IL TRATTATO DI MARCO AURELIO LIBRO IV°

LIBRO IV

1              Il principio sovrano dentro di noi, quando si trovi conforme a natura, ha verso gli eventi una disposizione tale, che può sempre facilmente mutarla in relazione a ciò che a possibile e concesso. Infatti non ama alcuna materia definita, ma segue, con riserva, il suo impulso ai fini più alti, e di quello che gli si oppone fa materia per sé, come il fuoco, quando fa suo ciò che vi cade dentro – un lumicino ne sarebbe spento: il fuoco vivo, invece, in un istante si impadronisce di ciò che gli si getta sopra, lo consuma e proprio di qui trae alimento per divampare ancora più alto.

2              Non si compia alcuna azione a caso o in qualsiasi modo non conforme a un principio che contribuisca a realizzare l’arte del vivere.

3              Si cercano un luogo di ritiro, campagne, lidi marini e monti; e anche tu sei solito desiderare fortemente un simile isolamento. Ma tutto questo a proprio di chi non ha la minima istruzione filosofica, visto che a possibile, in qualunque momento lo desideri, ritirarti in te stesso; perché un uomo non può ritirarsi in un luogo più quieto o indisturbato della propria anima, soprattutto chi ha, dentro, principî tali che gli basta affondarvi lo sguardo per raggiungere sùbito il pieno benessere: e per benessere non intendo altro che il giusto ordine interiore. Quindi concediti continuamente questo ritiro e rinnova te stesso; e siano brevi ed elementari i principî che, appena incontrati, basteranno a purgarti da ogni nausea e a congedarti senza che tu provi fastidio per le cose a cui ritorni. Che cosa, infatti, ti infastidisce? La cattiveria degli uomini? Considerati i termini del problema – e cioè che gli esseri razionali esistono gli uni per gli altri; che la tolleranza a parte della giustizia; che sbagliano senza volerlo – e considerato quanti già, dopo aver nutrito inimicizia, sospetto, odio, giacciono trafitti, ridotti in cenere, smettila, infine! O forse il tuo fastidio a anche per la sorte che, nell’ordine universale, ti viene assegnata? Ritorna col pensiero all’alternativa: «O provvidenza o atomi», e a tutti gli argomenti con cui fu dimostrato che il cosmo a come una città. O forse ti sentirai toccato dalle cose del corpo? Torna ancora a pensare che la mente non si immischia con i movimenti dolci o aspri del soffio vitale, una volta che abbia isolato se stessa e preso cognizione del proprio potere; e poi pensa a tutto quello che hai ascoltato intorno al dolore e al piacere, e su cui hai espresso il tuo assenso. O sarà forse la preoccupazione di una misera fama a fuorviarti? Guarda la rapidità dell’oblio che investe tutto, l’abisso dell’eternità che si estende infinita in entrambe le direzioni, la vacuità della rinomanza, la volubilità e la sconsideratezza di chi sembra tributare elogi, e l’angustia del luogo in cui la fama a circoscritta. Perché tutta la terra a un punto: e quale minuscolo cantuccio della terra a questa dimora? E, qui, quanti e quali sono gli uomini che ti elogeranno? Ricorda, allora, che puoi ritirarti in questo tuo campicello, e soprattutto non agitarti e non darti troppa pena, ma sii libero e guarda la realtà da uomo, da essere umano, da cittadino, da essere mortale. E tra i principî che più dovranno stare a portata di mano quando ti ripiegherai su di essi, vi siano i due seguenti. Il primo: le cose non toccano l’anima, ma stanno immobili all’esterno, mentre i turbamenti vengono soltanto dall’opinione che si forma all’interno. Il secondo: tutto quanto vedi, tra un istante si trasformerà e non sarà più; e pensa continuamente alla trasformazione di quante cose hai assistito di persona. Il cosmo a mutamento, la vita a opinione.

4              Se l’intelligenza a comune a noi uomini, a comune anche la ragione, in virtù della quale siamo esseri razionali; se così, a comune anche la ragione che ordina ciò che deve o non deve essere fatto; se così, a comune anche la legge; se così, siamo concittadini; se così, partecipiamo di un organismo politico; se così, il cosmo a come una città. Di quale altro organismo politico comune, infatti, si potrà dire partecipe l’intera umanità? E di qui, da questa città comune, ci viene la nostra stessa intelligenza, ragione, legge; da dove, altrimenti? Infatti, come ciò che in me vi a di terreno a particella ricavata da una qualche terra, l’umido da un altro elemento, il soffio vitale da una sorgente, il calore e il fuoco da una loro specifica fonte – perché nulla viene dal nulla, come neppure finisce nell’inesistente -, così appunto anche l’intelligenza ha origine da qualcosa.

5              La morte a, tale quale la nascita, un mistero della natura: aggregazione degli stessi elementi agli stessi elementi; non certo, insomma, qualcosa di cui ci si debba vergognare: infatti non contrasta con la condizione di un essere razionale né contrasta con il criterio della sua costituzione.

6              Questo a il prodotto inevitabile di individui che abbiano una simile natura: chi non lo accetta, non accetta che il fico abbia il lattice. Insomma, ricòrdati di questo; in men che si dica sarete morti sia tu sia costui, e fra poco di voi non resterà neppure il nome.

7              Cancella l’opinione: a cancellato il «sono stato danneggiato». Cancella il «sono stato danneggiato»: a cancellato il danno.

8              Ciò che non rende un uomo peggiore di quel che a, non rende peggiore neppure la sua vita, e non la danneggia, né dall’esterno né dall’interno.

9              La natura dell’utile non può produrre che questo.

10           Tutto ciò che avviene avviene giustamente: lo verificherai, se osservi con attenzione. Non dico soltanto nel senso che avviene in giusta conseguenza, ma nel senso che avviene secondo giustizia e come per opera di qualcuno che assegna quanto spetta secondo il merito. Quindi osserva questo principio, come hai cominciato a fare, e in qualunque azione agisci con il presupposto di essere buono, nel senso in cui a propriamente inteso l’essere «buono». Mantieni questa esigenza in ogni azione.

11           Non formarti opinioni in analogia ai giudizi che il prepotente formula o vorrebbe che tu formulassi, ma guarda le cose in sé, quali sono in verità.

12           Bisogna tenere sempre pronte queste due regole: la prima, compiere soltanto ciò che la ragione di sovrano e legislatore suggerisce per il bene degli uomini; la seconda, cambiare parere se accanto c’a qualcuno in grado di correggerti o staccarti da una determinata convinzione. Questa conversione, tuttavia, deve sempre avvenire per verosimili ragioni di giustizia o utilità sociale, e ciò che fa mutare strada deve essere solo di questa natura, non qualcosa che sia apparso fonte di piacere o di fama.

13           Hai la ragione? Sì. Allora perché non la usi? Quando essa, infatti, svolge il proprio cómpito, che altro vuoi?

14           Sei venuto al mondo come parte. Scomparirai dentro ciò che ti ha generato, o meglio sarai riassunto, attraverso trasformazione, nella sua ragione seminale.

15           Molti granelli di incenso sullo stesso altare: uno a caduto prima, l’altro dopo, ma non fa nessuna differenza.

16           Entro dieci giorni sembrerai un dio a quelli stessi a cui ora sembri una belva e una scimmia, se ritorni ai principî e al culto della ragione.

17           Non vivere come se dovessi vivere migliaia di anni. Il fato incombe: finché vivi, finché a possibile, diventa virtuoso.

18           … quanto tempo libero guadagna chi non guarda che cosa il prossimo ha detto, fatto o pensato, ma soltanto le proprie azioni, perché siano giuste e pie, cioè conformi all’uomo virtuoso. Non voltarti intorno a guardare un carattere malvagio, ma corri dritto lungo la linea, senza lasciarti deviare.

19           Chi spasima per la sua gloria postuma non pensa che anche ognuno di quelli che lo ricordano al più presto morirà, e poi sarà il turno di chi avrà preso il suo posto, finché il ricordo di lui, avvicendandosi tra vite che si accendono e spengono, si estinguerà completamente. Ma supponi pure che siano immortali coloro che ricorderanno, e immortale il ricordo: ebbene, che senso ha tutto questo per te? E non dico soltanto che non ha senso per il defunto: ma, anche per chi a vivo, che senso ha la lode? (a prescindere da una sua funzione strumentale). Adesso, infatti, tu trascura pure inopportunamente la dote naturale, dedicandoti a un’altra ragione; poi […]

20           Tutto quel che per qualsivoglia ragione a bello, a bello di per se stesso e si conclude in se stesso, senza che la lode ne costituisca una parte. Ciò che a lodato, quindi, non diviene per questo peggiore né migliore. Lo dico anche a proposito delle cose comunemente definite belle, ad esempio gli oggetti materiali e i prodotti artistici. Invece, ciò che a veramente bello di che altro ha bisogno? Di nulla, esattamente come la legge, come la verità, come la benevolenza o il pudore. Quale di queste cose a bella se a lodata o perde valore se a biasimata? Uno smeraldo diventa peggiore di quel che a, se non viene lodato? E l’oro, l’avorio, la porpora, una lira, un pugnale, un fiorellino, un alberello?

21           Se le anime persistono, come può l’aria contenerle tutte dall’eternità? E come può la terra contenere i cadaveri di chi, da tanto tempo, vi viene sepolto? Infatti, come quaggiù la trasformazione e il dissolvimento di questi, dopo una determinata persistenza, fanno spazio ad altri morti, così le anime che trasmigrano nell’aria, dopo essersi mantenute per un dato periodo di tempo, si trasformano, si effondono e deflagrano venendo riassunte nella ragione seminale dell’universo, e in questo modo procurano spazio alle anime che continuano ad aggiungersi ad esse. Questa può essere la risposta nell’ipotesi che le anime persistano. Non bisogna, però, considerare soltanto la quantità di cadaveri che si seppelliscono in questo modo, ma anche quella degli animali che ogni giorno sono mangiati da noi e da tutti gli altri animali. Quanto a grande, infatti, il numero degli animali che vengono consumati e così, in certo modo, vengono seppelliti nel corpo di chi se ne nutre? Eppure c’a abbastanza spazio per accoglierli, grazie all’assimilazione in sangue, alla trasformazione in elemento aereo o igneo. In questo caso, qual a la via per raggiungere la verità? La distinzione tra materia e causa.

22           Non vagare a vuoto, ma in ogni impulso rendi ciò che a giusto e in ogni rappresentazione conserva la facoltà di comprendere.

23           È in armonia con me tutto ciò che a in armonia con te, o cosmo; nulla di ciò che per te cade al momento opportuno a precoce o tardivo per me. È un frutto per me tutto ciò che recano le tue stagioni, o natura: tutto da te, tutto in te, tutto a te. Quel tale dice: «O cara città di Cecrope»; e tu non dirai: «O cara città di Zeus»?

24           «Fai poco» dice «se vuoi esser sempre sereno». Non sarà meglio fare il necessario e quanto prescrive la ragione di un essere sociale per natura, e nel modo in cui lo prescrive? Questo, infatti, porta non solo la serenità che viene dall’agire secondo virtù, ma anche quella che deriva dall’agire poco. Perché se uno elimina la maggior parte delle nostre parole e azioni, in quanto non necessarie, avrà più tempo libero e una quiete più sicura. Per cui, in ogni singola circostanza, bisogna ricordare a se stessi: «Ma questo non sarà qualcosa di non necessario?». E non si devono eliminare soltanto le azioni non necessarie, ma anche le rappresentazioni non necessarie: perché così non ne seguiranno neppure azioni superflue.

25           Verifica come ti riesce la vita dell’uomo virtuoso, pago di ciò che, entro le cose dell’universo, gli viene assegnato in sorte, contento del proprio giusto agire e della propria disposizione benevola.

26           Hai visto quelle cose? Guarda anche queste! Non turbare te stesso: semplìficati. Qualcuno sbaglia? Sbaglia a suo danno. Ti a successo qualcosa? Bene: tutto quel che ti succede, fin dall’inizio, era stato riservato, entro le cose dell’universo, per essere assegnato a te e intrecciato con la tua vita. Insomma: la vita a breve; bisogna sfruttare il presente con oculatezza e nel rispetto della giustizia. Sii sobrio, ma con elasticità.

27           O un cosmo ordinato o un miscuglio raccolto insieme: ma, ancora, un cosmo. Oppure a possibile che in te esista un ordine e nell’universo il disordine, quando per giunta tutte le cose risultano così distinte, diffuse e solidali?

28           … un carattere malvagio, un carattere femmineo, un carattere duro, feroce, bestiale, puerile, inerte, falso, da buffone, da mercante, da tiranno.

29           Se a straniero nel cosmo chi non conosce ciò che sta nel cosmo, non meno straniero a chi non conosce ciò che vi accade. Fuoruscito a chi si allontana dalla ragione su cui si regge la società; cieco chi chiude l’occhio dell’intelletto; mendico chi ha bisogno di un altro e non ricava da sé tutto ciò che serve per la vita; ascesso del cosmo chi recede e si stacca, scontento degli eventi, dalla ragione della natura comune: a quella, infatti, che li produce, la stessa che ha prodotto anche te; scheggia della città chi schianta la propria anima da quella degli esseri razionali, che a una sola.

30           Uno pratica la filosofia senza tunica, un altro senza libro. Quest’altro seminudo dice: «Non ho pane e resto fedele alla dottrina». Quanto a me, non ho il nutrimento che viene dagli studi, e le resto fedele.

31           Ama l’arte che hai imparato, acquietati in essa: e trascorri il resto della vita come chi ha rimesso agli dai, con tutta l’anima, ogni suo bene, senza farsi tiranno o schiavo di nessuno.

32           Pensa, per esempio, ai tempi di Vespasiano, e vedrai le stesse cose: gente che si sposa, tira su i figli, si ammala, muore, combatte, festeggia, commercia, coltiva, adula, si chiude nel suo orgoglio, sospetta, trama, prega che qualcuno muoia, brontola per la situazione in cui si trova, fa l’amore, accumula tesori, ambisce al consolato, al trono. Ebbene: quella gente non esiste più, in nessun luogo. Passa poi ai tempi di Traiano: vedrai ancora le medesime cose, senza eccezione: anche quella generazione a morta. Allo stesso modo osserva anche gli altri titoli sotto cui si registra la storia di epoche e interi popoli, e guarda quanti, dopo essersi tanto affannati, in breve tempo caddero e furono dissolti negli elementi. Ma soprattutto bisogna richiamare alla mente quelli che tu stesso hai visto stremarsi in vane fatiche, trascurando di compiere quanto era conforme alla propria costituzione, di tenerlo ben stretto e di accontentarsene. Qui, però, a necessario ricordare che anche l’attenzione dedicata a ogni singola azione ha un suo valore e una sua appropriata misura: non ti sentirai avvilito, infatti, solo se non ti applicherai per più tempo del dovuto a cose di minor conto.

33           Le parole che un tempo erano usuali ora sono lemmi in disuso; così pure i nomi di personaggi un tempo celebrati ora sono, in un certo senso, voci obsolete: Camillo, Cesone, Voleso, Dentato – e tra poco lo diverranno anche Scipione e Catone, poi anche Augusto, e poi anche Adriano e Antonino. Perché tutto presto svanisce e diviene mito: e presto lo seppellisce un totale oblio. E questo dico a proposito di chi visse in un prodigioso alone di gloria: perché gli altri, come esalano l’ultimo respiro, restano ignoti, non lasciano traccia. Del resto cos’a, in sostanza, un ricordo imperituro? Il vuoto totale. Ma cos’a, allora, ciò in cui ci si deve impegnare? Unicamente questo: un pensiero ispirato a giustizia, azioni tese al bene comune, una parola che non inganni mai e una disposizione che di cuore abbracci tutto ciò che avviene, in quanto necessario, già noto, derivante da un tale principio e da una tale sorgente.

34           Conségnati spontaneamente a Cloto, lasciando che ti intrecci con qualsiasi fatto voglia.

35           Tutto effimero, sia il soggetto che ricorda, sia il soggetto ricordato.

36           Osserva continuamente che tutto nasce per trasformazione e abituati a pensare che la natura del tutto nulla ama come trasformare l’esistente e produrre cose nuove che gli somiglino. Tutto ciò che a, infatti, in un certo modo a seme di quello che ne sarà. Tu invece ti rappresenti come seme soltanto quello che penetra nella terra o nell’utero: ma questo significa proprio non avere istruzione filosofica!

37           Presto sarai morto, e ancora non sei semplice, imperturbabile, certo di non poter subire danno dall’esterno, benevolo verso tutti; e ancora non riponi la saggezza unicamente nell’agire secondo giustizia.

38           Osserva il loro principio dirigente, e quali cose rifuggono le persone sagge, quali invece inseguono.

39           Il tuo male non può stare nel principio dirigente di un altro, e neppure in qualche mutamento e alterazione di quel che ti circonda. Dove, allora? Nella parte di te che formula opinioni intorno ai mali. Ebbene, tale parte non formuli opinioni, e tutto andrà bene. Anche se ciò che le sta più vicino, il corpo, viene tagliato, bruciato, anche se va in suppurazione, in cancrena, la parte che formula opinioni su tutto questo resti quieta, cioè non giudichi male né bene nulla che possa indifferentemente accadere a un uomo malvagio e a uno buono. Perché quello che accade parimenti a chi vive contro natura e a chi vive secondo natura non a né secondo né contro natura.

40           Pensa continuamente al cosmo come a un solo essere che racchiude una sola sostanza e una sola anima, e pensa come tutto pervenga a una sola sensazione, la sua, come quest’essere compia tutto per un solo impulso, come tutte le cose siano concausa di tutti gli eventi, e quale sia il loro fitto intrecciarsi e connettersi.

41           Sei un’animuccia che porta un cadavere, come diceva Epitteto.

42           Per ciò che si trova in corso di trasformazione non può esservi nulla di male, come neppure può esservi nulla di bene per ciò che sorge da una trasformazione.

43           L’eternità a come un fiume formato dagli eventi e una corrente impetuosa: ogni singola cosa, infatti, appena cade sott’occhio e già passata oltre, e ne passa un’altra, che a sua volta sarà trascinata via.

44           Tutto ciò che accade a abituale e noto così come la rosa in primavera e la frutta in estate: lo stesso vale, in effetti, anche per la malattia, la morte, la calunnia, le trame, e quanto rallegra o addolora gli sciocchi.

45           La conseguenza sussegue all’antecedente secondo un vincolo di affinità: perché non si tratta di una serie di fatti indipendenti, retta solo da una legge di necessità, ma di una stretta connessione razionale; e come la realtà a armonicamente coordinata, così gli eventi presentano non una nuda successione, ma una specie di mirabile affinità.

46           Ricorda sempre l’opinione di Eraclito: «morte della terra a divenire acqua e morte dell’acqua divenire aria e dell’aria divenire fuoco e viceversa». Ricorda anche «chi dimentica dove conduce la via»; e che «gli uomini sono in contrasto proprio con quello con cui sono nel rapporto più assiduo, con la ragione che governa il tutto, e a loro sembrano estranee proprio le cose in cui si imbattono quotidianamente»; e «non si deve agire e parlare come durante il sonno» (anche allora, infatti, ci sembra di agire e di parlare); e non bisogna «quali figli dei genitori …», cioè in base al puro principio del «come abbiamo appreso».

47           Come, se uno degli dai ti dicesse: «Entro domani o al massimo dopodomani sarai morto», non daresti grande importanza al morire dopodomani invece che domani, a meno di essere meschino fino in fondo (quanto vale, infatti, un simile scarto di tempo?); così pure non credere che sia un grande affare morire tra molti anni invece che domani.

48           Pensa continuamente quanti medici sono morti, dopo aver tante volte aggrottato le sopracciglia sui loro pazienti; quanti astrologi, dopo aver predetto la morte di altri con l’aria di emettere un’importante previsione; quanti filosofi, dopo mille estenuanti dispute sulla morte o sull’immortalità; quanti eroi, dopo aver ucciso tanti uomini; quanti tiranni, dopo aver esercitato il potere di vita e di morte con terribile superbia, quasi fossero immortali; e quante intere città sono, per così dire, morte: Elice, Pompei, Ercolano e innumerevoli altre. Passa in rassegna anche tutti quelli che conosci, uno dopo l’altro: questo ha seppellito quello, poi a stato disteso sul letto di morte, quest’altro ha fatto lo stesso con quell’altro, e così via: e tutto in breve tempo. Insomma, guarda sempre la realtà umana come effimera e vile – ieri un po’ di muco, domani mummia o cenere. Questo infinitesimale frammento di tempo, quindi, trascorrilo secondo natura e concludilo in serenità, come l’oliva che, ormai matura, cadesse lodando la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata.

49           Sii come il promontorio, contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile, e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi a capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi a capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna? Insomma, chiami sfortuna per un uomo ciò che non a un insuccesso della natura umana? E ti pare un insuccesso della natura umana ciò che non va contro il volere di tale natura? E allora? Hai appreso qual a il suo volere: sarà forse quel che ti a capitato a impedirti di essere giusto, magnanimo, temperante, assennato, non precipitoso, sincero, riservato, libero, dotato di tutte le altre qualità che, quando sono insieme presenti, consentono alla natura dell’uomo di possedere ciò che le a proprio? Ricorda poi, ad ogni evento che ti induca a soffrire, di far uso del seguente principio: «questo fatto non a una sfortuna, mentre a una fortuna sopportarlo nobilmente».

50           Aiuto non filosofico, ma comunque produttivo per il disprezzo della morte, a richiamare alla mente coloro che si sono tenacemente aggrappati alla vita. Ebbene, che hanno avuto di più rispetto a chi ha avuto una fine prematura? Giacciono pur sempre, da qualche parte, Cediciano, Fabio, Giuliano, Lepido e gli altri come loro, che ne avevano seppelliti tanti, e poi sono stati seppelliti! Insomma, la differenza di tempo a piccola, e, per giunta, da scontare con quante sofferenze, con quale compagnia e in quale corpo! Quindi non considerarla un affare. Guarda dietro di te l’abisso dell’eternità, e, davanti a te, un altro infinito. In questa dimensione che differenza c’a tra vivere tre giorni o tre volte gli anni di Nestore?

51           Corri sempre per la via più breve – la via più breve a quella secondo natura – così da parlare e agire sempre nel modo più valido. Un simile proposito, infatti, libera dalle fatiche di una campagna militare, di ogni incombenza di governo, dell’eccessiva raffinatezza.

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IL TRATTASTO DI MARCO AURELIO LOBRO III°

LIBRO III

Scritto a Carnunto

1              Non bisogna soltanto considerare il fatto che ogni giorno la vita si consuma e ne resta una parte sempre più piccola, ma anche il fatto che, se uno dovesse vivere più a lungo, rimarrebbe comunque un’incertezza: la sua facoltà mentale sarebbe ancora egualmente capace di comprendere le azioni e la teoria che tende alla concreta conoscenza delle cose divine ed umane? Se, infatti, comincery a vaneggiare, non perderà – a vero – la facoltà di respirare, nutrirsi, ricevere impressioni, provare impulsi e così via: ma la facoltà di disporre di sé, la scrupolosa attenzione a tutti i punti del proprio dovere, l’analisi articolata dei fenomeni che si presentano, la valutazione stessa della necessità di porre ormai fine alla propria vita e quant’altro, analogamente, richiede un raziocinio ben esercitato, tutto ciò si spegne prima del resto. Bisogna quindi affrettarsi, non solo perché la morte si fa ad ogni istante più vicina, ma anche perché la capacità di intendere e di seguire la realtà si esaurisce prima della fine.

2              Occorre far tesoro anche di osservazioni come questa: anche gli elementi accessori dei processi naturali possiedono qualcosa di gradevole e attraente. Per esempio, mentre il pane si cuoce alcune sue parti si screpolano e queste venature che vengono così a prodursi, e che in un certo senso contrastano con il risultato che si prefigge la panificazione, hanno una loro eleganza e un modo particolare di stimolare l’appetito. Ancora: i fichi pienamente maturi si presentano aperti. E nelle olive che dopo la maturazione sono ancora sulla pianta a proprio quell’essere vicine a marcire che aggiunge al frutto una speciale bellezza. E le spighe che si incurvano verso terra e la fronte grinzosa del leone e la bava che cola dalle fauci dei cinghiali e molte altre cose: a osservarle una per una sono lontane da un aspetto gradevole, e tuttavia, per il fatto di essere conseguenze di fatti naturali, contribuiscono ad abbellire e affascinano, al punto che se uno ha una sensibilità e una concezione più profonda di ciò che si produce nell’universo, non ci sarà quasi nulla, anche tra quanto avviene in subordine ad altri eventi, che non gli risulterà avere una sua piacevolezza. Costui, allora, guarderà anche le fauci spalancate delle belve in carne ed ossa con non meno piacere di quando guarda l’imitazione che ne presentano pittori e scultori; e con i suoi occhi casti saprà scorgere in una vecchia e in un vecchio una loro forma di florida maturità, e la grazia che seduce nei fanciulli, e gli si presenterà l’occasione di compiere molte analoghe osservazioni, non persuasive per chiunque, ma solo per chi abbia raggiunto un’autentica familiarità con la natura e le sue opere.

