BURATTINO D’ITALIA: L’UNITA’ SECONDO PINOCCHIO

Burattino  d’Italia: l’Unità secondo Pinocchio

Pinocchio è stato uno dei grandi elementi unificanti della nazione italiana nella sua adolescenza. Alla pari di Cuore; alla pari dei romanzi di Salgari. Ma con una proiezione pìù duratura, meno contingente che ha scavalcato tutte le barriere e riunito – con non decisive differenze e nuances – tutte le generazioni. Ora anche Pinocchio è diventato sinonimo dì divisione e quasi di contrapposizione fra un’Italia ideale e ancestrale – violentata dal Risorgimento – e l’Italia come si è costituita nell’Ottocento, nel suo nesso nazionale, figlio di una certa idea della omogeneità culturale linguistica italiana, che non ebbe mai nulla di biologico, di razzistico (la nazione, non la stirpe e tantomeno la razza: come altri risorgimenti nazionali del secolo XIX).

L’interprete più impegnato e anche più tenace di un Pinocchio contrapposto alla morale civile degli italiani e risognante l’Italia prerisorgimentale e preunitaria è, e non da oggi, il cardinale Biffi, l’arcivescovo di Bologna, che a questi studi si è dedicato con costanza e anche con puntiglio. Il suo recente discorso a Bologna, nel centenario della morte dell’autore del burattino immortale, Carlo Lorenzini, ha suscitato polemiche, reazioni e confutazioni anche marginali: ma non è stato contestato nel suo nucleo di fondo, nucleo che è collegato a non vero e proprio equivoco, in radice.

E’ l’equivoco sulle varie forme di opposizione e di critica allo Stato unitario, così come si era realizzato nella versione moderata e monarchica. Secondo il cardinale Biffi è “La crisi ideologica e spirituale del Lorenzini all’origine del suo lavoro”, né “questo prodigio letterario sarebbe mai nato senza la crisi che colpisce la nazione italiana contestualmente al Risorgimento”. Il che può essere anche vero. Ma occorre domandarsi: quale crisi? Da quale parte? E in vista di quali obiettivi? Quell’Italia, nata quasi per miracolo e con l’aiuto, per dirla in termini collodiani, della Fatina dai capelli turchini, fu respinta in blocco dai cattolici intransigenti e contestata duramente dai repubblicani e democratici di sinistra, da cui proveniva appunto il Lorenzíni. Le due opposizioni, come si direbbe: la cattolica e la laica. Una temporalista e reazionaria, sia pure con larghe forme di messianesimo sociale; l’altra progressista e democratica, finalizzata ai grandi motivi della Costituente e della Repubblica (la tesi che prevarrà in questo secolo). Opposizioni, l’una alternativa all’altra. Ogni confusione in materia ci indurrebbe in gravi errori.

Carlo Lorenzini, che si chiamò Collodi in omaggio al paese natale della madre da lui adorata fino al punto di non sposarsi mai, era di origine mazziniana e repubblicana. Il suo Dio era il “Dio e popolo”. Aveva combattuto nel ’48 a Curtatone e Montanara, guidato da un professore rivoluzionario e per i tempi quasi “sovversivo” quale era Giuseppe Montanelli. Aveva diretto, nella Firenze dei tanti e contraddittori tumulti fra ’48 e ’49, un giornale satirico anticlericale e nettamente repubblicano e unitario, quale era Il Lampione. E aveva percorso nel decennio della restaurazione la parabola che fu di tanti patrioti del suo tempo, quella che porterà intere falangi della sinistra ad accettare la “Società nazionale”, l’incontro con la monarchia dei Savoia purché unificatrice. Che sarà poi la bandiera di Garibaldi e dei Mille.

L’Italia, in cui si consumerà l’esperienza centrale di Lorenzini scrittore, e scrittore per l’infanzia, non era l’Italia sognata o sperata nel ’48 o nel ’59. “Oh non per questo… “: aveva cantato Carducci, interprete massimo di quella frustrazione e di quella amarezza. C’era la rivolta contro il fiscalismo eccessivo (Sella sarà uno dei bersagli di Lorenzini). C’era la denuncia dei legami – male antico – fra gruppi politici e gruppi affaristici. C’era la scontentezza dei partiti e della loro frantumazione in gruppi personalìzzati e quasi lottizzati. C’era la sfiducia nelle riforme anche dopo l’avvento della sinistra al potere.

E’ rimasta celebre la lettera aperta di Collodi a Michele Coppino ministro della Pubblica Istruzione: “Date retta a me che sono insegnante: meno chiacchiere e più pane! Il proletario cencioso e affamato, che non ha da portare alla sua famiglia altro nutrimento che pochi tozzi di cavolo raccattati nella spazzatura, cosa volete che se ne faccia della vostra istruzione e dei vostri libri?”. Il tutto sullo sfondo di una toscanità risentita, aspra e in qualche punto vilipesa. Al punto da fargli proporre, a Minghetti, l’abolizione della Toscana e la trasformazione nella regione “Carolina” (quasi un motivo pre-Pinocchio). E da fargli dire dei fiorentini, egli che ne era un interprete schietto e intero, “I morti vanno lesti! Ma io conosco dei vivi che se ne vanno più lesti anche dei morti: e sono i fiorentini”.

Di questi “malanni” il libro Pinocchio è tutto intriso. Libro per grandi, oltre che per bambini, esso offre uno spaccato della società italiana in via di costruzione che parte da una finalità ideale, tipicamente mazziniana, di una società migliore. La morale di Collodi è la morale dei Doveri dell’uomo. Solo il lavoro può difendere l’uomo da tutte le tentazioni e da tutte le perdizioni. Non è Pinocchio un libro di agiografia patriottica. La giustizia esce male, perché male funziona in Italia; il tocco sui carabinieri non è un tocco né affettuoso né incoraggiante. Il paese di Acchiappacitrulli finisce per identificarsi, nella sua fantasia solo apparentemente scanzonata, con una specie di sintesi dei mali italiani. L’impegno di Pinocchio è a redimersi; e la “redenzione” operata dal burattino che diventa uomo è la redenzione “laica” di chi si appoggia alle proprie forze, di chi fa leva sul libero arbitrio, sullo sforzo individuale, sul lavoro. Segno distintivo, appunto, del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo Stato italiano.

La stessa Fatina dai capelli turchini è stata talvolta identificata col simbolo religioso della Madonna, e non solo dal cardinale Biffi. E’ molto più probabile che essa risusciti il mito della madre e lo collochi in una cornice del “miracolo borghese”, di quella fede nella bontà connaturata all’uomo, che toglie ogni margine alla trascendenza, che sostituisce fin dall’infanzia Dio con le fate, il demonio con l’orco.

“Come era possibile che diventasse popolare un’unificazione compiuta senza giovarsi della forza spirituale antica e sempre nuova del cattolicesimo?” L’interrogativo del cardinale Biffi si riallaccia a quelli di “Comunione e liberazione”, si colloca nel quadro di un processo al Risorgimento, che non esita a stabilire parallelismi fra Risorgimento e fascismo, fra Risorgimento e “anomalia comunista” nella vita italiana. Sono gli stessi temi del “federalismo” delle Leghe. Ma chi ricorda in questi giorni che il tentativo federale c’è stato in Italia e si è spezzato nel necessario universalismo del Papato? Chi ricorda il ’48-’49, che nacque neoguelfo e finì repubblicano? Quando il ministero della Pubblica Istruzione ha assegnato a giugno il tema sul neoguelfismo, abbiamo visto alla televisione tanti studenti che dichiaravano di ignorare anche la parola. Con l’attuale scuola non ci meravigliamo di niente. Ma il “neoguelfismo” fu la più impetuosa febbre che abbia colpito l’Ottocento italiano. Si tentò in tutti i modi di realizzare l’indipendenza della penisola d’accordo col Papa, immaginato presidente di quella confederazione, dopo gli entusiasmi collettivi sollevati da Pio IX. Il Pontefice mandò le sue truppe a fianco di quelle di Carlo Alberto nella pianura padana, salvo richiamarle d’improvviso – con l’allocuzione del 29 aprile 1848 – non appena si delineò la scissione dei cattolici tedeschi e austriaci, insofferenti di ogni Vaticano a dimensione nazionale italiana. Chi lo ricorda? L’errore del cardinale Biffi è di confondere il temporalismo col cattolicesimo. Il Risorgimento fu contro il potere temporale e, abbattendolo, liberò la Chiesa dal più grande ostacolo alla sua universalità (come ha riconosciuto Paolo VI). Non fu contro la religione dei padri che Manzoni conciliò perfettamente con la scelta di Roma capitale e che compenetrò tutto il filone cattolico-liberale sopravvissuto a ogni delusione, a ogni amarezza, a ogni smentita.

Tiro fuori dalla mia biblioteca un piccolo libricino postumo di Collodi, stampato circa cinquant’anni fa. Si intitola: Biografie del Risorgimento, Ricasoli, Cavour, Farmi, Daniele Manin. Proporrei a un editore di ristamparlo, e dissipare ogni equivoco, in appendice a una nuova edizione di Pinocchio.

Anche attraverso Pinocchio i valori di patria si conciliano con quelli di umanità. Ha ragione Croce che collocò Pinocchio fra i grandi libri del secolo scorso. “Il legno in cui è intagliato Pinocchio è l’umanità, ed egli vi si rizza in piedi ed entra nella vita come l’uomo che intraprende il suo noviziato: fantoccio, ma tutto spirituale”. E su tutto vince “la forza morale della bontà”. Ricongiunzione, questa volta, fra la morale cristiana delle origini e la morale laica.

14 ottobre 1990 – Giovanni Spadolini

* Tratto da G. Spadolini, Il mondo frantumato, Milano, Longanesi, 1992

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PINOCCHIO: SIMBOLISMO MASSONICO ED ESOTERICO”

PINOCCHIO: SIMBOLISMO MASSONICO ED ESOTERICO”

Posted by altaterradilavoro on Mar 24, 2020

“Pinocchio: Simbolismo Massonico ed esoterico”            

Forse non tutti sanno che il “Pinocchio” di Collodi è un racconto iniziatico velato sotto forma di favola per bambini. Già il nome Pinocchio è un’allusione alla ghiandola pineale, cioè la manifestazione fisica del “terzo occhio”: pin-occhio (occhio–pineale).

Un pezzo di legno, un burattino per l’appunto, a cui viene insufflata un’anima e prende vita, ma che con varie prove (iniziatiche) riuscirà alla fine a diventare un “Bambino Vero”. Facile comprendere che il pezzo di legno animato, dotato di vita quindi, ma senza Volontà in quanto burattino, è un’allegoria del sé inferiore; mentre, il Bambino Vero (Bambin Gesù-Cristo) rappresenta la nascita del Cristo nell’uomo o Sé Superiore.  Naturalmente, il grillo parlante, il gatto e la volpe (corpo astrale e corpo mentale), e tutti i vari personaggi e le situazioni del racconto hanno anch’essi un significato “esoterico”.

Pinocchio è un opera ricca di simboli, archetipi e significati occultati nella gradevole maschera della fiaba.

Le Avventure di Pinocchio, è una favola ideata nel 1883 da Carlo Collodi, il cui vero nome era Carlo Lorenzini. E’ la storia di un burattino animato che dopo molte peripezie. Riesce a realizzare il sogno di diventare un bambino in carne ed ossa. Oltre a essere una delle fiabe più diffuse al mondo, Pinocchio è un capolavoro di simbolismo massonico-esoterico e meta-comunicazione, grazie ad un soggetto e una trama capaci di racchiudere molteplici chiavi di lettura.

CARLO COLLODI

Carlo Lorenzini nacque a Firenze nel 1826. Iniziò il suo percorso letterario scrivendo su un giornale satirico da egli stesso fondato: Il Lampione, periodico che dopo il lancio incorse nella censura e venne chiuso.  Ad un certo punto la sorte gli sorrise, e da disoccupato scrittore Collodi fu assunto presso diversi ministeri italiani, collaborò alla stesura di un vocabolario e fondò una nuova rivista, La Scaramuccia, grazie alla quale iniziò ad occuparsi di composizione teatrale.  In quel periodo la sua carriera assunse una piega singolare. Accettò – infatti – un incarico ministeriale in qualità di censore teatrale, così che nel giro di una stagione da censurato diventò censore. Dal 1875, dietro incarico dell’editore Paggi, si occupò della traduzione per l’Italia delle più note fiabe francesi. Fu così che apprese l’arte della composizione fiabesca. Nel 1881, sul primo numero del Giornale per i Bambini – progenitore dei periodici per ragazzi – fu pubblicata la prima puntata della sua celebre favola, con il titolo: Storia di un Burattino. Tutte le puntate sarebbero state raccolte due anni dopo, nel 1883, in un volume dal titolo Le avventure di Pinocchio. Quella di Lorenzini fu una vita piuttosto normale, se si esclude il rapporto ambivalente con la censura, ed il fatto che fosse un massone.

COLLODI E LA MASSONERIA

Nel saggio Pinocchio, Mio Fratello, il massone Giovanni Malevolti scrive di Collodi in questi termini:

“L’iniziazione di Collodi nell’ordine della massoneria, sebbene non sia riscontrabile da documenti ufficiali, è universalmente risaputa. Aldo Mola, un non-confratello che è generalmente definito come storico ufficiale della Massoneria, ha espresso con certezza che Collodi facesse parte della famiglia massonica. Inoltre molti eventi della vita di Collodi confermano questa tesi. Innanzitutto la creazione nel 1848 di una pubblicazione intitolata “Il Lampione”, che, come egli stesso affermava, ‘illuminava’ tutti coloro che fossero nelle tenebre. E poi l’estrema ammirazione che nutriva nei riguardi di Giuseppe Mazzini (massone e rivoluzionario di primissimo piano).”

“Ci sono due modi di leggere Le avventure di Pinocchio”, prosegue Malevolti. “La prima è quella che chiamerei “profana” con cui il lettore, molto probabilmente un bambino, impara a conoscere le disavventure del burattino di legno. La seconda è una lettura fatta di simboli, in chiave massonica.”

Le chiavi di lettura della favola collodiana sono perlomeno tre. Una di stampo massonico, la seconda di stampo pedagogico, e la terza di stampo politico-reazionario.

CHIAVE DI LETTURA MASSONICA

Protagonista iniziale della storia dopo la parentesi di mastro Ciliegia è mastro Geppetto, umile falegname solitario il quale non avendo figli, decide di crearsene uno, intagliando una marionetta da un grezzo pezzo di legno. Il suo burattino ha sembianze umane, ma è ovviamente privo di vita.

Geppetto simbolizza il Demiurgo di Platone e dello gnosticismo. La parola ‘demiurgo’ deriva dal greco: ‘creatore, artigiano.’ In termini filosofici il Demiurgo è il ‘dio minore’, l’entità che crea esseri imperfetti assoggettati alle insidie della vita materiale.

Geppetto realizza di avere bisogno dell’aiuto del Grande Dio (Grande Architetto) affinché infonda nella marionetta il soffio vitale per diventare un “bambino vero” o – in termini esoterici – un uomo illuminato.

La fata Turchina, emissaria e simbolo del Grande Dio, scende sulla Terra per conferire a Pinocchio una scintilla della Mente Universale, il “Nous” degli gnostici, attraverso il dono della vita e del libero arbitrio. Sebbene sia vivo, però, Pinocchio non è un ancora un bambino vero, ma resta un burattino di legno. Le scuole misteriche insegnano che la vita vera inizia solo dopo l’illuminazione. Prima di essa, la vita non è che lento decadimento.

Quando Pinocchio chiede se sia diventato un bambino la Fata gli risponde: “No, Pinocchio. Il desiderio di tuo padre si avvererà solo se saprai meritarlo. Mettiti alla prova con coraggio, sincerità e passione, e un giorno diventerai un bambino vero”.

I temi dell’autonomia e dell’auto-miglioramento si ispirano ai dettami massonici: la salvezza dello spirito è qualcosa che deve essere meritata attraverso auto-disciplina, conoscenza di se e forza di volontà. I massoni simboleggiano questo processo con i simboli del Grezzo e del Levigato.

“Nella filosofia massonica il Grezzo è un’allegoria dei non-iniziati; le persone prima dell’illuminazione. Il Levigato incarna un massone che si adopera per ottenere una vita onesta e si sforza di ottenere l’illuminazione.”

Loggia Massonica della Pubblica Istruzione,

Proprio come nella mentalità massonica il processo di illuminazione è simboleggiato dalla trasformazione del Grezzo nel Levigato, Pinocchio inizia il proprio viaggio come un pezzo di legno grezzo e cercherà di smussare i suoi angoli per diventare finalmente un bambino vero. Nulla gli è dovuto. E’ necessario che in lui abbia luogo un processo interiore-alchemico che lo renda degno dell’illuminazione. Deve vivere la vita, lottare contro le tentazioni, e – con l’aiuto della sua coscienza (impersonata dal Grillo Parlante), deve trovare da solo la strada giusta. Il primo passo è quello di andare a scuola (che nella interpretazione massonica è simbolo di conoscenza).

LE TENTAZIONI DEL SUCCESSO E DELLA VITA PROFANA

Sulla strada di scuola Pinocchio incontra il Gatto e la Volpe, che gli propongono la comoda strada del successo, attraverso lo spettacolo. Ignorando gli avvertimenti della coscienza decide di seguirli, e finisce per essere venduto a Stromboli(Mangiafuoco), il burattinaio. Pinocchio conosce così il costo dell’apparente successo: non può tornare dal padre (il Creatore), e i guadagni che produce finiscono tutti nelle tasche di Stromboli(Mangiafuoco), il quale si dimostra cinico e brutale.

