1
Il principio sovrano dentro di
noi, quando si trovi conforme a natura, ha verso gli eventi una disposizione
tale, che può sempre facilmente mutarla in relazione a ciò che a possibile e
concesso. Infatti non ama alcuna materia definita, ma segue, con riserva, il
suo impulso ai fini più alti, e di quello che gli si oppone fa materia per sé,
come il fuoco, quando fa suo ciò che vi cade dentro – un lumicino ne sarebbe
spento: il fuoco vivo, invece, in un istante si impadronisce di ciò che gli si
getta sopra, lo consuma e proprio di qui trae alimento per divampare ancora più
alto.
2
Non si compia alcuna azione a
caso o in qualsiasi modo non conforme a un principio che contribuisca a realizzare
l’arte del vivere.
3
Si cercano un luogo di ritiro,
campagne, lidi marini e monti; e anche tu sei solito desiderare fortemente un simile
isolamento. Ma tutto questo a proprio di chi non ha la minima istruzione
filosofica, visto che a possibile, in qualunque momento lo desideri, ritirarti
in te stesso; perché un uomo non può ritirarsi in un luogo più quieto o
indisturbato della propria anima, soprattutto chi ha, dentro, principî tali che
gli basta affondarvi lo sguardo per raggiungere sùbito il pieno benessere: e
per benessere non intendo altro che il giusto ordine interiore. Quindi
concediti continuamente questo ritiro e rinnova te stesso; e siano brevi ed
elementari i principî che, appena incontrati, basteranno a purgarti da ogni
nausea e a congedarti senza che tu provi fastidio per le cose a cui ritorni.
Che cosa, infatti, ti infastidisce? La cattiveria degli uomini? Considerati i termini
del problema – e cioè che gli esseri razionali esistono gli uni per gli altri;
che la tolleranza a parte della giustizia; che sbagliano senza volerlo – e
considerato quanti già, dopo aver nutrito inimicizia, sospetto, odio, giacciono
trafitti, ridotti in cenere, smettila, infine! O forse il tuo fastidio a anche
per la sorte che, nell’ordine universale, ti viene assegnata? Ritorna col
pensiero all’alternativa: «O provvidenza o atomi», e a tutti gli argomenti con
cui fu dimostrato che il cosmo a come una città. O forse ti sentirai toccato
dalle cose del corpo? Torna ancora a pensare che la mente non si immischia con
i movimenti dolci o aspri del soffio vitale, una volta che abbia isolato se
stessa e preso cognizione del proprio potere; e poi pensa a tutto quello che
hai ascoltato intorno al dolore e al piacere, e su cui hai espresso il tuo
assenso. O sarà forse la preoccupazione di una misera fama a fuorviarti? Guarda
la rapidità dell’oblio che investe tutto, l’abisso dell’eternità che si estende
infinita in entrambe le direzioni, la vacuità della rinomanza, la volubilità e
la sconsideratezza di chi sembra tributare elogi, e l’angustia del luogo in cui
la fama a circoscritta. Perché tutta la terra a un punto: e quale minuscolo
cantuccio della terra a questa dimora? E, qui, quanti e quali sono gli uomini
che ti elogeranno? Ricorda, allora, che puoi ritirarti in questo tuo
campicello, e soprattutto non agitarti e non darti troppa pena, ma sii libero e
guarda la realtà da uomo, da essere umano, da cittadino, da essere mortale. E
tra i principî che più dovranno stare a portata di mano quando ti ripiegherai
su di essi, vi siano i due seguenti. Il primo: le cose non toccano l’anima, ma
stanno immobili all’esterno, mentre i turbamenti vengono soltanto dall’opinione
che si forma all’interno. Il secondo: tutto quanto vedi, tra un istante si
trasformerà e non sarà più; e pensa continuamente alla trasformazione di quante
cose hai assistito di persona. Il cosmo a mutamento, la vita a opinione.
4
Se l’intelligenza a comune a
noi uomini, a comune anche la ragione, in virtù della quale siamo esseri
razionali; se così, a comune anche la ragione che ordina ciò che deve o non
deve essere fatto; se così, a comune anche la legge; se così, siamo
concittadini; se così, partecipiamo di un organismo politico; se così, il cosmo
a come una città. Di quale altro organismo politico comune, infatti, si potrà
dire partecipe l’intera umanità? E di qui, da questa città comune, ci viene la
nostra stessa intelligenza, ragione, legge; da dove, altrimenti? Infatti, come
ciò che in me vi a di terreno a particella ricavata da una qualche terra,
l’umido da un altro elemento, il soffio vitale da una sorgente, il calore e il
fuoco da una loro specifica fonte – perché nulla viene dal nulla, come neppure
finisce nell’inesistente -, così appunto anche l’intelligenza ha origine da
qualcosa.
5
La morte a, tale quale la
nascita, un mistero della natura: aggregazione degli stessi elementi agli
stessi elementi; non certo, insomma, qualcosa di cui ci si debba vergognare:
infatti non contrasta con la condizione di un essere razionale né contrasta con
il criterio della sua costituzione.
6
Questo a il prodotto
inevitabile di individui che abbiano una simile natura: chi non lo accetta, non
accetta che il fico abbia il lattice. Insomma, ricòrdati di questo; in men che
si dica sarete morti sia tu sia costui, e fra poco di voi non resterà neppure
il nome.
7
Cancella l’opinione: a
cancellato il «sono stato danneggiato». Cancella il «sono stato danneggiato»: a
cancellato il danno.
8
Ciò che non rende un uomo
peggiore di quel che a, non rende peggiore neppure la sua vita, e non la
danneggia, né dall’esterno né dall’interno.
9
La natura dell’utile non può
produrre che questo.
10
Tutto ciò che avviene avviene
giustamente: lo verificherai, se osservi con attenzione. Non dico soltanto nel senso
che avviene in giusta conseguenza, ma nel senso che avviene secondo giustizia e
come per opera di qualcuno che assegna quanto spetta secondo il merito. Quindi
osserva questo principio, come hai cominciato a fare, e in qualunque azione
agisci con il presupposto di essere buono, nel senso in cui a propriamente
inteso l’essere «buono». Mantieni questa esigenza in ogni azione.
11
Non formarti opinioni in
analogia ai giudizi che il prepotente formula o vorrebbe che tu formulassi, ma
guarda le cose in sé, quali sono in verità.
12
Bisogna tenere sempre pronte
queste due regole: la prima, compiere soltanto ciò che la ragione di sovrano e legislatore
suggerisce per il bene degli uomini; la seconda, cambiare parere se accanto c’a
qualcuno in grado di correggerti o staccarti da una determinata convinzione.
Questa conversione, tuttavia, deve sempre avvenire per verosimili ragioni di
giustizia o utilità sociale, e ciò che fa mutare strada deve essere solo di
questa natura, non qualcosa che sia apparso fonte di piacere o di fama.
13
Hai la ragione? Sì. Allora
perché non la usi? Quando essa, infatti, svolge il proprio cómpito, che altro
vuoi?
14
Sei venuto al mondo come
parte. Scomparirai dentro ciò che ti ha generato, o meglio sarai riassunto,
attraverso trasformazione, nella sua ragione seminale.
15
Molti granelli di incenso
sullo stesso altare: uno a caduto prima, l’altro dopo, ma non fa nessuna
differenza.
16
Entro dieci giorni sembrerai
un dio a quelli stessi a cui ora sembri una belva e una scimmia, se ritorni ai principî
e al culto della ragione.
17
Non vivere come se dovessi
vivere migliaia di anni. Il fato incombe: finché vivi, finché a possibile,
diventa virtuoso.
18
… quanto tempo libero guadagna
chi non guarda che cosa il prossimo ha detto, fatto o pensato, ma soltanto le proprie
azioni, perché siano giuste e pie, cioè conformi all’uomo virtuoso. Non
voltarti intorno a guardare un carattere malvagio, ma corri dritto lungo la
linea, senza lasciarti deviare.
19
Chi spasima per la sua gloria
postuma non pensa che anche ognuno di quelli che lo ricordano al più presto morirà,
e poi sarà il turno di chi avrà preso il suo posto, finché il ricordo di lui,
avvicendandosi tra vite che si accendono e spengono, si estinguerà
completamente. Ma supponi pure che siano immortali coloro che ricorderanno, e
immortale il ricordo: ebbene, che senso ha tutto questo per te? E non dico
soltanto che non ha senso per il defunto: ma, anche per chi a vivo, che senso
ha la lode? (a prescindere da una sua funzione strumentale). Adesso, infatti,
tu trascura pure inopportunamente la dote naturale, dedicandoti a un’altra
ragione; poi […]
20
Tutto quel che per
qualsivoglia ragione a bello, a bello di per se stesso e si conclude in se
stesso, senza che la lode ne costituisca una parte. Ciò che a lodato, quindi,
non diviene per questo peggiore né migliore. Lo dico anche a proposito delle
cose comunemente definite belle, ad esempio gli oggetti materiali e i prodotti
artistici. Invece, ciò che a veramente bello di che altro ha bisogno? Di nulla,
esattamente come la legge, come la verità, come la benevolenza o il pudore.
Quale di queste cose a bella se a lodata o perde valore se a biasimata? Uno
smeraldo diventa peggiore di quel che a, se non viene lodato? E l’oro,
l’avorio, la porpora, una lira, un pugnale, un fiorellino, un alberello?
21
Se le anime persistono, come
può l’aria contenerle tutte dall’eternità? E come può la terra contenere i
cadaveri di chi, da tanto tempo, vi viene sepolto? Infatti, come quaggiù la
trasformazione e il dissolvimento di questi, dopo una determinata persistenza,
fanno spazio ad altri morti, così le anime che trasmigrano nell’aria, dopo
essersi mantenute per un dato periodo di tempo, si trasformano, si effondono e
deflagrano venendo riassunte nella ragione seminale dell’universo, e in questo
modo procurano spazio alle anime che continuano ad aggiungersi ad esse. Questa
può essere la risposta nell’ipotesi che le anime persistano. Non bisogna, però,
considerare soltanto la quantità di cadaveri che si seppelliscono in questo
modo, ma anche quella degli animali che ogni giorno sono mangiati da noi e da
tutti gli altri animali. Quanto a grande, infatti, il numero degli animali che
vengono consumati e così, in certo modo, vengono seppelliti nel corpo di chi se
ne nutre? Eppure c’a abbastanza spazio per accoglierli, grazie
all’assimilazione in sangue, alla trasformazione in elemento aereo o igneo. In
questo caso, qual a la via per raggiungere la verità? La distinzione tra
materia e causa.
22
Non vagare a vuoto, ma in ogni
impulso rendi ciò che a giusto e in ogni rappresentazione conserva la facoltà
di comprendere.
23
È in armonia con me tutto ciò
che a in armonia con te, o cosmo; nulla di ciò che per te cade al momento opportuno
a precoce o tardivo per me. È un frutto per me tutto ciò che recano le tue
stagioni, o natura: tutto da te, tutto in te, tutto a te. Quel tale dice: «O
cara città di Cecrope»; e tu non dirai: «O cara città di Zeus»?
24
«Fai poco» dice «se vuoi esser
sempre sereno». Non sarà meglio fare il necessario e quanto prescrive la ragione
di un essere sociale per natura, e nel modo in cui lo prescrive? Questo,
infatti, porta non solo la serenità che viene dall’agire secondo virtù, ma
anche quella che deriva dall’agire poco. Perché se uno elimina la maggior parte
delle nostre parole e azioni, in quanto non necessarie, avrà più tempo libero e
una quiete più sicura. Per cui, in ogni singola circostanza, bisogna ricordare
a se stessi: «Ma questo non sarà qualcosa di non necessario?». E non si devono
eliminare soltanto le azioni non necessarie, ma anche le rappresentazioni non
necessarie: perché così non ne seguiranno neppure azioni superflue.
25
Verifica come ti riesce la
vita dell’uomo virtuoso, pago di ciò che, entro le cose dell’universo, gli
viene assegnato in sorte, contento del proprio giusto agire e della propria
disposizione benevola.
26
Hai visto quelle cose? Guarda
anche queste! Non turbare te stesso: semplìficati. Qualcuno sbaglia? Sbaglia a suo
danno. Ti a successo qualcosa? Bene: tutto quel che ti succede, fin
dall’inizio, era stato riservato, entro le cose dell’universo, per essere
assegnato a te e intrecciato con la tua vita. Insomma: la vita a breve; bisogna
sfruttare il presente con oculatezza e nel rispetto della giustizia. Sii
sobrio, ma con elasticità.
27
O un cosmo ordinato o un
miscuglio raccolto insieme: ma, ancora, un cosmo. Oppure a possibile che in te esista
un ordine e nell’universo il disordine, quando per giunta tutte le cose
risultano così distinte, diffuse e solidali?
28
… un carattere malvagio, un
carattere femmineo, un carattere duro, feroce, bestiale, puerile, inerte,
falso, da buffone, da mercante, da tiranno.
29
Se a straniero nel cosmo chi
non conosce ciò che sta nel cosmo, non meno straniero a chi non conosce ciò che
vi accade. Fuoruscito a chi si allontana dalla ragione su cui si regge la
società; cieco chi chiude l’occhio dell’intelletto; mendico chi ha bisogno di
un altro e non ricava da sé tutto ciò che serve per la vita; ascesso del cosmo
chi recede e si stacca, scontento degli eventi, dalla ragione della natura
comune: a quella, infatti, che li produce, la stessa che ha prodotto anche te;
scheggia della città chi schianta la propria anima da quella degli esseri
razionali, che a una sola.
30
Uno pratica la filosofia senza
tunica, un altro senza libro. Quest’altro seminudo dice: «Non ho pane e resto fedele
alla dottrina». Quanto a me, non ho il nutrimento che viene dagli studi, e le
resto fedele.
31
Ama l’arte che hai imparato,
acquietati in essa: e trascorri il resto della vita come chi ha rimesso agli
dai, con tutta l’anima, ogni suo bene, senza farsi tiranno o schiavo di
nessuno.
32
Pensa, per esempio, ai tempi
di Vespasiano, e vedrai le stesse cose: gente che si sposa, tira su i figli, si
ammala, muore, combatte, festeggia, commercia, coltiva, adula, si chiude nel
suo orgoglio, sospetta, trama, prega che qualcuno muoia, brontola per la
situazione in cui si trova, fa l’amore, accumula tesori, ambisce al consolato,
al trono. Ebbene: quella gente non esiste più, in nessun luogo. Passa poi ai
tempi di Traiano: vedrai ancora le medesime cose, senza eccezione: anche quella
generazione a morta. Allo stesso modo osserva anche gli altri titoli sotto cui
si registra la storia di epoche e interi popoli, e guarda quanti, dopo essersi
tanto affannati, in breve tempo caddero e furono dissolti negli elementi. Ma
soprattutto bisogna richiamare alla mente quelli che tu stesso hai visto
stremarsi in vane fatiche, trascurando di compiere quanto era conforme alla
propria costituzione, di tenerlo ben stretto e di accontentarsene. Qui, però, a
necessario ricordare che anche l’attenzione dedicata a ogni singola azione ha
un suo valore e una sua appropriata misura: non ti sentirai avvilito, infatti,
solo se non ti applicherai per più tempo del dovuto a cose di minor conto.
33
Le parole che un tempo erano
usuali ora sono lemmi in disuso; così pure i nomi di personaggi un tempo celebrati
ora sono, in un certo senso, voci obsolete: Camillo, Cesone, Voleso, Dentato –
e tra poco lo diverranno anche Scipione e Catone, poi anche Augusto, e poi
anche Adriano e Antonino. Perché tutto presto svanisce e diviene mito: e presto
lo seppellisce un totale oblio. E questo dico a proposito di chi visse in un
prodigioso alone di gloria: perché gli altri, come esalano l’ultimo respiro,
restano ignoti, non lasciano traccia. Del resto cos’a, in sostanza, un ricordo
imperituro? Il vuoto totale. Ma cos’a, allora, ciò in cui ci si deve impegnare?
Unicamente questo: un pensiero ispirato a giustizia, azioni tese al bene
comune, una parola che non inganni mai e una disposizione che di cuore abbracci
tutto ciò che avviene, in quanto necessario, già noto, derivante da un tale principio
e da una tale sorgente.
34
Conségnati spontaneamente a
Cloto, lasciando che ti intrecci con qualsiasi fatto voglia.
35
Tutto effimero, sia il
soggetto che ricorda, sia il soggetto ricordato.
36
Osserva continuamente che
tutto nasce per trasformazione e abituati a pensare che la natura del tutto
nulla ama come trasformare l’esistente e produrre cose nuove che gli somiglino.
Tutto ciò che a, infatti, in un certo modo a seme di quello che ne sarà. Tu
invece ti rappresenti come seme soltanto quello che penetra nella terra o
nell’utero: ma questo significa proprio non avere istruzione filosofica!
37
Presto sarai morto, e ancora
non sei semplice, imperturbabile, certo di non poter subire danno dall’esterno,
benevolo verso tutti; e ancora non riponi la saggezza unicamente nell’agire
secondo giustizia.
38
Osserva il loro principio
dirigente, e quali cose rifuggono le persone sagge, quali invece inseguono.
39
Il tuo male non può stare nel
principio dirigente di un altro, e neppure in qualche mutamento e alterazione
di quel che ti circonda. Dove, allora? Nella parte di te che formula opinioni
intorno ai mali. Ebbene, tale parte non formuli opinioni, e tutto andrà bene.
Anche se ciò che le sta più vicino, il corpo, viene tagliato, bruciato, anche
se va in suppurazione, in cancrena, la parte che formula opinioni su tutto
questo resti quieta, cioè non giudichi male né bene nulla che possa
indifferentemente accadere a un uomo malvagio e a uno buono. Perché quello che
accade parimenti a chi vive contro natura e a chi vive secondo natura non a né
secondo né contro natura.
40
Pensa continuamente al cosmo
come a un solo essere che racchiude una sola sostanza e una sola anima, e pensa
come tutto pervenga a una sola sensazione, la sua, come quest’essere compia
tutto per un solo impulso, come tutte le cose siano concausa di tutti gli
eventi, e quale sia il loro fitto intrecciarsi e connettersi.
41
Sei un’animuccia che porta un
cadavere, come diceva Epitteto.
42
Per ciò che si trova in corso
di trasformazione non può esservi nulla di male, come neppure può esservi nulla
di bene per ciò che sorge da una trasformazione.
43
L’eternità a come un fiume
formato dagli eventi e una corrente impetuosa: ogni singola cosa, infatti,
appena cade sott’occhio e già passata oltre, e ne passa un’altra, che a sua
volta sarà trascinata via.
44
Tutto ciò che accade a
abituale e noto così come la rosa in primavera e la frutta in estate: lo stesso
vale, in effetti, anche per la malattia, la morte, la calunnia, le trame, e
quanto rallegra o addolora gli sciocchi.
45
La conseguenza sussegue
all’antecedente secondo un vincolo di affinità: perché non si tratta di una
serie di fatti indipendenti, retta solo da una legge di necessità, ma di una
stretta connessione razionale; e come la realtà a armonicamente coordinata,
così gli eventi presentano non una nuda successione, ma una specie di mirabile
affinità.
46
Ricorda sempre l’opinione di
Eraclito: «morte della terra a divenire acqua e morte dell’acqua divenire aria
e dell’aria divenire fuoco e viceversa». Ricorda anche «chi dimentica dove
conduce la via»; e che «gli uomini sono in contrasto proprio con quello con cui
sono nel rapporto più assiduo, con la ragione che governa il tutto, e a loro
sembrano estranee proprio le cose in cui si imbattono quotidianamente»; e «non
si deve agire e parlare come durante il sonno» (anche allora, infatti, ci
sembra di agire e di parlare); e non bisogna «quali figli dei genitori …», cioè
in base al puro principio del «come abbiamo appreso».
47
Come, se uno degli dai ti
dicesse: «Entro domani o al massimo dopodomani sarai morto», non daresti grande
importanza al morire dopodomani invece che domani, a meno di essere meschino
fino in fondo (quanto vale, infatti, un simile scarto di tempo?); così pure non
credere che sia un grande affare morire tra molti anni invece che domani.
48
Pensa continuamente quanti
medici sono morti, dopo aver tante volte aggrottato le sopracciglia sui loro pazienti;
quanti astrologi, dopo aver predetto la morte di altri con l’aria di emettere
un’importante previsione; quanti filosofi, dopo mille estenuanti dispute sulla
morte o sull’immortalità; quanti eroi, dopo aver ucciso tanti uomini; quanti
tiranni, dopo aver esercitato il potere di vita e di morte con terribile
superbia, quasi fossero immortali; e quante intere città sono, per così dire,
morte: Elice, Pompei, Ercolano e innumerevoli altre. Passa in rassegna anche
tutti quelli che conosci, uno dopo l’altro: questo ha seppellito quello, poi a
stato disteso sul letto di morte, quest’altro ha fatto lo stesso con
quell’altro, e così via: e tutto in breve tempo. Insomma, guarda sempre la
realtà umana come effimera e vile – ieri un po’ di muco, domani mummia o
cenere. Questo infinitesimale frammento di tempo, quindi, trascorrilo secondo
natura e concludilo in serenità, come l’oliva che, ormai matura, cadesse
lodando la terra che l’ha prodotta e ringraziando l’albero che l’ha generata.
49
Sii come il promontorio,
contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile, e intorno ad
esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi a capitato questo».
Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi a capitato questo
resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere
il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non
tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere
in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna? Insomma, chiami sfortuna
per un uomo ciò che non a un insuccesso della natura umana? E ti pare un
insuccesso della natura umana ciò che non va contro il volere di tale natura? E
allora? Hai appreso qual a il suo volere: sarà forse quel che ti a capitato a
impedirti di essere giusto, magnanimo, temperante, assennato, non precipitoso,
sincero, riservato, libero, dotato di tutte le altre qualità che, quando sono
insieme presenti, consentono alla natura dell’uomo di possedere ciò che le a
proprio? Ricorda poi, ad ogni evento che ti induca a soffrire, di far uso del
seguente principio: «questo fatto non a una sfortuna, mentre a una fortuna
sopportarlo nobilmente».
50
Aiuto non filosofico, ma
comunque produttivo per il disprezzo della morte, a richiamare alla mente
coloro che si sono tenacemente aggrappati alla vita. Ebbene, che hanno avuto di
più rispetto a chi ha avuto una fine prematura? Giacciono pur sempre, da
qualche parte, Cediciano, Fabio, Giuliano, Lepido e gli altri come loro, che ne
avevano seppelliti tanti, e poi sono stati seppelliti! Insomma, la differenza
di tempo a piccola, e, per giunta, da scontare con quante sofferenze, con quale
compagnia e in quale corpo! Quindi non considerarla un affare. Guarda dietro di
te l’abisso dell’eternità, e, davanti a te, un altro infinito. In questa
dimensione che differenza c’a tra vivere tre giorni o tre volte gli anni di
Nestore?
51
Corri sempre per la via più
breve – la via più breve a quella secondo natura – così da parlare e agire
sempre nel modo più valido. Un simile proposito, infatti, libera dalle fatiche
di una campagna militare, di ogni incombenza di governo, dell’eccessiva
raffinatezza.
1
Non bisogna soltanto
considerare il fatto che ogni giorno la vita si consuma e ne resta una parte
sempre più piccola, ma anche il fatto che, se uno dovesse vivere più a lungo,
rimarrebbe comunque un’incertezza: la sua facoltà mentale sarebbe ancora
egualmente capace di comprendere le azioni e la teoria che tende alla concreta
conoscenza delle cose divine ed umane? Se, infatti, comincery a vaneggiare, non
perderà – a vero – la facoltà di respirare, nutrirsi, ricevere impressioni,
provare impulsi e così via: ma la facoltà di disporre di sé, la scrupolosa
attenzione a tutti i punti del proprio dovere, l’analisi articolata dei
fenomeni che si presentano, la valutazione stessa della necessità di porre
ormai fine alla propria vita e quant’altro, analogamente, richiede un
raziocinio ben esercitato, tutto ciò si spegne prima del resto. Bisogna quindi
affrettarsi, non solo perché la morte si fa ad ogni istante più vicina, ma
anche perché la capacità di intendere e di seguire la realtà si esaurisce prima
della fine.
