LE NOZZE CHIMICHE DI C. RC. – SESTO GIORNO

SESTO GIORNO

     Il giorno dopo, il primo a svegliarsi chiamò anche gli altri e ci sedemmo un momento insieme e discutemmo quale sarebbe stato il risultato di tutto questo. Gli uni sostenevano che i decapitati sarebbero rivissuti tutti insieme; altri lo negavano perché la sparizione dei vecchi doveva dare ai giovani non soltanto la vita, ma anche la facoltà di riprodursi. Alcuni pensavano che non loro erano stati uccisi, ma altri al loro posto.

    Quando avemmo parlato per un po’ di tempo fra noi arrivò il vecchio, ci salutò, guardò se tutto era pronto ed i processi erano stati compiuti adeguatamente, ma siccome noi avevamo lavorato in modo tale che doveva approvare la nostra diligenza, raccolse tutte le fiale e le mise in una cassettina. Subito dopo arrivarono alcuni paggi, portando delle scale, delle corde e delle grandi ali, che misero davanti a noi e poi uscirono. Allora il vegliardo cominciò a dire: “Cari figli, oggi ognuno deve portare costantemente con se una di queste tre cose. Dipende da voi se volete scegliere o tirare a sorte”. Noi rispondemmo che volevamo scegliere. “No”, rispose il vecchio “si tirerà a sorte”. Poi fece tre bigliettini e sul primo scrisse: “scala”, sul secondo “corda” e sul terzo “ali”. Li mise in un cappello e ognuno ne tirò uno e dovette prendere l’oggetto designato. Quelli che ebbero le corde si credettero favoriti; a me capitò una scala, che mi dava molto fastidio, perché era lunga dodici piedi e abbastanza pesante. La dovevo portare sulle spalle, mentre i secondi potevano facilmente arrotolare le corde attorno di loro; poi il vecchio attaccò le ali agli altri con tanta abilità che sembrava che fossero loro cresciute naturalmente. Infine, girò un rubinetto e la fontana cessò di scorrere e dovemmo ritirarla dal centro della sala.

    Quando questo fu fatto, egli prese la cassettina con le fiale, si congedò e chiuse per bene la porta dietro di sé, in modo che noi non potevamo credere altro che di essere prigionieri in questa Torre. Ma non trascorse che un quarto d’ora e nella volta si fece un’apertura; attraverso di essa vedemmo la nostra Vergine che ci chiamò, ci salutò e ci augurò una buona giornata e ci pregò di salire. Quelli con le ali fecero presto salire per l’apertura e noi vedevamo quanto bene ci servivano le nostre scale. Ma quelli che possedevano le corde si trovavano male; perché appena uno di noi era salito, gli si ordinava di ritirare la scala. Infine, ciascuna delle corde fu attaccata ad un uncino di ferro e ognuno doveva arrampicarsi come poteva, cosa che non avvenne senza grandi sforzi. Quando fummo tutti sopra, il foro venne ricoperto e noi fummo ricevuti amichevolmente dalla Vergine.

    Un’unica sala occupava tutto questo piano della Torre e conteneva sei belle celle, un po’ più alte che la sala, a cui si accedeva per tre gradini. Ci si distribuì nelle celle, per pregare per la vita dei Re e della Regina. Nel frattempo la Vergine continuava ad entrare ed uscire dalla piccola torre finché noi terminammo. Conclusa la nostra preghiera, dodici persone (che prima erano stati i nostri musicisti) fecero passare attraverso la piccola porta e deposero al centro della sala un oggetto singolare molto lungo, che ai miei compagni non sembrava che essere una fontana. Ma io compresi immediatamente che vi erano rinchiusi i corpi, perché la cassa sotto era quadrata e di dimensioni sufficienti per contenere sei persone. Poi i portatori uscirono e andarono a cercare i loro strumenti e accompagnarono l’entrata della Vergine e delle sue servitrici con una musica deliziosa. La Vergine portava un piccolo scrigno, gli altri recavano soltanto rami e piccole lampade e delle torce accese. Ci furono date subito in mano le torce e dovemmo disporci intorno alla fontana nell’ordine seguente: la Vergine stava in a; le ancelle erano messe in cerchio con le loro lampade e i loro rami in c; noi eravamo con le torce in b, e poi i musicisti in fila in a; infine, le altre vergini, anche loro in linea retta in d.

    Io ignoro da dove venivano queste vergini; se abitavano nella Torre o se vi erano state condotte durante la notte, perché i loro visi erano coperti tutti con veli fini e bianchi, in modo che non ne riconobbi alcuna. La Vergine aprì lo scrigno, che conteneva una cosa rotonda in un doppio involto di taffetà verde. Pose questo nella prima vaschetta della fontana e lo ricoprì con un coperchio forato munito di un bordo. Ci versò un po’ dell’acqua che avevamo preparato ieri e, la fontana cominciò subito a scorrere. Quest’acqua era rimessa senza sosta nella vaschetta per mezzo di quattro piccoli tubi. Sotto la vasca inferiore c’erano un gran numero di punte, cui le vergini appesero le loro lampade, il cui calore saliva alla vasca e fece bollire l’acqua. Bollendo l’acqua cadeva sui cadaveri attraverso una quantità di piccoli fori praticati in a e c’era tanto calore che dissolveva i cadaveri e ne faceva un liquore.

    I miei compagni non sapevano ancora che cosa era l’involto sferico, ma io compresi che era la testa del negro e che era essa che comunicava alle acque questo calore intenso.

    In b, attorno alla grande vasca, c’erano parecchi fori, dove le vergini piantarono i loro rami. Io non so se fosse per necessità o per cerimonia; comunque questi rami venivano costantemente spruzzati e l’acqua che ne scorreva per tornare nella vasca era un po’ più gialla.

    Questa operazione durò circa due ore; la fontana scorreva costantemente da se stessa, ma poco a poco il getto diminuiva.

    Durante questo tempo, i musicisti uscirono e noi camminammo qua e là nella sala. Questa sala era fatta in modo tale che avevamo abbastanza occasioni di passare il nostro tempo. C’erano immagini, dipinti, orologi, organi, fontane che scorrevano e cose simili; niente mancava. Infine, arrivò il momento in cui la fontana cessò di scorrere. A questo punto la Vergine fece portare una sfera d’oro. Alla base della fontana c’era un rubinetto; essa lo aprì e fece colare nella sfera le materie che erano state dissolte dal calore delle gocce; essa raccolse diverse misure di questa materia molto rossa. L’acqua che restava nella vasca superiore fu gettata via e questa fontana – che adesso era diventata molto più leggera – fu portata fuori. Io non posso dire se essa fu aperta fuori o se conteneva ancora un residuo utile dei cadaveri; ma so che l’acqua raccolta nella sfera era troppo pesante perché noi sette e più potessimo portarla, benché, a giudicarne dal volume, non avrebbe dovuto essere troppo pesante per un uomo solo. Si trasportò questa sfera al di fuori con molti sforzi e noi rimanemmo ancora una volta soli. Siccome io mi accorsi che si camminava sopra di noi, cercai la mia scala con gli occhi. In questo momento si sarebbero potute sentir esprimere delle opinioni singolari riguardo alla fontana, da parte dei miei compagni; perché, persuasi che i corpi riposassero nel giardino del castello, non sapevano orientarsi in simili lavori. Io però ringraziai Dio per essermi svegliato al momento opportuno ed aver visto cose che mi aiutavano a comprendere meglio tutte le azioni della Vergine. Dopo un quarto d’ora, la botola in alto venne rimossa e ci fu ordinato di salire. Questo avvenne come prima con l’aiuto delle ali, delle scale e delle corde: fui un po’ risentito nel vedere che le vergini potevano salire per un’altra via, mentre noi dovevamo fare tanti sforzi, però mi resi conto che ciò avveniva per una ragione particolare e che dovevamo lasciare al vecchio qualcosa da fare, perché anche alle vergini non servivano le ali quando dovevano salire attraverso l’apertura.

    Quando riuscimmo a salire al piano superiore e l’apertura fu chiusa, vidi in mezzo alla sala la sfera sospesa ad una robusta catena. Tutto intorno a questa sala c’erano finestre e, alternate, delle porte. Ciascuna delle porte mascherava un grande specchio lucido. La disposizione ottica delle porte e degli specchi era tale che si vedevano brillare dei soli su tutta la circonferenza della sala, una volta che si erano aperte le finestre dal lato del Sole e tirate le porte per scoprire gli specchi; e ciò malgrado che, questo astro, che irraggiava in quel momento al di là di ogni misura, non colpisse che una sola porta. Tutti questi soli risplendenti colpivano con i riflessi artificiali dei loro raggi la sfera sospesa al centro; e poiché questa era lucidissima, emetteva un tale splendore che nessuno di noi poteva aprire gli occhi. Perciò dovevamo guardare fuori delle finestre finché la sfera si scaldò al punto che l’effetto desiderato fu ottenuto. Posso dire che in tale riflettersi ho visto la cosa più straordinaria che la natura abbia mai prodotta: c’erano soli dappertutto, ma la sfera al centro era ancora più splendente in modo che il nostro sguardo non poteva sostenerne la vista, uguale a quella del Sole, neppure per un istante. Finalmente, la Vergine fece ricoprire gli specchi e chiudere le finestre in modo da lasciar raffreddare un po’ la sfera; e questo avvenne alle sette.

    Noi eravamo contenti, perché potevamo fare una pausa e ristorarci con una colazione. Ma anche questa volta il pasto era ben filosofico e non avevamo ragione per temere gli eccessi, neanche però ci mancava il necessario. La speranza di gioia nel futuro con la quale la Vergine ci consolava costantemente, ci rendeva tanto allegri che non prendevamo male alcun lavoro e scomodità. Posso anche dire con verità dei miei compagni di alto rango, che essi non pensarono in alcun momento alla loro cucina o tavola, ma trovavano il loro piacere nel poter assistere a questa fisica così straordinaria e meditare così sulla saggezza e l’onnipotenza del Creatore.

    Dopo tale spuntino ci preparammo di nuovo al lavoro, perché la sfera si era raffreddata abbastanza. Dovemmo distaccarla dalla sua catena e metterla sul pavimento con molto sforzo e fatica.

    Segui una discussione sul modo di dividerla, perché ci era stato ordinato di dividerla in due lungo la linea mediana: finalmente un diamante appuntito servì per questo lavoro.

    Quando la sfera fu così aperta, vedemmo che essa non conteneva più del rosso, ma soltanto un grande e bell’uovo, bianco come la neve. Eravamo al colmo della gioia constatando che esso era riuscito così bene; perché la Vergine si era preoccupata che il guscio non fosse troppo molle. Ci mettemmo intorno all’uovo, gioiosi come se l’avessimo fatto noi stessi. Ma la Vergine lo fece ben presto portar via e sparì chiudendo la porta come al solito. Io non so cosa abbia fatto fuori con l’uovo o se qualcosa di segreto fu fatto ad esso, ma credo di no.

    Dovemmo dunque riposarci di nuovo per un quarto d’ora, finché una terza apertura fu scoperta e arrivammo così al quarto piano, con l’aiuto della nostra attrezzatura.

    In questa sala vedemmo una grande vasca di rame piena di sabbia gialla, la quale veniva scaldata da un piccolo fuoco: l’uovo vi fu messo dentro per terminare di maturare. Questa vasca era quadrata; su uno dei lati erano incisi a grandi lettere i versi seguenti:

    O. BLI. TO. BIT. MI. LI.

    KANT. I. VOLT. BIT. TO. GOLT.

    Sul secondo lato c’erano queste tre parole:

    SANITAS. NIX. HASTA.

    Il terzo non aveva che questa unica parola:

    F.I.A.T.

    Ma sulla faccia posteriore c’era tutta l’iscrizione seguente:

    QUELLO CHE E’

    Il Fuoco, l’Aria, l’Acqua e la Terra

    ALLE SANTE CENERI

    DEI NOSTRI RE E DELLE NOSTRE REGINE

    Non potranno strapparlo.

    La fedele schiera degli alchimisti

    IN QUESTA URNA

    raccolse

    Aò.

    Io lascio ai dotti di discutere se queste iscrizioni si riferivano alla sabbia o all’uovo; io mi accontento di compiere il mio dovere senza omettere nulla.

    Adesso il nostro uovo era pronto e fu tolto dalla sabbia. Non fu necessario rompere il guscio, perché l’uccello se ne liberò da solo e si dimostrò tutto vivace, ma era difforme d’aspetto e tutto sanguinante. Noi lo posammo dapprima sulla sabbia calda, poi la Vergine diede ordine di legarlo prima di dargli da mangiare; altrimenti ci avrebbe dato abbastanza da fare. Questo infatti successe. Gli si portò subito il nutrimento, che non era altro che il sangue dei decapitati diluito ancora una volta con l’acqua preparata. L’uccello crebbe allora così rapidamente sotto i nostri occhi, che potevamo ben vedere perché la Vergine ci aveva messi in guardia contro di lui. Mordeva e graffiava aggressivamente attorno a sé, e se avesse potuto impadronirsi di uno di noi, l’avrebbe finito ben presto. Adesso era tutto nero e selvaggio e perciò gli fu portato altro cibo, forse il sangue di un’altra persona reale. Con questo tutte le sue penne nere caddero e delle penne bianche come la neve crebbero al loro posto; e diventò meno selvaggio e si lasciava avvicinare più facilmente; tuttavia noi lo guardavamo ancora con diffidenza. Col terzo pasto, le sue penne cominciarono a diventare colorate e così belle che non ne avevo viste di uguali in tutta la mia vita, e si familiarizzò talmente con noi che lo liberammo dai suoi lacci, con l’assenso della Vergine. “Ora”, disse la Vergine, “siccome la vita e la più grande perfezione sono state date all’uccello, grazie alla vostra applicazione, è giusto che, con il consenso del nostro vegliardo, noi festeggiamo gioiosamente questo avvenimento”.

    Poi diede l’ordine di servire il pasto e ci invitò a ristorarci perché ormai la parte più difficile dell’opera era terminata e potevamo cominciare, a buon diritto, a gustare la gioia del lavoro compiuto.

    Cominciammo a scherzare fra di noi, ma portavamo ancora i nostri vestiti di lutto, cosa che, nella nostra gioia, ci sembrava abbastanza ridicola. Tuttavia, la Vergine continuava a fare delle domande, forse per sapere quelli che avrebbero potuto essere utili per il compimento dei suoi progetti.

    Sembrava più preoccupata per la fusione; e fu ben sollevata quando seppe che uno di noi conosceva i segreti del mestiere, cosa che conviene ad un artista. Il pasto non durò più di tre quarti d’ora, e lo passammo per la maggior parte con il nostro uccello, che bisognava alimentare continuamente del suo cibo. Questa volta, però, non cambiava di dimensioni. Non ci fu permesso di fare una lunga pausa dopo il nostro pasto, ma dopo che la Vergine e l’uccello ci avevano lasciati, ci fu aperta la quinta sala. Vi salimmo nel modo già descritto più volte, e ci apprestammo al lavoro. In questa sala era stato preparato un bagno per il nostro uccello; questo bagno fu colorato con una polvere bianca, in modo che prese l’aspetto di latte. Dapprima, quando ci si immerse l’uccello, era freddo e lui ne prese gusto e giocava. Ma quando il calore delle lampade, che erano state messe sotto, cominciò a scaldare il bagno, avemmo molta difficoltà a tenervelo dentro. Mettemmo perciò un coperchio sulla vasca e lasciammo passare la sua testa attraverso il buco, finché perse tutte le sue penne in questo bagno e diventò glabro come un uomo. Il calore non gli recava più danno, cosa che mi meravigliò molto, anche perché tutte le piume furono distrutte in questo bagno, che prendeva da esse un colore blu. Finalmente, lasciammo uscire l’uccello dal bagno; era così liscio e lucido che faceva piacere guardarlo. Poiché era un po’ selvaggio, dovemmo mettergli una collana con una catena attorno al collo e portarlo in giro per la stanza. Nel frattempo, si accese un grande fuoco sotto la caldaia, e il bagno evaporò finché divenne secco, in modo che ne restò una pietra blu che dovemmo togliere della caldaia e pestare; infine, dipingemmo la pelle dell’uccello con questo colore. Esso divenne meraviglioso a vedersi, perché era tutto blu fino alla testa, che rimaneva bianca.

    Con ciò avevamo compiuto il lavoro su questo piano, e dopo che la Vergine, con il suo uccello blu, ci lasciò, fummo chiamati attraverso un’apertura, al sesto piano. Lì assistemmo ad uno spettacolo rattristante. Fu messo al centro della sala un piccolo altare perfettamente simile a quello che avevamo visto nella sala del Re; sopra c’erano i sei oggetti descritti e l’uccello stesso era il settimo. Prima gli fu offerta la piccola fontana a cui l’uccello si dissetò; poi morse il serpente in modo da farlo sanguinare. Noi dovemmo raccogliere questo sangue in una coppa d’oro e versarlo nella bocca dell’uccello che vi si opponeva violentemente; poi introducemmo la testa del serpente nella fontana, il che gli ridonò la vita; si arrampicò subito nel teschio e non lo vidi per molto tempo. Nel frattempo, la sfera continuava a girare, finché la congiunzione desiderata ebbe luogo; subito il piccolo orologio suonò un colpo. Dopo avvenne la seconda congiunzione e l’orologio suonò due colpi. Infine, quando la terza congiunzione fu osservata, e annunciata dall’orologio, il povero uccello si lasciò decapitare umilmente, senza resistenza, da quello di noi che era stato designato dalla sorte. Tuttavia non ne uscì una sola goccia di sangue, finché non gli si aprì il petto. Allora il sangue sprizzò fuori così fresco e chiaro che assomigliava ad una fontana di rubino.

    La sua morte ci penetrò fino al cuore, tuttavia siccome pensavamo che l’uccello stesso non ci servisse a gran che, avevamo accettato di fare così.

    Sparecchiammo subito dopo il piccolo altare e aiutammo la Vergine ad incenerire il corpo sull’altare, insieme con la tavoletta che vi era sospesa, per mezzo del fuoco attinto dalla piccola luce. Questa cenere fu purificata a più riprese e conservata con cura in una cassettina di legno di cipresso.

    Ma ora, devo raccontare l’incidente che successe a me e a tre dei miei compagni. Quando avemmo raccolto con cura la cenere, la Vergine cominciò a parlare come segue:

    “Cari signori, siamo qui nella sesta sala e non ne abbiamo che una ancora davanti a noi per porre termine ai nostri sforzi, poi faremo il viaggio di ritorno al castello per svegliare i nostri graziosi Signori e Signore. Io avrei desiderato che tutti coloro che sono qui presenti si fossero comportati in modo che io potessi proclamare i loro meriti e ottenere per essi una degna ricompensa presso i nostri Altissimi Re e Regina. Purtroppo, ho dovuto riconoscere che tra di voi questi quattro – e mi indicò insieme con altri tre – sono degli operatori pigri e lenti, ma, nel mio amore per tutti, non voglio designarli per la punizione ben meritata, ma vorrei tuttavia, affinché una tale pigrizia non rimanga impunita, ordinare questo, che loro soli restino esclusi della settima operazione, la più ammirevole di tutte: invece non li si esporrerà ad alcuna punizione più tardi, quando saremo davanti a S.M.R.”.

    Lascio immaginare come mi sentivo durante questo discorso! La Vergine parlava con tanta gravità che le lacrime inondavano i nostri visi e ci consideravamo i più sfortunati degli uomini. Poi la Vergine fece chiamare i musicisti da una delle ancelle (che l’accompagnavano sempre in un certo numero) e ci si mise alla porta a suon di cornette che i musicisti facevano fatica a suonare tanto erano scossi dalle risa.

    Noi eravamo particolarmente risentiti, perché la Vergine si prendeva gioco delle nostre lacrime, della nostra collera e della nostra indignazione; inoltre, alcuni dei nostri compagni si rallegravano certamente della nostra disgrazia.

