L’ARCO DI ERACLITO E LA RITUALITÀ DI LOGGIA

di Roberta Cappellini

 

Chi era Eraclito di Efeso? Il sapiente che “indagando se stesso” scoprì secondo il suo stesso dire, una “legge divina”, che definì in termini di “Logos”. Logos quale “trama nascosta”del dìo che regge e dinamizza l’apparenza delle cose, ma logos anche come “discorso” dello stesso Eraclito. Logos quindi come legge divina, manifestazione del noumeno e contemporaneamente pensiero-parola umana. “La trama nascosta è più forte di quella manifesta.” (14 A20).

 

L’ENIGMA

Soprannominato l’oscuro per l’enigmaticità di questo suo dire, Eraclìto utilizzava il paradosso anziché la logica, o meglio, la logica dei suoi famosi enigmi risultava paradossale, proprio in virtù di tale trama. In questo senso la sua filosofia è definibile come “pathos del nascosto”, in quanto tendente a considerare il fondamento ultimo come qualcosa di celato. Su questo si fonda infatti il suo incedere enigmatico. L’enigma,fenomeno archetipale della sapienza greca, fu definito da Aristotele in termini di “formulazione di un’impossibilità razionale, che esprime tuttavia un oggetto reale.” L’enigma dunque nasconde ed al contempo manifesta la realtà, in quanto aderente all’oscillazione tra essere e non essere, tra manifestato e non manifestato, tra visibile ed invisibile, aderente cioè al bipolarismo o dualità della vita. Così la molteplicità degli enti del mondo è intreccio d’enigmi, alla stregua dell’intreccio delle parole del sapiente. Tale intreccio universale è fondato sull’elemento contraddittorio, il cui scioglimento è rappresentato dall’unità sottesa, “dal dìo che vi sta dietro” (14 A91), cioè dal logos stesso: unità, non da intendersi quale somma delle antitesi, ma realtà nuova comprensiva degli stessi, tertium quid, in quanto principio stabilente un’affinità tra le cose, avvicinandole ed al contempo lasciandole sussistere nella loro pluralità, secondo il respiro dell’universo. “Il dìo disperde ed al tempo stesso raccoglie e si avvicina e si allontana.” (14 A45). Non unità fusionale (reductio ad unum) che annulla differenze e contrasti quindi, ma simultaneità di unità e molteplicità dei contrari. In tal senso a-dualità: com-unione delle parti, armonizzazione: “concordia discorde” (armonia discors) per usare la luminosa espressione paradossale che concede l’immediato lampo intuitivo dell’”istante folgorante”.

 

L’ARMONIA

In tal senso il logos sembra descrivere il movimento di una danza, prendendo le sembianze dell’armonia. Ma cosa si intende tradizionalmente con armonia? Negli aforismi eraclitei, essa non viene fatta corrispondere come nella scala musicale pitagorica all’ottava intesa come passaggio da una frequenza ad un’altra doppia; ma diversamente essa vi risulta riferita alla tensione della corda dell’arco tesa tra i due opposti estremi, propulsiva della freccia. Afferma il filosofo :“ Dell’arco invero il nome è vita, ma l’opera è morte.” (14 A8). E ancora : “Armonia contrastante come nell’arco e nella lira.” ( 51b) L’arco vi è pertanto considerato, come da accezione greca, simbolo di vita. L’arco e la vita erano all’epoca chiamati con lo stesso nome diversamente accentato: Bios (vita), Biòs (arco) Ergo: l’armonia della vita starebbe nella tensione, dunque nel contrasto (gr.polemos), nella contraddizione. “Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re” (53). Allora come coniugare razionalmente contrasto ed armonia, evitando l’ottava, ossia l’elevazione di tonalità? A tal fine analizziamo questo concetto di tensione attraverso la mitologia greca. La dèa Armonìa nasce da Venere e Marte, cioè dalla composizione del contrasto. E’ solo in seconda battuta, cioè dalle nozze successive di Cadmo ed Armonia che nascerà la stirpe guerriera ed insorgeranno lotte e distruzione, mostrando la spaccatura della tensione nel punto di superamento del limite che avvia quel processo degenerativo in cui il contrasto si trasforma in prevaricazione e l’armonia vitale in morte. Di Armonia come vita quindi si può parlare fintantochè la tensione viene mantenuta, dunque contenuta dal polemos, vale a dire dal contrasto, dalla contrapposizione degli estremi dell’arco della vita (Armonia discors)

 