2
Occorre far tesoro anche di
osservazioni come questa: anche gli elementi accessori dei processi naturali possiedono
qualcosa di gradevole e attraente. Per esempio, mentre il pane si cuoce alcune
sue parti si screpolano e queste venature che vengono così a prodursi, e che in
un certo senso contrastano con il risultato che si prefigge la panificazione, hanno
una loro eleganza e un modo particolare di stimolare l’appetito. Ancora: i
fichi pienamente maturi si presentano aperti. E nelle olive che dopo la
maturazione sono ancora sulla pianta a proprio quell’essere vicine a marcire
che aggiunge al frutto una speciale bellezza. E le spighe che si incurvano
verso terra e la fronte grinzosa del leone e la bava che cola dalle fauci dei
cinghiali e molte altre cose: a osservarle una per una sono lontane da un
aspetto gradevole, e tuttavia, per il fatto di essere conseguenze di fatti
naturali, contribuiscono ad abbellire e affascinano, al punto che se uno ha una
sensibilità e una concezione più profonda di ciò che si produce nell’universo,
non ci sarà quasi nulla, anche tra quanto avviene in subordine ad altri eventi,
che non gli risulterà avere una sua piacevolezza. Costui, allora, guarderà
anche le fauci spalancate delle belve in carne ed ossa con non meno piacere di
quando guarda l’imitazione che ne presentano pittori e scultori; e con i suoi
occhi casti saprà scorgere in una vecchia e in un vecchio una loro forma di
florida maturità, e la grazia che seduce nei fanciulli, e gli si presenterà
l’occasione di compiere molte analoghe osservazioni, non persuasive per
chiunque, ma solo per chi abbia raggiunto un’autentica familiarità con la
natura e le sue opere.
3
Ippocrate, dopo aver guarito
molte malattie, si ammalò a sua volta e morì. I Caldei predissero la morte di
molti, poi il destino assegnato raggiunse anche loro. Alessandro e Pompeo e
Caio Cesare, dopo aver tante volte raso al suolo intere citty e massacrato in
campo tante migliaia di fanti e di cavalieri, un giorno dovettero anch’essi
uscire dalla vita. Eraclito, che nelle sue indagini sulla natura si era tanto
occupato della conflagrazione universale, morì con le viscere piene d’acqua,
cosparso di sterco bovino. Democrito lo uccisero i pidocchi, Socrate pidocchi
di altra specie. Ebbene? Ti sei imbarcato, hai navigato, sei approdato: sbarca.
Se la tua destinazione a un’altra vita, nulla a privo di dai, anche là; se invece
la meta a l’insensibilità, cesserai di resistere a dolori e piaceri e di far da
schiavo a un recipiente tanto più vile della parte che lo serve: perché questa
a intelletto e demone, quello terra e sangue corrotto.
4
Non consumare la parte di vita
che ti rimane in rappresentazioni che riguardano altri, se non quando tu agisca
in relazione all’utile comune: altrimenti o ti privi di un’altra opera […]
immaginandoti cioè che cosa fa il tale e perché, che cosa dice, cosa pensa e
cosa sta escogitando e simili: tutti comportamenti che fuorviano
dall’attenzione al proprio principio dirigente. Occorre quindi impedire
l’accesso del casuale e del gratuito al concatenarsi delle rappresentazioni, e
soprattutto escluderne l’indiscrezione e la cattiveria; e ci si deve abituare
esclusivamente a rappresentazioni tali che, se all’improvviso uno ti
domandasse: «A cosa stai pensando ora?», potresti sùbito rispondere in tutta
franchezza: «A questo e a quest’altro»; sicché dalle tue parole sarebbe
immediatamente chiaro che ogni tuo pensiero a semplice, benevolo e degno di un
essere destinato a vivere in society e disinteressato a immagini che suscitino
piacere o, in una parola, godimento, e indifferente a una qualche forma di
rivalità o invidia e sospetto o qualsiasi altra passione per cui arrossiresti,
se dovessi spiegare che la nutrivi nel tuo intimo. Un uomo simile, infatti, che
non rinvia più il suo ingresso tra i migliori in assoluto, a come un sacerdote
e un ministro degli dai, in stretto rapporto anche con la divinità che dimora
in lui: questo rende l’uomo incontaminato dai piaceri, invulnerabile a ogni
dolore, intatto da ogni sopraffazione, insensibile a qualsiasi malvagità,
atleta nella competizione più alta – la lotta per non essere abbattuti da
alcuna passione -, profondamente permeato di giustizia, pronto ad abbracciare
con tutta l’anima tutto ciò che gli accade e gli viene assegnato in sorte,
alieno dal pensare spesso, o senza una stretta necessità connessa all’utile
comune, che cosa mai un altro dica, faccia o pensi. Quest’uomo, infatti, per il
proprio operato tiene soltanto le cose che gli appartengono e pensa
continuamente a quelle che, tra gli eventi dell’universo, si intrecciano con
lui, e rende belle le prime ed a persuaso che le seconde siano buone. Infatti
il destino assegnato a ciascuno a incluso nel tutto e include nel tutto. E
ricorda anche, costui, che ogni essere razionale a suo parente, e che prendersi
cura di tutti gli uomini a conforme alla natura umana, e tuttavia non bisogna
attenersi all’opinione di tutti, ma soltanto a quella di chi vive in conformità
alla natura. Quanto poi a coloro che non vivono così, ha sempre presente quale
tipo di persone siano in casa e fuori di casa, quale gente sia e con quale
gente si mescoli di giorno e di notte. Non tiene in conto, quindi, neppure la
lode che può venirgli da costoro, visto che non piacciono neanche a se stessi.
5
Non agire controvoglia né in
modo individualistico o senza un accurato esame o lasciandoti trascinare; non adornare
il tuo pensiero con bei discorsi; non dire troppe parole, non fare troppe cose.
Ancora: il dio che a in te sia la guida di un essere virile, maturo, membro
della comunità civile, di un Romano, di un governante, di un uomo che si a
collocato nella disposizione di chi attende il segnale di ritirata dalla vita,
pronto alla soluzione dei vincoli, senza aver bisogno di un giuramento o di
qualcuno che faccia da testimone. All’interno, la serenità, e, dall’esterno,
nessun bisogno di aiuto, nessuna necessità di una pace fornita da altri.
Bisogna essere retti, non raddrizzati.
6
Se nella vita umana trovi
qualcosa di superiore alla giustizia, alla verità, alla temperanza, alla
fortezza, e, in una parola, al fatto che alla tua mente basti se stessa, nelle
azioni che ti fa compiere secondo la retta ragione, e il destino, nella sorte
che ci viene assegnata indipendentemente dalla nostra scelta; se, dico, vedi
qualcosa di superiore a questo, rivolgiti a esso con tutta l’anima e godi del
bene supremo che vi trovi. Se invece niente ti risulta superiore al demone
stesso che dimora in te e che ha sottomesso a sé i tuoi impulsi personali, che
vaglia le tue rappresentazioni, che si a sottratto (come diceva Socrate) alle
passioni dei sensi, che si a sottomesso agli dai e si cura degli uomini; se
rispetto a questo trovi tutto il resto più piccolo e vile, non lasciare spazio
a nient’altro: perché una volta che tu abbia preso a inclinare e a gravitare
verso qualcos’altro non sarai più in grado di onorare indisturbato, al di sopra
di tutto, quel bene che a davvero e solo tuo: al bene della ragione e della
società, infatti, non a lecito contrapporre qualsivoglia cosa di altra natura,
come gli elogi della gente o le cariche o la ricchezza o il godimento dei piaceri.
Tutte cose, queste, che se anche per un po’ sembrano rispondere a un intimo
equilibrio, all’improvviso prendono il sopravvento e fuorviano. Tu però, dico;
scegli in modo semplice e libero il meglio e attieniti a questo. «Ma il meglio
a l’utile». Se intendi l’utile dell’essere razionale, osservalo sempre; se
invece intendi l’utile dell’essere animale, dichiaralo e tieni fermo il tuo
giudizio, senza vane esibizioni; soltanto, cerca di condurre la tua valutazione
con assoluta sicurezza.
7
Non onorare mai come il tuo
utile ciò che un giorno ti costringerà a tradire la parola data, ad abbandonare
il pudore, a odiare qualcuno, a sospettare, maledire, recitare, desiderare
qualcosa che debba esser nascosto da pareti e paraventi. Perché chi in prima
istanza ha scelto il proprio intelletto, il proprio demone e il culto che
spetta alla virtù di questo demone, non fa tragedie, non rompe in gemiti, non
sentirà il bisogno di essere solo o di avere una folla intorno: e, il punto più
importante, vivrà senza inseguire né fuggire. E di poter usufruire per uno
spazio di tempo maggiore o minore dell’anima avviluppata nel suo corpo non gli
importa minimamente: infatti, anche se deve andarsene tra un istante, a pronto
a staccarsi e a partire come a compiere un’altra qualsiasi delle azioni che si
possono compiere senza vergogna e con dignità, badando, per tutta la vita, solo
a questo, che la sua mente non si volga a qualcosa di improprio per un essere
razionale e sociale.
8
Nella mente di un uomo riportato
alla disciplina e alla purezza non puoi trovare nulla di marcio, nulla di contaminato,
nessuna piaga interna. E la sua vita, quando il fato la coglie, non a
incompiuta, come invece si direbbe nel caso di un attore tragico che si
congedasse prima di aver concluso e recitato l’intero dramma. E ancora: nulla
di servile, nulla di specioso, nessun legame eccessivo, nessun distacco reciso,
nessun rendiconto a terzi, niente in agguato.
9
Venera la facoltà di concepire
un’opinione: dipende totalmente da questa che nel tuo principio dirigente non insorga
più un’opinione incoerente con la natura e con la costituzione dell’essere
razionale. Ed a questa che promette un’attitudine non precipitosa e la
familiarità con gli uomini e l’obbedienza agli dai.
10
Getta via tutto, quindi, e
tieni ferme solo queste poche cose, e ricorda anche che ciascuno vive solo
questo presente, incommensurabilmente breve: il resto a già stato vissuto o a
avvolto nell’incertezza. È poca cosa, quindi, ciò che vive ciascuno, ed a poca
cosa il cantuccio della terra in cui vive; e poca cosa a anche la più duratura
fama postuma: questa fama trasmessa da una generazione all’altra di omuncoli
che in un attimo sono morti, e che non conoscono neppure se stessi, figurarsi
poi chi a già morto da tanto tempo!
11
Ai fondamenti già esposti se
ne aggiunga ancora uno: provvedere sempre a definire o raffigurare l’oggetto
della rappresentazione, così da vederlo qual a nella sostanza, nudo, nella sua
interezza e, distintamente, in tutte le sue parti, e pronunciare tra sé il nome
che lo designa e i nomi degli elementi di cui a stato composto e in cui si
dissolverà. Nulla, infatti, può elevare il nostro animo quanto il saper
vagliare sistematicamente e autenticamente i singoli eventi della vita, e
guardare sempre ad essi in maniera da cogliere quale utility il dato evento
abbia per quale cosmo, e di conseguenza quale valore abbia in relazione
all’universo, e quale in relazione all’uomo cittadino della città suprema, di
cui le altre città sono come le case; che cosa sia e di cosa sia composto e per
quanto tempo, secondo la sua natura, persista questo oggetto che ora produce la
mia rappresentazione, e quale virtù si debba usare nei rapporti con esso – per
esempio: la mansuetudine, la fortezza, la sincerità, la lealtà, la semplicità,
l’autosufficienza, eccetera. Perciò in ogni singola circostanza occorre dire:
questa cosa viene da dio, quest’altra risulta dal combinarsi di accadimenti,
dall’intreccio di connessioni e dalla tale coincidenza fortuita, quest’altra
poi viene da un essere che condivide la mia razza, la mia stirpe e la mia
comunità, e tuttavia ignora che cosa per lui a secondo natura. Ma non lo ignoro
io: perciò lo tratto secondo la legge naturale della comunità, con indulgenza e
giustizia; e insieme, però, miro ad attribuire il giusto valore nei campo delle
cose intermedie.
12
Se svolgi il cómpito presente
seguendo la retta ragione, con impegno, con vigore, benevolmente, e non ti curi
di alcun fatto accessorio, ma di mantenere il tuo demone nella sua purezza,
come se da un momento all’altro dovessi restituirlo: se ti attieni a questo
principio senza attenderti o rifuggire nulla, pago invece del tuo attuale
operato conforme a natura e della romana verità di ciò che dici ed esprimi,
vivrai felice. E non c’a nessuno che possa impedirti di farlo.
13
Come i medici hanno sempre
sottomano gli strumenti e i ferri per intervenire d’urgenza, così tu tieni
sempre pronti i principî per conoscere l’umano e il divino, e per agire in ogni
cosa, anche nella più piccola, come chi ha ben presente il reciproco legame tra
l’uno e l’altro. Perché ignorando la correlazione con le cose divine non potrai
compiere bene nulla di umano, e viceversa.
14
Non divagare più: non riuscirai
a leggere i tuoi appunti, né le imprese degli antichi Greci e degli antichi Romani
e gli estratti delle opere che ti eri messo da parte per la vecchiaia;
affréttati alla meta, allora, lascia stare le vane speranze e soccorri te
stesso, se ti importa qualcosa di te, finché a possibile.
15
Non sanno quanti significati
ha rubare, seminare, comprare, starsene quieti, vedere le cose da farsi
(operazione che non si fa con gli occhi, ma con un’altra vista).
16
Corpo, anima, intelletto. Del
corpo: le sensazioni; dell’anima: gli impulsi; dell’intelletto: i principî.
Essere impressionati da una rappresentazione a proprio anche del bestiame,
essere mossi come marionette dagli impulsi a proprio anche delle belve, degli
androgini, di un Falaride, di un Nerone; avere nella mente una guida a ciò che
appare il nostro cómpito a proprio anche di chi non crede negli dei, di chi
tradisce la patria e di chi … quali cose non fa, quando ha chiuso la porta!
Ora, se il resto a comune ai soggetti menzionati, la peculiarità che rimane
propria dell’uomo onesto a amare ed accettare di cuore gli eventi e l’intreccio
di fatti che gli toccano; e non macchiare né agitare il demone che risiede nel
suo petto con una turba di rappresentazioni, ma conservarlo sereno, disposto a
seguire disciplinatamente dio, senza dire nulla di contrario al vero o fare
nulla di contrario al giusto. E se anche l’intera umanità non crede che egli
viva semplicemente, con discrezione e ottimismo, non si adira con nessuno e non
devia dalla strada che conduce al termine della vita, dove bisogna giungere
puri, tranquilli, pronti al distacco, in spontanea armonia con il proprio
destino.
Scritto nel
territorio dei Quadi presso il Gran: libro I. LIBRO II
1
Al mattino comincia col dire a
te stesso: incontrerò un indiscreto, un ingrato, un prepotente, un impostore,
un invidioso, un individualista. Il loro comportamento deriva ogni volta
dall’ignoranza di ciò che a bene e ciò che a male. Quanto a me, poiché
riflettendo sulla natura del bene e del male ho concluso che si tratta
rispettivamente di ciò che a bello o brutto in senso morale, e, riflettendo
sulla natura di chi sbaglia, ho concluso che si tratta di un mio parente, non
perché derivi dallo stesso sangue o dallo stesso seme, ma in quanto
compartecipe dell’intelletto e di una particella divina, ebbene, io non posso
ricevere danno da nessuno di essi, perché nessuno potrà coinvolgermi in
turpitudini, e nemmeno posso adirarmi con un parente né odiarlo. Infatti siamo
nati per la collaborazione, come i piedi, le mani, le palpebre, i denti
superiori e inferiori. Pertanto agire l’uno contro l’altro a contro natura: e
adirarsi e respingere sdegnosamente qualcuno a agire contro di lui.
2
Qualunque cosa sia questo che
sono, a infine carne, soffio vitale e principio dirigente. Getta via i libri,
non ti far più distrarre: non a consentito. E invece, come se fossi a un passo
dalla morte, disprezza la carne: coagulo di sangue, ossa, ordito intessuto di
nervi, vene, intrico di arterie. Poi osserva anche quale sia la natura del tuo
soffio vitale: vento, e neppure sempre lo stesso, ma un alito che, a ogni
istante, viene emesso e riaspirato. Per terzo viene il principio dirigente. Qui
rifletti: sei vecchio; non consentire più che questo principio sia schiavo, che
come una marionetta sia manovrato da un impulso individualistico, che recrimini
contro il destino presente o guardi con ansia quello futuro.
3
L’operato degli dai a pieno di
provvidenza, l’operato della fortuna non a estraneo alla natura oppure a una connessione
e a un intreccio con gli eventi governati dalla provvidenza: tutto deriva di
ly. E va aggiunto anche che ogni cosa a necessaria e utile alla totalità del
cosmo, di cui sei parte. Ma per ogni parte della natura a bene ciò che a
prodotto dalla natura universale e ciò che contribuisce alla sua conservazione:
e il cosmo a conservato sia dalle trasformazioni degli elementi, sia dalle
trasformazioni dei composti. Ti bastino queste considerazioni, dal momento che
si tratta di principî fondamentali: respingi invece la sete di libri, per poter
morire non mormorando, ma veramente sereno e grato, dal profondo del cuore,
agli dai.
4
Ricorda da quanto tempo rinvii
queste cose e quante volte, ricevuta una scadenza dagli dai, non la metti a frutto.
Devi finalmente comprendere quale sia il cosmo di cui sei parte, quale sia
l’entità al governo del cosmo della
quale tu costituisci un’emanazione, e che hai un limite circoscritto di tempo,
un tempo che, se non ne approfitti per conquistare la serenità, andrà perduto,
e andrai perduto anche tu, e no n vi sarà un’altra possibilità.
5
Ad ogni istante pensa con
fermezza, da Romano e maschio quale sei, a compiere ciò che hai per le mani con
serietà scrupolosa e non fittizia, con amore, con libertà, con giustizia, e
cerca di affrancarti da ogni altro pensiero. Te ne affrancherai compiendo ogni
singola azione come fosse l’ultima della tua vita, lontano da ogni
superficialità e da ogni avversione passionale alle scelte della ragione e da
ogni finzione, egoismo e malcontento per la tua sorte. Vedi come sono poche le condizioni
che uno deve assicurarsi per poter vivere una vita che scorra agevolmente e nel
rispetto degli dai: perché gli dai non chiederanno nulla di più a chi osserva
queste condizioni.
6
Offendi, offendi te stessa,
anima mia: ma non avrai più l’occasione di renderti onore; […] la vita per
ciascuno: ma questa vita tu l’hai quasi portata a termine senza rispettare te
stessa, riponendo invece la tua felicità nelle anime altrui.
7
Ti distraggono gli accidenti
esterni? Procurati il tempo di apprendere ancora qualcosa di buono e smetti di vagare
senza meta. Anzi, devi guardarti anche dal secondo genere di smarrimento:
infatti vaneggiano anche attraverso le loro azioni gli uomini stanchi della
vita e senza un obiettivo al quale indirizzare ogni impulso e, insomma, ogni
rappresentazione.
8
Difficilmente si vede qualcuno
infelice perché non considera che cosa avvenga nell’anima di un altro; mentre chi
non segue i moti della propria anima fatalmente a infelice.
9
Bisogna sempre tenere a mente
questi punti: qual a la natura del tutto e quale la mia; in quale relazione
questa sta con quella e quale parte a di quale intero; che nessuno può
impedirti di agire e di esprimerti sempre in conformità alla natura di cui sei
parte.
10
Nel valutare comparativamente
le varie colpe, come si usa comunemente confrontarle, Teofrasto da vero filosofo
afferma che sono più gravi quelle commesse per concupiscenza di quelle commesse
per ira. L’individuo adirato, infatti, sembra voltare le spalle alla ragione in
uno stato di sofferenza e di latente contrazione, mentre chi sbaglia per
concupiscenza, vinto dal piacere, risulta in un certo senso più intemperante e
femmineo nelle proprie mancanze. Quindi a corretta e filosoficamente apprezzabile
l’opinione di Teofrasto secondo cui l’errore che si accompagna al piacere a
soggetto a imputazione più grave di quello che si accompagna al dolore; in
sintesi: nel primo caso l’individuo a assimilabile a chi ha patito
un’ingiustizia e dalla sofferenza a stato inevitabilmente spinto all’ira,
mentre nel secondo la persona ha tratto da se stessa l’impulso a commettere
ingiustizia, lasciandosi trascinare ad agire per concupiscenza.
11
Fare, dire e pensare ogni
singola cosa come chi sa che da un momento all’altro può uscire dalla vita. Ma congedarsi
dagli uomini non a nulla di grave, se gli dai esistono: non vorrebbero certo
travolgerti nel male; e se, d’altra parte, o non esistono oppure non si curano
delle cose umane, che mi importa di vivere in un mondo privo di dai o privo di
provvidenza? Ma non a così: esistono e si occupano delle cose umane e hanno
attribuito all’uomo il pieno potere di non incorrere in quelli che sono
veramente mali; quanto agli altri, se qualcuno di essi fosse davvero un male,
gli dai avrebbero anche provveduto a che tutti avessero la facoltà di evitarlo.
Ma ciò che non rende peggiore l’uomo come potrebbe rendere peggiore la vita
dell’uomo? La natura dell’universo non avrebbe mai trascurato queste cose per
ignoranza e neppure perché, pur conoscendole, non potesse prevenirle o
correggerle, né avrebbe compiuto, per impotenza o inettitudine, un simile
errore, e ciò a che bene e male toccassero in egual misura, indistintamente,
agli uomini buoni e ai cattivi. La morte, appunto, e la vita, la fama e
l’oscurità, il dolore e il piacere, la ricchezza e la povertà, tutte queste
cose accadono in egual misura agli uomini buoni e ai cattivi, in quanto non
sono moralmente belle né brutte. Non sono, quindi, né beni né mali.
12
Come tutto svanisce
rapidamente: nel cosmo i corpi stessi, nell’eternità il loro ricordo; qual a la
natura di tutte le cose sensibili e soprattutto di quelle che adescano con il
piacere o spaventano per il dolore o hanno trovato risonanza nella vanità dell’uomo;
come sono vili, spregevoli, sordide, corruttibili, morte … – tocca alla facoltà
razionale soffermarsi su questi punti; che cosa sono costoro, la cui opinione e
la cui voce dispensano fama e infamia; che cos’a la morte, e il fatto che, se
uno la osserva in sé e per sé e attraverso un’analisi del concetto dissolve ciò
che vi crea l’immaginazione, non la considererà più null’altro che un’opera
della natura – e se uno teme un’opera della natura, a un bambino, e d’altronde
questa non a solo un’opera della natura, ma anche un’opera utile alla natura
stessa; come l’uomo si collega a dio, per quale sua parte e in quale
disposizione deve essere questa parte dell’uomo perché giunga tale momento.
13
Nulla di più sventurato di chi
percorre tutto in cerchio e, dice il poeta, «indaga le profondità della terra»
e cerca di captare ciò che sta nell’anima del prossimo, senza accorgersi che
basta dedicarsi esclusivamente al demone che ha dentro di sé e tributargli un
culto sincero. E il culto che gli spetta consiste nel serbano puro dalla
passione, dalla leggerezza e dallo scontento per ciò che viene dagli dai e
dagli uomini. Le cose che vengono dagli dai, infatti, sono venerabili per la
loro virtù, mentre quelle che vengono dagli uomini sono care per il nostro
legame di parentela, e qualche volta sono anche, in certo modo, degne di pietà
perché nascono dall’ignoranza del bene e del male – cecità, questa, non meno
grave di quella che impedisce di distinguere il bianco dal nero.
14
Anche se tu dovessi vivere
tremila anni e dieci volte altrettanto, in ogni caso ricorda che nessuno perde
altra vita se non questa che sta vivendo, né vive altra vita se non questa che
va perdendo. Pertanto la durata più lunga e la più breve coincidono. Infatti il
presente a uguale per tutti e quindi ciò che si consuma a uguale e la perdita
risulta, così, insignificante. Perché nessuno può perdere il passato né il
futuro: come si può essere privati di quello che non si possiede? Ricordare
sempre, quindi, questi due punti: il primo, che tutto, dall’eternità, a della
medesima specie e ciclicamente ritorna, e non fa alcuna differenza se si
vedranno le stesse cose nello spazio di cento o di duecento anni o
nell’infinità del tempo; il secondo, che sia chi vive moltissimi anni sia chi
dopo brevissimo tempo a già morto subiscono una perdita uguale. È solo il
presente, infatti, ciò di cui possono essere privati, poiché a anche l’unica
cosa che possiedono, e uno non perde quello che non ha.