Dopo aver conosciuto la vera natura della ‘strada facile’, Pinocchio si rende conto del triste stato in cui si trova: è schiavizzato come un animale ed in balia di un burattinaio crudele.

Tornato sulla retta via, incontra Lucignolo, un ‘poco di buono’ che lo invita ad accompagnarlo nel Paese dei Balocchi, luogo senza scuola né leggi ove i bambini possono bere, fumare e distruggere qualsiasi cosa a piacimento, il tutto sotto l’occhio vigile del Cocchiere.

Il Paese dei Balocchi in chiave massonica simboleggia la vita profana fatta d’ignoranza, ricerca della gratificazione immediata e soddisfazione dei più bassi impulsi. Il cocchiere incoraggia tale condotta in quanto è il miglior metodo per creare degli schiavi. I ragazzi che si abbandonano a tale stile di vita si trasformano in asini e vengono poi mandati a lavorare in una miniera. Una cupa rappresentazione delle masse ignoranti

Quando Pinocchio inizia la sua trasformazione in asino, in termini esoterici si avvicina al lato di se più bestiale, chiaro riferimento letterario al racconto di Apuleio ‘La Metamorfosi’ (L’Asino d’oro), un classico studiato nelle scuole misteriche.

L’INIZIAZIONE

Scampato alle disavventure del Paese dei Balocchi, Pinocchio torna a casa per riunirsi a suo padre, ma la casa è vuota. Scopre che Geppetto è stato inghiottito da una balena. Così il burattino decide di saltare nel mare per farsi ingoiare a propria volta dalla balena, e ritrovare il proprio Creatore. Questa è la sua iniziazione, in cui – una volta prigioniero della balena – sceglie di fuggire dal buio della vita ignorante (simboleggiata dal ventre della balena) alla illuminazione.

Anche qui Collodi si ispira ad un classico della letteratura di iniziazione spirituale: il Libro di Giona. Si tratta di un mito riscontrabile sia nel cristianesimo che nell’islamismo ed ebraismo, oltre ad essere un caposaldo studiato in tutte le scuole misteriche.

Dopo mille difficoltà Pinocchio sfugge infine al buio dell’ignoranza. Emerge dal ventre della balena come risorto, come Gesù Cristo. Ora è un bambino vero, un uomo illuminato che ha spezzato le catene della vita materiale per abbracciare il suo se superiore. La Grande Opera è stata compiuta.

CHIAVE DI LETTURA POLITICA – PROPAGANDISTICA

Chiunque abbia confidenza con la comunicazione occulta può intuire tra le righe della favola di Collodi  la presenza di alcuni messaggi subliminali. Questa chiave di lettura colloca la favola nel novero delle ingerenze politiche propagandistiche prescolari.

“È stata tua la colpa allora adesso che vuoi?

Volevi diventare come uno di noi,

e come rimpiangi quei giorni che eri

un burattino ma senza fili

e adesso invece i fili ce l’hai!

E’ Stata Tua la Colpa, E. Bennato

IL BURATTINO

La prima differenza dalla lettura massonica risiede nel concetto di ‘libertà.’ La metafora dell’individuo libero si riscontra nella iniziale incarnazione del personaggio, burattino grezzo, vitale, curioso e propenso ad assecondare le proprie attitudini.

Tale estrema libertà lo rende tuttavia un diverso; un non appartenente alla comunità. La sua diversità è dipinta come un elemento negativo al quale sia necessario rimediare reprimendo l’individualità, obbedendo all’Autorità ed entrando a far parte della tribù.

IL GRILLO PARLANTE

Questa visione non identifica Il Grillo Parlante con l’interiorità del personaggio. Il Grillo non è il simbolo della coscienza di Pinocchio poiché fin dal momento in cui la Fata gli infonde il soffio di vita, il burattino dimostra di possedere già una coscienza. Una coscienza “caotica”, basata sulla curiosità, la vitalità, il disordine e la creatività

Tuttavia secondo il Grillo Parlante possedere una coscienza caotica equivarrebbe a non possederne alcuna. Dunque il Grillo prescrive a Pinocchio di snaturare la propria indole per potere diventare un bambino come tutti gli altri.

Il simbolismo del Grillo Parlante ha perciò una valenza differente rispetto all’altra lettura. Rappresenta la voce della Autorità; di chi è preposto a martellare le menti giovani fino a che non assumano una determinata forma che sia funzionale al meccanismo sistemico. Il Grillo sfoggia un linguaggio forbito ed è inappuntabile nell’abbigliamento. Rappresenta le voci che chiunque è destinato a udire fin dalla più tenera età. Famigliari, insegnanti, istituzioni che sopprimono l’individualità per semplificare l’adattamento al sistema.

LA SCUOLA

Di conseguenza l’abecedario e la scuola, piuttosto che mezzi salvifici incarnano la cultura dominante, cioè uno degli strumenti con cui il sistema plasma le individualità per ottenere la loro omologazione

“Vai, vai, e leggili tutti

e impara quei libri a memoria

c’è scritto che i saggi e gli onesti

son quelli che fanno la storia

fanno la guerra, la guerra è una cosa seria

buffoni e burattini, non la faranno mai!… “

E’ Stata Tua la Colpa, E. Bennato

LUCIGNOLO, IL GATTO E LA VOLP

Considerandoli da un punto di vista più ampio è evidente come tali personaggi incarnino il concetto di ‘estranei’: i non appartenenti alla tribù (composta dal Grillo, Geppetto e la Fata Turchina). Ogni estraneo in cui Pinocchio incorre nelle sue peripezie è infatti un personaggio negativo; ognuno di essi tenta di sopraffarlo o di approfittare della sua buona fede.

Qui il messaggio ripropone un cliché riscontrabile in molte fiabe: la necessaria sfiducia da nutrire verso tutto ciò che non sia preventivamente avallato dal giudizio dell’Autorità.

LA TRASFORMAZIONE

Ironicamente – dunque – l’elemento meta-comunicativo finisce per seminare nell’inconscio del lettore profano un concetto opposto rispetto a quanto suggerisce la lettura superficiale del testo.

Adesso non fai un passo se dall’alto non c’è

qualcuno che comanda e muove i fili per te

adesso la gente di te più non riderà

non sei più un saltimbanco

ma vedi quanti fili che hai!… “

E’ Stata Tua la Colpa, E. Bennat

Da individuo libero e diverso (grezzo burattino), il personaggio finisce per conformarsi agli schemi comuni, dopo avere smussato con sofferenza gli angoli della sua diversità, convinto di avere così raggiunto la libertà, quando in realtà è accaduto l’opposto.

CONCLUSIONE

Fin dal 1881 – anno in cui fu pubblicata in Italia e via via nel resto del mondo – la favola di Pinocchio è entrata a far parte della cultura prescolastica di molti giovani cittadini.

Quando – nel 1940 – Walt Disney decise di dedicare il suo secondo lungometraggio alle avventure del burattino collodiano, la favola di Pinocchio era già estremamente diffusa nella cultura pop di molte nazioni. Il cartone disneiano contribuì però a renderla un vero e proprio must per le giovani generazioni di tutto il mondo; una storia che sotto forma di narrazione verbale, scritta, disegnata, recitata continua a raggiungere una ragguardevole porzione di popolazione mondiale.

Personalmente ho ulteriormente sviluppato questa prospettiva interpretativa trovando evidenti conferme a questa tesi. Possiamo enucleare tre linee di approfondimento dell’opera: Pinocchio quale fiaba alchemica accennante ad una trasformazione interiore e ontologica dell’essere umano; Pinocchio quale gioco di architetture-itinerari estetizzanti-magici e mitologici, Pinocchio quale insieme di parabole religiose e cristiane.

Per il primo aspetto risulta evidente che moltissime sono le concordanze fra la struttura stessa dell’opera e i suoi tratti salienti con le immagini-tipo e le dimensioni dell’alchimia: Il burattino appare quale materia grezza universale già piena di vita propria che viene plasmata da un demiurgo-architetto e la Fata appare quale Iside-Grande Madre, signora della api, delle trasformazioni e degli animali.

Il legno stesso è segno della nave e del viaggio e Pinocchio passa più volte attraverso i quattro elementi della natura alla ricerca perenne della quintessenza! Viene infatti bruciato dal fuoco nei piedi e rischia di essere del tutto bruciato per opera del gatto e la volpe nel bosco di notte, naufraga due volte nell’isola della Fata e nel ventre del Pesce, vive l’esperienza dell’aria due volte: appeso alla quercia grande e volando sul colombo!

Si tratta quindi sempre di “prove iniziatiche” dove il nostro protagonista rischia spesso al morte e ciò gli apre nuove vie e stadi di maturazione interiore.

Per non parlare della trasformazione asinina simile a quella di Apuleio. Ogni caduta segue una crescita, un allontanamento e un ritorno, in un viaggio senza vero spazio e vero tempo, ma un viaggio mentale che segue un percorso a spirale e ciclico!

Frequenti sono i segni simbolici: il serpente, il cane, il pesce, fino ad arrivare alla manifestazione evidente dei significati occulti contenuta nella ricetta magica per “moltiplicare l’oro”: acqua – terra e un pizzico di sale. Ma è di facile conoscenza che il sale significa lo spirito, l’acqua significa la mutazione/anima volatile e la terra significa il corpo o il cuore.

È chiaro quindi che la centralità dell’oro (zecchini), nascosta sotto il fragile ma abile velo essoterico del denaro borghese, significa la ricerca della sublimazione spirituale, della pietra filosofale, della palingenesi interiore.

Altre volte il velo si ala: quando il burattino, incatenato come un cane (le trasformazioni simboliche avvengono anche in pesce e colombo) sospira nella notte: “Oh se potessi rinascere un altra volta..!”

Uno dei temi centrali è quello della rinascita infatti! Il mutar pelle per manifestare l’Essere.

Secondo la successiva prospettiva di tipo letterario-magico-mitologico c’è da confermare il fatto che l’opera è ricca di risonanze simboliche, sia classiche che medioevali.

Ad esempio il “pescatore verde” ricorda molto Polifemo (la vita selvaggia e asociale nella sua brutalità e unidimensionalità elementare), il burattino si mette gli zecchini sotto la lingua quando corre nella notte e ciò ricorda immediatamente l’obolo a Caronte (e questo ci conferma come un altro tema essenziale sia l’esperienza attiva della morte), il campo dell’inganno della volpe e del gatto si chiama “campo dei miracoli”.

Si intende dire che sussistono molti parallelismi e come una rete invisibile ma sensibile di relazioni fra i personaggi e le situazioni che creano un’atmosfera magica e suggestiva. Ad esempio c’è un parallelismo fra l’oscurità della selva dove vive la Fatina e l’oscurità del ventre del pesce: due notti rischiarate da una luce magica!

Infine, sconvolgenti sono le trasformazioni della fata: da bambina-fantasma a bambina sorellina, da donna viva e poi come morta a mamma di Pinocchio.

Altri parallelismi/contrapposizioni sussistono fra mastro ciliegia e il pescatore verde (omicidi per ignoranza) e fra l’omino e Mangiafuoco (il finto buono e il finto cattivo). Ma anche nella scelta dei nomi utilizzati è chiara l’impronta mitologica: da “Melampo” ad “Alidoro” fino alla capra che ricorda quella del monte Ida che allattò Zeus!

Filosoficamente l’opera è tutto un teatro dialettico abilissimo fra il libero arbitrio e il destino, fra la volontà e la necessità, fra il sogno e la vita. Finisce infatti in modo prodigioso: una storia tutta onirica si conclude nell’unico sogno “veramente” raccontato, un sogno teurgico e taumaturgico che libera l’essere dal legno e lo restituisce alla sua vera dimensione. Un sogno che ricorda quelli incubati nei Templi di Asceplio o Demetra.

Dal punto di vista religioso è innegabile che anche in tale dimensione i riscontri sono molteplici e profondi: Geppetto è falegname come Gesù, e lo crea senza una donna. La fata è simile a Maria per il suo intervento provvidenziale e per la sua strumentalità a Geppetto, mentre il pesce è simbolo cristiano e ci ricorda il battesimo e la morte-rinascita.

Dopotutto la storia di Pinocchio è la storia della ribellione e del ritorno al Padre: è un’espansione della parabola del figliuol prodigo.

Pinocchio vive tutti i misteri della salvezza, dal battesimo alla croce: appeso alla quercia grande, attraverso lo Spirito santo (il Colombo).

Un capolavoro che non stanca mai e che è così grande da poter accogliere le più differenti interpretazioni senza esaurirle.

Ce lo dicono gli stessi massoni questo, infatti sul sito della loggia Hochma 182 leggiamo quanto segue in un articolo dal titolo ‘Pinocchio: una storia iniziatica’:

‘La fiaba di Pinocchio, notissima in tutto il mondo, in quanto tradotta in moltissime lingue, è una fiaba tutta italiana. Scritta da Carlo Lorenzini, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Carlo Collodi (la cui appartenenza alla Fratellanza non è avallata da documenti ufficiali, ma confermata dal suo pensiero e dalle frequentazioni massoniche), ha incantato e continua ad incantare bambini ed adulti, aldilà della preparazione letteraria del lettore; infatti può essere intesa secondo gli schemi della pur semplice impostazione favolistica oppure interpretata nei suoi significati più reconditi o velati. Essa costituisce una significativa metafora della vita e della evoluzione spirituale. Descrive infatti il cammino dell’individuo dalla sua nascita fino alla maturità.

La crescita di Pinocchio, dalla sua nascita e fino alla trasformazione in bambino vero, contiene tutti i sentimenti ed i travagli dell’animo umano: l’innato affetto reciproco tra genitore e figlio, l’impertinenza del figlio verso il genitore, l’animo indulgente del genitore verso il figlio, l’animo del bambino, che, seppure innocente, non sa resistere alle tentazioni cacciandosi in un sacco di guai e coinvolgendo in ciò anche chi gli vuole bene.

Tutto questo agli occhi del profano inconsapevole, ma da iniziato il significato è profondamente diverso.

I contenuti esoterici nelle “Avventure di Pinocchio” sono numerosi, e ad una attenta lettura la “favola” nasconde significati molto più profondi di quelli che può cogliere un bambino. Gli eventi favolistici nascondono significati e simbolismi che si rivolgono a chi è in grado di interpretarli.

Si scopre subito una favola nella favola, una favola diversa dove il “burattino” deve apparire con tutti i suoi difetti, ed è costretto a superare tutti gli ostacoli che gli si presentano per diventare “Uomo”.

Dal legno-materia prima, allorché è lavorato a regola d’arte, emerge Pinocchio, burattino sì, ma che deve farsi uomo, e che pertanto contiene già uno spirito umano inserito nel suo corpo ligneo.

Il burattino percorre dunque un percorso iniziatico che lo deve condurre ad una profonda trasformazione di tutti i piani del suo essere.

Trasformazione resa possibile con il morire da profano e rinascere quale iniziato.

Pinocchio viene impiccato, ma risorge… ed ecco la sua “morte iniziatica” .

Pinocchio dopo essere stato impiccato è costretto a bere un calice di bevanda amara (simbolo dell’amarezza dei rimorsi provocati da un non adempimento degli impegni assunti) da tre medici che simbolicamente rappresentano il Maestro Venerabile, I e II sorvegliante ed ai quali è dato il compito della “cura” materiale ma soprattutto spirituale.

I simboli della Libera Muratoria sono molti e significativi: dallo scalpello ed il maglietto di Geppetto, i cappucci neri dei conigli che si avvicinano al burattino che non vuole ingoiare la medicina amara, il cappio con cui il Gatto e la Volpe appendono Pinocchio alla Quercia grande, la barba di Mangiafuoco che come un grembiule ne copre il petto e le gambe.

Nell’incontro di Pinocchio con gli altri burattini, essi lo definiscono “fratello” e quando il burattino giunge nel teatro viene accolto con clamore.

“E’ il nostro fratello Pinocchio […]vieni a buttarti tra le braccia dei tuoi fratelli di legno!”.

La congregazione di burattini è capitanata da Mangiafuoco, minaccioso ma dal cuore compassionevole, così come ogni buon Maestro, che si prende cura dell’Apprendista. Egli,infatti, prima rimprovera e minaccia Pinocchio affinchè questi possa comprendere l’errore fatto, ma poi, commosso, gli ridona la possibilità di continuare il suo percorso, regalandogli le cinque monete che il burattino sperpererà incautamente.

Pinocchio compie diversi Viaggi attraverso gli elementi naturali per diventare Uomo; oltre ad attraversare l’elemento acqua e l’elemento fuoco, viaggiando sul dorso del colombo attraversa l’elemento aria, e poi tocca l’elemento terra quando approda alla sua agognata Spiaggia, nelle vesti di un Pinocchio stanco ma sicuro e ormai pronto a rinascere sotto le sembianze di un Uomo.

Nel ventre della balena che l’aveva ingoiato, Pinocchio sembra trovarsi nella Camera di Riflessione: al buio per prepararsi al percorso di rinascita. Quindi forse non è un caso che appena usciti dal ventre/Camera di Riflessione, sul dorso del tonno, allievo e maestro insieme, quest’ultimo facendogli superare il “mare” dell’inconscio, lo fa approdare finalmente alla spiaggia che rappresenta il prendere coscienza di se’ e l’addentrarsi nella via iniziatica.