LA FRECCIA DELLA SAPIENZA

Trasponendo tale immagine a livello gnoseologico metaforico, otteniamo che il pensiero può essere fecondo e generare vita – come dimostra lo scoccare della freccia, rappresentativa in questo caso dell’idea, ossia dell’intuizione unificante – se il suo movimento vitalmente contrastante, viene contenuto nella tensione degli opposti. “Ciò che si oppone converge e la più bella delle trame si forma dai divergenti e tutte le cose sorgono secondo la contesa.” (14, A5). Si tratta pertanto di un rapporto di relazione tra gli opposti. Etimologicamente arma, da cui armonia, in greco significa relazione. Dunque la contrapposizione è vitale e feconda se contenuta nella relazione. Ma a cosa dobbiamo riferire la relazione? Se l’essere umano è homo symbolicus ed il suo elemento caratterizzante è la parola, la relazione è riferita al dialogo, inteso come da etimologia greca:“dia-logos” (gr. dia: attraverso, per mezzo di e logos: parola). Il logos eracliteo è infatti considerato nelle sue tre dimensioni fondamentali e quindi non solo ontologica e noetica, ma anche linguistica. La parola vi è intesa quindi non come elemento convenzionale, ma come parola sacra, portatrice della dimensione olistica della persona, nella sua dimensione relazionale, orizzontale e verticale, connessa cioè all’universo secondo i molteplici stati dell’essere. Parola rappresentativa dell’incarnazione dell’esperienza di vita e di pensiero, nel suo triplice senso manifestato, allusivo del quarto principiale non manifesto, come già insegnavano i Veda: parola interiore (Madhyama Vac), parola pronunciata (Vaikhari Vac), parola vivente (Pashianti Vac). Logos e mythos sono interconnessi. L’armonia del Logos non è fondata quindi sulla parola dialettica – essendo questa basata sull’agonismo della ragione armata e su un’attitudine autoreferenziale prevaricante (causa di rottura della tensione vitale dell’arco) – quanto piuttosto sulla parola dialogico-simbolica di tipo relazionale e quindi accogliente, in quanto aperta all’alterità, la cui invisibile armonia poggia in tal senso sul ritmo simpatetico dell’universo (gr. Sympatheia: le connessioni invisibili costitutive della realtà universale). In tal senso Logos è parola d’Amore e in quanto tale generatrice di vita e conoscenza.

 

LA RITUALITÀ DI LOGGIA

Vi sono delle considerazioni massoniche che possono essere tratte in senso analogico, riferite ai lavori rituali di Loggia. La radice sanscrita “RTA” infatti, da cui si originano rito, ritmo, ordine, allude anch’essa al movimento, dunque alla bipolarità. In tal caso la ritualità è da intendersi come ritmo, movimento del corpo, del pensiero, della parola, che possono risultare armonici e vitali se contenuti nelle differenze dei singoli, cioè appunto ritualizzati (ordinati). Ciò che “contiene” il polemos (la molteplicità dei contrasti) dunque, come indicato dalla radice etimologica (RTA), è il Rito di Loggia rappresentativo dell’ordine cosmico, in quanto elemento centrale comune, nucleo attorno al quale tutto ruota in senso convergente pur nelle singole diversità. Perché il rito “con-tiene” i contrasti ? Perché li ri-compone in un progetto (del GADU), con effetto speculare sulle singole differenti coscienze, in quanto centro di unificazione secondo principio centripeto e centro di rifrazione secondo principio centrifugo, in virtù dei quali ciò che parte unico ritorna rifratto e viceversa. Unità e molteplicità, essere e divenire secondo circolarità continua, nella quale si compie la tras-formazione delle singole, differenti coscienze, cioè il passaggio oltre lo stato individuale, nella riunificazione di ciò che è sparso, ogni coscienza permanendo nella propria unicità, ma contemporaneamente dando luogo, insieme alle altre, ad una nuova unità, superiore alla somma dei singoli apporti delle parti. Così nasce l’Idea e con essa l’Ide-azione che analogamente alla freccia scoccata, andrà ad infrangere l’ordine precedentemente costituito, procurandone in tal modo la morte, quella morte che, in quanto consapevole, è al tempo stesso nuova vita, cioè “tras-mutazione” : passaggio da un ordine all’altro, da una forma all’altra della realtà, sia interiore che esteriore, passaggio operato dall’artifex , dal costruttore, cioè dal realizzatore del Progetto del GADU, dall’Uomo Universale.

 

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

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COSTRUTTORI DI SOGNI POSSIBILI

 

UN ANTICO SEGRETO MASSONICO

Nel suggestivo rituale della Catena d’Unione si fa esplicito riferimento ai Liberi Muratori come ai custodi di un antico segreto: quello del grande amore del Grande Architetto dell’Universo per gli uomini. Ma i Liberi Muratori sono, anche, i custodi di un altro – e non meno importante segreto – quello di “essere sognatori”. Sembra un segreto minore: anzi, sembra quasi il segreto di Pulcinella. Ma non è così. Sognare non è comune a tutti. Molte persone, infatti, non sognano. Non sognano perché glielo impediscono le ansie, le nevrosi, le depressioni, le difficoltà, i disagi, i dolori, le tristezze, l’infelicità: o, più semplicemente, le vicende – talora insopportabili -della vita quotidiana. E, allora, le loro notti diventano cupe, pesanti, plumbee. E, al risveglio, si sentono più stanchi di quando si sono coricati: con il risultato che tutto diventa più faticoso e – quello che è peggio – grigio e senza speranza. Non sognare può essere considerata la metafora di una vita senza colore, senza brio, senza respiro: come le notti senza sogni. Può essere la metafora di una vita senza ideali, senza fantasia, senza creatività, senza voglia di spendersi: per sé e per gli altri. In questo caso, diventa un lungo tunnel oscuro dove i disagi si accumulano ai disagi e dove domina una solitudine che ben presto si trasforma in egoismo. È l’egoismo di chi non è capace di slanci disinteressati, di chi abbraccia il meschino interesse, la signoria del denaro, le suggestioni del potere o il narcisismo più sfrenato: in una parola, quelli che noi chiamiamo i “metalli”. Non ê questa la vita che ci piace! Non è questa la vita che vogliamo vivere! Non è questa la vita dei Liberi Muratori! Poco importa, se – guardandoci intorno – ci accorgiamo che questo è il modello imperante di vita: il modello che i mass-media cercano di accreditare come l’unico possibile. Poco importa se molti – in ogni parte del mondo e soprattutto in Occidente – si accontentano di vivere una vita succube del consumismo, della pubblicità e del finto progresso. Poco importa se preferiscono i sogni televisivi – teleguidati -dove tutto è falso, posticcio, casuale e distraente. Poco importa -ancora -se molti annullano la loro dignità in folli corse verso un potere che ê solo uno “specchietto per le allodole”.