3              Ippocrate, dopo aver guarito molte malattie, si ammalò a sua volta e morì. I Caldei predissero la morte di molti, poi il destino assegnato raggiunse anche loro. Alessandro e Pompeo e Caio Cesare, dopo aver tante volte raso al suolo intere citty e massacrato in campo tante migliaia di fanti e di cavalieri, un giorno dovettero anch’essi uscire dalla vita. Eraclito, che nelle sue indagini sulla natura si era tanto occupato della conflagrazione universale, morì con le viscere piene d’acqua, cosparso di sterco bovino. Democrito lo uccisero i pidocchi, Socrate pidocchi di altra specie. Ebbene? Ti sei imbarcato, hai navigato, sei approdato: sbarca. Se la tua destinazione a un’altra vita, nulla a privo di dai, anche là; se invece la meta a l’insensibilità, cesserai di resistere a dolori e piaceri e di far da schiavo a un recipiente tanto più vile della parte che lo serve: perché questa a intelletto e demone, quello terra e sangue corrotto.

4              Non consumare la parte di vita che ti rimane in rappresentazioni che riguardano altri, se non quando tu agisca in relazione all’utile comune: altrimenti o ti privi di un’altra opera […] immaginandoti cioè che cosa fa il tale e perché, che cosa dice, cosa pensa e cosa sta escogitando e simili: tutti comportamenti che fuorviano dall’attenzione al proprio principio dirigente. Occorre quindi impedire l’accesso del casuale e del gratuito al concatenarsi delle rappresentazioni, e soprattutto escluderne l’indiscrezione e la cattiveria; e ci si deve abituare esclusivamente a rappresentazioni tali che, se all’improvviso uno ti domandasse: «A cosa stai pensando ora?», potresti sùbito rispondere in tutta franchezza: «A questo e a quest’altro»; sicché dalle tue parole sarebbe immediatamente chiaro che ogni tuo pensiero a semplice, benevolo e degno di un essere destinato a vivere in society e disinteressato a immagini che suscitino piacere o, in una parola, godimento, e indifferente a una qualche forma di rivalità o invidia e sospetto o qualsiasi altra passione per cui arrossiresti, se dovessi spiegare che la nutrivi nel tuo intimo. Un uomo simile, infatti, che non rinvia più il suo ingresso tra i migliori in assoluto, a come un sacerdote e un ministro degli dai, in stretto rapporto anche con la divinità che dimora in lui: questo rende l’uomo incontaminato dai piaceri, invulnerabile a ogni dolore, intatto da ogni sopraffazione, insensibile a qualsiasi malvagità, atleta nella competizione più alta – la lotta per non essere abbattuti da alcuna passione -, profondamente permeato di giustizia, pronto ad abbracciare con tutta l’anima tutto ciò che gli accade e gli viene assegnato in sorte, alieno dal pensare spesso, o senza una stretta necessità connessa all’utile comune, che cosa mai un altro dica, faccia o pensi. Quest’uomo, infatti, per il proprio operato tiene soltanto le cose che gli appartengono e pensa continuamente a quelle che, tra gli eventi dell’universo, si intrecciano con lui, e rende belle le prime ed a persuaso che le seconde siano buone. Infatti il destino assegnato a ciascuno a incluso nel tutto e include nel tutto. E ricorda anche, costui, che ogni essere razionale a suo parente, e che prendersi cura di tutti gli uomini a conforme alla natura umana, e tuttavia non bisogna attenersi all’opinione di tutti, ma soltanto a quella di chi vive in conformità alla natura. Quanto poi a coloro che non vivono così, ha sempre presente quale tipo di persone siano in casa e fuori di casa, quale gente sia e con quale gente si mescoli di giorno e di notte. Non tiene in conto, quindi, neppure la lode che può venirgli da costoro, visto che non piacciono neanche a se stessi.

5              Non agire controvoglia né in modo individualistico o senza un accurato esame o lasciandoti trascinare; non adornare il tuo pensiero con bei discorsi; non dire troppe parole, non fare troppe cose. Ancora: il dio che a in te sia la guida di un essere virile, maturo, membro della comunità civile, di un Romano, di un governante, di un uomo che si a collocato nella disposizione di chi attende il segnale di ritirata dalla vita, pronto alla soluzione dei vincoli, senza aver bisogno di un giuramento o di qualcuno che faccia da testimone. All’interno, la serenità, e, dall’esterno, nessun bisogno di aiuto, nessuna necessità di una pace fornita da altri. Bisogna essere retti, non raddrizzati.

6              Se nella vita umana trovi qualcosa di superiore alla giustizia, alla verità, alla temperanza, alla fortezza, e, in una parola, al fatto che alla tua mente basti se stessa, nelle azioni che ti fa compiere secondo la retta ragione, e il destino, nella sorte che ci viene assegnata indipendentemente dalla nostra scelta; se, dico, vedi qualcosa di superiore a questo, rivolgiti a esso con tutta l’anima e godi del bene supremo che vi trovi. Se invece niente ti risulta superiore al demone stesso che dimora in te e che ha sottomesso a sé i tuoi impulsi personali, che vaglia le tue rappresentazioni, che si a sottratto (come diceva Socrate) alle passioni dei sensi, che si a sottomesso agli dai e si cura degli uomini; se rispetto a questo trovi tutto il resto più piccolo e vile, non lasciare spazio a nient’altro: perché una volta che tu abbia preso a inclinare e a gravitare verso qualcos’altro non sarai più in grado di onorare indisturbato, al di sopra di tutto, quel bene che a davvero e solo tuo: al bene della ragione e della società, infatti, non a lecito contrapporre qualsivoglia cosa di altra natura, come gli elogi della gente o le cariche o la ricchezza o il godimento dei piaceri. Tutte cose, queste, che se anche per un po’ sembrano rispondere a un intimo equilibrio, all’improvviso prendono il sopravvento e fuorviano. Tu però, dico; scegli in modo semplice e libero il meglio e attieniti a questo. «Ma il meglio a l’utile». Se intendi l’utile dell’essere razionale, osservalo sempre; se invece intendi l’utile dell’essere animale, dichiaralo e tieni fermo il tuo giudizio, senza vane esibizioni; soltanto, cerca di condurre la tua valutazione con assoluta sicurezza.

7              Non onorare mai come il tuo utile ciò che un giorno ti costringerà a tradire la parola data, ad abbandonare il pudore, a odiare qualcuno, a sospettare, maledire, recitare, desiderare qualcosa che debba esser nascosto da pareti e paraventi. Perché chi in prima istanza ha scelto il proprio intelletto, il proprio demone e il culto che spetta alla virtù di questo demone, non fa tragedie, non rompe in gemiti, non sentirà il bisogno di essere solo o di avere una folla intorno: e, il punto più importante, vivrà senza inseguire né fuggire. E di poter usufruire per uno spazio di tempo maggiore o minore dell’anima avviluppata nel suo corpo non gli importa minimamente: infatti, anche se deve andarsene tra un istante, a pronto a staccarsi e a partire come a compiere un’altra qualsiasi delle azioni che si possono compiere senza vergogna e con dignità, badando, per tutta la vita, solo a questo, che la sua mente non si volga a qualcosa di improprio per un essere razionale e sociale.

8              Nella mente di un uomo riportato alla disciplina e alla purezza non puoi trovare nulla di marcio, nulla di contaminato, nessuna piaga interna. E la sua vita, quando il fato la coglie, non a incompiuta, come invece si direbbe nel caso di un attore tragico che si congedasse prima di aver concluso e recitato l’intero dramma. E ancora: nulla di servile, nulla di specioso, nessun legame eccessivo, nessun distacco reciso, nessun rendiconto a terzi, niente in agguato.

9              Venera la facoltà di concepire un’opinione: dipende totalmente da questa che nel tuo principio dirigente non insorga più un’opinione incoerente con la natura e con la costituzione dell’essere razionale. Ed a questa che promette un’attitudine non precipitosa e la familiarità con gli uomini e l’obbedienza agli dai.

10           Getta via tutto, quindi, e tieni ferme solo queste poche cose, e ricorda anche che ciascuno vive solo questo presente, incommensurabilmente breve: il resto a già stato vissuto o a avvolto nell’incertezza. È poca cosa, quindi, ciò che vive ciascuno, ed a poca cosa il cantuccio della terra in cui vive; e poca cosa a anche la più duratura fama postuma: questa fama trasmessa da una generazione all’altra di omuncoli che in un attimo sono morti, e che non conoscono neppure se stessi, figurarsi poi chi a già morto da tanto tempo!

11           Ai fondamenti già esposti se ne aggiunga ancora uno: provvedere sempre a definire o raffigurare l’oggetto della rappresentazione, così da vederlo qual a nella sostanza, nudo, nella sua interezza e, distintamente, in tutte le sue parti, e pronunciare tra sé il nome che lo designa e i nomi degli elementi di cui a stato composto e in cui si dissolverà. Nulla, infatti, può elevare il nostro animo quanto il saper vagliare sistematicamente e autenticamente i singoli eventi della vita, e guardare sempre ad essi in maniera da cogliere quale utility il dato evento abbia per quale cosmo, e di conseguenza quale valore abbia in relazione all’universo, e quale in relazione all’uomo cittadino della città suprema, di cui le altre città sono come le case; che cosa sia e di cosa sia composto e per quanto tempo, secondo la sua natura, persista questo oggetto che ora produce la mia rappresentazione, e quale virtù si debba usare nei rapporti con esso – per esempio: la mansuetudine, la fortezza, la sincerità, la lealtà, la semplicità, l’autosufficienza, eccetera. Perciò in ogni singola circostanza occorre dire: questa cosa viene da dio, quest’altra risulta dal combinarsi di accadimenti, dall’intreccio di connessioni e dalla tale coincidenza fortuita, quest’altra poi viene da un essere che condivide la mia razza, la mia stirpe e la mia comunità, e tuttavia ignora che cosa per lui a secondo natura. Ma non lo ignoro io: perciò lo tratto secondo la legge naturale della comunità, con indulgenza e giustizia; e insieme, però, miro ad attribuire il giusto valore nei campo delle cose intermedie.

12           Se svolgi il cómpito presente seguendo la retta ragione, con impegno, con vigore, benevolmente, e non ti curi di alcun fatto accessorio, ma di mantenere il tuo demone nella sua purezza, come se da un momento all’altro dovessi restituirlo: se ti attieni a questo principio senza attenderti o rifuggire nulla, pago invece del tuo attuale operato conforme a natura e della romana verità di ciò che dici ed esprimi, vivrai felice. E non c’a nessuno che possa impedirti di farlo.

13           Come i medici hanno sempre sottomano gli strumenti e i ferri per intervenire d’urgenza, così tu tieni sempre pronti i principî per conoscere l’umano e il divino, e per agire in ogni cosa, anche nella più piccola, come chi ha ben presente il reciproco legame tra l’uno e l’altro. Perché ignorando la correlazione con le cose divine non potrai compiere bene nulla di umano, e viceversa.

14           Non divagare più: non riuscirai a leggere i tuoi appunti, né le imprese degli antichi Greci e degli antichi Romani e gli estratti delle opere che ti eri messo da parte per la vecchiaia; affréttati alla meta, allora, lascia stare le vane speranze e soccorri te stesso, se ti importa qualcosa di te, finché a possibile.

15           Non sanno quanti significati ha rubare, seminare, comprare, starsene quieti, vedere le cose da farsi (operazione che non si fa con gli occhi, ma con un’altra vista).

16           Corpo, anima, intelletto. Del corpo: le sensazioni; dell’anima: gli impulsi; dell’intelletto: i principî. Essere impressionati da una rappresentazione a proprio anche del bestiame, essere mossi come marionette dagli impulsi a proprio anche delle belve, degli androgini, di un Falaride, di un Nerone; avere nella mente una guida a ciò che appare il nostro cómpito a proprio anche di chi non crede negli dei, di chi tradisce la patria e di chi … quali cose non fa, quando ha chiuso la porta! Ora, se il resto a comune ai soggetti menzionati, la peculiarità che rimane propria dell’uomo onesto a amare ed accettare di cuore gli eventi e l’intreccio di fatti che gli toccano; e non macchiare né agitare il demone che risiede nel suo petto con una turba di rappresentazioni, ma conservarlo sereno, disposto a seguire disciplinatamente dio, senza dire nulla di contrario al vero o fare nulla di contrario al giusto. E se anche l’intera umanità non crede che egli viva semplicemente, con discrezione e ottimismo, non si adira con nessuno e non devia dalla strada che conduce al termine della vita, dove bisogna giungere puri, tranquilli, pronti al distacco, in spontanea armonia con il proprio destino.

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IL TRATTATO DI MARCO AURELIO II° LIBRO

Scritto nel territorio dei Quadi presso il Gran: libro I. LIBRO II

1              Al mattino comincia col dire a te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore, un invidioso, un individualista. Il loro comportamento deriva ogni volta dall’ignoranza di ciò che a bene e ciò che a male. Quanto a me, poiché riflettendo sulla natura del bene e del male ho concluso che si tratta rispettivamente di ciò che a bello o brutto in senso morale, e, riflettendo sulla natura di chi sbaglia, ho concluso che si tratta di un mio parente, non perché derivi dallo stesso sangue o dallo stesso seme, ma in quanto compartecipe dell’intelletto e di una particella divina, ebbene, io non posso ricevere danno da nessuno di essi, perché nessuno potrà coinvolgermi in turpitudini, e nemmeno posso adirarmi con un parente né odiarlo. Infatti siamo nati per la collaborazione, come i piedi, le mani, le palpebre, i denti superiori e inferiori. Pertanto agire l’uno contro l’altro a contro natura: e adirarsi e respingere sdegnosamente qualcuno a agire contro di lui.

2              Qualunque cosa sia questo che sono, a infine carne, soffio vitale e principio dirigente. Getta via i libri, non ti far più distrarre: non a consentito. E invece, come se fossi a un passo dalla morte, disprezza la carne: coagulo di sangue, ossa, ordito intessuto di nervi, vene, intrico di arterie. Poi osserva anche quale sia la natura del tuo soffio vitale: vento, e neppure sempre lo stesso, ma un alito che, a ogni istante, viene emesso e riaspirato. Per terzo viene il principio dirigente. Qui rifletti: sei vecchio; non consentire più che questo principio sia schiavo, che come una marionetta sia manovrato da un impulso individualistico, che recrimini contro il destino presente o guardi con ansia quello futuro.

3              L’operato degli dai a pieno di provvidenza, l’operato della fortuna non a estraneo alla natura oppure a una connessione e a un intreccio con gli eventi governati dalla provvidenza: tutto deriva di ly. E va aggiunto anche che ogni cosa a necessaria e utile alla totalità del cosmo, di cui sei parte. Ma per ogni parte della natura a bene ciò che a prodotto dalla natura universale e ciò che contribuisce alla sua conservazione: e il cosmo a conservato sia dalle trasformazioni degli elementi, sia dalle trasformazioni dei composti. Ti bastino queste considerazioni, dal momento che si tratta di principî fondamentali: respingi invece la sete di libri, per poter morire non mormorando, ma veramente sereno e grato, dal profondo del cuore, agli dai.

4              Ricorda da quanto tempo rinvii queste cose e quante volte, ricevuta una scadenza dagli dai, non la metti a frutto. Devi finalmente comprendere quale sia il cosmo di cui sei parte, quale sia l’entità  al governo del cosmo della quale tu costituisci un’emanazione, e che hai un limite circoscritto di tempo, un tempo che, se non ne approfitti per conquistare la serenità, andrà perduto, e andrai perduto anche tu, e no n vi sarà un’altra possibilità.

5              Ad ogni istante pensa con fermezza, da Romano e maschio quale sei, a compiere ciò che hai per le mani con serietà scrupolosa e non fittizia, con amore, con libertà, con giustizia, e cerca di affrancarti da ogni altro pensiero. Te ne affrancherai compiendo ogni singola azione come fosse l’ultima della tua vita, lontano da ogni superficialità e da ogni avversione passionale alle scelte della ragione e da ogni finzione, egoismo e malcontento per la tua sorte. Vedi come sono poche le condizioni che uno deve assicurarsi per poter vivere una vita che scorra agevolmente e nel rispetto degli dai: perché gli dai non chiederanno nulla di più a chi osserva queste condizioni.

6              Offendi, offendi te stessa, anima mia: ma non avrai più l’occasione di renderti onore; […] la vita per ciascuno: ma questa vita tu l’hai quasi portata a termine senza rispettare te stessa, riponendo invece la tua felicità nelle anime altrui.

7              Ti distraggono gli accidenti esterni? Procurati il tempo di apprendere ancora qualcosa di buono e smetti di vagare senza meta. Anzi, devi guardarti anche dal secondo genere di smarrimento: infatti vaneggiano anche attraverso le loro azioni gli uomini stanchi della vita e senza un obiettivo al quale indirizzare ogni impulso e, insomma, ogni rappresentazione.

8              Difficilmente si vede qualcuno infelice perché non considera che cosa avvenga nell’anima di un altro; mentre chi non segue i moti della propria anima fatalmente a infelice.

9              Bisogna sempre tenere a mente questi punti: qual a la natura del tutto e quale la mia; in quale relazione questa sta con quella e quale parte a di quale intero; che nessuno può impedirti di agire e di esprimerti sempre in conformità alla natura di cui sei parte.

10           Nel valutare comparativamente le varie colpe, come si usa comunemente confrontarle, Teofrasto da vero filosofo afferma che sono più gravi quelle commesse per concupiscenza di quelle commesse per ira. L’individuo adirato, infatti, sembra voltare le spalle alla ragione in uno stato di sofferenza e di latente contrazione, mentre chi sbaglia per concupiscenza, vinto dal piacere, risulta in un certo senso più intemperante e femmineo nelle proprie mancanze. Quindi a corretta e filosoficamente apprezzabile l’opinione di Teofrasto secondo cui l’errore che si accompagna al piacere a soggetto a imputazione più grave di quello che si accompagna al dolore; in sintesi: nel primo caso l’individuo a assimilabile a chi ha patito un’ingiustizia e dalla sofferenza a stato inevitabilmente spinto all’ira, mentre nel secondo la persona ha tratto da se stessa l’impulso a commettere ingiustizia, lasciandosi trascinare ad agire per concupiscenza.

11           Fare, dire e pensare ogni singola cosa come chi sa che da un momento all’altro può uscire dalla vita. Ma congedarsi dagli uomini non a nulla di grave, se gli dai esistono: non vorrebbero certo travolgerti nel male; e se, d’altra parte, o non esistono oppure non si curano delle cose umane, che mi importa di vivere in un mondo privo di dai o privo di provvidenza? Ma non a così: esistono e si occupano delle cose umane e hanno attribuito all’uomo il pieno potere di non incorrere in quelli che sono veramente mali; quanto agli altri, se qualcuno di essi fosse davvero un male, gli dai avrebbero anche provveduto a che tutti avessero la facoltà di evitarlo. Ma ciò che non rende peggiore l’uomo come potrebbe rendere peggiore la vita dell’uomo? La natura dell’universo non avrebbe mai trascurato queste cose per ignoranza e neppure perché, pur conoscendole, non potesse prevenirle o correggerle, né avrebbe compiuto, per impotenza o inettitudine, un simile errore, e ciò a che bene e male toccassero in egual misura, indistintamente, agli uomini buoni e ai cattivi. La morte, appunto, e la vita, la fama e l’oscurità, il dolore e il piacere, la ricchezza e la povertà, tutte queste cose accadono in egual misura agli uomini buoni e ai cattivi, in quanto non sono moralmente belle né brutte. Non sono, quindi, né beni né mali.

12           Come tutto svanisce rapidamente: nel cosmo i corpi stessi, nell’eternità il loro ricordo; qual a la natura di tutte le cose sensibili e soprattutto di quelle che adescano con il piacere o spaventano per il dolore o hanno trovato risonanza nella vanità dell’uomo; come sono vili, spregevoli, sordide, corruttibili, morte … – tocca alla facoltà razionale soffermarsi su questi punti; che cosa sono costoro, la cui opinione e la cui voce dispensano fama e infamia; che cos’a la morte, e il fatto che, se uno la osserva in sé e per sé e attraverso un’analisi del concetto dissolve ciò che vi crea l’immaginazione, non la considererà più null’altro che un’opera della natura – e se uno teme un’opera della natura, a un bambino, e d’altronde questa non a solo un’opera della natura, ma anche un’opera utile alla natura stessa; come l’uomo si collega a dio, per quale sua parte e in quale disposizione deve essere questa parte dell’uomo perché giunga tale momento.

13           Nulla di più sventurato di chi percorre tutto in cerchio e, dice il poeta, «indaga le profondità della terra» e cerca di captare ciò che sta nell’anima del prossimo, senza accorgersi che basta dedicarsi esclusivamente al demone che ha dentro di sé e tributargli un culto sincero. E il culto che gli spetta consiste nel serbano puro dalla passione, dalla leggerezza e dallo scontento per ciò che viene dagli dai e dagli uomini. Le cose che vengono dagli dai, infatti, sono venerabili per la loro virtù, mentre quelle che vengono dagli uomini sono care per il nostro legame di parentela, e qualche volta sono anche, in certo modo, degne di pietà perché nascono dall’ignoranza del bene e del male – cecità, questa, non meno grave di quella che impedisce di distinguere il bianco dal nero.

14           Anche se tu dovessi vivere tremila anni e dieci volte altrettanto, in ogni caso ricorda che nessuno perde altra vita se non questa che sta vivendo, né vive altra vita se non questa che va perdendo. Pertanto la durata più lunga e la più breve coincidono. Infatti il presente a uguale per tutti e quindi ciò che si consuma a uguale e la perdita risulta, così, insignificante. Perché nessuno può perdere il passato né il futuro: come si può essere privati di quello che non si possiede? Ricordare sempre, quindi, questi due punti: il primo, che tutto, dall’eternità, a della medesima specie e ciclicamente ritorna, e non fa alcuna differenza se si vedranno le stesse cose nello spazio di cento o di duecento anni o nell’infinità del tempo; il secondo, che sia chi vive moltissimi anni sia chi dopo brevissimo tempo a già morto subiscono una perdita uguale. È solo il presente, infatti, ciò di cui possono essere privati, poiché a anche l’unica cosa che possiedono, e uno non perde quello che non ha.

15           Tutto a opinione. Sono evidenti, infatti, le parole rivolte a Monimo il Cinico; ed a evidente anche l’utilità di quelle parole, se uno ne accetta il succo nei limiti della loro veridicità.

16           L’anima dell’uomo offende se stessa soprattutto quando diviene, per quanto da essa dipende, un ascesso e come un’escrescenza del cosmo. Perché sentirsi in contrasto con qualcuno degli eventi a una defezione dalla natura, che include le singole nature di ciascuno degli altri esseri. In secondo luogo, l’anima offende se stessa quando respinge una persona o addirittura la contrasta con l’intenzione di danneggiarla, come fa l’anima di chi a in preda all’ira. In terzo luogo: quando si lascia vincere dal piacere o dal dolore. In quarto luogo: quando recita e fa o dice qualcosa fingendo o nascondendo la verità. In quinto luogo: quando non indirizza una sua azione o un suo impulso ad alcun obiettivo, ma fa cose qualsiasi, a caso e senza badarvi: mentre anche il più piccolo gesto deve avvenire in relazione al suo fine; e il fine degli esseri razionali a di seguire la ragione e la legge della città e dello Stato più venerabili.

17           Nella vita umana il tempo a un punto, la sostanza a fluida, la sensazione oscura, il composto dell’intero corpo a marcescibile, l’anima a un inquieto vagare, la sorte indecifrabile, la fama senza giudizio. Riassumendo: ogni fatto del corpo a un fiume, ogni fatto dell’anima sogno e inanità, la vita a guerra e soggiorno in terra straniera, la fama postuma a oblio. Quale può essere, allora, la nostra scorta? Una sola ed unica cosa: la filosofia. La sua essenza sta nel conservare il demone che a in noi inviolato e integro, superiore ai piaceri e ai dolori, in grado di non compiere nulla a caso né subdolamente e ipocritamente, di non aver bisogno che altri faccia o non faccia alcunché; ancora: disposto ad accettare gli avvenimenti e la sorte che gli tocca in quanto provengono di là (ovunque si trovi poi questo luogo) da dove anch’egli a giunto; soprattutto, pronto ad attendere la morte con mente serena, giudicandola null’altro che il dissolversi degli elementi di cui ciascun essere vivente a composto. Ora, se per gli elementi stessi non c’a nulla di temibile nel continuo trasformarsi di ciascuno in un altro, perché si dovrebbe temere la trasformazione e il dissolvimento del composto di tutti questi elementi? È conforme a natura, e nulla di quanto a conforme a natura a male.

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PENSIERI A SE STESSO, UNA MEDITAZIONE ISPIRATA AL TRATTATO DI MARCO AURELIO “RICORDI” I° LIBRO

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I “pensieri a se stesso” o “Ricordi” sono una raccolta di scritti di Marco Aurelio Annio Vero, un imperatore romano della dinastia degli Antonini che regnò a Roma nel secondo secolo D.C.. Marco Aurelio fu imperatore dal 161 al 180 D.C., succedendo ad Antonio Pio, che lo aveva adottato su indicazione del suo predecessore Publio Elio Adriano.