    Ma il seguito fu ben inatteso; perché appena oltrepassammo la porta, i musicisti ci invitarono a cessare i nostri pianti ed a seguirli gioiosamente sulla scala e ci condussero nella soffitta, sopra il settimo piano. Lì ritrovammo il vecchio, che non avevamo visto dal mattino, in piedi davanti ad un piccolo abbaino rotondo. Ci accolse amichevolmente e si congratulò con noi di tutto cuore perché eravamo stati scelti dalla Vergine: scoppiò quasi dal ridere quando però seppe quale era stato il nostro spavento al momento di raggiungere una tale fortuna. “Imparate da ciò”, disse, “che l’uomo non sa mai quanto Dio gli vuol bene”. Durante questa conversazione, la Vergine arrivò correndo con il suo scrigno, e dopo aver riso di noi, vuotò le ceneri in un recipiente e lo riempì con un’altra materia, dicendo che era obbligata ora ad ingannare i nostri compagni. Nel frattempo, noi dovevamo eseguire gli ordini del vecchio e non diminuire i nostri sforzi. Con questo ci lasciò e ritornò nella settima sala dove aveva radunati i nostri compagni. Io ignoro l’inizio dell’operazione che essa fece insieme a loro, perché non solo era stato vietato loro assolutamente di parlarne, ma anche noi non potevamo vederli attraverso il pavimento a causa delle nostre occupazioni.

    Ecco quale fu il nostro lavoro. Dovemmo inumidire le ceneri con l’acqua da noi preparata in precedenza in modo da farne una pasta fine. Dopo mettemmo la materia sul fuoco sinché si fu riscaldata. Allora la versammo tutta calda in due stampi e la lasciammo raffreddare un po’. (A questo punto avemmo il tempo di guardare un po’ i nostri compagni attraverso le fessure del pavimento: essi erano indaffarati intorno ad un fornello e ognuno doveva soffiare sul fuoco con un tubo. Stavano lì intorno soffiando, sino a perdere il fiato, ma ben convinti che avevano una sorte migliore della nostra. Questo soffiare durava ancora quando il vecchio ci richiamò al lavoro, sicché non posso dire quello che avvenne dopo.)

    Aprimmo i piccoli stampi e vi vedemmo due belle figure chiare e quasi trasparenti come occhi umani non ne hanno mai viste.

    Erano un giovane e una giovane. Ognuno non era che di quattro pollici di lunghezza e il fatto che mi meravigliò di più era che non erano duri ma di una carne molle come quella degli altri uomini. Tuttavia mancava loro la vita, ma ero convinto che anche Venere era fatta così. Posammo questi due adorabili giovanetti su due piccoli cuscini di raso e non cessavamo di guardarli, senza poterci staccare da questo spettacolo grazioso, fin quasi a istupidirci. Ma il vecchio ci fece smettere e diede l’ordine di lasciar cadere a goccia a goccia il sangue dell’uccello raccolto in una piccola coppa, nella bocca delle figurine. Queste ingrandirono allora a vista d’occhio, e abbellirono in proporzione alla loro crescita. Bisognava che tutti i pittori fossero stati lì per arrossire delle loro opere dinanzi a questa creazione della Natura.

    Ma ora esse ingrandirono talmente che dovemmo toglierle dai cuscini e stenderle su di una lunga tavola ricoperta di velluto bianco; poi il vecchio ci ordinò di coprirle fino al petto con taffetà doppio, bianco e soffice; cosa che facemmo con dispiacere a causa della loro indicibile bellezza. Infine, per dirla in breve, prima che avessimo finito il sangue, essi avevano raggiunto la loro grandezza da adulti, avevano i capelli con riccioli biondi e l’immagine di Venere che avevo visto prima non era niente in confronto a loro. Tuttavia, non c’era ancora calore naturale né sensibilità: erano come delle immagini morte, che avevano però un colore vivo e naturale. Allora il vecchio fece cessare l’alimentazione per evitare che divenissero troppo grandi; poi coprì loro il viso con un drappo e fece piantare delle torce intorno alla tavola. (Qui devo avvisare il lettore perché non consideri queste luci come indispensabili, essendo stata unica intenzione del vecchio quella di non farci accorgere del momento in cui l’anima entrava in loro; e in effetti non ce ne saremmo accorti, se io non avessi visto già due volte le fiamme; tuttavia non avvisai dell’inganno gli altri e così lasciai ignorare al vecchio che ne sapevo di più.) Allora il vecchio ci fece prendere posto su di un banco davanti alla tavola e subito la Vergine arrivò con la musica e tutta la sua compagnia.

    Essa portava due bei vestiti bianchi come non ne avevo mai visti nel castello e che sfidano ogni descrizione, perché non posso credere altro che fossero di puro cristallo, e tuttavia erano soffici e non trasparenti; è dunque impossibile parlarne. Essa li pose su una tavola e, dopo aver disposto le sue vergini attorno al banco, lei e il vecchio cominciarono intorno al tavolo le loro cerimonie, ma questo avveniva solo per ingannarci.

    Tutto questo succedeva, come già detto, sotto il tetto, che aveva una forma veramente singolare; all’interno era formato da sette grandi semisfere cave, di cui quella in mezzo, la più alta, aveva una piccola apertura rotonda in cima, che in quel momento era chiusa, e di cui gli altri non si erano accorti. Dopo lunghe cerimonie, entrarono sei vergini, ognuna delle quali portava una grande tromba avvolta con una sostanza fosforescente come da una corona. Il vecchio ne prese una e, dopo aver spento qualche luce in alto, scoprì i visi e mise una delle trombe sulla bocca di uno dei corpi, in modo che la parte svasata arrivava direttamente di fronte all’apertura di cui ho detto prima.

    In questo momento, i miei compagni guardavano le due figure, ma io avevo altre preoccupazioni, perché dal momento che vennero accese le foglie, o le corone che circondavano la tromba, vidi il foro in alto aprirsi, e un raggio di fuoco precipitarsi nel tubo e entrare nei corpi; l’apertura si chiuse subito e la tromba fu levata.

    I miei compagni furono ingannati con questo trucco perché immaginavano che la vita fosse entrata nel corpo attraverso il fuoco delle foglie.

    Appena il corpo ricevette l’anima, aprì e chiuse gli occhi, ma non faceva quasi altri movimenti.

    In seguito una seconda tromba fu applicata sulla bocca; si accese la corona e così si permise all’anima di scendere attraverso il tubo; ciò avvenne tre volte per ogni figura.

    Tutte le luci furono spente e portate via; la coperta di velluto della tavola fu ripiegata sui corpi e fu aperto e preparato un letto da viaggio, nel quale furono portati i corpi tutti avvolti; poi li si fece uscire dalla coperta e li si distese uno a lato dell’altro. Allora, con le tende chiuse, dormirono per molto tempo.

    Era veramente tempo che la Vergine si occupasse degli altri artisti; perché, come mi disse più tardi, avevano dovuto lavorare l’oro. Certo, è anch’essa una parte dell’arte, ma non la più nobile, la più necessaria e la migliore. In effetti, pure gli altri possedevano una parte di questa cenere, sicché essi credettero che l’uccello non fosse destinato altro che a produrre dell’oro e che, attraverso questo, la vita doveva essere resa ai decapitati.

    Quanto a noi, restavamo là in silenzio, attendendo il momento in cui gli sposi si sarebbero svegliati; trascorse in questa attesa circa una mezz’ora. Allora il malizioso Cupido fece la sua entrata e dopo averci salutato, volò presso di loro, sotto la tenda e li disturbò affinché si svegliassero. Il loro stupore fu grande al risveglio, perché non pensavano altro che di aver dormito dall’ora in cui erano stati decapitati. Cupido li fece riconoscere l’uno all’altro, poi si ritirò un istante perché potessero rimettersi. Nell’attesa, venne a giocare con noi e infine si portò della musica e si fece un po’ di allegria.

    Ben presto la Vergine pure ritornò; essa salutò rispettosamente il giovane Re e la Regina – che trovò un po’ deboli – baciò loro la mano e diede loro i due bei vestiti, che indossarono, e così abbigliati uscirono. Due bei troni erano già stati preparati e loro si sedettero e furono salutati da noi con grande reverenza. Il Re ci ringraziò graziosamente di persona e ci dimostrò ancora una volta il suo grande favore. Adesso erano già le cinque e loro non potevano tardare più, e dunque appena le cose più importanti erano state imbarcate, dovevamo condurre le giovani persone reali giù per la scala a chiocciola per tutti i passaggi ed i corpi di guardia, fuori sino alla nave. Loro si sedettero dentro con alcune vergini e Cupido, e partirono così in fretta che ben presto li perdemmo di vista; secondo quello che mi dissero dopo, si era venuto loro incontro con alcune navi splendide, in modo che traversassero una grande distanza sul mare in quattro ore.

    Dopo le cinque, si ordinò ai musicisti di fare il carico delle navi e di prepararsi per la partenza. Ma poiché questo avveniva lentamente, il vecchio fece uscire una parte dei suoi soldati che noi non avevamo visto finora, perché erano stati nascosti nella mura. In tal modo, mi accorsi che la Torre era ben equipaggiata per difendersi. Questi soldati finirono presto di caricare i nostri bagagli e così non ci restava che cenare.

    Quando le tavole furono preparate, la Vergine ci ricondusse dai nostri compagni e veramente dovevamo prendere un’aria afflitta e soffocare le risa. Essi mormorarono tutto il tempo fra di loro; alcuni però ci commiseravano. Durante questa cena, anche il vecchio restò con noi. Egli era un sorvegliante severo; non c’era argomento, per quanto difficile, che non sapesse trattare, o anche criticare e completare, dandoci così un buon insegnamento. E’ da questo signore che io appresi di più, e sarebbe bene che tutti si recassero da lui per imparare; così le cose non andrebbero tanto male.

    Dopo questa cena, il vegliardo ci condusse nei suoi musei edificati lungo la circonferenza dei bastioni, dove vedemmo delle meravigliose creazioni della Natura e anche delle immagini della Natura prodotte dall’intelligenza umana; ci sarebbe voluto ancora un anno per osservare tutto. Prolungammo questa visita alla luce di fiaccole fino a tarda notte. Infine, poiché tendevamo a voler dormire più che a continuare a guardare delle cose nuove, fummo condotti nelle nostre camere e restammo meravigliati di trovare nelle mura non soltanto dei buoni letti, ma anche degli appartamenti straordinariamente eleganti, mentre il giorno prima avevamo dovuto accontentarci di così poco. Poiché ero ormai quasi senza preoccupazioni, ed ero stanco per il lavoro, il suono tranquillo del mare mi procurò un sopore così profondo e dolce che caddi in un sonno continuo dalle undici alle otto della mattina dopo.

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LE NOZZE CHIMICHE DI C. RC. – QUINTO GIORNO

QUINTO GIORNO

    Appena la notte terminò e il caro giorno desiderato fu giunto, mi levai subito dal letto più nella curiosità di sapere cosa era successo, che non perché avessi dormito abbastanza. Dopo essermi vestito e aver sceso come d’abitudine la scala, era ancora troppo presto e non trovai nessuno nella sala. Pregai perciò il mio paggio di condurmi un po’ nel castello e di mostrarmi qualcosa d’interessante. Egli si prestò come sempre volentieri al mio desiderio e mi fece scendere alcuni gradini sotto terra, fino ad una gran porta di ferro da cui si staccava in grandi lettere di rame l’iscrizione seguente:

    Io riprodussi l’iscrizione, copiandola sulla mia tavoletta. Dopo aver aperto la porta, il paggio mi condusse per mano attraverso un corridoio tutto buio, finché arrivammo ad una piccola porta socchiusa, perché, come egli m’informò, era stata aperta soltanto il giorno precedente per fare uscire le bare e non era stata ancora richiusa. Noi entrammo; allora la cosa più preziosa che la natura abbia mai creata apparve al mio sguardo meravigliato. La sala a volta non aveva altra luce che quella data da parecchi enormi diamanti, e questo era, venni informato, il tesoro. Ma al centro vidi la meraviglia più ammirevole: era una tomba talmente preziosa che mi stupì che non fosse custodita meglio. Il paggio mi disse che dovevo ringraziare il mio pianeta per l’influenza del quale avevo ormai visto molte cose che nessun occhio umano aveva mai osservato oltre alla cerchia del Re.

    La tomba era triangolare e aveva al suo centro un vaso di rame lucido; tutto il resto non era che oro e pietre preziose. Nel vaso stava in piedi un angelo il quale teneva nelle sue braccia un albero sconosciuto che ininterrottamente lasciava cadere delle gocce nel vaso; quando poi la frutta cadeva nel vaso diventava acqua e scorreva in tre piccoli vasi d’oro. Tre animali, un’aquila, un bue, un leone, posti su di un piedistallo prezioso sostenevano questo piccolo altare.

    Io domandai al mio paggio il significato di tutto ciò. “Qui giace”, disse,”Venere,la bella dama, che ha fatto perdere a molti grandi la fortuna e l’onore e la salute e il loro benessere”. Detto ciò mi mostrò una porta di rame nel pavimento. “Qui”, disse, “possiamo scendere ancora se vuoi”. “Io ti accompagnerò dappertutto”, risposi, e scesi la scala dove l’oscurità era completa. Il paggio aprì subito una piccola scatola che conteneva una luce perpetua con la quale accese una delle molte torce, che erano in quel luogo. Io mi spaventai e domandai seriamente se gli era consentito fare questo. Mi rispose: “Siccome la persone reali ora riposano, non ho niente da temere”.

    Vidi allora un letto preparato in maniera ricchissima e circondato da tende meravigliose. Il paggio le aprì e vidi la Dama Venere tutta nuda – perché il paggio aveva sollevato una delle coperte – stesa lì con tanta grazia e bellezza che rimasi inchiodato al mio posto e anche adesso ignoro se ho contemplato una statua o una morta, perché essa era assolutamente immobile e mi era vietato di toccarla. Poi il paggio la coprì di nuovo e tirò la tenda; ma la sua immagine mi restò impressa negli occhi. Dietro al letto vidi una tavoletta con questa iscrizione:

    Domandai al mio paggio il significato di questi caratteri; egli promise ridendo che l’avrei saputo. Poi spense la fiaccola e risalimmo.

    Esaminando le porte da vicino, mi accorsi solo allora che ad ogni angolo ardeva una luce pirica che non avevo mai visto prima, perché il fuoco bruciava con tanto chiarore che assomigliava più ad una pietra che ad una luce. L’albero esposto a questo calore non cessava di fondere tutto e di produrre sempre nuovi frutti. “Ascolta”, disse il paggio, “quello che ho sentito dire da Atlante, parlando al Re. Quando l’albero sarà completamente sciolto, la Dama Venere si sveglierà e sarà la madre di un Re”.

    Mentre diceva questo e stava forse per dire di più, il piccolo Cupido entrò volando. Dapprima, egli fu meravigliato di constatare la nostra presenza, ma quando vide che eravamo più morti che vivi, scoppiò a ridere e mi chiese quale spirito mi avesse condotto fin lì. Io risposi tremante che mi ero perso nel castello ed arrivato poi per caso, e che il paggio mi aveva cercato dappertutto e finalmente mi aveva trovato lì; speravo infine che egli non avrebbe preso la cosa male.

    “E’ ancora scusabile così”, mi disse, “mio vecchio padre temerario. Ma Voi avreste potuto facilmente oltraggiarmi grossolanamente se vi foste accorti di questa porta. E’ tempo che io prenda le mie precauzioni”. Detto ciò, mise una serratura pesante alla porta di rame per la quale eravamo scesi prima. Io ringraziai Dio che non ci aveva incontrati prima e anche il mio paggio era felice poiché l’avevo aiutato.

    “Tuttavia”, disse Cupido, “non posso lasciare impunito il fatto che stavate per sorprendere la mia cara madre”. E allora riscaldò la punta di una delle sue frecce in una delle piccole luci e mi colpì sulla mano. Io non sentii quasi nulla, ma ero felice perché eravamo riusciti così bene a cavarcela con poco. Nel frattempo i miei compagni si erano alzati dal letto e si trovavano nella sala. Io li raggiunsi e facevo finta di essermi appena alzato. Cupido che aveva ben chiuso tutte le porte dietro di lui, venne da noi e io dovetti mostrargli la mano. Vi era ancora una goccia di sangue di cui rise e prevenne gli altri dal guardarsi da me, che sarei cambiato di lì a poco. Tutti si meravigliarono del fatto che Cupido fosse così allegro; non sembrava preoccuparsi per niente dei tristi avvenimenti di ieri e non portava alcun segno di lutto.

    Nel frattempo, la nostra Presidentessa aveva preparato tutto per la partenza; essa era apparsa vestita di velluto nero e tenendo il suo ramo di lauro in mano; e tutte le sue vergini avevano rami di lauro in mano. Quando ogni cosa fu pronta, la Vergine ci disse di dissetarci e di prepararci per la processione. Noi non perdemmo un istante e la seguimmo nella corte. Sei bare erano poste in questo cortile ed i miei compagni erano convinti che esse rinchiudessero i corpi delle sei persone reali. Io però sapevo la verità; tuttavia ignoravo cosa era avvenuto delle altre bare.

    Vicino ad ogni cassa c’erano otto uomini mascherati. Appena la musica cominciò (una musica così grave e triste che mi spaventai) questi uomini levarono le bare e a noi fu dato l’ordine di seguirli fin nel giardino già descritto, nel mezzo del quale era levato un piccolo edificio di legno, il cui tetto era adornato da una splendida corona sostenuta da sette colonne. Dentro vi avevano scavate sei tombe e vicino ad ognuna c’era una pietra rotonda, vuota e più elevata. Si deposero le bare nelle tombe silenziosamente e con molte cerimonie, poi furono messe sopra le pietre e sigillate. La piccola scatola trovò il suo posto nel mezzo. E’ così che i miei compagni furono ingannati, perché essi erano persuasi che i corpi riposassero lì. In alto c’era una grande bandiera con l’immagine di una fenice, forse per ingannarci maggiormente. Io ringraziai Dio perché avevo visto più degli altri.

    Dopo i funerali la Vergine salì sulla pietra centrale e fece un breve discorso. Ci disse che dovevamo attenerci alla nostra promessa e di non lamentarci delle nostre fatiche, ma di aiutare a ridare la vita alle persone reali che erano state sepolte adesso. A questo fine dovevamo metterci senza ritardo in viaggio e navigare con lei verso la Torre dell’Olimpo per cercarvi il rimedio appropriato ed indispensabile.

    Questo discorso ebbe la nostra approvazione e seguimmo dunque la Vergine attraverso un’altra piccola porta, fino alla riva dove si trovavano le sette barche descritte prima, tutte vuote. Tutte le vergini vi attaccarono il loro ramo di lauro e dopo averci divisi tra le sei barche, ci lasciarono partire nel nome di Dio e ci guardarono finché fummo in vista; dopo si ritirarono ancora una volta nel castello con tutte le guardie. Le nostre imbarcazioni avevano ognuna una grande bandiera e un’insegna particolare. Su cinque dei vascelli si vedevano i cinque Corpora regularia, uno diverso su ogni nave, e la mia, dove aveva preso posto la Vergine, portava un globo. Noi navigammo così in ordine stabilito, ogni vascello non contenendo più di due piloti.

    In testa veniva il piccolo vascello A, dove, secondo me, giaceva il negro; portava dodici musicisti che suonavano bene; e la sua insegna era una piramide. Era seguita dai tre vascelli B, C, D, che navigavano insieme, sui quali eravamo noi. Io ero in C. Al centro navigavano le due barche più belle e più splendide ornate di una quantità di rami di lauro; esse non portavano nessuno e battevano la bandiera della Luna e del Sole. Per ultima veniva la nave G, che recava quaranta vergini.

    Dopo aver navigato così attraverso il lago, uscimmo attraverso uno stretto passaggio sul mare aperto. Lì tutte le Sirene, Ninfe e dee dei mare ci aspettavano e mandarono subito una giovane ninfa, incaricata di farci avere il loro dono di nozze e il loro ricordo. Quest’ultimo consisteva di una grande, magnifica perla montata, come non ne è mai stata vista né nel nostro né nel nuovo mondo; essa era rotonda e brillante.

    Quando la Vergine l’ebbe accettata amichevolmente, la ninfa domandò se si voleva dare ascolto alle sue compagne, fermandoci lì un istante; la Vergine vi acconsentì. Diede l’ordine di mettere in mezzo le due grandi navi e di formare con le altre un pentagono; poi le ninfe si schierarono intorno e cantarono con una dolce voce:

    I

    Non c’è niente di meglio sulla terra

    Che il bello e nobile amore.

    Per mezzo di lui, noi eguagliamo Dio,

    Con lui nessuno affligge gli altri.

    Perciò cantiamo al Re

    Facciamo risuonare il mare

    Noi chiediamo, rispondete voi.

    II

    Chi ci ha portato la vita?

    L’amore.

    Chi ci ha reso la grazia?

    L’amore.

    Da dove siamo nati?

    Dall’amore.

    Come saremmo noi perduti?

    Senza l’amore.

    III

    Chi dunque ci ha generato?

    L’amore.

    Perché ci hanno nutriti?

