, quello dello spirito, riesce anche ad accettare l’altro e ad
          assegnare ad esso una attributo spirituale.
          Questa dimensione dello spirito è al contempo la via dell’ascesi verso il
          trascendente come obiettivo ultimo della via spirituale. La via spirituale è
          certamente una via percorsa entro la propria coscienza che tuttavia può
          svolgersi sia in una condizione ascetica e mistica, in una sorta di isolamento
          dal mondo, sia in una dimensione quotidiana di impegno e di dialogo nel
          mondo con tutti gli uomini.
 

          La via etica (o via dei valori)

          La vita di ogni massone si svolge sempre su un piano etico per cui il suo
          comportamento e il suo pensiero si pongono entro l’ambito dell’etica. La via
          etica è un percorso che segna la vita di ogni massone in riferimento a se
          stesso (il rispetto etico della sua persona), al suo prossimo (il rispetto etico di
          ogni uomo) e al suo comportamento nel mondo. Il Massone non può vivere
          senza la guida etica, proprio perché è fondamentale per il suo cammino
          iniziatico: non vi può essere cammino di perfezionamento iniziatico se non
          accompagnato da un modo di essere che poggia sui valori etici. Il percorso
          iniziatico non è certo solo un cammino etico, ma è rivolto alla verità e allo
          spirito, tuttavia, la valenza etica è un elemento fondamentale su cui partire
          per la via iniziatica.
          L’etica massonica non corrisponde necessariamente alle diverse morali
          accettate e può porsi anche in contrapposizione con esse come è accaduto
          spesso in passato e come accade ancora oggi, per esempio in riferimento alla
          pena di morte o ai diritti umani. La Massoneria in campo etico si fonda sulle
          seguenti tesi:

             1.essa accetta e persegue valori etici,
             2.pur condividendo specifici valori etici rispetta i valori altrui mirando a
               una pacifica convivenza di vie etiche differenti;
             3.ritiene che i valori etici in cui crede abbiano un fondamento umano e
               ultraumano e che vi sia una gerarchia di valori (fondamentalismo etico)
               per cui non accetta il relativismo secondo cui ogni ’valore’ è accettabile
               e ognuno di essi è al pari di ogni altro;
             4.sostiene che vi siano valori che debbano valere per l’intera comunità
               umana (universalismo etico);
             5.l’etica non è riducibile a un insieme di norme di comportamento (la
               morale positiva), ma è correlata con le dimensioni della verità e dello
               spirito (eticismo).

          Per questo la Massoneria è portatrice e promulgatrice di valori etici e allo
          stesso tempo si dispone all’apertura etica verso prospettive etiche che non
          risultino in contrasto con valori universali validi per l’intera comunità
          umana. L’etica massonica si fonda su alcuni principi fondamentali:

             1.il rispetto del mondo naturale, della vita e della persona umana con la
               sua dignità,
             2.il rispetto delle idee altrui,
             3.l’accettazione dell’altro,
             4.il dialogo aperto tra gli uomini,
             5.la compassione, la solidarietà, la fratellanza e la pace tra tutti gli
               uomini.

          L’etica massonica è un’etica che trova il suo fondamento nella condizione
          ontologica dell’uomo, nella universalità dei valori e nella tradizione culturale
          della Massoneria; essa non solo è fondata nel modo indicato ma è fondativa
          in quanto stabilisce i principi generali della azione umana e dei fini
          dell’esistenza. Per questo, essa non è solo mirata a guidare il
          comportamento individuale e sociale, ma tende a indicare le vie per
          raggiungere obiettivi che superano la dimensione del quotidiano e in tal
          modo è un etica che tende al raggiungimento e al completamento del bene e
          della virtù. In effetti, il massone non riduce l’etica, come avviene in una
          concezione positiva, a guida del comportamento interpersonale ma la
          considera come una via che può perseguire non solo insieme agli altri, ma
          anche solo con se stesso in un confronto continuo tra il suo modo di essere,
          di agire e di pensare e l’obiettivo del bene, della virtù e il perseguimento del
          cammino iniziatico.
          L’etica massonica è un’etica principalmente interiore che solo una volta che
          si sia affermata nel mondo intimo di ogni massone può trasformarsi in una
          guida per il comportamento (cioè sotto forma di norme morali). L’etica
          massonica non si sottopone al giudizio degli altri, ma solo al giudizio della
          coscienza. Per questo, come si è detto, l’etica massonica è una via
          strettamente correlata con la via spirituale e con quella veritativa: essa è
          parte del globale cammino iniziatico.
          All’iniziato non è sufficiente comportarsi bene, ma è necessario vivere il
          bene all’interno del suo mondo interiore e solo così percorre la via etica.
          La via etica massonica, allora, non si fonda su una morale positiva mirata
          solo a guidare il comportamento con gli altri, anche se questo è un elemento
          fondamentale, ma su un confronto continuo con ciò che viene considerato il
          bene e la virtù come obiettivo della via iniziatica verso la luce che non è solo
          luce conoscitiva, ma veritativa, etica e spirituale fondata sul senso assegnato
          all’uomo, alla realtà e a ciò che è oltre.
 

          La via mondana

          La via mondana è quella via che il massone percorre nel mondo con la sua
          vita concreta giornaliera nei diversi ambiti in cui egli opera. In questa via si
          collocano, da un lato, l’impegno del singolo massone nella vita di tutti i
          giorni (i rapporti di lavoro, le relazioni interpersonali, l’impegno sociale e
          politico); dall’altro, tutte quelle azioni che il singolo massone e l’istituzione
          massonica progettano e realizzano per il bene dell’uomo e dell’umanità e
          per la loro elevazione. In questo ambito si collocano tutte quelle azioni che la
          Massoneria nel suo complesso svolge in diversi settori come i diritti umani,
          la solidarietà, la cultura, l’emarginazione sociale.
          Il Massone non nega valore al mondo e alla vita mondana degli uomini. Egli
          pur muovendo verso ciò che è oltre la mondanità, considera come un valore
          tutto ciò che la mente e lo spirito dell’uomo hanno prodotto e potranno
          produrre nel futuro. Egli allo stesso tempo sostiene che ciò che rende piena
          la vita umana è costituito anche dalla sua vita nel mondo: questa vita per il
          massone è anch’essa un viaggio che lo deve vedere impegnato non solo
          secondo le vie indicate, ma anche in uno sforzo giornaliero che partendo
          dalle vie etica, veritativa e spirituale possa permettergli di dare un
          contributo non solo al benessere dell’umanità, ma anche al coronamento
          del bene e della spiritualità. Anche in questo caso il suo impegno mondano
          non è solo positivo, cioè mirato al benessere materiale dell’umanità (che non
          deve certo essere sottovalutato) ma è anche trascendente nel senso che mira
          ad accrescere la spiritualità e l’eticità dell’umanità. Per questo l’impegno del
          massone nel mondo è fortemente distinto da ogni impegno meramente
          positivo, o se si vuole laico, rivolto al bene quotidiano degli uomini. Ciò
          sarebbe restrittivo per il massone in quanto egli come iniziato anche nel
          mondo si impegna secondo le vie massoniche. Anche in questo senso il
          massone non può denominarsi laico in quanto non intende vivere
          laicamente o positivamente la sua vita, ma si propone di svolgere il suo
          viaggio mondano seguendo quelle vie indicate che lo portano verso il bene,
          la verità e lo spirito.
          La via mondana è allora duplice: da un lato, l’impegno positivo verso le
          condizioni dell’uomo per liberarlo dalle schiavitù materiali, sociali ed
          esistenziali; dall’altro, per liberarlo dalle ristrettezze della vita quotidiana e
          fare in modo che un numero sempre maggiore di uomini siano rivolti alla
          grande opera della realizzazione e del completamento del Bene, della Verità
          e dello Spirito.
 

          La via fondativa (o del senso, dellorigine e del fondamento)

          La via del senso, dell’origine e del fondamento è l’ultima via del percorso
          massonico. Si può dire che essa si pone come ultima rispetto alle altre in
          quanto i risultati ottenuti in ognuna di esse acquistano valore una volta che
          ad esse sia stato un assegnato un senso, un’origine e un fondamento. Per
          questo il senso, l’origine e il fondamento appaiono vie fondamentali della
          vita massonica. In questa direzione, le verità, i valori etici, la dimensione
          dello spirito e l’impegno mondano acquistano il loro profondo significato solo
          se sono accompagnati dai risultati della ricerca che possa dare loro un
          origine, un fondamento e un senso. Ricercare l’origine, il fondamento e il
          senso significa porsi al di là di ciò che è materiale, fenomenico ed apparente
          e rivolgersi verso le essenze e verso ciò che è oltre. La dimensione di ciò che
          è oltre e delle essenze è, per così dire, la mèta ultima e limite di tutte le vie
          massoniche che, proprio in quanto è una mèta limite, è sempre al di là di
          ogni sforzo, proprio come accade nella metafora di Zenone in cui il bersaglio
          non è mai raggiunto dalla freccia scoccata.
 

          I quattro percorsi per intraprendere le cinque vie

          Il massone intraprende le vie massoniche attraverso diversi percorsi che
          svolgono anche il ruolo di metodi che regolano ed indicano le mète graduali
          del cammino. Si possono individuare quattro percorsi: esoterico-iniziatico,
          intellettivo-razionale, intrapsichico e dialogico.
          Il percorso esoterico-iniziatico poggia su due requisiti: la conoscenza e la
          ritualità del sapere della tradizione esoterica, iniziatica, simbolica ed
          ermetica nella sua universalità (cioè nella sua articolazione transculturale) e
          la sua possibilità di essere applicate nel cammino delle cinque vie.
          All’interno di questo percorso sono fondamentali le nozioni di gradualità
          iniziatica e di svelamento. La prima riguarda il fatto che le vie massoniche si
          percorrono sempre attraverso cammini graduali segnati dal raggiungimento
          di risultati che sono la base per intraprendere nuovi cammini e per
          raggiungere nuovi obiettivi; la seconda che il rivolgimento riflessivo e
          speculativo mira alla ricerca dell’essenza, dell’origine e del fondamento e per
          questo tende a muoversi sempre oltre il naturale, il fenomenico, le
          apparenze e l’attualità. In tal senso la realtà, qualunque essa sia, è sempre
          qualcosa di più di ciò che appare e di ciò che si intende sia compreso in
          essa, per questo risulta fondamentale cogliere continuamente l’oltre e in
          questa direzione si raggiungono obiettivi da cui ripartire che sono costituiti
          da ciò che si ritiene l’origine, l’essenza e il fondamento delle cose su cui si
          rivolge l’attenzione riflessiva.
          Il percorso intellettivo-razionale coniuga le capacità globali della mente
          umana: quelle di natura tipicamente razionale, cioè l’uso della ragione
          investigativa ed organizzativa, e quelle di natura diversa che si fondano su
          aspetti come l’intuizione e il sentimento come dimensioni intellettive in
          grado di far raggiungere risultati propri di ognuna delle cinque vie.
          Il percorso intrapsichico, tipico delle tradizioni iniziatiche, opera come
          rapporto del sé con se stesso e si contraddistingue dallo scavo all’interno
          non solo della mente ma dell’intero mondo interiore.
          Il percorso dialogico è quello per cui le cinque vie vengono attraversate non
          in un solitario isolamento ma con un rapporto e con un confronto continuo
          con gli altri, massoni e non massoni.
          La vita massonica quindi intraprende cinque vie diverse e per ognuna di
          esse segue uno o tutti e quattro i percorsi. Scegliendo un percorso le vie
          vengono solcate in modi diversi e così si raggiungono gradi e livelli diversi.
          Per esempio, la via veritativa, può essere intrapresa scegliendo il percorso
          intellettivo-razionale, come seguito da alcuni massoni, od ancora da un
          percorso intrapsichico o da tutti i quattro percorsi. Il cammino in ogni via e
          solcato da percorsi diversi dà luogo al raggiungimento di saperi, conoscenze
          e stati differenti.
 
 
 
 
 

          Se consideriamo le vie massoniche come parte del cammino massonico che
          si muove dal basso verso ciò che è oltre, allora queste vie sono ognuna il
          proseguimento dell’altra e in tal senso si possono rappresentare sotto forma
          di una doppia spirale, che possiamo chiamare spirale essenziale in quanto
          mira a cogliere gradualmente le essenze; essa è costituita da una via
          ascendente dal mondo al fondamento e da una via discendente dal
          fondamento al mondo, seguendo così, in modo dinamico, da un lato, il
          principio fondamentale esoterico della corrispondenza (tra macrocosmo e
          microcosmo) e, dall’altro, il simbolismo dell’uroboros.
          A questo punto, dopo aver chiarito la natura delle vie massoniche e i relativi
          percorsi con cui si attraversano è necessario chiedersi: dove si svolgono
          queste vie?
 