Ed è così che il Burattino-Profano rinasce Uomo-Iniziato.

Un altro simbolo massonico è in relazione allo spoliazione dai metalli, da parte del profano durante il rito di iniziazione, dovendo questi consegnare tutto il denaro, in metallo o banconote, i gioielli e gli oggetti metallici in suo possesso. Questa spoliazione simboleggia l’abbandono dell’attaccamento alle idee preconcette e il distacco da ogni passione prima di entrare nella loggia. La stessa cosa avviene a Pinocchio nel momento in cui semina nella terra le monete d’oro , per la qual cosa dovrà continuare il suo percorso al di là dell’attaccamento ai beni materiali e alle abitudini fuorvianti. Solamente alla fine della cerimonia iniziatica i metalli vengono restituiti; allo stesso modo il burattino, verso la fine del racconto, dona i suoi quaranta soldi di rame che, appena diventato ragazzo, gli verranno restituiti trasformati in monete d’oro. In questo modo, il suo patrimonio viene moltiplicato, impreziosito e restituito come avvenuto arricchimento spirituale.

Poseguendo l’analisi della simbologia massonica, notiamo “la benda”, che copre gli occhi dell’iniziando. Ciò significa che il profano non sa vedere e ascolta troppo spesso le parole del mondo per cui, avendo bisogno di una guida, egli si afferra consapevolmente all’individuo che gli si presenta. Dal momento in cui l’iniziazione porta alla Luce, la benda gli verrà tolta contestualmente.

Un simbolo pregnante del Tempio massonico è la volta stellata, ove sul soffitto del tempio sono raffigurati il cielo, la notte e le stelle. Ciò rappresenta il cosmo, in tutte le religioni, e ha lo scopo di infondere serenità di spirito e di stimolare non tanto il sogno quanto invece la meditazione. La volta stellata dei Templi massonici è, quindi, emblema di universalità e di trascendenza perchè non frappone ostacoli tra il micro ed il macrocosmo della spiritualità universale. In Pinocchio, troviamo l’evocazione di ciò nel Campo dei Miracoli o Campo della stella, più volte citato, ove si evidenzia la possibilità di una trasformazione: è qui, infatti, che il burattino perde i metalli (monete).

Dietro la storia del burattino che cerca di diventare umano vi è una storia spirituale profonda che affonda le sue radici nelle scuole di Mistero e di Occultismo. Attraverso gli occhi di un iniziato, la raffigurazione del burattino che doveva diventare buono e redarguito spesso con prediche sul “non mentire”, diventa per l’uomo la ricerca dell’illuminazione e della saggezza. I commenti brutalmente onesti sul contesto sociale in cui si muove Pinocchio sono una raffigurazione cupa del nostro mondo moderno che prescrive, forse, un modo per sfuggire alle sue trappole

La sua storia può essere paragonata a quella dell’uomo: Pinocchio viene creato dal legno, quindi dall’elemento naturale. Egli stesso, dalla sua nascita, ha un solo desiderio: non essere più un burattino di legno, ma diventare un bambino in carne ed ossa. Un Uomo vero.

In effetti il burattino è l’emblema della passività, di colui, cioè, che è manovrato da qualcun altro, di colui che non è protagonista attivo nella propria Vita, ma che dipende dagli eventi che tirano le sue fila, che non agisce quindi da uomo libero.

La Fata, la sua Anima, interviene spesso per tirarlo fuori dai guai e, con l’aiuto di una bacchetta (anch’essa di legno) lo trasforma, infine, in bambino, l’ Uomo vero.

Pinocchio è tutt’altro che una semplice favola; è un capolavoro sempre attuale e così grande da poter accogliere le più differenti interpretazioni senza mai esaurirle. E’ una parabola massonica.

Un’altra conferma la troviamo sulla rivista massonica ‘Il Risveglio Iniziatico’ (Anno XXII, n° 3, Marzo 2010) sulla quale è presente un articolo dal titolo ‘Pinocchio esoterico’ in cui c’è una parte intitolata ‘Pinocchio Massone’ in cui si legge:

‘Eh, già! Potrebbe essere sorprendente ma la lettura in tal guisa mi sembra interessante da sottoporre, anche perché mette a nudo la cultura massonica alla quale apparteneva il Collodi.

Pinocchio vien fuori dal lavoro che compie mastro Geppetto, sgrossando un pezzo di pino: la similitudine con il lavoro che deve fare un Apprendista d’arte, sgrossare la pietra grezza per farla diventare cubica, è evidente.

Nella locanda dove si trovava, viene svegliato da “tre colpi” alla sua porta; i fatidici tre colpi d’Apprendista e, nella storia, affronterà i quattro viaggi dell’iniziazione attraverso i quattro elementi.

“Il campo dei miracoli” o “campo delle stelle” ricorda la volta stellata del Tempio ed il burattino ne viene introdotto dal gatto, cieco, e la volpe, claudicante. Il recipiendario, in Massoneria. entra in Tempio, per chiedere la “luce”, bendato, cieco come il gatto del racconto, e col piede sinistro scalzo, claudicante come la volpe.

Pinocchio si muove su piani orizzontali, da apprendista e compagno, e solo una volta su quello verticale, da maestro, quando sale sull’albero per nascondersi agli assassini. Qui, forse, il Lorenzini ha avuto in mente di richiamare la setta di Djebel Ansarieh detta degli “Assassini”, i cui membri erano grandi consumatori di Yhashish, da qui il nome, la quale era l’equivalente dei nostri Templari e, si è scoperto più tardi, avere conoscenze esoteriche, gradi e ritualità molto simili ai monaci guerrieri cristiani.

Nella tradizione massonica, che fa riferimento allo scozzesimo, le colonne del tempio sono sormontate ciascuna da duecento melagrani, quattrocento in tutto, guarda caso la fata turchina confeziona quattrocento panini e prepara duecento tazze di caffè e duecento tazze di latte: il bianco e nero del pavimento a scacchi posto all’interno del Tempio. Il burattino deposita i metalli, gli zecchini d’oro, seppellendoli. Questo è quello che fa un recipendario prima di essere ricevuto come Apprendista d’Arte.

Pinocchio va diverse volte “in sonno”, ciò avviene sempre prima di un passaggio iniziatico: quando gli bruciano i piedi ed è, quindi, impedito nel movimento e poco prima di essere impiccato alla quercia e, soprattutto,quando diventa, finalmente, uomo.

Arrivato alla corte di Mangiafuoco chiama i nuovi amici burattini fratelli ed è cosa reciproca. Infatti, quando giunge nel teatro viene accolto con le seguenti parole “È il nostro fratello Pinocchio. Vieni a buttarti tra le braccia dei tuoi fratelli di legno”.

A capo di tutto Mangiafuoco, apparentemente temibile e terribile, il quale brandisce una frusta che assomiglia, a dir il vero, alla spada fiammeggiante del Venerabile Maestro che la afferra a protezione della Loggia e del suo segreto.

Egli la usa per portare ordine nel teatro-Tempio e, dopo una sommossa e ristabilito l’ordine, concede il perdono, la gratificazione e la salvezza. Mangiafuoco minaccia e incute terrore al burattino ma quando ritiene che Pinocchio si fosse emendato degli errori fatti, gli consegna cinque monete e lo lascia libero di continuare il suo percorso.

Il numero delle monete ricorda la stella fiammeggiante, simbolo dei Compagni d’arte, a presupporre, probabilmente che, avendo superato le precedenti prove, il pezzo di pino meritava un aumento di salario.

Successivamente Pinocchio viene inghiottito da un pescecane e, seguendo una luce, ritrova nella pancia del pesce, dove è sistemato un tavolino con una candela dentro una bottiglia di cristallo verde, papà Geppetto.

Tutto fa presupporre al gabinetto di riflessione: il tavolino, la candela, gli scheletri dei pasti del pescecane, il sale dell’acqua marina, il nero del capace stomaco del predatore dei mari. Il verde della bottiglia, invece, rimanda al colore sacro del Graal e dello smeraldo. Lo smeraldo richiama alla mente le “Tavole di smeraldo” di Ermete Trismegisto, testo importantissimo in Massoneria, ma il verde è, anche, esotericamente, il colore dell’acqua. Lo spietato pescatore del racconto è, infatti, verde ma anche verde è il serpente che sbarra la strada a Pinocchio, riprendendo così una fiaba iniziatica del noto massone Goethe.

Dopo quest’altra avventura, avendo salvato dalla morte il suo creatore e iniziatore, mastro Geppetto, essendo passato, ancora una volta, nel gabinetto di riflessione (la prima volta vi era già stato quando, dal buio della condizione di materia vegetale inerte, ottenne la “luce” divenendo materia vegetale senziente) egli ottiene il definitivo aumento di salario: ora lavorerà in verticale e non più in orizzontale. E’ diventato UOMO’ E’ evidente dunque l’influenza occulta-massonica nel romanzo di Pinocchio. Una ragione in più quindi per fare stare i vostri bambini lontani da Pinocchio.

Raccontate ai bambini le storie presenti nella Bibbia e non le favole profane, e trasmettetegli gli insegnamenti sani presenti nella Bibbia.

Chi ha orecchi da udire, oda.

«Un bambino che legga con tutto il cuore questo libro ne esce trasformato. Diventa un’altra persona di cui non è lecito parlare».

Che genere di altra persona?

«Una persona con una mentalità da martire. In quale altro libro si insegna al bambino a diffidare di tutte le autorità terrene? E chi altro può vivere disdegnando quasi completamente la giustizia umana?».

«Ovviamente Pinocchio è la storia di un’iniziazione. Come le Metamorfosi (Asino d’oro) di Apuleio. Il latino del grande retore diventa una lingua infantile quando narra l’epifania di Iside, la madre universale, colei che compare nei sogni se si sogna rettamente… Che poi in Collodi è la fata dai capelli turchini, la prefigurazione della capra sullo scoglio nel mare in tempesta, che compare nel libro molto più tardi, e che pure ha il pelo azzurro».

Perché Collodi rappresenterebbe Iside come capra, oltre che come fata?

«Iside, nel mondo pagano, è la grande mediatrice, rappresentante di tutto il mondo animale, o meglio dell’indistinzione tra animale e umano».

In effetti in Apuleio il protagonista è trasformato in asino.

«Certo. Il che significa semplicemente che provengono dalla cultura di base della cerchia massonica cui Collodi apparteneva. Vede, una loggia di Firenze, al tempo di Collodi, non era luogo di modesta cultura. Certe letture erano comuni, elementari addirittura. La massoneria ferveva di una rinascita del pitagorismo antico ».

Vuol dire che la letteratura antica era un codice?

«Era linguaggio elettivo per comunicare all’interno dell’ambiente massonico. E lì le cose su cui si posavano gli occhi si trasmutavano. C’è un passo di Marco Aurelio: “Ricordati che colui che tira i fili è questo Essere celato in noi, è Lui che suscita la nostra parola, la vita nostra, è Lui l’Uomo… Cosa ben più divina delle passioni che ci rendono simili a marionette e nient’altro”. Si attaglia alla storia del burattino, ne è la chiave».

Ma allora «Pinocchio» è un libro per bambini o una parabola massonica?

«Entrambe le cose, è questo il miracolo. La semplicità della lingua toscana in Pinocchio nasce dal fatto che Collodi sta trasmettendo una verità esoterica è non può che esprimerla così, come la narrerebbe a un bambino. È il ritegno di chi sta parlando di cose indicibili che produce questo particolare linguaggio, in Collodi come in Apuleio».

In questa chiave esoterica, che significa il nome Pinocchio? e Lucignolo? e il Gatto e la Volpe?

«In latino pinocolus significa pezzetto di pino. Per un pagano è l’albero sempreverde che sfida la morte invernale. Lucignolo è un Lucifero miserello, a misura di puer, cioè di pre-iniziato, e il Gatto e la Volpe sono Legbà e Shù, grandi personaggi della mitologia africana che si ritrovano anche nel Vudù. Allora si leggeva, e di libri sul Vudù l’America di fine Ottocento era piena. Qualche massone d’oltreoceano poteva avere informato Collodi. La vita di loggia è molto strana, è segreta e piena di incontri».

Vuol dire che «Pinocchio» non può comprendersi del tutto senza conoscere la massoneria?

«No, voglio dire che Pinocchio continua un’antichissima tradizione sotterranea della letteratura italiana. In rapporto ai rituali massonici si chiarisce il significato della poesia medievale – Federico II, Dante e Cavalcanti – così come l’esoterismo della Rinascenza in tutti quei grandi che vissero l’integrazione di Bisanzio nella cultura occidentale ai tempi del concilio di Ferrara e Firenze e intorno a Enea Silvio Piccolomini, un grande gnostico: pensi alla lettera veramente esoterica che scrisse al sultano ottomano, al neopaganesimo di Pienza… Tutti, anche gli alti prelati sanno che dal culto di Iside deriva la Madonna, che la leggenda dei magi testimonia come l’atto fondante della cristianità sia l’innesto dello zoroastrismo, come può vedersi, proprio vicino a Pienza, nei rilievi della pieve di Corsignano!».

La prego, torni a «Pinocchio».

«Pinocchio, come dicevo, continua la lignée esoterica, gnostica, isiaca e neopagana, nel senso più spirituale, che è al centro della nostra letteratura».

Il che varrebbe a dire che la grande letteratura italiana è essenzialmente massonica?

«Varrebbe a dire che spesso noi italiani ci lamentiamo di non avere una letteratura all’altezza, ad esempio, di quella inglese o tedesca. Ma il fatto è che la nostra migliore letteratura, quella laica, è sotterranea e segreta, perché a differenza degli inglesi e dei tedeschi ha dovuto sottrarsi alla censura dell’ala meno illuminata e elitaria della cultura cattolica».

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PINOCCHIO POLITICO 2

PINOCCHIO POLITICO 2 – La new-economy ed il paese dei balocchi

“Ma gli altri? Dico la folla silenziosa e smarrita che ogni mattina, da mesi, quando apre il computer sul sito “Campo dei Miracoli” non trova più i suoi zecchini, e bestemmia il giorno in cui ha creduto che davvero la vecchia economia, quella fondata sulla maledizione del lavoro e del sudore, fosse rimpiazzata da una nuova di zecca, nella quale dal denaro nasce il denaro, ininterrottamente, per naturale clonazione?… La moneta come un seme di cuccagna, da lanciare nel campo infinito della Chiocciola @ per vederlo germinare, e generare intere foreste di fronde tintinnati d’oro… E infatti Pinocchio esita, e si domanda, “a bocca aperta per lo stupore: ‘Ma com’è mai possibile che diventino tanti?’”
Michele Serra, da “Il Pinocchio delle Borse e il barbiere di Agnelli”, Repubblica 16.03.2001  http://www.rutelli2001.it/dalpaesedeibalocchi.php  

Se si rimane nell’ottica di comprendere la ragione della fortuna di Pinocchio, nessuna di queste potrebbe a buona ragione essere definita come un’interpretazione “classica”, ma solamente una delle tante possibili, distinguibile eventualmente dal grado di autorità conferitole dall’argomentazione o dall’autore.

Ma il numero e dalla varietà delle interpretazioni ci fanno azzardare a muovere noi un suggerimento per una risposta alla nostra questione: Pinocchio è senza dubbio una buona metafora, un buon modello per spostare un discorso più o meno complesso sul piano delle immagini, per aiutare a comprenderne il senso. Esistono però metafore create dalla letteratura che si prestano più di altre ad entrare nell’universo linguistico e culturale umano, perché possiedono alcune caratteristiche che le rendono archetipi, modi generali di vedere il mondo, strutture concettuali fondanti della natura e della cultura dell’uomo.  

Ci viene in aiuto un piccolo libro di Carlo Lapucci, “Il libro delle filastrocche (Domino Vallardi editore), dove si legge un parallelo tra la favola di Pinocchio ed i giochi della più antica tradizione: “Se si collegasse la storia di Collodi con i giochi popolari come quello dell’Oca, Pela il chiù, Carica l’asino (guarda caso Scaricalasino, con Bengodi e Cuccagna, è un paese citato nel libro), il Gioco del Barone, ecc., vi si riconoscerebbero immagini consuete, comuni al “Libro dei sogni”, come ai Tarocchi: il Bagatto, il Matto, l’Impiccato, la Pozza del Gambero, la Morte, la Prigione…”

Il gioco dell’Oca appartiene a quei giochi che sono una metafora del vivere sociale e della comunicazione narrativa: un inizio ed una fine, la presenza della natura e degli animali, l’impedimento al movimento (il carcere), i pericoli, il caso (i dadi), e soprattutto il viaggio labirintico dell’esistenza, con le sue imprevedibili direzioni.

L’idea di concepire Pinocchio come il percorso stabilito dal Gioco dell’Oca o come una narrazione determinata dalle carte dei Tarocchi, oltre a fare la felicità di Calvino e delle teorie strutturali sulla narrazione, ci porta su un piano interpretativo con cui abbiamo più confidenza: la dimensione narrativa del gioco (o l’essenza ludica delle storie), e il raccontare storie come attività fondante della natura umana.

Pinocchio è un libro scritto per essere raccontato, per la narrazione orale.

L’intersecarsi degli eventi di una favola, e di una storia in generale, è un vero e proprio labirinto, una rete di possibilità virtuali che ha bisogno, per esprimersi, del filo di Arianna, della guida di Virgilio, dell’opera del narratore. Inoltre, “la fantasia popolare reinventa liberamente poi queste immagini: il labirinto può diventare tanto una tela di ragno, quanto un serpente, giocando quindi una partita più con l’inconscio che con la razionalità che stenta a rintracciare l’identità delle immagini”.