    Per amore.

    Che cosa dobbiamo ai genitori?

    L’amore.

    Perché essi hanno tanta pazienza?

    Per amore.

    IV

    Chi è vincitore?

    L’amore.

    Come si può trovare l’amore?

    Con l’amore.

    Quando si vede l’opera buona?

    Nell’amore.

    Chi può ancora unire due?

    L’amore.

    V

    Ora cantate tutti

    E fate risuonare il canto

    Per glorificare l’amore.

    Che si accresca presso i nostri Signori

    Il Re e la Regina.

    I loro corpi sono qui, l’anima è là.

    VI

    Se noi viviamo ancora

    Dio accorderà che, come l’amore e la grande grazia

    Li hanno separati con grande forza,

    Così attraverso la fiamma dell’amore

    Noi li riuniremo di nuovo con felicità.

    VII

    Questo dolore sarà trasformato eternamente

    In grande gioia

    Anche se passeranno migliaia d’anni.

    Ascoltando questo canto melodioso, non mi sorprese che Ulisse avesse tappato le orecchie dei suoi compagni. Pensavo di essere il più miserabile degli uomini, perché la natura non aveva fatto di me una creatura così adorabile. Ma ben presto la Vergine si congedò e diede ordine di continuare il viaggio. Le ninfe ruppero il cerchio e si sparsero nel mare dopo aver ricevuto come dono un lungo nastro rosso. In questo momento io sentii che Cupido cominciava ad operare anche in me, cosa che non mi faceva affatto onore; ma, poiché in ogni modo le mie bugie non possono servire al lettore, voglio notarlo. Ciò rispondeva perfettamente alla ferita che avevo ricevuto alla testa nel sogno del primo giorno; e se qualcuno vuole un buon consiglio, deve evitare il letto di Venere, perché Cupido non può soffrire questo fatto.

    Dopo parecchie ore, quando avevamo coperto una lunga strada, parlando amichevolmente fra di noi, diventò visibile la Torre dell’Olimpo. La Vergine ordinò dunque di fare diversi segnali per annunciare il nostro arrivo. Subito vedemmo apparire una grande bandiera bianca e ci venne incontro un piccolo vascello d’oro. Quando stava per accostarci, distinguemmo un vegliardo circondato da alcuni servi vestiti di bianco; ci fece accoglienza amichevole e ci condusse alla Torre.

    La Torre era costruita su di un’isola perfettamente quadrata e circondata da un muro tanto solido e spesso che io contai duecentosessanta passi nel traversarlo. Dietro a questa cinta si stendeva un bel prato con molti gradini dove crescevano frutti strani che mi erano sconosciuti; poi c’era un muro che proteggeva la Torre. Quest’ultima in se stessa sembrava formata dalla giustapposizione di sette torri rotonde; quella in centro era un po’ più elevata. All’interno esse si interpenetravano l’una con l’altra e c’erano sette piani sovrapposti. Quando raggiungemmo la porta, ci si condusse sul muro, in modo che, come mi accorsi benissimo, si potevano portare le bare nella Torre a nostra insaputa, ma i miei compagni lo ignoravano. Dopodiché, ci condussero nel piano inferiore della Torre. Qui c’era una sala decorata con arte, ma vi trovammo poche distrazioni perché non era altro che un laboratorio. Lì dovemmo pestare e lavare erbe, pietre preziose e diverse materie per estrarne il succo e l’essenza e riempirne delle fiale di vetro che venivano messe da parte con cura.

    La nostra Vergine era così attiva e abile che non ci lasciava senza lavoro. Noi avremmo dovuto lavorare assiduamente e senza sosta in quest’isola finché avessimo terminato i preparativi per rivivificare i corpi decapitati. Durante questo tempo – come venni a sapere dopo – le tre vergini erano nella prima sala e lavavano con cura i cadaveri. Finalmente, quando avevamo quasi finito queste preparazioni, ci venne portato come unico pasto una zuppa e un po’ di vino, per cui mi accorsi che non eravamo lì per nostro divertimento; e quando avemmo terminato il nostro compito per quel giorno, ci dovemmo accontentare di una coperta che venne stesa al suolo per ognuno di noi.

    Da parte mia il sonno non mi attirava; camminai dunque nel giardino, e mi avvicinai fino al muro; e poiché il cielo era terso, passai il tempo a osservare le stelle. Scoprii per caso degli alti gradini di pietra che conducevano sul muro e poiché la Luna brillava così chiaramente, diventai tanto audace, che salii e mi guardai un po’ intorno sul mare, che era tutto tranquillo. Siccome avevo una buona occasione per meditare sull’astronomia, scoprii che quella notte stessa ci sarebbe stata una congiunzione dei pianeti tale che non si sarebbe ripetuta che dopo molto tempo.

    Osservai così a lungo il cielo al di sopra del mare, che, quando suonò mezzanotte, vidi le sette fiamme arrivare dal mare e posarsi sulla cima della Torre; io fui preso della paura perché quando le fiamme si posarono, il vento si levò e si mise a scuotere il mare. Poi la Luna si coprì di nubi e la mia gioia finì in un tale spavento che riuscii a malapena a ritrovare la scala di pietra e ritornare giù nella Torre. Non posso dire se le fiamme rimasero molto tempo o se ripartirono, perché non osavo uscire in un tale buio. Così,mi stesi sulla coperta e mi addormentai facilmente al mormorio calmo, costante e piacevole della fontana del nostro laboratorio.

    Così questo quinto giorno terminò ugualmente in un modo meraviglioso.

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LE NOZZE CHIMICHE DI C. RC. – QUARTO GIORNO

QUARTO GIORNO

    Io riposavo ancora nel mio letto, guardando tranquillamente i quadri e le statue mirabili che si trovavano nella camera, quando sentii improvvisamente gli accordi di una musica di cornette e il suono del triangolo; mi resi conto che la processione era già in marcia. Allora il mio paggio balzò dal letto come un folle, somigliando molto più ad un morto che ad un vivo. S’immagini il mio smarrimento quando mi disse che in quel momento stesso i miei compagni venivano presentati al Re. Io non potei che piangere a calde lacrime e maledire la mia pigrizia, mentre mi vestivo in fretta. Il paggio era pronto molto prima di me e uscí dall’appartamento correndo per vedere come stavano le cose. Ritornò ben presto con la gioiosa notizia che niente era perduto, che avevo perso soltanto la colazione, perché non mi si era voluto svegliare a causa della mia età avanzata, ma che era tempo di seguirlo alla fontana dove i miei compagni erano già per la maggior parte riuniti. A questa notizia, ritrovai la calma; terminai in fretta la toilette e seguii il paggio alla fontana.

    Dopo esserci salutati, la Vergine scherzò sulla mia pigrizia e mi condusse per mano alla fontana. Allora constatai che invece della spada, il leone teneva una grande lastra incisa. Io la esaminai con cura e scoprii che era stata presa tra i monumenti antichi e posta qui per questa circostanza. L’incisione era un po’ cancellata a causa della sua antichità.

    La riproduco ora esattamente perché ciascuno possa riflettervi:

    PRINCIPE ERMETE

    DOPO TUTTO IL DANNO

    FATTO AL GENERE UMANO

    PER ORDINE DI DIO

    CON IL SOCCORSO DELL’ARTE

    I0 SONO DIVENUTO RIMEDIO SALUTARE

    I0 SCORRO QUI.

    Beva chi può le mie acque: vi si lavi chi vuole:

    le turbi chi osa:

    BEVETE FRATELLI, E VIVETE.

    Questa iscrizione era dunque facile da leggere e da comprendere; così la si era posta qui, perchè fra tutte era la più semplice da decifrare.

    Dopo esserci lavati a questa fontana, bevemmo in una coppa tutta d’oro. Poi ritornammo con la Vergine nella sala per rivestirci di abiti nuovi. Questi abiti erano fatti interamente in oro, e ricamati di fiori; inoltre ciascuno ricevette un secondo Toson d’Oro guarnito di gioielli, e ognuno di questi aveva una sua virtù operativa particolare. Una pesante medaglia d’oro vi era fissata; su di una faccia si vedevano il Sole e la Luna, l’uno di fronte all’altra. Sul rovescio si leggevano queste parole: “L’irraggiamento della Luna uguaglierà quello del Sole; e l’irraggiare del Sole diventerà sette volte piú splendente”. I nostri vecchi ornamenti furono deposti in alcune cassette e consegnati ad uno dei servitori. Poi la Vergine ci fece uscire in ordine.

    Davanti alla porta i musicisti vestiti di velluto rosso con i bordi bianchi ci aspettavano già. Si aprì allora una porta che prima avevo sempre vista chiusa – che dava sulla scala del Re.

    La Vergine ci fece entrare con i musicisti e salire trecentosessantacinque gradini. Lungo questa scala vedemmo preziose opere d’arte; più salivamo e più gli ornamenti diventavano ammirevoli; raggiungemmo infine una sala dipinta. Le sessanta vergini, tutte vestite riccamente, ci attendevano; si inchinarono a noi e ci diedero il loro saluto e noi pure rendemmo il saluto meglio che potemmo; poi si congedarono ì musicanti che dovettero ridiscendere la scala. Allora, al suono di un campanello, una vergine apparve e diede ad ognuno una corona di alloro; ma alla nostra Vergine ne diede un ramo. Poi una tenda si sollevò, e io vidi il Re e la Regina. Quale era lo splendore della Loro Maestà! Se la regina d’ieri non mi avesse gentilmente avvertito, non avrei potuto fare a meno, pieno di entusiasmo, di paragonare al cielo questa gloria indicibile, perché non solo la sala risplendeva d’oro e di pietre preziose, ma il Re e la Regina erano tali che i miei occhi non potevano sostenere il loro splendore. Fino a quel giorno avevo ammirato molte cose, ma qui le meraviglie si superavano l’un l’altra come le stelle del cielo.

    Ora, la Vergine essendosi avvicinata, ciascuna delle sue compagne prese uno di noi per la mano e ci presentò al Re con una profonda riverenza; poi la Vergine parlò come segue:

    “In onore delle vostre Maestà Reali, graziosi Re e Regina, i Signori qui presenti hanno affrontato la morte per venire qui. Le Vostre Maestà saranno a buon diritto contente, perchè, per la maggior parte, essi sono qualificati per ingrandire il regno e il dominio delle Vostre Maestà, come Loro potranno assicurarsene se vogliono, mettendo ciascuno alla prova. Io ho voluto dunque presentarli molto rispettosamente alle Vostre Maestà, con l’umile preghiera di essere liberata del mio incarico e di voler bene prendere in considerazione il modo in cui l’ho eseguito, interrogando ciascuno”. Poi ella depose il suo ramo d’alloro.

    Ora sarebbe stato conveniente che qualcuno di noi avesse detto qualcosa. Ma poiché eravamo tutti troppo emozionati per prendere la parola, il vecchio Atlante finì per farsi avanti a dire a nome del Re: “La Sua Maestà Reale gioisce per il vostro arrivo e vi accorda la sua grazia reale, a tutti come a ciascuno in particolare. Essa è ugualmente molto soddisfatta per il compimento della tua missione, cara Vergine, e come ricompensa ti sarà riservata una onoreficienza reale. Sua Maestà pensa tuttavia che tu dovresti guidarli ancora per oggi, perché non possono che avere grande fiducia in te”.

    La Vergine riprese dunque umilmente il ramo di lauro, e noi ci ritirammo per la prima volta, accompagnati dalle nostre vergini.

    La sala all’inizio era rettangolare, cinque volte più larga che lunga, ma alla fine essa prendeva la forma di un grande semicerchio come un portico, con tre superbi troni reali messi ad arco, salvo che quello in mezzo era un po’ sopraelevato. In ogni trono erano sedute due persone.

    Il primo trono era occupato da un vecchio re con la barba grigia, la cui sposa era invece molto giovane e ammirevolmente bella. Un re nero di mezza età era seduto sul terzo trono; al suo lato si vedeva la madre, vecchia e minuta, non coronata, ma velata. Il trono di mezzo era occupato da due adolescenti; essi erano coronati di alloro e al di sopra era sospeso un grande e prezioso diadema. Essi non erano così belli in questo momento come io avevo immaginato, ma così doveva essere.

    Molti uomini, dei vegliardi per la maggior parte, avevano preso Posto dietro di loro su di un banco circolare. Ora, cosa sorprendente, nessuno di essi portava la spada né altre armi; inoltre non vidi guardia del corpo. C’erano poi alcune vergini che erano state fra noi il giorno precedente e che si erano poste su un lato del semicerchio. Non posso omettere inoltre che anche il piccolo Cupido vi svolazzava. Volteggiava e girava di preferenza intorno alla grande corona. Talvolta si metteva tra i due amanti, col suo arco, sorridente; talvolta faceva anche il gesto di mirarvi con l’arco; infine questo piccolo dio così malizioso non risparmiava neppure gli uccellini che volavano numerosi nella sala, ma li tormentava tutte le volte che poteva. Divertiva anche le vergini; quando esse potevano prenderlo, egli non se ne liberava che a fatica. Così tutta l’allegria e tutto il piacere venivano da questo bambino.

    Davanti alla Regina si trovava un altare di piccole dimensioni, ma di una bellezza incomparabile; su questo altare un libro coperto di velluto nero ornato con solo pochi rilievi in oro; a lato una piccola luce in un portalampada di avorio. Questa luce, sebbene piccola, bruciava senza spegnersi mai con una fiamma talmente immobile che non l’avremmo riconosciuta come un fuoco se Cupido di tempo in tempo non vi avesse soffiato sopra. Presso la fiaccola si trovava una sfera celeste che girava intorno al suo asse; poi un piccolo orologio a suoneria vicino ad una minuscola fontana di cristallo, da cui sgorgava senza interrompersi mai un’acqua limpida color del sangue e, infine, un teschio, rifugio di un serpente bianco talmente lungo che, malgrado facesse il giro degli altri oggetti, la sua coda era ancora impigliata in uno degli occhi, mentre la testa rientrava nell’altro. Non usciva dunque mai completamente dal teschio, ma quando Cupido si provava a colpirlo, rientrava con una velocità sorprendente.

    Oltre a questo piccolo altare, si notavano qua e là nella sala alcune immagini meravigliose, che si muovevano come se fossero vive, con una fantasia talmente stupefacente che mi è impossibile descriverla. Così, al momento in cui uscivamo, si levò nella sala un canto tanto soave che non saprei dire se si elevava dal coro delle vergini che erano rimaste o dalle immagini stesse. Per questa volta eravamo contenti e ce ne andammo con le nostre vergini. I nostri musicisti erano lì e ci condussero giù per la scala a chiocciola e la porta fu chiusa a catenaccio con cura.

    Dopo essere tornati nella nostra sala, una delle vergini incominciò a dire: “Sorella, sono meravigliata che tu abbia osato stare in compagnia con tante persone”. “Sorella mia”, rispose la nostra Presidentessa, “quello lì mi ha preoccupato più di tutti”, e indicò me. Queste parole mi causarono pena, perché capivo bene che mi prendeva in giro a cagione della mia età. In effetti ero il più vecchio. Però la vergine mi consolò con la promessa che mi avrebbe aiutato a sbarazzarmi di quest’afflizione se mi fossi comportato bene verso di lei. Nel frattempo fu servito il pasto e ognuno era posto al lato di una delle vergini, che sapevano intrattenerci con la loro conversazione leggiadra. Non devo, però, tradire gli argomenti delle loro conversazioni e divertimenti. La maggior parte degli argomenti avevano a che fare con le arti, e da questo mi accorsi che tutti si occupavano d’arte. Io ero preoccupato dal pensiero di diventare giovane e perciò ero un po’ più triste. La Vergine se ne accorse ed esclamò: “Vedo bene che cosa manca a questo giovanotto. Scommetto che sarà più allegro domani se dormo con lui stanotte”. A queste parole tutti incominciarono a ridere, e pur essendo rosso di vergogna, dovetti ridere anch’io della mia sfortuna. Ci fu però uno che volle vendicarmi nei confronti della Vergine, e disse: “Spero che non solo noi, ma tutte le vergini qui riunite, testimonieranno per il nostro fratello che la nostra Presidentessa ha promesso di dormire con lui stanotte”. “Ne sarei contenta”, disse la Vergine, “se non dovessi temere le mie sorelle. Non sarebbe conveniente per me di scegliere, senza la loro approvazione, il migliore e il Più bello”. “Sorella mia”, incominciò subito un’altra, “questo ci fa accorgere che la tua alta funzione non ti ha resa orgogliosa. Perciò, col tuo permesso, noi vorremmo tirare a sorte questi signori, per dividerli fra di noi come compagni di letto, e tu puoi volentieri conservare la tua prerogativa”. Tutti noi considerammo la frase come uno scherzo, e riprendemmo la nostra conversazione. Ma la nostra Vergine non poteva lasciarci tranquilli e ricominciò: “Signori, sarà bene lasciare decidere alla fortuna quali persone dovranno dormire insieme questa notte”. “D’accordo”, dissi; “se dev’essere così, non possiamo respingere una tale offerta”. Siccome si stabilì di decidere la cosa dopo il pasto, non volevamo tardare più a tavola e ci alzammo; ognuno camminava su e giù con la sua vergine. “Ma no”, disse la Vergine. “Non è ancora tempo. Vediamo come ci accoppia la fortuna”. Di conseguenza, lasciammo le nostre compagne. Seguì una discussione sul come affrontare questo problema, ma era tutt’un gioco inventato, falso, perché la Vergine ci propose di porci in cerchio in un ordine qualsiasi; poi lei ci avrebbe contati, e il settimo avrebbe dovuto unirsi al settimo seguente, che fosse vergine o uomo. Noi non ci accorgemmo di nessun’astuzia e la lasciammo fare. Ma benché facessimo attenzione ad essere ben mischiati, le vergini erano così scaltre che ognuna sapeva già la sua posizione. La Vergine incominciò a contare e toccò ad una vergine; dopo di lei la settima persona era ancora una volta una vergine. La terza volta era ancora una volta una vergine e continuò così finché, con nostra grande meraviglia, tutte le vergini erano uscite e non erano toccate ad alcuno di noi, così che noi poveretti rimanemmo lì soli. Dovemmo confessare che eravamo stati giocati molto abilmente. Perché è certo che chiunque ci avesse visto nel nostro ordine avrebbe pensato piuttosto di veder crollare il cielo che non che nessuno di noi venisse scelto. Così il nostro gioco finì, e dovemmo lasciar ridere le vergini a nostre spese.

    Tuttavia il piccolo Cupido audace arrivò da parte di Sua Maestà Reale e ci offrì da bere a Suo nome in una coppa d’oro; pregò la Vergine di presentarsi al Re e spiegò inoltre che non poteva star oltre da noi, così noi non potevamo divertirci con lui. Lo lasciammo andare via con i nostri ringraziamenti più umili e rispettosi. Siccome nel frattempo la gioia fece venire ai miei compagni la voglia di danzare, e poiché l’idea non dispiaceva neppure alle vergini, in breve avevamo organizzato una piccola danza. Io preferii stare a guardare piuttosto che partecipare, perché vidi i nostri mercurialisti muoversi con tanta abilità, come fossero esperti nell’arte.

    Dopo molte danze, la nostra Presidentessa tornò e ci annunciò che gli artisti e gli studiosi avevano chiesto a S.M.R. di presentare una commedia allegra in Suo onore prima della Sua partenza. Sarebbe piaciuto a S.M.R. e ci sarebbe stato graziosamente riconoscente, se avessimo voluto assistere anche noi, accompagnando S.M. alla Casa del Sole. Ringraziando rispettosamente per l’onore che ci faceva, offrimmo umilmente i nostri deboli servigi, non soltanto nel caso presente ma in tutte le circostanze. La Vergine portò questa risposta e ritornò ben presto con l’ordine di schierarci nel corridoio per aspettare la S.M.R.. Non avemmo molto da aspettare per la processione reale; mancavano però i musicisti.

    In testa al corteo si avanzava la regina sconosciuta che era stata fra noi il giorno precedente, con una piccola corona preziosa in testa e rivestita di raso bianco; essa non aveva che un minuscolo crocifisso fatto di una piccola perla, ed era posta quel giorno tra il giovane Re e la sposa. Questa regina era seguita dalle sei vergini nominate prima, che camminavano in due file portando i preziosi del Re, che erano prima sul piccolo altare. Poi venivano i tre re, con lo sposo nel mezzo. Era mal vestito, di raso nero alla moda italiana; sulla testa aveva un piccolo cappello nero rotondo, guarnito di una piccola piuma nera a punta. Si scoprì amichevolmente davanti a noi, mostrandoci così il suo favore; noi ci inchinammo a lui, come ci avevano detto di fare. Dopo i re venivano le tre regine delle quali due erano vestite riccamente; invece, quella in mezzo era vestita tutta in nero e Cupido le portava il velo. Poi ci si fece segno di seguire, e dopo di noi si posero le vergini, poi finalmente il vecchio Atlante che chiudeva la processione.