          I luoghi e il tempo delle vie massoniche

          Le vie massoniche si svolgono in tre luoghi differenti. Si tratta di luoghi non
          fisicamente determinati anche se possono coincidere con luoghi fisici.
          Questi luoghi sono: il tempio, l’interiorità e il mondo. Il luogo del tempio è la
          dimora rituale e profonda in cui le vie massoniche vengono intraprese
          attraverso specifici rituali simbolici e la esplicitazione della tradizione
          esoterico-iniziatica. Esso è costituito dalla loggia come spazio simbolico delle
          vie massoniche: la loggia come comunità fisica di massoni che opera in uno
          specifico tempio.
          Il luogo interiore è il mondo interiore proprio di ogni uomo: la sua caverna
          in cui egli ricerca se stesso e lo ritrova nelle diverse fasi dello sviluppo del
          suo intelletto e del suo spirito, e in cui egli colloca i risultati di ciò che ha
          raggiunto e si predispone per raggiungere nuove mète.
          Il mondo è la dimora dell’esteriore che è costituita dal mondo non templare,
          quindi da ciò che è esterno all’interiorità e al tempio. Questo luogo è
          costituito quindi dalla realtà fenomenica, naturale, umana e sociale.
          Questi tre luoghi sono innanzitutto luoghi simbolici ed astratti in cui si
          svolgono le vie massoniche, ma al contempo corrispondono anche agli
          analoghi reali e fisici: l’interiorità psichica (mente e cervello), il tempio fisico
          e il mondo fisico- naturale, umano e sociale. Tuttavia, proprio perché le vie
          massoniche sono soprattutto vie che si svolgono su un piano non fisico, si
          può dire che la relazione con questi mondi è innanzitutto di natura non
          fisica e solo successivamente diventa fisica. Il massone opera in un tempio
          simbolico che è poi concretizzato in uno specifico tempio. Così come la via
          mondana è vissuta nel mondo umano e sociale simbolico ed è vivendo in
          esso che successivamente si opera concretamente negli analoghi e concreti
          luoghi fisici, naturali, umani e sociali. Il massone opera sempre nella sua
          interiorità e nel tempio, cioè in una realtà che è primariamente simbolica,
          che si colloca al di là ed oltre la realtà fisica, ma che si coniuga con essa,
          nell’azione concreta del massone nel mondo una volta che la realtà
          simbolica viene interpretata e trasferita nella specifica realtà naturale,
          umana e sociale caratterizzata dalla determinazione specifica di ogni epoca
          storica. Proprio per questo i risultati della tradizione massonica, svolti in
          una realtà simbolica, acquistano il carattere della atemporalità e della
          universalità.
          Si è detto che le vie massoniche si svolgono sul duplice piano della realtà
          simbolica e di quella fisica e a questi luoghi corrispondono tempi diversi.
          Al luogo templare corrisponde il tempo del tempio scandito dalla ritualità,
          dai gesti, dalle cerimonie sacre, dalla vita comunitaria durante le tenute nel
          tempio.
          Al luogo dell’interiorità corrisponde quel tempo non fisico in cui vengono
          collocati gli eventi mentali e psichici della vita interiore di ogni uomo.
          Al luogo della naturalità e della socialità corrisponde il tempo tipico di
          queste realtà che muta a seconda delle epoche storiche e delle diverse
          condizioni umane e sociali.
 
 

          La loggia

          A questo punto è necessario sottolineare che il tempio e la loggia sono i
          luoghi privilegiati della vita massonica. E’ infatti in essi che le vie
          massoniche possono essere percorse seguendo i quattro metodi. Per questo
          ogni massone è tale solo se partecipa con profonda intensità alla vita della
          loggia ed è solo in essa che egli può perseguire i fini iniziatici verso la verità,
          la virtù e lo spirito. In effetti un massone potrebbe vivere isolato nel mondo
          sociale, lontano da ogni uomo, ma non per questo egli non seguirebbe le
          cinque vie, anche quella mondana, se lavora assiduamente nella loggia,
          perché, come si è detto, la sua opera è in primo luogo un’opera nel mondo
          simbolico. Da qui quelle che possiamo dire le diversità dei percorsi dei
          singoli massoni: mistico, simbolico, razionale, esoterico, mondano, in cui
          ogni massone sceglie di operare esprimendo la sua tensione vitale.
          Da quanto detto la vita massonica, attraversata nelle cinque vie, intessuta
          dai quattro percorsi e vissuta nei luoghi sacri e profani, non solo è articolata
          ma tortuosa, irta di difficoltà, di sforzi e di sofferenze, ma è anche sempre
          pregna di proiezioni verso le essenze e ciò che è oltre recando entusiasmo,
          forza, serenità, senso alla vita umana e aprendo l’orizzonte verso
          l’irraggiungibile colto nella sua apparenza umana.

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PINOCCHIO, L’OCA E IL LABIRINTO: NEI SIGNIFICATI DELLA FAVOLA

Pinocchio, l’Oca e il labirinto: sui significati della favola.



La favola di Pinocchio è diventata, nel giro di un secolo o poco più, una storia condivisa da un’intera cultura e oramai fatta propria anche da molte altre. Viene naturale chiedersi il perché di tanta fortuna di un testo che, nato in una situazione biografica, storica e letteraria ben precisa, farebbe pensare ad una impossibilità di tradurne completamente il senso. Non è certo una questione nuova, questa: fa parte di quell’appassionato dibattito che da tempo cerca di indagare le ragioni per cui un classico è e rimane un classico, per qualsiasi lettore di qualsiasi cultura.

Le tante interpretazioni date a Pinocchio creano spesso l’impressione di essere legate al contesto storico e culturale cui fanno riferimento. Solo qualche esempio:

PINOCCHIO MASSONE – Geppetto e Cavour 

” Gli anni cari di Collodi, di De Amicis…in cui l’Italietta aveva incominciato a farsi le ossa, a trovare uno stile, a trovare una misura dì vita e di civiltà”.


Giovanni Spadolini

 “Dirozzare le menti delle classi meno agiate, sottraendole all’ignoranza ed alla speculatrice superstizione… nell’intendimento di togliere i fanciulli dalle ugne del clero”.
Rivista della massoneria italiana, 1873

PINOCCHIO CATTOLICO – Geppetto e Dio 

“Carlo Collodi ebbe la gran ventura di inserirsi, con la sua fantasia, nel filone della verità. Anche Pinocchio, come tutti i capolavori italiani, ha fondamento nella verità della dottrina cattolica”.
Piero Bargellini

“L’agonia di Pinocchio , appeso all’albero da tre ore… di Cristo in croce riecheggia, perfino l’estrema nostalgia del Padre e il desiderio di affidare a lui la vita fuggente: Oh babbo mio!… se tu fossi qui”..


Card. Giacomo Biffi

http://www.augustea.it/dgabriele/italiano/lett_collodi.htm

PINOCCHIO FREUDIANO – Com’è lungo quel naso

“Non starò a dire quali interpretazioni abbia suggerito alla critica psicanalitica il fatto che a Pinocchio il naso cominci a crescere proprio davanti a Fatina!”


Gianni Turcheda 

“Ravvisato quindi un collegamento iniziatico-sacrale Pan-Priapo-Pinocchio, diviene ora più agevole… comprendere la fisionomia rino-fallica del Burattino”.


Nicola Coco-Alfredo Zambrano

PINOCCHIO ESOTERICO – Falegname o stregone

“Solitario, in quella stanza simile a un antro magico… l’opera di Geppetto non è stata opera di intaglio… Il suo è stato un lavoro di alchimia”.


Rodolfo Tommasi



“Leggiadro, delicato, abissale è l’atto di leggere Pinocchio a un bambino. Portiamo l’innocente tra le figure stesse che gli si parerebbero dinanzi in una radura sacra… introduciamo il piccolo al culto della Fata o Signora-degli-animali”.


Elémire Zolla

PINOCCHIO POLITICO 1 – L’anarchico di legno

” E la sera… si sentiva passare, rassicurante, sul sonno di tutti, il calmo passo doppio dei carabinieri. Non 

ridete; dietro a Pinocchio io rivedo la piccola Italia onesta di re Umberto”


Pietro Pancrazi  

“Nel paese degli Acchiappacitrulli sono gli onesti, che vengono senz’altro condannati… Un episodio che la dice lunga sulle venature anarcoidi e sulla sfiducia nelle istituzioni di Collodi”.
Gianni Turchetta    

PINOCCHIO POLITICO 2 – La new-economy ed il paese dei balocchi

“Ma gli altri? Dico la folla silenziosa e smarrita che ogni mattina, da mesi, quando apre il computer sul sito “Campo dei Miracoli” non trova più i suoi zecchini, e bestemmia il giorno in cui ha creduto che davvero la vecchia economia, quella fondata sulla maledizione del lavoro e del sudore, fosse rimpiazzata da una nuova di zecca, nella quale dal denaro nasce il denaro, ininterrottamente, per naturale clonazione?… La moneta come un seme di cuccagna, da lanciare nel campo infinito della Chiocciola @ per vederlo germinare, e generare intere foreste di fronde tintinnati d’oro… E infatti Pinocchio esita, e si domanda, “a bocca aperta per lo stupore: ‘Ma com’è mai possibile che diventino tanti?’”
Michele Serra, da “Il Pinocchio delle Borse e il barbiere di Agnelli”, Repubblica 16.03.2001  http://www.rutelli2001.it/dalpaesedeibalocchi.php  

Se si rimane nell’ottica di comprendere la ragione della fortuna di Pinocchio, nessuna di queste potrebbe a buona ragione essere definita come un’interpretazione “classica”, ma solamente una delle tante possibili, distinguibile eventualmente dal grado di autorità conferitole dall’argomentazione o dall’autore.

Ma il numero e dalla varietà delle interpretazioni ci fanno azzardare a muovere noi un suggerimento per una risposta alla nostra questione: Pinocchio è senza dubbio una buona metafora, un buon modello per spostare un discorso più o meno complesso sul piano delle immagini, per aiutare a comprenderne il senso. Esistono però metafore create dalla letteratura che si prestano più di altre ad entrare nell’universo linguistico e culturale umano, perché possiedono alcune caratteristiche che le rendono archetipi, modi generali di vedere il mondo, strutture concettuali fondanti della natura e della cultura dell’uomo.  

Ci viene in aiuto un piccolo libro di Carlo Lapucci, “Il libro delle filastrocche (Domino Vallardi editore), dove si legge un parallelo tra la favola di Pinocchio ed i giochi della più antica tradizione: “Se si collegasse la storia di Collodi con i giochi popolari come quello dell’Oca, Pela il chiù, Carica l’asino (guarda caso Scaricalasino, con Bengodi e Cuccagna, è un paese citato nel libro), il Gioco del Barone, ecc., vi si riconoscerebbero immagini consuete, comuni al “Libro dei sogni”, come ai Tarocchi: il Bagatto, il Matto, l’Impiccato, la Pozza del Gambero, la Morte, la Prigione…”

Il gioco dell’Oca appartiene a quei giochi che sono una metafora del vivere sociale e della comunicazione narrativa: un inizio ed una fine, la presenza della natura e degli animali, l’impedimento al movimento (il carcere), i pericoli, il caso (i dadi), e soprattutto il viaggio labirintico dell’esistenza, con le sue imprevedibili direzioni.

L’idea di concepire Pinocchio come il percorso stabilito dal Gioco dell’Oca o come una narrazione determinata dalle carte dei Tarocchi, oltre a fare la felicità di Calvino e delle teorie strutturali sulla narrazione, ci porta su un piano interpretativo con cui abbiamo più confidenza: la dimensione narrativa del gioco (o l’essenza ludica delle storie), e il raccontare storie come attività fondante della natura umana.

Pinocchio è un libro scritto per essere raccontato, per la narrazione orale.

L’intersecarsi degli eventi di una favola, e di una storia in generale, è un vero e proprio labirinto, una rete di possibilità virtuali che ha bisogno, per esprimersi, del filo di Arianna, della guida di Virgilio, dell’opera del narratore. Inoltre, “la fantasia popolare reinventa liberamente poi queste immagini: il labirinto può diventare tanto una tela di ragno, quanto un serpente, giocando quindi una partita più con l’inconscio che con la razionalità che stenta a rintracciare l’identità delle immagini”.

 “Con lo smarrimento di Pinocchio davanti al serpente siamo arrivati alla spirale, il simbolo del labirinto che si trova verso la metà del libro, come verso la metà del gioco è appunto lo smarrimento di colui che segue il percorso paradigmatico: è la selva oscura dello smarrimento che si incontra nel “mezzo del cammin di nostra

vita”, smarrimento che l’eroe è destinato a superare in molti modi, poiché si tratta di una prova vinta a suo modo anche dal burattino. Il fatto che costituisca il centro è anche indice che il labirinto è l’elemento che riassume e condensa l’intero…”

Le storie nascono da strutture di pensiero talmente conNATURAte al vivere umano che costituiscono il mezzo più efficace (e talvolta più scientifico) per conoscerne il produttore, l’uomo stesso. L’uomo vive di storie ed in esse vi si riconosce; in alcune di queste molto di più, per il fatto che vanno a pescare a fondo nella natura culturale dell’uomo, perché recuperano immagini che sono a fondamento della conoscenza che l’uomo ha del suo mondo: il senso di mancanza (sia esso povertà o solitudine o prigione), il nascere, il morire, il rapporto di comunicazione con la natura e gli animali, il perdersi, il pericolo, la pazzia, il desiderio, …  

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TE LO DO IO PINOCCHIO

Te lo do io Pinocchio

( tratto dal Periodico Due Sicilie Novembre/Dicembre 2002 )

*****

 1869: ANTICONCILIO A NAPOLI

Nell’anno 1869, un anno prima della caduta  definitiva dello Stato Pontificio, il papa Pio IX indisse il  Concilio Vaticano I° da tenersi dall’otto di dicembre in Roma. Alla notizia, l’invidia e il sulfureo odio massonico ne misero in gestazione uno antisimmetrico, in odio al Papa e alla religione cristiana cattolica. Gli apostoli del vero avrebbero costituito un concistoro di antilupi, si sarebbero cioè riuniti  nell’Anticoncilio di Napoli (poi miseramente abortito), promosso dal libero muratore conte Giuseppe Napoleone Ricciardi. A codesti antilupi il Garibaldi, in data 11 ottobre da Caprera, inviava un indirizzo di saluto e di incitamento che merita di essere riportato per intero perché i nostri lettori si facciano un’idea precisa dei sentimenti  che il sublime grado 33  della consorteria massonica italiana (in realtà, con qualche eccezione, carboneria, associazione di rivoluzionari bombardieri) nutriva nei confronti  della vera Chiesa e del Papa:

“A’ miei amici e fratelli d’armi,

Una delle più solenni circostanze che mai abbiano illustrato la patria dei Savonarola e degli Arnaldi, è certamente quella dell’anticoncilio, iniziato dall’illustre Ricciardi e che avrà luogo nella grande metropoli italiana l’otto dicembre di quest’anno.

In esso verranno rappresentate tutte le nazioni dai loro campioni del diritto e del vero. Spettacolo sublime, vero simulacro della fratellanza umana, e vera antitesi del concistoro di lupi, che avrà luogo in Roma, nello stesso giorno! Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli (e ciò importa veramente alle affamate popolazioni); sull’eucarestia, cioè sul modo d’inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi, in un Closet qualunque. Sacrilegio, che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano d’un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX.

Là nell’antica Partenope, si riuniranno gli apostoli del vero, gli alunni di Galileo, di Newton, di Kepler, di Voltaire, di Franklin, gli sterminatori delle torture e dei roghi, le superbe colonne della dignità umana.

Che contrasto!

E se questo secolo, ancor tanto amareggiato dall’arbitrio e dall’oscurantismo, non dovesse presentare all’afflitta umanità che questo consesso della libertà e della ragione, esso potrà contarsi tra i famosi della storia del progresso umano.