15
Tutto a opinione. Sono
evidenti, infatti, le parole rivolte a Monimo il Cinico; ed a evidente anche
l’utilità di quelle parole, se uno ne accetta il succo nei limiti della loro
veridicità.
16
L’anima dell’uomo offende se
stessa soprattutto quando diviene, per quanto da essa dipende, un ascesso e
come un’escrescenza del cosmo. Perché sentirsi in contrasto con qualcuno degli
eventi a una defezione dalla natura, che include le singole nature di ciascuno
degli altri esseri. In secondo luogo, l’anima offende se stessa quando respinge
una persona o addirittura la contrasta con l’intenzione di danneggiarla, come
fa l’anima di chi a in preda all’ira. In terzo luogo: quando si lascia vincere
dal piacere o dal dolore. In quarto luogo: quando recita e fa o dice qualcosa
fingendo o nascondendo la verità. In quinto luogo: quando non indirizza una sua
azione o un suo impulso ad alcun obiettivo, ma fa cose qualsiasi, a caso e
senza badarvi: mentre anche il più piccolo gesto deve avvenire in relazione al
suo fine; e il fine degli esseri razionali a di seguire la ragione e la legge
della città e dello Stato più venerabili.
17
Nella vita umana il tempo a un
punto, la sostanza a fluida, la sensazione oscura, il composto dell’intero
corpo a marcescibile, l’anima a un inquieto vagare, la sorte indecifrabile, la
fama senza giudizio. Riassumendo: ogni fatto del corpo a un fiume, ogni fatto
dell’anima sogno e inanità, la vita a guerra e soggiorno in terra straniera, la
fama postuma a oblio. Quale può essere, allora, la nostra scorta? Una sola ed unica
cosa: la filosofia. La sua essenza sta nel conservare il demone che a in noi
inviolato e integro, superiore ai piaceri e ai dolori, in grado di non compiere
nulla a caso né subdolamente e ipocritamente, di non aver bisogno che altri
faccia o non faccia alcunché; ancora: disposto ad accettare gli avvenimenti e
la sorte che gli tocca in quanto provengono di là (ovunque si trovi poi questo
luogo) da dove anch’egli a giunto; soprattutto, pronto ad attendere la morte
con mente serena, giudicandola null’altro che il dissolversi degli elementi di
cui ciascun essere vivente a composto. Ora, se per gli elementi stessi non c’a
nulla di temibile nel continuo trasformarsi di ciascuno in un altro, perché si
dovrebbe temere la trasformazione e il dissolvimento del composto di tutti
questi elementi? È conforme a natura, e nulla di quanto a conforme a natura a
male.
I “pensieri a se
stesso” o “Ricordi” sono una raccolta di scritti di Marco Aurelio Annio Vero,
un imperatore romano della dinastia degli Antonini che regnò a Roma nel secondo
secolo D.C.. Marco Aurelio fu imperatore dal 161 al 180 D.C., succedendo ad
Antonio Pio, che lo aveva adottato su indicazione del suo predecessore Publio
Elio Adriano.
Si tratta di testi
scritti in più periodi e raccolti in libri, frutto di una meditazione legata
alla pratica della vita filosofica stoica; furono composti durante le campagne
militari che Marco condusse alle frontiere della Germania tra il 170 e il 180
D.C.
Inizia infatti così
il secondo libro: “Scritto nel territorio dei Quadi presso il fiume Granua”.
Nel mondo antico la
meditazione è pratica collettiva, o anche individuale, ma sempre connessa ad
una sorta di dialogicità implicita (ne vediamo traccia in certi testi di Seneca
sulla felicità, sulla vecchiaia o sulla morte).
Essa assume molti
volti, a seconda delle scuole, ma ha una caratteristica comune: non è un
percorso di ricerca, ma di applicazione della ricerca alla vita.
I “pensieri” di
Marco Aurelio richiamano i principi della scuola stoica e sono il frutto di una
meditazione su di essi operata mediante il legame con l’esperienza vissuta,
interiore ed esteriore.
L’uomo è stato
considerato da sempre l’imperatore-filosofo: il punto di arrivo della scuola
stoica.
Voglio evitare di
impegnarmi in un’esposizione di quella corrente filosofica (la stoica
appunto) nell’ambito della quale il Marco Aurelio dei “pensieri” viene
solitamente ascritto dalla critica moderna; non ho le conoscenze approfondite
per farlo.
L’idea di questa
tavola è, piuttosto, quella di cogliere il senso profondo della figura di un uomo
del passato che, da una posizione di assoluto privilegio, sente il bisogno di
parlare con se stesso e tocca aspetti essenziali dell’esistenza.
Del resto alcune
delle tematiche fissate nell’opera che ci è stata tramandata sono le basi di
alcuni principi del pensiero massonico moderno.
Perché è
interessante la figura di quest’uomo vissuto tanti secoli fa?
Non è per il libro
in se stesso – per quanto nell’antichità lo scrivere fosse una cosa assai
rara e non consueta, se non per i filosofi di professione, ma non certo per
uomini “d’azione” (a parte Cesare e Cicerone, nell’antichità pochissimi
statisti hanno lasciato tracce scritte compiute delle loro gesta) – e non certo
per lo stile dello scritto: un po’ lezioso e pesante.
E’ interessante,
secondo me, perché il Marco Aurelio dei “pensieri” anticipa i tempi: per
arrivare a vedere un’opera simile occorre che passino molti secoli e arrivare a
Montaigne con i suoi “Saggi”.
Ma egli, a
differenza di Montaigne (che scriverà ben al chiuso del suo castello di
campagna) è un uomo di azione calato in un contesto di un’epoca storica che
vede per il mondo classico l’inizio della disgregazione.
Nel libro è
difficile non cogliere l’idea che ci troviamo di fronte ad un grande
dignitosissimo, attore – perdente della storia; è paradossale che egli, l’uomo
più potente del mondo, si renda conto che le vittorie conseguite non potranno
fermare il corso della storia; avverte chiaramente che la fame dei barbari avrà
la meglio sulla forza dei romani; sente che è già in atto la crisi
irreversibile dell’Impero Romano.
Come tutti i grandi
perdenti finisce però per suscitare nei posteri un grande affetto ,poiché la
sconfitta ha una dignità che la vittoria non merita.
Vengono in mente la
parole che farà dire la Yourcenar nelle “Memorie di Adriano” all’Imperatore
Adriano nella lunga lettera immaginaria al piccolo Marco Aurelio, quando,
troppo severo con se stesso, non si concedeva nulla dei frutti e degli svaghi
che la vita poteva offrirgli nella Villa Adriana di Tivoli; dice più o meno: “mi
chiedo a che ti serva tanta virtù, su quale scoglio ti infrangerai poiché è
certo che ciò accadrà”.
Venendo alla
poetica del libro.
Nel libro Marco tenta
di spiegarci la nostra esistenza puntando sulla forza del cuore filtrata dalla
dura disciplina del dovere.
La forte spinta
emotiva del libro è dovuta al tentativo di allargare la coscienza fino ad
abbracciare l’umanità.
La massima che
ispira il libro è questa: non perder mai di vista il grafico di una esistenza
umana, che non si compone mai, checché si dica, d’una orizzontale e due
perpendicolari, ma piuttosto di tre linee sinuose, prolungate all’infinito,
ravvicinate e divergenti senza posa: che corrispondono a ciò che un uomo ha
creduto di essere, a ciò che ha voluto essere, a ciò che è stato; tutto ciò
non è sotto il nostro controllo: quello che noi possiamo fare è operare per il
bene, rifuggire il male, curarsi dell’essenziale.
“Corri sempre
per la via più breve – la via più breve è quella secondo natura – così da
parlare e agire sempre nel modo più valido. Un simile proposito, infatti,
libera dalle fatiche di una campagna militare, di ogni incombenza di governo,
dell’eccessiva raffinatezza”.
Non si deve mai
perdere di vista l’essenza.
“Ricordati che
sta nascosto dentro di te ciò che muove i fili della tua esistenza, ed è
attività, è vita, è l’uomo, se così si può dire. Non confonderlo mai, quando te
lo immagini, con l’involucro che lo avvolge, né con gli organi che gli sono
stati modellati intorno …”.
E quanto più ti
senti coinvolto tanto più devi essere distaccato.
“Quanto vale, di
fronte alle leccornie e ai cibi di questo genere, accogliere la
rappresentazione: «questo è il cadavere di un pesce, quest’altro il cadavere di
un uccello o di un maiale», e, ancora, «il Falerno è il succo di un grappolo
d’uva», e «il laticlavio sono peli di pecora intrisi del sangue di una
conchiglia»; e, a proposito dell’unione sessuale: «è sfregamento di un viscere
e secrezione di muco accompagnata da spasmo»! Quanto valgono queste
rappresentazioni che raggiungono le cose in sé e le penetrano totalmente, fino
scorgere quale sia la loro vera natura. Così bisogna fare per tutta la vita, e,
quando le cose ci si presentano troppo persuasive, bisogna denudarle e
osservare a fondo la loro pochezza e sopprimere la ricerca per la quale
acquisiscono tanta importanza. Perché la vanità è una terribile dispensatrice
di falsi ragionamenti, e ti lasci più incantare proprio quando più ti pare di
impegnarti in cose di valore”.
Marco Aurelio fa
propria una coscienza lucida e forte di avvertire la prossima fine dell’Impero,
quale lui lo presiede, ed elabora in ciò una saggezza profonda, quasi non
toccata dal divenire. Perché in fondo al saggio stoico nulla importa se non
questo: vivere con onestà ogni minuto.
Il Marco Aurelio
che ci piace vede davanti a sé il mutare del destino e, dalla posizione
privilegiata che ricopre (di capo della superpotenza del mondo antico), accetta
di prendere parte al gioco vestendo i panni di chi deve resistervi.
E che per far ciò
usa le armi di cui dispone: una buona dose di filosofia per sé – per rendere
sopportabile ciò che altrimenti sarebbe intollerabile – e una buona dose di
cinica violenza per gli altri: possedeva le più potenti forze armate di tutti i
tempi e le usò – si dice – senza risparmio: nel libro non sono riportati gli
eccidi – che pure vi furono – di intere popolazioni barbariche.
Un (breve)
inquadramento storico.
Era nato a Roma nel
121 D.C., da una nobile famiglia equestre di origine spagnola.
Fu designato ancora
giovane da Adriano a succedere ad Antonino Pio, purtroppo per lui, Marco maritò
la figlia di Antonino Pio, tale Faustina.
Non ebbe fortuna
coi figli né con Faustina: tra un amante e l’altro ebbe, sì, il tempo di dargli
quattro figli: due femmine e due gemelli.
Di questi però uno
morì precocemente mentre l’altro, Commodo, che sarà suo successore, si
rivelerà un pessimo reggitore di Roma.
Veniva dalla
famiglia d’origine spagnola degli Aureli, una “Gens” che si era guadagnata il
soprannome di “Veri” per la loro onestà nell’amministrazione della cosa
pubblica (una rarità all’epoca).
Era rimasto orfano
a pochi mesi e della sua educazione si occupò il nonno (Adriano) che gli dette
ben 17 precettori di cui 4 in grammatica, uno in matematica e sei in filosofia.
Si appassionò alla
filosofia stoica che non solo volle studiare a fondo, ma anche praticare.
A 12 anni cominciò
a dormire nudo sul letto ed iniziò una dieta ed un’astinenza (anche sessuale) tanto
severe che la sua salute alla fine si dice ne risentì.
Ma questo non gli
impedì poi di essere soldato fra i soldati e di condividerne fatiche e disagi
nei lunghi anni di direzione della guerra alla frontiera germanica.
Antonino Pio lo
aveva designato, seguendo i dictat del suo mèntore, come suo Cesare quando era
ancora adolescente ed associato al suo governo quando era ancora giovanissimo.
Quando salì al
trono aveva 40 anni.
Probabilmente non
aveva né inclinazione per le armi, né esperienza di esse, visto che non riportò
mai decisive vittorie ma trascinò una guerra avanti per anni e anni.
Fu costretto a
combattere contro nemici interni ed esterni per quasi tutta la durata del suo
regno.
E tanto fece
con coscienziosa determinazione.
Durante il Regno di
Marco Aurelio si cominciano ad evidenziare i segni dell’incipiente declino:
i tentativi di invasione dei barbari nelle frontiere danubiane e la
fragilità delle strutture sociali ed economiche del mondo antico tipiche di una
società chiusa.
Per capire il senso
dei dialoghi, che sono effettivamente intrisi da una profonda tristezza, non si
può non riflettere sul fatto che ci fu durante quei tempi una escalation di
guerre ai confini (guerre, che gli faranno passare almeno vent’anni in
accampamenti militari; prima in oriente, poi sul confine danubiano).
Quelle guerre
orientali, si portarono dietro una tremenda conseguenza: la peste; infatti
terminate le operazioni di guerra ad Oriente (anni 161 – 166 D.C.)alcune
Legioni tornarono in Italia e portarono con sé il contagio.
La peste giunse a
Roma spargendo lutti e desolazione lungo il suo cammino; imperversò per anni
nei quartieri di moltissime città dell’Italia centrale; Roma ebbe interi
isolati che furono interdetti dai soldati a titolo sanitario (si dice, ma è un
dato esagerato, che perirono di peste almeno 200.000 persone solo nell’Urbe).
Dietro l’epidemia
arrivò la carestia secondo un rituale che era consueto nel mondo antico, poiché
quel mondo era basato su di una economia per lo più di sussistenza.
Mentre la peste
infuriava nella stessa Roma, giunse un’altra grave crisi esterna.
Cominciò la serie
di dure guerre sul Danubio, che doveva occupare, con brevi interruzioni, i
rimanenti anni del regno di Marco (167 – 180).
La causa: un grande
movimento migratorio iniziato dai Germani del Baltico, a loro volta premuti da
famelici popoli scandinavi che si riversarono a sud in cerca di cibo e pascoli
stanziali.
I confini lasciati
da Traiano al nord erano troppo vicino all’Italia per non suscitare
apprensioni in chi governava.
La prova fu data
dall’invasione improvvisa di un’orda di Marcomanni che distrusse parte del
nord-est del Veneto, penetrando in profondità fino ad Oderzo e che furono a
stento ricacciati al di là delle Alpi con un esercito raccogliticcio fatto di
schiavi e avanzi di galera.
I rimedi dell’epoca
che si poterono escogitare furono i seguenti: l’annessione del territorio dei
Marcomanni (area fra l’Elba e l’Oder) e successivamente di quello dei Quadi
(tribù stanziate nell’odierna Moravia), la Boemia e la Moravia sarebbero
diventati il baluardo settentrionale dell’Impero.
Durante queste
campagne di contenimento e rafforzamento il nostro Marco scriverà i pensieri a
se stesso.
Non vedrà il
compimento del suo disegno strategico: morirà a Vienna (all’epoca chiamata
Vindobona) poco prima di porvi termine; chi gli succederà (il figlio
Commodo) amava troppo la bella vita romana per cimentarsi nell’ambiziosa
impresa: in breve, rinunciò ad annettersi il nord e ripiegò a Roma dopo aver
stipulato, in tutta fretta, un trattato, giusto salvando le apparenze, e
lasciando le frontiere immutate.
Ebbe una fortuna da
morto, smentendo alcuni suoi scritti: quella di non essere dimenticato; sia per
l’opera letteraria che per la sue effige.
I Cristiani non gli
distrussero la statua equestre eretta in suo onore avendola scambiata per
quella del loro “protettore” Costantino che, a conti fatti, fu un uomo assai
peggiore di lui.
La statua equestre
e dorata di Marco che troneggia in Piazza del Campidoglio, innalzatagli postuma
dal figlio in un momento di rimorso – l’originale è nei musei capitolini – ce
lo raffigura in un incedere solenne: ha le sembianze del guerriero, ma lo
sguardo è quello del filosofo che vede la fine di una fase storica.
Ci piace
pensare – dato che la statua è, per la verità, poco espressiva mancando
degli occhi – che da quello sguardo dal Campidoglio sgorghi tutta la
contraddizione fra un dettato morale teso alla libertà ed alla eguaglianza ed
una necessità di real-politik che tende a conservare e consolidare l’imperialismo
in atto.
Quando gli si
richiese per l’ultima volta la parola d’ordine, la risposta, si dice, di Marco
Aurelio fu: “andate verso il sole nascente, il mio sole tramonta”.
E con lui
tramontava anche il mondo antico.
Da allora in poi la
crisi assumerà proporzioni vastissime; nel secolo III, sarà temporaneamente
arrestata da Diocleziano e Costantino, fino alla rovinosa caduta finale del V
secolo.
Anche per questo,
forse, fu l’ultimo dei grandi Imperatori romani.
Quali sono le idee
che Marco ci tramanda dal suo lontanissimo passato? Sono idee attualissime e
certo apprezzabili dai liberi Muratori.
Il destino
dell’uomo è fissato nella natura; la natura ha dato all’uomo uno spirito; segue
che il destino dell’uomo non è nel soddisfare i sensi – che ci accomunano con
gli altri animali – ma nel pensare e nell’agire conformemente alla sua natura
razionale cioè alla parte divina di sé.
Il successo delle
nostre azioni non dipende solo da noi; alcune cose sono in nostro potere altre
no; il successo esterno non è sicuro; può anche venire a mancare: non si deve
averne angustia, il vero successo è la cura della salvezza dell’anima; lo scopo
della vita è perfezionare il proprio essere. Nell’anima ogni uomo è libero
quanto Dio.
L’uomo deve
impiegare tutte le sue forze in un lavoro positivo: non nella passività, ma
nell’azione si trovano il bene e la virtù dell’essere razionale.
Il bene è ciò che
ci migliora, il male è ciò che ci peggiora interiormente.
La morte non deve
spaventarci perché in essa c’è un processo naturale che secondo l’ordine
cosmico porta al dissolvimento dell’individuo e al trapasso delle parti che lo
compongono in altre forme di essere.
Gli affetti
rappresentano per l’uomo morale il pericolo più insidioso perché limitano la
libertà dello spirito.
Morirà a Vienna di
malattia, forse di peste, impegnato nella guerra contro i Quadi: aveva fatto
promettere al figlio che la sua opera sarebbe stata conclusa e i confini
rassicurati e ristabiliti; il figlio, come ho detto, non lo ascoltò nemmeno; ma
così aveva parlato Marco:
“Prerogativa
propria dell’uomo è amare anche chi sbaglia. E questo si verifica, se ti si
presenta il pensiero che si tratta di parenti e che sbagliano per ignoranza e
senza volerlo, e che tra poco entrambi, tu e chi ha sbagliato, sarete morti..”.
A se stesso (Pensieri) – Il Trattato di Marco Aurelio
Marco Aurelio
A se stesso
(pensieri)
LIBRO I
1
Da mio nonno Vero: il
carattere buono e non irascibile.
2
Dalla fama e dal ricordo che
si conservano di mio padre: il comportamento riservato e virile.
3
Da mia madre: la religiosità,
la generosità e la ripugnanza non solo a compiere il male, ma anche all’idea di
compierlo; ancora: il tenore di vita semplice e distante dalla condotta dei
ricchi.
4
Dal mio bisnonno: non aver
frequentato le scuole pubbliche, aver avuto buoni maestri tra le mura di casa,
e aver compreso che per questo genere di cose non si deve risparmiare.
5
Dal mio precettore: non esser
stato sostenitore dei Verdi né degli Azzurri né dei gladiatori armati di parma
o di quelli armati di scutum; la resistenza alle fatiche e la
sobrietà nelle esigenze, contare sulle proprie forze e non immischiarsi; non
prestare ascolto alla calunnia.
6
Da Diogneto: l’indifferenza
per ciò che è vacuo; non prestar fede alle fole di ciarlatani e imbroglioni su incantesimi,
cacciate di demoni e simili; non perdersi a colpire le quaglie sulla testa o
dietro ad inezie del genere; tollerare la franchezza di linguaggio; aver
acquisito familiarità con la filosofia; aver ascoltato prima Bacchio, poi
Tandaside e Marciano; aver scritto dialoghi quand’ero ragazzo; aver desiderato
un lettuccio con una pelle e tutte le altre cose di questo genere connesse con
l’educazione greca.
7
Da Rustico: aver capito la
necessità di correggere e curare il carattere; non aver deviato verso ambizioni
da sofista, non dedicarsi a scrivere di questioni teoriche o a recitare
discorsetti ammonitorî ovvero a impressionare la gente esibendo il modello
dell’asceta o del benefattore; essermi allontanato dalla retorica, dalla poesia
e dal brillante conversare; non girare per casa in toga e non fare cose
analoghe; scrivere le lettere in modo semplice, come quella che egli stesso
scrisse a mia madre da Sinuessa; la disponibilità a riavvicinarsi e
riconciliarsi con chi si è irritato o ha mancato verso di noi, non appena
decide di tornare sui suoi passi; leggere con estrema attenzione e non
accontentarsi di afferrare il senso generale, e non trovarsi sùbito d’accordo
con chi chiacchiera; l’incontro con i commentarî di Epitteto, che mi fornì
dalla sua biblioteca.
8
Da Apollonio: l’atteggiamento
libero e senza incertezze nel non concedere nulla alla sorte e nel non
guardare, neppure per poco, a nient’altro che alla ragione; restare sempre
uguali, nei dolori acuti, nella perdita di un figlio, nelle lunghe malattie;
aver visto con chiarezza, in un modello vivo, che la stessa persona può essere
molto energica e pacata; non irritarsi mentre si da una spiegazione; aver visto
un uomo che evidentemente considerava come l’ultima delle sue qualità
l’esperienza e l’abilità nell’insegnare i principî teorici; aver imparato come
si devono ricevere dagli amici i cosiddetti favori: senza sentirsi inferiori
per averli ricevuti e senza respingerli, peccando di tatto.
9
Da Sesto: la benevolenza; il
modello di una famiglia patriarcale; il concetto di vita secondo natura; la
dignità autentica; la capacità di cogliere in cosa prendersi cura degli amici;
la pazienza verso chi, privo di istruzione, crede anche a ciò che non ha
esaminato in termini scientifici; la capacità di trovarsi bene con tutti:
cosicché il suo conversare era più accattivante di ogni adulazione, eppure, in
quel preciso momento, agli occhi dei suoi stessi interlocutori, egli restava
degno del più alto rispetto; l’intelligenza e il metodo nell’individuare e
disporre i principî indispensabili per la vita; non aver mai dato segno esterno
di ira o di altra passione, essendo invece, nello stesso tempo, assolutamente
impassibile e affettuosissimo; la disposizione a elogiare, e senza troppo
rumore; un’ampia cultura, senza spazio per l’esibizione.
10
Dal grammatico Alessandro: non
censurare e non redarguire in maniera offensiva chi parlando incappa in un barbarismo
o in un solecismo, ma, con il giusto tatto, limitarsi a pronunciare
l’espressione corretta, come se si stesse rispondendo o manifestando la propria
approvazione o analizzando la sostanza della questione, non il termine usato,
oppure attraverso un’altra forma altrettanto garbata di rilievo.
11
Da Frontone: aver valutato il
grado di invidia, tortuosità e ipocrisia del potere tirannico, e come in
generale costoro che da noi si chiamano patrizi siano, in certo modo, più
insensibili all’affetto.
12
Da Alessandro il Platonico:
parlando o scrivendo una lettera a qualcuno, non dire spesso e senza una
ragione stringente «non ho tempo», e non declinare continuamente, in questo
modo, i nostri doveri nelle relazioni con chi ci vive accanto, col pretesto degli
impegni che ci assediano.
13
Da Catullo: non trascurare un
amico che ci accusa di qualcosa, anche se capita che ci accusi senza ragione,
ma cercare di riportarlo al suo rapporto consueto con noi; parlar bene, di
cuore, dei propri maestri, come insegna quello che si racconta di Domizio e
Atenodoto; l’amore autentico per i figli.