    Così schierati arrivammo finalmente attraverso molti corridoi ammirevoli alla Casa del Sole; e lì prendemmo posto su di un palco meraviglioso non lontano dal Re e dalla Regina, per assistere alla commedia. Noi eravamo alla destra dei re, ma separati da loro; le vergini alla sinistra, eccetto quelle cui erano affidate le insegne reali. A queste ultime era riservato un posto a parte. Gli altri servitori, però, dovevano accontentarsi di stare in basso tra le colonne. Siccome questa commedia suggerisce molte cose particolari su cui riflettere, non vorrei tralasciare di ricordarne brevemente il soggetto.

    Primo atto.

    Per primo uscì un vecchio re con parecchi servitori. Venne portato davanti al suo trono un cofano che si diceva essere stato trovato in mare. Quando venne aperto vi si trovò una bella bambina, e inoltre dei gioielli e una piccola lettera sigillata in pergamena, indirizzata al re. Il re spezzò i sigilli e subito, avendo letto la lettera, si mise a piangere. Poi raccontò ai suoi cortigiani che il re dei Mori aveva invaso e devastato il regno di sua cugina e sterminata tutta la discendenza reale eccetto questa bambina.

    Egli aveva fatto il progetto di sposare suo figlio alla figlia della cugina; giurò dunque inimicizia mortale al Moro e ai suoi complici e di fare vendetta. Si diede l’ordine di educare con cura la bambina e di prepararsi per andare contro il Moro.

    Questi preparativi, così come l’educazione della bambina – essa fu affidata ad un vecchio precettore appena fu un po’ cresciuta – riempirono tutto il primo atto con il loro interessante e divertente sviluppo.

    Intervallo.

    Tra i due atti si fecero lottare insieme un leone e un grifone e il leone vinse, e fu un piacere vederlo.

    Secondo atto.

    Entrò in scena il re nero; un uomo perfido. Egli viene a sapere che il suo assassinio non era rimasto segreto e che una bambina gli era sfuggita. Perciò si fece consigliare come poteva agire astutamente contro il suo potente nemico. Questo consiglio gli fu dato da parecchi che si erano rifugiati da lui a causa della fame. Contro ogni aspettativa, la bambina cade ancora nelle sue mani ed egli l’avrebbe fatta mettere a morte se non fosse stato ingannato in modo molto singolare dai suoi cortigiani.

    Così quest’atto si chiude con il trionfo del Moro.

    Terzo atto.

    Nel terzo atto, una grande armata venne raccolta dal re contro il Moro e affidata al comando di un vecchio cavaliere coraggioso che attaccò la terra del Moro finché liberò la vergine dalla sua prigione e la rivestì con ricchi abiti. Si erige dopo rapidamente un palco ammirevole e vi si fa salire la vergine. Ben presto arrivano dodici inviati del re. Allora il vecchio cavaliere prende la parola e fa conoscere alla vergine come il suo grazioso signore, il re, non solo l’aveva liberata una seconda volta dalla morte, dopo averle dato un’educazione reale, e questo sebbene non si fosse sempre comportata come doveva, ma anche che S.M.R. l’aveva scelta come sposa per il suo giovane signore, suo figlio, dando l’ordine di fare i preparativi per le nozze; queste dovevano avvenire secondo condizioni precise. Poi lesse in un documento molte condizioni nobili che sarebbero ben degne di essere qui raccontate se non fosse troppo lungo. Insomma, la vergine giurò di attenersi costantemente ad esse, ringraziando per un tale alto onore. Poi incominciarono a cantare lodi di Dio, del re e della vergine e uscirono dalla scena.

    Intervallo.

    Nel frattempo ci furono mostrati per nostro divertimento i quattro animali di Daniele, come li aveva visti nella sua visione e come li aveva descritti minuziosamente. Tutto questo aveva un significato ben determinato.

    Quarto atto.

    La vergine riprende possesso del suo regno perduto; viene coronata e condotta sulla piazza per qualche tempo con questo ornamento fra la gioia di tutti. Poi arrivarono un gran numero di ambasciatori non solo per farle voti di felicità, ma anche per ammirare la sua magnificenza. Ma ella non perseverò a lungo nella sua pietà, e incominciò a gettare sguardi sfrontati all’intorno, e a far segni agli ambasciatori e ai signori, e in questo ruolo era veramente brava e non mostrava nessun ritegno.

    Il Moro venne presto a conoscenza dei suoi costumi e non volle perdere questa occasione. Così, mentre il suo precettore non vegliava su di lei attentamente, riuscì facilmente ad ingannarla con grandi promesse, sì che, piena di sfiducia nel suo re, poco a poco e in segreto, si affidò al Moro. Allora costui accorse, e quando essa consentì al suo dominio, egli la lusingò finchè sottomise tutto il suo regno a lui. Nella terza scena di questo atto, egli la fece condurre via, spogliare completamente, attaccare ad una colonna su un rozzo palco di legno e frustare; e infine la fece condannare a morte.

    Tutto questo era così pietoso da vedere che molti non potevano trattenere le lacrime. Di conseguenza fu anche buttata completamente nuda in un carcere in attesa della morte per veleno. Questo veleno però non la uccise ma la rese lebbrosa.

    Così anche in questo atto si svolsero degli avvenimenti piuttosto penosi.

    Intervallo.

    Viene sospesa un’immagine di Nabucodonosor, che era ornato con tutti i tipi di armi sulla testa, il petto, lo stomaco, le caviglie e i piedi … Ne riparleremo in seguito.

    Quinto atto.

    Nel quinto atto fu mostrato al giovane re quello che era successo tra il Moro e la sua futura sposa. Egli interviene subito presso suo padre con la preghiera di non lasciarla in questa situazione. Siccome il padre era d’accordo, furono mandati degli ambasciatori per consolarla nella sua malattia e nella sua reclusione e anche per riprenderla per la sua irresponsabilità. Lei non volle però riceverli e consentì a divenire la concubina del Moro. Tutto questo fu riportato al giovane re.

    Intervallo.

    Arrivò un coro di buffoni, ognuno dei quali portava un bastone e con questi bastoni costruirono in poco tempo una grande sfera terrestre e la demolirono subito. E questa fu una bella fantasia divertente.

    Settimo atto.

    Nell’ultimo atto, apparve lo sposo con magnificenza inimmaginabile in modo che mi meravigliai come avessero potuto realizzare ciò. La sposa gli venne incontro con la stessa solennità.

    Il popolo grida: “Viva lo sposo! Viva la sposa!”

    Con questa commedia tutti festeggiarono il Re e la Regina nel modo più splendido e questo – come mi accorsi – piacque loro moltissimo.

    Infine fecero un giro in processione e cominciarono a cantare ancora una volta, nel modo seguente:

    I

    Questo giorno ci porta una grande gioia con le nozze del Re; perciò cantate tutti in modo che risuoni fortemente: “Felicità a colui che la dona”.

    II

    La bella sposa, che aspettiamo da tanto tempo, ormai gli è unita; noi abbiamo raggiunto quello per il quale lottavamo. Felicità a colui che guarda in avanti.

    III

    Salutiamo ora i bravi genitori. Lei è stata abbastanza a lungo in tutela. Moltiplicatevi in questa unione onorevole in modo che nascano mille rampolli dal vostro sangue.

    La commedia finì con acclamazioni e nella gaiezza generale e con la soddisfazione particolare delle persone reali. La sera era già arrivata e perciò partimmo nello stesso ordine di prima, ma dovemmo accompagnare le Loro Maestà su per la scala a chiocciola fino alla sala già descritta. Le tavole erano già preparate magnificamente e questa fu la prima volta che fummo invitati alla tavola reale. In mezzo alla sala si mise il piccolo altare e le sei insegne reali furono poste al di sopra. Questa volta il giovane Re si mostrò molto grazioso nei nostri confronti, ma non poté essere veramente allegro, perché, sebbene parlasse con noi a più riprese, faceva molti sospiri, cosa per la quale il piccolo Cupido lo prendeva in giro audacemente. I vecchi re e le vecchie regine erano molto gravi e soltanto la sposa di uno di essi era piuttosto vivace, non so per quale ragione.

    Le persone reali presero posto alla prima tavola e noi ci sedemmo all’altra; alla terza si sedettero alcune dame nobili. Gli altri uomini e vergini dovevano servire. Tutto questo si svolse con una tale correttezza e con tale calma che esito a parlarne troppo. Non posso tralasciar di dire come tutte le persone reali si vestirono prima del pranzo di abiti di un bianco splendente come la neve e che avevano preso posto a tavola così vestiti. Sopra la tavola pendeva la grande corona d’oro già descritta e lo splendore delle pietre preziose, di cui era adornata, avrebbe potuto bastare ad illuminare la sala senza nessun’altra luce.

    Tutte le altre luci furono accese dalla piccola luce sull’altare e non so esattamente perché. Ho notato però, che il giovane Re dava spesso da mangiare al serpente bianco sull’altare, cosa che mi fece riflettere. Il piccolo Cupido faceva quasi tutte le spese della conversazione del banchetto; non lasciava in pace nessuno e me in particolare. Ad ogni istante ci meravigliò con qualche nuova trovata.

    Ma non c’era molta gioia e tutto si svolgeva con calma. Io presentii un grande pericolo perché mancava la musica e quando si faceva una domanda, dovevamo contentarci di dare una risposta breve e succinta. Insomma, tutto aveva un aspetto così strano che il sudore cominciò a correre su tutto il mio corpo e credo bene che anche all’uomo più audace sarebbe mancato il coraggio. Quando la cena era quasi finita, il giovane Re si fece portare il libro dall’altare e l’aprì. Poi ci fece domandare ancora una volta da un vecchio se noi eravamo determinati a restare con lui nella buona e nella cattiva fortuna. Quando noi, tutti tremanti, rispondemmo affermativamente, egli ci fece domandare ancora una volta con tristezza se volevamo legarci a lui con la nostra firma. Non potevamo far altro; doveva succedere così. Dopo di che si portò la piccola fonte di cristallo insieme con un bicchiere di cristallo. Tutte le persone reali bevvero una dopo l’altra e dopo ne fu offerto anche a noi e poi a tutti. E questo fu chiamato lo Haustus Silentii (La Prova del Silenzio). Dopo, tutte le persone reali ci diedero la mano dicendo che, se non ci fossimo tenuti fedeli a loro, d’ora in poi non le avremmo mai più viste, e questo ci fece venire veramente le lacrime agli occhi. La nostra Presidentessa giurò fedeltà a nostro nome, e le persone reali ne furono soddisfatte.

    Nel frattempo, suonò un campanello e tutte le persone reali diventarono così pallide che noi eravamo disperati. Si cambiarono i loro vestiti bianchi e ne indossarono altri, completamente neri e anche tutta la sala fu ricoperta di velluto nero e così pure il pavimento e il soffitto. Tutto questo era stato preparato in precedenza. Dopo aver portato via le tavole, tutti si sedettero sui banchi. Anche noi avevamo indossato dei vestiti neri. La nostra Presidentessa uscì e poi rientrò portando sei bende di taffetá nero con cui bendò gli occhi alle sei persone reali.

    Quando esse non videro più, i servitori portarono sei bare ricoperte e le deposero nella sala. In mezzo posero anche una sedia nera e bassa.

    Infine un gigante, nero come il carbone, entrò nella sala, portando nella mano un’ascia affilata. Per primo il vecchio re fu portato alla sedia e gli fu tagliata subito la testa e avvolta in un drappo nero. Il sangue fu raccolto in un grande boccale d’oro e messo con lui nella cassa, che fu coperta e messa da parte; e così avvenne anche per gli altri, di modo che io pensai che sarebbe toccato anche a me. Questo non successe, ma dopo che le sei persone reali furono decapitate, il gigante negro uscì, seguito da un altro che decapitò anche lui prima della porta e portò la sua testa insieme con l’ascia, e ambedue furono messe in una piccola scatola.

    A me sembravano davvero delle nozze sanguinose, ma siccome non potevo sapere quello che doveva ancora succedere, dovetti fare appello alla mia ragione, in attesa di altre notizie, perché anche la nostra Vergine ci disse di restare calmi, vedendo che alcuni di noi perdevano la fede e piangevano, e aggiunse: “D’ora in poi, la vita di costoro sta nelle vostre mani e se mi seguite, questa morte darà la vita a molti”.

    Poi ci pregò di andare a dormire e di non preoccuparci più, perché tutto questo sarebbe avvenuto per il loro bene. Ci augurò la buona notte, e ci disse che avrebbe vegliato i cadaveri.

    Facemmo così e ognuno fu accompagnato al proprio alloggio da suo paggio. Il mio paggio mi parlò molto e di tutto, cosa che mi ricordo bene anche adesso, e la sua intelligenza mi fece meravigliare. Finii col notare che egli cercava di farmi dormire e perciò feci finta di dormire profondamente, ma i miei occhi erano liberi dal sonno e non potevo dimenticare i decapitati. Il mio alloggio era di fronte al grande lago, di modo che lo potevo vedere benissimo e la finestra era vicino al letto. A mezzanotte, nel momento in cui suonavano i dodici colpi, osservai sul lago un grande fuoco e, colto da paura, aprii subito la finestra per vedere cosa stava accadendo. Vidi da lontano sette barche illuminate che si avvicinavano. Sopra ognuna, in alto, brillava una fiamma che svolazzava qua e là e ogni tanto si abbassava quasi interamente, in modo che potevo facilmente capire che dovevano essere gli spiriti dei decapitati. Queste barche si avvicinarono dolcemente alla riva e ognuna aveva un unico pilota. Appena arrivate alla riva, vidi la nostra Vergine andare incontro ad esse con una torcia; dietro di lei erano recate le sei casse chiuse e la piccola scatola e ognuna fu deposta nelle sette barche. Io svegliai anche il mio paggio che mi ringraziò molto, perché, avendo corso durante tutto il giorno, si era addormentato e avrebbe perduto l’avvenimento, pur sapendo in anticipo che si sarebbe verificato. Quando tutte le bare furono poste nelle imbarcazioni, e tutte le luci furono spente, le sei fiamme viaggiarono insieme sul lago e in ogni barca non vegliava che una piccola luce. Allora qualche centinaio di guardie si raccolsero sulla riva e la Vergine fu rimandata nel castello. Essa chiuse tutti i catenacci con cura, e io conclusi facilmente che non ci sarebbero stati altri avvenimenti prima di giorno. Così cercammo di riposare. Ero l’unico fra tutti i miei compagni ad avere la stanza davanti al lago; ed io solo avevo visto quegli avvenimenti. Tuttavia adesso ero stanco e mi addormentai insieme alle mie speculazioni.

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LE NOZZE CHIMICHE DI C. RC. – TERZO GIORNO

Ora, non appena irruppe l’amorevole luce del giorno, ed il Sole cominciò a splendere

essendosi levato sopra le colline, e avendo ripreso il suo alto incarico nell’alto del Cielo, i

miei bravi compagni cominciarono ad alzarsi dai loro letti, e si prepararono senza fretta

all’Inquisizione. Quindi, uno dopo l’altro, entrarono ancora nella sala e dissero buon

giorno, domandandosi come avevano dormito stanotte. Avendo conosciuto i nostri limiti,

gli altri erano quasi sul punto di rimproverarci per la nostra viltà e per non avere

piuttosto, come loro, azzardato nuove avventure. Comunque alcuni di essi, i cui cuori

conoscevano ancora la compassione, non proseguirono oltre e ci lasciarono in pace. Noi

ci scusammo per la nostra ignoranza, sperando volessero adesso lasciarci liberi, avendo

già imparato qualcosa da questa disgrazia; mentre loro al contrario non erano ancora

scappati via tutti insieme, e forse per loro il grande pericolo doveva ancora arrivare.

Esiste una differenza significativa nell’atteggiamento di CRC rispetto ai suoi compagni.

Umiltà opposta ad arroganza.

Alla distanza tutti si riunirono ancora, e le trombe cominciarono a suonare ed i tamburi a

battere come in precedenza, e noi non immaginammo niente altro che lo Sposo fosse

pronto a presentarsi; il che era invece un grave errore. Infatti venne ancora la Vergine di

ieri, vestita di velluto rosso, ornata con una sciarpa bianca. Sul capo portava un verde

serto di lauro, che le donava grandemente. Il suo seguito non era più formato di piccole

candele, ma constava di duecento uomini in armi, vestiti come lei di rosso e bianco.

Ora, non appena si fu alzata dal trono, arrivò vicino ai prigionieri e dopo averci salutati,

disse in poche parole : “Che alcuni di voi siano consapevoli della vostra triste condizione

è grandemente piacevole per il mio potentissimo Signore, e Lui si è risolto ad adoperarsi

perché sia il meglio per voi.”

E avendo visto me nel mio abito, sorrise e disse “Buon Dio! Hai per caso sottoposto te

stesso al gioco? Immagino che ora possa essere soddisfatto di te stesso” con le quali

parole fece volgere i miei occhi al Cielo. Dopo ciò, lei comandò che fossimo slegati, riuniti

a coppie e portati in una posizione da cui avremmo potuto tranquillamente vedere le

Scale. “Perché” disse “è di gran lunga una migliore condizione quella di coloro che stanno

qui prigionieri, piuttosto che quella dei presuntuosi che sono ancora in libertà.”

Trombe e tamburi hanno annunciato la Vergine parecchie volte ormai. Questo deve

richiamare la nostra attenzione circa l’importanza della consapevolezza interiore. Notiamo

come lei usa i colori rosso e bianco, in modo opposto a quello di CRC quando ha

cominciato il suo viaggio interiore. Essi simbolizzano il singolo cammino di ridiscesa ed il

particolare processo alchemico associato a questo cammino. La Vergine indossa la corona

d’alloro della vittoria; Netzcah sull’Albero della Vita. Riconosce lo sforzo dei “prigionieri”

e decide di liberarli, in vista del giudizio.

Nel frattempo le scale, che erano interamente d’oro, furono appese nel mezzo della sala;

c’era anche un piccolo tavolo coperto di velluto rosso, e sette pesi piazzato su esso. Prima

di tutto ce n’era uno piuttosto grosso, vicino altri 4 più piccoli, in ultimo due grandi. E

questi pesi erano così pesanti in proporzione al loro volume, che nessun uomo avrebbe

potuto crederlo o comprenderlo. Ma ognuno degli uomini armati aveva insieme ad una

spada snudata, una forte corda; e furono distribuiti da lei secondo il numero dei pesi in

sette gruppi, e fuori da ogni gruppo ne scelse uno per il suo stesso peso, e quindi ancora

tornò al suo alto trono. Ora, appena ebbe fatto la sua riverenza, in un tono molto

stridulo, cominciò a parlare come segue:

L’oro è il metallo alchemico del sole e lo sefira Tiferet sull’Albero. Qui si tratta in effetti

dell’ “Opera del Sole” delle Tavole di Smeraldo – le scale della giustizia, il bilanciamento

degli opposti. Ci sono 7 pesi nella formula: 1 + 4 + 2 = 7; ma chi riuscirà a bilanciare questi

pesi? Chi passerà il giudizio? Chi sarà l’ottavo elemento di questa equazione? E’ la

Vergine, perché lei comanda le 7 bande. Perché l’8 è così importante? Perché ci sono 8

scalini nelle Tavole di Smeraldo e 8 sentieri verso il Tiferet nell’Albero della Vita. Le

Tavole e l’Albero sono collegate a questo punto.

Chiunque vada nello studio di un pittore

E non conosce niente della pittura

E ancora parlerà con molta ostentazione

Sarà deriso da tutti.

E chi entra in un ordine di artisti

Senza essere stato scelto

E comincia a dipingere con grande ostentazione

Sarà deriso da tutti.

E chi prenderà parte ad un matrimonio

Senza essere stato invitato

E nonostante questo vi si reca con grande ostentazione

Allora sarà deriso da tutti.

E chi salirà queste scale

E troverà che non pesa

Ma cadrà con grande rumore

E ancora sarà deriso da tutti

A questo livello, c’è ancora un altro avviso affinché gli indegni desistano dal procedere.

Naturalmente, noi non saremmo mai capaci di considerarci indegni, perché dovremmo?