Un giorno, e ben avventurato della mia vita, io, con non pochi compagni, c’inoltrammo nel centro della grande metropoli, fidenti solo nel valore e nel patriottismo del popolo napoletano. L’esercito borbonico occupava ancora i forti, ed i posti più importanti della città. I cannoni erano puntati contro di noi, e la fanteria altro non aspettava che l’ordine di fucilarci. Ebbene! All’imponente contegno del gran popolo, noi dovemmo esser salutati cogli onori militari dell’esercito nemico.

Un’altra volta, dal   del palazzo della Foresteria, io diceva a cotesto popolo: – Il più atroce nemico dell’Italia è il Papa.

Il popolo applaudì al veritiero mio detto; ed ha potuto persuadersi in questi nove anni, ch’io non l’ingannavo.

Ebbene, vecchi miei amici e fratelli d’armi! Fra due mesi voi sarete visitati da tutto ciò che il mondo ha di più rispettabile, l’eletta parte delle nazioni, i rappresentanti dell’intelligenza e del diritto umano. E voi, vi lascierete trovare ancora coll’umiliante composizione chimica, che gl’impostori vi spacciano come sangue di S. Gennaro, e con cui si beffano di voi da tanti anni.

Non sarà bene di frangere per sempre quell’ampolla contenente il veleno! Ed i confessionali fatti a pezzi, e resi utili a far bollire i maccheroni della povera gente… che ve ne pare?

Sì: disfacetevi di tutti questi emblemi delle vergogne italiane, ciò lo potete fare. Non lasciate le vostre donne ed i vostri bimbi contaminarsi nella bottega dei preti. E credetemi: sanando la piaga italiana del fanatismo, delle superstizioni, voi spianerete la via dell’eliminazione d’altri malanni, più formidabili in apparenza, ma che non potranno reggere senza il piedistallo della menzogna.

Gl’illustri vostri ospiti torneranno nelle loro contrade, proclamando che la patria del Tasso, di Masaniello e di Giordano Bruno, è ben degna dell’iniziativa dell’emancipazione del diritto e della coscienza umana. Io con tutta l’anima fo un appello a tutte le Società [massoniche, ndr] italiane che mi onorarono col titolo di socio o di presidente onorario, a quanti in Italia hanno cara la dignità del nostro popolo, nella certezza, che più la parte culta, liberale e razionale della nazione, sarà rappresentata nell’anticoncilio, di più lustro risplenderà la nostra patria, tra le sorelle nazioni del mondo.

Io spero di più: che nelle cento città d’Italia per l’otto dicembre, si riuniranno numerosissimi meetings ad acclamare i principii del vero, sostenuti dall’illustre congresso di Napoli, ed a maledire le turpi menzogne e la cabala infernale del Vaticano. G. Garibaldi”.

Il bellicismo ideologico, antiecclesiale, anticristiano, del Garibaldi, che per il suo grado massonico avrebbe dovuto essere “Uomo trascendente”, cioè un santo al di sopra delle umane passioni, non era una manifestazione estemporanea ad incitamento dei figli della vera luce che avrebbero celebrato quell’Anticoncilio. Anche nell’Inno romano la sua penna non era stata meno leggera in fatto di  anticlericalismo: “Giù le mitre, vergogna del mondo,/ giù le tiare, nel fango calpeste;…/ dei chercuti, orrenda setta,/ Roma nostra a liberar!”. Nei suoi romanzetti poi (Il governo dei preti, Cantoni il volontario, I Mille) i personaggi  negativi, abietti, schiavi del ventre e della lussuria, truculenti, incestuosi, sono, manco a dirlo, vescovi, cardinali, preti, che, secondo la sua obliqua visione, avrebbero “fatto delle nazioni tante belve che si distruggono barbaramente a vicenda” (discorso tenuto a Frascati il 14 giugno 1875), travisando quelle che sono le vere radici cristiane dell’Europa, nel cui seno anche lui era stato battezzato col nome (francese!) Joseph. A questo sodalizio truculento dava degno rincalzo il luciferiano Carducci, che salutava in Satana  il Re del convito (Inno a Satana).

L’anticlericalismo, abito mentale di quasi tutta la classe politica liberale, sul piano pratico  aveva portato nel Sud, come si sa, dopo il 1860, alla espropriazione dei beni ecclesiastici, alla rimozione, all’esilio o all’incarcerazione una settantina di vescovi, in sostanza quasi tutto il corpo episcopale del Regno, all’incarcerazione o alla fucilazione centinaia di preti, e alla più nera miseria oltre 12.000 frati e suore, oltre che alla fame e al sangue tutti i Duosiciliani in omaggio alla follia unitarista. Per i nuovi  padroni dello stivale, che s’adornavano il cappello con la fronda dell’alloro risorgimentale,  leva buona per ogni occasione di arraffamento, esso era un’arma potentissima per controbilanciare anche le tensioni antiunitarie, un cemento per l’unità della classe liberale che aveva portato all’Italia una. Pian piano, però, a mano a mano che la situazione politica interna era andata  stabilizzandosi ed ormai esaurendosi la fase delle espropriazioni, quel bellicismo cominciò a perdere i connotati più beceri fino a diventare quasi irriconoscibile.

UN MANUALE DI MASSONERIA

Il libro Cuore definito, dallo scrittore Vittorio Messori, “manuale di massoneria per il popolo” (Pensare la storia, Ediz. San Paolo, pag. 104), è un esempio di quella trasformazione. Di Edmondo De Amicis, il Messori  riferisce che è provato essere stato quello <<un fratello a pieno titolo della Gran Loggia torinese>> ed avvisa che <<Non c’era del resto bisogno della prova dell’affiliazione per riconoscere subito l’impronta della massoneria più classica nell’opera dello scrittore ligure-piemontese>>. E si domanda: <<perché quello massonico è il pericolo che la Chiesa, con un istinto significativo, avvertì subito come talmente insidioso da dedicargli il maggior numero di condanne?>>. La risposta dello scrittore è abbastanza convincente: <<Ma perché niente è in apparenza più rassicurante e ragionevole – anche per un cristiano non scaltrito – dell’ideologia delle Logge: amore per l’umanità con relativo impegno filantropico, fratellanza, tolleranza, mutuo rispetto, universalismo non disgiunto dall’amor di patria, impegno per il miglioramento morale proprio e degli altri; e così via>>. Esiste un convergenza con i valori del Cristianesimo? <<Certo: ma con l’avvertenza che ciò che caratterizza questa visione del mondo (che è quella che sta alla base di organizzazioni pur rispettabili e non di rado meritorie come la Croce Rossa, la Società delle Nazioni, certi club a diffusione internazionale) è un’apparenza evangelica senza più la sostanza, la base. Un cristianesimo, ma evirato, perché senza Cristo. “Religiosità” se si vuole: fondata però non sullo scandalo e la follia del figlio di Dio che muore sulla croce, ma sulla “ragionevolezza” di un Dio immaginato a sua misura dalla “sapienza” umana, un tranquillizzante Grande Architetto dell’Universo, il Garante dell’ordine sociale (la massoneria, non lo si dimentichi, fu sempre, ed è, fenomeno di aristocratici e di borghesi, senza base popolare, che del resto non cerca, non vuole). La croce è segno di contraddizione, divide; l’innocua idea di un “Dio” senza volto sembra unire. La reazione cattolica (ma non la protestante…) dunque fu dura proprio per questo aspetto ingannevole…>>. Quindi lo scrittore  passa ad analizzare <<l’aspetto di “manuale divulgativo” della ideologia del massone De Amicis>>: <<la “morale”  sembra davvero “cristiana”, ma non è basata sulla fede nel Cristo (di cui mai si parla) né sull’attesa della Vita Eterna, bensì sulla fede nell’Umanità e nel Progresso. Il processo di svuotamento e di sostituzione è completo: non vi è alcun cenno, in Cuore, al Natale, alla Pasqua, o ad alcuna altra ricorrenza cristiana. I soli accenni religiosi sono lasciati, significativamente, alla madre di Enrico: cose da compatire in quelle donne che, non a caso, non hanno accesso alle Logge… Le antiche feste cristiane sono sostituite da quelle civili; il Vangelo dallo Statuto e dai Codici; i santi dai padri della patria (Garibaldi, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini); gli ordini religiosi dall’Esercito, visto come “fucina di virtù”;  i martiri dagli eroi (il Tamburino sardo, la Piccola vedetta lombarda); l’impegno ascetico dalle virtù del cittadino esemplare; il Decalogo e il Discorso della Montagna dai buoni sentimenti su cui tutti concordano; le processioni dalle sfilate militari>>…. Il Messori mette in guardia e conclude: <<Non dimentichiamo però di giudicare l’albero dai frutti: i ragazzi di Cuore, cresciuti in quel commovente clima filantropico, saranno poi gli interventisti del 1914. Saranno gli “oscurantisti”, i cattolici, che tenteranno di opporsi a quella che il papa (Benedetto XV, al secolo Giacomo Della Chiesa, 1914-1922, genovese, ndr) chiamerà “l’inutile strage”. Gli “amici dell’umanità” li troveremo in piazza a invocare  “il bagno di sangue rigeneratore”, in nome di quella patria che i De Amicis avevano sostituito alla Chiesa. Tutta la svenevole melassa della pedagogia “nuova” di cui Cuore – pur in perfetta buona fede – è manuale, era l’ideologia, non dimentichiamolo mai, di quella borghesia europea che gestiva con mano spietata gli imperi coloniali, schiacciando sotto il tallone dell’Occidente, proclamatosi “faro del mondo civile”, ogni altra cultura, disprezzata come inferiore>>, del quale “faro” anche i Duosiciliani hanno sperimentato la “bontà” dal 1860 ad oggi.

NOZZE CHIMICHE

Dove dunque si  parla apertamente, come in Cuore, si rivela, anche per i non esperti, l’ideologia  che intride il racconto. Più difficile è invece scoprirne il messaggio laddove il linguaggio è criptico, nascosto cioè “sotto’l velame de li versi strani” o figurato. Ma è soprattutto da tenere presente che dove gli adepti a qualche dottrina occulta, o esoterica, parlano chiaramente, lì non dicono assolutamente nulla, dicono invece tantissimo quando parlano per enigmi. Ne dà conferma il libro dei Rosa Croce (anno 1459) “Le nozze chimiche di Cristiano Rosacroce” (Chymische Hochzeit Christiani Rosencreuz): Arcana publicata vilescunt; gratiam prophanata amittunt. Ergo: ne Margaritas obijce porcis, seu Asino substerne rosas” cioè le cose arcane, rese di dominio pubblico, si sviliscono e perdono la grazia se pervengono in bocca profana. Non si gettino dunque le perle (Margaritas) ai porci e non si sottometta agli asini un giaciglio di rose.

IL CARDINALE BIFFI  E PINOCCHIO

In tempi recentissimi è apparso, del cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, un estratto di saggio critico, dal titolo Pinocchio senza bugie. Nell’articolo, apparso sul Sole-24 Ore domenica 16 giugno 2002, dedicato alla favola di Carlo Lorenzini autoappellatosi Collodi, l’alto prelato afferma che: “Questo è un libro incantevole e misterioso”. L’affermazione conferma, nella sua scarna sinteticità, l’impressione che se ne trae dopo un’attenta lettura. Ma di estremo interesse è quel che il cardinale Biffi afferma successivamente: “Si può ben supporre che la saltuaria stesura obbedisse a un disegno tracciato preliminarmente e meditato con cura”  e ancora: “resta comunque da verificare in che senso e in che misura sia consentito ravvisare in Pinocchio l’eco e quasi il “manifesto” della cultura risorgimentale…>>  ma conclude stranamente che <<nelle avventure di Pinocchio non c’è la minima traccia degli avvenimenti che hanno mutato l’assetto istituzionale d’Italia, nonostante che a tali avvenimenti Carlo Lorenzini avesse partecipato in prima persona. Né è dato di percepire in quelle pagine la più flebile eco dei convincimenti e delle passioni che hanno percorso e animato l’epopea risorgimentale…In realtà, sarebbe meno lontano dal vero chi trovasse nella narrazione l’atmosfera, per così dire “metastorica” e “atemporale”, che è propria delle fiabe e delle parabole, le quali non patiscono di essere cronologicamente situate>>.  Bisogna convenirne, in apparenza è proprio così: la favola pinocchiesca è stata sognata nella cornice dei canoni classici dell’affabulazione, sul sentiero maestro già tracciato dagli antichi favolisti, a partire dall’Asino d’oro di Apuleio. Ci si lascia trasportare dalla ricca fantastica trama del racconto, dagli inverosimili personaggi, dalle più inverosimili avventure, e, paghi del piacere che ne riportiamo al termine della lettura, non si percepisce la tensione polemica, violenta che la favola nasconde sotto velame fin dalle prime battute, velame che è, come oggigiorno si afferma per certa pubblicità televisiva, di natura subliminale. Come per la Divina Commedia, di cui Dante stesso afferma essere il suo poema di natura ermetica (O voi ch’avete li’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto’l velame de li versi strani [Inf. IX, 61-63]), anche la favola di Collodi ha i connotati di opera ermetica, per cui almeno due chiavi di lettura sono possibili (ma se ne possono intravedere almeno cinque): di manuale iniziatico per adepti e di polemica violenta nei confronti della Chiesa se non addirittura di scontro ideologico con questa.

Nelle righe che seguono cercheremo di enucleare alcuni elementi di carattere esoterico, propri delle dottrine ermetiche, e alcuni altri del bellicismo ideologico contro la Chiesa cattolica, la fede cristiana e il Papato che il Collodi vuole umiliare, ma anche spunti politici riflettenti le tensioni del tempo.