 

LA FORZA DEL SOGNO

Sognare significa “essere”. Non significa “avere “. Per questo, il sogno ê stato considerato – a ragione – come l’altra faccia (forse quella più vera) dell’esistenza: quella a cui dobbiamo guardare. Quella su cui dobbiamo plasmare la nostra esistenza. Non a caso un grande scrittore spagnolo del Seicento – Calderon de la Barca – diceva che “la vita ê un sogno e il sogno il sogno di un sogno “. Certo, sognare – come d’altronde la vita -è impegnativo. Talora, infatti, il sogno produce incubi. Di questi incubi ne abbiamo avuti tanti: le guerre, le intolleranze, i totalitarismi, le persecuzioni religiose, i razzismi e – insieme a loro – il disinteresse sociale, l’egoismo, il rifiuto di considerare l’altro come, in tutto e per tutto simile a noi. Se noi guardiamo alla storia passata e recente questi incubi si sono materializzati in visioni d’orrore che ci turbano. Visioni dove le segrete dell’Inquisizione si sovrappongono alle celle dei lager, dei gulag e degli infiniti luoghi dove l’Umanità sofferente si domanda se sta sognando l’inferno. Ma si sovrappone anche alle periferie degradate, ai bambini che muoiono – ovunque nel mondo -per fame e per sete, alle grida delle donne violentate, al silenzio di chi non può parlare, alla libertà impedita o ai diritti umani disattesi. E anche in questo caso, chi vive queste situazioni -tanto estreme quanto drammaticamente comuni -si domanda con angoscia se sta vivendo un sogno spaventoso: un sogno da cui implora di uscire. Un sogno che vorrebbe dimenticare. Ma i sogni – i sogni importanti – al pari degli incubi non si dimenticano: rimangono ben fissi nella nostra mente. E, ogni tanto, ritornano alla memoria e non dobbiamo cancellarli. Così come non dobbiamo cancellare dalla nostra mente gli oscuri sogni del passato che molti vogliono – seppur in forma mutata – riproporre: oggi. Voglio ricordare – tra i tanti -i fondamentalismi che insanguinano il mondo e le mille forme di oscurantismo che si ripropongono come risposta alle difficoltà del presente. Sono sogni che vogliono, di nuovo, una Umanità impaurita, sottomessa, prona e tremante. Che vogliono seminare il disordine e l’odio dietro l’apparenza della ricerca di una identità: che consiste in ben altro. Ma i Liberi Muratori respingono questi sogni: non sono i loro sogni.

 

 