 “Con lo smarrimento di Pinocchio davanti al serpente siamo arrivati alla spirale, il simbolo del labirinto che si trova verso la metà del libro, come verso la metà del gioco è appunto lo smarrimento di colui che segue il percorso paradigmatico: è la selva oscura dello smarrimento che si incontra nel “mezzo del cammin di nostra

vita”, smarrimento che l’eroe è destinato a superare in molti modi, poiché si tratta di una prova vinta a suo modo anche dal burattino. Il fatto che costituisca il centro è anche indice che il labirinto è l’elemento che riassume e condensa l’intero…” Le storie nascono da strutture di pensiero talmente conNATURAte al vivere umano che costituiscono il mezzo più efficace (e talvolta più scientifico) per conoscerne il produttore, l’uomo stesso. L’uomo vive di storie ed in esse vi si riconosce; in alcune di queste molto di più, per il fatto che vanno a pescare a fondo nella natura culturale dell’uomo, perché recuperano immagini che sono a fondamento della conoscenza che l’uomo ha del suo mondo: il senso di mancanza (sia esso povertà o solitudine o prigione), il nascere, il morire, il rapporto di comunicazione con la natura e gli animali, il perdersi, il pericolo, la pazzia, il desiderio,

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IN SENO ALLA DIVISIONE DEL LAVORO UNA SOCIETA’ PARTICOLARE NON PUO’ AVERE ALCUN COMPITO – FICHTE

In seno alla divisione del lavoro una società particolare non può avere alcun compito

Ritorniamo ora, seguendo queste premesse, alla Frammassoneria, per non staccarcene più, costruiamovi sopra alcune durevoli conseguenze.

La Massoneria invero non può proporsi nessuno degli scopi, a cui si dedica già notoriamente apertamente qualcuna delle classi, degli indirizzi e ordinamenti esistenti nella società umana; essa non può voler attraversare la strada, né procedere accanto ad alcun’altra associazione: poiché in tal caso essa sarebbe superflua, in quanto volesse fare già quel che già accade senza di essa. Né potrebbe addurre a propria scusa il fatto che la pubblica istituzione, di cui volesse mettersi a fianco e adottare lo scopo, fosse manchevole e difettosa. È cosa di mera usurpazione il voler far meglio in via di occupazione secondaria ciò che altri non possono far meglio come loro occupazione principale; è una pazzia il pronunciare sentenza di condanna sopra istituzioni, che forse si conoscono soltanto secondo il loro aspetto esteriore, e non secondo le inevitabili difficoltà che esse trovano nell’oggetto della loro attività. Ciascuna di queste istituzioni in seno allo stato porta in se stessa il germe del miglioramento e tende alla perfezione: per la Massoneria può solo presentarsi, in generale, il problema, se vi è un’istituzione per un certo scopo, c non come essa vi soddisfa; poiché di ciò altri hanno a curarsi. Se essa volesse attivamente invadere un piano d’azione estraneo, non farebbe che diffondere il disordine, e in pari tempo disturberebbe e devierebbe la sua attuazione: sarebbe anzi sommamente nociva, in quanto dovrebbe oltre tutto far ciò in segreto, poiché pubblicamente non si conosce alcun singolo ramo dell’incivilimento umano ch’ella potesse intraprendere.

L’uomo savio e virtuoso non potrebbe sostenere una tal società, qualora essa volesse occuparsi di questioni ecclesiastiche o politiche, filosofiche erudite o commerciali: egli dovrebbe anzi, una volta conosciuta la sua esistenza perturbatrice, giudicarla a fondo. E non occorrerebbe altra maggiore fatica che di farla conoscere; poiché è supremo interesse dell’intera società umana e di ciascun suo ramo, dello stato, della Chiesa, del pubblico dotto c commerciante, di annientare una tale associazione, tosto ché essa venga conosciuta.

Così resterebbe interamente c incondizionatamente escluso dalla Massoneria ogni scopo di cui già si occupi una qualche classe sociale; e sarebbe egualmente pazzesco  e ridicolo che i suoi membri si occupassero in segreto di fare buone scarpe, che di riformare nel tutto o nelle parti lo stato. Ogni Massone, che volesse negare ciò, porrebbe in non cale non solo il suo buon volere e la sua intelligenza massonica, mail suo stesso buon senso.

Maun qualche scopo essa deve però averlo: altrimenti sarebbe un vano, vuoto scherzo,  l’uomo savio e virtuoso tanto poco potrebbe occuparsene, quanto se essa si proponesse il suddetto scopo dannoso.

Ma questo può essere solo uno scopo di tal genere, che la maggiore società umana non abbia per esso alcuna speciale istituzione; uno scopo per cui ella, giusta la natura dello scopo stesso e quella della società, non possa avere alcuna speciale istituzione.

Poiché se la società potesse avere una tale istituzione, all’uomo savio e virtuoso meglio converrebbe accogliere questa istituzione in seno della grande società e farmela anzi scaturire, piuttosto che voler promuovere il suo fine mediante una separazione da questa società. La natura della grande società e dello scopo pertinente alla sua cerchia esigerebbe incondizionatamente che egli richiamasse attenzione dello stato sopra questo ramo sin qui dimenticato, e quasi non si riesce a concepire come, della sua attività; allo stato egli dovrebbe poi, e di nuovo incondizionatamente, lasciar piena libertà di pensare o no alle istituzioni corrispondenti; in nessun caso potrebbe egli segregarsi con una società per dedicarsi attivamente a questo scopo, perché egli non è fatto, assolutamente, per questa forma di attività.

Si domanda ora se può darsi un siffatto scopo, razionale e buono, per il quale la maggiore società non possa, giusta la sua natura, avere alcuna istituzione particolare, e quale sia questo scopo: l’unico scopo possibile della Massoneria (considerata nel suo puro aspetto di società «separata») sarebbe così trovato.

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L’EVOLUZIONE UMANA VIEN POSTA IN PERICOLO DALLA DIVISIONE DEL LAVORO – FICHTE

L’evoluzione umana vien posta in pericolo dalla divisione del lavoro –

FICHTE

Ora, ciascun singolo si forma in grado eminente soltanto per la condizione che ha scelto.

Dalla giovinezza in poi egli viene per sua scelta e per circostanze accidentali determinato verso una forma di vita, e viene tenuta in conto della migliore quell’educazione che prepara il ragazzo per la sua futura vocazione nella maniera più conforme allo scopo; rimane posto in disparte tutto ciò che sta nella

più stretta relazione con quella, o ciò che in lui non può, come s’usa dire, essere utilizzato. Il giovinetto destinato a diventare un dotto impiega tutto il suo tempo a imparare le lingue e le scienze, e proprio con preferenza per quelle che sono necessarie per guadagnarsi il pane in avvenire, quindi con minuziosa esclusione di quelle che richiede la formazione del dotto in generale. Tutte le altre forme di vita e attività gli sono estranee, com’esse [del resto] sono estranee l’una all’altra. Il medico ha rivolto tutta la sua attenzione alla sola medicina, il giurista alla legislazione del suo paese, il mercante a quel determinato ramo del suo commercio, il fabbricante alla sola produzione del suo manufatto. Nel suo campo egli sa quanto occorre, e anzi con maggiore chiarezza e fondatezza: questo [sapere] gli è quindi particolarmente caro, e lo considera come sua proprietà acquisita; in esso vive come nella sua casa paterna. E tutto questo è bene, ciascuno fa in ciò il proprio dovere, e il tenore contrario non solo sopprimerebbe tutti i vantaggi della società, ma sarebbe dannoso anche al singolo, come al tutto.

Ma da ciò sorge in tutti necessariamente una certa incompiutezza e unilateralità, che, se non proprio necessariamente, almeno però abitualmente si trasforma in pedanteria. La pedanteria, che ordinariamente si confonde con la sola classe erudita, forse perché essa vi è più visibile, forse perché vi si dimostra maggiore intolleranza, domina in tutte le classi sociali e il suo principio fondamentale è

dappertutto il medesimo, cioè il seguente: di tenere in conto di educazione generalmente umana l’educazione appropriata al proprio stato particolare, e fare ogni sforzo per realizzarla. Così l’erudito pedante stima solo la scienza e deprime ogni altro valore; le sue lezioni e conversazioni in società di gente mista procedono allo scopo di comunicare ai suoi uditori una particella della sua dottrina e farli bramosi della precisione di pensiero ch’egli possiede. Il mercante pedantesco sprezza per contro l’erudito e proclama: «non vi è che computo e denaro! il denaro è la soluzione

[del problema]

della vita ragionevole e felice». Il guerriero sprezza l’uno e l’altro, stima soltanto forza fisica e agilità, coraggio bellico e difesa dell’onore com’egli la intende, e non gli rincrescerebbe arruolare tutti quelli che sanno battere il tempo di marcia. I teologi in modo eminente (poiché la loro classe ha ottenuto fra tutte il maggior influsso, o per amore del cielo o per timore dell’inferno) si affaticano, da quando hanno esistenza, a educare in tutti gli uomini, fino giù ai ragazzi del villaggio, dei teologi ben fondati e dei dogmatici di polso. «Mirate avanti tutto al regno di Dio, il resto è cosa meschina!» dicono i teologi, e con loro tutte le altre classi sociali, e sappiamo bene quello che intendono per il regno di Dio.

Così domina dappertutto una grande unilateralità, ora utile e ora dannosa: così ciascun individuo non è soltanto un dotto, ma teologo o giurista o medico, non è soltanto uno spirito religioso, ma cattolico o luterano, ebreo o maomettano, non è soltanto un uomo, ma politico, mercante, guerriero; e così dappertutto si impedisce, con l’educazione di classe più alta possibile, la più alta possibile evoluzione dell’umanità, il sommo fine dell’esistenza umana; anzi essa deve restar impedita, perché ciascuno è gravato dall’ineliminabile dovere di educarsi il più perfettamente possibile per la sua particolare occupazione, e questo è quasi impossibile se non si affronta il rischio dell’unilateralità

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LO SCOPO DEI SAGGI E’ LO SCOPO FINALE DELL’UMANITA’ – FICHTE

Lo scopo dei saggi è lo scopo finale dell’Umanità

FICHTE

Ciò che vuole l’uomo saggio e virtuoso, ciò che è il suo scopo, è lo scopo finale dell’umanità. L’unico scopo dell’esistenza umana sulla terra non è né cielo né inferno, ma solo l’umanità, che quaggiù portiamo in noi, e la sua massima possibile perfezione. Diversamente da questo nulla conosciamo: e ciò che noi chiamiamo divino, diabolico, bestiale, null’altro è che umano. Quanto non è contenuto nello scopo della perfezione più grande possibile, quanto non si riferisce ad esso, o non ha rapporto con esso né qual parte né quale mezzo, non può costituire lo scopo di nessun uomo, e l’uomo saggio e virtuoso non può proporselo come scopo sia nel più generale che nel più particolare dei casi: ciò che sta sopra o sotto, giace anche fuor della cerchia del suo pensiero, dei suoi sforzi, del suo agire. In una qualsiasi misura quello scopo viene alla luce in tutti gli uomini, senza che essi chiaramente lo pensino e lo perseguano di proposito, semplicemente pervia della loro nascita, e vien pure conseguito mediante la loro vita nella società: sembra come se non fosse il loro scopo, bensì uno scopo unito a loro.

Ma l’individuo cosciente lo pensa chiaramente, esso è il suo scopo, ed egli se lo pone qual meta cosciente di tutto il proprio agire.” Come viene esso perseguito nella grande società umana? Forse tutto opera in favore suo direttamente e senza deviazioni, con forze associate? Non pare. {La società] non pensa né lavora con la chiarezza e con la consapevolezza proprie dei singoli saggi: su lei pesano le colpe del mondo trascorso, e occupata com’è di questi peccati, essa appena ha tempo di lavorare per una posterità che a sua volta avrà da lavorare per un’altra. Essa deve sostenere la sua gran lotta con la natura ostinata e con il tempo infingardo; essa vuole acquistar vantaggio su entrambi, e intanto la sua attività È sottoposta a una condizione svantaggiosa, ma inevitabile: essa ha divisa in parti l’insieme dell’evoluzione umana, se ne è distribuite le varie branche e attività, e a ciascuna condizione sociale ha assegnato il suo campo speciale di collaborazione. Come in una fabbrica si risparmiano tempo e spese con ciò che il singolo operaio per tutta la sua vita fa soltanto quella data forma di molla, di chiodo, ruota, o recipiente, dà soltanto quel dato colore, sorveglia e guida solo quella data macchina, e ciascun altro del pari per  tutta la sua vita eseguisce la tal altra forma di lavoro, cui da ultimo riunisce in un tutto un capomastro sconosciuto a tutti loro: egualmente procede [la cosa] nella grande officina dell’evoluzione umana. Ciascuna classe lavora e produce alcunché per tutte le altre, oltre a ciò che ciascuno dovrebbe fare per la propria parte e per la sua stessa persona: e quelle producono alla lor volta anche per lei ciò per cui non ha né tempo né attitudine l’uomo ben altrimenti occupato per il loro benessere.

Al benessere e al perfezionamento del tutto guida ogni opera dei singoli l’invisibile mano della provvidenza. Così scende il dotto nelle profondità dello spirito e della scienza, per evocare alla luce ciò che dopo alcune epoche sarà a tutti facile e giovevole, mentre il contadino e l’operaio lo nutrono e lo vestono; l’impiegato dello stato fa valere il diritto, che senza di lui dovrebbe applicare la comunità stessa, e il guerriero difende l’inerme, che lo nutre, contro la potenza straniera.

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GLI ALTI GRADI

GLI ALTI GRADI: SINTESI DELLE LORO FUNZIONI AMMINISTRATIVE CONNESSE CON IL RELATIVO SIMBOLISMO E CONTENUTO ERMETICO

FR.’. C.‘.P.’. 32

Pot:mi Fr.’.lli All’Oriente,

Sublimi ed Eletti Fratelli,

Se un limite, o se vogliamo un ostacolo, si frappone alla ricerca e all’approfondimento dei gradi scozzesi all interno del nostro Sovrano Ordine Iniziatico, ciò è in gran parte imputabile alla ridotta disponibilità del materiale bibliografico pubblicato in lingua italiana ma, soprattutto, allo scarso contributo fornito al rinnovamento storico, filosofico e culturale; più che allo studio in senso lato, alla effettiva rigenerazione delle fonti primarie del Rito.

Per lungo tempo, i testi canonici del Farina, del Porciatti e dell’americano Pike, hanno costituito gli strumenti, pressoché unici, di una ricerca ricca di spunti quanto esigua di attenzione ai documenti originari, ai quali si sono rivolti i fratelli italiani per la loro formazione. Una ricerca risoltasi spesso in elaborazioni che non hanno superato uno sforzo di compilazione che ha riproposto i temi e gli argomenti suggeriti dai testi di riferimento senza tuttavia apportare contributi realmente innovativi sul piano dell’esegesi storica e filosofica.

Più recentemente Vatri1 ha offerto, con la sua opera, nuovi elementi all’indagine inerente i vari gradi dello scozzesismo italiano individuando, proprio nella ricerca sui rituali originari, il punto sensibile da cui ripartire per avviare un rinnovato approfondimento dei contenuti simbolici e ritualistici.

Pur con gli sforzi recenti rimane comunque aperto il tema di una generale riflessione che affronti

—      se non risolva – quello che si può definire come il “problema dell’aggiornamento morale, filosofico, esoterico, metafisico, dell ‘attuale speculazione scozzese, come d’altro canto quella massonica in

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generale”. Naturalmente con quanto ciò comporta in termini di ri-definizione simbolica e filosofica dei fondamentali dello scozzesismo attraverso un lavoro autopoietico che può — e deve – essere svolto unicamente all’interno della piramide scozzese poiché, se i rituali, al di fuori del contesto sacrale dei lavori, si possono considerare alla stregua di letture profane, i riti e quanto intrinsecamente li riguarda, sono invece strettamente iniziatici e dunque rigorosamente riservati.

A compiere questo sforzo collettivo ritengo debbano essere ricondotte anche le sollecitazioni rivolte dal Supremo Consiglio ai vari lspettorati Regionali della Comunione Scozzese Italiana affinché si compiano approfondimenti esegetici propedeutici ad una complessiva rivisitazione dei nostri rituali; un lavoro di ricerca che tenga conto della loro sedimentazione storica, ma ne promuova, al contempo, una complessiva revisione alla luce di una maggiore aderenza formale rispetto ai testi originari e al loro portato di natura simbolica e filosofica.

La piramide scozzese viene rappresentata iconograficamente come una struttura geometrica tridimensionale dotata di una base e di una cuspide. Non si vuole qui parlare dell’aspetto morfologico di questa piramide; se cioè si appoggi sul basamento triangolare, come lascerebbe intendere la configurazione della massoneria azzurra o se possieda una base quadrilatera, come essa viene generalmente proposta; né tantomeno se il significato numerologico del n0 33 — che ne costituisce la cuspide sommitale – nasconda qualche rapporto con gli anni del Cristo (e se il percorso di perfezionamento scozzese possa identificarsi con il processo di Imitatio Christi alla stregua di quanto avveniva nell’ermetismo di matrice alchimistica), o se magari — come ritengono alcuni – celi riferimenti alla longitudine di Charleston (dove si costituì il primo Supremo Consiglio), che è situata circa al 330 di latitudine. Ne’, è oggetto di questa breve esposizione comprendere le ragioni del passaggio dai venticinque gradi del Rito di Perfezione ai trentatre che costituiscono l’odierno sistema degli alti gradi nei quali è strufturato il Rito Scozzese Antico ed Accettato.