14
Da Severo: l’amore per la
famiglia, l’amore per la verità, l’amore per la giustizia; aver conosciuto,
grazie a lui, Trasea, Elvidio, Catone, Dione, Bruto, ed essermi formato l’idea
di uno stato con leggi uguali per tutti, governato secondo i principî
dell’uguaglianza politica e di uguale diritto di parola, e l’idea di una
monarchia che al di sopra di ogni cosa rispetti la liberty dei sudditi; ancora
da lui: la giusta misura e la costanza nell’onorare la filosofia; fare del bene
ed elargire con generosità; l’ottimismo e la fiducia nell’affetto dagli amici;
la schiettezza verso chi meritasse la sua riprovazione; il fatto che i suoi
amici non dovevano ricorrere a congetture per capire cosa volesse o non
volesse: al contrario, il suo intendimento era chiaro.
15
Da Massimo: governare se
stessi e non lasciarsi confondere in nulla; il buon umore in ogni circostanza e
in particolare nelle malattie; il carattere ben temperato: dolcezza e dignità;
la capacità di adempiere i propri impegni senza cedere alla sofferenza; il
fatto che, quando diceva qualcosa, tutti avevano fiducia che quello fosse
davvero il suo pensiero, e, quando faceva qualcosa, che agisse senza cattive
intenzioni; la capacità di non farsi sorprendere o sbalordire, e di non cedere,
in nessuna circostanza, alla fretta o all’indugio o alla disperazione, oppure
alla depressione o al sarcasmo, o, ancora, alla collera e al sospetto; la
propensione a fare del bene, al perdono e alla sincerità; l’impressione che
offriva: di chi non si lascia piegare piuttosto che di chi si sta raddrizzando;
il fatto che nessuno avrebbe mai pensato di essere disprezzato da lui né
avrebbe mai osato di ritenersi superiore a lui; il saper scherzare in modo
buono.
16
Da mio padre: l’indole mite e
la fedeltà incrollabile alle decisioni attentamente meditate; il rifiuto di
ogni vanagloria per i cosiddetti onori; l’amore per il lavoro e la tenacia; la
disponibilità ad ascoltare chi ha da proporre qualcosa di utile alla
collettività; l’atteggiamento inflessibile nell’attribuire a ciascuno secondo
il merito; l’esperienza nel vedere dove occorra tirare, dove invece allentare;
l’aver posto fine agli amori con i fanciulli; il rispetto per gli altri e
l’aver consentito agli amici di non banchettare sempre con lui e di non doverlo
per forza seguire nei suoi viaggi: anzi, il farsi sempre ritrovare amico come
prima da chi per qualche necessità era rimasto a casa; lo scrupolo e l’insistenza,
durante le riunioni di consiglio, nel cercare soluzioni, e non, come si dice,
«non ha concluso il suo esame, accontentandosi delle prime impressioni»; il
modo di conservare gli amici, senza mai provare fastidio per loro, e neppure un
folle attaccamento; l’autosufficienza in tutto e la serenità; la lungimirante
preveggenza e il provvedere a ogni minima cosa senza atteggiamenti teatrali; il
fatto che, sotto di lui, furono ridotte le acclamazioni e ogni forma di
adulazione verso il potere; l’attenzione continua alle necessità dell’impero,
la gestione oculata della spesa pubblica e la tolleranza verso le critiche
abituali in simili casi; non esser superstizioso per quel che riguarda gli dèi,
né demagogo per quel che riguarda gli uomini, in cerca di consenso o di favore
tra la massa, ma sobrio in ogni circostanza e saldo, mai volgare o smanioso di
novità; saper far uso di ciò che serve a confortare la vita, e che la sorte
fornisce in abbondanza, senza boria, e, insieme, senza accampare pretesti, in
modo, se c’è, da goderne senza artifici, e da non sentirne il bisogno se manca;
il fatto che nessuno lo avrebbe potuto definire un sofista o un buffone o un
pedante, ma un uomo maturo, completo, immune alle adulazioni, capace di
provvedere agli interessi suoi e altrui; inoltre, l’onore riservato ai cultori
autentici della filosofia, senza tuttavia offendere gli altri, e senza neppure,
però, farsi fuorviare da loro; ancora: l’affabilità e la gentilezza, ma senza
esagerazione; la cura che aveva della sua persona: nei giusti limiti, e non
come chi è troppo attaccato al proprio corpo, senza indulgere al lezioso e
neppure cadere nella sciatteria, cosicché grazie alla propria personale
attenzione riduceva al minimo la necessità di ricorrere all’arte medica o ai
farmaci, e con l’esclusione di ogni impiastro; soprattutto il suo saper cedere
il passo, senza invidia, a chi possedeva una certa abilità, per esempio
nell’eloquenza o nello studio delle leggi o dei costumi o di altre materie, e
l’impegno con il quale aiutava ciascuno a divenire famoso nel settore in cui
aveva particolare talento – e seguendo sempre nella sua azione le tradizioni
avite, non cercava di mettere in luce neppure questa linea di condotta; ancora:
la tendenza non a trasferirsi e spostarsi avanti e indietro, ma a restare a
lungo negli stessi luoghi e nelle stesse attività; la capacità, dopo i suoi
violenti attacchi di cefalea, di tornare sùbito fresco e pieno di energie al
lavoro consueto; il suo non avere molti segreti, ma pochissimi, rarissimi e
solo su questioni di Stato; il buon senso e la misura nell’allestimento di
spettacoli, nell’edificazione di opere pubbliche, nelle elargizioni al popolo e
simili: da uomo che tiene d’occhio quello che si deve fare, non la gloria che
può seguire alle sue azioni.
Non prendeva bagni
in ore inconsuete, non aveva la fissazione di edificare, non pensava sempre ai
cibi, ai ricami e ai colori delle vesti, alla bellezza degli schiavi. La veste
che veniva da Lorio, dall’abitazione di campagna di laggiù, e la maggior parte
di quel che accadde a Lanuvio; come si comportò con l’esattore che lo implorava
a Tuscolo, e ogni analoga occasione. Non ebbe alcun atteggiamento rude,
inesorabile, violento, o tale che qualcuno potesse dire: «fino al sudore»; ma
ogni cosa veniva da lui valutata analiticamente, come in un momento di riposo,
senza turbamenti, con ordine, con fermezza, nell’armonia dei fattori interni.
Gli sarebbe adatto quanto si tramanda di Socrate, e cioè che sapeva sia godere
sia rinunciare a quelle cose di fronte alle quali i più si mostrano deboli al
momento di astenersene e smodati al momento di gustarne. L’esser forte e
resistere con tenacia e, in entrambi i casi, mantenere la sobrietà sono
caratteristiche di un uomo che possiede un animo diritto e invincibile, come ad
esempio dimostrò nella malattia di Massimo.
17
Dagli dèi: l’aver avuto buoni
nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni maestri, buoni familiari,
parenti, amici, quasi tutti; il fatto che non sono arrivato a commettere una
colpa verso nessuno di essi, pur avendo una disposizione tale per cui, se ve ne
fosse stata l’occasione, me ne sarei macchiato – ed è un beneficio degli dèi
che non si sia verificato nessun concorso di avvenimenti che potesse rivelarmi
per quello che sono; non esser cresciuto troppo a lungo presso la concubina di
mio nonno; aver conservato intatto il mio vigore e non aver avuto rapporti
sessuali prima del tempo, anzi, aver atteso ancora dopo che era giunto il
momento; esser stato sottoposto a un sovrano e a un padre che avrebbe eliminato
ogni mia alterigia e mi avrebbe condotto a pensare che a corte si può vivere
senza bisogno di guardie del corpo o di vesti pregiate, di candelabri o statue
di questo genere e di un consimile sfarzo, e che anzi ci si può limitare a un
tenore di vita assai vicino a quello di un privato, senza perciò risultare
troppo modesti o trasandati di fronte alle incombenze che il sovrano deve
affrontare nel pubblico interesse; aver avuto un fratello quale il mio, capace,
con il suo carattere, di spronarmi ad aver cura di me stesso, e, insieme di
gratificarmi con il suo rispetto e il suo affetto; non aver avuto figli
deficienti o deformi; non aver fatto troppi progressi nella retorica, nella
poesia e nelle altre discipline, in cui forse sarei rimasto irretito, se mi
fossi accorto di procedere con facilità; aver prevenuto i miei precettori
attribuendo loro la posizione alla quale mi parevano ambire, e non aver
rinviato la cosa in attesa, considerata la loro giovane età, di farlo in
séguito; aver conosciuto Apollonio, Rustico, Massimo; essermi spesso e con
chiarezza rappresentato quale sia la vita secondo natura: cosicché, per quanto
sta agli dèi e alle comunicazioni, agli aiuti, alle ispirazioni che da essi
provengono, nulla ormai mi impedisce di vivere secondo natura – che a questo
obiettivo manchi ancora qualcosa, semmai, a colpa mia, perché non osservo i
suggerimenti e, diciamo quasi, gli insegnamenti che vengono dagli dai; il fatto
che il mio corpo abbia così a lungo resistito in una simile vita; non aver toccato
Benedetta né Teodoto, e, anche più tardi, caduto in passioni amorose, esserne
guarito; essermi tante volte adirato con Rustico, ma senza mai far nulla di cui
poi pentirmi; il fatto che mia madre, pur destinata a morir giovane, abbia
egualmente vissuto con me i suoi ultimi anni; il fatto che ogniqualvolta ho
voluto soccorrere una persona povera o che aveva altre necessità, non mi sono
mai sentito rispondere: «Non ho abbastanza denaro per farlo»; e non essermi
trovato in un analogo stato di bisogno, ridotto a dover ottenere da altri; il
fatto che mia moglie fosse così, tanto docile, tanto affettuosa e semplice;
aver avuto per i miei figli tanti precettori adatti; il soccorso ricevuto
attraverso i sogni, in particolare contro gli sbocchi di sangue e le vertigini;
e […] a Gaeta […] … e, quando desiderai accostarmi alla filosofia, non
essere incappato in un sofista e non esser rimasto seduto a leggere gli autori,
ad analizzare i sillogismi o ad occuparmi dei fenomeni celesti. Perché tutte
queste cose esigono l’aiuto degli dai e il favore della sorte.
MASSONERIA
VEICOLO DI LIBERTA’ ATTRAVERSO I SECOLI
Carissimi Fratelli.
Io sono veramente convinto
che oggi noi Liberi Muratori Italiani, uscendo da un difficile e regressivi
periodo di crisi, ci troviamo di fronte l’opportunità di vivere, se lo vorremo,
una fase memorabile della storia massonica italiana.
Ritengo, infatti, che sia
giunto il momento di riprendere e svolgere pienamente, ma con maggiore e più
precisa consapevolezza, il nostro incontestabile ruolo di concreti fautori
dell’elevazione morale, materiale e spirituale dell’Uomo e dell’Umana Famiglia,
professando con rigore e coraggio le nostre in equivoche idealità, le quali non
possono che essere, giustamente coerenti e con la Tradizione e con le
incancellabili esperienze storiche dalle quali, noi Massoni italiani abbiamo
avuto la ventura e la fortuna di essere stati forgiati.
Ora, al fine di cogliere,
se possibile, quelle indicazioni che forse potranno consentirci di individuare
l’essenza della finalità ideale primigenia, proviamo ad indagare nella storia
non recente della Massoneria, e sono certo che da una più approfondita
conoscenza del passato, potranno scaturire dei chiarimenti molto utili per
comprendere la funzione che la Libera Muratoria ha svolto, e che pure oggi deve
svolgere, per non mancare di adempiere i suoi doveri verso l’Umanità.
* * * * *
La storia del genere umano
tracciata dal massone Fr. James Anderson, nel suo Libro delle Costituzioni
, pubblicato nel 1723, come ben sapete, non è altro che un panorama dei
progressi scientifici e materiali compiuti dall’Uomo, dopo la creazione del
mondo, cioè i risultati dell’eterno conflitto fra l’ ignoranza e la libera
intelligenza umana; fra ciò che può aver ostacolato l’emancipazione dell’Uomo e
ciò che, invece, la può aver favorita.
In questo senso, allora,
tutto il progresso evolutivo dell’Umanità può essere visto e considerato come
l’effetto del continuo contrapporsi – con risultati certo non prestabiliti –
fra l’aspirazione dell’Uomo alla libertà e tutto ciò che, invece, la contrasta.
Mi sembra già una buona indicazione per
la nostra ricerca. Ora, però, a noi non interessa indagare, applicando questa
chiave interpretativa, fin dai primordi del Genere Umano e seguire tutte le
alterne vicende di questa entusiasmante e dolorosa competizione.
Questa chiave, tuttavia, ci consente di individuare
un momento storico in cui, un’esigenza organizzativa specializzata per
edificare grandi opere, ha consentito, certo involontariamente, il nascere di
un tipo di comunità che, moltiplicandosi e diffondendosi, è stata causa
comprimaria di eventi molto importanti per il consolidamento di una tendenza la
quale risulterà, poi, abbastanza ben riconoscibile nella storia della libertà
umana.
Mi riferisco alla nascita delle
comunità dei Liberi Muratori le quali, per tutto il Medio Evo, un po’ dovunque
in Europa, ebbero il compito profano di costruire chiese, conventi e castelli,
ma che in concreto – da un esame più approfondito si evidenzia chiaramente –
ebbero pure la non comune funzione di tenere accesala Fiaccola della Libertà,
in un terrificante mondo di soprusi, di violenza e di ignoranza,.
Queste
comunità di Liberi Muratori, le quali si insediavano nel luogo dove sorgeva la
nuova opera solo per il tempo necessario all’edificazione, erano sotto la
protezione dei vari committenti e godevano del singolare privilegio di essere
quasi completamente affrancate dalle rigide ed oppressive leggi e servitù
feudali.
Avevano una loro autonoma
organizzazione interna che, tra l’altro, si proponeva di trasmettere con gradualità
e segretezza l’apprendimento dell’Arte Edificatoria. L’Arte, naturalmente,
comprendeva regole tecniche e modalità di lavoro secondo le quali progettare e
costruire, ma anche norme etiche di comportamento esistenziale per il buon
governo della comunione.
Queste regole erano
insegnate agi apprendisti in gran parte con l’esempio dato dai più anziani, ma
pure durante le periodiche riunioni, che si svolgevano sempre ritualmente, e
servivamo per dirimere problemi di lavoro oppure si trattava di eleggere un
capo, oppure ancora per esercitare il diritto, loro riconosciuto, di
amministrare autonomamente la giustizia.
Ebbene, cosa c’era di tanto straordinario in queste
fratrie di Liberi Muratori? A noi, forse, può sembrare quasi insignificante ciò
che stava germogliando in quelle comunità, ma se lo confrontiamo con le reali
ed atroci limitazioni di vario genere a cui era soggetta la maggior parte degli
esseri umani nel Medio Evo, si può
comprendere meglio come in quelle associazioni, tra mille difficoltà, nell’ambito
delle congnizioni culturali del tempo, con le inevitabili anche se ridotte
ingerenze del potere laico e religioso, si stava affermando un nuovo concetto
di libertà, più o meno consapevolmente, ben prima che assurgesse a simbolo
storico della Rivoluzione Francese, basato appunto su di un trinomio di
principi ideali incoercibili: libertà individuale, uguaglianza democratica,
fratellanza universale.
Naturalmente, poiché niente nella società del Medio
Evo, nel mondo occidentale, poteva essere concepito, oppure accadeva al di
fuori dell’ambito eclesiastico, pure la vita dei Liberi Muratori aveva, di
conseguenza, una forte e comprensibile caratterizzazione religiosa, anche se
più o meno ortodossa, perché in effetti, come possiamo apprendere dai documenti
lasciati, erano presenti e vigenti concezioni e ritualità iniziatiche di chiara
origine precristiana.
Ma un’altra peculiarità
assunse, con il tempo, un valore molto importante e contribuì certamente in
modo notevole anche all’evoluzione ed alla diffusione dei concetti di
affrancamento insiti nel trinomio cui abbiamo fatto cenno.
Questi Liberi Muratori, che erano altamente
specializzati nell’Arte del Costruire, non potevano certo assolvere anche tutte
quelle mansioni per le quali non necessitavano particolari conoscenze o precise
abilità, ma che tuttavia erano indispensabili per l’edificazione. Le Comunità,
pertanto e fra l’altro, avevano anche il potere – come di direbbe oggi – di
assumere liberamente la mano d’opera necessaria, in loco, scegliendo fra gli abitanti
dei borghi o tra i servi della gleba. Questi nuovi assunti, per distinguerli
dai veri componenti la fratria, venivano
chiamati “accettati” ed avevano gli stessi diritti e gli stessi doveri
degli altri: godevano dell’uguaglianza fraterna e dell’aiuto reciproco vigente,
ma soprattutto dovevano rispondere di quello che facevano o avevano fatto, solo
alla giustizia autonoma della comunione. Coloro poi che tra gli “accettati”
dimostravano di possedere le attitudini e le qualità occorrenti, venivano, qualche
volta, preparati ed iniziati all’Arte.
Ebbene, questo privilegio
di affrancare gli “accettati” dal potere costituito, si dimostrò estremamente
importante perché consentì alle fratellanze dei Liberi Muratori di essere un
sicuro rifugio per coloro che si trovavano ad essere perseguitati ingiustamente
o per questioni politiche.
E proprio nei secoli in cui
gli aneliti alla libertà, dal pesante dominio laico e religioso, spingevano i
soggiogati alla ribellione, sempre più di frequente, le comunità dei Liberi
Muratori, per tradizione liberali ed umanitarie, si mostravano tolleranti ed
accoglievano quei perseguitati “fuori legge” che, in effetti, erano solo dei
cittadini che avevano il coraggio di dimostrare che non erano disposti ad
accettare i soprusi e le violenze dei prepotenti.
Le comunioni dei Liberi
Muratori, così, assunsero anche il ruolo di nascondiglio per chi cercava un
ambiente comprensivo e congeniale con le nuove idee di libertà, e divennero,
poi, nel 1500 e nel 1600 un sicuro punto di riferimento e di appoggio nel gran
girovagare per l’Europa, che caratterizzò la vita degli uomini più brillanti
del mondo occidentale.
Questo aspetto delle
fratrie ebbe, certamente, un’importanza assai rilevante subito dopo la disfatta
della Montagna Bianca, a Praga nel 1620, subita dal Re di Boemia, Federico V,
elettore palatino, battaglia dalla quale ebbe inizio la guerra dei trent’anni e
la ferocissima persecuzione cattolica a tutti queli Rosa-croce che avevano
sognata e realizzata, per la breve durata di un inverno, la creazione di uno
Stato rosacrociano del cuore dell’Europa.
E nelle Comunità dei liberi
Muratori, la Loggia, con il passar del tempo e con il graduale evolversi dei
vincoli culturali del Medio Evo, da luogodi riunione nel quale nel quale si
affrontavano i problemi tecnici ed artistici del cantiere, con l’occasionale
presenza dei committenti o di uomini di cultura che intendevano partecipare e
contribuire all’evento creativo in corso, divenne anche l’ambiente in cui si
facevano riunioni durante le quali gli “accettati”, che si trovavano a far
parte più o meno temporanea della fratria, per ragioni non proprio
edificatorie, parlavano di ciò che avevano visto accadere nei vari Stati
europei, ed esponevano idee socio-culturali nuove che venivano, poi, fatte
oggetto di fraterna e libera discussione tra i presenti.
Le periodiche sedute
rituali, quindi, assumevano sempre più di frequente un’importanza
esclusivamente speculativa, mirante alla costruzione culturale del singolo
individuo e della società. Nelle Logge, diventava sempre più numerosa la
presenza degli “accettati”, che erano solo uomini di cultura, rispetto ai
Liberi Muratori operativi, anche per effetto, ormai, della decadente funzione
di questi ultimi nella storia dell’architettura.
In questo senso, anche lo
storico italiano Carlo Francovich afferm:”Sembra che tale processo [di
trasformazione], avesse avuto inizio molto per tempo in Scozia e cioè fin dal
16° secolo, mentre in Inghilterra, essi si intensificò a cominciare dal 1607,
quando Giacomo I Stuart si proclamò protettore della corporazione [dei liberi
Muratori] e nominò Inigo Jones [famoso scenografo di Corte] Maestro della
stessa.”
Le Logge allora esistenti,
protette dalla Casa Regnante degli Stuart, erano di rigorosa impostazione
cristiana, e negli statuti della Loggia di York, del 1704, si trova che era
prescritto il giuramento di essere “fedela a Dio ed alla Santa Chiesa”, Ma era
inevitabile, come accadrà sempre nella storia dell’Istituzione, che
l’insopprimibile spirito di libertà aleggiante nelle Logge, formasse uomini i
quali, sensibili alle nuove istanze di democrazia e di emancipazione dal potere
assoluto, si trovavano, naturalmente anche, a far parte di quelle correnti
politiche che, per mezzo di due rivoluzioni, destituirono definitivamente gli
Stuart dal trono inglese.
Con la vittoria degli
Hannover, questi massoni, rispondendo all’esigenza di ispirare i loro Lavori
Muratori secondo maggiori libertà culturali e sociali, ed anche secondo
universalità più aperte, il 24 giugno 1717, costituirono la Gran Loggia di
Londra, dando vita ad una precisa organizzazione centralizzata, prima
inesistente, che gli storici, poi, hanno
chiamato Massoneria Moderna.
Una cosa che appare subito
evidente, carissimi Fratelli, è che proprio la nascita della Massoneria Moderna
può essere il chiaro esempio di uno dei tanti e continui mutamenti, anche
profondi, che le fratrie dei Liberi Muratori hanno sempre apportato alla
Tradizione precedente, per adeguarla ai progressi dell’evoluzione culturale
contemporanea ferme restando le finalità
ideali.
In questo caso, la
tradizione rigidamente religiosa e papista, veniva sostituita con
un’impostazione molto più aperta e tollerante.Nella Massoneria Moderna, il
principio di fratellanza che univa i componenti la Loggia, anche per soddisfare
una precisa esigenza politica del momento, prescriveva un’indulgente tolleranza
religiosa la quale consentiva di chiamarsi Fratelli fra loro, cattolici,
protestanti, deisti, atei, e – come scrive esplicitamente Carlo Francovich –
non obbligava il massone “a seguire una religione rivelata, anche se era
opportuno che seguisse quella praticata nel suo paese.”
Era sufficiente, infatti,
che praticasse quella religione che – come precisa James Anderson nelle sue
Costituzioni – “consiste nell’essere buoni, sinceri, modesti, persone d’onore,
qualunque sia il credo che li distingue.”
Il principio di uguaglianza
che, come abbiamo visto nelle fratrie operative, aveva la funzione di porre
tutti nelle stesse condizioni di fronte ai diritti ed ai doveri, ora in questa
massoneria, diciamo hannoveriana, fa maturare un aspetto che avrà notevoli
conseguenze in senso politico.
Accogliendo fra le Colonne
del Tempio, ugualmente Fratelli, il nobile ed il borghese, con la possibilità
di parlare, di votare liberamente insieme, e di aiutarsi reciprocamente in
Loggia e nel mondo profano, essi rendevano concreta ed operante una concezione
democratica che, nel resto dell’Europa era sconosciuta oppure fortemente
osteggiata.
La Massoneria Moderna si
presenta dunque come una vera precorritrice, nel professare le idee nuove che
incominciavano ad affermarsi nel mondo culturale contemporaneo; essa si
presenta con le caratteristiche di una corporazione universale, o meglio – come
dice il Francovich – “una confraternita morale che unisce tutti gli uomini di
buona volontà, d’ogni paese, d’ogni lingia, d’ogni razza, d’ogni condizione
sociale, indipendentemente dalle loro opinioni politiche e religiose, per
affermare gli ideali di libertà e di progresso, che tra lotte e contrasti di vario genere, si andavano
forgiando nella società inglese alla fine del 17° secolo ed agli inizi del 18°.
Con questa impostazione
aperta e favorevole allo spirito innovatore del tempo, la Massoneria
Hannoveriana prese a diffondersi in tutta Europa, raccogliendo in ogni dove, in
seno alle proprie Logge, gli uomini più impegnati nell’emancipazione
dell’Umanità dalle resistentissime soggezioni socio-politiche e culturali che
si erano instaurate durante il Medio Evo.