I SOGNI DEI LIBERI MURATORI

Non sono questi i sogni che piacciono ai Liberi Muratori. Non sono questi i sogni che i Liberi Muratori vogliono sognare. I Liberi Muratori vogliono sognare un mondo migliore e più giusto: un mondo dove possono coesistere etnie, idee, religioni, politiche diverse. Questo è il loro mondo, il mondo in cui credono. Il mondo che si è aperto dinnanzi ai loro occhi quando sono entrati nella catena iniziatica che stringe tutti coloro che – nel mondo – si sentono Fratelli. D’altronde che cos’é l’Iniziazione se non un sogno ad occhi aperti: un sogno che ci trasporta in una realtà dove le comuni abitudini degli uomini non hanno cittadinanza e dove tutto “è giusto e perfetto?”. Una grande figura iniziatica – il mago Prospero de La Tempesta di William Shakespeare – pronuncia una frase su cui non possiamo non riflettere: «siamo della sostanza di cui sono fatti i sogni, la nostra breve vita è racchiusa da un sonno». In fondo è proprio così e i Liberi Muratori lo sanno bene. La nostra vita, infatti, si può paragonare ad un lungo sogno in cui scambiamo l’apparenza per realtà o – forse meglio – la realtà per apparenza: senza che ce ne accorgiamo. E su questo dovremo riflettere di più, prima di imbarcarci in tante inutili avventure. Ma Prospero – il mago dietro cui si nasconde John Dee- non vuole dirci che dobbiamo contrapporre la realtà al sogno. Vuol dire che dobbiamo essere capaci di sognare nel modo giusto: in modo che i sogni possano diventare reali. O, quanto meno, possibili. Come ricorda Bachelard: “Il sogno ad occhi aperti non è un vuoto mentale. È piuttosto il dono di un’ora che conosce la pienezza dell’anima “. Ma questa – a ben vedere – è l’essenza stessa dell’Esoterismo. Il giorno in cui siamo stati iniziati non abbiamo forse accettato di iniziare un lungo sogno? Un sogno che è diventato la nostra stessa vita! Era – ed è -un sogno che sembrava (e sembra) andare contro la realtà. Che sembra opporsi alle comuni realtà. Quelle che quando entriamo nel Tempio abbandoniamo – materialmente e spiritualmente – lasciando al di fuori il nostro habitus esteriore. Cambiamo “pelle “, linguaggio, postura. Le regole esteriori – come nel sogno – non hanno più valore e le gerarchie profane si annullano davanti a quelle che dovrebbero essere dettate dal sapere, dalla saggezza e dalla riflessione. Tutto – nel Tempio – è pace, equilibrio e armonia: come nei sogni, nei sogni più belli. Quelli che ricordiamo con gioia: la stessa gioia che ci conduce ad incontrarci – dopo giornate di lavoro defatigante – con i Fratelli, traendo forza, alimento spirituale e piacere. E altrettanta gioia e piacere la sperimentiamo quando progrediamo nel lavoro iniziatico, la cui vera ricompensa non sono le forme esteriori – i famosi “pennacchi ” – ma quella interiore basata sul sentimento di essere diversi e migliori. È quel sentimento profondo che ci fa capaci di vedere la realtà in un altro modo. E questo modo è, ancora una volta, il sogno: il sogno della Libera Muratoria. Un sogno ad occhi aperti da cui non si vorrebbe mai essere svegliati. Un sogno a cui abbiamo la fortuna di essere stati chiamati, ubbidendo ad una voce interiore a cui possiamo dare il nome di vocazione, ma che – più laicamente – vogliamo considerare una scelta: una scelta radicale. Si è trattato di una scelta decisiva. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che non viviamo solo di Massoneria e per la Massoneria. Qualcuno – e a ragione – potrebbe dire, anche, che non sogniamo solamente e che nella vita questi sogni non hanno cittadinanza. Non è così. Noi non viviamo soltanto nei nostri Templi: è vero. Siamo nel mondo, nella società, nella realtà esteriore: in mezzo ai problemi, alle difficoltà, a necessità che – troppo spesso – ci stringono in una morsa di ferro. E, talora, ci fanno dimenticare di sognare. Ma se non sogniamo, dimentichiamo quello che siamo. E ci convinciamo che il sogno della Libera Muratoria si arresta – quando terminiamo i nostri Lavori – sulla soglia del Tempio. Così, qualche volta, viviamo una doppia realtà. La realtà del sogno e quella della vita profana: con la sua banalità, i suoi sofismi giuridici, le sue forme, le sue norme, le sue gerarchie, i suoi interessi. In questo caso, bisogna ricordare le parole – sapienziali -del mago Prospero che ci dice che siamo fatti della sostanza del sogno. Che ci dice che dobbiamo – ad ogni costo – rimanere sognatori: come nel Tempio. Perché i Liberi Muratori non possono abdicare alla loro natura. Ma cosa vuol dire “essere sempre sognatori “? Essere sognatori rimanda – se vogliamo esprimerci visivamente -a cieli azzurri, a prati verdi, a boschi, a montagne innevate, ad aurore e a tramonti. Sono immagini di pace, di armonia, di fratellanza, di tolleranza, di disponibilità e di gioia che riempiono l’animo e in cui prendono forma i nostri valori. Sono i valori in cui crede la Libera Muratoria Universale e che professa il Grande Oriente d’Italia. Ma essere sognatori significa fare di queste visioni lo sfondo della nostra vita e di proporla agli altri. Significa che dobbiamo concretizzare questi sogni trasformandoli nella realtà: nella realtà sociale. Come hanno sempre cercato di fare i Liberi Muratori. Sottrarsi a questo compito equivale a naufragare nel nulla delle buone intenzioni, o nel sentimentalismo. O, ancora peggio, nel narcisismo di chi pensa che la fortuna di poter sognare lo affranchi da qualsiasi responsabilità e lo faccia felice e contento. Bisogna dunque che il nostro sogno – quello della Libera Muratoria – divenga concreto e palpabile: in noi stessi, nella società e nell’Ordine. Diceva Aristotele che “La speranza ê il sogno di chi ê sveglio “. E aveva ragione. Per questo è necessario impegno, lavoro, coraggio, progettualità e perseveranza: come, d’altronde, dicono i nostri Rituali. Come dice la nostra Tradizione: quella del Grande Oriente.

 

SOGNARE NELLA SOCIETA’