Quello che ci interessa maggiormente è comprendere il senso globale di questa architettura simbolica che culmina nei Gradi Sublimi. Di essa ci interessa, in particolare, cogliere due aspetti: il primo è il rapporto tra la Vendetta e la Giustizia, che a più riprese compare nei rituali e nella filosofia di alcuni gradi scozzesi, mentre il secondo è porre in evidenza il riscontro analogico tra il Campo, simbolo centrale del 320 grado, e le sue rappresentazioni in relazione ai suoi significati sul piano simbolico (non tanto riguardo agli espliciti e specifici riferimenti al grado di Sublime Principe del Real Segreto, quanto all’intera organizzazione rituale massonica, e degli ultimi gradi in modo specifico).

La struttura del Rito, si configura dunque come una piramide fondata sui tre gradi simbolici della Libera Muratoria azzurra. Il percorso scozzese procede, attraverso gli alti gradi, verso livelli superiori di conoscenza e superiori stati di coscienza evolvendo in una successione di ulteriori trenta gradi che portano il massone — a seconda del merito e della capacità individuale — fino a raggiungere il 330 ed ultimo grado della gerarchia iniziaticai Il loro numero comprende e compendia gradi di Sistemi e Ordini precedenti i quali, a loro volta, erano il frutto provvisorio dell’assorbimento di elementi di diversa provenienza e caratterizzazione storica, simbolica e filosofica.

La genesi del Rito si rivela indubbiamente complessa, ma nel loro organico e complessivo esito finale, i gradini della piramide scozzese tendono, in direzione univoca, verso l’espressione di una realtà composita, e di misteri, la cui esplicazione non può essere compresa senza una specifica e approfondita indagine e assimilazione del portato rituale di ciascuno di essi.

Non sincretismo, ma ordinata sequenza; non “riduzione” a sintesi, ma corpus omogeneo e consequenziale di componenti in sé disomogenei, dove gli elementi di diversità si affiancano e si integrano senza fondersi e senza confondersi, mantenendo intatto — pur nelle corruzioni del tempo – il contenuto simbolico e filosofico della propria diversa scaturigine storica e simbolica.4

La filosofia che sostiene la piramide scozzese, non è certo quella di matrice illuministica che in modo semplicistico generalmente le si attribuisce. E’ invece necessario riferirsi alle antiche scuole  iniziatiche, nelle quali la realizzazione metafisica dell’individuo – che va ben oltre la mera conoscenza intellettuale – è il prodotto di una metamorfosi profonda della coscienza e dei conseguenti atteggiamenti e comportamenti. Dimensione morale e dimensione etica si rincorrono, nella vicenda massonica personale, in una serie di trasformazioni interiori che, liberando progressivamente l’individuo dalle scorie attraverso l’acquisizione di nuove conoscenze e nuovi stati, gli consente di perseguire nuove conquiste spirituali. Tanto più questo si avverte quanto maggiore è l’influenza che queste conquiste esercitano sull’individuo con il suo ascendere verso l’apice della piramide.

L’affrontare una riflessione sui gradi sublimi della scala scozzese non può, anche se sommariamente, prescindere dalla presa in considerazione di uno dei temi-cardine del percorso rituale: quello stretto rapporto, cui si accennava, esistente tra l’idea di Vendetta e l’idea di Giustizia, che vengono entrambe richiamate, ovviamente in modo diverso e con diverse implicazioni, nei rituali del 90, del 300 e del 3J0 grado del Rito. Vendetta e Giustizia sono, in effetti, i termini di un discorso che presenta elementi contraddittori, quando non addirittura antitetici, ma coesistenti nei nostri rituali e nelle filosofie dei diversi gradi. E non sempre, nel volgere del tempo, si è dato a ciascuno di essi il medesimo significato.

Dobbiamo perciò aver chiaro a noi stessi quale sia il senso corretto da attribuire al concetto di vendetta per meglio comprendere cosa debba essere la giustizia per un massone scozzese.

Il retaggio ottocentesco, ancora diffuso tra non pochi massoni, di una vendetta che viene intesa nel suo senso più letterale e sanguinano, traspare ancora nei nostri odierni rituali condizionandone, talora, la possibilità di una interpretazione simbologicamente più elevata. Diciamo subito che una tale lettura del concetto di vendetta non può trovare accoglimento, sic et simpliciter, nel 31 0 grado – al quale è demandato il compito di amministrare la giustizia attraverso i Tribunali del Rito – dove si avverte tutta la necessità di filtrarlo attraverso un più alto principio. Se la vendetta si nutre dell’istinto belluino, la giustizia si nutre del diritto e della misericordia fraterna (pìetas massonica).

“Bisogna rimontare quindi alle sorgenti tradizionali ed apparentare ideologicamente il grado agli Ordini ed alle Confraternite antiche, i vendicatori pitagorici o anche i vendicatori d ‘Osiride, presso i quali il pugnale non giuoca che un ruolo emblematico, in quanto la loro vendetta non è altro che la sanzione di un mito: vendetta della luce contro le tenebre, del giorno contro la notte, del bene contro il male, della virtù contro il vizio, della ragione, della saggezza, della scienza contro l’ignoranza, i pregiudizi e le superstizioni”.5

La vendetta, intesa in senso iniziatico, ha bisogno di una compiuta realizzazione metafisica, ma perché ciò possa avvenire essa deve attraversare una fase di sublimazione; cosa che non significa perdono e neppure oblio della colpa, ma comminazione della pena giusta erogata con saggezza, amore fraterno e sempre ispirata da alto principio di giustizia.

Un così elevato principio di giustizia, del resto, non può trovare coerente riscontro in una visione truculenta della vendetta e in un concetto fermo del giudizio, dettato dall’ira e dal sangue, così come appaiono ancora evocati nel 90 e ancor più nel 300 grado del RSAA. Tanto meno, quindi, la vendetta può essere considerata come espressione – o peggio – come strumento della giustizia medesima, di cui i Grandi Ispettori Inquisitori sono ministri; quella stessa giustizia che, se applicata con superiore equità, risolve le lacerazioni e, placando acredini e rancori, crea finalmente le condizioni per portare l’ordine nel Caos.

Questa giustizia giusta prepara la pace e l’armonia e rende possibile il governo dell’onesto e del meritevole.

La vendetta è mia, dice il Signore6 nel Vecchio Testamento. Dunque, il disporne non è nella facoltà umana.

Nelle stesse parole che Dante pone in bocca a Ugo Capeto nel XX canto del Purgatorio, la vendetta è nascosa e racchiusa nel segreto del Principio stesso: O Signor mio, quando sarò io lieto

A veder la vendetta, che, nascosa,

Fa dolce l’ira tua nel tuo segreto?

Non trovate, Pot:.mi, Sublimi ed Eletti Fr:.lli che in questi versi sia totalmente contenuto – e risolto nel modo più elevato – il Nekam A donai, grido di guerra dei Kadosh templari?

Come massoni scozzesi sappiamo bene che ogni progresso nella scala infinita del perfezionamento individuale è in sè transitorio e soggetto ad evolvere verso stati superiori dell’essere, come pure è sottoposto alla costante minaccia della involuzione sospinta dalla controiniziazione che insidia ogni nostro avanzamento.

In questo senso — facendo un passo indietro — si può dire che il 3Q0 grado costituisce un punto di sospensione nel quale l’individuo-massone stabilizza in un paradossale “eterno istante” il suo percorso evolutivo, un dirompente Nec plus ultra, il supermento del quale – simboleggiato dall’abbattimento delle due colonne – come l’oltrepassare la velocità della luce, appare follia alla ragione. L’andarc oltre èinvece possibile, a condizione che si abbandoni ogni materialità ed ogni scoria ad essa collegata, e ci si riconosca in quello stato energetico essenziale che è la materia prima spirituale di cui sono formati gli esseri. Se si comprende questo, appare subito evidente che una vendetta non sublimata costituisce di per sè un asservimento che, in quanto tale, non può consentire un reale superamento delle colonne e, ancor più, il calpestare simbolico di quanto costituisce superstizione e pregiudizio.

L’altro aspetto — anch’esso direttamente collegato alla natura simbolica ed esoterica del 3O~ grado – ci conduce a considerare la natura militare e cavalleresca del Rito Scozzese Antico ed Accettato e il senso iniziatico dì questa milizia.

I massoni scozzesi, al loro ingresso nel Rito, nel quale sono stati accolti per cooptazione in ragione delle loro qualità personali, sono stati soggetto di un rito di investitura cavalleresca. Sono

dunque Cavalieri e ne possiedono tutte le prerogative essendo stata, la loro investitura, conferita in modo regolare da un Ordine Sovrano, ma trattandosi di un Ordine lniziatico, il piano sul quale si estrinseca l’investitura ricevuta è quello prettamente simbolico e spirituale.

Anche la natura militare del Rito, che gli deriva dalla simbolica ascendenza cavalleresca crociata e templare e ne costituisce il tratto distintivo, va interpretata in questo senso. Del resto, non viene esaltato, nell’investitura cavalleresca scozzese un elemento prettamente guerriero dell’investitura cavalleresca tradizionale, ossia la “collata”7, presente invece nel Rito Scozzese Rettificato e nel sacramento cristiano della Cresima. Assenza che, evidentemente, vale anche ad emendare il rito di investitura scozzese, dall’influenza dell’iniziazione sacerdotale, presente nell’investitura cavallesca tradizionale, conferendo al nostro rito quel carattere spiccatamente ghibellino che lo caratterizza in modo essenziale con l’imposizione della esclusiva spada da parte di chi svolge la sovrana funzione di Salomone, nel 40 grado, o da chi officia il rito nei gradi superiori.

I massoni scozzesi sono dunque, nel loro complesso una milizia di cavalieri armati di armi spirituali, di cui quelle metalliche e materiali, che pure, indossano non sono altro che metafora e simbolo.

Importante ci sembra essere la definizione dello scopo di questa armata, alla quale i Massoni dei gradi sublimi sono chiamati a dare il loro massimo contributo secondo le specifiche finalità dei rispettivi gradi.

Al carattere di Guerra Santa si confà il concetto di Guerra dello Spirito che può essere combattuta solo da una milizia santa. O meglio, da una milizia consacrata. Consacrata ad uno scopo, consacrata a valori ideali — di essenza cavalleresca – che ne sostengono la realizzazione in una dimensione metafisica. Il temine Kadosh, cioè “consacrato”, sottende la dedizione totale di sé allo scopo che si è liberamente assunto con il giuramento e accettato con l’investitura del grado.

Senza entrare nel merito di simbologie specifiche e peculiari del 320 grado, cosa è, e quale èdunque lo scopo dell’accampamento templare “composto dagli inziati di tutti i gradt dimoranti in tante tende, in un unico accampamento (…) per intraprendere delle campagne allo scopo di impadronirsi di Gerusalemme e ricostruire il Tempio di Salomone”? 8

Un esplicito riferimento alla natura militare — e militante – dello scozzesismo delle origini può essere ritrovato nelle parole del Cavaliere Andrew Ramsay: “I nostri antenati, i Crociati, riuniti da tutti i luoghi della Cristianità in Terra Santa, in questa maniera vollero riunire in una sola Fratellanza i sudditi di ogni Nazione.” … Una “Nazione spirituale “, come precisa lo stesso Ramsay poco oltre nel suo celebre discorso)

“Noi abbiamo dei segreti; essi sono dei segnifigurativi e delle parole sacre che compongono un linguaggio muto ed eloquentissimo (…). In apparenza, sarebbero parole di guerra che i Crociati si davano l’un l’altro, per garantirsi dalle sorprese dei Saraceni, che si infiltravano sovente travest iti fra loro per prenderli a tradimento e assassinarli.”

Solo in apparenza, dunque, perché secondo le parole di Ramsay, i crociati, che dei massoni sono gli antenati, costituiscono una “nazione spirituale” e le “parole sacre” che essi usano, sono solo in apparenza “parole di guerra”.

Questo, sembra essere uno degli aspetti importanti dell’ideale cavalleresco scozzese, che era ben chiaro nella mente di colui al quale si deve parte importante della genesi dello scozzesismo. Ma le armi non servono d’offesa agli esseri viventi, sono bensì strumento di offesa al vizio e al pregiudizio che attanagliano e rendono schiavi l’individuo e l’umanità. E’ dunque, la nostra, una cavalleria dell’ideale nella quale l’ideale della cavalleria diviene la forza che lega la compagine scozzese e guida l’azione di tutti e di ciascuno. Non armi, non guerra, non sangue, non vendetta, se non in senso figurato e metafisico. Milizia armata, ma di armi spirituali, filosofiche e gnostiche, della cui potenza distruttrice e costruttrice il massone scozzese deve avere piena consapevolezza, se ha asceso meritatamente la scala rituale.

Verso la metà ‘700, Dom Pernety’t, seguendo la lettura di Diodoro Siculo’, si propone di svelare l’origine ermetica dei miti egizi e greci. Riferisce che Osiride è un sovrano che concepisce l’ardito progetto “di rendere l’Universo partecipe della felicità e a tale scopo riunisce una grande armata, non per conquistare il mondo con la forza delle armi, ma impiegando la benevolenza e l’umanità”. Non è difficile ritrovare in questo brano i medesimi elementi che sono all’origine della missione e dello stesso accampamento del 320 grado.

La struttura del Campo è costituita da una geometria composita, formata da poligoni concentrici, tutti di numero dispari e culminanti in un centro che racchiude le sovrane funzioni di governo e di comando. Il perimetro più esterno è un ennagono12 che comprende i gradi simbolici e capitolari, dal 1~ al 1 80; il secondo poligono, più interno rispetto al primo, è un ettagono, oltrepassato il quale, si raggiunge un pentagono, nella cui fascia esterna sono accampati i massoni dei gradi filosofici (o mistici) dal 190 al 3Q0 Infine, nei vertici del triangolo equilatero sono collocate le tende dei Grandi Ispettori e lnquisitori, dei Principi del Real Segreto e dei Cavalieri di Malta “che si sono arruolati per la spedizione”’3. L’ultima figura geometrica è la circonferenza, poligono di infiniti lati, all’interno della quale si trovano le tende dei Sovrani Grandi Ispettori Generali. Al centro della circonferenza, nel punto preciso in cui si intersecano i due bracci della croce di 5. Andrea, si trova la tenda del Sovrano Gran Commendatore.

Tutto il Campo è costellato di tende, bandiere, orifiamme su cui sono riportati gli emblemi araldici dei rispettivi gradi. E facile osservare come la metafora del Campo – che viene considerato come un’Armata di Massoni i quali, suddivisi e regimentati nei diversi gradi, sono acquartierati in attesa del comando che la chiami alla quinta, ultima e definitiva azione ripropone, sotto forme diverse, il tema della Piramide iniziatica dello Scozzesismo.

E’ fuor di dubbio che questo accampamento possieda il carattere militare della cavalleria crociata, anche se su un piano strettamente iconografico vano sarebbe il cercare riscontri con l’accampamento reale, giacché la sua morfologia appare chiaramente dettata.

Rappresentazione simbolica del Campo da un intento simbolico e numerologico la cui disamina esula da questa esposizione.

Lo stesso termine di “crociata”, richiamando il glifo simbolico dell’athanor, al di là dell’apparto allegorico militare che viene posto in scena, si ritiene debba piuttosto riferirsi al suo significato ermetico alchimistico che vuole ciascun massone come strenuo ricercatore di quel lapis che rappresenta la ragione stessa della sua quotidiana battaglia personale, una battaglia che qui viene elevata al rango di guerra santa, di jihad, da combattere assieme agli altri fratelli con i quali si condivide la medesima pugna spiritualis (già invocata, per altri versi, da Bemardo di Clairvaux, compilatore della regola dei Templari ed accompagnatore di Dante nella parte più elevata del Paradiso).

L’oggetto di questa conquista sono Gerusalemme e l’edificazione del terzo Tempio. Ma quale Gerusalemme e quale Tempio sono realmente l’oggetto di questa campagna in armi? Quella massonica non è certo una missione di occupazione territoriale.

Ciò induce ad una ulteriore riflessione sulla natura spirituale di questa conquista. Dobbiamo evidentemente rifarci a Giovanni, che nel libro dell’Apocalisse descrive in questo modo la Gerusalemme Celeste: “La città è un quadrato, e la sua lunghezza è uguale alla larghezza. Egli (l’Angelo, n.d.a) misurò con la canna la città: dodicimila stadi105 e la lunghezza e la larghezza come pure la sua altezza sono uguali” (21,16). (…) ‘¼. e la cittàèdi oro puro … “(21.18).

Cubica, nell’Apocalisse, è dunque la città di Dio, quella Gerusalemme Celeste, espressione diretta della divina architettura. Quello stesso cubo che abbiamo imparato a conoscere come simbolo di  perfezione e come modello ideale del nostro lavoro latomistico, figura perfetta tratta dall’informe caos della materia e che oggi riconosciamo invece come prefigurazione di un nuovo e superiore ordine spirituale.