IL NOME DEI PROTAGONISTI

Bisogna cominciare dai nomi dei protagonisti e in primo luogo da quello del burattino. Quel nome, Pinocchio, con cui il burattino viene “battezzato” da Geppetto, è programmatico. Ad un’analisi attenta  e penetrando con la vista oltre il velo della favola, una favola, si badi bene, essenzialmente pagana, si trovano elementi di lettura molto preziosi per capire in che senso si estrinsecherà la virulenza anticristiana, anticattolica, antipapale, dello scrittore fiorentino, anche in riguardo al quale, facendo nostro quanto il Messori afferma per il De Amicis, possiamo dire che “non c’è bisogno della prova dell’affiliazione per riconoscere subito l’impronta della massoneria”. Cos’è il pinocchio se non la mandorla, il frutto mangiabile del pino, albero mediterraneo per eccellenza? Ancora oggi in Toscana, ma anche in certi luoghi della Puglia, con tal nome si indica quello che commercialmente è noto col nome di pinolo, un seme saporito che conserva dentro di sé il ricordo sottilmente inebriante della resina dell’albero madre. Quel nome, se la metafora cristologica del passo evangelico viene riconosciuta, ricorda il granello di senape dei Vangeli, preso a similitudine per indicare la potenza escatologica (Mt, 13, 31) del messaggio cristiano. Dunque Pinocchio è un seme che contiene in sé potenzialmente una vitalità e un vigore immensi: perché diventi albero occorre solamente che sia seminato nel terreno adatto, fra zolle ubertose e non fra le aride pietre di un deserto. Quale sia questo terreno lo vedremo tra poco.

Il nome Geppetto, l’artefice, o demiurgo, del burattino, strano in apparenza, va letto come una variante di Giuseppetto, cioè diminutivo di Giuseppe. Giuseppe, padre di Gesù, è colui che ai fedeli, nella iconografia cristiana, regge il figlioletto, quasi del tutto nudo, sul braccio sinistro mentre con la mano destra stringe una verga fiorita, questa da intendersi anche come asse intorno a cui ruota il mondo cristiano. La lettura dell’immagine è chiara: San Giuseppe falegname (notare l’attributo) è colui che è in grado di rendere vivente ciò che è morto, cioè, fuor di metafora, è colui che è capace (ri)dare vita spirituale e forza salvifica a coloro che lo mirano, cioè seguono la dottrina (i vangeli), che si incarna nel figlio nudo, come dire che la dottrina cristiana non nasconde messaggi occulti, in chiave ermetica, intelligibili solo dagli adepti. Notare però che nella favola Geppetto non è un  semplice falegname, cioè un operaio non molto abile, che abbisogna e adopera nel suo mestiere solo ascia e pialla, due strumenti utili in sostanza a sgrossare il legno (Ohi! Tu mi hai fatto male!, grida il  potenziale Pinocchio quando maestro Ciliegia vibra il primo, che è anche l’ultimo, colpo d’ascia sul pezzo di legno informe),  ma un artista di gran lunga esperto, un superiore intagliatore in legno capace di compiere con gli attrezzi della sua arte non solo di dare movimento, quindi vita, ad un pezzo di legno in apparenza morto, ma di produrre anche “una bellissima cornice ricca di fogliami, di fiori e di testine di diversi animali” (cap. XXXVI). Le due figure, S. Giuseppe e Geppetto, viaggiano quindi su binari  paralleli ma nel contempo divergenti e trasversali. Li accomuna: il nome, la facoltà teurgica, la “parentela” tra l’aureola color oro che cinge il capo del santo e la parrucca gialla con cui Geppetto copre la sua calvizie, segno inequivocabile della sua antichità.

MAESTRO CILIEGIA: NON C’E’ MA C’E’

E maestro Ciliegia brontolone, fifone, falegname, colui che all’inizio del racconto <<si sbertuccia>>  ben bene con Geppetto? E’, maestro Ciliegia,  il più misterioso dei personaggi della favola collodiana. Esso appare una volta sola: all’inizio del racconto, poi esce definitivamente di scena dopo una solenne pellicciata e non se ne fa più motto. Sembra un personaggio minore di cui non vale occuparsi, un personaggio artificioso, stupido, inutile nella economia del racconto, tuttavia una specie di araldo, un coreuta, che trascina sulla scena i personaggi maggiori cioè Geppetto e il pezzo di legno amorfo da cui sarà tratto il burattino Pinocchio. Sembra quasi, maestro Ciliegia, che dica: “ecco, ho fatto il mio dovere, adesso vedetevela con loro, io sono entrato nella favola quasi per sbaglio”. Ed egli rimane ai nostri occhi immobile, ibernato per l’eternità, in quel vano contendere con maestro Geppetto, che nella lotta perde solo due bottoni, ma lui, maestro Ciliegia, ne esce col naso graffiato, segno inequivocabile che Geppetto, vecchietto arzillo, ha più vigore e dunque più capacità creativa. Di tale differenza, ma anche del diverso spessore psichico e intellettivo di questo maldestro stupido falegname, se ne era già accorto il Pinocchio ancora in nuce, il Pinocchio potenziale di là da venire, ancora celato nel pezzo di legno, celato cioè nel regno delle Madri, in attesa di pervenire al mondo dell’essere, pezzo di legno ancora informe ma vitale, che per vendicarsi della ottusità di maestro Ciliegia, che lo aveva sbatacchiato ben bene, si scaglia “con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto” per far nascere un secondo bisticcio tra i due vegliardi. Esce dunque di scena maestro Ciliegia dopo essere stato graffiato ben bene sul naso. Ma la sua presenza, come ombra gigantesca, è presente continuamente fino alla fine: egli è il referente occulto di tutta la favola, dalla nascita, o meglio dalla creazione, del burattino fino alla sua metamorfosi in fanciullo in carne ed ossa, trasformazione che egli, maestro Ciliegia, non è in grado di compiere, perché incapace di percepire la “vocina” che gli giungeva sì alle orecchie ma che non captava né con la mente né con l’anima. Quella metamorfosi, che è lecito definire metànoia, cioè capovolgimento mentale, porta dunque al passaggio dallo stato vegetativo, primordiale, attraverso quello sensitivo, a quello intellettivo.

L’ANIMA SECONDO ARISTOTELE

Ma non sono questi tre aspetti – il vegetativo, il sensitivo, intellettivo – i tre aspetti dell’anima  di cui ha trattato Aristotele?  Recita infatti l’ottimo Dizionario di filosofia edito dalla BUR (1976) circa il De Anima del filosofo (pag. 490): “Conformemente alla sua dottrina fisica, imperniata sulla distinzione tra materia e forma, ovvero tra potenza e atto, Aristotele ritiene l’anima <<forma di un corpo naturale che abbia la vita in potenza>>. Essa svolge tre tipi di attività, vegetativa, sensitiva e intellettiva, le prime due in comunicazione con il corpo, la terza separatamente da esso”.  Importantissima la proposizione “le prime due in comunicazione con il corpo”, che decodifica alla perfezione l’allungamento del naso di Pinocchio, cioè la regressione dallo stato sensitivo a quello vegetativo (o vegetale) quando il burattino combina una delle sue, dato che questi due aspetti sono in comunicazione con il corpo, come vuole il filosofo. Si spiega analogamente come il favolista ha voluto connotare la poca virtù iniziatica di maestro Ciliegia, che nell’ultimo bisticcio con Geppetto ne sortisce graffiato proprio sul naso: come dire che l’anima di costui, come vedremo tra poco, partecipava ancora dell’aspetto vegetativo, e quindi per forza di cose non sarebbe stato in grado, difettandogli la potenza teurgica, di portare il pezzo di legno alla metamorfosi.

MAESTRO CILIEGIA UN  DEMONIO

E se dunque Geppetto è il demiurgo creatore, maestro Ciliegia (a proposito di questo frutto bisogna notarne la piccolezza senza dimenticarne il colore, rossa come lo zucchetto e la mantelletta cardinalizi) non può che esserne l’ombra, cioè il demonio, il male del mondo, secondo il dualismo manicheo, dato che il falegname maestro Ciliegia è incapace di percepire la flebile vocina del potenziale Pinocchio nascosto nel pezzo di legno grezzo. Lo scrittore  introduce maestro Ciliegia nel modo seguente: “ … C’era una volta un pezzo di legno. Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze. Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo di legno capitò nella bottega di un  vecchio falegname, il quale aveva il nome mastr’Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia, per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza, come una ciliegia matura…”. Il naso all’interno della favola vuole esprimere la connotazione dello stato umano più elementare, più basso, tangente lo stato vegetale. Esso, il naso, ha, infatti, tra l’altro, la funzione di percepire gli odori, si comporta cioè come un radar capace di ravvisare e di avvisare se gli effluvii ambientali sono compatibili con la conservazione della vita, la parte vegetativa di ogni essere vivente, priva di razionalità ma anche di sensibilità, perché proprio nelle sensazioni trovano a loro volta le idee la prima radice. Allontanarsi dalla strada virtuosa, soggiacere cioè alle tentazioni e alle forze istintuali e passionali, significa produrre regressione in seno all’anima: Collodi, con immagine felicissima, l’allungamento del naso, indica proprio tale transizione, cioè il passaggio negativo da un gradino più elevato nel travaglio dell’anima verso la perfezione a uno più basso, cioè vegetativo, che la riporta nei vortici della materia bruta. L’immagine metaforica è concettualmente più espressiva di qualunque descrizione verbale, un salto filosofico e di immaginazione meraviglioso.

Che cosa intende fare maestro Ciliegia (in cui i nostri lettori, messi sulla strada e ormai smagati, dovrebbero ravvisare, sotto il velo della metafora, la Chiesa Cattolica e il Papa) del pezzo di legno capitato nella sua bottega? Un’opera morta, la gamba di un tavolo: ”Questo legno è capitato a tempo: voglio servirmene per fare una gamba di tavolino” (cap. I). In alternativa lo ritiene buono “per far bollire una pentola di fagioli”. La cecità d’occhi e di mente di maestro Ciliegia/Chiesa è dunque, per il favolista, assoluta: pur percependo la vocina, egli indirizza le sue ricerche altrove, ad un armadio sempre chiuso in cui forse tiene riposti, o meglio nascosti perché non sa più adoperarli, i ferri del suo mestiere (cioè, al di là della metafora, gli “attrezzi” della sua arte teurgica e demiurgica, cioè salvifica), al corbello dei trucioli e della segatura, alla strada…Un leit motiv massonico che il Venerabile della Loggia italiana in esilio a Parigi, Ubaldo Triaca, il 12 marzo 1929, un mese dopo la firma dei Patti Lateranensi, ripeterà in un documento inviato a tutte le Officine clandestine: “… il papa non è purtroppo, o non è più, il capo di una Chiesa depositaria di un insegnamento esoterico formante degli iniziati dediti al perfezionamento dell’umanità, ma è semplicemente il guardiano di un dogma che esclude il progresso…” (R. Gervaso, I fratelli maledetti, Casa Ed. Bompiani, pag. 306).

IL PANE E IL VINO

Al contrario, quali sono le intenzioni di maestro (attenzione, la parola indica anche un grado massonico) Geppetto (cioè la Massoneria o il maestro della Massoneria) circa il burattino che intende creare? “Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchiere di vino” (cap. II). Pane e vino: la metafora cristologica di quelli che sono gli strumenti sacri della Messa è patente. Il pane e il vino come elementi di sacralità, salvifici, sono parte dei patrimoni  religiosi fin dai tempi remotissimi. Anche Ulisse (in greco, Odüsseus, “colui che vede la strada [con la mente]”, nome simbolico molto significativo, composto dei termini odòs, strada, via, e òssomai, vedo con la mente, prevedo, pervenuto nel mondo latino attraverso la variante Olüsseus, òlos, tutto, quindi Ulisse “colui che vede tutto con la mente”) quando parte dall’isola dei Feaci (gli “splendenti”) reca con sé pane e vino rosso, donatigli da Arète (in greco la “Virtù”) regina di quel popolo, sposa felice di  re Alcinoo (la “mente vigorosa”): “ E Arète gli mandò dietro alcune sue schiave, / una recante un mantello pulito e una tunica, / un’altra a portare l’arca massiccia mandava, / e un’altra pane e vino rosso portava” (Odissea, XIII, vv. 66-69), versi di uno dei capitoli (“libri”) più belli e misteriosi dell’Odissea che precedono di poco lo sbarco dell’eroe ad Itaca (all’incirca la “terra pura”), nel porto sacro a Forchis, padre di mostri, dove si trovano però un olivo frondoso, pianta sacra alla vergine Atena, la Sapienza, nata dalla mente di Dio (Zeus, variante di Deus) e un antro “amabile, oscuro, sacro alle ninfe che si chiamano Naiadi” con “due porte, / una da Borea, accessibile agli uomini; / l’altra, dal Noto, è dei numi e per quella / non passano uomini, degli immortali è la via”  (vv. 109-112)(trad. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, 1970). E non ci vuol molto per intendere che sotto il velo del simbolo, il Poeta Omero comunica con linguaggio ermetico il bivio a cui un’anima può trovarsi, il male (Forchis), e il bene (l’olivo), la sapienza, pur dopo tante traversie ed essere quasi giunta alla meta finale, al sospirato porto (la casa del Padre, Laerte, “colui che è forte come la roccia”). E si intuisce che Ulisse imboccherà felicemente “degli immortali la via”, perché “egli vede la strada”. Piace qui ricordare che Dante, cavaliere Kadosh (“santo”) [ 30° grado della Massoneria scozzese] (René Guenon L’esoterismo di Dante, cap. II, Ed. Atanòr, 1976) nel suo Poema [IV, 85-86] presenta Omero con una spada in mano per significarne il ruolo di grande Maestro iniziato, un gran prete, un jerofante mistagogo capace di guidare le anime alla salvezza: l’arma, oltre che caratterizzarlo come maestro di giustizia, lo individua anche padrone della perfetta conoscenza, per aver tagliato cioè tutte le passioni carnali, le Erinni telluriche, e non perché cantore delle armi, come  erroneamente si argomenta. Si veda l’analogia con il Buddha, che, mai cantore di armi, tuttavia è spesso rappresentato con la stessa arma in mano.