Si tratta di testi scritti in più periodi e raccolti in libri, frutto di una meditazione legata alla pratica della vita filosofica stoica; furono composti durante le campagne militari che Marco condusse alle frontiere della Germania tra il 170 e il 180 D.C.

Inizia infatti così il secondo libro: “Scritto nel territorio dei Quadi presso il fiume Granua”.

Nel mondo antico la meditazione è pratica collettiva, o anche individuale, ma sempre connessa ad una sorta di dialogicità implicita (ne vediamo traccia in certi testi di Seneca sulla felicità, sulla vecchiaia o sulla morte).

Essa assume molti volti, a seconda delle scuole, ma ha una caratteristica comune: non è un percorso di ricerca, ma di applicazione della ricerca alla vita.

I “pensieri” di Marco Aurelio richiamano i principi della scuola stoica e sono il frutto di una meditazione su di essi operata mediante il legame con l’esperienza vissuta, interiore ed esteriore.

L’uomo è stato considerato da sempre l’imperatore-filosofo: il punto di arrivo della scuola stoica.

Voglio evitare di impegnarmi in un’esposizione di quella corrente filosofica (la stoica appunto)  nell’ambito della quale il Marco Aurelio dei “pensieri” viene solitamente ascritto dalla critica moderna; non ho le conoscenze approfondite per farlo.

L’idea di questa tavola è, piuttosto, quella di cogliere il senso profondo della figura di un uomo del passato che, da una posizione di assoluto privilegio, sente il bisogno di parlare con se stesso e tocca aspetti essenziali dell’esistenza.

Del resto alcune delle tematiche fissate nell’opera che ci è stata tramandata sono le basi di alcuni principi del pensiero massonico moderno.

Perché è interessante  la  figura di quest’uomo vissuto tanti secoli fa?

Non è per il libro in se stesso –  per quanto nell’antichità lo scrivere fosse una cosa assai rara e non consueta, se non per i filosofi di professione, ma non certo per uomini “d’azione” (a parte Cesare e Cicerone, nell’antichità pochissimi statisti hanno lasciato tracce scritte compiute delle loro gesta) – e non certo per lo stile dello scritto: un po’ lezioso e pesante.

E’ interessante, secondo me, perché il Marco Aurelio dei “pensieri” anticipa i tempi: per arrivare a vedere un’opera simile occorre che passino molti secoli e arrivare a Montaigne con i suoi “Saggi”.

Ma egli, a differenza di Montaigne (che scriverà ben al chiuso del suo castello di campagna) è un uomo di azione calato in un contesto di un’epoca storica che vede per il mondo classico l’inizio della disgregazione.

Nel libro è difficile non cogliere l’idea che ci troviamo di fronte ad un grande dignitosissimo, attore – perdente della storia; è paradossale che egli, l’uomo più potente del mondo, si renda conto che le vittorie conseguite non potranno fermare il corso della storia; avverte chiaramente che la fame dei barbari avrà la meglio sulla forza dei romani; sente che è già in atto la crisi irreversibile dell’Impero Romano.

Come tutti i grandi perdenti finisce però per suscitare nei posteri un grande affetto ,poiché la sconfitta ha una dignità che la vittoria non merita.

Vengono in mente la parole che farà dire la Yourcenar nelle “Memorie di Adriano” all’Imperatore Adriano nella lunga lettera immaginaria al piccolo Marco Aurelio, quando, troppo severo con se stesso, non si concedeva nulla dei frutti e degli svaghi che la vita poteva offrirgli nella Villa Adriana di Tivoli; dice più o meno: “mi chiedo a che ti serva tanta virtù, su quale scoglio ti infrangerai poiché è certo che ciò accadrà”.

Venendo alla poetica del libro.

Nel libro Marco tenta di spiegarci la nostra esistenza puntando sulla forza del cuore filtrata dalla dura disciplina del dovere.

La forte spinta emotiva del libro è dovuta al tentativo di allargare la coscienza fino ad abbracciare l’umanità.

La massima che ispira il libro è questa: non perder mai di vista il grafico di una esistenza umana, che non si compone mai, checché si dica, d’una orizzontale e due perpendicolari, ma piuttosto di tre linee sinuose, prolungate all’infinito, ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato; tutto ciò non è sotto il nostro controllo: quello che noi possiamo fare è operare per il bene, rifuggire il male, curarsi dell’essenziale.

“Corri sempre per la via più breve – la via più breve è quella secondo natura – così da parlare e agire sempre nel modo più valido. Un simile proposito, infatti, libera dalle fatiche di una campagna militare, di ogni incombenza di governo, dell’eccessiva raffinatezza”.

Non si deve mai perdere di vista l’essenza.

Ricordati che sta nascosto dentro di te ciò che muove i fili della tua esistenza, ed è attività, è vita, è l’uomo, se così si può dire. Non confonderlo mai, quando te lo immagini, con l’involucro che lo avvolge, né con gli organi che gli sono stati modellati intorno …”.

E quanto più ti senti coinvolto tanto più  devi essere distaccato.

“Quanto vale, di fronte alle leccornie e ai cibi di questo genere, accogliere la rappresentazione: «questo è il cadavere di un pesce, quest’altro il cadavere di un uccello o di un maiale», e, ancora, «il Falerno è il succo di un grappolo d’uva», e «il laticlavio sono peli di pecora intrisi del sangue di una conchiglia»; e, a proposito dell’unione sessuale: «è sfregamento di un viscere e secrezione di muco accompagnata da spasmo»! Quanto valgono queste rappresentazioni che raggiungono le cose in sé e le penetrano totalmente, fino scorgere quale sia la loro vera natura. Così bisogna fare per tutta la vita, e, quando le cose ci si presentano troppo persuasive, bisogna denudarle e osservare a fondo la loro pochezza e sopprimere la ricerca per la quale acquisiscono tanta importanza. Perché la vanità è una terribile dispensatrice di falsi ragionamenti, e ti lasci più incantare proprio quando più ti pare di impegnarti in cose di valore”.

Marco Aurelio fa propria una coscienza lucida e forte di avvertire la prossima fine dell’Impero, quale lui lo presiede, ed elabora in ciò una saggezza profonda, quasi non toccata dal divenire. Perché in fondo al saggio stoico nulla importa se non questo: vivere con onestà ogni minuto.

Il Marco Aurelio che ci piace vede davanti a sé il mutare del destino e, dalla posizione privilegiata che ricopre (di capo della superpotenza del mondo antico), accetta di prendere parte al gioco vestendo i panni di chi deve resistervi.

E che per far ciò usa le armi di cui dispone: una buona dose di filosofia per sé – per rendere sopportabile ciò che altrimenti sarebbe intollerabile – e una buona dose di cinica violenza per gli altri: possedeva le più potenti forze armate di tutti i tempi e le usò – si dice – senza risparmio: nel libro non sono riportati gli eccidi – che pure vi furono – di intere popolazioni barbariche.

Un (breve) inquadramento storico.

Era nato a Roma nel 121 D.C., da una nobile famiglia equestre di origine spagnola.

Fu designato ancora giovane da Adriano a succedere ad Antonino Pio, purtroppo per lui, Marco maritò la figlia di Antonino Pio, tale Faustina.

Non ebbe fortuna coi figli né con Faustina: tra un amante e l’altro ebbe, sì, il tempo di dargli quattro figli: due femmine e due gemelli.

Di questi però uno morì precocemente mentre l’altro, Commodo, che sarà suo successore, si rivelerà  un pessimo reggitore di Roma.

Veniva dalla famiglia d’origine spagnola degli Aureli, una “Gens” che si era guadagnata il soprannome di “Veri” per la loro onestà nell’amministrazione della cosa pubblica (una rarità all’epoca).

Era rimasto orfano a pochi mesi e della sua educazione si occupò il nonno (Adriano) che gli dette ben 17 precettori di cui 4 in grammatica, uno in matematica e sei in filosofia.

Si appassionò alla filosofia stoica che non solo volle studiare a fondo, ma anche praticare.

A 12 anni cominciò a dormire nudo sul letto ed iniziò una dieta ed un’astinenza (anche sessuale) tanto severe che la sua salute alla fine si dice ne risentì.

Ma questo non gli impedì poi di essere soldato fra i soldati e di condividerne fatiche e disagi nei lunghi anni di direzione della guerra alla frontiera germanica.

Antonino Pio lo aveva designato, seguendo i dictat del suo mèntore, come suo Cesare quando era ancora adolescente ed associato al suo governo quando era ancora giovanissimo.

Quando salì al trono aveva 40 anni.

Probabilmente non aveva né inclinazione per le armi, né esperienza di esse, visto che non riportò mai decisive vittorie ma trascinò una guerra avanti per anni e anni.

Fu costretto a combattere contro nemici interni ed esterni per quasi tutta la durata del suo regno.

E tanto fece con  coscienziosa determinazione.

Durante il Regno di Marco Aurelio si cominciano ad evidenziare i segni dell’incipiente declino: i  tentativi di invasione dei barbari nelle frontiere danubiane e la fragilità delle strutture sociali ed economiche del mondo antico tipiche di una società chiusa.

Per capire il senso dei dialoghi, che sono effettivamente intrisi da una profonda tristezza, non si può non riflettere sul fatto che ci fu durante quei tempi una escalation di guerre ai confini (guerre, che gli faranno passare almeno vent’anni in accampamenti militari; prima in oriente, poi sul confine danubiano).

Quelle guerre orientali, si portarono dietro una tremenda conseguenza: la peste; infatti terminate le operazioni di guerra ad Oriente (anni 161 – 166 D.C.)alcune Legioni tornarono in Italia e portarono con sé il contagio.

La peste giunse a Roma spargendo lutti e desolazione lungo il suo cammino; imperversò per anni nei quartieri di moltissime città dell’Italia centrale; Roma ebbe interi isolati che furono interdetti dai soldati a titolo sanitario (si dice, ma è un dato esagerato, che perirono di peste almeno 200.000 persone solo nell’Urbe).

Dietro l’epidemia arrivò la carestia secondo un rituale che era consueto nel mondo antico, poiché quel mondo era basato su di una economia per lo più di sussistenza.

Mentre la peste infuriava nella stessa Roma, giunse un’altra grave crisi esterna.

Cominciò la serie di dure guerre sul Danubio, che doveva occupare, con brevi interruzioni, i rimanenti anni del regno di Marco (167 – 180).

La causa: un grande movimento migratorio iniziato dai Germani del Baltico, a loro volta premuti da famelici popoli scandinavi che si riversarono a sud in cerca di cibo e pascoli stanziali.

I confini lasciati da Traiano al nord  erano troppo vicino all’Italia per non suscitare apprensioni in chi governava.

La prova fu data dall’invasione improvvisa di un’orda di Marcomanni che distrusse parte del nord-est del Veneto, penetrando in profondità fino ad Oderzo e che furono a stento ricacciati al di là delle Alpi con un esercito raccogliticcio fatto di schiavi e avanzi di galera.

I rimedi dell’epoca che si poterono escogitare furono i seguenti: l’annessione del territorio dei Marcomanni (area fra l’Elba e l’Oder) e successivamente di quello dei Quadi (tribù stanziate nell’odierna Moravia), la Boemia e la Moravia sarebbero diventati il baluardo settentrionale dell’Impero.

Durante queste campagne di contenimento e rafforzamento il nostro Marco scriverà i pensieri a se stesso.

Non vedrà il compimento del suo disegno strategico: morirà a Vienna (all’epoca chiamata Vindobona) poco prima di porvi termine; chi gli succederà  (il figlio Commodo) amava troppo la bella vita romana per cimentarsi nell’ambiziosa impresa: in breve, rinunciò ad annettersi il nord e ripiegò a Roma dopo aver stipulato, in tutta fretta, un trattato, giusto salvando le apparenze, e lasciando le frontiere immutate.

Ebbe una fortuna da morto, smentendo alcuni suoi scritti: quella di non essere dimenticato; sia per l’opera letteraria che per la sue effige.

I Cristiani non gli distrussero la statua equestre eretta in suo onore avendola scambiata per quella del loro “protettore” Costantino che, a conti fatti, fu un uomo assai peggiore di lui.

La statua equestre e dorata di Marco che troneggia in Piazza del Campidoglio, innalzatagli postuma dal figlio in un momento di rimorso – l’originale è nei musei capitolini – ce lo raffigura in un incedere solenne: ha le sembianze del guerriero, ma lo sguardo è quello del filosofo che vede la fine di una fase storica.

Ci piace pensare  – dato che la statua è, per la verità, poco espressiva mancando degli occhi – che da quello sguardo dal Campidoglio sgorghi tutta la contraddizione fra un dettato morale teso alla libertà ed alla eguaglianza ed una necessità di real-politik che tende a conservare e consolidare l’imperialismo in atto.

Quando gli si richiese per l’ultima volta la parola d’ordine, la risposta, si dice, di Marco Aurelio fu: “andate verso il sole nascente, il mio sole tramonta”.

E con lui tramontava anche il mondo antico.

Da allora in poi la crisi assumerà proporzioni vastissime; nel secolo III, sarà temporaneamente arrestata da Diocleziano e Costantino, fino alla rovinosa caduta finale del V secolo.

Anche per questo, forse, fu l’ultimo dei grandi Imperatori romani.

Quali sono le idee che Marco ci tramanda dal suo lontanissimo passato? Sono idee attualissime e certo apprezzabili dai liberi Muratori.

Il destino dell’uomo è fissato nella natura; la natura ha dato all’uomo uno spirito; segue che il destino dell’uomo non è nel soddisfare i sensi – che ci accomunano con gli altri animali – ma nel pensare e nell’agire conformemente alla sua natura razionale cioè alla parte divina di sé.

Il successo delle nostre azioni non dipende solo da noi; alcune cose sono in nostro potere altre no; il successo esterno non è sicuro; può anche venire a mancare: non si deve averne angustia, il vero successo è la cura della salvezza dell’anima; lo scopo della vita è perfezionare il proprio essere. Nell’anima ogni uomo è libero quanto Dio.

L’uomo deve impiegare tutte le sue forze in un lavoro positivo: non nella passività, ma nell’azione si trovano il bene e la virtù dell’essere razionale.

Il bene è ciò che ci migliora, il male è ciò che ci peggiora interiormente.

La morte non deve spaventarci perché in essa c’è un processo naturale che secondo l’ordine cosmico porta al dissolvimento dell’individuo e al trapasso delle parti che lo compongono in altre forme di essere.

Gli affetti rappresentano per l’uomo morale il pericolo più insidioso perché limitano la libertà dello spirito.

Morirà a Vienna di malattia, forse di peste, impegnato nella guerra contro i Quadi: aveva fatto promettere al figlio che la sua opera sarebbe stata conclusa e i confini rassicurati e ristabiliti; il figlio, come ho detto, non lo ascoltò nemmeno; ma così aveva parlato Marco:

“Prerogativa propria dell’uomo è amare anche chi sbaglia. E questo si verifica, se ti si presenta il pensiero che si tratta di parenti e che sbagliano per ignoranza e senza volerlo, e che tra poco entrambi, tu e chi ha sbagliato, sarete morti..”.

A se stesso (Pensieri) – Il Trattato di Marco Aurelio

Marco Aurelio

A se stesso

(pensieri)

LIBRO I

1            Da mio nonno Vero: il carattere buono e non irascibile.

2            Dalla fama e dal ricordo che si conservano di mio padre: il comportamento riservato e virile.

3            Da mia madre: la religiosità, la generosità e la ripugnanza non solo a compiere il male, ma anche all’idea di compierlo; ancora: il tenore di vita semplice e distante dalla condotta dei ricchi.

4            Dal mio bisnonno: non aver frequentato le scuole pubbliche, aver avuto buoni maestri tra le mura di casa, e aver compreso che per questo genere di cose non si deve risparmiare.

5            Dal mio precettore: non esser stato sostenitore dei Verdi né degli Azzurri né dei gladiatori armati di parma o di quelli armati di scutum; la resistenza alle fatiche e la sobrietà nelle esigenze, contare sulle proprie forze e non immischiarsi; non prestare ascolto alla calunnia.

6            Da Diogneto: l’indifferenza per ciò che è vacuo; non prestar fede alle fole di ciarlatani e imbroglioni su incantesimi, cacciate di demoni e simili; non perdersi a colpire le quaglie sulla testa o dietro ad inezie del genere; tollerare la franchezza di linguaggio; aver acquisito familiarità con la filosofia; aver ascoltato prima Bacchio, poi Tandaside e Marciano; aver scritto dialoghi quand’ero ragazzo; aver desiderato un lettuccio con una pelle e tutte le altre cose di questo genere connesse con l’educazione greca.

7            Da Rustico: aver capito la necessità di correggere e curare il carattere; non aver deviato verso ambizioni da sofista, non dedicarsi a scrivere di questioni teoriche o a recitare discorsetti ammonitorî ovvero a impressionare la gente esibendo il modello dell’asceta o del benefattore; essermi allontanato dalla retorica, dalla poesia e dal brillante conversare; non girare per casa in toga e non fare cose analoghe; scrivere le lettere in modo semplice, come quella che egli stesso scrisse a mia madre da Sinuessa; la disponibilità a riavvicinarsi e riconciliarsi con chi si è irritato o ha mancato verso di noi, non appena decide di tornare sui suoi passi; leggere con estrema attenzione e non accontentarsi di afferrare il senso generale, e non trovarsi sùbito d’accordo con chi chiacchiera; l’incontro con i commentarî di Epitteto, che mi fornì dalla sua biblioteca.

8            Da Apollonio: l’atteggiamento libero e senza incertezze nel non concedere nulla alla sorte e nel non guardare, neppure per poco, a nient’altro che alla ragione; restare sempre uguali, nei dolori acuti, nella perdita di un figlio, nelle lunghe malattie; aver visto con chiarezza, in un modello vivo, che la stessa persona può essere molto energica e pacata; non irritarsi mentre si da una spiegazione; aver visto un uomo che evidentemente considerava come l’ultima delle sue qualità l’esperienza e l’abilità nell’insegnare i principî teorici; aver imparato come si devono ricevere dagli amici i cosiddetti favori: senza sentirsi inferiori per averli ricevuti e senza respingerli, peccando di tatto.

9            Da Sesto: la benevolenza; il modello di una famiglia patriarcale; il concetto di vita secondo natura; la dignità autentica; la capacità di cogliere in cosa prendersi cura degli amici; la pazienza verso chi, privo di istruzione, crede anche a ciò che non ha esaminato in termini scientifici; la capacità di trovarsi bene con tutti: cosicché il suo conversare era più accattivante di ogni adulazione, eppure, in quel preciso momento, agli occhi dei suoi stessi interlocutori, egli restava degno del più alto rispetto; l’intelligenza e il metodo nell’individuare e disporre i principî indispensabili per la vita; non aver mai dato segno esterno di ira o di altra passione, essendo invece, nello stesso tempo, assolutamente impassibile e affettuosissimo; la disposizione a elogiare, e senza troppo rumore; un’ampia cultura, senza spazio per l’esibizione.

10          Dal grammatico Alessandro: non censurare e non redarguire in maniera offensiva chi parlando incappa in un barbarismo o in un solecismo, ma, con il giusto tatto, limitarsi a pronunciare l’espressione corretta, come se si stesse rispondendo o manifestando la propria approvazione o analizzando la sostanza della questione, non il termine usato, oppure attraverso un’altra forma altrettanto garbata di rilievo.

11          Da Frontone: aver valutato il grado di invidia, tortuosità e ipocrisia del potere tirannico, e come in generale costoro che da noi si chiamano patrizi siano, in certo modo, più insensibili all’affetto.

12          Da Alessandro il Platonico: parlando o scrivendo una lettera a qualcuno, non dire spesso e senza una ragione stringente «non ho tempo», e non declinare continuamente, in questo modo, i nostri doveri nelle relazioni con chi ci vive accanto, col pretesto degli impegni che ci assediano.

13          Da Catullo: non trascurare un amico che ci accusa di qualcosa, anche se capita che ci accusi senza ragione, ma cercare di riportarlo al suo rapporto consueto con noi; parlar bene, di cuore, dei propri maestri, come insegna quello che si racconta di Domizio e Atenodoto; l’amore autentico per i figli.

14          Da Severo: l’amore per la famiglia, l’amore per la verità, l’amore per la giustizia; aver conosciuto, grazie a lui, Trasea, Elvidio, Catone, Dione, Bruto, ed essermi formato l’idea di uno stato con leggi uguali per tutti, governato secondo i principî dell’uguaglianza politica e di uguale diritto di parola, e l’idea di una monarchia che al di sopra di ogni cosa rispetti la liberty dei sudditi; ancora da lui: la giusta misura e la costanza nell’onorare la filosofia; fare del bene ed elargire con generosità; l’ottimismo e la fiducia nell’affetto dagli amici; la schiettezza verso chi meritasse la sua riprovazione; il fatto che i suoi amici non dovevano ricorrere a congetture per capire cosa volesse o non volesse: al contrario, il suo intendimento era chiaro.

15          Da Massimo: governare se stessi e non lasciarsi confondere in nulla; il buon umore in ogni circostanza e in particolare nelle malattie; il carattere ben temperato: dolcezza e dignità; la capacità di adempiere i propri impegni senza cedere alla sofferenza; il fatto che, quando diceva qualcosa, tutti avevano fiducia che quello fosse davvero il suo pensiero, e, quando faceva qualcosa, che agisse senza cattive intenzioni; la capacità di non farsi sorprendere o sbalordire, e di non cedere, in nessuna circostanza, alla fretta o all’indugio o alla disperazione, oppure alla depressione o al sarcasmo, o, ancora, alla collera e al sospetto; la propensione a fare del bene, al perdono e alla sincerità; l’impressione che offriva: di chi non si lascia piegare piuttosto che di chi si sta raddrizzando; il fatto che nessuno avrebbe mai pensato di essere disprezzato da lui né avrebbe mai osato di ritenersi superiore a lui; il saper scherzare in modo buono.

16           Da mio padre: l’indole mite e la fedeltà incrollabile alle decisioni attentamente meditate; il rifiuto di ogni vanagloria per i cosiddetti onori; l’amore per il lavoro e la tenacia; la disponibilità ad ascoltare chi ha da proporre qualcosa di utile alla collettività; l’atteggiamento inflessibile nell’attribuire a ciascuno secondo il merito; l’esperienza nel vedere dove occorra tirare, dove invece allentare; l’aver posto fine agli amori con i fanciulli; il rispetto per gli altri e l’aver consentito agli amici di non banchettare sempre con lui e di non doverlo per forza seguire nei suoi viaggi: anzi, il farsi sempre ritrovare amico come prima da chi per qualche necessità era rimasto a casa; lo scrupolo e l’insistenza, durante le riunioni di consiglio, nel cercare soluzioni, e non, come si dice, «non ha concluso il suo esame, accontentandosi delle prime impressioni»; il modo di conservare gli amici, senza mai provare fastidio per loro, e neppure un folle attaccamento; l’autosufficienza in tutto e la serenità; la lungimirante preveggenza e il provvedere a ogni minima cosa senza atteggiamenti teatrali; il fatto che, sotto di lui, furono ridotte le acclamazioni e ogni forma di adulazione verso il potere; l’attenzione continua alle necessità dell’impero, la gestione oculata della spesa pubblica e la tolleranza verso le critiche abituali in simili casi; non esser superstizioso per quel che riguarda gli dèi, né demagogo per quel che riguarda gli uomini, in cerca di consenso o di favore tra la massa, ma sobrio in ogni circostanza e saldo, mai volgare o smanioso di novità; saper far uso di ciò che serve a confortare la vita, e che la sorte fornisce in abbondanza, senza boria, e, insieme, senza accampare pretesti, in modo, se c’è, da goderne senza artifici, e da non sentirne il bisogno se manca; il fatto che nessuno lo avrebbe potuto definire un sofista o un buffone o un pedante, ma un uomo maturo, completo, immune alle adulazioni, capace di provvedere agli interessi suoi e altrui; inoltre, l’onore riservato ai cultori autentici della filosofia, senza tuttavia offendere gli altri, e senza neppure, però, farsi fuorviare da loro; ancora: l’affabilità e la gentilezza, ma senza esagerazione; la cura che aveva della sua persona: nei giusti limiti, e non come chi è troppo attaccato al proprio corpo, senza indulgere al lezioso e neppure cadere nella sciatteria, cosicché grazie alla propria personale attenzione riduceva al minimo la necessità di ricorrere all’arte medica o ai farmaci, e con l’esclusione di ogni impiastro; soprattutto il suo saper cedere il passo, senza invidia, a chi possedeva una certa abilità, per esempio nell’eloquenza o nello studio delle leggi o dei costumi o di altre materie, e l’impegno con il quale aiutava ciascuno a divenire famoso nel settore in cui aveva particolare talento – e seguendo sempre nella sua azione le tradizioni avite, non cercava di mettere in luce neppure questa linea di condotta; ancora: la tendenza non a trasferirsi e spostarsi avanti e indietro, ma a restare a lungo negli stessi luoghi e nelle stesse attività; la capacità, dopo i suoi violenti attacchi di cefalea, di tornare sùbito fresco e pieno di energie al lavoro consueto; il suo non avere molti segreti, ma pochissimi, rarissimi e solo su questioni di Stato; il buon senso e la misura nell’allestimento di spettacoli, nell’edificazione di opere pubbliche, nelle elargizioni al popolo e simili: da uomo che tiene d’occhio quello che si deve fare, non la gloria che può seguire alle sue azioni.