“Nell’ambito di questa
Massoneria, eminentemente filantropica – cito ancora da Francovich – con
implicazioni notevoli di carattere politico e sociale, continuano a sussistere,
in seno alle Logge, nuclei di occultisti e di alchimisti alla ricerca della
pietra filosofale, della panacea e del contato immediato con il mondo degli
spiriti.”
Ma questi gruppi, che
daranno poi sempre una loro connotazione specifica alla Massoneria in alcuni ambienti ed in certi momenti storici
erano costituiti – ritengo si possa ben dire – da coloro che, per motivi connessi
la loro maturità individuale e non avendo seguita e compresa la dinamica
evoluzione cui è sempre soggetto ciò che concerne l’Uomo, erano rimasti,
purtroppo, fermi nel tempo, all’uso di strumenti e di concetti, ormai superati,
che erano stati invece veramente rivoluzionari – anche per l’affermazione di
nuove metodologie di sperimentazione sistematica – quando Marsilio Ficino, nel
1462, li portò a conoscenza degli uomini colti, nel mondo occidentale, con la
diffusione in latino del “Corpus “Ermeticum”, erroneamente attribuito ad Ermete
Trismegisto.
Strumenti e concetti che,
però, conservavano, ancora nei primi decenni del 1600, gran parte della loro
carica innovativa, come chiaramente emerge dal pensiero rosacrociano espresso
nei famosi e noti “Manifesti”.
Intanto, nel suo
diffondersi in Europa, la Libera Muratoria giunge anche in Italia. Gli storici
si trovano d’accordo nello stabilire che, molto probabilmente, la prima Loggia
importante in Italia viene eretta a Firenze tra il 1731 ed il 1732.
Questa Loggia, dipendente
dalla Gran Loggia di Londra e quindi con precise tendenze hannoveriane, diventa
presto il centro del movimento di promozione culturale che in tutta la Toscana
aveva preso l’avvio, sotto il governo, criticabile ma certamente assai
tollerante, dell’ultimo dei Medici: Gian Gastone. In un clima di speranza e di
fermenti ideali, la vita muratoria fiorentina dava generosamente il suo non
trascurabile impulso per favorire una maggiore libertà intellettuale.
“I componenti la Loggia –
ci fa sapere Francovich – erano per lo più indifferenti al problema religioso,
oppure, in prevalenza professavano il culto della ‘Religione Naturale’, dando
al nucleo latomistico fiorentino un deciso carattere deista.”
Come poi andarono le cosa,
carissimi Fratelli, lo sapete molto bene e ritengo quindi questo semplice
accenno sufficiente a ricordare con quale orientamento nacque la Massoneria in
Italia, ed a quale Tradizione eventualmente ci si dovrebbe riferire quando
proprio di Tradizione Italiana si volesse parlare.
Ma ritornando invece alla
caduta degli Stuart dal trono d’Inghilterra, va ricordato il fatto che, nel
1649, dopo la decapitazione di Carlo I Stuart, la sua vedova Enrichetta,
accogliendo l’invito del Re di Francia, si rifugia nel castello di Saint
Germani insieme a molti seguaci ai quali riusciva difficile continuare a vivere
rimanendo in Inghilterra. Tra questi cortigiani, alcuni, affiliati alle Logge
giacobite londinesi di impronta cattolica, costituirono una Loggia proprio a
Saint Germani dando così inizio alla vita massonica francese che, in tal modo,
nasceva sotto gli auspici cattolici degli Stuart. La diffusione della
Massoneria statista in Francia fu notevole.
“Ma le Logge allora – come
osserva Carlo Francovich – da chiunque fossero fondate erano aperte a tutti i
Fratelli: Ciò non toglie che in esse, rispettando almeno formalmente le regole
imposte dalla fratellanza, si combattesse con sottigliezza, dall’una e
dall’altra parte, per ottenere il controllo della Società: Ed è chiaro che, con
il passar del tempo, con il rafforzarsi della dinastia hannoveriana sul trono
d’Inghilterra, i massoni protestanti, potendo contare sugli aiuti del governo
inglese, oltre che sulla validità dei loro principi più liberali, e valendosi
anche delle diserzioni, sempre più numerose, nel campo stuartista, finissero
per affermarsi in varie Logge, anche se fondate dal partito avverso.” Ed è così
che nel 1729 si giunge ad una più precisa distinzione, eminentemente politica,
fra i due tipi di Massoneria in Francia, si ha cioè una scissione nella quale
gli hannoveriani costituiscono una loro Loggia che, nel 1732, otterrà il
riconoscimento ufficiale della Gran Loggia di Londra.
Ma un più netto
divaricamento dei due rami latomistici in Europa, si ebbe con la comparsa sulla
scena storica, della “discussa e misteriosa figura del cavaliere Michel Ramsay”
il quale dapprima deista, poi convertito al cattolicesimo, iniziato a Londra
nel 1730, pronunciò a Parigi, nel 1737, il discorso con il quale – come scrive
Francovich – “l’avventuriero scozzese assegna nuove finalità alla Libera
Muratoria e ne traccia una nuova storia.”
“Ramsay infatti – prosegue
Francovich – respinge nel suo discorso l’interpretazione corporativa della
Massoneria; respinge le premesse borghesi ed egualitarie della Libera Muratoria
inglese per attribuirle una discendenza aristocratica e cavalleresca.”
“Secondo Ramsay – continuo
a citare Francovich – la Massoneria è sempre esistita ed ha continuato ad
esistere in Oriente quando in occidente si era perduto il ricordo della dottrina
segreta che in essa si perpetuava, Furono i Crociati, andati al seguito di
Goffredo di Buglione, che riscoprirono nei sotterranei del Tempio di
Gerusalemme, le leggi dell’antica confraternita. Essi decisero di ricostruirla
anche in Europa, dopo che fossero tornati ai loro rispettivi Paesi. L’Ordine godette
della protezione del Re d’Inghilterra e soprattutto dei Re di Scozia, Ma
durante le guerre di religione che sconvolsero l’Europa, nel 16° secoli, la
Massoneria subì notevole decadenza: i Fratelli dimenticarono le vere finalità
dell’Ordine. Solo in questi ultimi anni – diceva Ramsay – si è ricominciato in
Inghilterra e soprattutto in Scozia, dove la confraternita ha meglio conservato
la purezza della dottrina segreta, un lavoro di riorganizzazione della Libera
Muratoria che ha cominciato a fiorire anche in Francia. Secondo l’oratore,
toccava ora ai massoni francesi assumere la direzione della fratellanza e
guidarla verso le sue vere finalità.”
Ecco dunque, carissimi
Fratelli, che la Massoneria si diffonde in Europa presentandosi però, grosso
modo, prevalentemente sotto due aspetti principali.
Da una parte c’è chi dà
preminenza ai principi di tolleranza religiosa e l’idealità muratoria è
caratterizzata da uno spirito egualitario e filantropico, apertamente sensibile
alle nuove idee illuministiche; dall’altra c’è, invece, chi mira alla
costituzione di una Massoneria eminentemente aristocratica, con accentuate
aspirazioni spiritualistiche, la quale specialmente negli alti gradi, tra il
moltiplicarsi dei culti esoterici, coltiva, non sempre disinteressatamente,
l’alchimia, la magia e la teosofia. I principi di questo secondo aspetto della
Massoneria, “ad opera degli emigrati stuartiani e giacobini, e poi per mezzo
delle Logge militari dell’esercito francese, sciamarono per tutta Europa ed
attecchirono soprattutto in Germania” dove, dopo il 1750, sviluppando
l’indicazione mitica del Ramsay, i Riti massonici acquisirono, ad opera di tre
scaltri e spregiudicati personaggi, un nuovo Rito, quello del Cavalieri
Templari.
Basandosi sulla leggenda
che i Templari si sarebbero, attraverso i secoli, occultati nella Libera
Muratoria, veniva ora proposta la ricostituzione dell’antico Ordine,
nell’interesse dell’Umanità, ma anche con il preciso scopo di rivendicare il
possesso delle favolose ricchezze, territoriali ed immobiliari, del Sacro
Ordine.
Lestofanti, avventurieri e
mitomani di vario genere, sedicenti depositari delle conoscenze segrete note ai
“Superiori Sconosciuti”, tra contrasti e raggiri personali, teatrali messe in
scena, e con promesse mirabolanti, riuscirono a diffondere ed a far prosperare
questa Massoneria, di impronta nettamente mistica ed occultistica, come si è
detto, particolarmente in Germania, fino al 1764 quando avvenne l’unificazione
con un gruppo latomistico similare, del quale fu adottata anche la
denominazione di “Stretta Osservanza”, proprio per distinguersi dalle Logge
inglesi, hannoveriane, ritenute di blanda osservanza.
Intanto a Lione fa la sua
comparsa un altro personaggio che avrà un’importanza considerevole per la
Massoneria occultista europea, si tratta di Jean Baptiste Willermoz. “Costui –
ci dice Francovich – valente e facoltoso mercante di tessuti, era un ardente
seguace delle dottrine e dell’organizzazione fondata da Martines de Pasqually.”
“Pasqually, aveva creato la
setta occultista degli Élus Coëns [sacerdoti eletti], secondo la cui dottrina,
il ‘Grande Adamo’, ultima e conclusiva emanazione degli esseri creati da Dio,
desiderando a sua volta di essere demiurgo, avrebbe provocato con il suo
orgoglio la sua caduta, da dominatore degli esseri celesti e terreni, nella
forma mortale del Secondo Adamo o ‘Homme de désir’. Soltanto mediante il mezzo
esteriore dei Gradi degli Élus Coëns, e mediante il mezzo interiore della ‘Via
attiva’, l’uomo decaduto potrà tentare la reintegrazione nello stato primitivo
del Grande Adamo, La ‘Via attiva’ consisteva in un rito occultista basato sulla
magia, che comprendeva un allenamento fisico simile a quello yoga; esso doveva
causare, se rettamente eseguito, uno stato di estesi durante il quale l’adepto
poteva mettersi in contatto con l’al di là. Tale contatto, nato da uno speciale
stato di grazia, veniva, da Pasqually e dai suoi adepti, chiamato la ‘cosa’, ed
avveniva nell’ultima classe di questo rito.” “Se l’esperimento riusciva –
continua a spiegare Francovich – l’iniziato entrava in diretto contatto con Dio
che si manifestava con apparizioni di luci, di contatti a fior di pelle o
addirittura con la visione di una presenza angelica.”
I seguaci di Martines de
Pasqually, tra i quali il Willermoz, avevano assistito ad esperimenti del
genere ed erano rimasti molto impressionati, e quando nel 1773 il Martines
partì per le Antille definitivamente, gli Élus Coëns continuarono a tenersi in
contatto, proseguendo i loro tentativi negli esperimenti tergici, anche se,
fino alla partenza del Maestro, nessuno e nemmeno il Willermoz, aveva raggiunto
il contatto con Dio, che invece era previsto, come si è sentito, all’ultimo
grado della quarta classe.
Gli Élus Coëns, ben presto
però, si divisero in due gruppi distinti. Uno, quello guidato da Willermoz, che
nel 1774 confluì nella Stretta Osservanza, con il preciso scopo – in gran parte
realizzato – di strumentalizzare l’organizzazione dell’Ordine Templare,
indirizzandolo verso il particolare spiritualismo martinesista. L’altro, un
gruppo con a capo Louis Claude de Saint Martin, ex segretario personale di
Martines de Pasqually, ultimo grado “Possente Sacerdote” del rito martinesista,
il quale dà vita ad un altro sistema esoterico spiritualista in cui,
rinunciando in parte alla magia come strumento di contatto con il mondo divino,
pur conservando il concetto mitico della “reintegrazione” basilare nella
dottrina del Martines, si affidava a pratiche di misticismo del tutto interiorizzato per conseguire la
massima, finale, elevazione verso la divinità.
Mentre questi erano,
sommariamente, gli eventi che segnavano gli sviluppi, le trasformazioni e le
proliferazioni della corrente massonica a contenuto eminentemente
spiritualista, cosa stava accadendo della corrente che abbiamo designato, per
intenderci, hannoveriana?
Pure essa si stava difondendo
in tutto il continente europeo ed in America, rimanendo coerente con
l’impostazione del 1717: professando, in senso innovatore, i principi di libertà,
uguaglianza e fratellanza, mantenendosi aperta tanto alla borghesia quanto alla
nobiltà, praticando la tolleranza religiosa intesa come superamento delle
divisioni ecclesiali e dei vincoli dogmatici. Senza promettere l’esistenza e la
rivelazione di segreti strabilianti, impostava la vita muratoria su di un piano
più concreto che, tenendo conto dello spirito dei tempi, favoriva l’iniziazione
e la formazione di uomini atti a meglio comprendere le emergenti esigenze di
libertà socio-politica, uomini che erano sensibili e disposti anche a lottare
con sacrifici, quando erano convinti di agire per l’affrancamento dell’Uomo.
Particolarmente in Francia,
in Austria ed in Italia la Massoneria hannoveriana ebbe un’importanza
determinante nel tener viva e nell’alimentare la Fiaccola della Libertà che
sempre più illuminava il mondo occidentale.
Basta citare, a sostegno di
quanto ora affermato, solo due esempi di attività latomistica, fra i più
significativi per il contributo dato, con uomini e con idee, allo sviluppo democratico
dell’Europa, prima della Rivoluzione Francese.
“Nel complesso – ci fa
sapere Carlo Francovich – la Libera Muratoria austriaca rimase fedele ai
principi basilari delle Logge inglesi: tolleranza religiosa, fratellanza ed
uguaglianza fra gli associati, confondendo in tal modo la propria attività con
quella del più ampio movimento illuminista, che trovò nelle Logge una forma
organizzata atta a promuoverne la diffusione.”
“Il primo iniziatore delle
riforme illuministe a Vienna, il famoso Gerhard van Switen, medico di corte,
era un Libero Muratore.” “Gli venne affidato, tra l’altro, l’incarico di
riformare l’ordinamento scientifico e scolastico austriaco”, “riuscì a
liberalizzare gli studi ed a promuovere ovunque il moto delle riforme, Intorno
a lui si formò un gruppo selezionato di illuministi e di liberi muratori che
rinnovarono la vita culturale del vecchio impero.”
A Vienna “questo gruppo di
illuminati massoni – prosegue Francovich – raccolti intorno al van Switen, ebbe
il suo centro organizzativo nella Loggia ‘La Vera Concordia’, I Fratelli di
questa Loggia erano più preoccupati dei problemi culturali e sociali che non
dei miti massonici, essi rispondevano ai nomi di Bierkenstok, di Riegger, di
Eybel che, rispettivamente , nel campo della pedagogia, del diritto canonico,
dell’etica sociale, promossero e vissero la lotta contro l’oscurantismo,
combattendo sia contro le più stolte superstizioni popolari, sia contro i
radicali pregiudizi del Tomismo, per cui riuscirono, tra l’altro e non senza
sforzo, ad abolire i roghi delle streghe.”
Altra Loggia di rilievo
internazionale e di impostazione hannoveriana fu, per esempio, quella che, con
il nome “Le Nove Sorelle”, venne fondata a Parigi nel 1776, “con l’idea – ci
dice ancora Francovich – di riunire un’élite qualificata di intellettuali per
promuovere l’evoluzione delle scienze nei vari campi della cultura, della vita
sociale, politica ed economica.”
Appartennero a questa Loggia le maggiori
intelligenze del secolo, a cominciare dal suo fondatore, l’astronomo Lalande,
al D’Alambert, al Mably, a Voltaire, a Quesnay, a Franklin, e Jefferson, a
Pestalozzi.
* * * * *
Ecco, carissimi Fratelli,
sia pure sommariamente e con una trattazione forse anche troppo schematica,
quale è stata la storia della Libera Muratoria prima e dopo il 1717, fino quasi
alla Rivoluzione francese. Ecco, cioè, la storia della nostra Istituzione, più
o meno ipotizzata nel mito e documentabile nella realtà, partendo dalle
Corporazioni del Liberi Muratori, unico ceppo, comunque, dal quale sono
germogliati poi i due aspetti principali, di cui si possono avvertire le tracce
anche nella Massoneria dei nostri tempi.
Ebbene, miei cari Fratelli,
che lezione è possibile ricavare da questa breve indagine sulla nostra
“Tradizione”?
Qual è dunque la “VERA”
finalità ideale della Libera Muratoria?
Quale possiamo ritenere che
sia la “vera Tradizione al di fuori della quale non vi è Massoneria”, cui fanno
riferimento perentoriamente alcuni nostri Fratelli?
Forse la Tradizione
stuartiana, spiritualista, con le sue ascendenze nobiliari tra i Crociati ed i
Templari, e con le sua aspirazioni all’elevazione dell’Uomo per mezzo del
misticismo e dalle magia?
Oppure la Tradizione
hannoveriana, tollerante in fatto di religione, con nella impronta democratica
e borghese, fortemente impegnata politicamente ed ispirata ai principi del
razionalismo illuminista?
Ebbene, carissimi Fratelli,
a me sembra che da questa schematica e certo incompleta ricerca storica,
emerga, prima di tutto, un fatto molto importante e cioè che fin dal tempo
delle fratrie, la Libera Muratoria ha dimostrato sempre una precisa apertura
ideale nei riguardi della libertà umana, ed una apprezzabile sensibilità per
quanto concerne l’evoluzione socio-culturale, confermando, se ce n’era bisogno,
che la Massoneria è un’Istituzione iniziatica formata da uomini al fine di
risolvere coerentemente problemi umani.
In effetti quindi,
carissimi Fratelli, risulta evidente che tutta la nostra Tradizione Muratoria –
e l’Art.1 della Costituzione ce lo conferma – ha mirato sempre, qualunque
espressione abbia scelto, ad un solo obiettivo primario, e cioè alla graduale
emancipazione dell’Uomo e dell’Umana Famiglia, anticipando, o cercando di
anticipare, pedagogicamente, il riluttante progredire della società profana.
Tutto il resto, rendiamocene conto, è secondario. 0,
per meglio dire, diventa semplice strumento con cui, se utilizzabile,
raggiungere il fine primo ora indicato.
Ed a proposito di questo
prestigiosissimo compito di anticipazione, miei cari Fratelli, si può ben
affermare con orgoglio che, la Libera Muratoria di Palazzo Giustiniani, nelle
sue formulazioni di principio, è riuscita ad assolverlo molto egregiamente.
Tanto è vero che basta avere la pazienza di leggere un po’ meno distrattamente
i nostri Rituali, per comprendere quanta saggezza precorritrice in essi hanno
condensato i nostri illustri predecessori; ma, soprattutto, renderci conto che,
a differenza di tutte le altre grandi istituzioni operanti – dalle chiese ai
partiti – le quali, oggi, affannosamente ricercano una loro identità
accettabile ed adeguata al momento di crisi generale, la nostra Istituzione, la
Massoneria dispone già di una precisa identità anticipatrice: rispettosa della
Tradizione rituale e delle nostre ricchissime esperienze storiche, è
perfettamente idonea oggi a soddisfare le deluse necessità di affrancamento
dell’Uomo contemporaneo.
Basta far tornare alla
mente, per esempio, quanto il Maestro Venerabile, durante l’Iniziazione al
grado di Compagno d’Arte, Vi raccomandò: “La mente deve indagare liberamente in
ogni campo della conoscenza evitando qualsiasi dogmatismo limitatore”, per
comprendere, senza incertezze, quale è e quale deve essere l’impostazione
basilare della Libera Muratoria oggi.
Ma se mi consentite di fare
una, spero lecita, anticipazione per qualcuno di voi, vorrei a maggior
conforto, citare alcune locuzioni pronunciate durante l’Iniziazione al 4° Grado
del R.S.A.A., che vale veramente la pena di ricordare perché, oltre che evidenziare
l’evoluzione concettuale del R.S.A.A. dal 1700 ad oggi, sono di una validità
così universale e di così elevato contenuto dottrinario, da porsi veramente al
di sopra di ogni possibile ambiguità interpretativa.
“La suprema e perpetua
preoccupazione della Libera Muratoria, – dice il Potentissimo Re Salomone,
Presidente di quella Camera Rituale – è l’abbattimento di tutti gli idoli, di
tutti i pregiudizi, di tutte le superstizioni, di tutte le menzogne. Fratelli
miei – l’ideale dei Liberi Muratori è la verità. Ogni concezione dell’Uomo è
progressiva e di conseguenza relativa. La Libera Muratoria non ammette alcuna
concezione come definitiva.” “Essa impone il dovere di cercare la verità.
Abbiate quindi un solo culto, quello della verità.”
Ecco, secondo me, le
fondamenta esistenti sulle quali abbiamo il compito di erigere, fraternamente
uniti la nostra Costruzione.
Il tempo, bisogna
rendercene conto, in realtà non si è mai fermato e non si ferma, e la
Massoneria, carissimi Fratelli, è un’Istituzione viva, la cui funzione storica
è di partecipare con uomini e con idee alla Costruzione della Società, e non ci
possono essere dubbi che per consentirgli di svolgere la sua funzione di
VEICOLO DELLA LIBERTA’ attraverso i secoli, non si può accettare che sia immiserita
da finalità limitanti, e tanto meno che venga soffocata da concezioni
dogmatiche ed irrazionali che hanno perduto, nel presente, la loro validità di
supporto e di incitamento a progredire, per l’Umanità.
Niente di ciò che riguarda
l’Uomo si può ritenere strettamente immutabile, ecco l’avvertimento del
Saggissimo Re Salomone.
Da tutto questo, allora,
carissimi Fratelli, discende anche, accettabile e ragionevole, che nessuna
delle due espressioni principali in cui abbiamo constatato si è manifestata la
Massoneria dal 18* secolo in poi, può avere attualità immutabile, tanto da
venir pedissequamente professata oggi.
Ve lo ripeto, miei cari
Fratelli: ciò che indica veramente la Linea della Tradizione Muratoria da
seguire è e rimane l’identità universale pervenutaci e simbolicamente
sintetizzata nel Trinomio dell’Affrancamento.
Sono invece proprio i
mezzi, cioè gli strumenti e le forme da usare per la costruzione di questa
idealità universale che debbono, mutare, proprio come si succedono nel tempo –
gli stessi Rituali ce lo insegnano – i vari stili architettonici.
Questi stili e questi
strumenti – proprio come si è potuto constatare quando è nata la Massoneria
Moderna – debbono essere rispondenti e tener in debito conto le tendenze, le
nuove acquisizioni conoscitive, il mutare dei valori semantici conseguenti ed
il continuo variare delle condizioni ambientali in cui i Liberi Muratori sono
chiamati, ogni giorno, concretamente a “progettare” e “costruire”.
La Libera Muratoria,
pertanto, se intende rifarsi alle idealità tradizionali, deve tornare ad essere
una unica Scuola di Costruttori di Cultura, deve cioè insegnare ai propri
Adepti l’uso degli strumenti adeguati e necessari per la Squadratura e la
Levigatura dell’Uomo, strumenti dai quali, oggi, non possono rimanere esclusi,
pena l’anacronismo culturale, gli “utensili” scientifici più avanzati, come –
per citarne alcuni – la teoria delle comunicazione, la cibernetica, la teoria
dei tipi logici, la biologia molecolare i quali, concepiti nella prima metà
circa del nostro secolo, già ora si annunciano come i più idonei per aiutare
l’Umanità ad uscire da quello che, per intenderci, può essere definito un altro
“Medio Evo”, ad uscire cioè dall’Evo del Meccanicismo dei Copernico, dei
Galileo e dei Newton, dal quale oggi stiamo faticosamente, ma più rapidamente
di quanto si possa pensare, emergendo.
Nel realizzare questa
Scuola di Liberi Muratori, validi costruttori di Uomini e di Società, la
Massoneria dovrebbe però tendere, con il massimo impegno possibile, alla formazione,
tra le Colonne del Tempio, di Uomini Liberati e Liberi, cioè di Uomini aperti,
responsabili, eticamente ineccepibili e culturalmente impegnati, che abbiano
vinto la loro battaglia interiore contri i noti uccisori di Hiram: l’ignoranza,
il fanatismo e l’ambizione, ed il cui supremo ideale sia, coerentemente,
l’emancipazione dell’Uomo e dell’Umana Famiglia.