Non è un mistero che stiamo vivendo momenti difficili: basta leggere i giornali e guardare la televisione per accorgersene. Quello che era la realtà per eccellenza – ossia l’associazione tra liberalismo e mercato – sta miseramente naufragando in una crisi senza precedenti. Una crisi che sta mettendo in discussione gli stessi standard consumistici di vita a cui eravamo abituati e che, bruscamente, ci ha svegliati non da un sogno qualsiasi ma dal “sonno della ragione “. Dire che dopo questa crisi – di cui non si vede ancora la fine – il mondo sarà diverso è affermare una ovvietà e una banalità. Indipendentemente dai suoi esiti, va da sé che bisognerà riconsiderare il modo con cui buona parte degli Stati hanno vissuto sino ad ora: incuranti della realtà e dimentichi dei bisogni altrui. Se questo non avverrà le conseguenze potranno essere assai più disastrose di un generale abbassamento del tenore di vita: come si dice. Tutte le crisi economiche portano con sé pericolosi contraccolpi politici, istituzionali, sociali e culturali. Significa perdita di fiducia nelle istituzioni, nella politica, negli uomini e nella possibilità di un progresso equitativo. Ci sarà il rischio che prenda piede – insieme alla disoccupazione e alla povertà – un diffuso disagio sociale che può aggravare la già esistente crisi di identità con il rischio di trasformarla in aggressività. Una aggressività che si rivolgerà all’interno verso tutti coloro che sono eccentrici rispetto alla società (i diversi, in tutti i loro aspetti, per intenderci) e all’esterno verso tutti coloro che -estranei alla nostra società – vi cercano una soluzione ai loro problemi esistenziali (immigrati, etc.). A questo si aggiungerà il rischio di una regressione culturale che può portare all’irrigidimento dottrinario, a forme reazionarie e alle tentazioni di un dogmatico ritorno al passato. Può voler dire ripiombare in incubi di cui la storia del Novecento (e non solo del Novecento) ha dato drammatici esempi. A questa ipotetica (e non augurabile) prospettiva la Libera Muratoria non può rimanere estranea. Senza scendere sul terreno della politica o della religione deve, tuttavia, far valere la potenza luminosa del sogno contro le tenebre degli incubi. Diceva Morrison: “Datemi un sogno in cui vivere perché la realtà mi sta uccidendo “. Deve poter dare il suo contributo di riflessione, di esempio e di azione per invertire ogni negativa linea di tendenza. Ogni Loggia, ogni Fratello e il Grande Oriente dovranno impegnarsi a fondo – con gli strumenti a loro disposizione – per riaffermare, propagandare e testimoniare il proprio sogno di libertà, di tolleranza e di fraternità. Essere esoteristi non significa nascondere la testa nella sabbia. Significa lavorare per progresso e il benessere dell’umanità. È, quindi, indispensabile impegnarsi a fondo per la solidarietà, per i diritti umani, per la cultura del dialogo e per una intelligente multiculturalità. Ma tutto ciò non è altro che rendere possibili i nostri sogni, estendendoli alla società tutta: in un momento in cui la società deve poter sognare e nel sognare trovare rimedio ai propri mali. I nostri antichi Maestri erano capaci – con mezzi modestissimi – di trasformare i loro sogni spirituali in gigantesche opere architettoniche. Ora tocca a noi farlo. È venuto il momento -in una società in cui nessuno più sembra capace di sognare – che i sognatori facciano sentire la loro voce: una voce secolare, alta e forte che può risuonare con forza quando tutto tace. Non è facile. Non porta successi immediati. Ma è proprio nei momenti di maggiore tenebre che la Luce può brillare.

 

SOGNARE NELL’ORDINE

Ma non solo alla società è giusto pensare. Dobbiamo guardare anche a noi stessi: ai nostri sogni, soprattutto dopo questa tornata elettorale che – è inutile negarlo – è stata pesante e combattuta sino all’estremo limite della decenza. Il che – dove non si ê scivolato nell’inutile, volgare e sgradevole calunnia – è perfettamente comprensibile e può essere considerato come un segnale di vitalità del nostro Ordine. A patto, ovviamente, che ora si possa riprendere a lavorare: senza astio, acrimonia, vendette o altro. I Liberi Muratori sono sognatori: non sono né politici né pirati. Per questo, la diversità di opinioni e di idee è sempre ben accetta se diventa il trampolino di lancio per un futuro che deve essere straordinario: come devono essere i sogni, i nostri sogni. Infatti, se vogliamo – come si è detto – rendere i nostri sogni dei concreti mattoni per la costruzione del Tempio dell’umanità ê tempo di chiudere inutili polemiche e di rimboccarsi le maniche. Il lavoro che ê stato fatto nel passato ê sotto l’occhio di tutti. Nessuno può negare che ha cambiato, radicalmente, il nostro Ordine, rendendolo rispettato e rispettabile. Ora bisogna concludere questo lavoro, sanando anche le ferite che molti interventi anonimi di alcuni facinorosi hanno provocato al nostro interno e, più gravemente, all’esterno. Bisogna adoperarsi tutti per una leale pacificazione – doverosa tra avversari corretti -e per continuare a rendere l’Ordine Massonico un effettivo lievito iniziatico e un solido punto di riferimento per chi – nel sociale – guarda a noi come a portatori di valori importanti ed indiscutibili. Con armonia, equilibrio e rinnovato entusiasmo dovremo quindi impegnarci a fondo nel lavoro di Loggia che è il centro della Vita Muratoria, valorizzando particolarmente il Grado di Maestro che deve essere praticato al massimo in quanto sono i Fratelli Maestri le colonne portanti dell’intero Grande Oriente. Sono i Maestri – sotto la saggia guida dei loro Venerabili – che possono dare il ritmo ai numerosissimi Apprendisti che attendono da loro un esempio e uno stile. Che attendono di poter sognare quello che si aspettano di sognare e che rifiutano un modello di Libera Muratoria vecchio stile: lontana dalle loro menti e dai loro cuori. Noi vogliamo, invece, che la Libera Muratoria del domani sia – nella continuità con i suoi eterni principi – una grande scuola di vita, di libertà e di democrazia dove l’esperienza esoterica sia uno straordinario valore aggiunto. Un valore aggiunto che moltiplichi le capacità individuali, facendo di ogni Fratello un costruttore di sogni. Ma non di sogni alla maniera di “Alice nel Paese delle Meraviglie “. Bensì di sogni concreti, possibili e palpabili. Sogni in cui l’approfondimento interiore si unisca alla solidarietà, alla disponibilità e alla presenza nella vita collettiva. Ma per far questo dobbiamo migliorare l’organizzazione del Grande Oriente, renderla più efficace e più razionale. Dobbiamo modernizzarla nelle sue strutture e renderla più comunicativa in modo da rendere esplicito – agli occhi dell’opinione pubblica – il nostro impegno. Dobbiamo, inoltre, potenziare le opere di solidarietà che – da tempo e con commuovente e ammirevole impegno – meravigliosi Fratelli portano avanti. Il vero esoterista non può che essere solidale con chi è più povero e bisognoso: non solo di un aiuto concreto ma anche di un sorriso. Sognare vuol dire sorridere. Non dobbiamo dimenticarlo. Carissimi Fratelli, ospiti e amici questa Gran Loggia non vuole essere la celebrazione né di vittorie e tantomeno di sconfitte. E neppure vuole essere il trionfo di una vuota e banale retorica. Non è questo lo stile dei Liberi Muratori. Questa Gran Loggia vuole essere un grande momento di unione da cui trarre energie, entusiasmo e volontà per continuare – al meglio – sulla nostra strada. Una strada che è quella che ci vede – da sempre – “costruttori di sogni possibili “. Questo ê quello che desiderano tutti i Fratelli, questo ê quello che si percepisce frequentando i lavori di Loggia. Questo è quello che cercano tutti coloro che bussano, incessantemente, alla porta di nostri Templi per avere la Luce. Ma la Luce non è che la splendida metafora di quel sogno che l’umanità vuole che sia realizzata e che si traduce nella Fratellanza fra gli uomini, nella Uguaglianza con tutti gli uomini e nella Libertà per tutti gli uomini. Questo è il sogno della nostra vita di Liberi Muratori. D’altronde come scriveva Paolo Coelho – un grande scrittore che ha tradotto in letteratura molti principi dell’esoterismo – “È proprio la possibilità di realizzare un sogno che rende la vita interessante “. E noi vogliamo che la nostra vita sia bella, utile, gioiosa, felice ma anche interessante.