LA LITE

Nella lite tra i due vecchietti, maestro Geppetto/Massoneria offende il suo avversario con epiteti molto pesanti: bugiardo, asino, somaro, brutto scimmiotto, termini che indicano il primo (“bugiardo”) la regressione allo stato vegetale, sulla scia di quanto accade al naso di Pinocchio, gli altri (“asino, somaro, brutto scimmiotto)  regressione dallo stato razionale a quello animalesco, sensitivo: in tutto ciò è palese l’accusa di incapacità rivolta alla Chiesa Cattolica, di avere cioè fallito nella sua missione salvifica: in questa missione, secondo la favola collodiana, il vuoto teurgico, salvifico, viene colmato da Geppetto/Massoneria. Al contrario, maestro Ciliegia, vecchietto svigorito e brontolone, al limite della demenza senile, quantunque sbertucciato ben bene, si limita ad inveire col gentile nomignolo di Polendina, come se fosse affetto dalla malattia demenziale nota come ecolalia. Ma la polenta, sappiamo, è nutrimento di colore giallo, come il colore dell’aureola che cinge il capo di S. Giuseppe. La lite iniziale tra il falegname Ciliegia/Chiesa e l’intagliatore Geppetto/Massoneria adombra, senza dubbio, le grandi tenzoni, non solo ideologiche, che queste due confessioni, Chiesa e Controchiesa, hanno sostenuto l’una contro l’altra, da tempo immemorabile, come indica anche l’età dei due bellicosi litiganti, entrambi calvi e parruccati.

I VOLTI DI MAESTRO CILIEGIA

Ma maestro Ciliegia non esce di scena, come sembra ad una lettura superficiale, difettante di chiave ermeneutica. Egli vien proiettato sulla scena con altri volti, tutti negativi, disumani, perfino diabolici: egli è (attenzione ai simboli) “il rivenditore di panni usati” (cap. IX), un essere insignificante, che, acquattato dietro al burattino, desideroso di entrare nel teatro (metafora del mondo) dei suoi simili per godersi lo spettacolo, acquista da Pinocchio per quattro soldi l’abbecedario, procuratogli da Geppetto/Massoneria, che ne avrebbe fatto un essere (massonicamente) istruito (si noti per inciso che la parola abbecedario è coniata sulle prime tre lettere dell’alfabeto, a, b, c; sarà un caso, ma tre sono i gradini che nel rito massonico scozzese antico e accettato elevano un adepto a Maestro); egli, maestro Ciliegia, è il satanico burattinaio Mangiafoco nei cui  tratti fisici e psicologici si assommano i danteschi demonii Cerbero “Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra / e’l ventre largo, e unghiate le mani”, Caronte il “nocchiero della livida palude, / che ‘ntorno alli occhi avea di fiamme rote”  [ruote, ndr] (Inf. III, 98-99), l’iracondo Flegiàs (Inf. VIII, 18-24) e il mostro Gerione dal corpo di serpente, il mostro simbolo della frode (Inf. XVII, 1-30): “Allora uscì fuori il burattinaio, un omone così brutto, che metteva paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra: basti dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro, e con le mani schioccava una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme” (cap. X);  e con quella frusta, fatta di serpenti, cioè di veleno come la coda di Gerione, e di code di volpe, cioè di astuzia, si fa obbedire dai poveri burattini Arlecchino, Pulcinella e compagni, che, agghiacciati dal terrore, “tremavano come tante foglie”; egli è l’Omino (cap. XXXI), “ più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e con una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa”, che trasporta su un carro, “senza fare il più piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate di stoppa e di cenci”, Pinocchio, Lucignolo (vero nome Romeo!) ed altri ragazzi al Paese dei balocchi nel qual paese, paese di vita spensierata, essi pian piano si trasformano ognuno in asino, animale che, per lunga tradizione favolistica è simbolo archetipico della perfetta ignoranza. Si noti che la parola “cenci” fa tutt’uno con lo straccivendolo che, che all’inizio della favola, per quattro soldi, cioè quasi per niente, acquista l’abbecedario. L’Omino è, insomma, colui che travia i fanciulli, cioè i Massoni già fatti o in fieri, facendoli regredire, precipitare, dallo stato razionale, illuminato, a quello animalesco, sensitivo.

Maestro Ciliegia/Chiesa va dunque integrato con questi tre personaggi, allo stesso modo che nell’Inferno dantesco i demonii, che atterriscono il Poeta nel suo viaggio ultraterreno, altro non sono che la proiezione di Satana, anche lui con tre teste.

MANGIAFOCO

Il capitolo in cui appare Mangiafoco è della massima importanza: merita di essere approfondito perché da quell’incontro iniziano le vere e proprie (dis)avventure del burattino.

Appena entrato in teatro, Pinocchio viene riconosciuto dai burattini Arlecchino e Pulcinella, attori, ma anche schiavi prigionieri di Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa: “Numi del firmamento! (notare l’esclamazione pagana) Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio” urla Arlecchino smettendo di recitare. Gli fa eco Pulcinella: “E’ Pinocchio davvero”. E tutti i burattini: “E’ nostro fratello Pinocchio”. E comincia una indescrivibile gazzarra in cui “gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo, i pizzicotti dell’amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza” si sprecano (notare che le Costituzioni di Anderson affermano testualmente: “autentica fratellanza”). Come mai i burattini si dicono tutti fratelli? Chi li ha fabbricati? Anche loro, prima che divenissero burattini, erano racchiusi in potenza in un pezzo di legno e avrebbero potuto seguire la strada che percorrerà Pinocchio. E’ escluso, anche perché non è detto in nessun luogo, che siano stati tutti fabbricati da maestro Geppetto/Massoneria e che siano caduti nelle grinfie di Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa divenendone vittime e reclusi in quella specie di campo di concentramento che è il teatro dei burattini. In quella schiera vegetale è facile individuare tutti coloro che non si redimeranno mai perché adescati dalla fascinazione potentissima che promana da Mangiafoco. La loro è non solamente una fratellanza di sventura perché costretti a recitare una parte che non è la loro, ma anche una fratellanza ideale, massonica, almeno per coloro che eventualmente riuscissero a liberarsi. E’ proprio quel che il burattinaio teme: “Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro?” egli grida col suo terribile vocione facendo raggelare tutti i burattini-schiavi che tremano come tante foglie, interrompendo ovviamente  tutti gli abbracciamenti “della vera e sincera fratellanza“ (massonica). Ma l’accusa del favolista è ancora più sottile e tagliente: dando un nome preciso ai  due burattini, Arlecchino e Pulcinella, maschere topiche delle Venezie e delle Due Sicilie, fa anche capire quali erano le regioni del nuovo regno d’Italia meno integrate in ambito massonico e più ossequenti alla Chiesa Cattolica. Ma c’è di più. Oltre che da Arlecchino e Pulcinella, Pinocchio è riconosciuto anche dalla signora Rosaura: “E’ proprio lui – strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena”. Rosaura, in fondo alla scena, è dunque accanto al burattinaio Mangiafoco, compagna se non sposa. Chi è costei, nominata solo in questo punto della favola? In una commedia di Goldoni, Le donne curiose, in cui lo scrittore difende ed esalta la Fratellanza massonica, Rosaura è la giovane ignorante e credulona, convinta che entro le logge massoniche si tengano baccanali sacrileghi. Dunque Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa è in buona compagnia, in compagnia dell’ignoranza.

CHI E’ MANGIAFOCO

Come si sa Pinocchio rischia di essere abbrustolito da Mangiafoco, che però, impietosito dagli strilli e dalle implorazioni del burattino, finisce per fargli grazia della vita. Ma il crudele burattinaio, per portare a termine la cottura di un suo montone allo spiedo, metafora della crapula che imbestia, ordina che, al posto del graziato Pinocchio, sia messo al fuoco il povero Arlecchino, il quale “fu tanto il suo spavento, che le gambe gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra”. Lo scambio sacrificale fa scoccare in Pinocchio la prima scintilla di umanità. Il burattino “andò a gettarsi ai piedi del burattinaio e piangendo dirottamente e bagnandogli di lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce supplichevole:

–         Pietà, signor Mangiafoco!…

–         Qui non ci sono signori! Replicò duramente il burattinaio.

–         Pietà, signor Cavaliere!…

–         Qui non ci sono cavalieri!

–         Pietà, signor Commendatore!…

–         Qui non ci sono commendatori!

–         Pietà, Eccellenza!

A sentirsi chiamare Eccellenza il burattinaio fece subito il bocchino tondo, e diventato tutt’a un tratto più umano e più trattabile, disse a Pinocchio:

–         Ebbene, che cosa vuoi da me?

–         Vi domando grazia per il povero Arlecchino”.

In questo dramma (dis)umano-vegetale è racchiusa, per il lettore ancora scettico, la chiave che spazza via ogni residuo dubbio sulla comprensione della favola: Mangiafoco non è signore, non è Cavaliere, non è Commendatore: effettivamente all’interno della Chiesa questi titoli non esistono, ma, a parte “signore” che è un titolo “laico”, Maestro, Cavaliere e Commendatore sono gradi massonici: per l’esattezza nel rito scozzese antico e accettato: Maestro, nelle Logge simboliche muratorie, in cui vengono assegnati i gradi primitivi o simbolici, il 3° grado; nelle Logge di Perfezione il 4° (Maestro Segreto), il 5° (Maestro Perfetto), il 9° (Maestro Cavaliere Eletto dei Nove), il 12° (Gran Maestro Architetto);  negli Areopaghi o Consigli il 20° (Venerabile Gran Maestro a vita); Cavaliere, nelle Logge di perfezione,  il 9° (Maestro Cavaliere Eletto dei Nove), l’11° (Sublime Cavaliere Eletto) e il 13° (Cavaliere dell’Arco Reale); nei Capitoli, il 15° (Cavaliere d’Oriente o della Spada), il 17° (Cavaliere d’Oriente e d’Occidente), il 18° (Cavaliere dell’Aquila e del Pellicano); negli Areopaghi, il 21° (Cavaliere Prussiano), il 22° (Cavaliere dell’Ascia Reale), il 25° (Cavaliere del Serpente di Bronzo), il 28° (Cavaliere del Sole), il 30° (Grande Eletto Cavaliere Kadosh o Cavaliere dell’Aquila Bianca e Nera); Commendatore, negli Areopaghi, il 27° (Gran Commendatore del Tempio); nel Tribunale, il 31° (Grande Ispettore Inquisitore Commendatore). Mangiafoco si commuove a sentirsi chiamare “Eccellenza”, titolo che si dava e si dà  specialmente ai gradi eccelsi della Chiesa Cattolica, a Cardinali e Vescovi, cioè alle massime autorità spirituali di una diocesi. La parola “Eccellenza” salva dunque il povero Arlecchino. Anzi quella “magica” parola fa nascere addirittura amicizia tra Mangiafoco e Pinocchio.

IL DONO DEL BURATTINAIO

Alla fine, Mangiafoco, conosciute le povere condizioni economiche di maestro Geppetto, regala  al burattino cinque monete d’oro. Attenzione però: non si tratta di un’opera di disinteressata bontà. Il dono di Mangiafoco nasconde la serpe in seno, come dicevano gli antichi in cauda venenum, cioè nella coda il veleno. Non si dimentichi che la sua frusta è costituita da serpenti e code di volpe, cioè astuzia e veleno, e quindi le cinque monete (zecchini) donate da Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa al burattino (incamminatosi sulla strada della “redenzione” massonica) sono intrise – secondo il favolista – di veleno. Ma, di grazia, che cosa vogliono rappresentare le cinque monete d’oro? La risposta non può che essere trovata nei sacramenti che vengono elargiti ai comuni mortali (i burattini del teatro di Mangiafoco) che si affidano alla religione cristiana cattolica: battesimo, prima comunione, cresima, matrimonio, estrema unzione. L’ultimo sacramento sarebbe inutile ai fini della redenzione perché dato in extremis, quando ormai si è a un passo dalla fossa: infatti una moneta viene consumata all’osteria del Gambero Rosso, animale che, come si dice, invece di procedere in avanti, va a ritroso. Il simbolo è più che evidente: in possesso degli zecchini d’oro donati da Mangiafoco/Ciliagia/Chiesa, fallaci e maligni, si prende la strada del ritorno allo stato vegetale. In contrapposizione, alla fine della favola, ad avvenuta metamorfosi del burattino in fanciullo in carne ed ossa, la Fata dai capelli turchini, proiezione di Geppetto-demiurgo/Iside, gli regalerà invece “quaranta zecchini d’oro, tutti nuovi di zecca” , dal chiaro significato metafisico ed escatologico, in antitesi evidentissima con i miseri cinque donati da Mangiafoco/Chiesa/Ciliegia, forieri di  perdizione e quindi di caduta dell’anima.

IL SEGRETO DEI NUMERI

Ma, possiamo domandarci, perché proprio quaranta? Il numero va inteso come 33 + 7: dove 33 sono i gradi massonici del Rito Scozzese Antico e Accettato e 7  le virtù etiche che devono costituire, e forgiano, l’abito mentale dell’uomo superiore, vale a dire: il coraggio, la moderazione, la magnanimità, la generosità, la mansuetudine, la franchezza, e soprattutto la giustizia, che è la maggiore di tutte, aventi come fine il bene (Aristotele). Non si può escludere, in via sussidiaria, che il numero 7 possa tuttavia rappresentare anche i cieli, o sfere planetarie (ovviamente in senso figurato, metafisico: Saturno [piombo, luogo delle tenebre, stato iniziale dell’anima greve, ghiacciata, prigioniera della carne e del peccato, cioè dell’inferno], Venere [stagno], Giove [bronzo], Mercurio [ferro], Marte [lega], Luna

[argento]

, Sole [oro, luce e simbolo di perfezione]) attraverso cui trasmutano via via coloro che, convertendosi alla dottrina dei Figli della Luce, ne percorrano i Misteri Minori (che mirano alla perfezione dello stato umano) e Maggiori (che concernono la realizzazione degli stati sopra-umani), che passino cioè dal grado di Apprendista (cioè burattino) a quello di Adepto – Uomo trascendente, jerofante mistagogo che riesce ad aprire la porta del tempio di Dio, dove la luce celeste e la verità consentono all’anima il ritorno alla vera patria.

IL GATTO E LA VOLPE

Appena congedatosi da Mangiafoco, il burattino incontra sulla sua strada il Gatto e la Volpe, cioè la frode moltiplicata, proiezioni della frusta del burattinaio “fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”, se non il burattinaio stesso capace di trasformarsi come il Proteo omerico. I due birbanti consigliano a Pinocchio di portare le monete nel paese dei Barbagianni, cioè degli sciocchi, e di seminarle nel Campo de’ miracoli, cosa che, ingenuamente, il burattino andrà a fare. Similia similibus: le monete donate da Mangiafoco/Ciliegia/Chiesa non potevano che essere seminate nel Campo de’ miracoli, ma lungo la strada il burattino incontra gli assassini, in realtà il Gatto e la Volpe mascherati, alle cui grinfie cerca di sfuggire. Scappa, scappa, e non trovando scampo, si arrampica in cima ad un albero di pino, di cui è seme, alla radice della sua esistenza vegetale, cioè al massimo della regressione allo stato vegetativo, a cui lo portano gli zecchini, che si rivelano, così, inutili dal punto di vista salvifico.