Non prendeva bagni in ore inconsuete, non aveva la fissazione di edificare, non pensava sempre ai cibi, ai ricami e ai colori delle vesti, alla bellezza degli schiavi. La veste che veniva da Lorio, dall’abitazione di campagna di laggiù, e la maggior parte di quel che accadde a Lanuvio; come si comportò con l’esattore che lo implorava a Tuscolo, e ogni analoga occasione. Non ebbe alcun atteggiamento rude, inesorabile, violento, o tale che qualcuno potesse dire: «fino al sudore»; ma ogni cosa veniva da lui valutata analiticamente, come in un momento di riposo, senza turbamenti, con ordine, con fermezza, nell’armonia dei fattori interni. Gli sarebbe adatto quanto si tramanda di Socrate, e cioè che sapeva sia godere sia rinunciare a quelle cose di fronte alle quali i più si mostrano deboli al momento di astenersene e smodati al momento di gustarne. L’esser forte e resistere con tenacia e, in entrambi i casi, mantenere la sobrietà sono caratteristiche di un uomo che possiede un animo diritto e invincibile, come ad esempio dimostrò nella malattia di Massimo.

17           Dagli dèi: l’aver avuto buoni nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni maestri, buoni familiari, parenti, amici, quasi tutti; il fatto che non sono arrivato a commettere una colpa verso nessuno di essi, pur avendo una disposizione tale per cui, se ve ne fosse stata l’occasione, me ne sarei macchiato – ed è un beneficio degli dèi che non si sia verificato nessun concorso di avvenimenti che potesse rivelarmi per quello che sono; non esser cresciuto troppo a lungo presso la concubina di mio nonno; aver conservato intatto il mio vigore e non aver avuto rapporti sessuali prima del tempo, anzi, aver atteso ancora dopo che era giunto il momento; esser stato sottoposto a un sovrano e a un padre che avrebbe eliminato ogni mia alterigia e mi avrebbe condotto a pensare che a corte si può vivere senza bisogno di guardie del corpo o di vesti pregiate, di candelabri o statue di questo genere e di un consimile sfarzo, e che anzi ci si può limitare a un tenore di vita assai vicino a quello di un privato, senza perciò risultare troppo modesti o trasandati di fronte alle incombenze che il sovrano deve affrontare nel pubblico interesse; aver avuto un fratello quale il mio, capace, con il suo carattere, di spronarmi ad aver cura di me stesso, e, insieme di gratificarmi con il suo rispetto e il suo affetto; non aver avuto figli deficienti o deformi; non aver fatto troppi progressi nella retorica, nella poesia e nelle altre discipline, in cui forse sarei rimasto irretito, se mi fossi accorto di procedere con facilità; aver prevenuto i miei precettori attribuendo loro la posizione alla quale mi parevano ambire, e non aver rinviato la cosa in attesa, considerata la loro giovane età, di farlo in séguito; aver conosciuto Apollonio, Rustico, Massimo; essermi spesso e con chiarezza rappresentato quale sia la vita secondo natura: cosicché, per quanto sta agli dèi e alle comunicazioni, agli aiuti, alle ispirazioni che da essi provengono, nulla ormai mi impedisce di vivere secondo natura – che a questo obiettivo manchi ancora qualcosa, semmai, a colpa mia, perché non osservo i suggerimenti e, diciamo quasi, gli insegnamenti che vengono dagli dai; il fatto che il mio corpo abbia così a lungo resistito in una simile vita; non aver toccato Benedetta né Teodoto, e, anche più tardi, caduto in passioni amorose, esserne guarito; essermi tante volte adirato con Rustico, ma senza mai far nulla di cui poi pentirmi; il fatto che mia madre, pur destinata a morir giovane, abbia egualmente vissuto con me i suoi ultimi anni; il fatto che ogniqualvolta ho voluto soccorrere una persona povera o che aveva altre necessità, non mi sono mai sentito rispondere: «Non ho abbastanza denaro per farlo»; e non essermi trovato in un analogo stato di bisogno, ridotto a dover ottenere da altri; il fatto che mia moglie fosse così, tanto docile, tanto affettuosa e semplice; aver avuto per i miei figli tanti precettori adatti; il soccorso ricevuto attraverso i sogni, in particolare contro gli sbocchi di sangue e le vertigini; e […] a Gaeta […] … e, quando desiderai accostarmi alla filosofia, non essere incappato in un sofista e non esser rimasto seduto a leggere gli autori, ad analizzare i sillogismi o ad occuparmi dei fenomeni celesti. Perché tutte queste cose esigono l’aiuto degli dai e il favore della sorte.

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MASSONERIA VEICOLO DI LIBERTA’ ATTRAVERSO I SECOLI

MASSONERIA VEICOLO DI LIBERTA’ ATTRAVERSO I SECOLI

Carissimi Fratelli.

Io sono veramente convinto che oggi noi Liberi Muratori Italiani, uscendo da un difficile e regressivi periodo di crisi, ci troviamo di fronte l’opportunità di vivere, se lo vorremo, una fase memorabile della storia massonica italiana.

Ritengo, infatti, che sia giunto il momento di riprendere e svolgere pienamente, ma con maggiore e più precisa consapevolezza, il nostro incontestabile ruolo di concreti fautori dell’elevazione morale, materiale e spirituale dell’Uomo e dell’Umana Famiglia, professando con rigore e coraggio le nostre in equivoche idealità, le quali non possono che essere, giustamente coerenti e con la Tradizione e con le incancellabili esperienze storiche dalle quali, noi Massoni italiani abbiamo avuto la ventura e la fortuna di essere stati forgiati.

Ora, al fine di cogliere, se possibile, quelle indicazioni che forse potranno consentirci di individuare l’essenza della finalità ideale primigenia, proviamo ad indagare nella storia non recente della Massoneria, e sono certo che da una più approfondita conoscenza del passato, potranno scaturire dei chiarimenti molto utili per comprendere la funzione che la Libera Muratoria ha svolto, e che pure oggi deve svolgere, per non mancare di adempiere i suoi doveri verso l’Umanità.

   * * * * *

La storia del genere umano tracciata dal massone Fr. James Anderson, nel suo Libro delle Costituzioni , pubblicato nel 1723, come ben sapete, non è altro che un panorama dei progressi scientifici e materiali compiuti dall’Uomo, dopo la creazione del mondo, cioè i risultati dell’eterno conflitto fra l’ ignoranza e la libera intelligenza umana; fra ciò che può aver ostacolato l’emancipazione dell’Uomo e ciò che, invece, la può aver favorita.

In questo senso, allora, tutto il progresso evolutivo dell’Umanità può essere visto e considerato come l’effetto del continuo contrapporsi – con risultati certo non prestabiliti – fra l’aspirazione dell’Uomo alla libertà e tutto ciò che, invece, la contrasta.

         Mi sembra già una buona indicazione per la nostra ricerca. Ora, però, a noi non interessa indagare, applicando questa chiave interpretativa, fin dai primordi del Genere Umano e seguire tutte le alterne vicende di questa entusiasmante e dolorosa competizione.

Questa chiave, tuttavia, ci consente di individuare un momento storico in cui, un’esigenza organizzativa specializzata per edificare grandi opere, ha consentito, certo involontariamente, il nascere di un tipo di comunità che, moltiplicandosi e diffondendosi, è stata causa comprimaria di eventi molto importanti per il consolidamento di una tendenza la quale risulterà, poi, abbastanza ben riconoscibile nella storia della libertà umana.

            Mi riferisco alla nascita delle comunità dei Liberi Muratori le quali, per tutto il Medio Evo, un po’ dovunque in Europa, ebbero il compito profano di costruire chiese, conventi e castelli, ma che in concreto – da un esame più approfondito si evidenzia chiaramente – ebbero pure la non comune funzione di tenere accesala Fiaccola della Libertà, in un terrificante mondo di soprusi, di violenza e di ignoranza,.

Queste comunità di Liberi Muratori, le quali si insediavano nel luogo dove sorgeva la nuova opera solo per il tempo necessario all’edificazione, erano sotto la protezione dei vari committenti e godevano del singolare privilegio di essere quasi completamente affrancate dalle rigide ed oppressive leggi e servitù feudali.

Avevano una loro autonoma organizzazione interna che, tra l’altro, si proponeva di trasmettere con gradualità e segretezza l’apprendimento dell’Arte Edificatoria. L’Arte, naturalmente, comprendeva regole tecniche e modalità di lavoro secondo le quali progettare e costruire, ma anche norme etiche di comportamento esistenziale per il buon governo della comunione.

Queste regole erano insegnate agi apprendisti in gran parte con l’esempio dato dai più anziani, ma pure durante le periodiche riunioni, che si svolgevano sempre ritualmente, e servivamo per dirimere problemi di lavoro oppure si trattava di eleggere un capo, oppure ancora per esercitare il diritto, loro riconosciuto, di amministrare autonomamente la giustizia.

Ebbene, cosa c’era di tanto straordinario in queste fratrie di Liberi Muratori? A noi, forse, può sembrare quasi insignificante ciò che stava germogliando in quelle comunità, ma se lo confrontiamo con le reali ed atroci limitazioni di vario genere a cui era soggetta la maggior parte degli esseri umani  nel Medio Evo, si può comprendere meglio come in quelle associazioni, tra mille difficoltà, nell’ambito delle congnizioni culturali del tempo, con le inevitabili anche se ridotte ingerenze del potere laico e religioso, si stava affermando un nuovo concetto di libertà, più o meno consapevolmente, ben prima che assurgesse a simbolo storico della Rivoluzione Francese, basato appunto su di un trinomio di principi ideali incoercibili: libertà individuale, uguaglianza democratica, fratellanza universale.

Naturalmente, poiché niente nella società del Medio Evo, nel mondo occidentale, poteva essere concepito, oppure accadeva al di fuori dell’ambito eclesiastico, pure la vita dei Liberi Muratori aveva, di conseguenza, una forte e comprensibile caratterizzazione religiosa, anche se più o meno ortodossa, perché in effetti, come possiamo apprendere dai documenti lasciati, erano presenti e vigenti concezioni e ritualità iniziatiche di chiara origine precristiana.

Ma un’altra peculiarità assunse, con il tempo, un valore molto importante e contribuì certamente in modo notevole anche all’evoluzione ed alla diffusione dei concetti di affrancamento insiti nel trinomio cui abbiamo fatto cenno.

Questi Liberi Muratori, che erano altamente specializzati nell’Arte del Costruire, non potevano certo assolvere anche tutte quelle mansioni per le quali non necessitavano particolari conoscenze o precise abilità, ma che tuttavia erano indispensabili per l’edificazione. Le Comunità, pertanto e fra l’altro, avevano anche il potere – come di direbbe oggi – di assumere liberamente la mano d’opera necessaria, in loco, scegliendo fra gli abitanti dei borghi o tra i servi della gleba. Questi nuovi assunti, per distinguerli dai veri componenti la fratria, venivano  chiamati “accettati” ed avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri: godevano dell’uguaglianza fraterna e dell’aiuto reciproco vigente, ma soprattutto dovevano rispondere di quello che facevano o avevano fatto, solo alla giustizia autonoma della comunione. Coloro poi che tra gli “accettati” dimostravano di possedere le attitudini e le qualità occorrenti, venivano, qualche volta, preparati ed iniziati all’Arte.

Ebbene, questo privilegio di affrancare gli “accettati” dal potere costituito, si dimostrò estremamente importante perché consentì alle fratellanze dei Liberi Muratori di essere un sicuro rifugio per coloro che si trovavano ad essere perseguitati ingiustamente o per questioni politiche.

E proprio nei secoli in cui gli aneliti alla libertà, dal pesante dominio laico e religioso, spingevano i soggiogati alla ribellione, sempre più di frequente, le comunità dei Liberi Muratori, per tradizione liberali ed umanitarie, si mostravano tolleranti ed accoglievano quei perseguitati “fuori legge” che, in effetti, erano solo dei cittadini che avevano il coraggio di dimostrare che non erano disposti ad accettare i soprusi e le violenze dei prepotenti.

Le comunioni dei Liberi Muratori, così, assunsero anche il ruolo di nascondiglio per chi cercava un ambiente comprensivo e congeniale con le nuove idee di libertà, e divennero, poi, nel 1500 e nel 1600 un sicuro punto di riferimento e di appoggio nel gran girovagare per l’Europa, che caratterizzò la vita degli uomini più brillanti del mondo occidentale.

Questo aspetto delle fratrie ebbe, certamente, un’importanza assai rilevante subito dopo la disfatta della Montagna Bianca, a Praga nel 1620, subita dal Re di Boemia, Federico V, elettore palatino, battaglia dalla quale ebbe inizio la guerra dei trent’anni e la ferocissima persecuzione cattolica a tutti queli Rosa-croce che avevano sognata e realizzata, per la breve durata di un inverno, la creazione di uno Stato rosacrociano del cuore dell’Europa.

E nelle Comunità dei liberi Muratori, la Loggia, con il passar del tempo e con il graduale evolversi dei vincoli culturali del Medio Evo, da luogodi riunione nel quale nel quale si affrontavano i problemi tecnici ed artistici del cantiere, con l’occasionale presenza dei committenti o di uomini di cultura che intendevano partecipare e contribuire all’evento creativo in corso, divenne anche l’ambiente in cui si facevano riunioni durante le quali gli “accettati”, che si trovavano a far parte più o meno temporanea della fratria, per ragioni non proprio edificatorie, parlavano di ciò che avevano visto accadere nei vari Stati europei, ed esponevano idee socio-culturali nuove che venivano, poi, fatte oggetto di fraterna e libera discussione tra i presenti.

Le periodiche sedute rituali, quindi, assumevano sempre più di frequente un’importanza esclusivamente speculativa, mirante alla costruzione culturale del singolo individuo e della società. Nelle Logge, diventava sempre più numerosa la presenza degli “accettati”, che erano solo uomini di cultura, rispetto ai Liberi Muratori operativi, anche per effetto, ormai, della decadente funzione di questi ultimi nella storia dell’architettura.

In questo senso, anche lo storico italiano Carlo Francovich afferm:”Sembra che tale processo [di trasformazione], avesse avuto inizio molto per tempo in Scozia e cioè fin dal 16° secolo, mentre in Inghilterra, essi si intensificò a cominciare dal 1607, quando Giacomo I Stuart si proclamò protettore della corporazione [dei liberi Muratori] e nominò Inigo Jones [famoso scenografo di Corte] Maestro della stessa.”

Le Logge allora esistenti, protette dalla Casa Regnante degli Stuart, erano di rigorosa impostazione cristiana, e negli statuti della Loggia di York, del 1704, si trova che era prescritto il giuramento di essere “fedela a Dio ed alla Santa Chiesa”, Ma era inevitabile, come accadrà sempre nella storia dell’Istituzione, che l’insopprimibile spirito di libertà aleggiante nelle Logge, formasse uomini i quali, sensibili alle nuove istanze di democrazia e di emancipazione dal potere assoluto, si trovavano, naturalmente anche, a far parte di quelle correnti politiche che, per mezzo di due rivoluzioni, destituirono definitivamente gli Stuart dal trono inglese.

Con la vittoria degli Hannover, questi massoni, rispondendo all’esigenza di ispirare i loro Lavori Muratori secondo maggiori libertà culturali e sociali, ed anche secondo universalità più aperte, il 24 giugno 1717, costituirono la Gran Loggia di Londra, dando vita ad una precisa organizzazione centralizzata, prima inesistente, che gli storici, poi,  hanno chiamato Massoneria Moderna.

Una cosa che appare subito evidente, carissimi Fratelli, è che proprio la nascita della Massoneria Moderna può essere il chiaro esempio di uno dei tanti e continui mutamenti, anche profondi, che le fratrie dei Liberi Muratori hanno sempre apportato alla Tradizione precedente, per adeguarla ai progressi dell’evoluzione culturale contemporanea  ferme restando le finalità ideali.

In questo caso, la tradizione rigidamente religiosa e papista, veniva sostituita con un’impostazione molto più aperta e tollerante.Nella Massoneria Moderna, il principio di fratellanza che univa i componenti la Loggia, anche per soddisfare una precisa esigenza politica del momento, prescriveva un’indulgente tolleranza religiosa la quale consentiva di chiamarsi Fratelli fra loro, cattolici, protestanti, deisti, atei, e – come scrive esplicitamente Carlo Francovich – non obbligava il massone “a seguire una religione rivelata, anche se era opportuno che seguisse quella praticata nel suo paese.”

Era sufficiente, infatti, che praticasse quella religione che – come precisa James Anderson nelle sue Costituzioni – “consiste nell’essere buoni, sinceri, modesti, persone d’onore, qualunque sia il credo che li distingue.”

Il principio di uguaglianza che, come abbiamo visto nelle fratrie operative, aveva la funzione di porre tutti nelle stesse condizioni di fronte ai diritti ed ai doveri, ora in questa massoneria, diciamo hannoveriana, fa maturare un aspetto che avrà notevoli conseguenze in senso politico.

Accogliendo fra le Colonne del Tempio, ugualmente Fratelli, il nobile ed il borghese, con la possibilità di parlare, di votare liberamente insieme, e di aiutarsi reciprocamente in Loggia e nel mondo profano, essi rendevano concreta ed operante una concezione democratica che, nel resto dell’Europa era sconosciuta oppure fortemente osteggiata.

La Massoneria Moderna si presenta dunque come una vera precorritrice, nel professare le idee nuove che incominciavano ad affermarsi nel mondo culturale contemporaneo; essa si presenta con le caratteristiche di una corporazione universale, o meglio – come dice il Francovich – “una confraternita morale che unisce tutti gli uomini di buona volontà, d’ogni paese, d’ogni lingia, d’ogni razza, d’ogni condizione sociale, indipendentemente dalle loro opinioni politiche e religiose, per affermare gli ideali di libertà e di progresso, che tra lotte  e contrasti di vario genere, si andavano forgiando nella società inglese alla fine del 17° secolo ed agli inizi del 18°.

Con questa impostazione aperta e favorevole allo spirito innovatore del tempo, la Massoneria Hannoveriana prese a diffondersi in tutta Europa, raccogliendo in ogni dove, in seno alle proprie Logge, gli uomini più impegnati nell’emancipazione dell’Umanità dalle resistentissime soggezioni socio-politiche e culturali che si erano instaurate durante il Medio Evo.

“Nell’ambito di questa Massoneria, eminentemente filantropica – cito ancora da Francovich – con implicazioni notevoli di carattere politico e sociale, continuano a sussistere, in seno alle Logge, nuclei di occultisti e di alchimisti alla ricerca della pietra filosofale, della panacea e del contato immediato con il mondo degli spiriti.”

Ma questi gruppi, che daranno poi sempre una loro connotazione specifica alla Massoneria in  alcuni ambienti ed in certi momenti storici erano costituiti – ritengo si possa ben dire – da coloro che, per motivi connessi la loro maturità individuale e non avendo seguita e compresa la dinamica evoluzione cui è sempre soggetto ciò che concerne l’Uomo, erano rimasti, purtroppo, fermi nel tempo, all’uso di strumenti e di concetti, ormai superati, che erano stati invece veramente rivoluzionari – anche per l’affermazione di nuove metodologie di sperimentazione sistematica – quando Marsilio Ficino, nel 1462, li portò a conoscenza degli uomini colti, nel mondo occidentale, con la diffusione in latino del “Corpus “Ermeticum”, erroneamente attribuito ad Ermete Trismegisto.

Strumenti e concetti che, però, conservavano, ancora nei primi decenni del 1600, gran parte della loro carica innovativa, come chiaramente emerge dal pensiero rosacrociano espresso nei famosi e noti “Manifesti”.

Intanto, nel suo diffondersi in Europa, la Libera Muratoria giunge anche in Italia. Gli storici si trovano d’accordo nello stabilire che, molto probabilmente, la prima Loggia importante in Italia viene eretta a Firenze tra il 1731 ed il 1732.

Questa Loggia, dipendente dalla Gran Loggia di Londra e quindi con precise tendenze hannoveriane, diventa presto il centro del movimento di promozione culturale che in tutta la Toscana aveva preso l’avvio, sotto il governo, criticabile ma certamente assai tollerante, dell’ultimo dei Medici: Gian Gastone. In un clima di speranza e di fermenti ideali, la vita muratoria fiorentina dava generosamente il suo non trascurabile impulso per favorire una maggiore libertà intellettuale.

“I componenti la Loggia – ci fa sapere Francovich – erano per lo più indifferenti al problema religioso, oppure, in prevalenza professavano il culto della ‘Religione Naturale’, dando al nucleo latomistico fiorentino un deciso carattere deista.”

Come poi andarono le cosa, carissimi Fratelli, lo sapete molto bene e ritengo quindi questo semplice accenno sufficiente a ricordare con quale orientamento nacque la Massoneria in Italia, ed a quale Tradizione eventualmente ci si dovrebbe riferire quando proprio di Tradizione Italiana si volesse parlare.

Ma ritornando invece alla caduta degli Stuart dal trono d’Inghilterra, va ricordato il fatto che, nel 1649, dopo la decapitazione di Carlo I Stuart, la sua vedova Enrichetta, accogliendo l’invito del Re di Francia, si rifugia nel castello di Saint Germani insieme a molti seguaci ai quali riusciva difficile continuare a vivere rimanendo in Inghilterra. Tra questi cortigiani, alcuni, affiliati alle Logge giacobite londinesi di impronta cattolica, costituirono una Loggia proprio a Saint Germani dando così inizio alla vita massonica francese che, in tal modo, nasceva sotto gli auspici cattolici degli Stuart. La diffusione della Massoneria statista in Francia fu notevole.

“Ma le Logge allora – come osserva Carlo Francovich – da chiunque fossero fondate erano aperte a tutti i Fratelli: Ciò non toglie che in esse, rispettando almeno formalmente le regole imposte dalla fratellanza, si combattesse con sottigliezza, dall’una e dall’altra parte, per ottenere il controllo della Società: Ed è chiaro che, con il passar del tempo, con il rafforzarsi della dinastia hannoveriana sul trono d’Inghilterra, i massoni protestanti, potendo contare sugli aiuti del governo inglese, oltre che sulla validità dei loro principi più liberali, e valendosi anche delle diserzioni, sempre più numerose, nel campo stuartista, finissero per affermarsi in varie Logge, anche se fondate dal partito avverso.” Ed è così che nel 1729 si giunge ad una più precisa distinzione, eminentemente politica, fra i due tipi di Massoneria in Francia, si ha cioè una scissione nella quale gli hannoveriani costituiscono una loro Loggia che, nel 1732, otterrà il riconoscimento ufficiale della Gran Loggia di Londra.

Ma un più netto divaricamento dei due rami latomistici in Europa, si ebbe con la comparsa sulla scena storica, della “discussa e misteriosa figura del cavaliere Michel Ramsay” il quale dapprima deista, poi convertito al cattolicesimo, iniziato a Londra nel 1730, pronunciò a Parigi, nel 1737, il discorso con il quale – come scrive Francovich – “l’avventuriero scozzese assegna nuove finalità alla Libera Muratoria e ne traccia una nuova storia.”

“Ramsay infatti – prosegue Francovich – respinge nel suo discorso l’interpretazione corporativa della Massoneria; respinge le premesse borghesi ed egualitarie della Libera Muratoria inglese per attribuirle una discendenza aristocratica e cavalleresca.”

“Secondo Ramsay – continuo a citare Francovich – la Massoneria è sempre esistita ed ha continuato ad esistere in Oriente quando in occidente si era perduto il ricordo della dottrina segreta che in essa si perpetuava, Furono i Crociati, andati al seguito di Goffredo di Buglione, che riscoprirono nei sotterranei del Tempio di Gerusalemme, le leggi dell’antica confraternita. Essi decisero di ricostruirla anche in Europa, dopo che fossero tornati ai loro rispettivi Paesi. L’Ordine godette della protezione del Re d’Inghilterra e soprattutto dei Re di Scozia, Ma durante le guerre di religione che sconvolsero l’Europa, nel 16° secoli, la Massoneria subì notevole decadenza: i Fratelli dimenticarono le vere finalità dell’Ordine. Solo in questi ultimi anni – diceva Ramsay – si è ricominciato in Inghilterra e soprattutto in Scozia, dove la confraternita ha meglio conservato la purezza della dottrina segreta, un lavoro di riorganizzazione della Libera Muratoria che ha cominciato a fiorire anche in Francia. Secondo l’oratore, toccava ora ai massoni francesi assumere la direzione della fratellanza e guidarla verso le sue vere finalità.”

Ecco dunque, carissimi Fratelli, che la Massoneria si diffonde in Europa presentandosi però, grosso modo, prevalentemente sotto due aspetti principali.

Da una parte c’è chi dà preminenza ai principi di tolleranza religiosa e l’idealità muratoria è caratterizzata da uno spirito egualitario e filantropico, apertamente sensibile alle nuove idee illuministiche; dall’altra c’è, invece, chi mira alla costituzione di una Massoneria eminentemente aristocratica, con accentuate aspirazioni spiritualistiche, la quale specialmente negli alti gradi, tra il moltiplicarsi dei culti esoterici, coltiva, non sempre disinteressatamente, l’alchimia, la magia e la teosofia. I principi di questo secondo aspetto della Massoneria, “ad opera degli emigrati stuartiani e giacobini, e poi per mezzo delle Logge militari dell’esercito francese, sciamarono per tutta Europa ed attecchirono soprattutto in Germania” dove, dopo il 1750, sviluppando l’indicazione mitica del Ramsay, i Riti massonici acquisirono, ad opera di tre scaltri e spregiudicati personaggi, un nuovo Rito, quello del Cavalieri Templari.