 

 

 

 

 

 

 

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PEDAGOGIA DELLE LIBERTÀ

PEDAGOGIA DELLE LIBERTÀ

Allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi

 

Gentili Autorità intervenute, Signore e Signori, Carissimi Fratelli,

il Grande Oriente d’Italia non ha finalità partitiche o interesse nell’azione politica, che deve svolgersi conformemente alle regole democratiche in altri contesti ed in altri ambiti istituzionali.

La nostra funzione appare, invece, quella di stimolare la società civile su temi qualificanti, intorno ai quali riteniamo di poter portare un contributo sereno e razionale, in modo da prendere parte al difficile cammino di costruzione di un contesto civile migliore e più giusto.

Sulla scorta degli esempi più limpidi della Libera Muratoria, la nostra Comunione cerca di assumere un ruolo preciso, quello di spazio fecondo per la libera elaborazione di un pensiero critico, che esalti la voce di una dimensione laica ed interculturale, purtroppo non sempre gradita nel nostro paese. Ben più di un’agenzia della moderna laicità – come l’ha definita con rispetto lo storico Paolo Prodi -, la Massoneria contemporanea svolge nuovamente un ruolo storico di azione intellettuale e socio-culturale, volta non tanto alla difesa, quanto piuttosto all’espansione di tutti quei principi etici che conformano la Carta dei Diritti Umani e che cementano le fondamenta necessarie per ogni prassi civile indirizzata alla realizzazione di una “tolleranza” attiva e costruttiva.

Il nostro operare fuori dalla politica ci lascia fortunatamente quello spazio enorme che permette di soppesare con profondo rispetto le ragioni e gli argomenti di tutti, di meditare soluzioni diverse in uno spirito di continuo esame e di dubbio permanente, senza aspirare al successo in termini di numero o di potere. Per tutte queste ragioni, il tema fondamentale scelto quest’anno, quello della “Pedagogia delle libertà”, non è affatto né casuale né banale. Nel corso del suo lungo cammino, la Massoneria si è di norma posta come laboratorio di idee, come spazio libero e adogmatico di incontro tra uomini diversi, che, attraverso il dialogo e lo studio, accrescono la loro spiritualità, affinano la conoscenza, rinsaldano la morale e si preparano a vivere socialmente, in forza dei valori di tolleranza, libertà, eguaglianza e fratellanza.

Vi rammento che i Massoni hanno sempre lavorato alla costruzione delle più importanti istituzioni democratiche, alla redazione delle costituzioni moderne, alla definizione filosofico-giuridica dei principi fondamentali sui quali sono state create istituzioni straordinarie come la Società delle Nazioni, la Croce Rossa ecc.; non dimentichiamo, inoltre, che i Liberi Muratori hanno sistematicamente lottato per il suffragio universale, per la scuola pubblica e gratuita, per l’abolizione della pena di morte, lavorando attorno ad un’idea in continuo rinnovamento della piena dignità dell’uomo. Che tale patrimonio democratico e libertario, mirante alla difesa della centralità dell’essere umano, come soggetto e non come oggetto educativo da indottrinare, come protagonista responsabile delle sue scelte e non come suddito o bolso consumatore di merci, venga spesso sottaciuto non ci stupisce affatto, anche se tale silenzio non ci impedisce di continuare su questo duro sebbene al contempo necessario ed entusiasmante cammino.