Ed è con questi Uomini
Liberati e Liberi che la Massoneria, veramente unica ed universale nel mondo,
potrebbe essere allora in condizione di affermare, con sicurezza, la propria
identità universalistica, metapolitica e metà religiosa, riuscendo anche a dare
un valido contributo alla corretta soluzione dei problemi esistenziali
dell’Umanità.
* * * * *
Ma purtroppo, carissimi Fratelli, noi massoni italiani
siamo ben lontani, per ora, dal poter impostare, in modo costruttivo, questo
genere di discorsi.
Oggi, bisogna ammetterlo, è molto più importante,
anzi indispensabile, accontentarci di affrontare proprio quegli argomenti la
cui indefinibilità rende palese lo stato di confusione patologica che abbiamo
raggiunto, allontanandoci pericolosamente dallo spirito e dal contenuto
dottrinario dei nostri Rituali.
A questo proposito, mi sembra sia abbastanza
evidente e comprensibile la genesi della nostra dolorosa situazione, certamente
originata, in gran parte, anche dalla martellante ripetizione di frasi
assolutamente prive di ispirazione muratoria.
Non si può, per esempio, senza conseguenze gravi,
continuare ad affermare per anni, che bisogna spalancare le Porte del Tempio a
tutti, purché siano umili, tolleranti e benevolenti; che la costruzione del
“Tempio interiore”, per ogni singolo Fratello, è assolutamente libera ed
arbitraria; che la Massoneria ha sempre accolto, e quindi deve continuare ad
accogliere, indistintamente “progressisti e forcaioli”.
Ora, a prescindere dalle obiezioni immediate che si
possono formulare contro dichiarazioni del genere, le quali sono state, oltre
tutto. Esibite sconsideratamente anche al mondo profano, quello che a me sembra
opportuno è. Soprattutto, evidenziare, in questo caso, la necessità di cambiare
completamente l’impostazione del problema.
Nel proselitismo, per esempio, non deve essere,
secondo me, la Massoneria che accetta chiunque, qualunque cosa pensi purché
solvibile, per il raggiungimento di scopi personali dei quali poi in effetti
l’Istituzione si disinteressa quasi completamente.
Sono invece proprio i postulanti che, oltre ad avere
adeguate qualità etico-culturali, debbono accettare i principi che danno una
precisa identità alla Libera Muratoria, e debbono pure sapere che una volta
iniziato, hanno il dovere di impegnarsi al miglioramento di se stessi, per
l’affermazione di quelle finalità di affrancamento che da sempre la Massoneria
Universale indica al mondo intero.
Per quanto riguarda poi l’accettazione di
“progressisti e forcaioli”, mi sembra pertinente a questo proposito, ricordarvi
una frase che tutti avete sentito pronunciare dal Maestro Venerabile, quando
cercava di spiegare, a voi iniziandi, i principi fondamentali della Libera
Muratoria: “La tolleranza – vi disse allora il Venerabile – che noi
consideriamo la prima virtù del Libero Muratore, permette ad uomini di
carattere e di condizioni diverse, di sedere fraternamente in questo Tempio e
di lavorare per gli stessi scopi, col più assoluto, affettuoso, reciproco
rispetto.” Notate bene, carissimi Fratelli: “…di lavorare per gli stessi
scopi…” Ebbene, questi scopi non possono essere altri che quelli chiaramente
espressi dal Saggissimo e tre volte Potente Re Salomone: “L’abbattimento di
tutti gli idoli, di tutti i pregiudizi, di tutte le superstizioni, di tutte le
menzogne”, ed “un solo culto: quello della verità.”
Ecco perché, secondo me, è stato il risultato di una
malintesa tolleranza considerare sullo stesso piani di validità muratoria,
tanto le opinioni che stanno decisamente dalla parte dell’Uomo e della sua
elevazione, quanto quelle idee che sono in modo clamoroso contrarie alla sua
emancipazione.
Perché mi sembra molto evidente come sia ben
difficile che possano “lavorare per gli stessi scopi”, tanto coloro i quali in
una ideale mistica dell’Umanità cercano di migliorare se stessi nell’area della
libertà e della consapevolezza, quanto coloro che, invece, identificano il
miglioramento di se stessi con l’aspirazione alla supremazia sugli altri oppure
alla mortificazione nel soprannaturale, contrastando comunque, oppure ancora
aggravando irrazionalmente la soluzione dei problemi reali dell’Umanità.
Ed a proposito della tolleranza massonica, di cui in
questi ultimi anni tanto si è parlato e scritto, in modo ambiguo e
sconcertante, essa non può di certo venira interpretata come una passiva
accettazione di qualsiasi opinione altrui, e nemmeno mi sembra, può coincidere
con la, sempre disattesa, regola evangelica di offrire l’altra guancia a chi ti
colpisce.
Ed allora, stando così le cose, quando si cita, ad
esempio, la frase del Fr. Voltaire sulla libertà di espressione: “Io sono di
opinione completamente contraria alla vostra, ma sono pronto a morire purché
voi abbiate il diritto di professarla”, bisognerebbe che, per correttezza e per
completare il concetto, si aggiungesse pure un’altra espressione del nostri
illustre Fratello, il quale precisava che “per meritare la tolleranza bisogna
che gli uomini comincino con il non essere fanatici.”
Perché se è vero che vivendo di libertà non è
concepibile la limitazione della libera espressione altrui, anche se questi è
di opinione diversa dalla mia, tutto ciò non significa che, pur lasciando la
libertà di professare una certa idea, io rinunci a sostenere la mia; e se
l’altrui pensiero tende a sopprimere la libertà di espressione, oppure è
contraria al libero sviluppo umano dell’Uomo, non mi si dica di tacere, di non
dissentire e di non argomentare in modo da far comprendere a tutti come certe
predicazioni, anche ammantate di umanitarismo politico o religioso, sono in
effetti, contrarie alla consapevole responsabilizzazione esistenziale
dell’Uomo.
E, secondo me, poiché il Libero Muratore deve
essere, appunto, il responsabile padrone della sua vita e del suo futuro, dei
suoi vizi e delle sue virtù, della sua mente e dei suoi sentimenti, ritengo sia
abbastanza chiaro quali debbano essere i limiti della sua tolleranza verso
quelli che, con il loro fanatismo dogmatico, minacciano concretamente l’altrui
libertà di opinione e l’altrui libera ricerca della verità.
A questo punto mi sembra abbastanza interessante
citare, come esempio, una frase del Dott. Giovanni Caprile della Compagnia di
Gesù, in cui è detto cosa altri, diversi da noi massoni, intenda per libera
ricerca della verità e quali siano i dubbi e le incompatibilità che sorgono nei
riguardi della Massoneria da parte di chi è vero credente nella “Verità
Rivelata”.
“Resta da
chiarire – dice il Dott. Caprile – la questione di fondo, che non è secondaria
per noi cattolici: come debba intendersi la gnosi, che è un po’ l’anima della
formazione spirituale del massone, e se, e dentro quali limiti, possa essere
compatibile o meno con la sincera professione cattolica, se cioè va presa come strumento
di approfondimento o come affermazione dell’autonomia della ricerca dell’uomo,
senza ammettere che la salvezza viene dalla Grazia di Dio attraverso Cristo e
la sua Chiesa.”
Io condivido, a questo proposito, il ragionevole
desiderio di chiarezza del Dott. Caprile, e ritengo pure che sarebbe doveroso
ed onesto, da parte della Massoneria, fugare possibili dubbi su questioni di
fondo, le quali anche per noi sono certamente non secondarie.
Personalmente, ritengo che si potrebbe dire, senza
esitazioni, al Dott. Caprile, che per noi massoni la gnosi, cioè la ricerca
della verità, non può essere altro che l’autonoma, libera e sofferta
esplorazione dell’Universo, disponendo solo delle proprie capacità umane, e
dell’unico sistema fornito dalla natura agli esseri viventi per avere
conoscenza, espresso dalla semplice e modesta norma della prova e dell’errore.
Il Dott. Caprile, quindi, e tutti quelli che
eventualmente intendono bussare alla Porta del Tempio, sono ben liberi di
farlo, e la decisione riguarda unicamente la loro coscienza, ma è giusto che
sappiano esplicitamente prima di essere ammessi, che per noi massoni la
salvezza dell’Uomo non può essere che nell’accrescimento della sua autonomia
globale, e cioè nella sua emancipazione dai legami di dipendenza irrazionale
che ne limitano lo sviluppo umano; ed in quanto alla “Grazia di Dio attraverso
Cristo e la sua Chiesa”, salvo il rispetto della libertà di opinione per quanti
lo accettano come unico mezzo di salvezza, il massone, a mio avviso, non può
che considerarla decisamente riduttiva rispetto al livello di libertà che
intende raggiungere e professare.
Ora, poiché nella nostra Famiglia italiana non siamo
tutti d’accordo su queste impostazioni, non secondarie, perché molti sono
ancorati a tradizionalismi provenienti, come si è constatato, da altri tempi e
da altre storie, molto importanti in quei momenti, ritengo sia proprio il caso
di affrontare molto onestamente la situazione e chiedo, pertanto, che si parli
chiaramente ed approfonditamente su questi argomenti[GN1] ,
sia perché in mancanza di chiarezza è inevitabile la confusione o peggio, sia
perché se intendiamo veramente ritornare ad avere una precisa identità, secondo
le inequivocabili indicazioni dei nostri Rituali, e se vogliamo “lavorare
fraternamente insieme per gli stessi scopi con il più assoluto, affettuoso e
reciproco rispetto”, è indispensabile cercare di sanare le ambiguità
dottrinarie e di accantonare le sopravvivenze culturali anacronistiche.
Carissimi Fratelli, è venuto il momento in cui
bisogna convincerci che non potremo mai essere in condizione di contribuire a
porre le basi dell’evo futuro e di affrontare in modo produttivo i nostri temi
peculiari, che sono, in effetti, i grandi problemi della società in cui
viviamo, come, per esempio, la difesa dei diritti dell’Uomo, oppure l’ecologia,
intesa in senso globale, se prima non facciamo proprio nell’Ordine, tra di noi,
un po’ di ecologia culturale, combattendo i nemici di sempre: l’ignoranza, la
superstizione e l’idolatria.
Perché si può essere anche molto comprensivi nel
riconoscere l’importanza storica ed attuale, per le masse e per il singolo,
delle varie chiese politiche e religiose, e nel capire come possano essere
molti coloro i quali, trovando angoscioso o troppo difficile vivere,
responsabili di se stessi, senza inganni e senza pregiudizi, hanno bisogno di
sottomettersi a protettivi e mortificanti poteri, terreni o soprannaturali, nel
disperato tentativo di superare i propri disagi esistenziali.
Ma diventa, invece, molto difficile – perché secondo
me impossibile – conciliare l’idea che i Massoni debbano costituire la parte
più avanzata e più libera dell’Umanità e, nello stesso tempo, possano
appartenere ai grandi greggi formati da individui che, lungi dall’essere uomini
liberi, accettano acriticamente e senza discutere delle “verità”, solo perché
formulate dal Potere o dalla Divinità.
Ecco perché ritengo indispensabile la
chiarificazione e la puntualizzazione dei concetti che formano il supporto
basilare del contenuto affrancante, precisamente espresso nei nostri Rituali.
Ecco perché ho sempre ritenuto e ritengo tuttora
fondamentale la definizione di cosa debba intendersi con la parola libertà, nei
suoi vari livelli di emancipazione e nelle sue varie accezioni, prima di poter
affrontare un discorso rigoroso e soddisfacente sulla Massoneria.
E se credete che stia sbagliando, ditemi francamente
dove e perché; aiutatemi a comprendere il mio errore e ve ne sarò grato. Ma per
favore, parliamone. Perché sarebbe comunque molto bello, interessante e costruttivo,
tutti insieme portare a compimento questo dialogo fra noi, come accadeva nelle
antiche fratrie, in Loggia, scambiandoci le conoscenze acquisite, per poi
contribuire meglio, uniti fraternamente, alla non ancora esaurita missione che
abbiamo ereditato, di tenere viva, in un mondo di soprusi, di violenza e di
ignoranza, la Fiaccola della Libertà attraverso i secoli.
Affrontiamolo dunque, con maturità, seriamente e
pacatamente, questo dibattito generale per riaffermare, come si è già detto,
l’inequivoca identità della Libera Muratoria Italiana.
Sgombriamo, per quanto possibile, il nostro animo
dalle ambiguità, dalle contraddizioni, dalle dipendenze, dalle illusioni, e
sarà certamente più facile, allora, unificare gli strumenti del nostro Lavoro
Muratorio, e sarà più facile anche coordinare la fabbricazione del Tempio
dell’Umanità, secondo un progetto umano nel quale siano amorevolmente
rispettate le antiche, e pur sempre validissime regole architettoniche con le
quali si misura l’affrancamento dell’Uomo: la libertà individuale,
l’uguaglianza democratica, la fratellanza universale.
Ho la ponderata
convinzione che i doveri iniziatici con i quali, nell’ambito della Libera
Muratoria Universale, il Rito Scozzese Antico ed Accattato è vincolato all’Ordine,
cioè la Massoneria Azzurra, siano perfettamente enunciati e stabiliti nei
rispettivi testi statutari, ma che, invece, per un insieme di ragioni, siano
solo parzialmente conosciuti e praticati dai fratelli Scozzesi.
Poiché disattendere questi doveri, può avere delle
conseguenze negative sullo svolgimento dei Lavori iniziatici, ritengo non sia
vano richiamare l’attenzione su questa situazione. L’argomento sarà trattato
sommariamente: mi limiterò, quindi, ad esporne schematicamente i temi
principali, e sarò lieto se riuscirò a stimolare altri Fratelli ad esprimere la
loro opinione in proposito.
La Comunione muratoria italiana, come a tutti noto, è
composta dall’Ordine che può prendere anche i nomi di Massoneria Azzurra o
Simbolica, e dai Corpi Massonici Rituali fra i quali il Rito Scozzese Antico ed
Accettato. Tutti insieme, Ordine e Corpi Rituali riconosciuti, lavorano
iniziaticamente, secondo le finalità della Massoneria Universale che, come è
precisato nell’art. 1 della Costituzione dell’Ordine, “Intende
all’elevazione morale, materiale e spirituale dell’Uomo e dell’Umana
Famiglia.”
Ciò premesso, e continuando a dire cose note, si può
affermare che il Lavoro iniziatico della Massoneria Azzurra, nei tre Gradi che
compongono il suo iter, deve produrre, se adeguatamente e proficuamente seguito
dai suoi Adepti, il miglioramento individuale necessario per conseguire la
creazione di un Maestro Libero Muratore.
Appena un po’ più nel dettaglio, si può dire che, durante
l’Iter Iniziatico l’Adepto impara a conoscere se stesso e prendere coscienza
dell’Io; impara a servirsi degli strumenti simbolici e cioè apprende la
capacità di dominare se stesso, approfondisce la capacità di migliorare i
rapporti con gli altri esseri umani, fino a prendere coscienza dell’umanitá ed
infine nel Grado di Maestro Libero Muratore, l’Adepto è in condizione di
lavorare sulla Tavola da Disegno e cioè di progettare; potrà, in altre parole,
porsi in relazione con la natura, per costruire, con responsabile
consapevolezza, la propria visione del mondo, eticamente orientata, nella quale
vivere, continuare a crescere e sviluppare una coscienza che ha superato le
limitazioni dell’antropocentrismo.
Appare subito chiaramente che questo Lavoro iniziatico
affidato all’Ordine e che deve essere svolto fra le Colonne, nelle Logge, è un
percorso di apprendimento completo ed esaustivo, per conseguire la Maestranza e
cioè per ottenere la creazione di uomini i quali, dopo essere riusciti a
spostare i limiti del proprio interesse individuale, ed a costruire se stessi
secondo princìpi etici, sono in grado di operare, per il bene dell’Umana
Famiglia, con la Purezza di azioni impeccabili, con leale Fedeltà alla
Massoneria, con la Luce dell’Idealità, che è simboleggiata dal G.A.D.U.
Ma, viene ora spontanea la domanda: se la Massoneria
Azzurra realizza un ciclo iniziatico completo e che può essere conclusivo,
secondo le finalità della Massoneria Universale, cosa può restare da fare al
Rito Scozzese Antico ed Accettato?
Ebbene, da un attento esame dei Rituali risulta evidente
che, mentre all’Ordine spetta, come abbiamo accennato, la funzione di forgiare
uomini consapevoli, responsabili padroni di se stessi e della propria Maestria,
con un Lavoro iniziatico che l’Adepto deve fare su se stesso e cioè tutto
incentrato nel perfezionamento individuale a vari livelli di coscienza, al
R.S.A.A. sono assegnati vari altri adempimenti che possono essere distinti in
due compiti specifici e molto diversi fra loro.
Un tipo d’impegno, che si può dire speculativo, è di
conferma e di approfondimento della Maestria conseguita nell’Ordine, mirante ad
un più complesso perfezionamento iniziatico individuale, ma c’è anche un altro
tipo di Lavoro, non meno importante, che si può definire, senza dubbi,
operativo. Questo Lavoro operativo, che è ancora individuale, comporta
l’assunzione di precise responsabilità da parte d’ogni singolo Fratello
Scozzese ed è fatto, rigorosamente., nell’interesse di tutta la collettività
iniziatica.
È sufficiente rileggere i Rituali delle Logge di
Perfezione e delle Camere Superiori per individuare subito le esortazioni
riguardanti quest’impegno operativo.
Già nella Loggia di Perfezione dei Maestri Segreti, al
quarto Grado, inizia l’impostazione di questo Lavoro. Si ritiene, infatti, che
il Maestro Segreto, passato dalla Squadra al Compasso, sia diventato
“capace di meglio misurare le proprie azioni” ed avendo visto la
Tomba di Hiram, conosca bene le nefaste conseguenze dell’ignoranza, del
fanatismo e dell’ambizione, tanto bene da essere in condizione di saperle combattere
adeguatamente e di aiutare i fratelli a fare altrettanto.
Ed è per questa ragione che il Maestro Segreto viene
eletto, anche, Custode del Tempio; in altre parole, gli si chiede di essere
particolarmente attento e responsabile per quanto riguarda il proselitismo
proprio nell’Ordine, infatti, nella sua qualità di Maestro Segreto – è il
Rituale che lo dice – deve ormai conoscere bene quali materiali possono essere
accettati, perché il Tempio s’innalzi alto e sicuro, a gloria del G.A.D.U.
E nelle istruzioni, sempre per i Maestri Segreti, sono
chiaramente indicati quali debbono essere i loro precisi doveri: praticare la
virtù, istruire e sorvegliare gli operai, conservare il silenzio e migliorare
le proprie convinzioni.
Salendo, poi, i gradini della Piramide rituale, i temi
“operativi” e cioè i compiti da assolvere per il bene della
Massoneria, si fanno sempre più espliciti e sono specificati indicando le
finalità della Libera Muratoria ma, anche, segnalando le carenze che si possono
riscontrare nel Lavoro iniziatico dei Gradi inferiori, alle quali lo Scozzese
deve, con cauta premura e ponderatezza, cercare di opporsi inducendo i Fratelli
di Loggia a comprendere, correggere e lavorare proficuamente. Il Rito, per
mezzo dei Rituali, dice espressamente che il dovere di ogni Scozzese è vigilare
ovunque, opponendosi, con la dovuta discrezione, a tutto ciò che è contrario al
bene iniziatico dell’Ordine ed agli scopi della Massoneria Universale.Dovere
preciso degli Scozzesi è contribuire, usando tutto il riguardo e la premura
necessari, all’educazione massonica dei Fratelli di Grado inferiore sia nelle
Logge sia nel Rito.
Sappiate Fratelli – ci dicono ancora i Rituali – molti
sono i massoni che parlano, sentono ma non agiscono. Per loro non vi è vittoria
su se stessi, né progresso. Occuperanno, durante tutta la vita, un posto in
Loggia e mai saranno più massoni di quanto lo erano nel primo giorno della loro
Iniziazione al Grado di Apprendista. Attenzione, vi sono anche massoni che non
sentono un vero attaccamento alla Massoneria, perché non la comprendono. Aiutiamoli
tutti questi Fratelli a capire, a migliorare se stessi, a ritrovare
l’entusiasmo che avevano quando bussarono alla Porta del Tempio. A questo
punto, anche se sono stati evidenziati solo alcuni dei numerosi moniti
rintracciabili nel Rituali del R.S.A.A., risulta evidente quanto debba essere
importante l’opera degli Scozzesi nelle Logge dell’Ordine, per favorire il
conseguimento di buoni risultati iniziatici. I Fratelli Scozzesi non possono
fare a meno, se non l’hanno già fatto, di prendere atto delle responsabilità
che, senza ombra di dubbio, sono chiamati ad assolvere. Forse, però, è
necessario fare un po’ di chiarezza anche su di un comune malinteso fuorviante.
Secondo me, è troppo drastica l’interpretazione che
alcuni Fratelli Scozzesi danno a quella che è, e che deve essere, l’assoluta ed
intangibile indipendenza dell’Ordine dal R.S.A.A. Questa interpretazione, se
mal compresa, può portare gli Scozzesi verso una insensibilità, ed in certi
casi al completo disinteresse, nei riguardi dello stato di salute iniziatica
dell’Ordine. E questo è né giusto né buono.
L’attenzione che gli Scozzesi hanno il dovere di
esercitare sul proselitismo e sul buon andamento dei Lavori iniziatici nelle
rispettive Logge, non può, assolutamente, venir considerata un’ingerenza nella
vita dell’Ordine perché, come è chiaramente espresso negli Statuti del
R.S.A.A.: “Il Supremo Consiglio (del Rito), non s’ingerisce nella
legislazione, nell’organizzazione e nell’amministrazione della Libera Muratoria
simbolica tradizionale e regolare, nonché delle Logge che la
costituiscono”; e su questo non possono esserci dubbi o riserve. Ma, per
tutto quello che riguarda la pratica dottrinaria e le finalità iniziatiche da
raggiungere, fra l’Ordine ed il R.S.A.A., non ci può essere che la più fraterna
collaborazione perché, in effetti, si tratta di realizzare gli stessi scopi
della Massoneria Universale.
Ecco perché è naturale, lecita ed opportuna la vigile e
misurata attenzione degli Scozzesi nel riguardi del Lavoro iniziatico nelle
Logge; azione, certamente moderata e discreta, che deve, essere sostenuta, e
questo è un punto fondamentale, da un continuo ed approfondito studio, facente
parte dei Lavori nelle Camere rituali, che sviluppi nei Fratelli Scozzesi, una
sicura e maturata conoscenza della Libera Muratoria, nella sua storia, nel suoi
simboli, nella sua morale ma anche, primariamente, in tutto ciò che riguarda la
Via Iniziatica seguita dall’Ordine.
E, certamente, di non minore importanza è la funzione di
sorveglianza attenta, cauta e prudente verso il proselitismo, per evitare, nel
modo più efficace possibile, errori di scelta che, com’è ben noto, si pagano,
molto spesso senza rimedio, con guai a non finire per tutta la Comunione.
Queste funzioni operative del R.S.A.A., in effetti,
trovano la loro piena giustificazione, come già detto, in una visione globale
dell’Istituzione e cioè nel solo ed esclusivo interesse della Massoneria
Universale.
Ogni eventuale indebolimento nella capacità formativa
dell’Ordine ha, come conseguenza, la creazione di Maestri Liberi Muratori
sempre meno ineccepibili, sempre meno preparati per i compiti che li aspettano.
E, soprattutto, senza Maestri Liberi Muratori, non ci
sarebbe più nemmeno la Massoneria; ci sarebbe solamente un’associazione profana
che usurperebbe un nome prestigioso ed autorevole e che farebbe tante altre
cose, meno quella di aiutare i propri Adepti a seguire, con profitto, una
precisa Via iniziatica
Un appello, quindi, ai Fratelli Scozzesi, a quelli che
non si stanno già adoperando al conseguimento dei fini sopra accennati: con la
responsabile consapevolezza che ha sempre distinto il R.S.A.A. nella storia
della Massoneria Universale, adempiamo i doveri indicati dai Rituali e
portiamo, con affettuosa premura, tra le Colonne delle rispettive Logge di
appartenenza, tutto quell’entusiasmo, quel fervore, quell’alto grado di
esperienza umana ed iniziatica maturate durante la lunga militanza nella Libera
Muratoria. È vero che alla fine di questo millennio ci troviamo ad affrontare
una crisi spirituale planetaria, ma è proprio per questa ragione che diventa
ancora più inderogabile ravvivare e potenziare le capacità iniziatiche della
Massoneria Universale, perché possa dare, come sempre nella storia, un
contributo, forse decisivo, di uomini preparati, generosi e tolleranti, per un
migliore futuro di tutta l’Umanità.