PINOCCHIO SALTA IL FOSSO

Sennonché saranno proprio gli assassini a bruciare la pianta, da cui Pinocchio si salva con un gran salto. Ma quelli lo inseguono sempre: a qualunque costo vogliono derubarlo del  piccolo tesoro “quand’ecco che Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato il passo da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia, color del caffè e latte. Che fare? <<Una, due! tre!>> gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene la misura, patapunfete!… cascarono giù nel bel mezzo del fosso”. Saltare il fosso tutto pieno di acquaccia sudicia, simbolo dei “peccati” del mondo, come fa Pinocchio, creatura ormai incamminatasi sulla strada massonica, o camminare sull’acqua in esso contenuta è un passo topico, metaforico e metafisico, delle iniziazioni misteriche ed esoteriche. Si veda anche quanto afferma Dante (Inf. IV, vv. 106-111) accompagnato dal suo guru Virgilio: “Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello. / Questo passammo come terra dura; / per sette porte intrai con questi savi: / giugnemmo in prato di fresca verdura”. Gli assassini, caduti nel fosso largo e profondissimo, riemersi dall’acquaccia sudicia, ovviamente più sporchi di prima, non demordono dall’inseguimento. “Allora il burattino, perdutosi d’animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e darsi per vinto, quando nel girare gli occhi all’intorno vide fra mezzo al verde cupo degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la neve”. 

PINOCCHIO IMPICCATO

Ma alla fine il burattino viene acciuffato ed impiccato perché si rifiuta di consegnare il suo tesoretto alle due canaglie metafisiche. A questo, alla morte, lo portano dunque gli zecchini d’oro regalatigli dal perfido Mangiafoco, proiezione, o per dirla con Jung, Ombra di maestro Ciliegia/Chiesa: “A poco a poco gli occhi gli si appannarono… aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”  perché soffiava “un forte vento di tramontana, che soffiando e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato”, che, all’estremo respiro invoca il padre, cioè colui, il maestro, che lo aveva tratto, anzi estratto, con gli attrezzi della sua arte, dal legno informe dello stato vegetale: “Oh babbo mio se tu fossi qui!…” (cap. XV).  Questa morte di Pinocchio è morte iniziatica: un passaggio di morte-rinascita, l’incantesimo da cui per il burattino sorgerà nuova vita. E’ l’inizio della metamorfosi del burattino-adepto. Anche il viaggio oltremondano di Dante è scandito da passaggi di morte-rinascita, da cui il Poeta assurgerà a nuova, più profonda, consapevolezza interiore (es. Inf. I, vv. 1-2; III, vv. 136; e soprattutto V, v. 142, “caddi come corpo morto cade”).

TRE GIORNI

Dalla nascita di Pinocchio fino a questa sua “morte” sono trascorsi tre giorni, tre giorni in cui Pinocchio ha vissuto come un morto: notare bene questo lasso di tempo. Nel terzo giorno Pinocchio ritorna alla vita, risorge, lo riporterà in vita la Bambina (cioè la Fata) dai capelli turchini/Iside. Noi a questo punto invitiamo i nostri lettori a leggersi, dei Vangeli, la parte relativa all’agonia e morte di Gesù, che invoca il Padre, ma soprattutto il Vangelo di Matteo (27, 45/46 ) e confrontarne i luoghi con quelli collodiani. L’analogia tra i due racconti è stupefacente, dalla meteorologia, gli elementi aerei che si scatenano, all’invocazione del Padre.

Un altro punto della favola che fa il paio col passo appena citato è quanto vien narrato al cap. XXXIII. Qui Pinocchio, che per le sue male azioni, si era trasformato in asino, aveva cioè patito e sperimentato la condizione animalesca, condizione spirituale di gran lunga inferiore a quella di burattino in fase di redenzione, si riburattinizza. Colui che lo aveva comperato “condusse il ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente uno spintone e lo gettò nell’acqua. Pinocchio con quel macigno al collo, andò subito al fondo…”. Dopo un po’ di tempo, il compratore pensando che l’asino fosse affogato, lo tirò su per recuperarne la pelle e “invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d’acqua un burattino vivo, che scodinzolava come un’anguilla”. 

MORTE-RINASCITA DI PINOCCHIO

Seconda morte-rinascita, metafora cristologica del battesimo. Che cosa era stata per il burattino l’esperienza asinesca? “Una vergogna, caro padrone – confessa Pinocchio a colui che era stato il suo padrone – che sant’Antonio benedetto non la faccia provare neppure a voi!”. Questo scongiuro apotropaico è il clou del bellicismo ideologico massonico: è l’accusa che la sventura asinina vissuta da  Pinocchio è stata opera di sant’Antonio, come fa intendere l’avverbio neppure. Ma il nome Antonio, guarda caso, l’abbiamo visto essere il vero nome di maestro Ciliegia, nome di frutto tanto dolce, tanto piccolo, ma – secondo la visione del favolista Collodi – velenifero. Il potere diabolico di maestro Ciliegia, con le sue proiezioni di Chiesa/Mangiafoco/straccivendolo/Omino, è per tanti versi simile a quello di Crise, il sacerdote di Apollo, che, nell’Iliade, fa nascere una pestilenza nel campo acheo. Anche Lucio, il protagonista dell’Asino d’oro di Apuleio, dopo la sua metamorfosi, si esprime con le stesse parole di Pinocchio: “Provai vergogna di me, una vergogna tutta asinina, s’intende” (Metamorphoseon, XI, 23). Dall’analisi dell’ermetismo della favola possiamo argomentare che l’unico vero massone del secolo XIX in Italia, maestro di dottrina, fu Collodi; i consorti, quelli che comunemente si autodefinivano massoni, erano in realtà, semplicemente, una consorteria di carbonari rivoluzionari bombaroli che avevano mutato nome e casacca.

IL PESCE-CANE E LA STELLA

Non si può in poche pagine analizzare tutti i passi simbolici di questa favola pagana, così complessa ed ermetica, ad uso dei soli iniziati. Tuttavia si rende necessario illustrarne ancora due passi fondamentali. Il Pesce-cane e la stella. Pinocchio, ingoiato dal grande “terribile” animale, ritrova, nel lungo oscuro e profondo budello del “mostro”, il padre Geppetto, cioè, ovunque voi andiate, anche nei luoghi più oscuri, profondi e lontani, ritroverete la Massoneria, che in questo particolare luogo della favola si ammanta del tricolore: infatti Geppetto, “vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve”, ha davanti a sé una candela, infilata in una bottiglia di cristallo verde e accesa che spande intorno luce (che sarà per forza rossa, dato che la temperatura di combustione della candela non è molto elevata, avviene cioè con emissione di radiazione rossa e infrarossa). (Si noti per inciso che anche Beatrice si manifesta a Dante vestita con abiti dagli stessi colori, Purg. XXX, 31-33). Ma nello stesso tempo il verde è simbolo di speranza, speranza di salvarsi dalle fauci del “mostro”  Pesce-cane, e il colore di maestro Geppetto “un vecchietto tutto bianco, come se fosse di neve o di panna montata”(metafora cristologica)  è indice di trasfigurazione cioè il maestro, ingoiato dal mostro, nelle sue viscere si è trasfigurato (effetto del pane e del vino di cui si è detto), ha raggiunto lo stato di Uomo trascendente, cioè adepto trasformato in un centro irradiante Luce, messaggero o ambasciatore del Logos,  “il Figlio di Dio”, che discende nella materia (R. Guénon). Si legga al riguardo quanto Matteo riporta a proposito della trasfigurazione del Cristo: “Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco come la neve” (Mt. 28, 3). Con la trasfigurazione di maestro Geppetto, il favolista afferma dunque che solo nella comunione massonica gli adepti, i Figli della Luce, possono pervenire all’illuminazione, cioè alla visione di Dio, alla santità.

IL MOSTRO METAFORA DELL’INFERNO

Il mostro, da cui tra poco i due protagonisti emergeranno, è dunque metafora dell’Inferno (non della biblica balena di Giona o di Moby Dick). Essere stati da lui ingoiati adombra la discesa agli Inferi, cioè al regno dei morti, ad imitazione del viaggio infero di Ulisse, Enea, Dante, e del primo di tutti gli eroi mistici Gilgamesh, l’uomo divenuto carne degli Dei, “per due terzi dio e per un terzo uomo” che, per la conquista dell’immortalità, attraversò la montagna oscura lunga dodici leghe all’uscita della quale trovò il giardino degli Dei e  la luce di Shamash, il Sole, cioè la stella, che gli abbagliava la vista col suo fulgore. La presenza di Geppetto nella bocca del Pesce-cane ha un solo significato: la discesa agli Inferi non può essere fatta da soli, deve essere preceduta e accompagnata dal Maestro, che svolge così il ruolo di guru, jerofante mistagogo, ruolo che in Dante viene svolto da Virgilio. Non stiamo qui a delucidare il simbolo astronomico del Pesce-cane (parola scritta con un trattino di unione, un trattino molto importante) che ci porterebbe molto lontano. Diremo solamente che richiama la costellazione dei Pesci, sotto cui si trovava il sole nel secolo XIX, e quella del Cane Maggiore, nella quale ultima arde Sirio, la stella più brillante del firmamento, ritenuta da sempre ipostasi di Iside, la Gran Madre, Regina della notte, del cielo e del mondo sotterraneo, ma anche, in Pinocchio, la Fata dai capelli turchini. I due, maestro ed allievo, stanno per emergere dalla bocca del mostro e Pinocchio (è lui che deve guardare) “affacciandosi al principio della gola e guardando in su, poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna”. L’apparizione della stella palesa la fine del viaggio, cioè la metamorfosi dell’adepto, il compimento del passaggio da Apprendista, a Compagno, a Maestro, a colui che possiede ormai la perfetta conoscenza, la Gnosi, la conoscenza che permette di dare una risposta al quesito: chi siamo, donde veniamo, dove andiamo? La trasformazione è ormai prossima e la visione della luna è un omaggio ad un altro aspetto di Iside, a Proserpina, Regina dei morti, degli Inferi, che anche Enea (Eneide, VI, 142) chiama bella (pulchra Proserpina). La presenza della stella, alla fine delle traversie o prove affrontate e superate dall’eroe mistico, ha un solo significato: siamo in presenza di un testo iniziatico. Vedi, esempio molto esplicito e luminoso, nella Divina Commedia, la chiusa delle tre cantiche. Anche nei Promessi Sposi di Manzoni, favola esoterica cristiana modellata sull’Odissea di Omero, Renzo (cioè Manzoni)(cap. XXXIII, ultime righe) “s’incamminò per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta Nuova, e molto vicino a questa”. Dichiarazione questa, molto esplicita, di ripudio della Massoneria, a cui lo scrittore era stato affiliato in gioventù, come fa fede la stesura del suo Fermo e Lucia, cioè, anagrammando e spostando la m e la a, Lucifero (cioè portatore di luce) A. M. (Alessandro Manzoni)

ASPETTI POLITICI

Dalla favola di Pinocchio abbiamo enucleato alcuni elementi sufficienti ad illustrarne gli aspetti apparentemente oscuri. Ma il mondo di Pinocchio è anche un riflesso del mondo reale, ma alla rovescia, capovolto.

La favola non è del tutto apolitica e atemporale come vorrebbe il cardinale Biffi. Oltre agli aspetti esoterici e al bellicismo antiecclesiale precedentemente esaminati, è possibile anche un altro livello di lettura, quello di critica del sistema politico dittatoriale instaurato dai savoiardi. Nessuno scrittore, infatti, per quanto attento o impolitico, sfugge alla dinamica politica e sociale del suo tempo.

L’operazione di Pinocchio, seminare le cinque monete nel Campo dei Miracoli, a parte l’aspetto denigratorio dei sacramenti elargiti dalla Chiesa ai laici, dal punto di vista economico (un simbolo ha sempre un significato principale e vari significati accessorii, sussidiarii o complementari, ad esempio nel caso specifico dei cinque zecchini donati da Mangiafoco possiamo vedere anche una parodia della parabola cristologica dei talenti riportata nei vangeli) non è una operazione industriale, bensì una speculazione finanziaria. Quegli anni, anni della stesura e pubblicazione della favola, furono anni di intensa speculazione economica ed edilizia, di scandali bancarii e di rapine a danno dei meno abbienti tra cui la famigerata e spietata tassa sul macinato. Il pranzo del Gatto e la Volpe all’osteria del Gambero Rosso, un luogo, come vuole il nome, dove invece di andare avanti si va indietro, è un’accusa spietata contro quel parlamento dittatoriale italiano che governava con gli stati d’assedio e con le prigioni, stracolme di prigionieri politici nonostante la patente di “democraticità” di cui si vantava e sproloquiava per via del cosiddetto Statuto, osannato ma messo sotto i piedi.

LA GRANDE ABBUFFATA

Che cosa mangiano infatti il Gatto e la Volpe all’osteria del Gambero Rosso? Cibo che in quei tempi si trovava quasi solamente sulle mense dei ricchi borghesi: “Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio grattato!