Il cubo, come origine e come fine, come duplice idea dell’immanenza propria della Natura e, allo stesso tempo come Civitas dei nella quale si cela la più elevata trascendenza metafisica, può dunque compiutamente esprimere i due termini sacrali entro cui ogni cosa terrena e spirituale si compie.14 E’il lapis che si realizza, nella sua perfezione superiore. 15

Il Tempio dello spirito e la Gerusalemme, città perfetta, abitata da esseri spirituali, uomini iniziati e giusti, questo è il fine della guerra santa che ci siamo impegnati a combattere fino all’ultimo al comando e all’obbedienza del Sovrano che regge l’Ordine.

Credo sia possibile individuare, nei tre gradi apicali, un sistema temano (o trinitario), che costituisce la sintesi estrema dei motti e dell’emblema del Rito Scozzese Antico ed Accettato.

Come è facile comprendere, il simbolismo del Campo offre innumerevoli spunti alla riflessione sui temi simbolici di cui troviamo riscontro anche in ambito letterario e figurativo (da cui trarrò alcuni esempi) nè si pretende qui di esaurirli tutti.

Alla struttura militare e spirituale del Campo ci sembra opportuno avvicinare, come contrappunto analogico, la spirituale e mistica Rosa che Dante descrive nel 300 canto del Paradiso, con le parole di Beatrice, ovvero, “colei che procura beatitudine “:

«Mira

quanto è ‘i convento de le bianche stole!

Vedi nostra città quant’ ella gira;

vedi li nostri scanni sì ripieni,

che poca gente più ci si disira.

E ‘n quel gran seggio a che tu li occhi tieni

per la corona che già v’è su posta,

prima che tu a queste nozze ceni

sederà Palma, che fia giù agosta,

de l’alto Arrigo, ch ‘a drizzare Italia

 verrà in prima ch’ella sia disposta.”

E all’inizio del canto successivo, il Poeta scrive

“In forma dunque di candida rosa

mi si mostrava la milizia santa”

Più chiaro di così! Anche il carattere di Santa Milizia è esplicitato. Proprio qui, nel centro della rosa mistica che riunisce gli spiriti beati, fraternamente uniti in un superiore affiato spirituale è collocato il seggio regale destinato ad accogliere l’anima di Arrigo, il Sovrano nel quale Dante aveva posto le residue speranze di un nuovo sogno ghibellino.

Nel Campo scozzese, come nella Rosa mistica (ma si potrebbero citare molti altri esempi), sono presenti due elementi complementari: una schiera e un centro regale.

Entrambi, come in un mistico alveare, a vicenda si corrispondono d’affetto, sostegno e protezione. Dat Rosa Mel Apibus (la Rosa dà il miele alle api) è scritto nel disegno che compare sul frontespizio di un 16 noto testo della tradizione rosicruciana , e con questo allegorico significato l’ape regina compare

circondata dalle operaie nel pannello decorativo bronzeo del basamento della statua equestre del Granduca Ferdinando I De’ Medici (che reca la significativa scritta MAIESTATE TANTUM), posta in piazza della 5.5. Annunziata a Firenze, opera del carrarese Pietro Tacca.

Al tema del Santo Impero, che si connette direttamente alla piramide scozzese e al simbolismo del Campo, ma anche all’idea di una società futura di matrice tradizionale, un richiamo al grande luniganese Arturo Reghini (che fa riferimento a Dante) mi sembra a questo punto doveroso. Egli scrive:

“La concezione imperia/e dantesca, come del resto ogni concezione monarchica e gerarchica tradizionale, si basa sopra la concezione monistica iniziatica dell’universo. Alla monade pitagorica corrisponde politicamente l’unicità e l’unità dell’autorità somma di governo, ossia la monarchia nel senso etimologico del termine ,,I7

Ci sembra opportuno avvicinare a questa idea ghibellina, che Reghini sostiene apertamente, anche i versi che Dante dedica alla profezia del Veltro, il quale farà morir con doglia la lupa, simbolo di ogni nefandezza, e

‘Questi non ciberà terra né peltro,

ma sapienza, amore e virtute,

e sua nazion sarà tra feltro e feltro.”

Inf.I

La profezia di un dominio universale fatto di sapienza, amore e virtù, che si ritrova chiaramente esposto anche nel De Monarchia, anticipa e presuppone quella pace universale per la quale le armate massoniche stanno preparandosi a combattere la battaglia finale.

Il campo, nel quale è radunata una milizia di Pace e non di guerra, costituisce dunque, il simbolo riepilogativo non solo di un grado, ma di tutta la piramide scozzese, il Castrum sacrale, la cittadella armata nel quale la milizia massonica si ritrova unita e compatta sotto la guida del Monarca che regge gerarchicamente tutta l’organizzazione rituale.

Se i tre gradi simbolici sono la base della piramide, i tre sublimi gradi amministrativi ne costituiscono la sommità. Se il bianco apprendista apre il percorso iniziatico, il bianco Sovrano lo conclude, ma non lo esaurisce definitivamente, poiché il viaggio sulla strada del perfezionamento non trova giammai la sua fine. La nuova consapevolezza riapre il ciclo e ricolloca l’individuo-massone in quel circolare moto eternamente rigenerativo dell’essere che è iconograficamente e simbolicamente rappresentato in modo magistrale dall’Uroboros.

Gli ultimi tre gradi sono detti amministrativi, ma come possono davvero esserlo se essi hanno il compito di condurre il massone scozzese fino all’estrema elevazione, fino a quel vertice il cui solo raggiungimento consente la visione finale della piramide nella sua completezza e il progetto che sottende la sua mirabile architettura?

Il sistema trinitario posto al vertice della piramide massonica, compendia e ripete quello globale presente nei vari livelli della struttura piramidale riassumendone le diverse iniziazioni e investiture.

Vuole, la Tradizione, che le antiche iniziazioni fossero connesse alle tre diverse funzioni della gerarchia sociale, quella guerriera, quella sacerdotale e quella regale, cui corrispondevano tre diverse modalità di conferimento rituale: l’investitura, l’ordinazione e l’unzione. A questo contesto tradizionale non viene generalmente ricondotta la quarta modalità, propria delle corporazioni di mestiere, l’iniziazione artigiana, cui invece appartengono e sono iniziati i Liberi Muratori della Massoneria Azzurra e dei quali il Maestro Hiram è il rappresentante più insigne ed emblematico. Ma se i tre gradi apicali del RSAA portano titoli che trovano riscontri obbiettivi con l’investitura cavalleresca e con l’unzione regale, nulla hanno a che vedere con l’ordinazione sacerdotale.

Ciò non significa – ovviamente – l’assenza di una intrinseca dimensione spirituale all’interno dell’unzione sovrana, ma la affranca da quella sacerdotale sottolineando come la dimensione spirituale, non costituisce esclusività dell’iniziazione sacerdotale, ma si estrinseca in modo autonomo in entrambe le iniziazioni tradizionali, sacerdotale e sovrana, senza che vi sia gerarchia e subordinazione fra le stesse.

D’altra parte, di questo avviso è anche Dante, e di questo ci rende conto ancora una volta il Reghini il quale scrive che nel “De Monarchia, Dante, asserendo e dimostrando la necessit4 la fatalità ed il diritto dell’Impero romano universale, si opponeva recisamente alle pretese di predominio ed anche di semplice ingerenza papale, affermando che l’autorità imperiale dipende direttamente da Dio (De Monarchia, Iii, 13, 16) e che i due luminari Ql Sole e la Luna che figurano anche nei nostri Templi), non rappresentano il Papa e l’Imperatore, la Chiesa e l’Impero (e quindi non si può, con tal illegittimo paragone, fare brillare l’imperatore di luce 4flessa), ma che, ad ogni modo pur ammettendolo, la Luna non dipende dal Sole (De Monarchia, III, 4), e che l’imperatore deve al Papa reverenza filiale e non più (De Monarchia, III, 4, 16). 8

I titoli di Inquisitore, Principe e Sovrano, invece, esprimono e rappresentano – all’interno di uno stesso sistema tradizionale – una gerarchia all’interno della quale troviamo corrispondenza analogica con la funzione giudiziaria del 310 grado, quella militare del 320 e quella sovrana, (coesiva e unificante), del 330• Queste tre funzioni si compendiano nelle facoltà sovrane del sapere, del volere e del potere.

Ciò, tuttavia non costituisce un’incongruenza, ma una precisa indicazione della natura intrinseca del Rito Scozzese. La presenza di riferimenti rituali a Federico lI, (espressione dell’unzione sovrana) iacques de Molay (dell’investitura cavalleresca) e Hiram Abif (dell’iniziazione artigiana), non è priva di significato, a questo proposito.

Recuperando la dimensione artigiana, fondamentale nella Massoneria Azzurra (e dunque anche del Rito Scozzese, di cui — come base – è parte essenziale), ciò che il Rito stesso nella sua generalità viene a configurare, è un sistema organizzato su base artigiana, militare e sovrana che definisce una  società iniziatica retta da una chiara e inequivocabile struttura monarchica, informata dalla saggezza di un ordinamento giudiziario ispirato da un alto principio di giustizia, che i Grandi Ispettori e lnquisitori hanno il compito di amministrare, e sostenuta da una gerarchia che i Principi del Real Segreto hanno il compito di organizzare.

Questa connotazione militare e, ripetiamo, militante, è fortemente sottolineata, per quanto riguarda il carattere monarchico-imperiale, dal simbolismo dell’aquila bicipite e della corona. La spada

-emblema cavalleresco per eccellenza — connota il carattere militare, mentre la divisa Deus Meumque Jus, quello giudiziario.

L’emblema scozzese Ordo ab Chao chiarisce ulteriormente questo stesso processo aggregativo nel suo dinamico divenire. Il dominio sul caos presuppone la capacità di determinarne l’Ordine; di ricostituire, cioè, lo stato di perfezione primordiale – ma anche lo stato di perfezione finale – rispetto ai quali tutto ciò che è intermedio non può che essere, pertanto, necessariamente transeunte. Nel magma del divenire, in ciò che è frammentato, disperso e transitorio, è contenuto quanto è necessario per ricostituire l’Unità. Ciò che è materiale e ciò che è immateriale, la materia e l’energia; il corpo e lo spirito.

Dagli elementi sconnessi e decomposti l’Architetto sa trarre l’opera conclusa, l’Opus magnum, nel momento stesso in cui, note e applicate le leggi della costruzione, le sa ri-tradurre in ordine architettonico.

Legge e Ordine. Ecco ricomparire di due termini chiave del 310 e del 320 grado, senza i quali non si può conquistare la sovranità sul proprio Essere. Questa è la battaglia finale, individuale e collettiva, alla quale si apprestano le schiere dei Massoni scozzesi.

In questo senso, il Campo appare un simbolo di valore globale, paradigmatico, non solo dell’organizzazione militare e della struttura filosofica dell’Ordine Sovrano, ma come strumento necessario a chiarirne anche lo scopo reale (nel duplice senso di Vero e Sovrano) della Massoneria Scozzese.

E’ interessante anche riconoscere nel centro topografico (e simbolico) del Campo, la scaturigine di quella “realizzazione discendente” (di cui tuttavia non disponiamo degli strumenti necessari per parlarne) che recupera la nota interpretazione guénoniana dell’emanazione da un nucleo spirituale.

Mezzo e fine dell’agire massonico, il Rito Scozzese compendia e riempie di senso tutto il percorso attraverso i gradi della conoscenza e della coscienza. La visione del Campo ne rende esplicita l’escatologia.

Ancora Dante, questa volta nel 330 canto del Paradiso descrive la “Visio Dei” come contemplazione di quell’ “alta luce che da sé è vera”. Luce, in sé vera. Dunque, Luce come metafora dietro la quale si dischiude la contemplazione della verità. Il fine ultimo non è quindi quello morale, sociale, politico o anche genericamente spirituale, che solo a questo punto si rivelano in tutta la loro apparenza, ma la contemplazione e l’immedesimazione con la Verità Suprema.19

E cosa può esservi di più alto, nell’esistenza dell’uomo iniziato, se non l’abbagliante e stupefacente contemplazione diretta della Verità?

NOTE

1)Di Giuseppe Vatri segnaliamo “1805-2005 Duecento anni di rito scozzese antico e accettato in Italia”, “I Rituali dell’Antica Maestranza”, “I Rituali della Massoneria rinnovata”, “Il Rito Scozzese da Nazionale a Universale (1802-1907)”, Ed L’età dell’Acquario.

2) V.Vanni “I gradi superiori del R.S.A.A Ricordo di A.D., un ex saggissimo della Valle dell’Arno”, http://www.grandetriade it/gradisuperiori.htm

3)Come sappiamo, la gerarchia rituale del Rito Scozzese Antico ed Accettato è ordinata in quattro “insiemi”, secondo una successione che, partendo dai primi tre gradini del tradizionale cammino muratorio, si dipana attraverso gli “alti gradi” ponendo progressivamente mete più avanzate al massone scozzese: Questi insiemi sono costituiti dai Gradi simbolici — o primitivi – (dal J0 al 30) (Massoneria Azzurra), dai Gradi di Perfezionamento ( dal 40 al 140) e da quelli Capitolari (dal 150 al 1 80) (che insieme costituiscono la Massoneria Rossa), dai Gradi Filosofici (dal 190 al 3O~) (Massoneria Nera) e infine dai Gradi Sublimi (dal 310 al 330) (Massoneria Bianca)

4) Traduzioni e trascrizioni hanno spesso apportato elementi spuri all’interno dei rituali attualmente in uso, che una ricerca rigorosa potrebbe emendare, pur conservando memoria documentale delle vicende linguistiche che hanno contribuito a modificare parzialmente la forma di alcuni di essi.

5)Armand Bédarride 330, Le livre d’lstruction dii Chevalier Kadosh, ed. Teletes

6) Deuteronomio, 32, 35

7) La “collala” era un atto rituale con il quale il recipierìdario veniva colpito sulla nuca con il piatto della spada. Essa simulava il taglio della testa e, come tale, rimandava a San Giovanni Battista, protettore della Massoneria, che venne appunto “decollato”. Jean Tourniac (Principes etproblèrnes spirituels dii Ri/e Ecossais RectjJìé, Dervy, 1985, pagg. 111 e seg.) ricorda che la collata è sempre stata ritenuta un “cambiamento di testa”, ovvero un cambiamento dello stato spirituale del neo-cavaliere. E significativo, a questo proposito che l’elevazione al grado di Maestro, nell’ambito del Rito Scozzese Rettificato, preveda espressamente che sia infetto un violento colpo sulla nuca del candidato.

8) Dalla premessa al rituale di Sovrano Principe del Real Segreto, 1967

9)Dal celebre “Discorso” tenuto dal cavaliere André-Michel Ramsay (1686-1747), il 26dicembre 1736, presso la loggia parigina Louis d’A rgent di Parigi, di cui era oratore, in occasione dell’ingresso di nuovi iniziati

10)Dom Antoine-Joseph Pernety, Les Fables égyptiennes et grecques dévoilées et réduites au m&me principe, avec une explication des hiéroglyphes et de la guerre de Troye (1758). Rèédition: La Table d’èmeraude, Paris, 1982 (prima ed. Parigi 1758). Dom Pernety, dopo aver abbandonato gli abiti benedettini fu chiamato a Berlino da Federico 11 di Prussia a ricoprire la carica di conservatore della biblioteca. Rivestì un ruolo di primo piano nella costituzione degli llluminiati di Avignone, cui il RSAA deve il suo 28~ grado).

11)Diodoro Siculo (Atò&opoq, Di6dòros; Agyrion, ca. 90 a.C. — ca. 27 a.C.), storico greco-siceliota, autore della Bibliotheca historica, una monumentale storia universale dalle origini del mondo alle campagne di Cesare in Gallia e in Britannia, giunta a noi incompleta.

12) L’ennagono è presente anche nell’architettura militare connessa alle città ideali del tardo rinascimento. La città di Palmanova, costruita dai veneziani a partire dal 1593, ne è un esempio, ma al di là di questa coincidenza non vi sono altri riferimenti.

13)Dal rituale del 32° grado

14) Proprio parlando della Gerusalemme Celeste, Dio stesso la definisce

(Apocalisse 21,3) e poco oltre, a rimarcare il significato assoluto dei due chiarisce: “Io sono l’il/fa e l’Omega, il principio e la fine” (Apocalisse, 21,6).

15)Ci sia consentita una digressione: vogliamo richiamare l’attenzione dei Carxmi Fr:.lli scozzesi sull’analogia esistente tra l’Emblema XXXVI dell’Atalanta fugiens di Michael Majer ed i monoliti volanti che compaiono nel film 2001 Odissea nello spazio del massone Stanley Kubrick, (singolare anche l’assonanza Cubo-Kubrick, quasi un nomen-omen). Non dice forse la Tavola Smeraldina, attribuita a Ermete Trismegisto, che “Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per la meraviglia di una cosa unica”, ed ancora “Sale dalla terra e discende dal cielo, e riceve la forza dalle cose superiori e dalle cose inferiori”?