Persona
cui è affidata l’educazione dei fanciulli nella scuola elementare, o che
esercita l’insegnamento nell’ambito di speciali discipline o attività.
Persona che in virtù delle cognizioni e delle esperienze acquisite risulta all’
altezza di contribuire in tutto o in parte all’ altrui preparazione o
formazione. (Devoto – Oli)
Molte sono le tipologie del Maestro e molti sono i Maestri che incontriamo
sulla nostra via: da tutti impariamo una lezione. Si comincia con la madre e le
persone di famiglia, e poi i maestri istituzionali, gli amici, i conoscenti e i
passanti tutti.
Alcuni ci educano (ex ducere = portare fuori, evidenziare), valorizzando
e portando alla coscienza le nostre qualità nascoste, quelle di cui noi stessi,
fino al loro intervento, non ci rendiamo pienamente conto.
Altri ci istruiscono (in struere = dare una forma, costruire), vale a
dire che sono portatori di informazioni, di qualsivoglia natura, che inducono
un piu’ o meno importante cambiamento del nostro modo di interpretare il Mondo
e talvolta ci cambiano la vita.
Ogni giorno della nostra esistenza e’ un continuo imparare a cambiare e
i nostri giorni sono fitti di Maestri: la maggior parte sono immanifesti mentre
altri, assai più rari, ci lasciano una emozione cosciente e sono questi che
siamo in grado di riconoscere e di definire Maestri.
Maestro è chi ci insegna a leggere e scrivere e chi, con l’esempio, ci illustra
una virtù.
Maestri sono il malfattore che non vorremo mai imitare e l’amico che ci fa
notare un nostro difetto.
Maestro è chi ci irrita con un comportamento che, scoprendolo in noi stessi,
subito correggeremo.
Si potrebbe continuare all’infinito perché infiniti sono gli insegnamenti lungo
la via. E sono sempre insegnamenti “buoni” perché non esistono
veramente i “cattivi Maestri”: esistono piuttosto le nostre cattive
interpretazioni che rischiano di indurci in errore quando il Maestro che è in
noi, la nostra Coscienza forse, soggiace a suggestioni che ci distraggono dal
“costruire templi alla virtù” e dallo “scavare oscure e profonde
prigioni al vizio”.
Comunque si spazia da insegnamenti “pratici-operativi” ad altri
sempre più attinenti alla sfera morale e spirituale che tuttavia in Occidente
non conoscono dei veri Maestri, né Scuole di spiritualità. Forse è questa una possibile
interpretazione della “parola perduta”, bruciata sui roghi
dell’Inquisizione con tutto l’esoterismo cristiano.
In Oriente, presso culture in cui il “sentire” tradizionale è ancora
vivo, dove exoterismo ed esoterismo rappresentano i due inseparabili aspetti di
un’unica realtà, ovvero la
Tradizione, la “parola” non è andata “perduta”
e si trovano ancora Maestri spirituali.
Per i Sufi, la presenza del Maestro inteso come persona fisica che, nell’ambito
di una Scuola, istruisce in vari ed opportuni modi i discepoli, e’ qualcosa di
assolutamente irrinunciabile. “L’acqua” – dicono – “non
si può riscaldare direttamente sul fuoco: è necessario un recipiente“,
così al vero Sapere non si può in alcun modo accedere con una ricerca
solitaria: esso deve necessariamente essere impartito da un Maestro.
E giungiamo ad altre definizioni di Maestro: Operaio qualificato che ha alle sue dipendenze un certo numero di manovali o
lavoranti.
Capo, guida; termine oggi vivo soltanto come titolo di cariche o particolari
dignità: es. Gran Maestro della Massoneria. (Devoto – Oli)
Il Libero Muratore che si ritiene abbia imparato a lavorare e squadrare la
pietra, in cui lo Spirito domini la
Materia e che con modestia porti, giorno per giorno, il suo
contributo all’edificazione dell’Opera, perviene al grado di Maestro.
Non credo di aver mai “meritato” il titolo di Maestro: penso
che nessuno senta veramente di meritarlo. Possiamo solo cercare di esserne
degni in una prospettiva futura, sostanzialmente ideale e pertanto
irraggiungibile: non c’è e non può esserci limite alla possibilità di
progredire.
Il Maestro Libero Muratore, a differenza del Maestro orientale, non insegna
dunque nulla di più di quanto possa insegnare un qualunque passante che, col
suo comportamento, stimoli la sensibilità di chi casualmente lo incontra. E qui
ci sovviene la teoria junghiana della sincronicità, per cui nulla (o quasi)
accade senza uno scopo nascosto, e spetta a ciascuno di noi trovare il
significato e l’ammaestramento profondo implicito nel verificarsi di una certa
esperienza.
Non potendo contare su Scuole e Maestri che ci istruiscano, mancando anche di
qualsiasi collegamento con un exoterismo che sia espressione di una Tradizione,
che nella nostra Cultura e’ sostanzialmente perduta, non possiamo che affidarci
al Maestro interiore che e’, di norma, difficile da ascoltare ed il cui
insegnamento e’, come affermano i Sufi, quanto di più soggettivo ed aleatorio
si possa immaginare.
Tuttavia, nel nostro attuale contesto, non possiamo che essere, fatalmente, solitari
Maestri di noi stessi, con tutti i rischi che questa situazione comporta.
Ciascuno sul proprio cammino: “selva oscura” piena di
incertezze e di inganni.
Orfani di ogni Guida siamo tuttavia sorretti dalla consapevolezza di non essere
soli, avvertendo la presenza delle Sorelle e dei Fratelli che avanzano attorno
a noi, ed i cui lumi talora ci fanno meglio intravedere la “diritta via
ch’era smarrita” e che ci condurrà, forse, un giorno, “a
riveder le stelle“.
IL SIGNIFICATO DELL’IMPEGNO
MASSONICO NELLA CREMAZIONE
Questa Tavola approfondisce l’argomento
“cremazione”, nonché il rapporto tra “cremazione” e i “liberi muratori”, così
come si è storicamente sviluppato. Solo marginalmente si parla della Società
per la Cremazione di Torino.
SOMMARIO:
1) La cremazione nella storia
2) La cremazione nel secolo scorso
3) La cremazione, il cristianesimo e la
chiesa cattolica
4) La cremazione oggi
5) La scelta cremazionista nella visione
massonica della vita
6) Il culto laico della memoria
7) 1 massoni e la cremazione in Italia,
8) Riflessioni conclusive ieri e oggi
1) LA CREMAZIONE NELLA STORIA.
La cremazione è un rito antichissimo che
nasce agli albori della civiltà.
Ha origine in Oriente nel neolitico:
circa 150.000 anni fa. L’uomo di
Neanderthal, che certamente conosceva il
fuoco, probabilmente la praticava.
Sicuramente l’ha praticata l’homo
sapiens di Cromagnon: circa 50.000 anni fa. Ci sono infatti tracce di
cremazione di cadaveri umani di quell’epoca.
Nasce con l’uomo nomade: quando da
raccoglitore l’uomo è diventato cacciatore. Spostandosi continuamente in un
habitat che non conosceva, probabilmente, non voleva che il corpo dei propri
cari diventasse preda degli animali che lui cacciava e forse anche perché aveva
scoperto che il fuoco ha una forte valenza rituale.
La cura e il culto dei defunti hanno
infatti costituito, fin da allora, uno dei segni
più evidenti del processo di
coscientizzazione e civilizzazione del genere umano.
Quando l’uomo scoprì l’agricoltura e
ritornò ad essere stanziale mantenne questa
forma funeraria, che ormai faceva parte
della sua tradizione culturale.
La cremazione, dall’Oriente ove era
nata, si estese in Occidente, portata dai mitici Ari, e qui fu praticata per molti
millenni.
Si diffuse presso diverse civiltà
mediterranee (greca, etrusca e romana) e ovunque venne considerata un rito di
purificazione e di onore.
Fin da allora fu largamente applicata
anche presso le popolazioni non mediterranee: slave, scandinave, celtiche,
ecc..
Le popolazioni precolombiane la
esercitavano abitualmente sino all’arrivo dei
“‘civilizzatori”.
Presso questi popoli indoamericani la
pratica si basava sulla credenza secondo
cui la colonna di fumo che si elevava
dalla pira consentiva al defunto di salire al cielo: una sorta di liberazione
dal mondo temporaneo e provvisorio.
Nel mondo romano la cremazione
all’inizio era un rito nobilissimo riservato agli
eroi e alle persone illustri.
Successivamente si estese e divenne patrimonio delle classi nobili e patrizie:
solo i ricchi potevano permettersi i fasti delle sontuose cerimonie funebri e la pira di legni preziosi irrorati
di balsami. Lo sfarzo di questi riti creò una distinzione tra i ricchi e i
poveri.
In India è ancora così: i poveri non
vengono cremati perché non possono pagarsi
la cremazione. Nel buddismo la
cremazione è così importante ed onerosa che in pratica se ne esclude l’accesso
ai poveri.
Anche i popoli di cultura ebraica, per i
quali il fuoco era simbolo del sacro,
consideravano la cremazione un onore
straordinario da riservare ai re e agli eroi: Saul, Asà, Mosè, Davide,
Salomone, come si legge negli scritti di S. Gerolamo. Non doveva quindi essere
praticata dal popolo. Anche le due religioni nate dal ceppo abramico, il cristianesimo
e l’islamismo, non l’adottarono.
Con la diffusione del cristianesimo e
dell’islamismo, in pochi secoli, nell’area mediterranea la cremazione venne
praticata sempre meno. Già nel VI secolo, in
Occidente, l’uno e l’altro rito funebre
erano praticati quasi in egual misura perché il cristianesimo, poco a poco,
impose l’inumazione in tutta l’Europa.
Infine Carlo Magno interdisse di
bruciare i cadaveri e così, prima dell’anno
1000, la cremazione scomparve pressoché
in tutta l’area mediterranea.
Fu solo saltuariamente praticata, in
modo collettivo, in occasione di epidemie,
terremoti e sui campi di battaglia.
Rimase come strumento della Chiesa per
punire i sostenitori del libero pensiero: Jacques de Molay, Arnaldo da Brescia,
Frà Dolcino, Savonarola, Giordano Bruno, ecc.
2) LA CREMAZIONE NEL SECOLO
SCORSO
Nel ‘700, con la rivoluzione
industriale, in tutta l’Europa nasce l’urbanesimo. Le
popolazioni rurali si accalcano nelle
città, ove i cimiteri tradizionali diventano
insufficienti.
Fino ad allora i cadaveri si inumavano
nelle chiese (i ricchi e i nobili) o nelle aree esterne attigue (i servi e i
poveri) ma con l’urbanesimo ciò non fu più possibile. Si
ricorre alle fosse carnarie collettive,
destinate alla putrefazione in massa all’interno
dell’abitato, nelle quali i cadaveri
vengono buttati alla rinfusa.
Nei paesi della Riforma, dove
culturalmente si è più liberi e meno dogmatici, il problema viene visto in
un’ottica diversa: si comprende che è il momento di tornare
alla cremazione e se ne comincia a
discutere a livello scientifico.
Anche in Francia, con gli Illuministi e
con la Rivoluzione, si riprende a parlare della cremazione, ma con la
Restaurazione il dibattito si arresta.
All’inizio dell’Ottocento nasce il
Codice Napoleonico: si creano dei nuovi cimiteri fuori dell’abitato e sotto il
controllo pubblico ma la cremazione non viene considerata.
Nella seconda metà del secolo scorso,
anche in relazione alle scoperte di Pasteur,
un buon numero di scienziati e di
medici, in maggior parte massoni, propongono il
ritorno alla cremazione.
Contemporaneamente nasce a livello
europeo il movimento cremazionista, i cui
propugnatori furono:
spiriti umanitari che agiscono a tutela della
dignità umana. In un documento dell’epoca si legge: “mossi sia da pietà verso i
defunti, sottraendone le spoglie dal disfacimento nella putrefazione e sia da
pietà verso i superstiti, evitando che il ricordo dello scomparso sia
rattristato e contaminato dalla terribile immagine di una lenta, orrenda e sotterranea
tragedia”;
liberi pensatori che nella cremazione vedevano
la possibilità di affermare una morale laica della morte, che riconoscesse ad
ogni uomo pari dignità di fronte alla morte, indipendentemente dal suo censo,
dalle sue idee e dai suoi convincimenti religiosi;
laici
che si prefiggevano di sottrarre dal potere ecclesiastico la gestione, fino ad allora
in esclusiva, del dolore e del lutto;
uomini
di scienza preoccupati della salute dei vivi;
pubblici amministratori, che dovevano
risolvere problemi territoriali, igienici e urbanistici.
In quegli anni, dal multiforme magma
libero muratorio e libero pensatore, il
movimento cremazionista prende vita
anche in Italia.
Nel 1873 il Senato italiano, sotto la
spinta di parecchi Fratelli e in particolare del
Gran Maestro Giuseppe Garibaldi, vota
una prima legge, che verrà in seguito
perfezionata, che autorizza la
cremazione. La prima cremazione legale in Europa ha avuto luogo il 22 gennaio
1876 a Milano.
La cremazione entra ufficialmente
nell’ordinamento italiano mediante la legge
sanitaria Crispi – Pagliani (entrambi
massoni) del 1888, che l’ammette e la legittima a pieno titolo, come scelta
facoltativa, così come lo è ancora oggi.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento il
movimento di opinione che promuove la
cremazione si diffonde rapidamente in
Europa. Le motivazioni non sono solo quelle di modernità, di igiene e di
razionalità ma anche quelle dettate da una nuova pulsione morale, dalla
necessità di dar rilievo ad una sacralità laica, di affrontare il problema della
morte in modo civile e liberati dalla paura della dannazione. In definitiva si scopre
un nuovo senso della storia e della evoluzione umana e c’è la consapevolezza che
è intervenuto un cambiamento nell’immagine del mondo e che sono mutati i rapporti
tra l’uomo e la natura.
Il numero delle salme cremate
nell’ultimo decennio del secolo testimonia un momento di grande impatto per la
cremazione.
3) LA CREMAZIONE, IL
CRISTIANESIMO E LA CHIESA CATTOLICA
L’idea che il fuoco sia la via
privilegiata per ascendere al mondo degli dei è
presente nella cultura occidentale
precristiana sin dalle origini.
Negli oracoli caldaici la divinità
suprema veniva teorizzata come un fuoco che si
trovava nei cicli e che riversava il suo
soffio agli esseri umani attraverso canali di
fuoco.
Nel cristianesimo non ci sono argomenti
di fede che contrastano con la
cremazione, anche se il cristianesimo
nascente non l’adottò. Ciascuno era libero di
continuare la originaria tradizione
ebraica (cremazione esclusa per il popolo) oppure di seguire la tradizione cremazionista, da
millenni presente in Occidente. I primi
cristiani venivano infatti seppelliti o cremati, secondo le usanze praticate
presso le diverse comunità locali. Nel
Tempio Crematorio di Torino si trova un’urna
cineraria cristiana dell’epoca romana.
La chiesa cattolica non fu mai contraria
alla cremazione per motivi di fede,
poiché nulla ha predicato il Cristo
circa la destinazione del corpo.
Il corpo di Cristo fu posto in un
sepolcro, unto con oli e balsami che dovevano
impedirne o rallentare il disfacimento.
Onoranza non comune, riservata ai ricchi e che non poteva certo essere assunta
a regola, perché non applicabile a tutti, specie ai più umili che costituivano
il gruppo originario del cristianesimo.
Occorre tuttavia fare una riflessione:
la mancata libertà di scelta, negli ultimi duemila anni, circa il destino del
proprio corpo non è stata solo una questione politica o di potere ma ha anche
radici culturali più profonde.
L’interpretazione simbolica del fuoco,
purificazione per taluni e simbolo del male per altri (il fuoco dell’inferno),
fu decisiva.
Nel Vangelo (Matteo III .11) è riportato
che Giovanni Battista ha detto: “io vi battezzo con l’acqua ma Colui che viene
dopo di me vi battezzerà nello Spirito Santo e nel fuoco”. Infatti nella
visione ebraica e in quella protocristiana la natura del fuoco era la stessa
del sacro: Dio si manifestava con segni di fuoco (rovi ardenti, pioggia di fuoco,
ecc.).
S. Agostino dice “ardescimus ed imus”,
cioè ci incendiamo e saliamo verso il
cielo.
Successivamente e gradualmente, con la
fine della tensione escatologica, l’interpretazione simbolica del fuoco passò
da simbolo del sacro e della purificazione a simbolo del male e a motivo di
terrore. Nel contempo il cristianesimo, che inizialmente era costituito da
comunità locali, adottò una struttura gerarchica centralizzata che
inevitabilmente divenne un centro di potere, con connessioni con la società
politica, fino a diventare, nel 313, un elemento portante dell’impero romano, con
l’editto di Costantino.
Altra riflessione: in tutti questi
secoli la chiesa cattolica ha sempre gestito l’hora
mortis, ì funerali, il dolore e il
lutto. Eventi dolorosi nei quali le popolazioni subivano, spesso terrorizzate,
il condizionamento dell’oscurantismo clericale e della
superstizione religiosa. 1 cadaveri sono
stati, per secoli e fino all’inizio dell’800,
inumati o tumulati nelle chiese o nelle
aree attigue o nelle immonde fosse carnarie.
Fino al settecento era infatti la Chiesa
ad occuparsi dei funerali.
All’inizio dell’ottocento vengono
costruiti i primi cimiteri pubblici. Questi luoghi della morte vengono chiamati
“campo santo”, perché dopo la caduta di Napoleone, anche gli ordinamenti laici
del Codice Napoleonico caddero in desuetudine.
La “celebrazione della morte” ritorna
nuovamente ad essere un monopolio ecclesiastico esclusivo: nel “campo santo”
non possono essere destinate le salme di
coloro che sono considerati eretici,
degli ebrei, dei protestanti, degli acattolici, dei
bambini morti prima del battesimo, dei
suicidi, dei pubblici peccatori, dei morti in
peccato mortale, dei giustiziati e di
coloro che prima di morire non si convertono, di quelli che rifiutano i
sacramenti, ecc.
Per tutti questi esclusi c’è un ghetto
in una parte del cimitero, separato da un alto
muro. È
il cosiddetto cimitero degli “acattolici”.
I laici, i liberi pensatori e i massoni
dell’ottocento non possono accettare questo
stato di cose. Il ruolo delle élites
cremazioniste va visto infatti anche nel quadro
dell’antagonismo del pensiero liberale
post-unitario nei confronti della Chiesa e del
suo apparato. La propaganda e la pratica
della cremazione, per le quali i massoni si impegnarono, avevano anche la
finalità di impedire ogni ricatto religioso al momento della morte, nei
confronti di chi era ormai in pericolo di vita e dei suoi familiari.
Naturalmente questa situazione di
antagonismo indusse il S. Uffizio, con un
documento del 1886, a ostacolare la
cremazione, negando le esequie a chi l’aveva
scelta.
Oggi, dopo oltre un secolo,
l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cremazione è notevolmente
cambiato. Nel 1963, Paolo IV in occasione del Concilio
Vaticano II revoca la scomunica, un
gesto di ecumenismo soprattutto verso i cattolici dell’area anglosassone, ove
la cremazione da molti anni si era spogliata nelle caratteristiche
antireligiose.
Attualmente in Italia la gerarchia
cattolica guarda ancora con sospetto e diffidenza le associazioni
cremazioniste.
Gli integralisti tentano talvolta qualche
sortita anacronistica, come ha fatto il Cardinale Saldarini alla omelia per la
Ricorrenza dei Defunti nel 1995, che ha costretto a rispondere ufficialmente
con una lettera aperta, pubblicata da “La Stampa”. Sono tuttavia dei “colpi di
mano”, perché il movimento cremazionista oggi non appare più come una risposta
al predominio ecclesiastico del secolo scorso in materia di sepolture, a
raccoglie sostenitori provenienti da diversi percorsi intellettuali.
Anche tra i cattolici si comincia a
vedere nella cremazione un rito di pari dignità.
Da un questionario distribuito ai Soci
SOCREM di Torino nel 1994, il 77% si definiva credente.
Tra i Soci ci sono dei sacerdoti
cattolici e in alcuni funerali le famiglie chiamano
il prete per la celebrazione dei riti
funebri all’interno del Tempio Crematorio.
4) LA CREMAZIONE OGGI
La spinta, data nel secolo scorso,
all’idea cremazionista non si è più esaurita in
Europa, mentre in Italia subisce un
assestamento nei primi anni del 900 per poi avere una flessione durante il
fascismo.
Il movimento cremazionista è oggetto di
opposizione politica per la ribadita
condanna da parte della Chiesa, ormai
alleata con il “potere” attraverso i Patti Lateranensi, che compromettono e
infrangono la laicità dello Stato sorto dal Risorgimento.
Fino all’ultimo dopo guerra, cioè fino
agli anni 50 e 60, in Italia la cremazione ha connotato non solo la cultura
massonica ma anche tutte le culture antagoniste e
conflittuali nei confronti della morale
dominante, da quella anarchica a quella del
movimento operaio. Essa divenne una
scelta specifica per le passioni libertarie e anticonformiste che, tra le due
guerre mondiali, confluiscono nell’antifascismo.
Oggi, alle soglie del 2000, in Italia
l’opinione cremazionista non appare più come la riproduzione pura è semplice di
quella identità. Molti degli spunti ideologici che animarono il dibattito di
fine secolo sono stati progressivamente e in buona parte
superati e sì è sgonfiata la tensione
clericalismo/anticlericalismo di allora.
In questo fine secolo la cremazione si
sta rivelando, in tutto il mondo
occidentale, come la pratica funeraria
più civile e anche la più idonea alle esigenze
della società contemporanea, nella quale
non è più possibile sottrarre la terra ai vivi di domani per darla ai morti di
oggi. La cremazione infatti si impone anche come l’unica e concreta soluzione
dei problemi cimiteriali, igienici è urbanistici.
Negli anni 2000 la cremazione in
Occidente ritornerà ad essere prevalente, come
lo era duemila anni fa.
Copenaghen è la città europea con il più
alto tasso di cremazione: 90%, molto
prossimo alla media giapponese, che si
aggira sul 98%.
La media europea è del 31%, con punte
del 70% in Gran Bretagna.
In Italia, ove il movimento
cremazionista ha ripreso i suoi primi passi solo negli ultimi 20 – 30 anni, il
tasso è del 2,8% ma sta diventando, gradualmente, un
significativo e rilevante fenomeno
sociale. Da noi la cremazione, unico caso in Europa, è diventata (dal 1987)
servizio pubblico gratuito che compete a tutti i cittadini perché le spese sono
a carico dei rispettivi Comuni di residenza.
Confortante è la situazione di Torino:
si è già superato il 21%, certamente anche per l’intensa azione di promozione
sociale e culturale svolta dalla SOCREM.
Occorrerà però che gli italiani non
ostacolino la loro evoluzione culturale, sappiano cioè affrancarsi dai
pregiudizi e dal “tabù” della morte.
5) LA SCELTA CREMAZIONISTA NELLA
VISIONE MASSONICA DELLA VITA.
La nostra società sta attraversando una
fase storica caratterizzata dalla perdita del
senso del sacro, dei valori legati alle
virtù civili e al vivere in modo consapevole il
proprio destino.
I nostri Fratelli del secolo scorso ci
hanno insegnato che chi sceglie la
cremazione afferma il diritto di poter
scegliere la destinazione del proprio corpo. In
questa scelta vi è il rifiuto di
considerare la morte come un semplice adempimento
burocratico da lasciare ad “altri”.
Chi sceglie la cremazione afferma,
implicitamente, l’autonomia dell’individuo
nei confronti della
“istituzionalizzazione” della morte.