Naturalmente tutti noi ci sentiamo morali, umili, dotati dei giusti attributi e propriamente

autorizzati a procedere, no?

Non appena la Vergine ebbe finito di parlare, uno dei paggi comandò ad ognuno di

piazzarsi secondo il suo ordine, e uno dopo l’altro entrarono. Della quale cosa uno degli

Imperatori non si fece scrupolo, ma in primo luogo si inchinò un poco davanti alla

Vergine, e poco dopo in tutto il suo imponente vestire, ella si alzò; quindi ogni Capitano

pose il suo peso, contro il quale (con meraviglia di tutti) l’Imperatore resistette. Ma

l’ultimo era troppo pesante per lui, così che dovette andare avanti; e lo fece on tale ansia

che (mi sembrò così) la Vergine stessa ebbe pietà di lui e chiamò con un cenno la sua gente

affinché lo sostenessero; ancora il buon Imperatore era legato e fu portato avanti al Sesto

Gruppo. Dopo di lui venne un altro Imperatore, che camminò verso la scala e avendo un

grande libro sotto il vestito, immagino avesse ferma intenzione di non fallire; ma era

scarsamente abile a sollevare il terzo peso, e fu impietosamente rimandato giù, ed il libro

gli cadde dalle mani e tutti i soldati cominciarono a ridere, e fu portato legato al Terzo

Gruppo. Così vennero anche altri degli altri Imperatori, che erano tutti pieni di vergogna e

derisi e messi in cattività.

All’inizio del XVII secolo, il tempo del Matrimonio Chimico, era importante per una guida

spirituale avere nel contempo anche autorità temporale. Ecco perché il giudizio comincia

da alcuni imperatori. Loro falliscono e sono portati via, legati e ricondotti ai rispettivi

gruppi. Questo è un giudizio karmico, ed il fatto che siano legati simbolizza le

conseguenze karmiche.

Dopo di loro vennero avanti un piccolo uomo con una barba castana e ricciuta, anche lui

un Imperatore, che dopo la solita riverenza, salì e arrivò così risolutamente che pensavo

che ci sarebbero voluti più pesi e che lui li avrebbe superati tutti. Nel vederlo arrivare, la

Vergine si alzò immediatamente, e gli si chinò innanzi, facendogli mettere un abito di

velluto rosso. E infine gli diede un ramo di alloro, di cui lei aveva una buona scorta sotto

il suo trono, sulle scale dove lo invitò a sedere.

Comunque, non sempre l’autorità temporale è un ostacolo. L’abito rosso è simbolo di un

particolare livello del processo alchemico. L’alloro è una prova del successo.

Ora come andò con il resto degli Imperatori, i Re e i Signori dopo di lui, sarebbe troppo

lungo da raccontare; ma non posso lasciare senza menzione alcuni dei grandi personaggi

che riuscirono. Comunque furono trovate in molti varie ed eminenti virtù (oltre la mia

speranza). Uno sarebbe potuto riuscire in una prova, il secondo in un altra, alcuni in 2,

alcuni in 3, 4 o 5, ma pochi riuscivano a raggiungere la perfezione; e tutti coloro che

fallivano erano infelicemente derisi da tutti gli altri. L’Inquisizione passò oltre la piccola

nobiltà, i sapienti e i non sapienti, e tutti gli altri, ed in ogni condizione i vagabondi

truffatori, e i farabutti autori di Lapidem Spitalanficum (la medicina universale NDT),

che stavano presso la scala con talmente grande indegnità che io stesso, a dispetto di

tutto il mio dolore, ero pronto per far scoppiare la mia pancia dal ridere, né avrebbero

potuto i prigionieri stessi frenarsi. Per la maggior parte non sarebbero stati abili a prove

così severe, ma scattarono fuori dalla Scala con frusta e flagello, ed erano condotti con

gli altri prigionieri, ad uno dei gruppi disponibili. Così rimasero così pochi che mi

vergogno a rivelare il loro numero.  

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LE NOZZE CHIMICHE DI C. RC. – SEDONDO GIORNO

SECONDO GIORNO

    Appena uscito dalla mia cella, e entrato nella foresta, mi sembrò che il cielo intero e tutti gli elementi si fossero adornati per quelle nozze. Mi pareva anche che gli uccelli cantassero più graziosamente di prima; i cerbiatti saltavano con tanta gioia che il mio vecchio cuore si rallegrava ed ero spinto a cantare. Così incominciai a cantare a voce alta:

    “Godi, uccellino,

    Nel lodare il tuo Creatore,

    Alza chiara e fine la tua voce,

    Il tuo Dio è tanto alto,

    Ti, ha preparato il cibo,

    Ti nutre sempre quando occorre,

    Sii soddisfatto cosí.

    Perché vuoi essere triste,

    Perché inquietarti con Dio

    D’averti fatto piccolo,

    Perché allora chiederti

    Come mai Egli non ti abbia fatto uomo?

    Taci, Egli ha pensato profiondamente su questo:

    Sii soddisfatto cosí.

    Cosa farei io, verme della Terra,

    Se cominciassi a discutere con Dio?

    Cercherò di forzare l’entrata al Cielo,

    Per rapire con violenza la grande arte?

    Non è possibile misurarsi con Dio;

    Che l’indegno se ne vada.

    Uomo sii soddisfatto.

    Non essere offeso

    Perché Egli non ti ha fatto imperatore.

    Se tu hai disprezzato il Suo nome,

    Egli ne tiene conto.

    Gli occhi di Dio sono i più chiari,

    Egli ti guarda fin nel cuore:

    Perciò non ingannerai Dio!”

    Cantavo questo dal fondo del mio cuore mentre attraversavo il bosco, che ne risuonava dappertutto; la montagna stessa echeggiò le mie ultime parole. Finalmente apparve un prato verde e uscii dal bosco. Su questo prato stavano tre cedri alti e belli che erano così larghi da offrire un’ombra splendida e assai desiderata, che godetti molto, perché, pur non avendo fatto molta strada, il mio grande desiderio mi rendeva stanco. Perciò mi avvicinai in fretta agli alberi per riposarmi un momento lì sotto. Avvicinandomi, scoprii una tavoletta attaccata ad uno degli alberi, sulla quale erano scritte, in lettere graziose, le parole seguenti, che poi lessi:

    “Ospite,salute: se tu hai sentito parlare delle nozze del Re, in tal caso pesa esattamente queste parole. Attraverso di noi, lo sposo ti offre la scelta di quattro vie per ognuna delle quali potrai raggiungere il Palazzo del Re, in modo che non ti perda in sviamenti. La prima è breve ma pericolosa e passa attraverso vari scogli che tu potresti superare soltanto a gran fatica. La seconda è più lunga ed è piana e facile se, con l’aiuto del Magnete, non ti lascerai sviare nè a destra nè a sinistra. La terza è in verità la Via Regia, e diversi piaceri e spettacoli del nostro Re ti renderebbero il cammino gioioso. Ma appena uno su mille può raggiungere la meta attraverso di essa. Tramite la quarta nessun uomo può arrivare al Palazzo del Re, perché essa consuma ed è adatta soltanto ai corpi incorruttibili. Scegli dunque fra queste tre vie quella che vuoi, e seguila con costanza. Sappi anche che qualsiasi via tu abbia scelta, per virtù di un destino immutabile, non ti è lecito tornare indietro che a gran rischio della tua vita.

    “Ecco quello che noi abbiamo voluto che tu sapessi, ma fa’ attenzione a non ignorare con quanto pericolo tu ti sarai affidato a questa via: infatti, se ti dovesse capitare di renderti colpevole del minimo delitto contro la legge del nostro Re, io ti prego, finché sei ancora in tempo, di ritornare al più presto a casa tua per la stessa strada che hai seguita per arrivare sin qui”.

    Appena letta questa scritta, tutta la mia gioia era di nuovo sparita e, mentre avevo cantato cosí allegramente prima, adesso cominciai a piangere: perché vedevo tutte insieme le tre vie davanti a me e sapevo che mi era concesso di sceglierne una sola. Avevo paura, se avessi preso la via rocciosa di montagna, di cadere miserabilmente nella morte; o se mi veniva in sorte la strada lunga, che avrei potuto o smarrirmi nel cammino o non compiere il lungo viaggio per un’altra ragione; non potevo neanche sperare di essere proprio quello, tra mille, che doveva scegliere la Via Regia. Vedevo ugualmente la quarta davanti a me, ma era cosí circondata da fuoco e da vapori che non potevo neanche pensare ad avvicinarmi ad essa.

    Riflettei, quindi, ad ogni possibilità: se dovessi tornare, o se dovessi scegliere una di quelle strade. Ero conscio della mia indegnità; mi consolava comunque il sogno di essere stato liberato dalla torre. Però non dovevo fidarmi arditamente di un sogno; rimasi a riflettere dunque per molto tempo, finché, a causa della mia grande stanchezza, la fame e la sete entrarono nel mio corpo. Tirai fuori quindi il mio pane e lo tagliai, il che fu avvertito da una colomba bianca come la neve che era posata su un albero e della quale non mi ero accorto. Lei, forse seguendo una sua abitudine, scese e venne dolcemente verso di me, ed io divisi volentieri il mio pane con lei: l’accettò e si ravvivò un po’ mangiandolo. La vide subito il suo nemico, un corvo nero, che scese sulla colomba, e, non curandosi di me, voleva rubare alla colomba quello che aveva, al che lei non poté fare altro che salvarsi fuggendo. I due presero il volo verso il Sud, ed io ero cosí adirato ed afflitto che corsi, senza riflettere, dietro il corvo malvagio, e senza volere percorsi la lunghezza di un acro nella via prescritta, mandai via il corvo e salvai la colomba.

    Solo allora mi accorsi che avevo agito senza pensare e che già ero entrato in una via, dalla quale non potevo tornare senza rischiare grande castigo. Me ne sarei consolato se non mi fosse dispiaciuto vivamente di aver lasciato la mia bisaccia e il mio pane sotto all’albero e di non poterli piú andare a cercare, perché, appena mi girai, mi venne incontro un vento cosí forte che mi avrebbe facilmente fatto cadere, mentre invece se continuavo per la strada non mi accorgevo di niente: cosa dalla quale capii che oppormi al vento mi sarebbe costata la vita. Cosí, accettai con pazienza la mia croce, mi misi in cammino e pensai che siccome doveva essere cosí, dovevo fare lo sforzo di arrivare prima della notte. Poiché sembrava vi fossero molte deviazioni, tirai fuori la bussola e non mi spostai neppure di un passo dalla direzione del Sud, benché la via fosse talvolta tanto impraticabile che dubitavo non poco di essa. Strada facendo pensavo continuamente alla colomba e al corvo, ma non potevo indovinarne il significato. Finalmente, vidi da lontano una vasta porta su un’alta montagna, verso la quale mi affrettai, benché stesse ad una grande distanza dalla mia strada, in quanto il Sole era già sceso dietro le montagne e non vedevo nessun altro paese dove sostare; attribuii questo a Dio, che forse avrebbe potuto volermi far continuare su questa strada ed impedire ai miei occhi di vedere la porta.

    Mi ci avvicinai in fretta, come già descritto, e arrivai che c’era ancora un po’ di luce del giorno in modo che la potevo vedere appena sufficientemente. Era davvero una porta regale splendida, nella quale erano incisi molti disegni, ognuno dei quali (come appresi dopo) aveva un suo particolare significato. In alto, sul frontone, c’erano le seguenti parole: “Procul hinc, procul ite, Prophani” (“Lontani da qui, allontanatevi, o profani”), ed altro di cui mi è stato severamente vietato di parlare. Appena arrivai sotto la porta, apparve un uomo vestito di blu cielo, che salutai in modo amichevole; egli mi ringraziò e chiese la mia lettera d’invito. Oh! Come ero contento di averla portata con me: perché avrei potuto facilmente dimenticarla, come avevano fatto anche altri, secondo quanto egli stesso mi raccontava. La presentai subito e lui non solo ne fu contento ma mi onorò molto, cosa che mi meravigliò, e disse, “Entra fratello, per me sei un invitato benvenuto”. Mi pregò di dirgli il mio nome. Quando gli risposi che ero il fratello della Rossa Rosa Croce, si meravigliò e anche di questo fu contento; poi disse: “Fratello, hai qualcosa con te per poter comprare un’insegna?”. Io risposi che la mia fortuna era piccola, ma se egli vedeva qualcosa su di me che gli piaceva, che la prendesse. Siccome mi chiedeva la mia bottiglia d’acqua, io consentii, e mi diede un’insegna d’oro, con sopra solo le due lettere S.C. (Sanctitate Constantia; Sponsus Charus, Spes Charitas – Costanza della santità; Sposo per amore; Speranza, Carità), raccomandandomi, quando questo mi avrebbe procurato del bene, di pensare a lui. Dopo di ciò chiesi quanti erano entrati prima di me, cosa che egli mi disse. Finalmente, per amicizia, mi diede una lettera sigillata per il guardiano seguente. Siccome mi trattenni abbastanza a lungo con lui, arrivò la notte e quindi fu accesa una grande torcia di pece sulla porta, perché, se qualcuno fosse sulla strada, potesse arrivarci in fretta; la via che arrivava fino al castello era chiusa tra due mura e vi erano piantati ai lati dei meravigliosi alberi con tutti tipi di frutta: e ogni tre alberi ad ogni lato della strada, erano state appese delle lanterne, che erano state accese con una torcia splendida da una bella Vergine in un vestito azzurro.

    Questo era tutto cosí maestoso e magnifico che rimasi lí piú tempo che non fosse necessario. Finalmente, dopo aver avuto abbastanza informazioni ed indicazioni, salutai amichevolmente il primo guardiano. Strada facendo, ero curioso di sapere che cosa fosse scritto nella mia lettera, ma siccome non dovevo pensare male del guardiano, dovetti frenare la mia indiscrezione e avanzare sulla strada finché raggiunsi altre porte che erano quasi identiche alle prime, solo che erano decorate da altri disegni e significati occulti. Sul frontone stava scritto “Date et dabitur vobis” (“Date e vi sarà dato”). Sotto la porta, attaccato ad una catena, giaceva un leone terribile che si alzò appena mi vide, e mi venne incontro ruggendo. A questo, l’altro guardiano, che era sdraiato su un blocco di marmo, si alzò e mi disse di non spaventarmi né preoccuparmi. Ricacciò il leone indietro e lesse la lettera che gli porgevo tremante. Poi mi disse con reverenza: “Sia benvenuto da Dio, l’uomo che volevo vedere da tanto tempo”. Nel frattempo tirò fuori anche lui un’insegna e mi chiese se la potevo scambiare. Siccome io non avevo niente altro che il mio sale, gli offrii quello ed egli lo accettò, ringraziandomi. Sull’insegna c’erano ancora una volta solo due lettere, cioè S.M. (Studio Merentis; Sal Memor, Sponso Mittendus; Sal Mineralis; Sal Menstrualis – Desiderio di meritare; Sale del ricordo; Da mandare allo Sposo; Sale minerale; Sale mestruale).

    Volevo parlare anche con lui ma si cominciò a suonare nel castello, ed il guardiano mi esortò a correre, altrimenti i miei sforzi e tutto il mio lavoro sarebbero stati inutili, perché lassú si iniziavano a spegnere le luci. Feci tanto in fretta che mi dimenticai, nella mia paura, di salutare il guardiano; ed ebbi ragione, perché non potevo correre abbastanza in fretta da non essere sorpassato dalla Vergine, dopo la quale tutte le luci si spegnevano. Non avrei neanche potuto trovare la strada se lei non mi avesse fatto luce con la sua torcia. Potei appena entrare dopo di lei, quando la porta si chiuse cosí in fretta che un pezzo del mio vestito rimase chiuso fuori, ed io naturalmente dovetti lasciarlo indietro perché né io né quelli che già chiamavano da fuori la porta potevamo persuadere il guardiano a riaprire; infatti, egli diceva di aver dato la chiave alla Vergine che l’aveva portata con sé nel cortile.

    Nel frattempo esaminavo la porta, che era cosí magnifica che non ne esiste una simile in tutto il mondo. Vicino alla porta c’erano due colonne. Sull’una era posta una statua sorridente con l’iscrizione Congratulator (Mi congratulo). Sull’altra una statua la cui figura triste nascondeva il viso; sotto di essa era scritto Condoleo (Compatisco). Insomma, scritte ed immagini erano cosi oscure e misteriose che l’uomo più abile sulla Terra non avrebbe potuto decifrarle. Se Dio lo permette, tutte quante saranno, però, portate alla luce del giorno e svelate.

    Passando sotto questa porta, dovetti ancora una volta dare il mio nome, che venne scritto per ultimo in un libro di pergamena e subito mandato con altri al grande sposo. Lí mi fu data per la prima volta la vera insegna dell’invitato, che era un po’ più piccola delle altre ma molto piú pesante, e su di essa erano le tre lettere S.P.N. (Salus per naturam; Sponsi praesentandus nuptiis (Salute per mezzo della natura – Da presentare alle nozze dello Sposo). Mi fu dato inoltre un nuovo paio di scarpe, perché il pavimento del castello era fatto tutto di marmo brillante. Dovetti dare quelle vecchie ad un povero scelto da me, tra i molti che erano seduti in buon ordine sotto la porta. Le regalai ad un vecchio; poi un paggio seguito da altri due che portavano torce, mi accompagnò in una piccola stanza. Lí mi dissero di sedermi su un banco, cosa che feci. Loro però piantarono le loro torce in due fori nel pavimento e se ne andarono, lasciandomi seduto lí da solo.

    Subito dopo, sentii un rumore ma non vidi niente, e poi fui preso da parecchi uomini; siccome io non vedevo nulla, dovetti lasciar fare ed aspettare quello che mi sarebbe successo. Mi accorsi ben presto che erano barbieri e perciò li pregai di non tenermi cosí strettamente perché ero comunque disposto a fare quello che mi avessero chiesto. Cosí mi lasciarono subito libero ed uno, che però non vedevo, mi tagliò in modo fine e ben pulito i capelli della testa, lasciando stare tuttavia i lunghi capelli grigi sulla fronte e sulle tempie.

    Devo ammettere che, in un primo momento, ero veramente disperato, perché alcuni di loro mi afferravano con tanta forza, ed io non vedevo niente, cosí che non potevo far a meno di pensare che Dio mi aveva abbandonato a causa della mia troppa curiosità. Infine, questi barbieri invisibili raccolsero diligentemente i capelli tagliati e li portarono via. I due paggi delle torce si presentarono di nuovo e risero di cuore perché io avevo avuto tanta paura. Stavano conversando un po’ con me, quando si cominciò di nuovo a suonare una piccola campanella per dare il segno (cosí mi dicevano i paggi) di radunarsi. Perciò mi dissero di seguirli, e mi illuminarono la via attraverso molti corridoi, porte e stanze in una vasta sala.

    In questa sala c’era un gran numero di invitati, di imperatori, re, principi e signori, nobili e non nobili, ricchi e poveri e plebaglia di tutti tipi che mi meravigliavano molto, e pensavo: “Che grande idiota sei stato, ad aver intrapreso un viaggio cosí duro e difficile. Guarda! Lí c’è gente che tu conosci e che magari hai stimato poco. Quelli sono tutti qui adesso e tu, con tutto il tuo pregare e supplicare, sei arrivato per ultimo e con gran fatica”. Questi ed altri pensieri mi furono ispirati dal diavolo, malgrado tutti i miei sforzi per respingerli.

    Nel frattempo mi parlavano prima uno, poi l’altro di quelli conosciuti da me: “Guarda, fratello Rosenkreuz, sei qui anche tu?”. “Sì, fratello,” rispondevo. “La grazia di Dio ha aiutato anche me ad entrare”, alla quale risposta ridevano molto, in quanto consideravano cosa ridicola aver bisogno di Dio per una impresa così da poco. Mentre chiedevo a tutti informazioni sulla strada che avevano percorsa (parecchi avevano dovuto scalare la montagna), s’incominciarono a suonare forte le trombe, che però non vedevamo, per chiamarci a tavola; molti allora si sedettero a seconda della posizione che sembrava a loro adatta: perciò c’era rimasto appena posto per me ed altra povera gente alla tavola piú bassa. Ben presto arrivarono i due paggi ed uno di loro disse una preghiera tanto bella e splendida che il mio cuore si rallegrò. Parecchi spacconi, tuttavia, non badavano a questa ma ridevano fra di loro, si facevano segni, fingevano di mangiarsi i capelli e facevano altri scherzi di questo genere.