Basandosi sulla leggenda che i Templari si sarebbero, attraverso i secoli, occultati nella Libera Muratoria, veniva ora proposta la ricostituzione dell’antico Ordine, nell’interesse dell’Umanità, ma anche con il preciso scopo di rivendicare il possesso delle favolose ricchezze, territoriali ed immobiliari, del Sacro Ordine.

Lestofanti, avventurieri e mitomani di vario genere, sedicenti depositari delle conoscenze segrete note ai “Superiori Sconosciuti”, tra contrasti e raggiri personali, teatrali messe in scena, e con promesse mirabolanti, riuscirono a diffondere ed a far prosperare questa Massoneria, di impronta nettamente mistica ed occultistica, come si è detto, particolarmente in Germania, fino al 1764 quando avvenne l’unificazione con un gruppo latomistico similare, del quale fu adottata anche la denominazione di “Stretta Osservanza”, proprio per distinguersi dalle Logge inglesi, hannoveriane, ritenute di blanda osservanza.

Intanto a Lione fa la sua comparsa un altro personaggio che avrà un’importanza considerevole per la Massoneria occultista europea, si tratta di Jean Baptiste Willermoz. “Costui – ci dice Francovich – valente e facoltoso mercante di tessuti, era un ardente seguace delle dottrine e dell’organizzazione fondata da Martines de Pasqually.”

“Pasqually, aveva creato la setta occultista degli Élus Coëns [sacerdoti eletti], secondo la cui dottrina, il ‘Grande Adamo’, ultima e conclusiva emanazione degli esseri creati da Dio, desiderando a sua volta di essere demiurgo, avrebbe provocato con il suo orgoglio la sua caduta, da dominatore degli esseri celesti e terreni, nella forma mortale del Secondo Adamo o ‘Homme de désir’. Soltanto mediante il mezzo esteriore dei Gradi degli Élus Coëns, e mediante il mezzo interiore della ‘Via attiva’, l’uomo decaduto potrà tentare la reintegrazione nello stato primitivo del Grande Adamo, La ‘Via attiva’ consisteva in un rito occultista basato sulla magia, che comprendeva un allenamento fisico simile a quello yoga; esso doveva causare, se rettamente eseguito, uno stato di estesi durante il quale l’adepto poteva mettersi in contatto con l’al di là. Tale contatto, nato da uno speciale stato di grazia, veniva, da Pasqually e dai suoi adepti, chiamato la ‘cosa’, ed avveniva nell’ultima classe di questo rito.” “Se l’esperimento riusciva – continua a spiegare Francovich – l’iniziato entrava in diretto contatto con Dio che si manifestava con apparizioni di luci, di contatti a fior di pelle o addirittura con la visione di una presenza angelica.”

I seguaci di Martines de Pasqually, tra i quali il Willermoz, avevano assistito ad esperimenti del genere ed erano rimasti molto impressionati, e quando nel 1773 il Martines partì per le Antille definitivamente, gli Élus Coëns continuarono a tenersi in contatto, proseguendo i loro tentativi negli esperimenti tergici, anche se, fino alla partenza del Maestro, nessuno e nemmeno il Willermoz, aveva raggiunto il contatto con Dio, che invece era previsto, come si è sentito, all’ultimo grado della quarta classe.

Gli Élus Coëns, ben presto però, si divisero in due gruppi distinti. Uno, quello guidato da Willermoz, che nel 1774 confluì nella Stretta Osservanza, con il preciso scopo – in gran parte realizzato – di strumentalizzare l’organizzazione dell’Ordine Templare, indirizzandolo verso il particolare spiritualismo martinesista. L’altro, un gruppo con a capo Louis Claude de Saint Martin, ex segretario personale di Martines de Pasqually, ultimo grado “Possente Sacerdote” del rito martinesista, il quale dà vita ad un altro sistema esoterico spiritualista in cui, rinunciando in parte alla magia come strumento di contatto con il mondo divino, pur conservando il concetto mitico della “reintegrazione” basilare nella dottrina del Martines, si affidava a pratiche di misticismo del  tutto interiorizzato per conseguire la massima, finale, elevazione verso la divinità.

Mentre questi erano, sommariamente, gli eventi che segnavano gli sviluppi, le trasformazioni e le proliferazioni della corrente massonica a contenuto eminentemente spiritualista, cosa stava accadendo della corrente che abbiamo designato, per intenderci, hannoveriana?

Pure essa si stava difondendo in tutto il continente europeo ed in America, rimanendo coerente con l’impostazione del 1717: professando, in senso innovatore, i principi di libertà, uguaglianza e fratellanza, mantenendosi aperta tanto alla borghesia quanto alla nobiltà, praticando la tolleranza religiosa intesa come superamento delle divisioni ecclesiali e dei vincoli dogmatici. Senza promettere l’esistenza e la rivelazione di segreti strabilianti, impostava la vita muratoria su di un piano più concreto che, tenendo conto dello spirito dei tempi, favoriva l’iniziazione e la formazione di uomini atti a meglio comprendere le emergenti esigenze di libertà socio-politica, uomini che erano sensibili e disposti anche a lottare con sacrifici, quando erano convinti di agire per l’affrancamento dell’Uomo.

Particolarmente in Francia, in Austria ed in Italia la Massoneria hannoveriana ebbe un’importanza determinante nel tener viva e nell’alimentare la Fiaccola della Libertà che sempre più illuminava il mondo occidentale.

Basta citare, a sostegno di quanto ora affermato, solo due esempi di attività latomistica, fra i più significativi per il contributo dato, con uomini e con idee, allo sviluppo democratico dell’Europa, prima della Rivoluzione Francese.

“Nel complesso – ci fa sapere Carlo Francovich – la Libera Muratoria austriaca rimase fedele ai principi basilari delle Logge inglesi: tolleranza religiosa, fratellanza ed uguaglianza fra gli associati, confondendo in tal modo la propria attività con quella del più ampio movimento illuminista, che trovò nelle Logge una forma organizzata atta a promuoverne la diffusione.”

“Il primo iniziatore delle riforme illuministe a Vienna, il famoso Gerhard van Switen, medico di corte, era un Libero Muratore.” “Gli venne affidato, tra l’altro, l’incarico di riformare l’ordinamento scientifico e scolastico austriaco”, “riuscì a liberalizzare gli studi ed a promuovere ovunque il moto delle riforme, Intorno a lui si formò un gruppo selezionato di illuministi e di liberi muratori che rinnovarono la vita culturale del vecchio impero.”

A Vienna “questo gruppo di illuminati massoni – prosegue Francovich – raccolti intorno al van Switen, ebbe il suo centro organizzativo nella Loggia ‘La Vera Concordia’, I Fratelli di questa Loggia erano più preoccupati dei problemi culturali e sociali che non dei miti massonici, essi rispondevano ai nomi di Bierkenstok, di Riegger, di Eybel che, rispettivamente , nel campo della pedagogia, del diritto canonico, dell’etica sociale, promossero e vissero la lotta contro l’oscurantismo, combattendo sia contro le più stolte superstizioni popolari, sia contro i radicali pregiudizi del Tomismo, per cui riuscirono, tra l’altro e non senza sforzo, ad abolire i roghi delle streghe.”

Altra Loggia di rilievo internazionale e di impostazione hannoveriana fu, per esempio, quella che, con il nome “Le Nove Sorelle”, venne fondata a Parigi nel 1776, “con l’idea – ci dice ancora Francovich – di riunire un’élite qualificata di intellettuali per promuovere l’evoluzione delle scienze nei vari campi della cultura, della vita sociale, politica ed economica.”

 Appartennero a questa Loggia le maggiori intelligenze del secolo, a cominciare dal suo fondatore, l’astronomo Lalande, al D’Alambert, al Mably, a Voltaire, a Quesnay, a Franklin, e Jefferson, a Pestalozzi.

                                                   * * * * *

Ecco, carissimi Fratelli, sia pure sommariamente e con una trattazione forse anche troppo schematica, quale è stata la storia della Libera Muratoria prima e dopo il 1717, fino quasi alla Rivoluzione francese. Ecco, cioè, la storia della nostra Istituzione, più o meno ipotizzata nel mito e documentabile nella realtà, partendo dalle Corporazioni del Liberi Muratori, unico ceppo, comunque, dal quale sono germogliati poi i due aspetti principali, di cui si possono avvertire le tracce anche nella Massoneria dei nostri tempi.

Ebbene, miei cari Fratelli, che lezione è possibile ricavare da questa breve indagine sulla nostra “Tradizione”?

Qual è dunque la “VERA” finalità ideale della Libera Muratoria?

Quale possiamo ritenere che sia la “vera Tradizione al di fuori della quale non vi è Massoneria”, cui fanno riferimento perentoriamente alcuni nostri Fratelli?

Forse la Tradizione stuartiana, spiritualista, con le sue ascendenze nobiliari tra i Crociati ed i Templari, e con le sua aspirazioni all’elevazione dell’Uomo per mezzo del misticismo e dalle magia?

Oppure la Tradizione hannoveriana, tollerante in fatto di religione, con nella impronta democratica e borghese, fortemente impegnata politicamente ed ispirata ai principi del razionalismo illuminista?

Ebbene, carissimi Fratelli, a me sembra che da questa schematica e certo incompleta ricerca storica, emerga, prima di tutto, un fatto molto importante e cioè che fin dal tempo delle fratrie, la Libera Muratoria ha dimostrato sempre una precisa apertura ideale nei riguardi della libertà umana, ed una apprezzabile sensibilità per quanto concerne l’evoluzione socio-culturale, confermando, se ce n’era bisogno, che la Massoneria è un’Istituzione iniziatica formata da uomini al fine di risolvere coerentemente problemi umani.

In effetti quindi, carissimi Fratelli, risulta evidente che tutta la nostra Tradizione Muratoria – e l’Art.1 della Costituzione ce lo conferma – ha mirato sempre, qualunque espressione abbia scelto, ad un solo obiettivo primario, e cioè alla graduale emancipazione dell’Uomo e dell’Umana Famiglia, anticipando, o cercando di anticipare, pedagogicamente, il riluttante progredire della società profana.

Tutto il resto, rendiamocene conto, è secondario. 0, per meglio dire, diventa semplice strumento con cui, se utilizzabile, raggiungere il fine primo ora indicato.

Ed a proposito di questo prestigiosissimo compito di anticipazione, miei cari Fratelli, si può ben affermare con orgoglio che, la Libera Muratoria di Palazzo Giustiniani, nelle sue formulazioni di principio, è riuscita ad assolverlo molto egregiamente. Tanto è vero che basta avere la pazienza di leggere un po’ meno distrattamente i nostri Rituali, per comprendere quanta saggezza precorritrice in essi hanno condensato i nostri illustri predecessori; ma, soprattutto, renderci conto che, a differenza di tutte le altre grandi istituzioni operanti – dalle chiese ai partiti – le quali, oggi, affannosamente ricercano una loro identità accettabile ed adeguata al momento di crisi generale, la nostra Istituzione, la Massoneria dispone già di una precisa identità anticipatrice: rispettosa della Tradizione rituale e delle nostre ricchissime esperienze storiche, è perfettamente idonea oggi a soddisfare le deluse necessità di affrancamento dell’Uomo contemporaneo.

Basta far tornare alla mente, per esempio, quanto il Maestro Venerabile, durante l’Iniziazione al grado di Compagno d’Arte, Vi raccomandò: “La mente deve indagare liberamente in ogni campo della conoscenza evitando qualsiasi dogmatismo limitatore”, per comprendere, senza incertezze, quale è e quale deve essere l’impostazione basilare della Libera Muratoria oggi.

Ma se mi consentite di fare una, spero lecita, anticipazione per qualcuno di voi, vorrei a maggior conforto, citare alcune locuzioni pronunciate durante l’Iniziazione al 4° Grado del R.S.A.A., che vale veramente la pena di ricordare perché, oltre che evidenziare l’evoluzione concettuale del R.S.A.A. dal 1700 ad oggi, sono di una validità così universale e di così elevato contenuto dottrinario, da porsi veramente al di sopra di ogni possibile ambiguità interpretativa.

“La suprema e perpetua preoccupazione della Libera Muratoria, – dice il Potentissimo Re Salomone, Presidente di quella Camera Rituale – è l’abbattimento di tutti gli idoli, di tutti i pregiudizi, di tutte le superstizioni, di tutte le menzogne. Fratelli miei – l’ideale dei Liberi Muratori è la verità. Ogni concezione dell’Uomo è progressiva e di conseguenza relativa. La Libera Muratoria non ammette alcuna concezione come definitiva.” “Essa impone il dovere di cercare la verità. Abbiate quindi un solo culto, quello della verità.”

Ecco, secondo me, le fondamenta esistenti sulle quali abbiamo il compito di erigere, fraternamente uniti la nostra Costruzione.

Il tempo, bisogna rendercene conto, in realtà non si è mai fermato e non si ferma, e la Massoneria, carissimi Fratelli, è un’Istituzione viva, la cui funzione storica è di partecipare con uomini e con idee alla Costruzione della Società, e non ci possono essere dubbi che per consentirgli di svolgere la sua funzione di VEICOLO DELLA LIBERTA’ attraverso i secoli, non si può accettare che sia immiserita da finalità limitanti, e tanto meno che venga soffocata da concezioni dogmatiche ed irrazionali che hanno perduto, nel presente, la loro validità di supporto e di incitamento a progredire, per l’Umanità.

Niente di ciò che riguarda l’Uomo si può ritenere strettamente immutabile, ecco l’avvertimento del Saggissimo Re Salomone.

Da tutto questo, allora, carissimi Fratelli, discende anche, accettabile e ragionevole, che nessuna delle due espressioni principali in cui abbiamo constatato si è manifestata la Massoneria dal 18* secolo in poi, può avere attualità immutabile, tanto da venir pedissequamente professata oggi.

Ve lo ripeto, miei cari Fratelli: ciò che indica veramente la Linea della Tradizione Muratoria da seguire è e rimane l’identità universale pervenutaci e simbolicamente sintetizzata nel Trinomio dell’Affrancamento.

Sono invece proprio i mezzi, cioè gli strumenti e le forme da usare per la costruzione di questa idealità universale che debbono, mutare, proprio come si succedono nel tempo – gli stessi Rituali ce lo insegnano – i vari stili architettonici.

Questi stili e questi strumenti – proprio come si è potuto constatare quando è nata la Massoneria Moderna – debbono essere rispondenti e tener in debito conto le tendenze, le nuove acquisizioni conoscitive, il mutare dei valori semantici conseguenti ed il continuo variare delle condizioni ambientali in cui i Liberi Muratori sono chiamati, ogni giorno, concretamente a “progettare” e “costruire”.

La Libera Muratoria, pertanto, se intende rifarsi alle idealità tradizionali, deve tornare ad essere una unica Scuola di Costruttori di Cultura, deve cioè insegnare ai propri Adepti l’uso degli strumenti adeguati e necessari per la Squadratura e la Levigatura dell’Uomo, strumenti dai quali, oggi, non possono rimanere esclusi, pena l’anacronismo culturale, gli “utensili” scientifici più avanzati, come – per citarne alcuni – la teoria delle comunicazione, la cibernetica, la teoria dei tipi logici, la biologia molecolare i quali, concepiti nella prima metà circa del nostro secolo, già ora si annunciano come i più idonei per aiutare l’Umanità ad uscire da quello che, per intenderci, può essere definito un altro “Medio Evo”, ad uscire cioè dall’Evo del Meccanicismo dei Copernico, dei Galileo e dei Newton, dal quale oggi stiamo faticosamente, ma più rapidamente di quanto si possa pensare, emergendo.

Nel realizzare questa Scuola di Liberi Muratori, validi costruttori di Uomini e di Società, la Massoneria dovrebbe però tendere, con il massimo impegno possibile, alla formazione, tra le Colonne del Tempio, di Uomini Liberati e Liberi, cioè di Uomini aperti, responsabili, eticamente ineccepibili e culturalmente impegnati, che abbiano vinto la loro battaglia interiore contri i noti uccisori di Hiram: l’ignoranza, il fanatismo e l’ambizione, ed il cui supremo ideale sia, coerentemente, l’emancipazione dell’Uomo e dell’Umana Famiglia.

Ed è con questi Uomini Liberati e Liberi che la Massoneria, veramente unica ed universale nel mondo, potrebbe essere allora in condizione di affermare, con sicurezza, la propria identità universalistica, metapolitica e metà religiosa, riuscendo anche a dare un valido contributo alla corretta soluzione dei problemi esistenziali dell’Umanità.

* * * * *

Ma purtroppo, carissimi Fratelli, noi massoni italiani siamo ben lontani, per ora, dal poter impostare, in modo costruttivo, questo genere di discorsi.

Oggi, bisogna ammetterlo, è molto più importante, anzi indispensabile, accontentarci di affrontare proprio quegli argomenti la cui indefinibilità rende palese lo stato di confusione patologica che abbiamo raggiunto, allontanandoci pericolosamente dallo spirito e dal contenuto dottrinario dei nostri Rituali.

A questo proposito, mi sembra sia abbastanza evidente e comprensibile la genesi della nostra dolorosa situazione, certamente originata, in gran parte, anche dalla martellante ripetizione di frasi assolutamente prive di ispirazione muratoria.

Non si può, per esempio, senza conseguenze gravi, continuare ad affermare per anni, che bisogna spalancare le Porte del Tempio a tutti, purché siano umili, tolleranti e benevolenti; che la costruzione del “Tempio interiore”, per ogni singolo Fratello, è assolutamente libera ed arbitraria; che la Massoneria ha sempre accolto, e quindi deve continuare ad accogliere, indistintamente “progressisti e forcaioli”.

Ora, a prescindere dalle obiezioni immediate che si possono formulare contro dichiarazioni del genere, le quali sono state, oltre tutto. Esibite sconsideratamente anche al mondo profano, quello che a me sembra opportuno è. Soprattutto, evidenziare, in questo caso, la necessità di cambiare completamente l’impostazione del problema.

Nel proselitismo, per esempio, non deve essere, secondo me, la Massoneria che accetta chiunque, qualunque cosa pensi purché solvibile, per il raggiungimento di scopi personali dei quali poi in effetti l’Istituzione si disinteressa quasi completamente.

Sono invece proprio i postulanti che, oltre ad avere adeguate qualità etico-culturali, debbono accettare i principi che danno una precisa identità alla Libera Muratoria, e debbono pure sapere che una volta iniziato, hanno il dovere di impegnarsi al miglioramento di se stessi, per l’affermazione di quelle finalità di affrancamento che da sempre la Massoneria Universale indica al mondo intero.

Per quanto riguarda poi l’accettazione di “progressisti e forcaioli”, mi sembra pertinente a questo proposito, ricordarvi una frase che tutti avete sentito pronunciare dal Maestro Venerabile, quando cercava di spiegare, a voi iniziandi, i principi fondamentali della Libera Muratoria: “La tolleranza – vi disse allora il Venerabile – che noi consideriamo la prima virtù del Libero Muratore, permette ad uomini di carattere e di condizioni diverse, di sedere fraternamente in questo Tempio e di lavorare per gli stessi scopi, col più assoluto, affettuoso, reciproco rispetto.” Notate bene, carissimi Fratelli: “…di lavorare per gli stessi scopi…” Ebbene, questi scopi non possono essere altri che quelli chiaramente espressi dal Saggissimo e tre volte Potente Re Salomone: “L’abbattimento di tutti gli idoli, di tutti i pregiudizi, di tutte le superstizioni, di tutte le menzogne”, ed “un solo culto: quello della verità.” 

Ecco perché, secondo me, è stato il risultato di una malintesa tolleranza considerare sullo stesso piani di validità muratoria, tanto le opinioni che stanno decisamente dalla parte dell’Uomo e della sua elevazione, quanto quelle idee che sono in modo clamoroso contrarie alla sua emancipazione.

Perché mi sembra molto evidente come sia ben difficile che possano “lavorare per gli stessi scopi”, tanto coloro i quali in una ideale mistica dell’Umanità cercano di migliorare se stessi nell’area della libertà e della consapevolezza, quanto coloro che, invece, identificano il miglioramento di se stessi con l’aspirazione alla supremazia sugli altri oppure alla mortificazione nel soprannaturale, contrastando comunque, oppure ancora aggravando irrazionalmente la soluzione dei problemi reali dell’Umanità.

Ed a proposito della tolleranza massonica, di cui in questi ultimi anni tanto si è parlato e scritto, in modo ambiguo e sconcertante, essa non può di certo venira interpretata come una passiva accettazione di qualsiasi opinione altrui, e nemmeno mi sembra, può coincidere con la, sempre disattesa, regola evangelica di offrire l’altra guancia a chi ti colpisce.

Ed allora, stando così le cose, quando si cita, ad esempio, la frase del Fr. Voltaire sulla libertà di espressione: “Io sono di opinione completamente contraria alla vostra, ma sono pronto a morire purché voi abbiate il diritto di professarla”, bisognerebbe che, per correttezza e per completare il concetto, si aggiungesse pure un’altra espressione del nostri illustre Fratello, il quale precisava che “per meritare la tolleranza bisogna che gli uomini comincino con il non essere fanatici.”

Perché se è vero che vivendo di libertà non è concepibile la limitazione della libera espressione altrui, anche se questi è di opinione diversa dalla mia, tutto ciò non significa che, pur lasciando la libertà di professare una certa idea, io rinunci a sostenere la mia; e se l’altrui pensiero tende a sopprimere la libertà di espressione, oppure è contraria al libero sviluppo umano dell’Uomo, non mi si dica di tacere, di non dissentire e di non argomentare in modo da far comprendere a tutti come certe predicazioni, anche ammantate di umanitarismo politico o religioso, sono in effetti, contrarie alla consapevole responsabilizzazione esistenziale dell’Uomo.

E, secondo me, poiché il Libero Muratore deve essere, appunto, il responsabile padrone della sua vita e del suo futuro, dei suoi vizi e delle sue virtù, della sua mente e dei suoi sentimenti, ritengo sia abbastanza chiaro quali debbano essere i limiti della sua tolleranza verso quelli che, con il loro fanatismo dogmatico, minacciano concretamente l’altrui libertà di opinione e l’altrui libera ricerca della verità.

A questo punto mi sembra abbastanza interessante citare, come esempio, una frase del Dott. Giovanni Caprile della Compagnia di Gesù, in cui è detto cosa altri, diversi da noi massoni, intenda per libera ricerca della verità e quali siano i dubbi e le incompatibilità che sorgono nei riguardi della Massoneria da parte di chi è vero credente nella “Verità Rivelata”.

 “Resta da chiarire – dice il Dott. Caprile – la questione di fondo, che non è secondaria per noi cattolici: come debba intendersi la gnosi, che è un po’ l’anima della formazione spirituale del massone, e se, e dentro quali limiti, possa essere compatibile o meno con la sincera professione cattolica, se cioè va presa come strumento di approfondimento o come affermazione dell’autonomia della ricerca dell’uomo, senza ammettere che la salvezza viene dalla Grazia di Dio attraverso Cristo e la sua Chiesa.”

Io condivido, a questo proposito, il ragionevole desiderio di chiarezza del Dott. Caprile, e ritengo pure che sarebbe doveroso ed onesto, da parte della Massoneria, fugare possibili dubbi su questioni di fondo, le quali anche per noi sono certamente non secondarie.

Personalmente, ritengo che si potrebbe dire, senza esitazioni, al Dott. Caprile, che per noi massoni la gnosi, cioè la ricerca della verità, non può essere altro che l’autonoma, libera e sofferta esplorazione dell’Universo, disponendo solo delle proprie capacità umane, e dell’unico sistema fornito dalla natura agli esseri viventi per avere conoscenza, espresso dalla semplice e modesta norma della prova e dell’errore.

Il Dott. Caprile, quindi, e tutti quelli che eventualmente intendono bussare alla Porta del Tempio, sono ben liberi di farlo, e la decisione riguarda unicamente la loro coscienza, ma è giusto che sappiano esplicitamente prima di essere ammessi, che per noi massoni la salvezza dell’Uomo non può essere che nell’accrescimento della sua autonomia globale, e cioè nella sua emancipazione dai legami di dipendenza irrazionale che ne limitano lo sviluppo umano; ed in quanto alla “Grazia di Dio attraverso Cristo e la sua Chiesa”, salvo il rispetto della libertà di opinione per quanti lo accettano come unico mezzo di salvezza, il massone, a mio avviso, non può che considerarla decisamente riduttiva rispetto al livello di libertà che intende raggiungere e professare.