16) DaI frontespizio del Summum I3onum, ioachim Frizius (Robert Fludd), Frankfurt, 1629

17) Scrive inoltre Reghini: “E per l’impero e contro la Chiesa lavoravano e combattevano i Templari, istituiti per la liberazione dell’empio, distrutti dalla Chiesa Cattolica per questo motivo (e non per i pretesti addotti ad infamarli e renderli invisi), e di cui il 30S grado della gerarchia del Rito Scozzese Antico ed Accettato continua la tradizione rituale. L’impero fu l’aspirazione e la meta anche dei Rosa-Croce. Nella famosa Confessio attribuita ad Andrea Valentino è detto che «un governo dovrò essere istituito in Europa come quello di Damear in Arabia, dove soltanto dei savii governano», concetto che, se non è preso dalla Generale Rffòrma dell’Universo dai Sette Savii della Grecia e da altri letterati pubblicato di ordine di Apollo contenuta nel Ragguaglio di Parnaso del Boccalini, è certo assai affine ad esso. Ed anche oggi in varie di quelle organizzazioni che si riattaceano con più o meno genuino diritto e derivazione ai Rosa Croce il capo dell’Ordine è denominato: Imperator.

Nella Massoneria <~scozzese» il concetto del «Santo impero», oltre ad apparire nel modo su in-dicato nel 18.t e nel 30S grado si trova anche al vertice della piramide (che ne è il simbolo muratorio) poiché sopra di esso si basano il 321 ed il 331 grado. I Principi del Real Segreto che formano il Concistoro del 321 grado dell’attuale gerarchia, e che prima del 1786 costituivano il 251 ed ultimo grado del Rito di Perfezione, rappresentano infatti la grande armata che deve scendere in campo per liberare il Tempio di Gerusalemme dalle mani degli infedeli, e per costituire il Santo Impero, che non è altro, secondo dicono antichi rituali, che il Regno della Ragione, della Verità e della Giustizia.”

Arturo Reghini, IL SANTO IMPERO,http://www.hyssopus.org/cms/files/Reghini%2011  %20 Santo %20 lmpero . pdf

18)Arturo Reghini, ILSANTO IMPERO, http://www.hyssopus.org/cms/files/Reghini,%2011%2OSanto%20 lmpero .pdf

19)Giovanni, il più gnostico degli evangelisti scrive: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». (Giovanni 8,32)

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ELEMENTI ALCHEMICI

Elementi: 1. Ossigeno. 2. Idrogeno. 3. Azoto. 4. Carbonio. 5. Zolfo. 6. Fosforo. 7. Oro. 8. Platino. 9. Argento. 10. Mercurio. 11. Rame. 12. Ferro. 13. Nichel. 14. Stagno. 15. Piombo. 16. Zinco. 17.  Bismuto. 18. Antimonio. 19. Arsenico. 20. Cobalto. 21. Manganese. 22. Uranio. 23. Tungsteno. 24. Titanio. 25. Cerio. 26. Potassio. 27. Sodio. 28. Calcio. 29. Magnesio. 30. Bario. 31. Stronzio. 32. Alluminio. 33. Silicio. 34. Ittrio. 35. Berillio. 36. Zirconio.

Composti: 37. Acqua. 38. Acido idrofluorico. 39. Acido cloridrico. 40. Acido clorico. 41. Ossido nitrico. 42. Ossido nitroso. 43. Acido nitrico. 44. Perossido di azoto. 45. Acido nitroso. 46. Monossido di carbonio. 47. Biossido di carbonio. 48. Biossido di zolfo. 49. Acido solforoso. 50. Acido solforico. 51. Acido fosforoso. 52. Acido fosforico. 53. Ammoniaca. 54. Etilene. 55. Metano. 56. Composti di zolfo e idrogeno. 57. Composti di zolfo e idrogeno. 58. Composti di zolfo e fosforo. 59. Composti di zolfo e fosforo.

Altri composti: 1. Idrossido di potassio. 2. Idruro di potassio 3. Carbonato di potassio. 4. Idrossido di sodio. 5. Idruro di sodio. 6. Carbonato di sodio. 7. Idrossido di calcio. 8. Carbonato di calcio. 9. Solfato di calcio. 10. Nitrato di calcio. 11. Cloruro di calcio. 12. Idrossido di bario. 13. Carbonato di bario. 14. Solfato di bario. 15. Nitrato di bario. 16. Cloruro di bario. 17. Solfato di alluminio. 18. Nitrato di alluminio. 19. Cloruro di alluminio. 20. Allume. 21. Silicato di potassio. 22. Silicato di potassio. 23. Silicato di calcio e di potassio. 24. Silicato di bario e di potassio. 25. Fluoruro di silicio. 26. Composto di ammonio e di potassio. 27. Cloruro di etilene.


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IL PICCOLO PRINCIPE TRA ESOTERISMO E VIA INIZIATICA.

IL PICCOLO PRINCIPE TRA ESOTERISMO E VIA INIZIATICA.

Perché il piccolo principe, che come a tutti noi è noto è catalogato tra ilibri per bambini?. Semplice, perché così non è.

Oggi io ritengo che ci sia il bisogno,che in una società che ci “trascina” ad essere sempre più “grandi”, la necessità di riscoprirsi un po’ bambini.

Antoine de Saint-Exupèry, questo è l’autore dell’opera, ci cala in un avventura dove la logica cede le armi e solo la poesia ha accesso.  lmmergendomi nel racconto, ne ho interpretato una fiaba iniziatica, un racconto di formazione, quasi un trattato esoterico filosofico. De Saint Exupèry, ci ha regalato con questa opera straordinaria un nuovo tipo di eroe,un eroe fatto di piccole e grandi cose e di piccole e grandi verità.

Fratelli cari,ho ritenuto di portare questo lavoro all’attenzione di questa camera avendo io percepito la sensazione che questo racconto voglia riprodurre proprio lo schema dell’opera esoterica per eccellenza:la partenza per una ricerca ,lotte e difficoltà lungo il percorso,comprensione o ottenimento dello scopo ed il momento del ritorno e del dono di sé. ll Piccolo Principe si rivolge a piccoli e grandi: a tutti i grandi che sono stati bambini ma non se lo ricordano più. E’ per i bambini poiché tratta la fantasia dell’infanzia. Per gli adulti poiché risveglia quel bambino che dorme per non dimenticare. ll fascino di questo racconto sta nella sua disarmante semplicità. Ci insegna tante cose che abbiamo dimenticato crescendo. Perciò esso non può  essere considerato solo un libro per bambini:ha molto da dire anche ai grandi. L’autore descrive il mondo degli adulti attraverso gli occhi innocenti di un bambino evidenziandone i comportamenti irragionevoli e talvolta inutili.  Ogni personaggio rispecchia un aspetto diverso della vita degli adulti. ll libro propone alcuni messaggi molto forti riguardanti il comportamento a volte strano, bizzarro, egoistico degli adulti. Elogia l’amicizia, l’amore fraterno, pone in evidenza la passione lacerante dell’innamoramento, che a volte non sa trasformarsi in amore duraturo.

Dal viaggio attraverso i sette asteroidi sino all’approdo decisivo sulla terra, il piccolo eroe traccia un percorso di maturazione spirituale che lo vede confrontarsi con diversi personaggi. L’incontro decisivo con la volpe porterà a termine una silenziosa iniziazione che, solo dopo l’incontro con il pilota,trasformerà il Piccolo Principe in iniziatore. La morte, spoglia di ogni drammaticità, lo condurrà, infine, verso un ritorno dove la arnbiguità avrà la meglio.

Dallo studio accurato del libro è emerso che quest’opera non è solo una sequenza di immagini  gratuite, né una lettura per bambini. E’ un racconto esoterico espresso tramite una simbologia complessa che, attraverso consigli e idee, cerca di condurre il lettore verso la sua iniziazione personale.  Saint-Exupery lo dice chiaramente :”dell’iconografia m’importa solo ciò che essa esprime. Del resto, che cosa mi posso aspettare al di la dei simboli?.  C’è, dunque, una fiducia nell’apparato simbolico, nel potere creatore che ogni immagine ha in sé: esse ci permettono di passare da un piano quotidiano e materiale alla vita permanente dello spirito, da un istante privilegiato e raro, ben localizzabile nel tempo,ad una realtà atemporale e universale. E’ difficile avvicinarsi all’opera diSaint-Exupery senza essere disposti a seguire i numerosi tentacoli del senso che, diversificandosi, non fanno altro che rafforzare la stabilità del suo corpo centrale. Da questa foresta di simboli che non vogliono essere catturati nelle loro univocità,scaturisce un esito che vede difettare la logica formale, ma che, lontano da ogni dogmatizzazione limitatíva,  amplifica la dimensione dello spirito fecondandola di parole e di idee che nascono dal profondo.

Tre livelli di insegnamento si intrecciano nel contesto, ogni volta cambiando interlocutori. ll narratore istruisce il lettore ricordandogli la minaccia del baobab e raccontandogli la sua esperienza fantastica. ll pilota, a sua volta, viene istruito dal bambino e apprende che i legami orientano l’esistenza e l’essenziale e invisibile agli occhi. La volpe, infine,  inizia il piccolo eroe alla lentezza e all’importanza dell”addomesticamento”.  Si instaura,  così una gerarchia dove si alternano le   e di iniziatore e dove ognuno ricopre un ruolo essenziale per il prossimo. Non si deve dimenticare, inoltre, l’ultimo intervento dell’autore che, una volta finito il racconto,  riprende la penna per disegnare due dune di sabbia sotto una stella incolore: l’inorganico svuotato di ogni umanità. questa immagine si apre, nella pagina finale, con tutta la sua ambiguità accompagnata dalla domanda insoluta: la pecora ha mangiato o no la rosa?

ll pilota-autore traccia una cronaca latente che si sottopone ad una lettura simbolica impegnativa dove l’enigma ha la meglio. ll processo narrativo del libro è dominato dall’idea che “l’essenziale” non è nelle cose,ma nei nodi che le legano. Viene, dunque, spontaneo chiedersi se il senso è immanente alle cose o se è solo il risultato di un procedimento operato dallo spirito umano.  La risposta di Saint- Exupery a questa domanda cruciale non lascia possibilità di fraintendimento: è la coscienza dell’uomo che da senso al mondo. Secondo l’autore, infatti, non esiste una realtà a priori, già prestabilita, indipendente dalle scelte e dai punti divista, non c’è una verità che si lascia percepire in maniera definitiva. l concetti non nascono dell’ esperienza, ma sono il frutto del lavoro di uno spirito superiore alla ragione logica e l’uomo, concepito come libero produttore di senso, ha il difficile compito di rendere intelligibile questo mondo: egli ne è, dunque, responsabile. Ma questo non vuol dire che tutti i punti di vista si equivalgono,in quanto la verità creata è forte o debole a secondo dei risultati che ottiene.

ll problema che si sottopone a questo punto è se il Piccolo Principe sia davvero un libro adatto ai bambini. La risposta non è facile visto che i capolavori per l’infanzia si sono sempre situati in una fascia di difficile collocazione,  validi al tempo stesso per i bambini e per gli adulti: le avventure di Pinocchio, Alice nel paese delle meraviglie, Peter Pan, sono opere che fanno fatica ad essere inquadrate e riposte in uno spazio dai nitidi contorni. Allo stesso tempo. leggendo, anche superficialmente ,Questo racconto, si notano dei particolari che lo distinguono dai classici racconti di finzione e d’avventura adatti ad un pubblico infantile. Emergono delle situazioni, degli elementi illogici, impensabili per uno spirito Cartesiano positivo: la presenza di un bambino solo nel mezzo di un deserto, attorniato da animali che parlano, oggetti insoliti come un pozzo di campagna tra le dune, l’esistenza di un pianeta minuscolo, il disegno incessantemente richiesto di una pecora. Seguono espressioni paradossali e strane affermazioni, una struttura temporale non lineare e un inerenza, dietro queste immagini e questi temi inverosimili, di un tono serio e a volte moralizzante che cerca di controbilanciare qualche espressione più sobria .Tutto ciò evoca creazioni surrealiste, racconti di fate, alcuni trattati assurdi di alchimia, storie mitologiche e religiose,  ermetiche opere letterarie e, in una parola, atmosfere esoteriche.

JSentite cosa dice al riguardo Monin Yves che nel suo libro abbraccia pienamente quest’interpretazione mistica affermando che l’autore, attraverso le vicende del

Piccolo Principe, costringe l’uomo davanti all’ostacolo dell’incomprensione e dell’assurdità, a sentire una realtà che freme al di là della sua realtà. Lo obbliga non solo ad accettare un nuovo universo, non razionale, dove ogni miracolo si mostra possibile,  ma anche ad ammettere d’aver vissuto dentro questo sogno.

Alla fine il pilota dovrà acconsentire al rítorno sistematico e cosciente del suo amico a quel pianeta parallelo al suo: sarà obbligato a dubitare del suo modo di accostarsi al mondo reale e a comprendere la tristezza, il dolore, la miseria che vi predominano e contro la quali cerca vanamente di opporsi. Arricchito da questo viaggio interiore il pilota può permettersi di portare con sé un nuovo sapere che gli servirà da guida per un ipotetica vita di gioia e felicità. Il fatto di scusarsi con i bambini per aver dedicato il suo racconto ad una “persona grande” che è stata un amico, rappresenta,  secondo lui, uno stratagemma narrativo per evitare che la sua opera venga letta con lo sguardo razionale e logico dell’adulto. Se non avesse fatto questa premessa sarebbe stato difficile ímmergersi subito nell’atmosfera fantastica del secondo capitolo!.Sembra che Saint-Exupery ci voglia preparare a non aspettarci niente di estremamente razionale sin dall’inizio, per permetterci di accettare senza condizionamenti quello che verrà descritto. E’ importante per lui, che il lettore si disarmi, prima ancora di iniziare a leggere,delle sovrastrutture e della logica che indossa ogni giorno; è essenziale che, come il pilota nel deserto, anch’egli non trovi, ma scopra e riceva ciò che non ha cercato, per non perdere quella capacità di stupirsi e meravigliarsi che arricchisce ogni conquista inaspettata. Non è una reazione íngenua quella che l’autore si aspetta da chi legge, ma, al contrario, una capacità di sospendere la logica della ragione per completarla con quella dello spirito che, solo, permette di cogliere quell’essenziale che è “invisibile agli occhi. Lo spirito vince sull’intelligenza, Pascal s’impone a Cartesio in questo libro in cui la parabola descrittiva è tutta strutturata su un’ascesí spirituale. Ritengo perciò Fratelli cari che il miglior modo per concludere questa ricerca è affidarsi alle parole del Banchini che riesce a dare un’idea chiara della dialettica su cui si fonda il confronto tra spirito e intelligenza nell’opera di Saint-Exupery: solo lo spirito governa gli uomini; a essi si sottomettono, come servi, l’interesse, la felicità, la ragione.

Domina l’intelligenza, perché questa è portata a considerare i singoli elementi, ma solo lo spirito vede l’essere unico che quegli elementi compongono, cattura il Dio che dà unità e significato a frammenti altrimenti disparati e divisi. Lo spirito sa afferrare intuitivamente l’invisibile e profondo legarne che unisce le cose, mentre l’intelligenza tutto unisce, scompone, incasella, senza tuttavia riuscire a penetrare le realtà nascoste, senza comprendere né amare quelle contraddizioni che della vita sono tanta parte, e la meno superficiale

Ed è così che seguendo un percorso tortuoso fatto di incontri, di rivelazioni, di scambi, Saint-Exupery ha allestito un opera dove l’uso vizioso dell’intelligenza è destinato a soccombere almeno su un piano metafisico. Nella miscela d’immagini parole si nasconde un invito a riflettere su quei valori che lasciano che l’essere prevalga sull’avere e che esaltano il peso della responsabilità e la lucidità del cuore. Si profila un’arte del vivere che si nutre del prezzo della lentezza, dell’importanza della scoperta, del superamento dell’apparenza. E se qualcuno affermasse che le risposte suggerite dall’autore appaiono qualche volta insufficienti, basta dire che egli stesso non avrebbe mai cessato di riproporle e di riprendere: era, infatti, più interessato a porsi domande piuttosto che fornire soluzioni. Questa d’altronde, al di là della ricerca dei valori e dei significati, è “la favola ostinata dell’enigma”.

Fr.’. L. S. 30.’.

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ROGHI E LIBRI

Roghi e libri

Premessa

Questa tavola nasce da un articolo letto dieci anni fa e dal quale ho ripreso la parte storico-ricostruttiva. Poi l’ho aggiornato ed aggiunto la parte relativa al libro dello scrittore Ray Bradbury.

Nessu­no conosce realmente cosa e quanto bruciò ad Alessandria. Secondo alcune fonti, all’apice del suo splendore la Bi­blioteca di Alessandria d’Egitto racchiu­deva tra i 700.000 e il milione di rotoli – ­papiri e pergamene – greci, egizi, babilo­nesi, assiri, fenici e persiani. Era il sogno di Tolomeo I: raccogliere in un unico luo­go il sapere universale e farlo tradurre in greco. Secondo la tradizione fu Giulio Cesare, nella campagna contro l’ultimo dei Tolomei, nel 48 a.C., a distruggere la biblioteca. In realtà in quella occasione bruciarono solo alcuni depositi di libri, e non l’ edificio centrale, mentre la versione che ha avuto più seguito è quella che attribuisce l’in­cendio definitivo agli arabi.

Fu l’emiro Amr Ibn al-As a dare tutto alle fiamme, nel 641 : «Se il contenuto dei libri si accorda con il libro di Allah, noi possiamo farne a meno, dal momento che il libro di Allah è più che sufficiente. Se invece contengono qualcosa di diffor­me, non c’ è alcun bisogno di conservar­li. Procedi e distruggili», gli ordinò il Ca­liffo Omar. Si narra che i rotoli furono usati come combustibile per i bagni termali di Alessandria che sembra che fossero circa 4.000. Ci vollero sei mesi per bruciarli tutti.