La Volpe avrebbe spilluzzicato qualche cosa anche lei: ma siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, così dové contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo la lepre si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d’uva paradisa; e poi non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non poteva accostarsi nulla alla bocca”

Politicamente il Gatto e la Volpe sono metafore non facilmente estrapolabili. Quali personaggi politici siano adombrati sotto quelle due sfingi non è dato sapere. E’ tuttavia molto probabile che in questa particolare fauna di pappatori, Gatto e Volpe, siano da focalizzare il Savoia, la cui lista civile (stipendio) superava di quattro volte quella della Regina Vittoria e di cinque volte quella del Presidente degli Stati Uniti d’America, e il Primo Ministro Depretis, ridottisi, da “titani” (non credeteci) del cosiddetto risorgimento a biechi  sfruttatori del popolo che si ribellava dando violenti scossoni al sistema politico con conseguente caos sociale e caduta di governi. Anzi il governo Depretis fece di più: quando nel 1878 in parlamento fu ridiscussa la tassa sul macinato, approvò una legge che aboliva, per favorire i contadini del nord, l’imposta sui cereali “inferiori” come il mais, discriminando in tal modo i contadini del Sud, che coltivavano grano. La cosa, in quel mondo ancora molto contadino, non era andata a genio ai parlamentari (ormai) meridionali, sicché, quando nel 1879 la questione della tassa sul macinato tornò in parlamento, ci fu chi ne trasse argomento per vendicarsi e il governo Depretis cadde, travolto anche dagli scandali bancari. Ma risultò ancora una volta Presidente del Consiglio un tale del nord, il Cairoli, e le cose non cambiarono. Correva l’anno 1881 quando la favola vide la luce, ma essa dovette avere un lungo travaglio intellettuale prima di essere portata alle stampe. Qualunque fosse il governo in carica, in quell’intorno di anni i tributi venivano ancora quasi sempre imposti dalla dittatura parlamentare (noi siamo autoritari fino alle ossa, aveva affermato  Giustino Fortunato) per decreto invece che per legge, sempre più aumentati per coprire la voragine senza fondo dei conti dello Stato, che spendeva oltre il settantacinque per cento delle entrate in armamenti, una pacchia per le industrie del nord.

 LA GIUSTIZIA SAVOIARDA

Per il Gatto e la Volpe il povero Pinocchio è costretto a pagare il conto della loro crapula all’osteria, e sono loro, il Gatto e la Volpe, che,  successivamente, lo derubano delle restanti quattro monete d’oro seminate nel Campo de’ miracoli, come dire che il popolo veniva spolpato fino all’osso (rapine bancarie con finti fallimenti).

Pinocchio, dopo la truffa gattovolpinesca, fiducioso nella giustizia, corre in tribunale per denunziare  i due malandrini. “Il giudice era uno scimmione della razza dei gorilla… lo ascoltò con molta benignità: prese vivissima parte al racconto: s’intenerì, si commosse: e quando il burattino non ebbe più nulla da dire, allungò la mano e suonò il campanello.

A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da giandarmi.

Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro: – quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d’oro: pigliatelo dunque e mettetelo subito in prigione”. Nella giustizia, senza appello, dello scimmione-gorilla (parodia del dantesco Minosse, savio giudice infernale) che fa patire gli innocenti al posto dei rei, è sintetizzata la giustizia dei regimi totalitari, da cui quello imperante in Italia, il savoiardo, non si discostava in nulla. Anche la libertà, che Pinocchio recupererà, dopo ben quattro mesi di gattabuia, è basata sullo stravolgimento di ogni principio giuridico: per uscir di prigione il burattino sarà costretto a dichiararsi malandrino, perché solo a costoro è concesso, a seguito amnistia, riottenere la libertà: “Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch’io – disse Pinocchio al carceriere.

– Voi no, – rispose il carceriere – perché voi non siete del bel numero…

–         Domando scusa – replicò Pinocchio – sono un malandrino anch’io.

–         In questo caso avete mille ragioni – disse il carceriere; e levandosi il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprì le porte della prigione e lo lasciò scappare”.

 LA LEGGE SICCARDI

L’ordinamento giudiziario vigente in Italia all’epoca della pubblicazione della favola era ancora quello, non tanto rispettoso dei diritti civili, della legge Siccardi del 19 maggio 1851, reso molto più restrittivo dal decreto Rattazzi del 13 novembre 1859, un decreto molto illiberale che risentiva degli effetti della guerra “sostenuta” dal Piemonte in quell’anno insieme a Napoleone III. Nel 1860 l’ordinamento giudiziario piemontese risultava essere il più arretrato della penisola, ma fu imposto per diritto di spada alle regioni conquistate. Le parole di Giuseppe Maranini, professore di diritto costituzionale, riportate nel suo interessantissimo studio “Storia del potere in Italia 1848 – 1867”   (ed. Corbaccio, 1995) sono illuminanti al riguardo: “Così quell’illiberale decreto, imposto di sorpresa e con scarsa correttezza al regno di Piemonte, era destinato a diventare, per diritto di annessione, lo statuto della giustizia dell’Italia liberata e unificata. Che la rapida vicenda delle conquiste e delle annessioni plebiscitarie tra il 59 e il 61 potesse richiedere una momentanea sospensione delle garanzie liberali è comprensibile. Grave è il fatto che quella sospensione venisse utilizzata per dare all’Italia unificata il suo nuovo ordinamento giudiziario, un ordinamento imposto dal potere esecutivo e interamente rivolto a subordinare la giustizia all’esecutivo” (pag. 265). Col decreto Rattazzi i magistrati si trovarono a svolgere il loro ruolo in condizioni molto più  precarie rispetto al passato, soggetti ai capricci del ministro dell’interno, arbitro del loro destino, che poteva, in difetto di giudizi politicamente non conformi, trasferire, punire, impedire avanzamenti. “Il povero magistrato che si ostinasse ad applicare imparziale giustizia in materie di grave pregiudizio politico, poteva ormai tenere in perpetuo le valigie pronte per lunghe peregrinazioni nelle allora remotissime province del regno; e sempre che non gli accadesse di incappare in qualche giudizio disciplinare” (pag. 266). A differenza dei comuni mortali che potevano godere, in un processo, di un minimo di assistenza legale, il magistrato caduto in disgrazia, o solamente sospettato di deviazione, veniva sottoposto, con metodi canaglieschi, molto staliniani, a processo segreto, senza difensore: “Ma il processo segreto, senza intervento di difensore, davanti a magistrati essi medesimi esposti a insindacabile <<tramutamento>> di sede per il bene del servizio, ed anche alle pericolose iniziative disciplinari del pubblico ministero, costituiva una triste parodia di giustizia…Se l’esecutivo con un regolamento deformava o violava una legge, il magistrato era così obbligato a rendersi complice della deformazione o violazione  (pag. 267)… e la pubblica accusa era, in virtù delle leggi, agli ordini del governo, fossero ordini di viltà oppure ordini di sopraffazione e persecuzione” (pag. 274). Era questa dunque la giustizia estesa all’Italia intera dal regime savoiardo. Un sistema stalinista privo di qualunque garanzia costituzionale in cui poteva inserirsi liberamente l’azione sadico-criminale (legge marziale) dei ferocissimi comandanti militari operanti al Sud che, con i loro mortiferi pseudotribunali, decidevano del destino del popolo duosiciliano, fucilando, imprigionando, deportando, senza che la magistratura meridionale, terrorizzata, agghiacciata, tremante come i burattini del teatro di Mangiafoco, potesse far valere un minimo di legalità. In questo sistema già privo di garanzie costituzionali e giudiziarie poteva prendere corpo, nel 1863, la criminale infame legge Pica-Peruzzi votata da un parlamento di canaglie giacobine, legge che in solo sei mesi portò davanti al plotone di esecuzione circa sessantacinquemila patrioti delle Due Sicilie. Era dunque questa triste parodia di  giustizia che Collodi metaforizza (e contrabbanda) nella figura del giudice-scimmione, che incarcera gli innocenti e mantiene liberi i rei, cioè mafiosi e delinquenti politici. Non si addice dunque a quella di Pinocchio l’etichetta di  favola metastorica e atemporale; essa, sia per gli aspetti ermetico-massonici che per il bellicismo anticristiano e antipapale ereditato dal 1848, e per la polemica sulla legislazione giudiziaria e sulle truffe bancarie, è figlia  verace del cosiddetto risorgimento. Astutissimo, intelligentissimo, fu il Collodi, impegnato giornalisticamente, nel camuffare, per salvaguardarsi da eventuali incriminazioni per crimen lesae e per non rischiare la fucilazione funzionante a gogò, nel camuffare, si diceva, in una cornice mitica le sue istanze polemiche contro leggi e comportamenti vomitevoli di un parlamento e di un sovrano criminali, connivente quasi tutta la classe baronale e borghese delle Due Sicilie, che aveva forse fatto proprio il motto del  principe Windischgrätz: “L’uomo comincia col barone” (Der Mensch fängt beim Baron an)[UP1] . Solo sotto il velo della metafora fiabesca, destinata in apparenza a bambini, e pubblicata su un giornaletto per bambini, gli era possibile, in quei truci anni di piombo, farsi intendere dai pochi che sapevano intendere e lasciare ai posteri un messaggio critico, anche di suo non-collaborazionismo, alle future generazioni. Solamente con la legge Zanardelli nel 1889 si pose in parte riparo a quella pseudogiustizia, ma le tare di quest’ultima legge erano ancora tali e tante che ”il fascismo ereditò un ordinamento giudiziario perfettamente adeguato alle sue necessità e al suo indirizzo” (pag. 273).  

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DOV’E’ IL PARADISO DI PINOCCHIO?

Dov’è  il Paradiso di Pinocchio

(Renzo  Lucchesi)

Pinocchio è il simbolo dell’uomo; egli nasce da un pezzo di legno rozzamente tagliato, ed è la mate­ria, l’ignoranza, l’intelligenza; come un neonato, andrà incontro ad esperienze, vicissitudini, traversie e guai, che sono quelli della vita umana, che lo plasmano e lo modificano, i furbi ne abusano, i malvagi lo tartassano, un grosso animale lo ingoia come ha già fatto col babbo, ne escono, una fata l’aiuta ed infine diviene ragazzo, non più legno ma essere umano; è un mutamento dovuto a innumerevoli colpi del male, e nella sua nuova veste dovrà ancora misurarsi con esso, che è comune a tutti gli uomini, procederà fra disavventure e difficoltà, aspirando alla felicità, come tutti…

Pinocchio: da legno (materia, inerzia, ignoranza) a uomo (spirito, volontà, sapienza). Dov’è il suo Paradiso Perduto? Potremmo localizzarlo per lui, ma sarebbe ben triste, nell’essere burattino, legno, igno­rante, inetto, senza costruttiva esperienza del passato e senza consapevoli previsioni del futuro. E d’al­tronde, dopo la fortunata (o sventurata?) trasformazione andrà trovando conoscenza, esperienza, forza potere, emozioni e sentimenti, navigherà fra i marosi d’una perenne tempesta, dovrà eliminare tutto il male possibile e solo allora, se avrà successo, potrà trovare il suo Paradiso Cercato.

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PINOCCHIO, MIO FRATELLO

PINOCCHIO, MIO FRATELLO

Un antico compagno di gioventù

Trascorsi i primi undici anni della mia vita a Pescia, praticamente ad un tiro di schioppo da Collodi, e quindi posso dire di aver respirato l’aria di Pinocchio nel vero senso della parola. Non solo Collodi era la meta di frequenti passeggiate a piedi, tagliando per il colle e riscendendo dalla parte opposta con appena un’ora di cammino, ma “Le avventure di Pinocchio” era allora spesso e volentieri letto nelle scuole elementari, prima che sedicenti poeti o anonimi cinesi vari infestassero i libri di testo e le “bibliotechine” di classe.

Anche la vita quotidiana, e non solo per quel che riguardava la scuola, faceva di questo personaggio un essere ogni e sempre presente: nei rimproveri dei genitori… “studia o ti crescono le orecchie lunghe e pelose”, nei consigli di una mamma premurosa… “…butta giù la medicina sennò vengono i coniglioli neri a portarti via”, o nelle serate fredde e buie d’inverno… “Sta’ attento col caldano che ti bruci i piedi come Pinocchio”.

Poi gli anni passarono: io venni via da Pescia e mi trasferii a Livorno, i termosifoni presero il posto dei caldani di brace, inventarono le medicine al gusto di prugna e ciliegia e se non studiavo l’unica cosa che cresceva erano i due sulla pagella. Ma Pinocchio, il mio vecchio compagno di birichinate, non mi aveva abbandonato del tutto: troppo era stato con me, durante le sassaiole sul greto del fiume, o quando c’era da scaricare qualche vigna, o imbambolati e senza una lira davanti a una giostra, a sognare il Paese dei Balocchi ed alberi ridondanti di zecchini d’oro. Troppo lo avevo assimilato per poterlo dimenticare, e lui me. Purtroppo i fatti della vita ci portarono a un distacco durato decenni fino a quando, qualche tempo fa, capitandomi per caso un brano di Giuseppe Prezzolini lessi “…Pinocchio, il più grande capolavoro della letteratura italiana”. Mi tornò allora presente l’amico burattino e la voglia di rileggerne le avventure. Andai in libreria e comprai un’edizione classica che assomigliava al vecchio libro della mia infanzia. Cominciai a leggerlo quasi con vergogna, nascondendomi alla vista dei miei figli e con l’intima preoccupazione che non sarei riuscito a portare a termine quella lettura, così leggera, futile, sciocca…

Non è andata così; anzi le pagine mi scorrevano via ed ogni tanto mi fermavo a pensare e a rileggere, analizzavo il testo attentamente come se esso ora mi parlasse in una lingua nuova e mi svelasse cose che, quasi cinquant’anni prima, non ero riuscito ad afferrare e comprendere… e quando finalmente, arrivato all’ultimo rigo, ho chiuso il libro, dentro di me ho pensato “Pinocchio, tu sei mio Fratello”.

Una nuova esaltante lettura

Esistono secondo me due chiavi di lettura per “Le avventure di Pinocchio”: la prima chiamiamola “profana”, nella quale il lettore, certamente un bambino, prende coscienza di quelle che io definirei “disavventure”, piuttosto che avventure, del povero burattino di legno. La seconda è una lettura in chiave massonica dove uno spiccato simbolismo si integra, pur senza sostituirla, in quella che è la semplice e lineare narrazione dei fatti. L’appartenenza di Carlo Collodi alla Massoneria, pur non comprovata da alcun documento ufficiale, è universalmente riconosciuta e i riferimenti in tal senso sono numerosissimi. Aldo Mola, non massone ma che comunemente viene definito come lo storico ufficiale della Massoneria italiana, dà per certa l’appartenenza dello scrittore alla Famiglia Massonica. Alcuni fatti biografici inoltre sembrano convalidare questa tesi: la fondazione nel 1848 di un periodico liberale intitolato “Il Lampione”, che come ebbe a dire il Lorenzini stesso doveva “far lume a chi brancolava nelle tenebre”, la partecipazione alle prime due guerre d’indipendenza, con i volontari toscani nel ’48 e come volontario arruolato nell’esercito piemontese nel ’59, e la sua estrema vicinanza ideologica con il Mazzini per la quale egli stesso si definiva “Mazziniano sfegatato”.