Ora, poiché nella nostra Famiglia italiana non siamo tutti d’accordo su queste impostazioni, non secondarie, perché molti sono ancorati a tradizionalismi provenienti, come si è constatato, da altri tempi e da altre storie, molto importanti in quei momenti, ritengo sia proprio il caso di affrontare molto onestamente la situazione e chiedo, pertanto, che si parli chiaramente ed approfonditamente su questi argomenti[GN1] , sia perché in mancanza di chiarezza è inevitabile la confusione o peggio, sia perché se intendiamo veramente ritornare ad avere una precisa identità, secondo le inequivocabili indicazioni dei nostri Rituali, e se vogliamo “lavorare fraternamente insieme per gli stessi scopi con il più assoluto, affettuoso e reciproco rispetto”, è indispensabile cercare di sanare le ambiguità dottrinarie e di accantonare le sopravvivenze culturali anacronistiche.

Carissimi Fratelli, è venuto il momento in cui bisogna convincerci che non potremo mai essere in condizione di contribuire a porre le basi dell’evo futuro e di affrontare in modo produttivo i nostri temi peculiari, che sono, in effetti, i grandi problemi della società in cui viviamo, come, per esempio, la difesa dei diritti dell’Uomo, oppure l’ecologia, intesa in senso globale, se prima non facciamo proprio nell’Ordine, tra di noi, un po’ di ecologia culturale, combattendo i nemici di sempre: l’ignoranza, la superstizione e l’idolatria.

Perché si può essere anche molto comprensivi nel riconoscere l’importanza storica ed attuale, per le masse e per il singolo, delle varie chiese politiche e religiose, e nel capire come possano essere molti coloro i quali, trovando angoscioso o troppo difficile vivere, responsabili di se stessi, senza inganni e senza pregiudizi, hanno bisogno di sottomettersi a protettivi e mortificanti poteri, terreni o soprannaturali, nel disperato tentativo di superare i propri disagi esistenziali.

Ma diventa, invece, molto difficile – perché secondo me impossibile – conciliare l’idea che i Massoni debbano costituire la parte più avanzata e più libera dell’Umanità e, nello stesso tempo, possano appartenere ai grandi greggi formati da individui che, lungi dall’essere uomini liberi, accettano acriticamente e senza discutere delle “verità”, solo perché formulate dal Potere o dalla Divinità.

Ecco perché ritengo indispensabile la chiarificazione e la puntualizzazione dei concetti che formano il supporto basilare del contenuto affrancante, precisamente espresso nei nostri Rituali.

Ecco perché ho sempre ritenuto e ritengo tuttora fondamentale la definizione di cosa debba intendersi con la parola libertà, nei suoi vari livelli di emancipazione e nelle sue varie accezioni, prima di poter affrontare un discorso rigoroso e soddisfacente sulla Massoneria.

E se credete che stia sbagliando, ditemi francamente dove e perché; aiutatemi a comprendere il mio errore e ve ne sarò grato. Ma per favore, parliamone. Perché sarebbe comunque molto bello, interessante e costruttivo, tutti insieme portare a compimento questo dialogo fra noi, come accadeva nelle antiche fratrie, in Loggia, scambiandoci le conoscenze acquisite, per poi contribuire meglio, uniti fraternamente, alla non ancora esaurita missione che abbiamo ereditato, di tenere viva, in un mondo di soprusi, di violenza e di ignoranza, la Fiaccola della Libertà attraverso i secoli.

Affrontiamolo dunque, con maturità, seriamente e pacatamente, questo dibattito generale per riaffermare, come si è già detto, l’inequivoca identità della Libera Muratoria Italiana.

Sgombriamo, per quanto possibile, il nostro animo dalle ambiguità, dalle contraddizioni, dalle dipendenze, dalle illusioni, e sarà certamente più facile, allora, unificare gli strumenti del nostro Lavoro Muratorio, e sarà più facile anche coordinare la fabbricazione del Tempio dell’Umanità, secondo un progetto umano nel quale siano amorevolmente rispettate le antiche, e pur sempre validissime regole architettoniche con le quali si misura l’affrancamento dell’Uomo: la libertà individuale, l’uguaglianza democratica, la fratellanza universale.

* * *


 [GN1]

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LIBERA MURATORIA UNIVERSALE …

LIBERA MURATORIA UNIVERSALE,

 MASSONERIA AZZURRA E

RITO SCOZZESE ANTICO ED ACCETTATO

  Ho la ponderata convinzione che i doveri iniziatici con i quali, nell’ambito della Libera Muratoria Universale, il Rito Scozzese Antico ed Accattato è vincolato all’Ordine, cioè la Massoneria Azzurra, siano perfettamente enunciati e stabiliti nei rispettivi testi statutari, ma che, invece, per un insieme di ragioni, siano solo parzialmente conosciuti e praticati dai fratelli Scozzesi.

Poiché disattendere questi doveri, può avere delle conseguenze negative sullo svolgimento dei Lavori iniziatici, ritengo non sia vano richiamare l’attenzione su questa situazione. L’argomento sarà trattato sommariamente: mi limiterò, quindi, ad esporne schematicamente i temi principali, e sarò lieto se riuscirò a stimolare altri Fratelli ad esprimere la loro opinione in proposito.

La Comunione muratoria italiana, come a tutti noto, è composta dall’Ordine che può prendere anche i nomi di Massoneria Azzurra o Simbolica, e dai Corpi Massonici Rituali fra i quali il Rito Scozzese Antico ed Accettato. Tutti insieme, Ordine e Corpi Rituali riconosciuti, lavorano iniziaticamente, secondo le finalità della Massoneria Universale che, come è precisato nell’art. 1 della Costituzione dell’Ordine, “Intende all’elevazione morale, materiale e spirituale dell’Uomo e dell’Umana Famiglia.”

Ciò premesso, e continuando a dire cose note, si può affermare che il Lavoro iniziatico della Massoneria Azzurra, nei tre Gradi che compongono il suo iter, deve produrre, se adeguatamente e proficuamente seguito dai suoi Adepti, il miglioramento individuale necessario per conseguire la creazione di un Maestro Libero Muratore.

Appena un po’ più nel dettaglio, si può dire che, durante l’Iter Iniziatico l’Adepto impara a conoscere se stesso e prendere coscienza dell’Io; impara a servirsi degli strumenti simbolici e cioè apprende la capacità di dominare se stesso, approfondisce la capacità di migliorare i rapporti con gli altri esseri umani, fino a prendere coscienza dell’umanitá ed infine nel Grado di Maestro Libero Muratore, l’Adepto è in condizione di lavorare sulla Tavola da Disegno e cioè di progettare; potrà, in altre parole, porsi in relazione con la natura, per costruire, con responsabile consapevolezza, la propria visione del mondo, eticamente orientata, nella quale vivere, continuare a crescere e sviluppare una coscienza che ha superato le limitazioni dell’antropocentrismo.

Appare subito chiaramente che questo Lavoro iniziatico affidato all’Ordine e che deve essere svolto fra le Colonne, nelle Logge, è un percorso di apprendimento completo ed esaustivo, per conseguire la Maestranza e cioè per ottenere la creazione di uomini i quali, dopo essere riusciti a spostare i limiti del proprio interesse individuale, ed a costruire se stessi secondo princìpi etici, sono in grado di operare, per il bene dell’Umana Famiglia, con la Purezza di azioni impeccabili, con leale Fedeltà alla Massoneria, con la Luce dell’Idealità, che è simboleggiata dal G.A.D.U.

Ma, viene ora spontanea la domanda: se la Massoneria Azzurra realizza un ciclo iniziatico completo e che può essere conclusivo, secondo le finalità della Massoneria Universale, cosa può restare da fare al Rito Scozzese Antico ed Accettato?

Ebbene, da un attento esame dei Rituali risulta evidente che, mentre all’Ordine spetta, come abbiamo accennato, la funzione di forgiare uomini consapevoli, responsabili padroni di se stessi e della propria Maestria, con un Lavoro iniziatico che l’Adepto deve fare su se stesso e cioè tutto incentrato nel perfezionamento individuale a vari livelli di coscienza, al R.S.A.A. sono assegnati vari altri adempimenti che possono essere distinti in due compiti specifici e molto diversi fra loro.

Un tipo d’impegno, che si può dire speculativo, è di conferma e di approfondimento della Maestria conseguita nell’Ordine, mirante ad un più complesso perfezionamento iniziatico individuale, ma c’è anche un altro tipo di Lavoro, non meno importante, che si può definire, senza dubbi, operativo. Questo Lavoro operativo, che è ancora individuale, comporta l’assunzione di precise responsabilità da parte d’ogni singolo Fratello Scozzese ed è fatto, rigorosamente., nell’interesse di tutta la collettività iniziatica.

È sufficiente rileggere i Rituali delle Logge di Perfezione e delle Camere Superiori per individuare subito le esortazioni riguardanti quest’impegno operativo.

Già nella Loggia di Perfezione dei Maestri Segreti, al quarto Grado, inizia l’impostazione di questo Lavoro. Si ritiene, infatti, che il Maestro Segreto, passato dalla Squadra al Compasso, sia diventato “capace di meglio misurare le proprie azioni” ed avendo visto la Tomba di Hiram, conosca bene le nefaste conseguenze dell’ignoranza, del fanatismo e dell’ambizione, tanto bene da essere in condizione di saperle combattere adeguatamente e di aiutare i fratelli a fare altrettanto.

Ed è per questa ragione che il Maestro Segreto viene eletto, anche, Custode del Tempio; in altre parole, gli si chiede di essere particolarmente attento e responsabile per quanto riguarda il proselitismo proprio nell’Ordine, infatti, nella sua qualità di Maestro Segreto – è il Rituale che lo dice – deve ormai conoscere bene quali materiali possono essere accettati, perché il Tempio s’innalzi alto e sicuro, a gloria del G.A.D.U.

E nelle istruzioni, sempre per i Maestri Segreti, sono chiaramente indicati quali debbono essere i loro precisi doveri: praticare la virtù, istruire e sorvegliare gli operai, conservare il silenzio e migliorare le proprie convinzioni.

Salendo, poi, i gradini della Piramide rituale, i temi “operativi” e cioè i compiti da assolvere per il bene della Massoneria, si fanno sempre più espliciti e sono specificati indicando le finalità della Libera Muratoria ma, anche, segnalando le carenze che si possono riscontrare nel Lavoro iniziatico dei Gradi inferiori, alle quali lo Scozzese deve, con cauta premura e ponderatezza, cercare di opporsi inducendo i Fratelli di Loggia a comprendere, correggere e lavorare proficuamente. Il Rito, per mezzo dei Rituali, dice espressamente che il dovere di ogni Scozzese è vigilare ovunque, opponendosi, con la dovuta discrezione, a tutto ciò che è contrario al bene iniziatico dell’Ordine ed agli scopi della Massoneria Universale.Dovere preciso degli Scozzesi è contribuire, usando tutto il riguardo e la premura necessari, all’educazione massonica dei Fratelli di Grado inferiore sia nelle Logge sia nel Rito.

Sappiate Fratelli – ci dicono ancora i Rituali – molti sono i massoni che parlano, sentono ma non agiscono. Per loro non vi è vittoria su se stessi, né progresso. Occuperanno, durante tutta la vita, un posto in Loggia e mai saranno più massoni di quanto lo erano nel primo giorno della loro Iniziazione al Grado di Apprendista. Attenzione, vi sono anche massoni che non sentono un vero attaccamento alla Massoneria, perché non la comprendono. Aiutiamoli tutti questi Fratelli a capire, a migliorare se stessi, a ritrovare l’entusiasmo che avevano quando bussarono alla Porta del Tempio. A questo punto, anche se sono stati evidenziati solo alcuni dei numerosi moniti rintracciabili nel Rituali del R.S.A.A., risulta evidente quanto debba essere importante l’opera degli Scozzesi nelle Logge dell’Ordine, per favorire il conseguimento di buoni risultati iniziatici. I Fratelli Scozzesi non possono fare a meno, se non l’hanno già fatto, di prendere atto delle responsabilità che, senza ombra di dubbio, sono chiamati ad assolvere. Forse, però, è necessario fare un po’ di chiarezza anche su di un comune malinteso fuorviante.

Secondo me, è troppo drastica l’interpretazione che alcuni Fratelli Scozzesi danno a quella che è, e che deve essere, l’assoluta ed intangibile indipendenza dell’Ordine dal R.S.A.A. Questa interpretazione, se mal compresa, può portare gli Scozzesi verso una insensibilità, ed in certi casi al completo disinteresse, nei riguardi dello stato di salute iniziatica dell’Ordine. E questo è né giusto né buono.

L’attenzione che gli Scozzesi hanno il dovere di esercitare sul proselitismo e sul buon andamento dei Lavori iniziatici nelle rispettive Logge, non può, assolutamente, venir considerata un’ingerenza nella vita dell’Ordine perché, come è chiaramente espresso negli Statuti del R.S.A.A.: “Il Supremo Consiglio (del Rito), non s’ingerisce nella legislazione, nell’organizzazione e nell’amministrazione della Libera Muratoria simbolica tradizionale e regolare, nonché delle Logge che la costituiscono”; e su questo non possono esserci dubbi o riserve. Ma, per tutto quello che riguarda la pratica dottrinaria e le finalità iniziatiche da raggiungere, fra l’Ordine ed il R.S.A.A., non ci può essere che la più fraterna collaborazione perché, in effetti, si tratta di realizzare gli stessi scopi della Massoneria Universale.

Ecco perché è naturale, lecita ed opportuna la vigile e misurata attenzione degli Scozzesi nel riguardi del Lavoro iniziatico nelle Logge; azione, certamente moderata e discreta, che deve, essere sostenuta, e questo è un punto fondamentale, da un continuo ed approfondito studio, facente parte dei Lavori nelle Camere rituali, che sviluppi nei Fratelli Scozzesi, una sicura e maturata conoscenza della Libera Muratoria, nella sua storia, nel suoi simboli, nella sua morale ma anche, primariamente, in tutto ciò che riguarda la Via Iniziatica seguita dall’Ordine.

E, certamente, di non minore importanza è la funzione di sorveglianza attenta, cauta e prudente verso il proselitismo, per evitare, nel modo più efficace possibile, errori di scelta che, com’è ben noto, si pagano, molto spesso senza rimedio, con guai a non finire per tutta la Comunione.

Queste funzioni operative del R.S.A.A., in effetti, trovano la loro piena giustificazione, come già detto, in una visione globale dell’Istituzione e cioè nel solo ed esclusivo interesse della Massoneria Universale.

Ogni eventuale indebolimento nella capacità formativa dell’Ordine ha, come conseguenza, la creazione di Maestri Liberi Muratori sempre meno ineccepibili, sempre meno preparati per i compiti che li aspettano.

E, soprattutto, senza Maestri Liberi Muratori, non ci sarebbe più nemmeno la Massoneria; ci sarebbe solamente un’associazione profana che usurperebbe un nome prestigioso ed autorevole e che farebbe tante altre cose, meno quella di aiutare i propri Adepti a seguire, con profitto, una precisa Via iniziatica

Un appello, quindi, ai Fratelli Scozzesi, a quelli che non si stanno già adoperando al conseguimento dei fini sopra accennati: con la responsabile consapevolezza che ha sempre distinto il R.S.A.A. nella storia della Massoneria Universale, adempiamo i doveri indicati dai Rituali e portiamo, con affettuosa premura, tra le Colonne delle rispettive Logge di appartenenza, tutto quell’entusiasmo, quel fervore, quell’alto grado di esperienza umana ed iniziatica maturate durante la lunga militanza nella Libera Muratoria. È vero che alla fine di questo millennio ci troviamo ad affrontare una crisi spirituale planetaria, ma è proprio per questa ragione che diventa ancora più inderogabile ravvivare e potenziare le capacità iniziatiche della Massoneria Universale, perché possa dare, come sempre nella storia, un contributo, forse decisivo, di uomini preparati, generosi e tolleranti, per un migliore futuro di tutta l’Umanità.

                                                          TAVOLA DEL   FR.’.   L. F.

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MAESTRO

MAESTRO

Persona cui è affidata l’educazione dei fanciulli nella scuola elementare, o che esercita l’insegnamento nell’ambito di speciali discipline o attività.
Persona che in virtù delle cognizioni e delle esperienze acquisite risulta all’ altezza di contribuire in tutto o in parte all’ altrui preparazione o formazione. (Devoto – Oli)


Molte sono le tipologie del Maestro e molti sono i Maestri che incontriamo sulla nostra via: da tutti impariamo una lezione. Si comincia con la madre e le persone di famiglia, e poi i maestri istituzionali, gli amici, i conoscenti e i passanti tutti.
Alcuni ci educano (ex ducere = portare fuori, evidenziare), valorizzando e portando alla coscienza le nostre qualità nascoste, quelle di cui noi stessi, fino al loro intervento, non ci rendiamo pienamente conto.
Altri ci istruiscono (in struere = dare una forma, costruire), vale a dire che sono portatori di informazioni, di qualsivoglia natura, che inducono un piu’ o meno importante cambiamento del nostro modo di interpretare il Mondo e talvolta ci cambiano la vita.
Ogni giorno della nostra esistenza e’ un continuo imparare a cambiare e i nostri giorni sono fitti di Maestri: la maggior parte sono immanifesti mentre altri, assai più rari, ci lasciano una emozione cosciente e sono questi che siamo in grado di riconoscere e di definire Maestri.
Maestro è chi ci insegna a leggere e scrivere e chi, con l’esempio, ci illustra una virtù.
Maestri sono il malfattore che non vorremo mai imitare e l’amico che ci fa notare un nostro difetto.
Maestro è chi ci irrita con un comportamento che, scoprendolo in noi stessi, subito correggeremo.
Si potrebbe continuare all’infinito perché infiniti sono gli insegnamenti lungo la via. E sono sempre insegnamenti “buoni” perché non esistono veramente i “cattivi Maestri”: esistono piuttosto le nostre cattive interpretazioni che rischiano di indurci in errore quando il Maestro che è in noi, la nostra Coscienza forse, soggiace a suggestioni che ci distraggono dal “costruire templi alla virtù” e dallo “scavare oscure e profonde prigioni al vizio”.
Comunque si spazia da insegnamenti “pratici-operativi” ad altri sempre più attinenti alla sfera morale e spirituale che tuttavia in Occidente non conoscono dei veri Maestri, né Scuole di spiritualità. Forse è questa una possibile interpretazione della “parola perduta”, bruciata sui roghi dell’Inquisizione con tutto l’esoterismo cristiano.
In Oriente, presso culture in cui il “sentire” tradizionale è ancora vivo, dove exoterismo ed esoterismo rappresentano i due inseparabili aspetti di un’unica realtà, ovvero la Tradizione, la “parola” non è andata “perduta” e si trovano ancora Maestri spirituali.
Per i Sufi, la presenza del Maestro inteso come persona fisica che, nell’ambito di una Scuola, istruisce in vari ed opportuni modi i discepoli, e’ qualcosa di assolutamente irrinunciabile. “L’acqua” – dicono – “non si può riscaldare direttamente sul fuoco: è necessario un recipiente“, così al vero Sapere non si può in alcun modo accedere con una ricerca solitaria: esso deve necessariamente essere impartito da un Maestro.
E giungiamo ad altre definizioni di Maestro:
Operaio qualificato che ha alle sue dipendenze un certo numero di manovali o lavoranti.
Capo, guida; termine oggi vivo soltanto come titolo di cariche o particolari dignità: es. Gran Maestro della Massoneria. (Devoto – Oli)

Il Libero Muratore che si ritiene abbia imparato a lavorare e squadrare la pietra, in cui lo Spirito domini la Materia e che con modestia porti, giorno per giorno, il suo contributo all’edificazione dell’Opera, perviene al grado di Maestro.
Non credo di aver mai “meritato” il titolo di Maestro: penso che nessuno senta veramente di meritarlo. Possiamo solo cercare di esserne degni in una prospettiva futura, sostanzialmente ideale e pertanto irraggiungibile: non c’è e non può esserci limite alla possibilità di progredire.
Il Maestro Libero Muratore, a differenza del Maestro orientale, non insegna dunque nulla di più di quanto possa insegnare un qualunque passante che, col suo comportamento, stimoli la sensibilità di chi casualmente lo incontra. E qui ci sovviene la teoria junghiana della sincronicità, per cui nulla (o quasi) accade senza uno scopo nascosto, e spetta a ciascuno di noi trovare il significato e l’ammaestramento profondo implicito nel verificarsi di una certa esperienza.
Non potendo contare su Scuole e Maestri che ci istruiscano, mancando anche di qualsiasi collegamento con un exoterismo che sia espressione di una Tradizione, che nella nostra Cultura e’ sostanzialmente perduta, non possiamo che affidarci al Maestro interiore che e’, di norma, difficile da ascoltare ed il cui insegnamento e’, come affermano i Sufi, quanto di più soggettivo ed aleatorio si possa immaginare.
Tuttavia, nel nostro attuale contesto, non possiamo che essere, fatalmente, solitari Maestri di noi stessi, con tutti i rischi che questa situazione comporta. Ciascuno sul proprio cammino: “selva oscura” piena di incertezze e di inganni.
Orfani di ogni Guida siamo tuttavia sorretti dalla consapevolezza di non essere soli, avvertendo la presenza delle Sorelle e dei Fratelli che avanzano attorno a noi, ed i cui lumi talora ci fanno meglio intravedere la “diritta via ch’era smarrita” e che ci condurrà, forse, un giorno, “a riveder le stelle“.

Fr.·. G.P.

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HO CONOSCIUTO UN MASSONE

HO CONOSCIUTO UN MASSONE

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

alla fine di ottobre del 1990, a Roma, in una luminosa e calda giornata, conobbi

un Massone, ma non me ne accorsi subito: nella ridda di presentazioni di Grandi

Dignitari che m’impegnò in quel giorno, non riuscii a ponderare con tempestività le

qualità iniziatiche ed umane di coloro che, ad uno ad uno, mi sorridevano e, cosa non

tanto consueta per me, mi abbr vano gratificandomi del triplice bacio.

L’ho capito a poco a poco, dividendo con Lui nei quattro anni successivi, due

stanzette al primo piano di Villa Il Vascello e ne fui definitivamente conscio nell’aprile

del 1995, quando al termine di una riunione di Giunta, ci salutammo per rivederci solo

in occasione della successiva Gran Loggia.

Avevo assunto l’incarico al quale ero stato chiamato con serietà e quindi in

modo piuttosto aggressivo: bisognava vedere tutto, indagare su tutto ed infine

cambiare tutto. Lui, sin dai primi giorni, subiva, paziente, con un caldo ed affettuoso

sorriso, la mia nervosa efficienza piemontese, un po” cinica, poiché tendevo a risolvere

i problemi che man mano si presentavano in base alle loro connotazioni oggettive. Il

suo approccio era invece ben diverso, al tempo stesso umano e fraterno direi, se queste

due parole sono sufficienti a suscitare in voi, fratelli miei, calore ed affetto

assolutamente disinteressati nei confronti di colui che si conosce bene, che si conosce

poco, che non si conosce affatto. Il caso che vi viene esposto da chi vi sta davanti

adombra le necessità di un fratello: è quindi l’unico fattore importante, in questo

momento non c’è posto per null’altro, ciò che ti riguarda, fratello, riguarda me. Ma è

necessario che tu chieda, ti apra: non si deve prevenire, sarebbe un grave attentato alla

sfera più intima del tuo riserbo.

Dopo giornate di lavoro che si prolungavano per dodici ore filate, saltando il

pranzo, ci immergevamo sottobraccio nelle strade del Centro, la notte, appena usciti

dal ristorante in cui avevamo abbondantemente cenato e bevuto un po’. Era il nostro

un vagare senza meta apparente, un viaggio iniziatico con alcune fermate d’obbligo:

sostavamo in piazza del Pantheon e, con il naso per aria, scrutavamo le grandi finestre

oscurate di palazzo Giustiniani. Mi raccontava di saloni dei Passi Perduti, di Templi

impreziositi dalla patina di straordinarie presenze di fratelli poco conosciuti, quasi tutti

passati all’Oriente Eterno (degli Insigni poco parlava seppur con molto rispetto).

Capivo così che al centro del suo universo egli poneva l’uomo, il cui divenire seguiva

con innata, tiepida comprensione senza evidenziare né pregi né difetti, né debolezze né

eroismi.

E quando riprendevamo il nostro cammino, (era Trinità dei Monti l’altra tappa

consueta, certo la scalinata con in cima la vera Villa Medici – la nostra non è Villa

Medici, è Il Vascello -, ma anche l’Obelisco e l’Ambasciata di Spagna), il suo incedere

Mi riportava alla mente la figura indimenticabile di Don Pipeta l’Asilé.

Parlavamo di musica e si riferiva a Mozart come al genio assoluto, al maestro

che percorreva con la facilità propria degli dei la strada più difficile: quella della

semplicità.

Da Schopenauer aveva assorbito una concezione entusiastica della musica e la

considerava come (forse) la più sublime di tutte le arti poiché s’identifica con la forza

primordiale che regola dall’interno il pulsare dell’universo. Così per illustrare uno

stato d’animo, una particolare emozione suscitata, ad esempio, da lavori di Loggia,

scomodava Brahms oppure Beethoven.