Che cos’è infatti la Massoneria se non una palestra di continua e mutua educazione! Chi entra in Massoneria, lo fa perché sente la necessità di perfezionarsi attraverso un cammino spirituale e, conseguentemente, accetta un percorso che lo costringe a mettersi in discussione, ad affrontare attraverso i nostri rituali alcuni temi archetipali di enorme profondità. Desidero ancora una volta sottolineare che la Massoneria educa anche a non trovare le risposte essenziali già confezionate. Al contrario di tante associazioni politiche e religiose, il Massone viene da subito invitato a non accontentarsi della vulgata comune o a credere supinamente a quanto gli viene detto anche in Loggia, e non solo fuori. I riti, i simboli, intorno a cui lavoriamo, servono a suscitare interrogativi, dubbi, perplessità, e richiedono risposte che non sono aprioristicamente determinate o scontate, ma alle quali ciascuno deve avvicinarsi in un continuo adeguamento delle sue conoscenze e delle sue sensibilità.

Tali caratteristiche rendono la Massoneria una realtà atipica, poiché essa non impone affatto un credo, né smentisce le verità eventualmente proposte da altri; semplicemente, si fa per dire, invita l’iniziato a rimeditare quanto egli ritenga di aver conosciuto in via definitiva e a ritornarvi sopra in modo più profondo e critico, grazie al libero esame e al confronto critico con gli altri. Si tratta, pertanto, di esperire attraverso il lavoro nel Tempio una pedagogia di libertà, adogmatica, aperta alla conoscenza ed al dubbio costruttivo, ma anche pronta a misurarsi con le nuove scoperte o con nuove e originali prospettive, mai assunte però in forma unilaterale.

 

 

La Massoneria dovrebbe per sua costituzione essere anticonformista, e quindi pronta a cogliere i nuovi stimoli che attraversano la società, ma allo stesso tempo così matura da saperli coniugare con la sua tradizione di prudenza, di saggezza e di pacata riflessione. Questo, insomma, è o dovrebbe essere, quando vi riusciamo, il nostro lavoro. Non bisognerebbe stupirsi, allora, a fronte di una così particolare impostazione, del fatto che i Massoni si sentono oggi profondamente colpiti dalla inadeguatezza con cui aspetti etici fondamentali per tutta la nostra società vengono di fatto trattati.

Da tempo abbiamo espresso la nostra preoccupazione sul fatto che la laicità dello Stato si stia profondamente annacquando. Ogni tema cruciale diventa oggetto di un negoziato tra teologia e mondo laico, tra proclami da crociata e richiami al dogmatismo religioso e accordi più o meno sottobanco, in un mercato delle libertà che ci appare inqualificabile. Non solo il nostro paese si è ritrovato con una delle peggiori normative rispetto alla ricerca scientifica concernente i diversi aspetti della genetica e della fecondazione artificiale, ma si è tecnicamente dichiarato che la fecondazione eterologa sarebbe un reato per puri motivi legati ad una posizione teologica specifica, non condivisa né dalla comunità scientifica né da una parte della stessa Chiesa Cattolica.

Il fatto poi che prestigiose istituzioni religiose abbiano proposto una pedagogia del disimpegno invitando i cittadini a non votare in occasione del referendum, nel merito del quale il Grande Oriente d’Italia non aveva espresso alcuna indicazione di voto se non quella di esercitare il diritto di voto, è stato indice di una manifesta strategia diseducativa nei confronti soprattutto delle generazioni più giovani. Come istituzione pedagogica la Massoneria non poteva infatti delegittimare uno dei più importanti strumenti della libertà di espressione del cittadino e per questa ragione invitare soprattutto i giovani a mantenere alta la considerazione per le dinamiche essenziali del confronto democratico, denunciando come scellerato l’invito, da qualunque parte provenisse, a disertare le urne. Ma altri e più difficili argomenti sono emersi nel panorama presente e di fronte ai quali non possiamo tacere.