    Dopo di che venne portato da mangiare, e benché non si vedesse nessuno, tutto era fatto con un tale ordine che mi sembrava che ogni invitato avesse il suo proprio servitore. Quando poi gli ospiti si furono rilassati un po’ e il vino ebbe tolto parte del ritegno dai loro cuorì, si vantarono tutti, facendo sfoggio dei loro poteri. Uno voleva tentare questa cosa, l’altro quell’altra e gli idioti piú grandi facevano il fracasso maggiore. Quando penso alle cose innaturali ed impossibili che li ho sentiti voler fare, provo ancora oggi indignazione. Per finire si cambiarono di posto, ma gli adulatori s’infilavano tra i signori e si vantavano di imprese che né Sansone né Ercole con tutta la loro forza avrebbero potuto fare. Uno voleva liberare Atlante del suo peso, l’altro voleva tirar fuori di nuovo dall’inferno Cerbero, dalle tre teste. Insomma, ognuno aveva il suo vanto, e i grandi Signori erano cosí stupidi da prestar loro fede. I malvagi cosí audaci che, benché qualcuno ricevesse ogni tanto un colpo di coltello sulle dita, non ci badavano. Quando uno diceva di essersi impadronito di una catena d’oro, tutti gli altri andavano avanti in questo senso, in concorso uno con l’altro. Ho visto uno pretendere di sentire il suono dei cieli. Un altro poteva vedere le idee di Platone. Un terzo voleva contare gli atomi di Democrito. C’erano anche non pochi che avrebbero scoperto il perpetuum mobile.

    A mio parere, parecchi avevano una buona intelligenza, solo che, sfortunatamente per loro, essi stessi ne avevano un’opinione troppo buona. Finalmente c’era anche uno che voleva convincerci che vedeva i servitori che servivano a tavola, e sarebbe andato avanti per un po’ di tempo, se uno dei servitori invisibili non gli avesse dato un colpo sul suo muso da mentitore, di modo che non solo lui, ma anche molti che erano vicino a lui diventarono silenziosi come le mummie. Mi fece molto piacere, però, vedere che quelli che stimavo di piú si comportavano ben tranquillamente e non alzavano la voce, ma riconoscevano di essere degli ignoranti, per i quali i segreti della Natura erano troppo elevati, come loro erano troppo inadeguati. In mezzo a questo tumulto mi sarei quasi pentito del giorno del mio arrivo lí: perché mi faceva male vedere che c’era gente disonesta e frivola alla tavola piú alta, mentre io non potevo rimanere in pace anche in un posto cosí basso, perché uno di quegli scellerati mi scherniva come pazzo completo. Io non pensavo che ci sarebbe stata un’altra porta da passare, ma immaginavo che avrei dovuto passare tutte le nozze deriso e disprezzato, cosa che non avevo meritato né dallo sposo né dalla sposa, e stimavo dunque che essi avrebbero dovuto perciò trovare un altro che facesse da buffone per le loro nozze. Guardate come la diseguaglianza di questo mondo induce le anime semplici ad una mancanza di rassegnazione; ma questa era una parte della mia infermità, della quale avevo sognato, come dicevo prima. E il tumulto aumentava sempre di piú, a causa di quelli che si vantavano di storie false e inventate e volevano far credere a dei sogni evidentemente non veri. C’era, però, un uomo di buone maniere e tranquillo seduto accanto a me che parlava ogni tanto di cose belle ed interessanti. Finalmente disse: “Guarda, fratello, se arrivasse uno per mettere questa gente impenitente sulla strada giusta, verrebbe ascoltato?”. “No di certo,” risposi. “Così”, disse lui, “il mondo vuole essere forzato ad illudersi e non vuole ascoltare quelli che gli vogliono bene. Vedi con quali immagini pazze e pensieri stupidi egli tira la gente a sé. Lí uno sbeffeggia la gente con parole occulte mai sentite. Ma, credimi, verrà il tempo in cui le maschere saranno tolte dal viso di questi truffatori per mostrare a tutto il mondo che genere di ingannatori nascondevano. Allora saranno ancora una volta rispettate quelle cose che sono disprezzate da tanto tempo.”

    Mentre parlava cosí, e il rumore, perdurando, diventava sempre peggiore, si levò inattesa nella sala una musica cosí dolce e solenne che non ho mai sentito qualcosa di simile durante tutta la mia vita; ad essa, tutti tacquero per aspettare cosa ne sarebbe seguito. Questa musica era fatta da tutti i tipi di strumenti a corda che si possono immaginare, accordati con tanta armonia, che mi dimenticai di me stesso e rimasi seduto lí senza alcun movimento, di modo che quelli seduti vicino a me si meravigliavano. Questo durò quasi mezz’ora, durante la quale nessuno di noi disse una sola parola, perché, appena uno voleva aprire la bocca, riceveva un colpo inaspettato su di essa, senza sapere da dove veniva. Pensavo che, siccome non potevamo vedere i musicisti, avrei voluto vedere almeno gli strumenti che usavano. Dopo una mezz’ora la musica smise all’improvviso e non vedemmo né sentimmo niente altro.

    Subito dopo si levò un grande fragore e suono di tromboni, e un rullío di tamburi di guerra davanti alla porta della sala, il tutto cosí maestoso che sembrava che stesse per entrare un imperatore romano. Poi la porta si aprí da sola, di modo che le trombe diventarono cosí forti che quasi non potevamo sopportarne piú il suono. Nel frattempo entravano nella sala migliaia di luci che, da sole, si tenevano nel giusto ordine, di modo che noi ci spaventammo molto, finché i due paggi già menzionati prima entrarono nella sala portando delle torce brillanti ed illuminando la strada ad una Vergine bellissima seduta su di uno splendido trono d’oro che si muoveva da solo; mi sembrava che fosse la stessa che prima aveva acceso e spento le luci sulla strada, e che fossero proprio esse i suoi servitori: le medesime luci che aveva posto prima negli alberi. Lei non era piú vestita di azzurro ma aveva un abito splendente in bianco puro, che brillava di oro ed era cosí luminoso che non potevamo guardarla con insistenza. I due paggi erano vestiti nello stesso modo, ma un po’ meno splendidamente. Quando fu arrivata in mezzo alla sala e scese dal trono, tutte le luci s’inchinarono davanti a lei. Noi ci alzammo tutti dai nostri banchi, ma rimanemmo ognuno al proprio posto.

    Dopo che lei ci ebbe salutati onorevolmente, e ci ebbe dimostrato ogni riverenza e onore, e anche noi a lei, incominciò a parlare con voce dolcissima:

    “Il Re, il mio grazioso Signore,

    Che adesso non è molto lontano,

    Come anche la sua carissima sposa,

    Affidata a lui in onore,

    Hanno già visto con grande gioia,

    Il vostro arrivo.

    Onorano del loro favore ognuno di voi,

    E dal fondo del cuore ad ogni istante,

    Vi augurano che abbiate successo,

    Di modo che alla gioia delle loro prossime nozze,

    Non venga mischiata la sofferenza di nessuno.”

    Poi s’inchinò con cortesia, e insieme a lei tutte le sue luci, e subito dopo cominciò come segue:

    “Sapete che nella lettera d’invito,

    Non fu chiamato qui nessuno,

    Che non abbia ricevuto i doni piú belli

    Da Dio tempo addietro,

    E che non sia preparato con rigore,

    Come occorre in tali cose;

    Perciò non credo

    Che nessuno sia stato cosí audace,

    Sotto tali condizioni difficili,

    Da presentarsi qui

    Senza essersi preparato da molto tempo

    Per le nozze.

    Perciò essi hanno buone speranze

    Che vada tutto bene per voi,

    E sono felici di trovare tanta gente,

    In tempi cosí difficili.

    Ma gli uomini sono cosí audaci

    Che la loro grossolanità non li ferma,

    E si spingono avanti

    In posti dove non furono chiamati.

    Dunque, perché i furbi

    Non possano truffare,

    E nessun indegno s’intrufioli fra gli altri;

    E perché loro possano celebrare presto delle nozze pure

    Senza dover nascondere nulla,

    Domani sarà montata

    La Bilancia degli Artisti

    Per pesare accuratamente

    Quello che ognuno ha dimenticato a casa:

    Se si trova qualcuno in questa folla,

    Che non abbia completa fiducia in sé,

    Egli deve mettersi da parte in fretta,

    Perché se accade che rimanga qui,

    Non riceverà più grazia,

    E domani sarà punito.

    Quelli che vogliono sondare la loro coscienza,

    Dovranno restare qui, oggi, in questa sala,

    E fino a domani saranno liberi,

    Ma che non tornino piú qui!

    Se qualcuno è sicuro del suo passato,

    Che vada col suo servitore,

    Che gli mostrerà la sua camera;

    Lí potrà riposarsi bene oggi,

    Aspettando la gloria della Bilancia:

    Altrimenti avrà un sonno molto difficile;

    Gli altri staranno meglio qui.

    Perché colui che pretende troppo,

    Farebbe meglio a fuggir via.

    Si spera che ognuno agisca per il meglio.”

    Appena finito di dire queste parole, s’inchinò ancora una volta, e salì con gioia sul suo seggio: poi cominciarono a suonare ancora una volta le trombe, che però non potevano fermare i sospiri pesanti di molti di noi: infine i suonatori invisibili la condussero fuori, mentre la maggior parte delle luci rimanevano nella sala, ognuna legandosi ad uno di noi. In un tale perturbamento non è possibile esprimere quali pensieri deprimenti e quali gesti di disperazione furono scambiati. La maggior parte era sempre decisa a tentare la Bilancia e, se non fossero stati all’altezza, ad andarsene in pace (cosí speravano). Avevo riflettuto in fretta, e siccome la mia coscienza mi aveva convinto della mia mancanza di comprensione e della mia indegnità, decisi di rimanere nella sala con altri e di contentarmi del posto che avevo ricevuto piuttosto che proseguire con pericolo. Dopo che gli altri se ne furono andati un po’ per volta alle loro camere (ognuno nella sua, come ho saputo dopo), guidato ciascuno dalla propria luce, rimanemmo in nove, compreso quello che aveva parlato con me a tavola; ma le nostre luci non ci abbandonarono.

    Dopo un’oretta, uno dei paggi venne portando un rotolo di corda, e ci chiese in tono solenne se eravamo decisi a restare lí; quando demmo la conferma, sospirando, egli ci legò, ognuno in un posto speciale, e sparí con le nostre luci, lasciando noi poveretti nel buio. Allora cominciarono a scorrere le lacrime a molti, ed anche io non potei trattenere le mie. Benché non fosse vietato parlare, l’angoscia e la miseria facevano tacere tutti. La corda era fatta in modo particolare, sicché nessuno poteva romperla né toglierla dai piedi. Mi consolava però sempre il pensiero che molti di coloro che erano andati a dormire avrebbero poi subìto una grande vergogna, mentre noi potevamo espiare la nostra audacia in una sola notte. Finalmente mi addormentai con i miei pensieri tormentosi: benché la maggior parte del nostro gruppo non chiudesse gli occhi, io ero cosí stanco che non potei fare altrimenti.

    Nel mio sonno ebbi un sogno che forse non ha molto significato, ma che ritengo comunque utile raccontare. Mi parve di essere su un’alta montagna con una grande vallata larga davanti a me. In questa vallata c’era una grande folla di persone, ognuna delle quali aveva un filo attaccato alla testa, col quale era appesa al cielo. Alcuni erano appesi in alto, altri in basso e parecchi stavano quasi sulla terra. Ma c’era un vecchio che volava nell’aria portando a mano una forbice, con la quale tagliava ognì tanto il filo a qualcuno. Quelli che erano vicini al suolo erano piú rapidamente a posto e cadevano senza rumore, ma quando toccava ad uno in alto, cadeva in modo da far tremare la terra. Alcuni avevano la fortuna di sentir scendere al suolo il loro filo, in modo che erano già sulla terra prima che questo fosse tagliato. Un simile capitombolare mi divertiva molto, e mi piaceva fino in fondo al cuore quando uno che si era alzato al di sopra delle sue capacità cadeva giú con tanta vergogna, e magari trascinava con sé alcuni di coloro che erano vicini. Ero anche felice quando uno che era sempre rimasto vicino a terra poteva venir giú cosí tranquillamente e dignitosamente che neanche i suoi vicini se ne accorgevano.

    Al colmo della mia felicità venni per caso spinto da uno dei miei compagni di prigionia, in modo che mi svegliai e mi irritai con lui. Poi ricordai il mio sogno, e lo raccontai al mio fratello che era steso accanto a me dall’altro lato. Gli piacque, e sperò che fosse il presagio di un aiuto. Passammo il resto della notte in questa conversazione ed aspettammo il giorno con grande desiderio.

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GRANDI MASSONI

Grandi Massoni: La Massoneria ha visto presenti tra le Colonne dei suoi Templi figure di uomini di statura eccezionale, che con le loro imprese hanno lasciato tracce incancellabili della loro esistenza, in tutti i campi d’azione dell’uomo. Tra questi giganti nella storia dell’umanità ricordiamo: Y (Industria) 1) Henry Ford (1863-1947), un personaggio proveniente dalla proverbiale gavetta, ha sempre deprecato la carità professionale, adoprandosi invece per costruire un’industria organizzata a servizio sociale, ovvero un sistema capace di eliminare la necessità della filantropia attraverso sistematici interventi del sistema produttivo su quello assistenziale. I suoi sforzi furono coronati dal più lusinghiero dei successi, avendo realizzato un colosso mondiale nella produzione automobilistica. Era solito ripetere che “il fondamento dell’economia è il lavoro. Il lavoro è l’elemento umano che rende utili agli uomini le stagioni fruttifere della terra. É il lavoro umano a rendere proficuo il raccolto dei campi. Questo è il fondamento economico: ciascuno di noi lavora con materiali che noi non creammo né potevamo creare, ma che ci furono offerti dalla natura, cioè da Dio. Fondamento morale è il diritto dell’uomo sulla sua attività. Esso è diversamente statuito: è chiamato talvolta diritto alla proprietà, talaltra è mascherato nel comando “tu non devi mai rubare”. É il diritto di proprietà di un altro uomo che fa del furto un crimine. Quando un uomo si è guadagnato il suo pane, egli acquisisce il diritto a questo pane. Se un altro uomo glielo ruba, questi fa molto più che rubar pane: egli invade un sacrosanto diritto umano”. 2) Vittorio Valletta (1883-1967) è stato per circa cinquant’anni ai vertici della massima fabbrica automobilistica italiana. Un’industria, la FIAT di Torino, che sotto la sua guida doveva trasformarsi da modesta a colosso industriale internazionale. É stato l’uomo della “Topolino”, ed ancor più della “500” e della “600”, ed il suo nome evoca il tempo del cosiddetto miracolo economico degli anni 50 e 60, quando l’Italia cominciava a muoversi in massa su quattro ruote, consumando in progressione geometrica. Iniziato intorno al 1920, su invito dell’affermato avvocato torinese Giuseppe Di Miceli, fu fratello di Loggia del collega commercialista Luciano Jona (poi per anni presidente dell’Istituto Bancario San Paolo di Torino), fu “dormiente” nel corso dell’intero periodo fascista, assumendo nei confronti del regime un aspetto camaleontico. Lo stesso atteggiamento tenne nei confronti delle più alte gerarchie della Chiesa cattolica. Forse non aveva altra scelta, intendendo egli mantenere quel potere che ormai era nelle sue mani, un potere indispensabile per conseguire gli obbiettivi che intendeva perseguire. Nel dopoguerra ristabilì i suoi contatti con il G.O.I., ma soltanto a livello di Loggia coperta, restando così relegato agli essoterici margini elitari dell’istituzione muratoria. Occorre qui porre in risalto la certezza che, se nei vari periodi di intemperie storiche la Massoneria avesse affidato le proprie sorti a fratelli tanto potenti quanto iniziaticamente tiepidi come Valletta, l’Ordine sarebbe sicuramente estinto da molto tempo. Y (Sindacalismo) Il 28 settembre 1864 si costituì a Londra la prima “Internazionale”, denominata Associazione Internazionale dei Lavoratori. La prima sua sezione italiana venne fondata in una casa massonica dal fratello Enrico Bignami (1846-1921). seguendo una consuetudine di reciproca ospitalità tra le associazioni democratiche dell’epoca. Tra gli internazionalisti massoni della prima ora vi fu anche il leggendario Amilcare Cipriani (1844-1918), che restò fedele agli ideali muratori fino alla morte, pur non avendoli mai compresi appieno. Il più significativo esempio di sindacalista massone fu senz’altro Giuseppe Giulietti (1879-1953), per lungo tempo carismatico segretario generale della Federazione Italiana Lavoratori del Mare, oppresso dal regime fascista ed incompreso nella stessa istituzione massonica che addirittura lo inquisì per attività sovversive, senza valide ragioni. In nazioni straniere si dintinsero vari massoni sindacalisti, tra i quali: E. Vandervelde (1866-1938), fondatore del partito opraio belga, W. Leuschner (1890-1944), dirigente della Federazione Tedesca del Lavoro, ucciso dai nazisti, S. Gompers (1850-1924), fondatore dell’American Federation of Labor, che poi orientò pragmaticamente, prendendo le distanze dal socialismo marxista, John L. Lewis (1880-1969), leader indiscusso della United Mine Workers, il potente sindacato dei minatori, che guidò nel grande “sciopero del carbone”, grazie al quale i minatori, per primi e nel primo dopoguerra, ottennero l’orario ridotto ad otto ore giornaliere. Y (Pacifisti) in questo particolare ambito, il massone più rappresentativo fu probabilmente Léon-Victor Bourgeois 1851-1925), presidente della Società delle Nazioni (la prima versione dell’ONU) ed assertore dell’arbitrato internazionale, premio Nobel per la Pace nel 1920, Carl von Ossietzky (1889-1938), pacifista socialista indipendente, un dinamico antidogmatico di incondizionata solidarietà con la causa proletaria, premio Nobel per la Pace nel 1935, Daniel Carter Beard (1850-1941), leader dello Scoutismo internazionale, R,D. Abernathy (n. 1926), il pastore battista che guidò la “marcia dei poveri” su Washington nel 1968, Martin Luther King sr. (1900-1984), anch’egli pastore battista, carismatico attivista del movimento non violento per i diritti civili negli U.S.A. Y (Militari) Sono molti i massoni che si sono distinti negli eserciti di tutto il mondo, che spesso hanno portato alla costituzione di vere e proprie Logge militari, talvolta operative negli stessi luoghi in cui combattevano. Tra questi ricordiamo: Horatio Nelson (1758-1805), ammiraglio inglese, il celebre vincitore sulla flotta francese a Trafalgar, dove morì, Arthur Wellesley 1° duca di Wellington (1769-1852), comandante dell’esercito vincitore a Waterloo (1815) sulle truppe di Napoleone Bonaparte, Marie-Joseph-Paul de Motier, marchese di La Fayette (1757-1834), generale e uomo politico francese, dal 1777 attivo e stretto collaboratore di Giorgio Washington (v.) durante l’intera guerra d’indipendenza americana, Paul Peigné (1844-1919), generale francese, inventore balistico, mirabile esempio di separatore della figura professionale da quella massonica, Luigi Capello (1859-1941), generale dell’esercito italiano, ingiustamente accusato quale responsabile della disfatta di Caporetto, John J. Pershing (1860-1948), capo delle forze armate statunitensi durante la prima guerra mondiale, sempre ostentatamente un massone che considerava l’Ordine come un’istituzione patriottica, Omar Bradley (1893-1981), capo delle truppe alleate sbarcate in Normandia, Mark Wayne Clark (1896-1984), capo dell’offensiva alleata sul fronte italiano, apoteosi della seconda guerra mondiale, Douglas MacArthur (1880-1964), comandante supremo delle Forze Alleate nel Pacifico meridionale(1942). Y (Polizia)Soprattutto nel mondo anglosassone la Massoneria annovera numerosi affiliati tra le forze di polizia, dall’inglese Scotland Yard all’americana F.B.I. alla Mounted Police canadese. La famigliarità tra Logge e corpi anticrimine data all’epoca della milizia coloniale americana del ‘700, manifestandosi nella drammatica fase della “frontiera” quando nel 1863, in Montana, un gruppo di pionieri e cercatori d’oro, in prevalenza Massoni, si accordò sul “Vigilante oath”. Era il giuramento che sanciva la giustizia sommaria nei confronti dei responsabili di brigantaggio colti in flagranza di reato. Tra quanti hanno costruito la storia dei corpi di polizia del XX secolo spicca John Edgar Hoover (1895-1972), per vari decenni capo del Federal Bureau of Investigations (F.B.I.). Y (Cosmopoliti)Il letterato massone Christoph M. Wieland (1733-1813) sosteneva che “i cosmopoliti portano il nome di cittadini del mondo, poiché considerano tutti i popoli della terra come altrettanti rami di un’unica famiglia, e l’universo come uno stato di cui essi sono cittadini, per contribuire, sotto le leggi universali della natura, alla perfezione dell’insieme”. Il filosofo massone Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), codificatore dell’idealismo patriottico attraverso i suoi Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794), affermava che “come ogni cosa terrena per il Massone significa soltanto l’eterno, e solo per quest’eterno, di cui egli riconosce in essa la spoglia mortale, ha valore ai suoi occhi, così per lui tutte le leggi e gli ordinamenti del suo Stato e tutte le circostanze del suo tempo significano solo l’intero genere umano, e solo all’intero genere umano si riferiscono. Nel suo animo amor di patria e sentimento cosmopolita sono intimamente congiunti, stanno anzi entrambi in preciso rapporto: l’amor di patria è in lui l’azione, il sentimento cosmopolita è il pensiero; il primo è il fenomeno, il secondo è lo spirito interiore del fenomeno stesso, l’invisibile nel visibile”. Y (Patrioti) Tra quanti si distinsero per la dedizione ai più elevati ideali del patriottismo, ricordiamo i massoni Benjamin Franklin (1706-1790), artefice culturale e diplomatico della nuova grande America, Gustav Stresemann (1854-1943), Cancelliere e poi Ministro degli Esteri tedesco, promotore dell’ammissione della Germania nella Società delle Nazioni che, allorché raggiunto lo scopo, lodò apertamente il Grande Architetto dell’Universo, Simon Bolivar (1783-1830), liberatore del Venezuela dalla dominazione spagnola, Francisco Antonio Gabriel de Miranda (1750-1816), generalissimo e dittatore venezuelano, promotore dell’indipendenza dell’America latina, José Napoleon Duarte (1931-1990), presidente della repubblica salvadoregna, Salvador Allende Gossens (1909-1973), presidente della repubblica cilena, spodestato ed ucciso in un golpe militare guidato da Pinochet, Bernardo O’Higgins (1776-1842), uomo politico liberale cileno, capo della rivoluzione antispagnola del 1811, Josè Martì (1853-1895), scrittore e combattente per l’indipendenza di Cuba dal giogo spagnolo, Benito Pablo Juarez (1806-1872), uomo politico messicano, capo della rivolta contro Massimiliano d’Austria (1864), presidente della repubblica del Messico dal 1867 alla morte, José Mercado Rizal (1861-1896), eroe nazionale filippino, Eleutherios Venizelos (1864-1936), capo della rivolta cretese contro i turchi, proclamatore dell’unione di Creta alla Grecia nel 1805, Mustafa Kemal Atatürk (1880-1938), generale e statista, depose il sultano Maometto V e proclamò la repubblica turca, di cui fu presidente fino alla morte, Lajos Kossuth (1802-1894), protagonista della rivolta ungherese contro la dominazione asburgica, presidente della repubblica ungherese fino all’esilio impostogli dallo zar Nicola I, Pasquale Paoli (1725-1807), capo della lotta dei corsi contro Genova che rioccupò l’isola con l’aiuto dei francesi, per cedere poi definitivamente la Corsica alla Francia nel 1769, Marthinus Wessels Pretorius (1819-1901), uomo politico boero, presidente del Transvaal (1857) e dell’Orange (1860), Giuseppe Garibaldi (1807-1882), l’eroe dei due mondi, uno degli artefici dell’Unità d’Italia, e tra i suoi mille Nino Bixio (1821-1873), storico dei mille, difensore della repubblica romana (1849), deputato e poi senatore del Regno d’Italia, ed Aurelio Saffi (1819-1873). triunviro con Mazzini ed Armellini nel governo della repubblica romana, concorse valorosamente alla difesa di Roma, e poi esiliato a Londra. Y (Esperantisti) Uno dei campi d’azione cosmopolita nei quali l’intervento diretto di singoli massoni s’è fatto sentire è quello linguistico, particolarmente intorno al progetto esperantista, che dal 1889 catalizza le energie di numerosi “cittadini del mondo”. Tra questi ricordiamo Ludovico Lazaro Zamenhof (1859-1917), oculista polacco, di origini ebree, geniale creatore dell’Esperanto, fondatore nel 1905 della Universala Framasona Ligo, mediatrice tra massonerie regolari ed irregolari, Mario Dazzini (1910-1985), attivissimo nell’ambiente esperantista mondiale, presidente della Federazione Esperantista Italiana, e Carlo Gentile (1920-1984), ricercatore esoterico, grande animatore dell’esperimento massonico esperantista italiano. Y (Cinema) Tra i massoni che sono o sono stati grandi registi e produttori cinematografici, ricordiamo: Jack Warner (n. 1916), William Wyler (1902-1981), Louis B. Mayer (1885-1957), Darryl Zanuch (1902-1979), Adolph Zukor (1873-1976), Cecil Blount De Mille (1881-1959), Walt Disney (1901-1966) e Guido Brignone (1887-1959). Numerosi gli attori massoni, tra cui celebri sono stati: Tom Mix (1880-1940), Douglas Fairbanks (1883-1939), Wallace Beery (1889-1949), Donald Crisp (1880-1974), Oliver Hardy (1892-1957), Clark Gable (1901-1960), John Wayne (1907-1979), Ernest Borgnine (n. 1918), ed in Italia Gino Cervi (1901-1974), Amedeo Nazzari (1907-1979) ed il grande comico Antonio de Curtis detto Totò (1898-1967). Y (Teatro)Numerosissimi sono gli autori teatrali italiani iniziati alla Massoneria, tra i quali:Carlo Goldoni (1707-1793), Sem Benelli (1877-1949), Annibale Ninchi (1887-1967), Giovacchino Forzano (1884-1970) e Ludovico Parenti (n. 1938), mentre tra gli attori teatrali italiani sono da citare Gustavo Modena (1803-1851), Ernesto Rossi (1827-1896), Tommaso Salvini (1829-1915), Cesare Rossi (1829-1898), Ermete Novelli (1851-1919), Ruggero Ruggeri (1871-1953), Angelo Musco (1872-1947), Ettore Petrolini (1886-1936), Renzo Ricci (1899-1978), Riccardo Billi (1906-19872) e Paolo Stoppa (1906-1988). Y (Sport) Celebri figure massoniche nelle attività sportive ricordiamo: Giuseppe Evangelisti (1873-1935), pioniere del ciclismo, Alexander Joy Cartwright (1820-1892), pioniere del baseball, James Naismith (1861-1939), pioniere della pallacanestro, e tra i grandi pugili Daniel Mendoza (1764-1832), Ray “Sugar” Robinson (1920-1989), William Harrison “Jack” Dempsey (1895-1983), Jack A. Johnson (1878-1946); infine Sir Malcom Campbell (1885-1948), che alla guida della mitica auto “Bluebird” stabilì, e mantenne a lungo, il record mondiale di velocit