Ma qual era allora l’intenzione primaria del Collodi, comporre una storia per bambini o uno scritto massonico?

Difficile rispondere, anche perché se si tiene presente la prima stesura del libro “Storia di un burattino”, che al capitolo XV°, sui 36 dell’opera definitiva, si concludeva con la morte di Pinocchio impiccato alla grande quercia, non possiamo parlare né di storia per bambini, perché essa non è certo divertente né tanto meno didattica nella sua estrema truculenza; né possiamo vedere in essa un alcunché di esoterismo massonico perché ne manca la filosofia di fondo. Allora forse la risposta è in quei 20 centesimi a riga che lo scrittore percepiva dall’editore. Ma nel 1881 il Collodi riprende il suo vecchio scritto, lo cambia e lo amplia portando a termine quell’opera che tutti conosciamo. C’era stato quindi nell’autore un ripensamento: da una storiella sterile, cupa, senza speranza, era nata quella che diventerà nel volgere di pochi anni la storia più famosa del mondo.

Pinocchio tra Libertà, Uguaglianza e Fraternità

Rifacciamoci allora la domanda: Comporre una storia per bambini o uno scritto massonico? Ritengo vera e naturale la prima delle due ipotesi, ma altrettanto vero è che egli abbia voluto descrivere e criticare uno spaccato della società del suo tempo ed è infine naturale il fatto che egli abbia trasferito nella narrazione della storia quegli elementi simbolici ed esoterici propri della cultura dell’Istituzione di cui faceva parte, riuscendo a fondere i due elementi in misura così profonda per cui questi ultimi possono risultare evidenti solamente a chi, come l’autore, sia stato educato ad un certo modo di vedere e interpretare le cose. Nel corso degli anni molti critici hanno dato del romanzo un’interpretazione religiosa in senso cattolico; ultimo della serie il Cardinale Giacomo Biffi: non mi sembra proprio, almeno che per religiosità non si intendano quei concetti e quei valori, quali la bontà, la generosità, il perdono, la famiglia, che sono alla base anche di ogni istituzione civile. Nel romanzo però non appare nessun personaggio legato al mondo della religione, e tutti sappiamo quale importanza non solo spirituale ma anche politica avesse la Chiesa nell’800 e come essa cercasse di influire sulla cultura e sull’educazione nazionale: sarebbe stato quindi normale che in una storia che vede per protagonista un burattino-bambino che vive in un paesino di campagna, si inserisse in qualche modo la figura di un prete, o come minimo si facesse accenno a qualche attività connessa alla religione praticata: al contrario, di preti, chiese, immagini sacre, feste, cerimonie e pratiche religiose, neppure l’ombra, e direi che questo è stato deliberatamente voluto, anche perché il Lorenzini non era certamente all’oscuro di manifestazioni e teorie religiose, avendo studiato presso gli Scolopi per qualche anno.

Analizzando bene tutta la struttura del libro, questa risulta imperniata su tre componenti fondamentali: la LIBERTA’, perché Pinocchio è un essere libero che ama la libertà; l’EGUAGLIANZA sia perché l’unica aspirazione di Pinocchio è di essere simile agli altri sia perché nessun personaggio prevale sull’altro né per importanza, né per rango o ceto sociale; la FRATERNITA’, perché questo è il sentimento principale per cui agiscono i personaggi della storia nelle più disparate situazioni.

Il Tempio di Pinocchio

Che cos’è quindi “Le avventure di Pinocchio”? Apriamo il libro ed entriamo in un Tempio Massonico, un Tempio dove sta per svolgersi la cerimonia più importante della vita massonica, cioè un’Iniziazione, un’iniziazione completa, cioè nei suoi tre gradi. E chi sta per essere iniziato? Pinocchio forse? No! …ma procediamo con ordine.

“C’era una volta…” – “un re….” – “no…, un pezzo di legno!”, o forse sarebbe meglio dire “all’inizio c’è un Maestro”, Mastro Antonio, detto Maestro Ciliegia che potrebbe essere benissimo il Maestro Venerabile di questa ipotetica Loggia. Mastro Antonio è un bravo falegname che si trova tra le mani un pezzo di legno; se fosse stato uno scalpellino avrebbe avuto certamente a che fare con una pietra. Fatto sta che da questa “pietra” il nostro Maestro vuole ricavarne qualcosa di buono, anzi di utile come una zampa di tavolino: e così -dice il Collodi- prese un’ascia arrotata per cominciare a digrossarlo. Ma il bravo Maestro falegname si accorge ben presto che quel pezzo di legno, quasi informe, un semplice pezzo da catasta, non un legno di lusso, ha però in sé nascosta una qualità eccezionale: è vivo; dovrà quindi servire a qualcosa di più importante che non diventare una zampa da tavolino o finire addirittura nel focolare.

“In quel punto fu bussato alla porta” – “Si bussa da profano alla Porta del Tempio”. Ed ecco entrare il nostro bussante, Geppetto.

Geppetto è un vecchietto bizzosissimo, facile a diventare subito una bestia e non c’è più verso di tenerlo, non è che la tolleranza sia il suo forte ma fondamentalmente è un brav’uomo. A chi meglio di lui potrebbe il venerabile maestro Antonio affidare l’incarico di digrossare quel pezzo di legno e farne qualcosa di buono? Ed è così che Geppetto si porta il suo rozzo pezzo di legno, o se vogliamo la sua pietra grezza, nella sua misera casa che guarda caso assomiglia molto ad un , “…una stanzina terrena che pigliava luce da un sottoscala, una seggiola cattiva, un tavolino tutto rovinato, un fuoco acceso ma dipinto, come dipinta è la pentola dell’acqua che bolle, come altrettanto dipinto è il fumo che essa manda fuori. Qui Geppetto compila il suo Testamento: fabbricherò un burattino, lo voglio chiamar Pinocchio, il nome gli porterà fortuna; ho conosciuto una famiglia di Pinocchi, tutti se la passavano bene… il più ricco chiedeva l’elemosina. E, trovato il nome al suo burattino, Geppetto comincia a lavorare a buono, armato di semplici arnesi e tanta volontà, in mezzo a tanti dubbi e a tante speranze; passando attraverso varie difficoltà, riesce finalmente a digrossare il pezzo di legno e a farne un burattino, un burattino perfetto nel suo essere burattino, ma pur sempre un burattino. Nasce Pinocchio dunque, un burattino di sani costumi, ma non del tutto formato, e suscettibile quindi di essere spesso traviato dai richiami allettanti della vita profana. Da questo momento in poi Geppetto e la sua creatura vivono quasi in simbiosi, l’artefice si identifica con la sua opera, soffrono l’uno delle sofferenze dell’altro, gioiscono delle reciproche speranze, affrontano le stesse traversie, sia pure in modi e luoghi diversi. Nel capitolo VI°, mentre Geppetto è in prigione, Pinocchio si trova ad affrontare un ventaccio freddo e strapazzone, una catinellata d’acqua ed infine il fuoco che gli brucerà i piedi: aria, acqua, fuoco… può essere tutto questo casuale?

Da Apprendista a Compagno

Sgrossata la pietra grezza, Geppetto è riuscito a passare dal primo al secondo grado: ha fatto indubbiamente progressi ma è ancora lontano dalla perfezione a cui idealmente aspirava; egli comunque non è più il tipo irascibile descritto nei primi capitoli, così come il burattino abbandona progressivamente la sua mentalità di rozzo pezzo di legno per assumere, almeno a sprazzi, larvati comportamenti mentali umani. Con i piedi rifatti, dopo essere passato attraverso la prova del fuoco, Pinocchio comincia a fare dei ragionamenti: “Vi prometto, babbo, che anderò a scuola, studierò e mi farò onore… imparerò un’arte e che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia”. Come non cedere a simili prospettive? E così Geppetto pur di vedere la sua opera realizzata, e lui stesso in essa, non esita un attimo a vendere la vecchia casacca per comprare l’abbecedario, e da questo momento in poi tutto il succo della vicenda sarà imperniato sulla scuola, sull’istruzione, sulla maturazione del burattino fino alla completa trasformazione. Ma quante prove ancora, e tutte imperniate sul trinomio aria-acqua-fuoco, dovrà egli affrontare?!?! Rischia di essere bruciato nel barbecue di Mangiafuoco o di essere bruciato dal falò acceso dagli assassini (Il Gatto e la Volpe), ondeggia al vento impetuoso di tramontana impiccato alla Grande Quercia, si libra nell’aria a cavalcioni di un colombo, si getta in mare per raggiungere il babbo, sarà gettato in mare sotto le sembianze di ciuchino per essere affogato, e poiché attraverso queste prove egli passerà dopo una qualche malefatta dovuta alle tentazioni della vita profana, esse assumono una funzione purificatrice ed infatti da ognuna di queste prove egli uscirà progressivamente sempre più rafforzato e migliorato.

Una fatina massonica

E la Fatina dai Capelli Turchini? Possibile che di questo personaggio così importante ci siamo dimenticati fin qui? No assolutamente, perché pur senza mai nominarla direttamente essa è stata sempre presente; essa è l’anima della nostra esposizione: essa è la personificazione della Massoneria, è l’espressione della Ragione: i suoi interventi non sono ispirati né dalla fede, né dalla speranza né tanto meno dalla carità. Essi sono improntati al massimo del Razionalismo, una razionalismo esasperato nella sua semplicità (vedi cap. XXV°). Nella narrazione la Fatina interviene per la prima volta quando, battendo tre colpi, dà il segno per soccorrere Pinocchio appeso per il collo alla Grande Quercia: lo accoglie nella sua casa luminosa e piena di delizie ma prima ha bisogno di tre dottori che le confermino se egli è vivo o morto. Le diagnosi, sia pur positive nel complesso, lasciano tuttavia adito a qualche perplessità per cui il burattino deve prendere coscienza di che cosa vuol dire rimanere a vivere in quella casa: Pinocchio ottiene lo zuccherino ma subito dopo deve ingerire la medicina amara e di lì a poco la Fatina, raffigurata in questa prima apparizione come una bambina, dirà a Pinocchio: “Tu sarai il mio Fratellino…”: è tale la corrispondenza con il rituale di iniziazione che non è pensabile che questo riferimento da parte del Collodi sia inconsapevole e casuale.

La seconda volta che Pinocchio incontra la Fatina, questa non è più bambina ma è diventata donna ed è a lei che Pinocchio esprime per la prima volta il desiderio di divenire un bambino vero, un uomo. La Fata gli premette che dovrà superare alcune prove e dovrà soprattutto e prima di tutto andare a scuola ed imparare; Pinocchio promette, giura e… spergiura. Effettivamente il comportamento del burattino sembra intraprendere la strada giusta, tanto che un bel giorno la Fatina gli annuncia che il giorno dopo egli diventerà un bambino in carne ed ossa: addirittura si prepara la festa e si fanno gli inviti, ma ancora una volta il mondo profano attrae fatalmente Pinocchio trasportandolo nel Paese de’ Balocchi. Dopo questa paurosa esperienza avrà inizio la redenzione e Pinocchio rivedrà solo indirettamente una terza volta la Fata dai Capelli Turchini ma nelle sembianze di una capretta che lo assiste e cerca di aiutarlo mentre sta per essere inghiottito dal pescecane, avviandosi così verso la sua catarsi definitiva.

Da Compagno a Maestro

Entrando nelle fauci del terrificante pesce, Pinocchio inizia il passaggio al terzo grado, la morte e la definitiva rinascita. “Pinocchio -scrive il Collodi- battè un colpo così screanzato da restarne sbalordito per un quarto d’ora”. Quando ritorna in sé si trova immerso in un buio così nero e profondo da sembrare entrato in un calamaio pieno d’inchiostro. Immerso in questa oscurità totale, con il terrore di essere “digerito” dal pesce, finalmente Pinocchio vede una specie di chiarore, un lumicino, “forse qualche compagno di sventura che aspetta anche lui di essere digerito…”, “Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche vecchio pesce capace di insegnarmi la strada per fuggire?”. E così Pinocchio si mette a percorrere quella strada indicata dal lumicino e, riporto testualmente, “più andava avanti, più il chiarore si faceva rilucente e distinto”. Il burattino arriva finalmente alla fonte di quella luce: è una candela accesa da Geppetto, raffigurato come un vecchiettino tutto bianco in condizioni pietose. L’artefice e la sua opera sono di nuovo insieme, uniti e pronti per vedere finalmente la luce che appare loro sotto forma di un cielo stellato e un bellissimo lume di luna. Geppetto viene preso a cavalluccio da Pinocchio e portato in salvo: l’artista torna alla vita per tramite della sua opera.

Ora il burattino è pronto per diventare uomo; la pietra grezza è stata completamente digrossata; manca solamente l’ultimo passaggio, la levigatura. Pinocchio infatti comincia a studiare e lavorare forte per suo padre e contemporaneamente manda i frutti della sua fatica alla buona Fata che ha bisogno di lui anzi, per aiutarla, rinuncia a comprarsi un vestito nuovo. E il momento è arrivato: una mattina Pinocchio apre gli occhi e si accorge di non essere più un burattino di legno ma un ragazzo; non è più in una capanna dalle pareti di paglia ma vede una bella camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante; è ricco perché i quaranta soldi mandati alla Fatina gli sono ritornati sotto forma di quaranta zecchini d’oro: gli sono stati resi i metalli. Pinocchio corre dal povero babbo nella stanza accanto e si trova davanti un Geppetto sano e arzillo e di buon umore. E così il passaggio al Terzo Grado è compiuto, l’iniziazione si è completata.

La scena si chiude nel Tempio con il buon Geppetto che soddisfatto da una parte contempla Pinocchio divenuto uomo, cioè la pietra ben squadrata e finalmente levigata, dall’altra osserva il vecchio burattino di legno, appoggiato, rigirato, con le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate. In questo sta l’originalità del romanzo: Pinocchio non ha subito una metamorfosi, non si è trasformato in “umano”: è nato invece un nuovo essere ed il burattino è rimasto là quasi a testimoniare un messaggio di continuità. E’ nell’ultima frase del romanzo, che il Collodi fa dire a Pinocchio, che si racchiude e si concentra l’orgoglio di essere iniziato Fratello Libero Muratore: “Com’ero buffo, quando ero un burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!…”.

(In “L’Acacia” N° 3 – 2002)

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