Nessun popolo nel corso dei secoli è rimasto immune dai roghi. Le opere del sofista Protagora, bandito dal­la città, furono bruciate sulla pubblica piazza di Atene nel 411 a.C. La sua col­pa? Aver scritto di non poter accertare, riguardo agli dei, “né che sono né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’ oscurità dell’ argomento e la brevità della vita uma­na”, ricorda Diogene Laerzio.

­            Anche Augusto fece bruciare le opere di storia non gradite. Caligola, invece, ridusse in cenere i versi di Omero e Virgilio, mentre Diocleziano ordinò che fossero bruciati tutti i libri cristiani.

Proprio la Chiesa – che da perseguitata divenne la Grande Persecutrice – fece largo uso del fuoco, al quale dannò non solo i libri “profani “, ma spesso anche quelli dei propri autori cristiani.

I cristianissimi imperatori Teodosio e Valentiniano nell’anno 448 della nostra era ordinarono la distruzione con il fuoco dei tomi del filosofo Porfirio e «di qua­lunque scritto che offende Dio o turba le anime». Lo stesso apostolo Paolo, del re­sto, con la sua predicazione a Efeso ave­va spinto i nuovi adepti al primo dei roghi: «Portarono i loro libri assieme e li arsero in presenza di tutti. Così la pa­rola di Dio, cresceva potentemente e si rafforzava», recitano gli Atti degli Apo­stoli.

Martin Lutero nel 1520 diede alle fiamme la bolla di scomunica con la quale Papa Leone X con­dannava 41 delle 95 tesi affisse sulla por­ta della chiesa di Wittenberg, ingiungen­do al monaco di ritrattarle. Un piccolo fuoco che scatenò da subito i giganteschi roghi dell’Inquisizione. Nel 1524 e nel 1527 a Venezia arsero i primi libri “luterani “. Contemporanea­mente in tutta Europa prese fuoco la cultura ebraica.

L’Index Librorum Prohibitorum  emanato dalla Congregazione del Sant’ Uffizio nel 1559, sotto papa Paolo IV, colpiva gli scritti della Riforma, il Tal­mud e ogni tradizione che non si unifor­masse alle regole della Chiesa di Roma. Finirono nell’ elenco il Decameron, tutta la produzione di Erasmo da Rotterdam e le traduzioni in volgare delle Sacre scrit­ture.

 La secolare storia della censura ec­clesiastica si chiuderà nel 1966 quando il segretario del Sant’Uffizio, cardinale Alfredo Ottaviani, annunciò che l’Indice non sarebbe stato più pubblicato. Il pon­tefice era Paolo VI. Tra i libri proibiti nel Novecento c’erano stati: tutto Benedetto Croce, tutto Giovanni Gentile, l’opera omnia di Al­berto Moravia e così via. L’ultimo provvedimento censorio in as­soluto della storia dell’istituzione fu La vita di Gesù di Jean Steinmann, con de­creto emesso il 26 giugno 1961.

Ancora nella Firenze degli umanisti, il rogo dei libri «infettati dalla peste dell’e­resia» fu paragonato dal Cardinal Anto­nio Michele Ghisleri ai roghi di suppellettili e vestiti che si bruciavano per disinfettare la città dalle epidemie vere e pro­prie. Il passaggio all’età moderna fu scandito dalle censure di Galileo Galilei e dal rogo di Giordano Bruno. Anche dal­l’ altra parte dell’Atlantico, subito dopo la scoperta del Nuovo Mondo, s’alzarono le fiamme: il primo vescovo del Messico bruciò l’intera letteratura azteca.

E l’Illuminismo? Nel Settecento il Parlamento di Parigi condannò l’ Emilio di Jean-Jacques Rousseau a essere bru­ciato nel cortile del Palazzo di Giustizia. Il testo era colpevole di sottomettere la religione all’ esame della ragione, di di­scutere di dogmi, di attribuire all’auto­rità sovrana un carattere falso e odioso. La sentenza fu eseguita l’11 giugno 1762.

Tiberio, Adolf Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot, gli ayatollah. Ogni Tiran­no ha avuto il suo rogo. Berlino, 10 mag­gio 1933: la “Beucherverbrennung” più tristemente nota della Storia, segna l’ini­zio della persecuzione del regime nazio­nalsocialista contro il mondo della cultu­ra “degenerata “, contro intellettuali di origine ebraica, o di fede marxista, contro chiunque sia ostile al Reich: in dieci gior­ni le squadre naziste guidate da Joseph Goebbels bruciano di fronte alle univer­sità e alle biblioteche di Berlino un milio­ne di libri. Il gerarca, nel discorso in cui tratta dell’ estinzione della Storia, parla «dell’immondizia e del sudiciume rap­presentati dagli scadenti letterati ebrei che riempiono le biblioteche»: nella lista nera figurano più di 3.000 titoli di autori come Gor’kij, Bertolt Brecht, Erich Maria Remarque, Sigmund Freud, Rosa Luxemburg, i fratelli Mann, Albert Einstein. Come dimenticare quelle fiamme, ed anche quelle vittime.

Roma, Ventennio Nero. Anche l’ Ita­lia mussoliniana conosce i suoi “roghi di libri”, sebbene senza fuoco e fiamme: dopo l’in­troduzione di una censura preventiva sulle pubblicazioni (aprile 1934), nel­l’ ambito della campagna antisemita, il fascismo compilò diversi elenchi di au­tori ebrei. Editori e librerie furono “esor­tati” a distruggerne le opere giacenti, si intimò alle biblioteche di far sparire i “li­bri sgraditi” fino all’agosto 1939, quan­do il Duce decise di togliere dalla circola­zione tutti i libri di scrittori ebrei dal 1850 in avanti.

All’Est manca il rogo ma­teriale, ma la manipolazione e la soppressione della cultura sono state ad­dirittura più capillari. Il potere sovietico ha esercitato verso i libri “sgraditi” una repressione di tipo diverso dal rogo: la censura, il se­questro e la conservazione «negli archivi letterari del Kgb». In 70 anni la polizia segreta sequestrò e distrusse una quan­tità incredibile di opere manoscritte. Sentalinskij nel saggio ricorda che «Sol­zenicyn ha chiamato “infelice” lo spraz­zo di cielo che si estende sopra la Lubjanka. Era lì che arrivava il camino che per decenni ha disperso nel cielo di Mosca la cenere dei manoscritti bruciati. Quanti libri, che ormai nessuno più po­trà leggere, sono volati via da quel cami­no.

E oggi? Purtroppo i roghi non sono ancora scomparsi. Esempi? Egitto, luglio 1985: al Cairo 3.500 esemplari de Le mille e una notte vengono sequestrati con l’ accusa di “te­sto scandaloso”. Il procuratore generale chiede e ottiene di bruciare le copie in­criminate sulla pubblica piazza: le favo­le narrate dalla bella Shahrazad al suo re sono anti-islamiche e licenziose, sgradi­te ai fanatici religiosi. I padri del po­polo, laici o religiosi che siano, che pro­mettono ai loro sudditi un avvenire tan­to radioso quanto improbabile, non pos­sono non detestare le favole.

Iran, febbraio 1989: l’imamKhomei­ni emana la fatwa che condanna a morte lo scrittore anglo-indiano Salman Rush­die per il contenuto “blasfemo” del suo romanzo Versi satanici. Nel­lo stesso 1989 in Inghilterra un gruppo di fanatici diede pubblicamente fuoco alle copie del romanzo di Rushdie non po­tendo bruciare o uccidere l’autore in per­sona, cosa che desideravano a tal punto da essere spinti ad infierire addirittura sui suoi traduttori.

Cina, luglio 1999: il partito comuni­sta si scaglia contro i membri della setta Falun Gong, seguaci di una dottrina fondata sui prin­cipi del buddismo, un culto messo fuori legge perché «induce alla superstizione religiosa e alla sovversione». Il governo di Pechino arresta in massa 1.200 diri­genti e 3.000 quadri del movimento, poi annuncia il “programma di rieducazio­ne” che verrà imposto loro e infine ordi­na la distruzione di migliaia di libri della setta: solo nelle città di Wuhan e Tianjin sono bruciati pubblicamente oltre 200.000 volumi. Ex Jugoslavia, estate 1999: i serbi in Kosovo lasciano dietro di loro librerie e biblioteche incendiate. Non esistono a tutt’ oggi dati precisi. È solo una appendice alla sanguinosa pulizia etnica in atto nel paese.

Cuba, novembre 1999: la Federazio­ne internazionale delle Biblioteche (Ifla) denuncia che Fidel Castro ha mandato la polizia a requisire tutti i volumi arrivati negli ultimi tempi a rimpolpare gli scaf­fali delle biblioteche dell’isola (attraver­so lasciti, donazioni, cessioni di librerie) “che non siano conformi al regime”. Si registrano intimidazioni, maltrattamen­ti, arresti di bibliotecari e la distruzione di ingenti quantità di libri.

Usa, marzo 2001: in Pennsylvania, i pente­costali dell’Harvest Assembly of God Church accendono un’enorme pira fuori dalla loro chiesa dando alle fiam­me le icone del “diavolo moderno”: cd di Bruce Springsteen, vec­chi album degli anni ’70, videocasset­te del Pinocchio di Walt Disney e anche i sulfurei romanzi di Harry Potter.

“Ci liberiamo dalle cose che ci al­lontanano da Gesù: è il nostro modo di esprimere l’amore per Dio”, dichiara il reverendo George Bender. Un amore che lo porta a distruggere anche i libri dei Testimoni di Geova e dei Mormoni, colpevoli – a suo dire – di non essere «veri cristiani».

Nel dicembre dello stesso anno ad Alamogordo, nel Nuovo Messico meri­dionale, il pastore della Comunità di Cristo Jack Rrock getta su un enorme falò i libri del maghetto Harry Potter, «capolavori di sotterfugi satanici». At­torno al “sacro fuoco”, ven­gono distrutte anche opere di William Shakespeare.

Usa, novembre 2002: nel Maine, un gruppo di integralisti reli­giosi inscena una protesta di piazza ancora una volta contro i romanzi del­la saga di Harry Potter: «Sono pieni di stregoneria e riti pagani», sentenzia il reverendo Douglas Taylor. Siccome le leggi dello Stato proibiscono di brucia­re libri pubblicamente, gli attivisti de­cidono di tagliare le pagine ad una ad una al grido di «Alleluia! Alleluia!».

            La lista è impressionante, ma quello che è più grave è il fatto che il fuoco ha continuato a bruciare. Solo due recentissimi esempi: il reverendo Terry Jones, dopo una notte durante la quale ha avuto una visione mistica, ha pubblicamente dato alle fiamme una copia del Corano proclamando poi “la giornata internazionale del Rogo del Corano”.

            E così la violenza si è diffusa e, oltre alle minacce di morte contro lo stesso reverendo Jones, gli integralisti hanno cominciato a bruciare le chiese cristiane in diverse parti dell’Africa.

Infine leggevo testualmente sul giornale “La Nazione” del 20/7/2012: Il deputato israeliano Michel Ben Ari, discepolo del rabbino Kahane, ha stracciato una copia del Vangelo. Per rendere la scena più eclatante, questo deputato ha fatto il gesto all’interno del parlamento israeliano, aggiungendo che: “il libro è abominevole, ha promosso l’uccisione di milioni di ebrei durante l’Inquisizione. Questa è un’orribile provocazione missionaria da parte della Chiesa, non c’è dubbio che il libro e coloro che lo hanno inviato appartengono alla spazzatura della storia”.

Bell’esempio di integralismo religioso.

Fratelli, dopo aver letto questa sconcertante sequenza di fatti, risulta chiaro che la volontà di affermare le proprie convinzioni bruciando i libri (ed insieme a questi le idee di chi li ha scritti) non conosce tregua: esi­sterà sempre un fanatismo pronto ad alimentare questi roghi. E quanto è successo agli autori prima citati, sembra destinato a non finire.

La stampa, dai tem­pi di Gutenberg, ha sempre raccontato e continua a raccontare ogni giorno agli uomini storie e poesie, piccoli eventi e lo sbarco sulla luna, idee geniali ed il crollo delle torri gemelle, bellissime preghiere e bugie colossali. Ma ogni giorno l’odio di altri vuole imporre cosa è giusto e cosa no. Sono finiti al rogo gli scritti degli avversari politici, degli “eretici”, quelli degli sconfitti di tutte le guerre o degli storici “scomo­di”, le idee e le teorie rivoluzionarie.

Che si tratti di religione, di intolleran­za politica, di inquisizione o di censura, di ignoranza o megalomania, il rogo di libri è il rogo della libertà. E la paura dei libri non è che paura degli uomini liberi.

Come certamente saprete, c’è stato chi ha saputo tessere una interessante trama intorno a quanto ci siamo detti sino ad ora, ed ancora c’è stato chi ha saputo trarne una pellicola cinematografica di grande successo.

Fahrenheit 451 è la temperatura a cui brucia la carta dei libri secondo il si­stema di scala adottato nei paesi anglosassoni. Fahrenheit 451 è anche il libro più noto di uno dei più noti romanzieri di fantascienza: Ray Bradbury morto proprio quest’anno, nel 2012. Pubblicato nel 1953, resta leggendario anche per la regia cinematografica di Francois Truffaut del 1966.

Nel libro si racconta che in uno stato dal regime dittatoriale, leggere o possedere un libro significava commettere un reato grave. Grave al punto che esisteva un “corpo dei vigili del fuoco” preposto, non a spegnere incendi, bensì a bruciare ogni tipo di volume – ed a volte perfino la casa – di coloro che venivano sorpresi a leggere. Il popolo non poteva avere idee od opinioni personali. Si doveva solo guardare la T.V. attraverso la quale il regime comunicava ciò che si doveva o non si doveva fare.

“I libri rendono la vita triste, solo bruciandoli tutti gli uomini saranno veramente eguali e felici. Non c’è niente nei libri ed i libri non hanno niente da dire” Sono le parole del comandante.

Il protagonista, uno dei vigili del fuoco di nome Montag, spinto dalla voglia di conoscere, sottrae alcuni libri dal fuoco e li nasconde a casa. Ma anche sua moglie è presa dal sistema: i libri che suo marito ha portato sono secondo lei “non reali”, mentre ciò che lei stessa giudica “il suo mondo, la sua famiglia” sono i televisori attaccati ad ogni parete. E così sarà lei stessa a denunciare il marito alle autorità.

Ma Montag ha capito, si sente più consapevole, si fa coraggio e quando viene costretto ad incendiare la sua stessa casa, nella quale ha nascosto testi come Moby Dick o David Copperfield, si ribella. Prima uccide il capitano dei vigili del fuoco poi scappa e raggiunge un altro gruppo di sovversivi che facevano la resistenza al regime. Ciascuno è diventato un uomo-libro dal momento che ha imparato a memoria testi ormai perduti che vengono così tramandati oralmente per le generazioni future. Anche Montag diventa uno di loro. Sembra di vederli questi uomini-libro nelle ultime pagine del romanzo, radunati attorno alle loro parole da cui risorge la memoria.

 I finali del libro e del film sono abbastanza diversi, ma ambedue molto interessanti. Nel romanzo, il capo dei ribelli dice a Montag: “Incontreremo una gran quantità di persone nei prossimi giorni, nei mesi e negli anni a venire. E quando ci chiederanno cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: noi ricordiamo. Ecco perché, alla lunga, vinceremo” . Nel film manca questa certezza nella vittoria e la scena finale è sostituita con quella di un ragazzo che sta cercando di imparare a memoria un libro dal suo nonno il quale, pian piano, si sta spengendo. L’immagine è suggestiva ed addirittura commovente. E’ il simbolo di come si può trasmette il sapere alle generazioni future: i libri si potranno forse bruciare, ma si possono conservare dove nessuno potrà mai trovarli, cioè nel proprio cervello.

Cari Fratelli, credo che le riflessioni sui temi proposti possano essere molteplici. Per quanto mi riguarda, ne metto una al vostro giudizio. L’ingresso prepotente di nuove tecnologie nella nostra vita quotidiana, mi preoccupa.  Se vogliamo il pericolo non è più quello che i libri vengano bruciati, ma che vengano pian piano accantonati e, forse, dimenticati. E non parlo solo per il fatto (secondo me già grave) che stanno per essere sostituiti con quelli virtuali, ma perché quasi non ci rendiamo conto di quanto siamo presi e trasportati in un vortice inesorabile.

L’umanità sta cambiando, le immagini sempre più belle e veloci, catturano molto facilmente un individuo. L’uso continuo delle tecnologie ha portato molte persone a sentirsi parte di una nuova realtà sempre più semplice, basta un click per arrivare ovunque si voglia. Non dobbiamo certo aver paura del nuovo, ed è vero che ci sono anche aspetti positivi, ma molti studiosi stanno lanciando l’allarme: stiamo disimparando a pensare, e leggere diventa sempre più una fatica.

Ma, se Fahrenheit 451 ci ha insegnato qualcosa, cerchiamo di non perdere il senso della misura, di non lasciarsi rimbambire dal fascino dei nuovi mezzi multimediali, di non costruirsi un mondo finto dietro ad uno schermo, piccolo o grande che sia, perché la vita reale è al di fuori del computer e del telefonino.

Infine, se queste nostre tornate, come credo, servono a fortificarci, cerchiamo di vigilare nei confronti dei nostri figli e nipoti.

                      TAVOLA   SCOLPITA   DAL   FR.’.   M. L

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