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LA MASSONERIA è ANCORA IN GRADO DI POTER MANTENER LE SUE PROMESSE . . .

“La Massoneria è ancora in grado di poter mantenere le sue promesse di fronte all’ondata di wellness (benessere) spirituale che tenta di soddisfare l’individualismo dei nostri contemporanei? Il R.S.A.A. potrà giocare ancora un ruolo importante nel processo di rinnovamento spirituale?”

°  °  °

Per affrontare correttamente l’argomento, occorre chiarire che cosa sia e da dove nasca il Wellness spirituale. Si deve anzitutto osservare come, a dispetto del nuovo ordine economico mondiale, fondato sul capitalismo finanziario, l’anelito dell’uomo al sacro non si sia estinto e non si sia esaurita la spinta propulsiva verso la spiritualità. Il nuovo secolo continua a essere fondato sul “mito”, piuttosto che sul “logos”, con una forte caratterizzazione religiosa. La crisi economica planetaria favorisce, però, il diffondersi di una religiosità disordinata, non sempre ancorata alle grandi religioni monoteistiche.

   La sociologa francese F. Champion parla di una “nebulosa mistico-esoterica”, formata da un certo tipo di mentalità con alcune caratteristiche fondamentali, quali: il primato dell’esperienza personale e solitaria, la concezione olistica del mondo, un moderato ottimismo, il tentativo di trasformare se stessi attraverso tecniche psico-esoteriche, la ricerca di esperienze fuori dell’ordinario. Possiamo sintetizzare tutto questo come ricerca di una felicità esclusivamente individuale.

   Questa “nebulosa” teorizzata dalla sociologa è un condensato di Neopaganesimo, di New-Age e di Next-Age.

   La New-Age, movimento sorto in California negli anni ’60 del secolo scorso, si basa su dottrine e tecniche psico-spirituali e raccoglie, attorno ad alcuni sentimenti e convinzioni condivise, individui che farebbero fatica a trovare un comune denominatore. E’ una corrente spirituale che non fa riferimento a una Chiesa o a un Ordine Iniziatico, ma piuttosto a una costellazione di gruppi diversi collegati da alcune idee e aspirazioni comuni. Essa si fonda sull’avvento imminente dell’Età dell’Acquario, ricca di una nuova spiritualità che permetterà di uscire dalla gravità della materia.

    La Next-Age è un’evoluzione della New-Age e nasce a metà degli anni ’80, sulla spinta della disillusione diffusa verso il concetto di felicità collettiva, che porta a declinare l’idea di felicità alla prima persona singolare anziché a quella plurale.

Da questa sub-cultura, che abbandona l’utopia per l’edonismo privato e narcisistico, nasce il Wellness spirituale contemporaneo, la ricerca del benessere soggettivo e personale.

   Molti studiosi sono convinti che l’Era del Wellness e della Next-Age sia in fase di conclusione, poiché si ritiene che non sia più il tempo di benessere personale o di narcisismo individualistico. Un’epoca si sta chiudendo e non potrà più tornare: l’egemonia economico-culturale della Civiltà occidentale si è notevolmente ridotta e il Capitalismo globale ha già scelto i suoi nuovi territori sui quali far circolare risorse e capitali. L’Occidente sopravvivrà, ma non potrà più fungere da faro del Mondo; con la fine del modello occidentale, necessariamente, cesserà un certo stile di vita consumistico e edonistico. Il crepuscolo dell’Occidental Way si porterà dietro anche Next-Age e Wellness, perché finirà per sempre l’individualismo occidentale.

   La risposta alla domanda se la Massoneria sia in grado di far fronte al Wellness è, a mio avviso, affermativa in quanto, nella logica di quanto esposto in precedenza e nell’attesa che la pretesa occidentale di una sorta di esclusiva del benessere imploda del tutto, la Massoneria e soprattutto il R.S.A.A. possono e devono svolgere un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento spirituale dell’umanità. Il compito di un Ordine Iniziatico è essenzialmente di tipo spirituale: aiutare l’uomo a liberarsi dai vincoli e dalle illusioni del mondo materiale. L’uomo occidentale ha bisogno di ritrovare una visione del mondo che non sia basata sui valori che hanno dominato in questi anni: materialismo, storicismo, ottuso razionalismo. Il Rito Scozzese Antico ed Accettato, permeato di una spiritualità autentica, può aiutare l’individuo a ritrovare la Tradizione, dando supporto e sostegno a chi decide di percorrere la Via Iniziatica.   

   Forgiare degli autentici Massoni diventa fondamentale, non soltanto per trarre dalle tenebre materiali la forma esoterica in parte dimenticata, ma per formare uomini sempre più importanti nella società civile, quali portatori di valori spirituali universali capaci di sconfiggere l’individualismo più deleterio.

Eros Rossi 33 \

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LE NOZZE CHIMICHE DI CHRISTIAN ROSEKREUK – PRIMO GIORNO

Le Nozze Chimiche di Christian Rosenkreuz

Anno 1459

PRIMO GIORNO

    Una sera, prima della Pasqua, ero seduto al mio tavolo secondo la mia abitudine, mi intrattenevo lungamente col mio Creatore in umile preghiera. Meditavo i grandi segreti che il Padre della Luce, nella sua Maestà, mi aveva lasciato contemplare in gran numero. Mentre volevo preparare nel mio cuore un pane azzimo senza macchia, con l’aiuto del mio amato Agnello pasquale, all’improvviso si levò un vento così terribile che non potei far a meno di pensare che la montagna nella quale era scavata la mia dimora sarebbe crollata a causa della sua grande violenza. Poiché non mi sorprendevo di questo o di cose simili, che venivano di solito dal diavolo (il quale mi aveva procurato molta sofferenza) mi feci animo e continuai nella mia meditazione, finché qualcuno mi toccò, inaspettato, sulla spalla, e fui tanto spaventato da questo che quasi non potei girarmi, sebbene allo stesso tempo restassi così tranquillo come la debolezza umana può permettere in tali circostanze. E poiché mi venne tirato parecchie volte il vestito, voltai infine lo sguardo e lì v’era una donna di splendente bellezza, dal vestito azzurro e graziosamente disseminato di stelle d’oro, come il cielo. Nella mano sinistra portava una tromba, tutta d’oro, sulla quale era inciso un nome, che potei leggere chiaramente, ma che in seguito mi fu vietato di svelare. Nella mano destra portava un grande fascio di lettere, in varie lingue, che lei (come ho saputo dopo) doveva portare in ogni Paese del mondo. Aveva anche delle ali grandi e belle, tutte piene di occhi, con le quali poteva prendere il volo e volare più velocemente di un’aquila.

    Avrei potuto forse notare qualcos’altro di lei, ma siccome rimase così poco con me e mi causò tanto spavento e tanta meraviglia, non posso dirne di più, eccetto che, quando mi voltai, frugò tra le sue missive, e tirò fuori finalmente una letterina, che mise sul tavolo con grande reverenza e, senza neanche una parola, se ne andò. Nel prendere il volo soffiò però con tanta forza nella sua tromba, che tutta la montagna ne risonò, e per quasi un quarto d’ora non riuscii a sentire più nemmeno la mia voce. In un’avventura così inaspettata, io, povero me, non sapevo consigliarmi nè aiutarmi: perciò caddi sulle ginocchia e pregai il mio Creatore perché non mi lasciasse accadere nulla contro la mia salvezza eterna. Poi presi, spaventato e tremante, la lettera, la quale era così pesante che, anche se fosse stata di oro puro, non avrebbe potuto esserlo di più. Mentre l’esaminavo con attenzione, vidi un piccolo sigillo col quale era chiusa. Su questo era incisa una croce sottile con l’iscrizione: “In hoc signo vinces”. Dal momento che trovai questo segno fui più rassicurato, perché sapevo che un tale segno non piace al diavolo, e ancora meno viene usato da lui. Perciò aprii con cura la lettera: dentro trovai, scritti su fondo blu con lettere d’oro, i versi seguenti:

    “Oggi, oggi, oggi,

    Sono le nozze del re.

    Se tu sei nato per questo,

    Eletto da Dio per la gioia,

    Puoi andare sulla montagna,

    Dove sono tre templi,

    Ad assistere agli avvenimenti.

    Stai attento,

    Guarda te stesso,

    Se tu non ti purifichi con cura,

    Le nozze possono farti male.

    Colui che è contaminato è in pericolo,

    Colui che pesa troppo poco, che si guardi!”

    Sotto era scritto: Sponsus et Sponsa.

    Quando lessi questa lettera, quasi persi i sensi, tutti i capelli mi si rizzarono sulla testa e un sudore freddo mi corse su tutto il corpo, perché, anche se mi ero accorto che queste erano le stesse nozze che mi erano state annunciate sette anni prima da un viso umano, e che aspettavo con grande desiderio da tanto tempo e che avevo trovato finalmente dopo calcoli rigorosi delle mie tavole dei pianeti, non avrei mai previsto che sarebbero avvenute in condizioni così dure e pericolose.

    Prima, avevo pensato che avrei dovuto solo presentarmi alle nozze, che sarei stato un ospite caro e benvenuto. Ma ora che tutto dipendeva dalla Grazia di Dio, della quale non ero sicuro neanche adesso, quanto più mi pesavo, tanto più trovavo che nella mia testa non c’era niente altro che una grande mancanza di comprensione ed una cecità delle cose segrete: a tal punto che non sapevo neppure comprendere quello che stava sotto i miei piedi e le cose con le quali vivevo ogni giorno, e tanto meno ritenevo di essere nato per la ricerca e la conoscenza dei segreti della Natura. Secondo la mia opinione, infatti, la Natura avrebbe potuto trovare un discepolo molto più virtuoso al quale affidare il suo tesoro, sia pur temporaneo e passeggero. Trovavo anche che il mio corpo e il mio comportamento (sia pure esternamente buono) e il mio amore verso il prossimo non erano ben purificati e puliti. Così pure si manifestava ancora il pungolo della carne, ed i sensi trovavano il loro piacere nelle apparenze magnifiche e nella pompa del mondo, e non nel far del bene al prossimo; pensavo sempre a come avrei potuto agire per il mio profitto attraverso la mia arte, costruire palazzi splendidi, farmi un nome eterno nel mondo ed altri simili pensieri carnali.

    Tuttavia, erano le parole oscure circa i tre templi, che non riuscivo a risolvere con nessuna meditazione, che mi preoccupavano particolarmente. Non sapevo forse neanche ancora quando tutto questo mi sarebbe stato meravigliosamente svelato. Trovandomi in tale spavento e speranza, andavo su e giù: mi trovavo però sempre solo con la mia debolezza e incapacità e allora non potevo aiutarmi in nessun modo, e mi spaventavo moltissimo davanti a questo preannunciato matrimonio. Quindi ripresi finalmente la mia vita abituale e la più sicura: mi misi a letto dopo aver finito una preghiera devota e fervente, in attesa che il mio buon angelo apparisse per divino destino (come già era successo parecchie volte) per comunicarmi che cosa, in quest’affare disperato, poteva succedermi per la gloria di Dio, per il mio bene e per il miglioramento e l’ammonizione cordiali del mio prossimo.

    Appena addormentato, mì sembrò di essere in una torre scura con un’infinità di altre persone, legate con catene, e tutti eravamo senza nessuna luce o chiarore e brulicavamo l’uno sopra l’altro come le formiche, e l’uno rendeva più pesante all’altro la sua miseria. Benché né io né nessuno fra noi vedesse niente, sentivo sempre l’uno alzarsi sopra gli altri nel momento in cui la sua catena o il suo peso diventavano anche soltanto leggermente meno pesanti, senza accorgersi che nessuno aveva molto vantaggio sugli altri, perché eravamo evidentemente tutti insieme poveri e del tutto ignoranti. Dopo essere rimasto insieme con gli altri per un bel po’ di tempo, sentendo ciascuno dare del cieco e dell’impedito all’altro, sentimmo finalmente suonare molte trombe e anche il tamburo di guerra, con tanta arte che ci sentivamo, malgrado tutto, ravvivati in fondo alla spina dorsale e rallegrati. Con questo suono venne tolta inoltre la chiusura della torre, e un po’ di luce arrivò sino a noi. Per la prima volta, potevamo vedere come eravamo in basso e come tutto era una gran confusione: e quello cui sembrava di essersi innalzato, si accorgeva invece di trovarsi tra i piedi degli altri. Ciascuno ora voleva essere il più alto, e così anche io non rimasi indietro e, malgrado le mie pesanti catene, mi spinsi avanti tra gli altri e mi alzai su una pietra che avevo scoperto. Benché parecchie volte fossi investito da altri, difesi la mia posizione il meglio possibile con le mani e i piedi. Eravamo ormai certi che saremmo stati tutti liberati: ma quel che successe fu diverso da quel che ci attendevamo. Dopo che i Signori dall’alto ci ebbero osservati guardando in giù attraverso l’apertura nella torre, divertendosi non poco al nostro dibatterci e piagnucolare, un vecchio grigio come ghiaccio ci disse di fermarci, e quando questo avvenne, incominciò a parlare, per quanto posso rammentarmi, come segue:

    “Se le aspirazioni della povera razza umana,

    Non fossero così presuntuose

    Quanto di buono le sarebbe dato

    Da una madre buona;

    Ma poiché non vuole obbedire,

    Rimane con tante preoccupazioni,

    E dev’essere imprigionata.

    La mia cara madre, comunque,

    Non vuole tener conto della sua disobbedienza,

    E lascia apparire i suoi preziosi beni

    Benché raramente,

    Di modo che valgano qualcosa:

    Altrimenti verrebbero considerati cose inventate.

    Perciò, in onore della festa

    Che noi oggi festeggiamo,

    Perché la sua grazia venga aumentata,

    Vuole fare un’opera buona.