Il non delegare, assumere la decisione
di scegliere personalmente, dà a ciascuno
di noi una maggior coscienza, una intima
consapevolezza e una più vigile attenzione verso la propria esistenza,
presupposto per un miglior apprezzamento della vita e delle cose realmente
importanti che ci offre.
La cremazione non si sceglie
sbadatamente, comporta una riflessione e una
decisione autonoma, propria di chi si è liberato dal tabù della morte.
Soffermarsi sul problema della morte
significa aprire gli occhi sulla realtà della
vita.
Montaigne, autore del 1500, non certo di
scuola cattolica, anzi precursore del
laicismo come oggi viene inteso, fa
questa riflessione di sapore massonico:
“E incerto dove la morte ci attenda,
aspettiamola dovunque. La meditazione
della morte ha disimparato a servire. Il
saper morire ci libera da ogni soggezione e da ogni legame”. (Saggi 1. XX).
Il significato del messaggio di
Montaigne, di sorprendente attualità, è questo:
acquisire la consapevolezza della
propria morte rende l’uomo interiormente libero.
Questa consapevolezza gli toglie ogni
motivo di soggezione verso la morte e lo libera
da molti vincoli convenzionali verso gli
altri.
Egli apprezza di più quello che la vita
gli offre, vive la vita con più realismo e anche con più sicurezza in se
stesso, perché diventa padrone della propria vita non è più succubo della paura
della morte.
La riflessione e la ricerca
intellettuale sono parte integrante del bagaglio etico di
chi, come il massone, vuol dare un senso
compiuto ai grandi temi della vita e della
morte, di chi cerca di capirla, la
morte, è non semplicemente subirla tra ansie e paure.
Chi sceglie la cremazione è in
contrapposizione al servile attaccamento di troppi
uomini (noi li definiamo “profani”) di
fronte ad una vita vissuta nella mediocrità,
senza slanci e senza grandi pulsioni, in
pratica intesa come semplice sopravvivenza.
“Noi abbiamo goduto la vita e la vita
gode di voi, noi l’abbiamo posseduta, ed
essa vi possiede. Voi ci tenete come ad
un’amante che si è mai spogliata davanti a
voi”, dice l’Aristocratico condannato
alla ghigliottina nei Dialoghi delle Carmelitane
di George Bernanos.
Noi massoni dovremmo un giorno poter
dire: “L’abbiamo posseduta questa amante”.
6) IL CULTO LAICO DELLA MEMORIA.
La cremazione non è solo una forma
funeraria alternativa: è difesa della sacralità
della morte, è tutela della dignità di
essere umano dello scomparso ed è rispetto per il dolore di chi gli sopravvive.
Chi sceglie la cremazione non solo
intende sottrarre le proprie spoglie dall’orribile disfacimento nella
putrefazione ma vuole evitare che questa orrenda immagine rattristi il ricordo
di se in chi gli sopravvive. Egli sa bene che la consumazione del proprio corpo
ad opera del fuoco altro non è che un processo che si limita ad anticipare,
mediante il simbolismo del fuoco, che consuma e che purifica, il ritorno a
quello stato di polvere da cui probabilmente ha avuto origine la vita.
Il Fratello Ariodante Fabretti, nel suo
discorso inaugurale del Tempio
Crematorio (17 giugno 1888), afferma che
la scelta della cremazione, che dà al corpo degli scomparsi una nuova e
incorruttibile forma, emerge anche dal bisogno che tutti noi abbiamo, di
mantenere viva la comunione con i defunti. Le ceneri dei nostri cari, nelle
quali è racchiuso l’inestinguibile ideale soffio di vita, costituiscono infatti
ancora
– in forma immutabile – una loro presenza
fisica tra noi.
Il perpetuare la memoria di quanti hanno
condiviso con noi il peso e la gioia della vita è un valore legato alla civiltà
dell’umanità. Fin dalle sue origini l’uomo ha scoperto di poter continuare a
vivere con “l’amico estinto e l’estinto con noi” (Ugo
Foscolo). È il culto laico della
memoria, che non ha bisogno di rifarsi ad una
rivelazione soprannaturale, perché la
civile tensione etica è sufficiente a sottrarre alla morte qualcosa della sua
preda.
7) I MASSONI E LA CREMAZIONE IN
ITALIA, IERI E OGGI.
La nascita dei primi movimenti
cremazionisti, nella seconda metà del secolo
scorso, è avvenuta, in Europa e in
Italia, principalmente per iniziativa dei massoni e della massoneria.
La costituzione delle Società per la Cremazione,
è stata promossa quasi ovunque
dai massoni.
In quegli anni si costruiscono i primi
impianti che – significativamente – vengono
chiamati ARE o TEMPLI, perché
volutamente vogliono denunciare il riferimento
massonico.
Sotto l’influenza dei massoni e per loro
volontà, la cremazione è ridiventata, dopo duemila anni, una pratica funeraria
legale.
Massoni erano Francesco Crispi, Luigi
Pagliani, Malachia De Cristoforis,
Gaetano Pini, Ariodante Fabretti e molti
altri. La massoneria di quei tempi operava
concretamente per “il bene e il
progresso dell’umanità”: i massoni, che avevano già il grande merito di aver
dato un decisivo contributo a “fare l’Italia” e a costruire lo stato laico nato
dal Risorgimento, si accingevano a “fare gli italiani”. Cioè alla costruzione di
una religione civile in grado di sostituire le nuove appartenenze dello stato
laico alle vecchie identità, sedimentatesi nelle credenze religiose. La
diffusione della cremazione da parte dei massoni nell’Ottocento è il
prolungamento di un più generale discorso sulla fondazione di una morale laica,
in grado di fronteggiare adeguatamente, in tutti i campi, l’egemonia di norme e
comportamenti a sfondo confessionale.
Poiché l’essenza della proposta
cremazionista era – in sintesi – una tensione etica
di trasformazione sociale, in nome
dell’uomo, della scienza e del progresso, i massoni si dedicarono con slancio
alla sua affermazione.
A Torino, ove questi progetti nacquero e
si svilupparono, la Società per la Cremazione viene fondata, nel 1883, da 12 Fratelli
torinesi, tra i quali (citiamo solo i più noti):
– Ariodante Fabretti: M.’.V.’. della R.’.L.’.
Dante Alighieri di Torino, membro del
Supremo Consiglio R.S.A.A., Segretario
dell’Assemblea Costituente che proclamò
la Repubblica Romana nel 1849, Deputato
al Parlamento Subalpino, Senatore del
Regno, Professore universitario,
Direttore del Museo Egizio, Membro
dell’Accademia delle Scienze,
Consigliere Comunale.
-Galileo Ferraris: Fratello, 33° Grado
R.S.A.A., uomo politico, Scienziato,
Consigliere Comunale.
– Giovanni Battista Bottero: Fratello,
medico, fondatore della Gazzetta del Popolo,
uomo politico deputato, successore di
Cavour nel suo Collegio elettorale, alla morte
dello statista.
– Cesare Goldmann: M.’.V.’. della R.’.L.’.
Pietro Micca di Torino, Amministratore
Comunale, uomo politico, finanziere.
– Tommaso Villa: Fratello della R.’.L.’.
Dante Alighieri di Torino, membro del
Consiglio dell’Ordine, Ministro degli
Interni e successivamente di Grazia e
Giustizia, Presidente della Camera,
Sindaco di Torino.
– Luigi Pagliani: Fratello della R.’.L.’.
Rienzi all’Oriente di Roma, Consigliere
dell’Ordine, Membro effettivo del
Supremo Consiglio R.S.A.A., Professore universitario, autore delle prime leggi
italiane di Sanità e responsabile della Sanità
Pubblica nel Governo Crispi.
L’apporto massonico alla nascita della
cremazione a Torino risulta non solo da
un impegno a livello individuale di
singoli massoni ma da un intervento diretto e
ufficiale in termini economici e
logistici delle Logge, come si desume dai verbali
conservati nel Centro Studi Ariodante
Fabretti.
Dall’opera di questi Fratelli e con
l’aiuto, anche economico, delle Logge torinesi,
viene costruito il Tempio Crematorio:
dal 1888 a Torino si sono così avuti funerali ed esequie uguali per tutti,
senza divisioni di censo, di cultura, di ideologia e di sentimenti religiosi.
L’opera costò 22.500 lire (1.500 mil. di oggi) di cui un terzo lire (500 mil,
di oggi) coperte da un contributo del Comune e due terzi (1.000 mil. di oggi)
coperte dai Fratelli e dalle Logge Torinesi.
Interessante leggere i documenti di
allora, per capire quanto determinante fu 1a
partecipazione della massoneria alla
affermazione dell’idea cremazionista.
Nella “Rivista della Massoneria
Italiana” del 1° giugno 1874, si legge: “La Massoneria italiana, augurando che
i Cimiteri divengano esclusivamente civili, mentre lascia ai singoli fratelli
ed alle loro famiglie piena libertà di determinare il luogo ed il modo di
deposito delle salme dei loro cari defunti, si propone di promuovere presso i municipi
l’uso della cremazione, da sostituirsi all’interramento. Raccomanda perciò tale
concetto a tutte le Officine, ed ai singoli fratelli lo studio di più sistemi
atti a raggiungere l’intento in modo cauto, igienico e poco dispendioso. Le
urne contenenti le ceneri dei massoni e delle loro famiglie, potrebbero così
essere raccolte nei Templi o nelle loro
adiacenze, come in un sepolcreto di famiglia”.
Anche oggi a Torino c’è un’area
(monumento a forma di Tempio massonico)
riservata alle ceneri dei fratelli e dei
loro familiari.
La percentuale di massoni che si
iscrivono alla SOCREM nel periodo 1890 –
1910 è altissima (valutabile intorno al
50%) e dai registri dei cremati risulta che molti altri massoni, non iscritti,
si fecero cremare per cui c’è da ritenere che la cremazione, pur nell’assoluta
libertà di scelta, fosse considerata nel mondo massonico il rito funebre di
elezione.
Nel 1892 la SOCREM di Torino ottiene il
riconoscimento a Ente Morale e da allora questa associazione di volontariato,
voluta e tuttora sostenuta dai massoni, che
animata esclusivamente da motivazioni
ideali, continua ad operare nella sfera morale e dei sentimenti più intimi
dell’uomo, al raggiungimento di un fine altamente umanitario: la diffusione
della cremazione, per il rispetto della dignità dell’uomo.
Poiché la diffusione della cremazione è
legata alla crescita culturale della società, la nostra associazione sta
diventando un centro propulsore di iniziative culturali e sociali a vasto
raggio. Mi limito a citarne una sola: il Centro Studi Ariodante Fabretti, la
cui attività è iniziata nel 1992.
Dopo aver predisposto le basi
archivistiche e culturali, affinché gli studi potessero svolgersi con il
necessario rigore scientifico, oggi il Centro Studi – nella prospettiva di
trasformarsi in una vera e propria Fondazione – è diventato un punto di riferimento
obbligato per chi si interessa dell’intreccio tra gli uomini, la vita, la morte
c i riti. Opera in collaborazione con Università italiane (Torino, Roma,
Bologna, Lecce) ed estere (Parigi, Utrecht, Strasburgo, ecc.).
Ha recentemente organizzato un seminario
sui “riti funebri tra conservazione e
distruzione”, i cui atti sono stati
pubblicati in un libro, che riporta anche il rito
funerario massonico.
Maestro venerabile, Fratelli carissimi.
È tempo che mi avvii alla conclusione di
questa “Tavola”. Rimane solo più da
precisare che oggi i massoni hanno un motivo in più, rispetto ai nostri Fratelli
del secolo scorso, per interessarsi di cremazione.
Significativa è la seguente lettera
pubblicata da “Specchio dei Tempi” lo scorso
7 agosto 1996: “Mio padre è morto una
settimana fa, rispettando le sue volontà, è stato cremato nel cimitero di Pallanza
– Verbania. Lo strazio di questo lutto è stato insultato e vilipeso dalle
condizioni in cui questa cremazione è avvenuta: nessun segno, neanche piccolo,
di una civile accoglienza ad un feretro. Intendo dire un luogo decoroso e pulito
dove papà potesse aspettare che si compissero le ultime ore di permanenza su questa
terra delle sue spoglie, ma un inverecondo stanzino in cui si ammassavano le cose
più svariate (dai trapani elettrici ai calcinacci) ed il forno in bella
evidenza che mi ha fatto l’orribile effetto di un lager!
Senza parlare del comportamento degli
addetti, uno dei quali ci ha offesi solo perché avevamo chiesto informazioni su
orari e procedure. Non ci vorrebbe molto a rendere più civile e rispettoso il
luogo (basterebbe una piccola stanza imbiancata,
pulita e magari con un crocefisso, una
tenda scorrevole a coprire pietosamente il forno crematorio). A chi tocca
muoversi, per cortesia, lo faccia al più presto” (segue la firma).
Ho voluto citare questa lettera perché è
emblematica di come questo antichissimo rito può degenerare e nel contempo essa
indica il nuovo ruolo che i massoni ora hanno.
La causa di tanta desolazione è dovuta
all’errore di considerare la cremazione
solo come una forma funeraria
alternativa, mentre va inserita nella millenaria
tradizione culturale occidentale.
Il rito della cremazione presso tutte le
civiltà e in tutti i tempi ha infatti sempre
avuto il fine di onorare il defunto, di
rispettarne la dignità e di dare conforto ai parenti.
Una cremazione priva della ritualità si
riduce ad una fredda operazione tecnica: una barbarie peri parenti colpiti dal
dolore della scomparsa del proprio caro.
I valori morali coinvolti nel rito della
cremazione difficilmente oggi si possono
coniugare con il distacco e
l’indifferenza di un burocratico servizio comunale, svolto
da operatori spesso impreparati e
insensibili.
Senza un rito funebre abdichiamo al
diritto di chiamarci umani.
In caso di latitanza di noi massoni, la
cremazione diventerebbe esclusivamente soggetto di operatori disinteressati al
rispetto dei fondamentali sentimenti umani, se non di speculatori insensibili a
motivazioni prive di contropartita monetaria.
L’opera dei nostri Fratelli del secolo
scorso non è ancora compiuta.
La SOCREM, portatrice di un compito
morale, si è posto – in un’ottica massonica – il problema del significato e
della dignità del rito funebre e si è preoccupata di ripristinare e di
arricchire il rituale della cremazione, per dar rilievo alla sacralità della
morte, per evitare che questo avvenimento venga contagiato dall’impoverimento
comunicativo, che oggi caratterizza le realtà metropolitane al momento del
lutto. Ciò ha comportato un grosso lavoro di riorganizzazione e di ristrutturazione.
Attraverso questo rituale, nel quale
sono rispettate le convinzioni religiose di ognuno c viene tutelata la dignità
di essere umano dello scomparso, i congiunti
vengono accompagnati nel percorso di
separazione dal proprio caro, anziché essere
abbandonati nell’angoscia e nella
desolazione.
Noi massoni siamo infatti convinti che
il dolore di una perdita può essere mitigato nel trasformare questo evento in
qualcosa di meno crudele e insensato, in quanto pensiamo che la morte sia un
processo trasformativo che non esaurisce il senso
di una esistenza.
Oggi che in Piemonte e nella Valle
d’Aosta la cremazione sta diventando prevalente, c’è ancora bisogno di noi
massoni, affinché sia gradualmente acquisita dalla società e praticata in modo
civile ed umano. La trasformazione della mentalità ha infatti ritmi molto lenti
rispetto a quelli degli avvenimenti.
Noi continueremo ad assolvere questo
ruolo, cui dedichiamo il massimo impegno, e tutta la nostra tensione morale,
perché siamo consci che così operiamo “per il bene e il progresso
dell’umanità”.
8) RIFLESSIONI CONCLUSIVE
Maestro Venerabile, se mi sono concessi
ancora 2 minuti, vorrei concludere
questa Tavola con alcune riflessioni sul
fuoco:
–il fuoco è la vita: ogni traccia di
vita sulla Terra scomparirà quando si estinguerà
quel globo di fuoco che chiamiamo Sole,
–1 primi uomini avevano compreso
l’importanza del fuoco e ne fecero motivo di
culto.
–Con il fuoco essi si riscaldavano,
cucinavano il cibo, si difendevano dagli animali,
che ne erano terrorizzati.
–L’uomo è il solo essere del regno
animale ad aver dominato il fuoco.
–Il fuoco, fin dall’antichità, ha avuto
per l’uomo delle valenze positive. Nella mitologia greca era simbolo di
libertà: Prometeo lo ruba agli dei e viene punito perché solo loro potevano
crearlo (Giove) e utilizzarlo (Vulcano).
–Nell’antica Roma il fuoco era ancora
motivo di culto e le Vestali dovevano custodirlo,
–Il fuoco presiede, sin dai tempi più
antichi, ai riti di passaggio.
–Nell’iniziazione massonica è il fuoco
che purifica e rigenera l’iniziato.
–Il fuoco indù è la soglia del sacro.
Nella cultura indù, è sinonimo di salvezza,
significa uscire dalla ruota delle
reincarnazioni.
–Noi massoni diciamo che prima di
entrare in Tempio dobbiamo la: i metalli.
–Il fuoco del rogo ha il compito di
liberare il divino che è nell’uomo dalla prigione
della materia.
–La cremazione dà alla morte la dignità
di un sacrificio rituale, che accosta l’uomo
alla concezione dell’anima e alla sua
immortalità.
–La forza ardente del fuoco rappresenta
l’anelito dello spirito, nell’imminenza della
morte, ad abbandonare la materia, per
librarsi in uno spazio più alto: una visione di liberazione.
–Nel BARDO THOÒDOL (il libro tibetano
dei morti) è detto: “quando al defunto
appare la fulgida luce di fuoco che lo
terrorizza, nella quale vorrebbe perdersi e da
cui vorrebbe fuggire, egli deve cedere e
accumularsi in essa se vuole essere salvato”.
–L’elemento sottile e immateriale
nascosto nell’uomo non può essere distrutto dal
fuoco, giacché l’uomo stesso è luminoso
e fatto di fuoco.
–Nel linguaggio alchemico il fuoco è
una sostanza pura, eterna, indispensabile per il compimento della Grande Opera
La campagna per l’abolizione della morte
come pena è un “fenomeno” che si ripete ciclicamente, all’incirca una volta
all’anno, almeno in Italia.
L’anno trascorso, il 1996, era stato
proposto dal 1° congresso internazionale dell’Associazione Nessuno tocchi Caino
per una moratoria mondiale dell’assassinio legale. Appello rimasto praticamente
inascoltato da tutti quei Paesi che sono “attivi” in tal senso!
Alla fine dell’anno abbiamo invece poi
osservato una campagna di stampa, incredibilmente intensa e violenta, per
ottenere la revoca della pena ad un americano,un certo O” Dell, un condannato
sulla cui colpevolezza esistono fondati dubbi: la pena è stata sospesa, ma
nello stesso giorno e nello stesso carcere un altro condannato è stato
“giustiziato”.
Gheddafi, che si dichiara contro la pena
di morte, ha inaugurato il corrente anno con la fucilazione di sei ufficiali,
rei di aver complottato (!) contro la sua persona.
Subito dopo, negli Usa in Arkansas, sono
state eseguite ben tre altre esecuzioni nello stesso giorno: per risparmiare
tempo e denaro, diranno ! Uno dei tre addirittura con l’ago già nella vena ha
dovuto attendere ancora circa 30 minuti per permettere al giudica di esaminare
bene un’ultima volta l’intera pratica e poter così giustamente respingere
l’ultimo ricorso!!!
L’Osservatore Romano ha commentato con
un “Macabra scena di montaggio”, mentre
W, Shultz, presidente di Amnesty International, lo ha dichiarato: “una barbarie
che si verifica solo più in una minoranza di Paesi”.
Con piacere debbo dire che anche il
nostro G.O.I. ha preso parte alla tenzone schierandosi, a suo tempo ed in
maniera netta, a favore dell’americana Paula Jones, ed ora, forse con meno
clamore, per O’ Dell.
Ma l’argomento a me pare troppo
importante per non doversi confrontare e ragionarci su, cari Fratelli.
a) la pena di morte, oggi, è
razionalmente accettabile? È moralmente accettabile ? È politicamente
accettabile?
b) e, ammesso che lo sia, non è
altrettanto barbaro tenere una persona, ancorché condannata, per anni, talvolta
decine, in attesa dell’esecuzione nel “braccio della morte”? Nei soli USA sono
più di 3.100 i condannati in questa scomoda ed alienante situazione.
Per fornire alcuni spunti di riflessione
posso ricordare T. Moro che, nel suo Utopia, afferma: “O noi ammettiamo la
validità del principio ‘non uccidere’ come superiore e trascendente l’uomo (in
questo caso la società non potrà poi togliere la vita ad alcuno, perché della
vita nessuno, né la società, né l’individuo, ha la disponibilità), oppure
ammettiamo che la società ha, in certi casi, il potere di derogare alla legge divina.
Ma così non ci saranno più limiti perché la deroga sarà sempre ottenuta ogni volta
che la società lo riterrà necessario”.
Da questa base parte poi tutto il
ragionamento di Moro, che ha una concezione umanamente e “modernamente”
cristiana, ed è per questo che in tutto Utopia non ci sono né roghi, né
impiccagioni: e questo, per un libro scritto agli albori del 1500 è incredibile,
quasi scandaloso! Solo verso gli eretici mostra un’insofferenza spiccata, senza
tuttavia giungere mai a teorizzare violenza, a differenza degli altri pensatori cattolici.
Sant’Agostino, invece, ipotizza la
violenza come giusta se usata contro i nemici della chiesa.
San Tommaso giustifica la morte come
pena, e pone il condannato alla stessa tregua della bestia: l’unica condizione
che pone è che la condanna sia emessa da un giudice: “il bene comune vale di
più di quello di un solo individuo. Se dunque la vita di certi delinquenti è
contraria al bene comune, cioè all’ordine della società umana, essi potranno
essere uccisi”.
Parole agghiaccianti.
Ma anche i pensatori laici non sfuggono
alla contraddizione su questo terribile tema, compreso Cesare Beccaria.
Perché delle due l’una: o noi crediamo
che davvero la persona umana non possa mai essere uccisa da chi ha il potere
per il suo valore incommensurabile ed allora in questo caso la morte come pena
non è mai applicabile, o crediamo che la vita e la morte individuale possa
essere trattata e discussa, sia pure da leggi approvate regolarmente e dopo
processi legittimi.
Ma in questo caso tutto il diritto si
riduce all’impiego di più o meno forza ed allora lo Stato avrà sempre ragione
perchè è sempre più forte del singolo: diritto diviene allora e così tecnica
del terrore e finirà per essere usato in base alle variabili opportunità
politiche.
Al punto b) dello schema prima esposto
la risposta non può che essere
strettamente legata alla risposta sopra
esaminata, perché se si ammette che lo Stato possa eliminare una persona, i
limiti temo siano facilmente superabili. Non esisterà più nulla di certo.
Così nel Medio Evo era normale che
chiunque fra i presenti ad una esecuzione capitale infierisse sul condannato
sulla via del patibolo o del rogo. Una sorta di rigenerazione psicologica dei
“buoni e perbene”, Insomma, se non esiste il limite dell’inviolabilità della
persona umana, allora tutto diventa in qualche modo possibile. possiamo
diventare dai barbari applicando la più raffinata tortura inventata dell’uomo, quella
che ne “Dei delitti e delle pene” viene detta “il più carnefice dei nemici,
l’incertezza”, Condannare un uomo e
dargli però tutte le possibilità di ricorrere, di fare appelli, revisioni,
nuovo processi, richieste di grazia, eccetera è, io credo, la tecnica più
sadica che si possa inventare. È quanto più crudele e spietato l’uomo abbia mai
praticato.
Parliamo di persone che, immesse nel
“braccio della morte” attendono che la loro sentenza capitale divenga
esecutiva, definitiva!
È l’applicazione del detto romano
“summus jus, summa iniuria”. Insomma, è la dimostrazione di come l’uomo possa,
usando la legge in modo assolutamente corretto, diventare una belva nei
confronti di chi (?) ha sbagliato.
E se condividiamo il sacrosanto
principio della dignità umana è anche contro queste sottili forme di violenza
che dobbiamo, tutti noi Fratelli Liberi Muratori,