Ho spesso (come dire?) canzonato, con tenerezza, il culto quasi sacrale con cui

egli viveva la giornaliera frequentazione del Vascello, ed è a lui che devo le notizie

storiche sulle vicissitudini della Villa e dei sui antichi abitanti, che qui tralascio. Aveva

partecipato alla trattativa sfociata nell’acquisizione da parte del Grande Oriente d’Italia

del nobile fabbricato; quando se ne parlava, avvertivo nella sua voce l’emozione di

aver contribuito ad assicurare alla Comunione quello storico monumento che così bene

s’accompagna all’aspetto tradizionale della nostra Istituzione. Antiche stampe, che

ornavano le pareti della sua stanza, rinnovellavano il ricordo di quei fratelli, spesso

giovanissimi, che, con la vita, avevano sacrificato l’ultimo residuo di illusione dopo le

straordinarie speranze, che la Repubblica Romana del 1849 aveva suscitato. Sono

convinto che sentiva intorno a sé l’afflato di quelle anime, la notte, quando, dopo

esserci salutati in prossimità del mio albergo, risaliva al Gianicolo per riposare. Ed io,

arrivando presto al mattino, lo trovavo già seduto al tavolo da lavoro, fortificato nella

sua concezione di un popolo Massonico ispirato da un perenne ed universale legame

fraterno. La Villa era, per lui, una vera casa comune alla quale tutti i fratelli, di

qualsivoglia ordine e grado, potevano accedere liberamente.

In quegli anni abbiamo visitato insieme Logge sparse in tutta Italia. Poiché

eravamo ospiti, venivamo introdotti nel Tempio a lavori aperti; le Tavole erano molto

rare e, normalmente, le tornate si esaurivano nella celebrazione degli invitati. Di ciò

egli si rammaricava: avrebbe voluto partecipare a tornate normali, assistere ai lavori

dall’inizio alla fine, arricchirsi lo spirito dei contributi di fratelli che vivevano realtà

diverse. Era sempre all’altezza del suo ruolo di Maestro Massone. In un consesso in

cui i compagni di viaggio, completamente assorbiti da problematiche di politica

massonica, anche nella ritualità del Terzo Grado che caratterizza le riunioni del

Consiglio dell’Ordine, dimenticavano Passi, Segni, Ordini, Rituali, sedevano in

Tempio in modo scomposto, egli si distingueva per la qualità del suo stare all’Ordine,

per la proprietà del saluto rituale, della parola rituale. Quel comportamento suscitava

acuta in me la nostalgia della mia Loggia, della Pedemontana, delle nostre riunioni

ordinate, ossequiose dei regolamenti, rigorose nel rispetto che l’un l’altro ci

riconosciamo. In uno di quei momenti, come se mi leggesse nel pensiero, mi chiese

sorridendo: – Hai notato come solo nelle nostre Logge di appartenenza riusciamo a

concentrarci sui Simboli? Temo che questo sia un aspetto evidente della nostra

imperfezione.-

Oltre alla musica, l’altro argomento che amavamo affrontare quando

c’imponevamo di evadere dalle gravose incombenze e dalle preoccupazioni del giorno

appresso, era rappresentato dalla letteratura. Stimolato dall’argomento, confessavo di

non aver letto praticamente nulla di Guénon (infatti solo un paio di volte ho aperto

l’Introduzione Generale allo Studio delle Dottrine Indù spiluccando parole qua e là), di

aver scorso le Bhagavad Gita ed alcuni testi sulla gnosi: !a mia cultura esoterica

origina dagli sforzi dei miei fratelli di Loggia che hanno scolpito tante tavole

fondamentali. Parlavo diffusamente di Richard Bach, di Hermann Hesse, di Thomas

Mann, di Tolstoi, persino di Proust; mi compiacevo di aver letto Il Gabbiano Jonathan

Livingston ed il Pellegrinaggio in Oriente nel lontano 1973 e di considerare il

Siddhartha come uno dei libri che segnarono la mia giovinezza: rivendicavo persino

(millantato credito?) il merito di aver suggerito per primo quelle letture ai fratelli della

mia Loggia, rafforzando la mia affermazione con un Aa; ondiscendente “forse”.

Divagavo a lungo sull’Antologia di Spoon River, sulla poesia italiana dell’ottocento e

del novecento, pronunciavo sentenze.

Quando si sfioravano argomenti storici, davo sfogo a tutta la mia passione: ero

capace nel tempo necessario a percorrere quattro © cinque isolati, di risuscitare, senza

dare ad alcuno la minima possibilità d’interrompermi, le gesta, spesso nefaste, dei

Valois di Francia o l’ascesa al potere di Enrico di Navarra; di scorrere episodi della

storia della Massoneria in Italia e nel mondo, evocando grandi figure. Bocciavo senza

appello Mola, che definivo illeggibile e, comunque, mortalmente noioso (l’opinione

negativa sull’uomo era scontata  e condivisa). Ritirandomi in albergo e riandando col

pensiero, un po’ imbarazzato dalla mia invadenza, alla serata appena trascorsa, mi

accorgevo dalle poche parole da lui pronunciate, che conosceva almeno quanto me

opere, autori, argomenti, personaggi ma in modo meno letterario, Meno agiografico.

Ospiti di una loggia cosiddetta Esoterica, ricordo un suo lucido intervento

sull’influenza che Guénon ha, dovrebbe o non dovrebbe avere sui lavori, intervento

pacato, di grande acutezza e profondità culturale.

Vennero giorni grigi e tempestosi, nei quali l’esistenza della Comunione fu

gravemente minacciata. Tutti noi, componenti della Giunta, eravamo provati

dall’ostilità manifesta dei fratelli che ci reputavano troppo compromessi con

i transfughi per essere in grado di organizzare una efficace opera di difesa

dell’immagine, dei magistrati che ci consideravano ispiratori di un potere occulto da

neutralizzare, delle forze dell’ordine che ci ponevano ai vertici di un pericoloso gruppo

di tredicimila sovversivi, dei giornali e della televisione di Stato che cavalcavano la

tigre alienandoci in modo pressoché irrimediabile l’opinione pubblica. Avevamo

subìto (lui, più esposto degli altri componenti del consesso, tutto teso a combattere con

la gentilezza e la ragionevolezza le angherie dei persecutori e dei detrattori)

perquisizioni e sequestri; vivevamo nel timore, non proprio ingiustificato, di un

possibile arresto, i nostri telefoni erano da mesi e per mesi sotto controllo. Ma

soprattutto eravamo stati crocifissi dal tradimento del nostro capo che, dopo le prime

furibonde reazioni, ci aveva precipitati in un’attonita indecisione. Il Grande Oriente

D’Italia sembrava disgregarsi, eravamo impotenti di fronte all’ondata degli

assonnamenti. Tutto ciò si riverberava nelle riunioni di Giunta che erano sempre più,

come dire?, dialetticamente animate, tanto che molti di noi dimenticavano i doveri

reciproci di lealtà e di rispetto. In coda ad una di queste riunioni egli prese la parola e,

cosa inconsueta e strana se rapportata alla drammaticità degli avvenimenti che ci

angosciavano, scolpì una lunga Tavola a braccio. Iniziò illustrando le potenzialità della

parola, sublime veicolo di espressione della ragione ma soprattutto dello spirito.

“L’uso della parola non è solo un esercizio estetico: è anche un piacere profondo,

perché grazie ad essa entriamo in contatto con gli altri, stabiliamo un rapporto,

sfuggiamo alla solitudine ed all’isolamento, possiamo ragionare su tutto è con tutti,

formulare concetti compiuti, dare forma a sentimenti profondi. La parola è stata €

sempre sarà, anche nei momenti più oscuri, il veicolo indispensabile per risvegliare

nelle Logge aneliti di fratellanza, tolleranza, solidarietà ed amore. Con amore

sforziamoci a guardare anche il mondo al di fuori delle Logge, perché l’amore è

contagioso e, se costantemente esercitato, tende ad influenzare qualsiasi

comportamento. Parliamo dunque: invece di contraddirci l’un l’altro, usiamo con

proprietà la parola nei confronti dei fratelli, informando, frequentando, e nei confronti

dei detrattori e persecutori, ai quali dobbiamo, senza timore, spiegare e giustificare e

non opporre solo alte grida e sterili lamenti”. Questo intervento ebbe grande effetto e

positiva influenza almeno su quattro di noi. Per quanto mi riguardava direttamente,

stavo vivendo male quel periodo così critico anche sotto un aspetto più personale. La

frequenza dei viaggi a Roma era diventata ormai incalzante ed io mi ammazzavo di

fatica per fare sì che la qualità e la quantità del lavoro profano non ne risentisse. Assai

probabilmente codesto risultato lo ottenni, ma esso m’impose di diradare e sacrificare

rapporti umani, familiari, di amicizia, di fratellanza nei confronti dei componenti della

mia Loggia, ai quali certo non prestai tutta l’attenzione che meritavano. Quel discorso,

pur non stimolandolo direttamente, facilitò in me il ritorno ad una realtà più attenta ad

ogni singolo aspetto di una vita di uomo e di Massone.

Come state constatando, Maestro Venerabile e carissimi Fratelli, questo scritto,

probabilmente, non merita la dignità di Tavola. Accettate, vi prego, questo amarcord

con indulgenza, come l’espressione dell’affollarsi di un coacervo di ricordi nella mente

di un fratello, e ritorniamo pure presto presto a scolpire parole esoteriche.

TAVOLA SCOLITA DAL FR.’.G. P. Pgll,

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IL SIGNIFICATO DELL’IMPEGNO MASSONICO NELLA CREMAZIONE

IL SIGNIFICATO DELL’IMPEGNO MASSONICO NELLA CREMAZIONE

Questa Tavola approfondisce l’argomento “cremazione”, nonché il rapporto tra “cremazione” e i “liberi muratori”, così come si è storicamente sviluppato. Solo marginalmente si parla della Società per la Cremazione di Torino.

SOMMARIO:

1) La cremazione nella storia

2) La cremazione nel secolo scorso

3) La cremazione, il cristianesimo e la chiesa cattolica

4) La cremazione oggi

5) La scelta cremazionista nella visione massonica della vita

6) Il culto laico della memoria

7) 1 massoni e la cremazione in Italia,

8) Riflessioni conclusive ieri e oggi

1) LA CREMAZIONE NELLA STORIA.

La cremazione è un rito antichissimo che nasce agli albori della civiltà.

Ha origine in Oriente nel neolitico: circa 150.000 anni fa. L’uomo di

Neanderthal, che certamente conosceva il fuoco, probabilmente la praticava.

Sicuramente l’ha praticata l’homo sapiens di Cromagnon: circa 50.000 anni fa. Ci sono infatti tracce di cremazione di cadaveri umani di quell’epoca.

Nasce con l’uomo nomade: quando da raccoglitore l’uomo è diventato cacciatore. Spostandosi continuamente in un habitat che non conosceva, probabilmente, non voleva che il corpo dei propri cari diventasse preda degli animali che lui cacciava e forse anche perché aveva scoperto che il fuoco ha una forte valenza rituale.

La cura e il culto dei defunti hanno infatti costituito, fin da allora, uno dei segni

più evidenti del processo di coscientizzazione e civilizzazione del genere umano.

Quando l’uomo scoprì l’agricoltura e ritornò ad essere stanziale mantenne questa

forma funeraria, che ormai faceva parte della sua tradizione culturale.

La cremazione, dall’Oriente ove era nata, si estese in Occidente, portata dai mitici Ari, e qui fu praticata per molti millenni.

Si diffuse presso diverse civiltà mediterranee (greca, etrusca e romana) e ovunque venne considerata un rito di purificazione e di onore.

Fin da allora fu largamente applicata anche presso le popolazioni non mediterranee: slave, scandinave, celtiche, ecc..

Le popolazioni precolombiane la esercitavano abitualmente sino all’arrivo dei

“‘civilizzatori”.

Presso questi popoli indoamericani la pratica si basava sulla credenza secondo

cui la colonna di fumo che si elevava dalla pira consentiva al defunto di salire al cielo: una sorta di liberazione dal mondo temporaneo e provvisorio.

Nel mondo romano la cremazione all’inizio era un rito nobilissimo riservato agli

eroi e alle persone illustri. Successivamente si estese e divenne patrimonio delle classi nobili e patrizie: solo i ricchi potevano permettersi i fasti delle sontuose cerimonie  funebri e la pira di legni preziosi irrorati di balsami. Lo sfarzo di questi riti creò una distinzione tra i ricchi e i poveri.

In India è ancora così: i poveri non vengono cremati perché non possono pagarsi

la cremazione. Nel buddismo la cremazione è così importante ed onerosa che in pratica se ne esclude l’accesso ai poveri.

Anche i popoli di cultura ebraica, per i quali il fuoco era simbolo del sacro,

consideravano la cremazione un onore straordinario da riservare ai re e agli eroi: Saul, Asà, Mosè, Davide, Salomone, come si legge negli scritti di S. Gerolamo. Non doveva quindi essere praticata dal popolo. Anche le due religioni nate dal ceppo abramico, il cristianesimo e l’islamismo, non l’adottarono.

Con la diffusione del cristianesimo e dell’islamismo, in pochi secoli, nell’area mediterranea la cremazione venne praticata sempre meno. Già nel VI secolo, in

Occidente, l’uno e l’altro rito funebre erano praticati quasi in egual misura perché il cristianesimo, poco a poco, impose l’inumazione in tutta l’Europa.

Infine Carlo Magno interdisse di bruciare i cadaveri e così, prima dell’anno

1000, la cremazione scomparve pressoché in tutta l’area mediterranea.

Fu solo saltuariamente praticata, in modo collettivo, in occasione di epidemie,

terremoti e sui campi di battaglia.

Rimase come strumento della Chiesa per punire i sostenitori del libero pensiero: Jacques de Molay, Arnaldo da Brescia, Frà Dolcino, Savonarola, Giordano Bruno, ecc.

2) LA CREMAZIONE NEL SECOLO SCORSO

Nel ‘700, con la rivoluzione industriale, in tutta l’Europa nasce l’urbanesimo. Le

popolazioni rurali si accalcano nelle città, ove i cimiteri tradizionali diventano

insufficienti.

Fino ad allora i cadaveri si inumavano nelle chiese (i ricchi e i nobili) o nelle aree esterne attigue (i servi e i poveri) ma con l’urbanesimo ciò non fu più possibile. Si

ricorre alle fosse carnarie collettive, destinate alla putrefazione in massa all’interno

dell’abitato, nelle quali i cadaveri vengono buttati alla rinfusa.

Nei paesi della Riforma, dove culturalmente si è più liberi e meno dogmatici, il problema viene visto in un’ottica diversa: si comprende che è il momento di tornare

alla cremazione e se ne comincia a discutere a livello scientifico.

Anche in Francia, con gli Illuministi e con la Rivoluzione, si riprende a parlare della cremazione, ma con la Restaurazione il dibattito si arresta.

All’inizio dell’Ottocento nasce il Codice Napoleonico: si creano dei nuovi cimiteri fuori dell’abitato e sotto il controllo pubblico ma la cremazione non viene considerata.

Nella seconda metà del secolo scorso, anche in relazione alle scoperte di Pasteur,

un buon numero di scienziati e di medici, in maggior parte massoni, propongono il

ritorno alla cremazione.

Contemporaneamente nasce a livello europeo il movimento cremazionista, i cui

propugnatori furono:

  •  spiriti umanitari che agiscono a tutela della dignità umana. In un documento dell’epoca si legge: “mossi sia da pietà verso i defunti, sottraendone le spoglie dal disfacimento nella putrefazione e sia da pietà verso i superstiti, evitando che il ricordo dello scomparso sia rattristato e contaminato dalla terribile immagine di una lenta, orrenda e sotterranea tragedia”;
  •  liberi pensatori che nella cremazione vedevano la possibilità di affermare una morale laica della morte, che riconoscesse ad ogni uomo pari dignità di fronte alla morte, indipendentemente dal suo censo, dalle sue idee e dai suoi convincimenti religiosi;
  • laici che si prefiggevano di sottrarre dal potere ecclesiastico la gestione, fino ad allora in esclusiva, del dolore e del lutto;
  • uomini di scienza preoccupati della salute dei vivi;
  •  pubblici amministratori, che dovevano risolvere problemi territoriali, igienici e urbanistici.

In quegli anni, dal multiforme magma libero muratorio e libero pensatore, il

movimento cremazionista prende vita anche in Italia.

Nel 1873 il Senato italiano, sotto la spinta di parecchi Fratelli e in particolare del

Gran Maestro Giuseppe Garibaldi, vota una prima legge, che verrà in seguito

perfezionata, che autorizza la cremazione. La prima cremazione legale in Europa ha avuto luogo il 22 gennaio 1876 a Milano.

La cremazione entra ufficialmente nell’ordinamento italiano mediante la legge

sanitaria Crispi – Pagliani (entrambi massoni) del 1888, che l’ammette e la legittima a pieno titolo, come scelta facoltativa, così come lo è ancora oggi.

Negli ultimi decenni dell’Ottocento il movimento di opinione che promuove la

cremazione si diffonde rapidamente in Europa. Le motivazioni non sono solo quelle di modernità, di igiene e di razionalità ma anche quelle dettate da una nuova pulsione morale, dalla necessità di dar rilievo ad una sacralità laica, di affrontare il problema della morte in modo civile e liberati dalla paura della dannazione. In definitiva si scopre un nuovo senso della storia e della evoluzione umana e c’è la consapevolezza che è intervenuto un cambiamento nell’immagine del mondo e che sono mutati i rapporti tra l’uomo e la natura.

Il numero delle salme cremate nell’ultimo decennio del secolo testimonia un momento di grande impatto per la cremazione.

3) LA CREMAZIONE, IL CRISTIANESIMO E LA CHIESA CATTOLICA

L’idea che il fuoco sia la via privilegiata per ascendere al mondo degli dei è

presente nella cultura occidentale precristiana sin dalle origini.

Negli oracoli caldaici la divinità suprema veniva teorizzata come un fuoco che si

trovava nei cicli e che riversava il suo soffio agli esseri umani attraverso canali di

fuoco.

Nel cristianesimo non ci sono argomenti di fede che contrastano con la

cremazione, anche se il cristianesimo nascente non l’adottò. Ciascuno era libero di

continuare la originaria tradizione ebraica (cremazione esclusa per il popolo) oppure di  seguire la tradizione cremazionista, da millenni presente in Occidente. I  primi cristiani venivano infatti seppelliti o cremati, secondo le usanze praticate

presso le diverse comunità locali. Nel Tempio Crematorio di Torino si trova un’urna

cineraria cristiana dell’epoca romana.

La chiesa cattolica non fu mai contraria alla cremazione per motivi di fede,

poiché nulla ha predicato il Cristo circa la destinazione del corpo.

Il corpo di Cristo fu posto in un sepolcro, unto con oli e balsami che dovevano

impedirne o rallentare il disfacimento. Onoranza non comune, riservata ai ricchi e che non poteva certo essere assunta a regola, perché non applicabile a tutti, specie ai più umili che costituivano il gruppo originario del cristianesimo.

Occorre tuttavia fare una riflessione: la mancata libertà di scelta, negli ultimi duemila anni, circa il destino del proprio corpo non è stata solo una questione politica o di potere ma ha anche radici culturali più profonde.

L’interpretazione simbolica del fuoco, purificazione per taluni e simbolo del male per altri (il fuoco dell’inferno), fu decisiva.

Nel Vangelo (Matteo III .11) è riportato che Giovanni Battista ha detto: “io vi battezzo con l’acqua ma Colui che viene dopo di me vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco”. Infatti nella visione ebraica e in quella protocristiana la natura del fuoco era la stessa del sacro: Dio si manifestava con segni di fuoco (rovi ardenti, pioggia di fuoco, ecc.).

S. Agostino dice “ardescimus ed imus”, cioè ci incendiamo e saliamo verso il

cielo.

Successivamente e gradualmente, con la fine della tensione escatologica, l’interpretazione simbolica del fuoco passò da simbolo del sacro e della purificazione a simbolo del male e a motivo di terrore. Nel contempo il cristianesimo, che inizialmente era costituito da comunità locali, adottò una struttura gerarchica centralizzata che inevitabilmente divenne un centro di potere, con connessioni con la società politica, fino a diventare, nel 313, un elemento portante dell’impero romano, con l’editto di Costantino.

Altra riflessione: in tutti questi secoli la chiesa cattolica ha sempre gestito l’hora

mortis, ì funerali, il dolore e il lutto. Eventi dolorosi nei quali le popolazioni subivano, spesso terrorizzate, il condizionamento dell’oscurantismo clericale e della

superstizione religiosa. 1 cadaveri sono stati, per secoli e fino all’inizio dell’800,

inumati o tumulati nelle chiese o nelle aree attigue o nelle immonde fosse carnarie.

Fino al settecento era infatti la Chiesa ad occuparsi dei funerali.

All’inizio dell’ottocento vengono costruiti i primi cimiteri pubblici. Questi luoghi della morte vengono chiamati “campo santo”, perché dopo la caduta di Napoleone, anche gli ordinamenti laici del Codice Napoleonico caddero in desuetudine.

La “celebrazione della morte” ritorna nuovamente ad essere un monopolio ecclesiastico esclusivo: nel “campo santo” non possono essere destinate le salme di

coloro che sono considerati eretici, degli ebrei, dei protestanti, degli acattolici, dei

bambini morti prima del battesimo, dei suicidi, dei pubblici peccatori, dei morti in

peccato mortale, dei giustiziati e di coloro che prima di morire non si convertono, di quelli che rifiutano i sacramenti, ecc.

Per tutti questi esclusi c’è un ghetto in una parte del cimitero, separato da un alto

muro. È  il cosiddetto cimitero degli “acattolici”.

I laici, i liberi pensatori e i massoni dell’ottocento non possono accettare questo

stato di cose. Il ruolo delle élites cremazioniste va visto infatti anche nel quadro

dell’antagonismo del pensiero liberale post-unitario nei confronti della Chiesa e del

suo apparato. La propaganda e la pratica della cremazione, per le quali i massoni si impegnarono, avevano anche la finalità di impedire ogni ricatto religioso al momento della morte, nei confronti di chi era ormai in pericolo di vita e dei suoi familiari.

Naturalmente questa situazione di antagonismo indusse il S. Uffizio, con un

documento del 1886, a ostacolare la cremazione, negando le esequie a chi l’aveva

scelta.

Oggi, dopo oltre un secolo, l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cremazione è notevolmente cambiato. Nel 1963, Paolo IV in occasione del Concilio

Vaticano II revoca la scomunica, un gesto di ecumenismo soprattutto verso i cattolici dell’area anglosassone, ove la cremazione da molti anni si era spogliata nelle caratteristiche antireligiose.

Attualmente in Italia la gerarchia cattolica guarda ancora con sospetto e diffidenza le associazioni cremazioniste.

Gli integralisti tentano talvolta qualche sortita anacronistica, come ha fatto il Cardinale Saldarini alla omelia per la Ricorrenza dei Defunti nel 1995, che ha costretto a rispondere ufficialmente con una lettera aperta, pubblicata da “La Stampa”. Sono tuttavia dei “colpi di mano”, perché il movimento cremazionista oggi non appare più come una risposta al predominio ecclesiastico del secolo scorso in materia di sepolture, a raccoglie sostenitori provenienti da diversi percorsi intellettuali.

Anche tra i cattolici si comincia a vedere nella cremazione un rito di pari dignità.

Da un questionario distribuito ai Soci SOCREM di Torino nel 1994, il 77% si definiva credente.

Tra i Soci ci sono dei sacerdoti cattolici e in alcuni funerali le famiglie chiamano

il prete per la celebrazione dei riti funebri all’interno del Tempio Crematorio.

4) LA CREMAZIONE OGGI

La spinta, data nel secolo scorso, all’idea cremazionista non si è più esaurita in

Europa, mentre in Italia subisce un assestamento nei primi anni del 900 per poi avere una flessione durante il fascismo.

Il movimento cremazionista è oggetto di opposizione politica per la ribadita

condanna da parte della Chiesa, ormai alleata con il “potere” attraverso i Patti Lateranensi, che compromettono e infrangono la laicità dello Stato sorto dal Risorgimento.

Fino all’ultimo dopo guerra, cioè fino agli anni 50 e 60, in Italia la cremazione ha connotato non solo la cultura massonica ma anche tutte le culture antagoniste e

conflittuali nei confronti della morale dominante, da quella anarchica a quella del

movimento operaio. Essa divenne una scelta specifica per le passioni libertarie e anticonformiste che, tra le due guerre mondiali, confluiscono nell’antifascismo.

Oggi, alle soglie del 2000, in Italia l’opinione cremazionista non appare più come la riproduzione pura è semplice di quella identità. Molti degli spunti ideologici che animarono il dibattito di fine secolo sono stati progressivamente e in buona parte

superati e sì è sgonfiata la tensione clericalismo/anticlericalismo di allora.

In questo fine secolo la cremazione si sta rivelando, in tutto il mondo

occidentale, come la pratica funeraria più civile e anche la più idonea alle esigenze

della società contemporanea, nella quale non è più possibile sottrarre la terra ai vivi di domani per darla ai morti di oggi. La cremazione infatti si impone anche come l’unica e concreta soluzione dei problemi cimiteriali, igienici è urbanistici.

Negli anni 2000 la cremazione in Occidente ritornerà ad essere prevalente, come

lo era duemila anni fa.

Copenaghen è la città europea con il più alto tasso di cremazione: 90%, molto

prossimo alla media giapponese, che si aggira sul 98%.

La media europea è del 31%, con punte del 70% in Gran Bretagna.