    La corda verrà ora lasciata cadere:

    Colui che vi si attacca,

    Sarà liberato”.

    Non appena ebbe parlato così una vecchia donna ordinò ai servitori di lasciar cadere sette volte la corda nella torre, e di tirar su quelli che vi si sarebbero attaccati. Oh! Dio volesse che sapessi descrivere quale agitazione ci prese, perché tutti volevano afferrare la corda, e in tal modo ci ostacolavamo soltanto gli uni con gli altri. Dopo sette minuti fu dato un segno con una piccola campanella. A questo punto, i servitori tirarono su per la prima volta quattro fra di noi, e quella volta non potei assolutamente raggiungere la corda, siccome, come ho già raccontato, ero andato per mia grande sfortuna su una pietra vicina alla parete della torre, e perciò non potevo arrivare alla corda che pendeva giù nel mezzo. La corda fu lasciata cadere un’altra volta. Ma poiché per molti le catene erano troppo pesanti e le mani troppo deboli, non solo non riuscirono a reggersi ad essa, ma buttarono giù con loro molti che avrebbero potuto forse restarvi afferrati. Sì, parecchi furono anche tirati giù da qualcuno che non riusciva ad arrivarci egli stesso: così, nella nostra grande miseria, ci invidiavamo sempre. Mi spiaceva di più, però, per quelli che avevano un peso tanto pesante che le mani stesse venivano loro strappate dal corpo e non potevano neanche uscir fuori. Così, dopo cinque volte, furono sollevati pochissimi di noi, perché subito dopo il segno i servitori erano tanto veloci nel tirar su la corda che per la maggior parte capitombolavano l’uno sopra l’altro; e la quinta volta la corda fu tirata su anche senza nessuno attaccato. Perciò la maggior parte, me compreso, rinunciavamo già alla nostra liberazione e chiamavamo Dio, che volesse aver pietà di noi e, se fosse possibile, liberarci da questa oscurità, ed Egli ascoltò parecchi di noi. Quando la corda venne giù per la sesta volta, molti si aggrapparono saldamente.

    Siccome la corda dondolava da un lato all’altro nel tirarla su, arrivò, certo per volontà di Dio, anche a me, e io l’afferrai subito, stando sopra tutti gli altri e, contrariamente ad ogni speranza, venni finalmente fuori, cosa che mi diede tanta gioia da non farmi sentire la ferita nella testa, che ricevetti da una pietra appuntita nel tirarmi su, se non dopo aver dovuto aiutare, con altri liberati, il settimo ed ultimo tiro. Il sangue infatti mi corse su tutto il vestito a causa del lavoro, cosa alla quale non avevo fatto attenzione prima per via della mia gioia. Quando fu compiuto anche l’ultimo tiro, nel quale si era attaccato alla corda il maggior numero di prigionieri, la donna fece mettere via la corda e il suo vecchissimo figlio (cosa che mi faceva molta meraviglia) annunciò agli altri prigionieri il suo ordine, e disse, dopo un momento di riflessione, quanto segue:

    “Cari figli

    Che state quaggiù,

    È finito

    Quello che era previsto da tanto tempo,

    Quello che è stato accordato ai vostri fratelli

    Per la grazia di mia madre.

    Non dovete nutrire invidia:

    Tempi di gioia presto arriveranno.

    Allora l’uno sarà uguale all’altro,

    Nessuno sarà ricco o povero;

    Colui al quale è domandato molto

    Deve anche rendere molto,

    Colui al quale è stato affidato molto,

    Deve stare attento alla sua vita.

    Perciò cessate il vostro lamento:

    E’ poco aspettare qualche giorno”.

    Appena ebbe finito di dire queste parole, il coperchio fu chiuso di nuovo e assicurato, e il suono delle trombe e dei tamburi di guerra si levò ancora. Ma per quanto forte fosse quel suono, si sentiva sempre il lamento amaro degli incarcerati, che veniva dalla torre, e che mi fece scorrere le lacrime dagli occhi. Poi la vecchia si sedette con suo figlio su un seggio già preparato e diede l’ordine di contare coloro che erano stati liberati. Quando ne apprese il numero, e dopo averlo scritto su una tavoletta d’oro, chiese ad ognuno il suo nome, che veniva registrato da un paggio. Dopo che ci ebbe guardati tutti, l’uno dopo l’altro, sospirò e disse a suo figlio, in modo che io lo sentissi: “Oh! che grande pena mi fanno quelli nella torre! Dio volesse che potessi liberarli tutti”. A questo il figlio rispose: “Madre, così è stato ordinato da Dio, non dobbiamo opporci a questo; se fossimo tutti signori e possessori dei beni della terra, quando siamo a tavola, chi ci porterebbe da mangiare?”. A questo la madre non replicò altro. Ma ben presto disse: “Adesso, liberate costoro dalle loro catene”. Questo fu subito fatto ed io fui quasi l’ultimo. Allora, sebbene mi fossi regolato dapprima sempre secondo gli altri, mi inchinai davanti alla vecchia e ringraziai Dio, che attraverso di lei mi aveva portato, in modo clemente e paterno, dal buio alla luce; altri fecero poi lo stesso e si inchinarono davanti alla donna. Infine fu donata a tutti una medaglia in ricordo. Da una parte era inciso il Sole nascente e dall’altra, per quanto rammento, le tre lettere D.L.S. [Deus Lux Solis; Deo Laus Semper (Dio luce del Sole: Sempre lode a Dio)]. Poi venne dato a tutti il permesso di andare ed ognuno fu mandato ai suoi affari, con la raccomandazione di vivere lodando Dio e al servizio del nostro prossimo, e mantenere il silenzio su quello che ci era stato affidato, cosa che promettemmo tutti di fare prima di dividerci. lo non potevo camminare facilmente, ma zoppicavo con tutti e due i piedi, cosa di cui la vecchia si accorse, ne rise, mi chiamò ancora una volta a lei e mi disse: “Figlio mio, non lasciarti affliggere da questa infermità, ma ricordati delle tue debolezze e ringrazia Dio che ti ha fatto arrivare fino a questa alta luce, già in questo mondo e nella tua imperfezione, e sopporta queste ferite in ricordo di me”.

    A questo punto si alzò ancora una volta il suono delle trombe, cosa che mi spaventò in modo tale che mi svegliai e mi accorsi soltanto allora che era stato un sogno. Ma ero rimasto così fortemente impressionato che ero sempre preoccupato a causa del sogno, e mi sembrava di sentire ancora le ferite ai piedi. Da tutto ciò, capivo, che mi era concesso da Dio di assistere a queste nozze segrete e velate, e per questo ringraziai la Sua Divina Maestà, e la pregai con fede filiale che mi volesse tenere sempre nel suo timore e riempire ogni giorno il cuore di saggezza e di comprensione, e infine di portarmi per mezzo della Sua grazia allo scopo desiderato, anche se non lo meritavo. Dopo di questo, mi preparai al viaggio, indossai il mio vestito bianco, mi fasciai con un nastro rosso come il sangue, legato in forma di croce sulle spalle e intorno ai fianchi. Infilai quattro rose nel cappello: sperando che tutti questi segni mi facessero notare più facilmente nella folla. Come cibo presi del pane, del sale e dell’acqua, cose che mi erano state consigliate da un Saggio, e che avevo trovato molto utili a suo tempo in diversi casi. Prima di lasciare la mia casa, mi misi in ginocchio con il vestito di nozze e pregai Dio che, qualsiasi cosa avvenisse, mi conducesse a un buon fine, e giurai davanti a Dio che se mi avesse svelato nella Sua clemenza qualcosa, io non l’avrei usata per avere onore e considerazione mondana, ma per far rispettare il Suo nome, e al servizio dei miei fratelli umani. E con questo voto, con la speranza e la gioia, lasciai la mia cella.

ti.

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ANGELA CAPURSO – LA SARDEGNA

 Angela Capurso

Se una settimana appare un tempo troppo breve perché un luogo possa rivelare quello che ha da dire, occorre tener conto che ogni viaggio si dilata tanto nella sua dimensione pregressa quanto seguente, con effetti di lunga durata al rientro in termini di conoscenza, memoria e nostalgia. Il mio pre-viaggio in Sardegna, invisibile spinta al viaggio stesso, è cominciato da un libro. Lettura duale e dinamica, quasi a corrente alternata, quella che oggi adotto, come molti. Direi un lungo itinerario intrapreso a casa: ho lasciato che le immagini richiamate dalla prosa letteraria di Michela Murgia (Viaggio in Sardegna, Undici percorsi nell’isola che non si vede, Milano 2014) entrassero in contatto con altre immagini che scorrono sul monitor, in risposta alle richieste di informazioni sulle compagnie di navigazione, la storia e le foto delle località, le strutture e le disponibilità alberghiere, viabilità e tempi di percorrenza.

Durante il pre-viaggio si vagliano varie ipotesi alla luce di criteri di scelta univoci e razionali, mentre resta sempre prioritario il desiderio di ciascuno. Oltre al fantasticare sulla carta geografica e stradale, il modo alternativo di viaggiare senza fastidi è lasciarsi condurre dai libri di viaggio. Il libro a cui mi affido non suggerisce itinerari, ma undici parole-battistrada per la ricerca di altrettante piste di conoscenza, con luoghi e testimonianze da ritrovare un po’ sparsi tra le regioni storiche sarde. “Undici” , mi sono detta, “non sarà che è proprio il numero dei giorni del percorso degli iniziati al culto della Gran Madre?” Non c’è terra in cui silenzio e mistero siano connaturati come in Sardegna.

Dopo alcuni mesi, finalmente, il viaggio. Rileggo le pagine del diario di D. H. Lawrence, Mare e Sardegna, (1921, rist. Nuoro 2000 e Milano 2007): lo scrittore ha colto, durante la sua visita di appena nove giorni, l’anima di una terra e le relazioni con il mare che la circonda.

La lunga traversata in nave Napoli/Cagliari – complice il beccheggio a contatto con la superficie instabile del mare – dà l’esatta percezione che ci dirigiamo verso un’isola ontologicamente mediterranea, terra essa stessa e perno tra le terre, che gustiamo la giusta attesa dell’arrivo, mentre le prime luci del mattino disegnano i profili aguzzi di rocce color arancio, refrattarie all’azione del vento e dell’acqua, e che tocchiamo il suolo accolti in un porto, il meno frettoloso tra gli abbracci di benvenuto.

L’itinerario si snoda a partire dall’entroterra, dal cuore di roccia e granito del Gennargentu e del Sopramonte. Da Nuoro percorriamo la Barbagia con il bus lungo una strada che asseconda i fianchi di colline a vigneto e vallate. In silenzio. Tra panorami di granito. Lo spettacolo della natura triumphans ci rapisce: forre e cigli selvaggi coperti di lecci, ginepri, roverella per inerpicarsi fin sotto le cime quasi dolomitiche di Oliena, che fa da quinta al paesaggio. Lungo la strada provinciale 58 – da evitare la 22 non messa in sicurezza e priva di segnaletica – s’avverte un’atmosfera di trepidazione e di all’erta mentre ci si addentra nella regione storica barbaricina. Non è un caso che i Romani, con il più formidabile esercito della storia, abbiano rinunciato più che alla conquista, alla penetrazione culturale, lasciando il territorio in balia degli indigeni, ai loro occhi barbari.

La storia costituzionale e amministrativa della Sardegna ha vissuto il periodo più glorioso durante l’epoca dei Giudicati (sec. XI-XV), ma con la legge delle Chiudende (1820), avversata da gran parte della popolazione, ha inizio una fase di grave crisi e lotte per la trasformazione del sistema di sfruttamento collettivo del suolo in proprietà privata. La parcellizzazione delle terre e la crescita demografica divengono inconciliabili. Con lo stato piemontese e poi con quello italiano, i rapporti non trovano sempre equilibrio. La disubbidienza civile, spesso dettata da provvedimenti invisi o male accolti, sfocia nella reazione del banditismo sardo.

Vengono in mente i sequestri, le latitanze, le faide familiari, gli assassinii. Nomi come Graziano Mesina, i fatti di Santulussurgiu, del sacerdote don Graziano Muntoni e numerosi altri suonano minacciosi e inducono di solito il forestiero ad assumere un atteggiamento cauto e rispettoso per celare un più recondito e guardingo sospetto. Sarà una copia sbiadita della sensazione provata dai viaggiatori del Grand Tour nel Mezzogiorno, timorosi e al tempo stesso attratti dal Fra’ Diavolo di turno e dal cliché del sud/terra di banditi, mi viene da pensare.

La strenua difesa dell’identità territoriale rispetto ad altro portato dal mare, ha fatto sì, come spiega Michela Murgia, che la comunità barbaricina si sia dotata di un codice di comportamento fondato su norme non scritte, a partire dall’età nuragica. Mi vengono in mente i bellissimi confronti letterari di Ismail Kadarè su Eschilo e la vendetta (Eschilo il gran perdente, Nardò 2008) e la scoperta, da parte mia, del Kanun delle montagne albanesi. In effetti a ben leggere, qualcosa in comune con la storia della mentalità barbaricina, segno di radicata continuità della civiltà nuragica, esiste, specie nella concezione del valore della balentìa, “la virtù che consente all’uomo barbaricino, al pastore barbaricino, di resistere alla propria condizione, di restare uomo, soggetto, in un mondo implacabile e senza speranza nel quale esistere è resistere” (Antonio Pigliaru, Il codice della vendetta barbaricina, Milano, 2003, rist.).

Chi porta con sé in viaggio l’ingombrante fardello del pregiudizio, facendo della persona valente il ritratto di un uomo cupo, ostile e vendicativo, dovrà ricredersi e arrendersi dinanzi ad un’accoglienza tutt’altro che ombrosa, come quella che abbiamo ricevuto a Oliena, dove, in un luogo suggestivo e che vale tutto lo sforzo per raggiungerlo (non con l’autobus), abbiamo trascorso la più ospitale delle serate e, al mattino, il più panoramico dei risvegli.

Certo, nella omogeneità culturale delle società globali, il viaggio come ricerca di alterità, lungi dall’essere un faro spento, ne rappresenta, al contrario, una forte spinta. L’alterità dell’Italia interna, dei margini, dei borghi e dei paesi alimenta un turismo meno turistico, che non deve rischiare di divenire anch’esso turistico, pena la perdita dell’autentico. Il viaggiatore attento sa accorgersi della folklorizzazione delle tradizioni e tanto meno si accontenta dei “teatri di cartapesta” dei villaggi turistici o di paesi “non-paesi”, come Porto Cervo, che resta in letargo buona parte dell’anno per poi riprendere la sua happy vita stagionale.

È in paesi come Orgosolo e Oliena, per citare solo i luoghi attraversati con l’idea di rubare un po’ del loro cuore, che distingui con chiarezza la percezione di essere altro rispetto all’Italia che c’è in noi. L’intento didattico – non posso farne a meno – è quello di chiarire rigorosamente la distinzione tra tradizione e atto folkloristico. Il costume tradizionale, ad esempio (e questo avviene sempre meno anche nei paesi lucani più remoti), è indossato per se stessi e non per sfilate ad uso dei turisti. Le donne più anziane si affacciano sulla soglia della loro casa o escono dalle auto avvolte in neri mantelli dalle lunghe frange. Penso a quanto dolore alcune di loro hanno provato. Se si incrocia il loro sguardo, avverti la rapidità di un lampo. Lungo una scalinata una epifania: come Parche silenziose riempiono della loro ieratica e solenne presenza alcune orgolesi, con ampie gonne e mantelli neri. Una scena da fermo immagine. Non da meno gli uomini, di tutte le età, che non calcano più il copricapo dalla foggia singolare, ma i pantaloni di velluto nero a coste sono per vecchi e giovani, estate e inverno, come la tenuta dei giovani cavalieri incontrati lungo il corso Repubblica, pronti per gareggiare nei palii di S. Pietro e di S. Maria Assunta o nel Palio di Oliena (Su Palu de sos Vihinados). Se anche non sono più opera degli abili tessitori sardi, i maistos de pannos, non ha importanza, sta di fatto che rappresentano un capo d’abbigliamento del tutto normale e consueto.

Nella piazza di Orgosolo intitolata a Don Graziano Muntoni, il sacerdote ucciso nel 1998, all’ingresso del centro storico, il primo incontro con una lingua arcaica mette a dura prova ogni mia velleità di seguire le conversazioni dei bambini che giocano e dei passanti. Una forma di alterità si rivela anche nel tenace rispetto della lingua degli avi. Da quel punto dell’abitato, l’attenzione dei visitatori è catturata da una straordinaria fioritura di murales di contenuto civile, politico e storico, sui temi della giustizia e della pace, declinati a livello locale, nazionale e internazionale. Le strade, i vicoli, le piazze di Orgosolo rappresentano il più esteso e articolato libro di storia ed educazione alla cittadinanza all’aperto. La gente del posto sembra non farci più caso, nonostante i murales siano stati realizzati a partire dal 1969 con la partecipata condivisione tra il proprietario della casa e l’artista che individua e sceglie una porzione delle pareti esterne per esprimere il tema che ha ispirato la sua arte. Concedere come supporto fisico alla pittura le mura perimetrali rivolte all’esterno è, a mio avviso, una forma di assenso ideologico e fratellanza d’intenti. E non c’è nulla di più sacro della propria casa.

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PENSIERI ED AFORISMI

Pensieri ed Aforismi

Saggezza

Lottate per la felicità, come lottano per il denaro gli uomini da poco. E ricordate che l’amore è il seme e il frutto della gioia.

Amate gli altri perché possano amarvi, e amate voi stessi per poter amare gli altri.

Nascerete senza paura, perché chi vi darà la vita gioirà della sua fertilità.

Non avrete paura del marito o della moglie poiché vi sarete uniti per amore, e dall’amore non può nascere un nemico.

Sarete legati solo con le catene d’oro dell’affetto: non saranno le parentele a tenere uniti i fratelli affini soltanto per sangue.

Non avrete paura della solitudine, perché non sarete mai senza amici.

Non avrete paura del riposo, perché il mondo ha bisogno di lavoro e di riposo. Nemmeno del lavoro avrete paura, perché vi sarà congeniale: potrete nascere pescatore e diventare uno scriba, nascere contadino e diventare un guerriero.

Nessuno sarà oppresso da un campo troppo vasto per lui da coltivare, né ristretto da confini troppo angusti.

Non avrete paura della fame, perché vi sarà pane nei granai anche per gli anni magri.

Non avrete paura di crescere, perché gli anni vi mostreranno nuovi orizzonti.

Non avrete paura di invecchiare, perché in ogni nuovo orizzonte troverete nuova saggezza.

A ciascuno secondo i suoi bisogni,

da ciascuno secondo le sue capacità.

Karl Marx

L’uomo deve, prima di tutto,

governare se stesso.

Giuseppe Mazzini

Non avrete paura della morte,

perché ricorderete l’altra sponda del Grande Fiume

dove sarete misurati secondo il peso del vostro cuore.

Faraone Amanemhet I 1996 A. C.

Se si mantiene vivo nel proprio cuore l’ amore

per quanti sono degni d’amore,

e se si tengono gli occhi e l’anima

aperti al bello, al grande, al buono e al vero.

Fanny Lewald

Ogni età della vita riserva agli uomini

le sue gioie, le sue speranze e prospettive.

Johann Wolfgang von Goethe

La felicità trovata in fretta non è mai

solidamente fondata e raramente meritata.

I frutti del lavoro e della saggezza maturano lentamente.

Vauvenargues

Godi il presente con gioia,

senza preoccuparti di ciò

che ti porterà il futuro.

Accetta dunque anche il calice amaro

con un sorriso, perché non esiste

felicità perfetta sulla terra.

Orazio

Il tempo galoppa,

la vita sfugge tra le nostre mani.

Ma può sfuggire

come sabbia o come semente.

Thomas Merton

La cosa più importante

che un uomo possa possedere

è quella pace, quella serenità,

quella pace interiore

che nessun dolore può turbare.

Immanuel Kant

Esiste solo una via alla felicità,

e consiste nel cessare

di preoccuparsi per cose

che non è in nostro potere cambiare.

Epitteto

Amala vita, non odiarla;

quella che vivi, vivila bene;

e lascia al cielo di fartela lunga o breve.

John Milton

Non c’è cammino troppo lungo

per chi cammina lentamente,

senza sforzarsi;

non c’è meta troppo elevata

per chi vi si prepara con pazienza.

Jean de La Bruyere

Basta un istante per fare un eroe,

ma occorre una vita intera

per fare un uomo buono.

Paul Brulat

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