In Italia, ove il movimento cremazionista ha ripreso i suoi primi passi solo negli ultimi 20 – 30 anni, il tasso è del 2,8% ma sta diventando, gradualmente, un

significativo e rilevante fenomeno sociale. Da noi la cremazione, unico caso in Europa, è diventata (dal 1987) servizio pubblico gratuito che compete a tutti i cittadini perché le spese sono a carico dei rispettivi Comuni di residenza.

Confortante è la situazione di Torino: si è già superato il 21%, certamente anche per l’intensa azione di promozione sociale e culturale svolta dalla SOCREM.

Occorrerà però che gli italiani non ostacolino la loro evoluzione culturale, sappiano cioè affrancarsi dai pregiudizi e dal “tabù”   della morte.

5) LA SCELTA CREMAZIONISTA NELLA VISIONE MASSONICA DELLA VITA.

La nostra società sta attraversando una fase storica caratterizzata dalla perdita del

senso del sacro, dei valori legati alle virtù civili e al vivere in modo consapevole il

proprio destino.

I nostri Fratelli del secolo scorso ci hanno insegnato che chi sceglie la

cremazione afferma il diritto di poter scegliere la destinazione del proprio corpo. In

questa scelta vi è il rifiuto di considerare la morte come un semplice adempimento

burocratico da lasciare ad “altri”.

Chi sceglie la cremazione afferma, implicitamente, l’autonomia dell’individuo

nei confronti della “istituzionalizzazione” della morte.

Il non delegare, assumere la decisione di scegliere personalmente, dà a ciascuno

di noi una maggior coscienza, una intima consapevolezza e una più vigile attenzione verso la propria esistenza, presupposto per un miglior apprezzamento della vita e delle cose realmente importanti che ci offre.

La cremazione non si sceglie sbadatamente, comporta una riflessione e una

decisione autonoma, propria di chi si  è liberato dal tabù della morte.

Soffermarsi sul problema della morte significa aprire gli occhi sulla realtà della

vita.

Montaigne, autore del 1500, non certo di scuola cattolica, anzi precursore del

laicismo come oggi viene inteso, fa questa riflessione di sapore massonico:

“E incerto dove la morte ci attenda, aspettiamola dovunque. La meditazione

della morte ha disimparato a servire. Il saper morire ci libera da ogni soggezione e da ogni legame”. (Saggi 1. XX).

Il significato del messaggio di Montaigne, di sorprendente attualità, è questo:

acquisire la consapevolezza della propria morte rende l’uomo interiormente libero.

Questa consapevolezza gli toglie ogni motivo di soggezione verso la morte e lo libera

da molti vincoli convenzionali verso gli altri.

Egli apprezza di più quello che la vita gli offre, vive la vita con più realismo e anche con più sicurezza in se stesso, perché diventa padrone della propria vita non è più succubo della paura della morte.

La riflessione e la ricerca intellettuale sono parte integrante del bagaglio etico di

chi, come il massone, vuol dare un senso compiuto ai grandi temi della vita e della

morte, di chi cerca di capirla, la morte, è non semplicemente subirla tra ansie e paure.

Chi sceglie la cremazione è in contrapposizione al servile attaccamento di troppi

uomini (noi li definiamo “profani”) di fronte ad una vita vissuta nella mediocrità,

senza slanci e senza grandi pulsioni, in pratica intesa come semplice sopravvivenza.

“Noi abbiamo goduto la vita e la vita gode di voi, noi l’abbiamo posseduta, ed

essa vi possiede. Voi ci tenete come ad un’amante che si è mai spogliata davanti a

voi”, dice l’Aristocratico condannato alla ghigliottina nei Dialoghi delle Carmelitane

di George Bernanos.

Noi massoni dovremmo un giorno poter dire: “L’abbiamo posseduta questa amante”.

6) IL CULTO LAICO DELLA MEMORIA.

La cremazione non è solo una forma funeraria alternativa: è difesa della sacralità

della morte, è tutela della dignità di essere umano dello scomparso ed è rispetto per il dolore di chi gli sopravvive.

Chi sceglie la cremazione non solo intende sottrarre le proprie spoglie dall’orribile disfacimento nella putrefazione ma vuole evitare che questa orrenda immagine rattristi il ricordo di se in chi gli sopravvive. Egli sa bene che la consumazione del proprio corpo ad opera del fuoco altro non è che un processo che si limita ad anticipare, mediante il simbolismo del fuoco, che consuma e che purifica, il ritorno a quello stato di polvere da cui probabilmente ha avuto origine la vita.

Il Fratello Ariodante Fabretti, nel suo discorso inaugurale del Tempio

Crematorio (17 giugno 1888), afferma che la scelta della cremazione, che dà al corpo degli scomparsi una nuova e incorruttibile forma, emerge anche dal bisogno che tutti noi abbiamo, di mantenere viva la comunione con i defunti. Le ceneri dei nostri cari, nelle quali è racchiuso l’inestinguibile ideale soffio di vita, costituiscono infatti ancora

– in forma immutabile – una loro presenza fisica tra noi.

Il perpetuare la memoria di quanti hanno condiviso con noi il peso e la gioia della vita è un valore legato alla civiltà dell’umanità. Fin dalle sue origini l’uomo ha scoperto di poter continuare a vivere con “l’amico estinto e l’estinto con noi” (Ugo

Foscolo). È il culto laico della memoria, che non ha bisogno di rifarsi ad una

rivelazione soprannaturale, perché la civile tensione etica è sufficiente a sottrarre alla morte qualcosa della sua preda.

7) I MASSONI E LA CREMAZIONE IN ITALIA, IERI E OGGI.

La nascita dei primi movimenti cremazionisti, nella seconda metà del secolo

scorso, è avvenuta, in Europa e in Italia, principalmente per iniziativa dei massoni e della massoneria.

La costituzione delle Società per la Cremazione, è stata promossa quasi ovunque

dai massoni.

In quegli anni si costruiscono i primi impianti che – significativamente – vengono

chiamati ARE o TEMPLI, perché volutamente vogliono denunciare il riferimento

massonico.

Sotto l’influenza dei massoni e per loro volontà, la cremazione è ridiventata, dopo duemila anni, una pratica funeraria legale.

Massoni erano Francesco Crispi, Luigi Pagliani, Malachia De Cristoforis,

Gaetano Pini, Ariodante Fabretti e molti altri. La massoneria di quei tempi operava

concretamente per “il bene e il progresso dell’umanità”: i massoni, che avevano già il grande merito di aver dato un decisivo contributo a “fare l’Italia” e a costruire lo stato laico nato dal Risorgimento, si accingevano a “fare gli italiani”. Cioè alla costruzione di una religione civile in grado di sostituire le nuove appartenenze dello stato laico alle vecchie identità, sedimentatesi nelle credenze religiose. La diffusione della cremazione da parte dei massoni nell’Ottocento è il prolungamento di un più generale discorso sulla fondazione di una morale laica, in grado di fronteggiare adeguatamente, in tutti i campi, l’egemonia di norme e comportamenti a sfondo confessionale.

Poiché l’essenza della proposta cremazionista era – in sintesi – una tensione etica

di trasformazione sociale, in nome dell’uomo, della scienza e del progresso, i massoni si dedicarono con slancio alla sua affermazione.

A Torino, ove questi progetti nacquero e si svilupparono, la Società per la Cremazione viene fondata, nel 1883, da 12 Fratelli torinesi, tra i quali (citiamo solo i più noti):

– Ariodante Fabretti: M.’.V.’. della R.’.L.’. Dante Alighieri di Torino, membro del

Supremo Consiglio R.S.A.A., Segretario dell’Assemblea Costituente che proclamò

la Repubblica Romana nel 1849, Deputato al Parlamento Subalpino, Senatore del

Regno, Professore universitario, Direttore del Museo Egizio, Membro

dell’Accademia delle Scienze, Consigliere Comunale.

-Galileo Ferraris: Fratello, 33° Grado R.S.A.A., uomo politico, Scienziato,

Consigliere Comunale.

– Giovanni Battista Bottero: Fratello, medico, fondatore della Gazzetta del Popolo,

uomo politico deputato, successore di Cavour nel suo Collegio elettorale, alla morte

dello statista.

– Cesare Goldmann: M.’.V.’. della R.’.L.’. Pietro Micca di Torino, Amministratore

Comunale, uomo politico, finanziere.

– Tommaso Villa: Fratello della R.’.L.’. Dante Alighieri di Torino, membro del

Consiglio dell’Ordine, Ministro degli Interni e successivamente di Grazia e

Giustizia, Presidente della Camera, Sindaco di Torino.

– Luigi Pagliani: Fratello della R.’.L.’. Rienzi all’Oriente di Roma, Consigliere

dell’Ordine, Membro effettivo del Supremo Consiglio R.S.A.A., Professore universitario, autore delle prime leggi italiane di Sanità e responsabile della Sanità

Pubblica nel Governo Crispi.

L’apporto massonico alla nascita della cremazione a Torino risulta non solo da

un impegno a livello individuale di singoli massoni ma da un intervento diretto e

ufficiale in termini economici e logistici delle Logge, come si desume dai verbali

conservati nel Centro Studi Ariodante Fabretti.

Dall’opera di questi Fratelli e con l’aiuto, anche economico, delle Logge torinesi,

viene costruito il Tempio Crematorio: dal 1888 a Torino si sono così avuti funerali ed esequie uguali per tutti, senza divisioni di censo, di cultura, di ideologia e di sentimenti religiosi. L’opera costò 22.500 lire (1.500 mil. di oggi) di cui un terzo lire (500 mil, di oggi) coperte da un contributo del Comune e due terzi (1.000 mil. di oggi) coperte dai Fratelli e dalle Logge Torinesi.

Interessante leggere i documenti di allora, per capire quanto determinante fu 1a

partecipazione della massoneria alla affermazione dell’idea cremazionista.

Nella “Rivista della Massoneria Italiana” del 1° giugno 1874, si legge: “La Massoneria italiana, augurando che i Cimiteri divengano esclusivamente civili, mentre lascia ai singoli fratelli ed alle loro famiglie piena libertà di determinare il luogo ed il modo di deposito delle salme dei loro cari defunti, si propone di promuovere presso i municipi l’uso della cremazione, da sostituirsi all’interramento. Raccomanda perciò tale concetto a tutte le Officine, ed ai singoli fratelli lo studio di più sistemi atti a raggiungere l’intento in modo cauto, igienico e poco dispendioso. Le urne contenenti le ceneri dei massoni e delle loro famiglie, potrebbero così essere raccolte nei Templi o  nelle loro adiacenze, come in un sepolcreto di famiglia”.

Anche oggi a Torino c’è un’area (monumento a forma di Tempio massonico)

riservata alle ceneri dei fratelli e dei loro familiari.

La percentuale di massoni che si iscrivono alla SOCREM nel periodo 1890 –

1910 è altissima (valutabile intorno al 50%) e dai registri dei cremati risulta che molti altri massoni, non iscritti, si fecero cremare per cui c’è da ritenere che la cremazione, pur nell’assoluta libertà di scelta, fosse considerata nel mondo massonico il rito funebre di elezione.

Nel 1892 la SOCREM di Torino ottiene il riconoscimento a Ente Morale e da allora questa associazione di volontariato, voluta e tuttora sostenuta dai massoni, che

ha personalità giuridica e che non persegue scopi di natura economica © di lucro,

animata esclusivamente da motivazioni ideali, continua ad operare nella sfera morale e dei sentimenti più intimi dell’uomo, al raggiungimento di un fine altamente umanitario: la diffusione della cremazione, per il rispetto della dignità dell’uomo.

Poiché la diffusione della cremazione è legata alla crescita culturale della società, la nostra associazione sta diventando un centro propulsore di iniziative culturali e sociali a vasto raggio. Mi limito a citarne una sola: il Centro Studi Ariodante Fabretti, la cui attività è iniziata nel 1992.

Dopo aver predisposto le basi archivistiche e culturali, affinché gli studi potessero svolgersi con il necessario rigore scientifico, oggi il Centro Studi – nella prospettiva di trasformarsi in una vera e propria Fondazione – è diventato un punto di riferimento obbligato per chi si interessa dell’intreccio tra gli uomini, la vita, la morte c i riti. Opera in collaborazione con Università italiane (Torino, Roma, Bologna, Lecce) ed estere (Parigi, Utrecht, Strasburgo, ecc.).

Ha recentemente organizzato un seminario sui “riti funebri tra conservazione e

distruzione”, i cui atti sono stati pubblicati in un libro, che riporta anche il rito

funerario massonico.

Maestro venerabile, Fratelli carissimi. È tempo che mi avvii alla conclusione di

questa “Tavola”. Rimane solo più da precisare che oggi i massoni hanno un motivo in più, rispetto ai nostri Fratelli del secolo scorso, per interessarsi di cremazione.

Significativa è la seguente lettera pubblicata da “Specchio dei Tempi” lo scorso

7 agosto 1996: “Mio padre è morto una settimana fa, rispettando le sue volontà, è stato cremato nel cimitero di Pallanza – Verbania. Lo strazio di questo lutto è stato insultato e vilipeso dalle condizioni in cui questa cremazione è avvenuta: nessun segno, neanche piccolo, di una civile accoglienza ad un feretro. Intendo dire un luogo decoroso e pulito dove papà potesse aspettare che si compissero le ultime ore di permanenza su questa terra delle sue spoglie, ma un inverecondo stanzino in cui si ammassavano le cose più svariate (dai trapani elettrici ai calcinacci) ed il forno in bella evidenza che mi ha fatto l’orribile effetto di un lager!

Senza parlare del comportamento degli addetti, uno dei quali ci ha offesi solo perché avevamo chiesto informazioni su orari e procedure. Non ci vorrebbe molto a rendere più civile e rispettoso il luogo (basterebbe una piccola stanza imbiancata,

pulita e magari con un crocefisso, una tenda scorrevole a coprire pietosamente il forno crematorio). A chi tocca muoversi, per cortesia, lo faccia al più presto” (segue la firma).

Ho voluto citare questa lettera perché è emblematica di come questo antichissimo rito può degenerare e nel contempo essa indica il nuovo ruolo che i massoni ora hanno.

La causa di tanta desolazione è dovuta all’errore di considerare la cremazione

solo come una forma funeraria alternativa, mentre va inserita nella millenaria

tradizione culturale occidentale.

Il rito della cremazione presso tutte le civiltà e in tutti i tempi ha infatti sempre

avuto il fine di onorare il defunto, di rispettarne la dignità e di dare conforto ai parenti.

Una cremazione priva della ritualità si riduce ad una fredda operazione tecnica: una barbarie peri parenti colpiti dal dolore della scomparsa del proprio caro.

I valori morali coinvolti nel rito della cremazione difficilmente oggi si possono

coniugare con il distacco e l’indifferenza di un burocratico servizio comunale, svolto

da operatori spesso impreparati e insensibili.

Senza un rito funebre abdichiamo al diritto di chiamarci umani.

In caso di latitanza di noi massoni, la cremazione diventerebbe esclusivamente soggetto di operatori disinteressati al rispetto dei fondamentali sentimenti umani, se non di speculatori insensibili a motivazioni prive di contropartita monetaria.

L’opera dei nostri Fratelli del secolo scorso non è ancora compiuta.

La SOCREM, portatrice di un compito morale, si è posto – in un’ottica massonica – il problema del significato e della dignità del rito funebre e si è preoccupata di ripristinare e di arricchire il rituale della cremazione, per dar rilievo alla sacralità della morte, per evitare che questo avvenimento venga contagiato dall’impoverimento comunicativo, che oggi caratterizza le realtà metropolitane al momento del lutto. Ciò ha comportato un grosso lavoro di riorganizzazione e di ristrutturazione.

Attraverso questo rituale, nel quale sono rispettate le convinzioni religiose di ognuno c viene tutelata la dignità di essere umano dello scomparso, i congiunti

vengono accompagnati nel percorso di separazione dal proprio caro, anziché essere

abbandonati nell’angoscia e nella desolazione.

Noi massoni siamo infatti convinti che il dolore di una perdita può essere mitigato nel trasformare questo evento in qualcosa di meno crudele e insensato, in quanto pensiamo che la morte sia un processo trasformativo che non esaurisce il senso

di una esistenza.

Oggi che in Piemonte e nella Valle d’Aosta la cremazione sta diventando prevalente, c’è ancora bisogno di noi massoni, affinché sia gradualmente acquisita dalla società e praticata in modo civile ed umano. La trasformazione della mentalità ha infatti ritmi molto lenti rispetto a quelli degli avvenimenti.

Noi continueremo ad assolvere questo ruolo, cui dedichiamo il massimo impegno, e tutta la nostra tensione morale, perché siamo consci che così operiamo “per il bene e il progresso dell’umanità”.

8) RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Maestro Venerabile, se mi sono concessi ancora 2 minuti, vorrei concludere

questa Tavola con alcune riflessioni sul fuoco:

–il fuoco è la vita: ogni traccia di vita sulla Terra scomparirà quando si estinguerà

quel globo di fuoco che chiamiamo Sole,

–1 primi uomini avevano compreso l’importanza del fuoco e ne fecero motivo di

culto.

–Con il fuoco essi si riscaldavano, cucinavano il cibo, si difendevano dagli animali,

che ne erano terrorizzati.

–L’uomo è il solo essere del regno animale ad aver dominato il fuoco.

–Il fuoco, fin dall’antichità, ha avuto per l’uomo delle valenze positive. Nella mitologia greca era simbolo di libertà: Prometeo lo ruba agli dei e viene punito perché solo loro potevano crearlo (Giove) e utilizzarlo (Vulcano).

–Nell’antica Roma il fuoco era ancora motivo di culto e le Vestali dovevano custodirlo,

–Il fuoco presiede, sin dai tempi più antichi, ai riti di passaggio.

–Nell’iniziazione massonica è il fuoco che purifica e rigenera l’iniziato.

–Il fuoco indù è la soglia del sacro. Nella cultura indù, è sinonimo di salvezza,

significa uscire dalla ruota delle reincarnazioni.

–Noi massoni diciamo che prima di entrare in Tempio dobbiamo la: i metalli.

–Il fuoco del rogo ha il compito di liberare il divino che è nell’uomo dalla prigione

della materia.

–La cremazione dà alla morte la dignità di un sacrificio rituale, che accosta l’uomo

alla concezione dell’anima e alla sua immortalità.

–La forza ardente del fuoco rappresenta l’anelito dello spirito, nell’imminenza della

morte, ad abbandonare la materia, per librarsi in uno spazio più alto: una visione di liberazione.

–Nel BARDO THOÒDOL (il libro tibetano dei morti) è detto: “quando al defunto

appare la fulgida luce di fuoco che lo terrorizza, nella quale vorrebbe perdersi e da

cui vorrebbe fuggire, egli deve cedere e accumularsi in essa se vuole essere salvato”.

–L’elemento sottile e immateriale nascosto nell’uomo non può essere distrutto dal

fuoco, giacché l’uomo stesso è luminoso e fatto di fuoco.

–Nel linguaggio alchemico il fuoco è una sostanza pura, eterna, indispensabile per il compimento della Grande Opera

TAVOLA SCOLPITA DAL   FR.’. L. Scgll

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LA MORTE COME PENA

La morte come pena

La campagna per l’abolizione della morte come pena è un “fenomeno” che si ripete ciclicamente, all’incirca una volta all’anno, almeno in Italia.

L’anno trascorso, il 1996, era stato proposto dal 1° congresso internazionale dell’Associazione Nessuno tocchi Caino per una moratoria mondiale dell’assassinio legale. Appello rimasto praticamente inascoltato da tutti quei Paesi che sono “attivi” in  tal senso!

Alla fine dell’anno abbiamo invece poi osservato una campagna di stampa, incredibilmente intensa e violenta, per ottenere la revoca della pena ad un americano,un certo O” Dell, un condannato sulla cui colpevolezza esistono fondati dubbi: la pena è stata sospesa, ma nello stesso giorno e nello stesso carcere un altro condannato è stato “giustiziato”.

Gheddafi, che si dichiara contro la pena di morte, ha inaugurato il corrente anno con la fucilazione di sei ufficiali, rei di aver complottato (!) contro la sua persona.

Subito dopo, negli Usa in Arkansas, sono state eseguite ben tre altre esecuzioni nello stesso giorno: per risparmiare tempo e denaro, diranno ! Uno dei tre addirittura con l’ago già nella vena ha dovuto attendere ancora circa 30 minuti per permettere al giudica di esaminare bene un’ultima volta l’intera pratica e poter così giustamente respingere l’ultimo ricorso!!!

L’Osservatore Romano ha commentato con un “Macabra scena di montaggio”,  mentre W, Shultz, presidente di Amnesty International, lo ha dichiarato: “una barbarie che si verifica solo più in una minoranza di Paesi”.

Con piacere debbo dire che anche il nostro G.O.I. ha preso parte alla tenzone schierandosi, a suo tempo ed in maniera netta, a favore dell’americana Paula Jones, ed ora, forse con meno clamore, per O’ Dell.

Ma l’argomento a me pare troppo importante per non doversi confrontare e ragionarci su, cari Fratelli.

Volendo schematizzare, posso riassumere l’intera questione in:

a) la pena di morte, oggi, è razionalmente accettabile? È moralmente accettabile ? È politicamente accettabile?

b) e, ammesso che lo sia, non è altrettanto barbaro tenere una persona, ancorché condannata, per anni, talvolta decine, in attesa dell’esecuzione nel “braccio della morte”? Nei soli USA sono più di 3.100 i condannati in questa scomoda ed alienante situazione.

Per fornire alcuni spunti di riflessione posso ricordare T. Moro che, nel suo Utopia, afferma: “O noi ammettiamo la validità del principio ‘non uccidere’ come superiore e trascendente l’uomo (in questo caso la società non potrà poi togliere la vita ad alcuno, perché della vita nessuno, né la società, né l’individuo, ha la disponibilità), oppure ammettiamo che la società ha, in certi casi, il potere di derogare alla legge divina. Ma così non ci saranno più limiti perché la deroga sarà sempre ottenuta ogni volta che la società lo riterrà necessario”.

Da questa base parte poi tutto il ragionamento di Moro, che ha una concezione umanamente e “modernamente” cristiana, ed è per questo che in tutto Utopia non ci sono né roghi, né impiccagioni: e questo, per un libro scritto agli albori del 1500 è incredibile, quasi scandaloso! Solo verso gli eretici mostra un’insofferenza spiccata, senza tuttavia giungere mai a teorizzare violenza, a differenza degli altri pensatori    cattolici.

Sant’Agostino, invece, ipotizza la violenza come giusta se usata contro i nemici della chiesa.

San Tommaso giustifica la morte come pena, e pone il condannato alla stessa tregua della bestia: l’unica condizione che pone è che la condanna sia emessa da un giudice: “il bene comune vale di più di quello di un solo individuo. Se dunque la vita di certi delinquenti è contraria al bene comune, cioè all’ordine della società umana, essi potranno essere uccisi”.

Parole agghiaccianti.

Ma anche i pensatori laici non sfuggono alla contraddizione su questo terribile tema, compreso Cesare Beccaria.

Perché delle due l’una: o noi crediamo che davvero la persona umana non possa mai essere uccisa da chi ha il potere per il suo valore incommensurabile ed allora in questo caso la morte come pena non è mai applicabile, o crediamo che la vita e la morte individuale possa essere trattata e discussa, sia pure da leggi approvate regolarmente e dopo processi legittimi.

Ma in questo caso tutto il diritto si riduce all’impiego di più o meno forza ed allora lo Stato avrà sempre ragione perchè è sempre più forte del singolo: diritto diviene allora e così tecnica del terrore e finirà per essere usato in base alle variabili opportunità politiche.

Al punto b) dello schema prima esposto la risposta non può che essere

strettamente legata alla risposta sopra esaminata, perché se si ammette che lo Stato possa eliminare una persona, i limiti temo siano facilmente superabili. Non esisterà più nulla di certo.

Così nel Medio Evo era normale che chiunque fra i presenti ad una esecuzione capitale infierisse sul condannato sulla via del patibolo o del rogo. Una sorta di rigenerazione psicologica dei “buoni e perbene”, Insomma, se non esiste il limite dell’inviolabilità della persona umana, allora tutto diventa in qualche modo possibile. possiamo diventare dai barbari applicando la più raffinata tortura inventata dell’uomo, quella che ne “Dei delitti e delle pene” viene detta “il più carnefice dei nemici,

l’incertezza”, Condannare un uomo e dargli però tutte le possibilità di ricorrere, di fare appelli, revisioni, nuovo processi, richieste di grazia, eccetera è, io credo, la tecnica più sadica che si possa inventare. È quanto più crudele e spietato l’uomo abbia mai praticato.

Parliamo di persone che, immesse nel “braccio della morte” attendono che la loro sentenza capitale divenga esecutiva, definitiva!

È l’applicazione del detto romano “summus jus, summa iniuria”. Insomma, è la dimostrazione di come l’uomo possa, usando la legge in modo assolutamente corretto, diventare una belva nei confronti di chi (?) ha sbagliato.

E se condividiamo il sacrosanto principio della dignità umana è anche contro queste sottili forme di violenza che dobbiamo, tutti noi Fratelli Liberi Muratori,

batterci!

A.’.G.’. D.’.G.’.A.’.D.’.U.’.

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