I Massoni non hanno timore di interrogarsi sul tema del dolore e della morte, ma anche di porsi qualche interrogativo nel merito sulla questione del diritto di concludere con dignità il cammino dell’esistenza. Nessuno di noi si sente perciò nella posizione di poter giudicare, o peggio condannare come peccatori coloro che, esaurite tutte le possibilità messe a disposizione della medicina e posti in una condizione umiliante, chiedono che sia interrotto l’accanimento terapeutico a cui sono stati sottoposti. Non si sta invocando una deregulation che liberalizzi o incentivi il suicidio, ma vorremmo che ogni essere umano, date certe condizioni ben definibili sul piano scientifico e deontologico, possa restare padrone della sua vita e della sua morte e non giacere come un prigioniero incatenato ad un corpo che è divenuto per lui solo una prigione inaccettabile. La vita è certamente un dono, e rispettiamo coloro che ritengono inaccettabile abbandonarla anzi tempo anche se posti nelle peggiori condizioni. Si tratta di una convinzione che fonda le sue ragioni in motivazioni profonde e serissime, ma tale convinzione dovrebbe legittimamente determinare le scelte di coloro che la professano, e non ricadere come un diktat valido per tutti. Riteniamo che ci siano momenti dell’esistenza (o di un’esistenza che non è più pienamente tale, almeno per chi soggettivamente la sta esperendo) davanti ai quali lo Stato dovrebbe rispettare la dignità e la libertà di coscienza del cittadino, di chi in particolare patisce in prima persona; momenti in cui il giudizio altrui debba essere sospeso ed in cui le diverse opzioni etiche, religiose, culturali e spirituali abbiano il pieno diritto di coniugarsi nella loro libertà, ma anche nella loro diversità. Non è ammissibile che una sola pretesa verità assoluta possa essere imposta alla comunità civile come l’unico vincolo etico-morale da accettare senza deroghe. Lo Stato laico ha il pieno dovere di rispettare il dolore e, nei casi stabiliti, riconoscere la legittimità da parte del singolo di sottrarvisi, poste determinate condizioni. Una sorta di dittatura morale sul corpo malato viene, invece, spacciata come valore universale, mentre si tratta piuttosto di un’imposizione illiberale di stampo totalitario. Ricusiamo, inoltre, tutte le accuse che, anche di recente, vengono evocate contro le famose lobby laiciste, che minerebbero i valori fondamentali della vita e della società. La Chiesa Cattolica non ha mai condannato in modo inequivocabile né la pena di morte né lo strumento della guerra e, nella sua storia plurisecolare, ha fatto uso sia dell’uno sia dell’altro quando lo ha ritenuto necessario. Peraltro, sappiamo bene che molti Massoni per ragioni di coscienza non accetterebbero mai l’eutanasia, ma allo stesso tempo essi non imporrebbero mai agli altri una loro scelta personale su di un argomento così ontologicamente privato e terribilmente lacerante. Questa per noi è libertà nella diversità; esercizio delle proprie convinzioni senza vincoli teologici da imporre agli altri. La Chiesa ha certamente tutto il diritto di richiamare i suoi fedeli alle proprie verità, alla sua teologia, alla sua morale. Crediamo che sia invece inaccettabile che essa ritenga di poter assumere una tutela morale sulla libertà di coscienza di tutti gli Italiani, e soprattutto sul loro Stato, in modo che le sue leggi non siano conformi ai principi di laicità riconosciuti dalla Costituzione Repubblicana, ma a quelli dell’autorità religiosa. Le invettive contro il laicismo e, soprattutto, contro il relativismo di cui saremmo uno dei principali colpevoli sono molto deboli e argomentate solo sulla base di una faziosità aprioristica.

 

Anche in questo frangente, siamo costretti a constatare che il relativismo è proprio di coloro che non sanno uscire da una cornice ristretta, considerata come efficace e vincolante in eterno, senza che essa sia mai soggetta a discussione e, come invece accade nelle scienze moderne, al criterio di falsificabilità. Relativismo è questa terribile autoreferenzialità che rende una parte del pensiero teologico assolutamente impermeabile al mutamento delle conoscenze, dei paradigmi storico-epistemologici, e che ripete nei secoli, senza ammettere il diritto di scelta, la propria posizione inamovibile. Non basta criticare l’antimodernità dei fondamentalismi, quando non si riconosce la legittimità di opzioni altre, di percorsi alternativi e soprattutto di categorie non subordinate ad un preciso sistema teologico-filosofico. La certezza del possesso della verità assoluta non può tramutarsi in una imposizione generalizzata da parte di una Chiesa sull’intero corpo sociale se non in una teocrazia.

Non si fraintenda. La Massoneria non combatte le religioni; anzi, spesso ha facilitato il dialogo tra gli appartenenti a fedi e confessioni diverse ed ancora oggi, in molti paesi extraeuropei, essa resta uno dei migliori veicoli per la diffusione dei valori di convivenza laica e democratica, secondo la lezione del parlamentarismo britannico che attraverso le logge si è irradiato a partire dal ‘700 in tutto il nostro continente ed oltre. I Massoni agiscono con riferimento alla grande opera del Grande Architetto dell’Universo, e per questa ragione considerano il loro simile un fine e non un mezzo, sempre pronti a cercare la via del confronto aperto e aprioristico. Anziché riunirsi tra omologhi, essi aspirano a coinvolgere persone di estrazione, idee e culti diversi, perché è in tale complessità che ritengono di acquisire maggior saggezza e conoscenza. La paideia massonica insiste infatti su un metodo che ad ogni passo ribadisce la provvisorietà del nostro sapere, come i nostri Templi, la cui volta rappresenta un cielo stellato, simbolo della incompletezza dell’opera già svolta e della necessità di andare oltre sul cammino della sapienza e della verità. Per il massone, scoprire di avere torto è un risultato positivo, giacché egli si rende conto di aver lasciato indietro un errore a cui era in precedenza legato e non una sconfitta irrimediabile. Tale via non è contro le religioni, anzi può arricchire l’homo religiosus, aprendogli prospettive nuove e mai immaginate in precedenza. Si tratta, pertanto, di vivere una dimensione di incessante ricerca del perfezionamento interiore, che si apre all’altro ed alle sue diverse prospettive, che si muove tra trasparenze ed ostacoli, senza mai rinunciare all’ascolto ed alla tolleranza. Questi i nostri strumenti ed i nostri valori antichi, la cui validità ci pare inalterata ancor oggi. Ritorniamo così al tema della pedagogia delle libertà. Nel solco di una storia secolare, vogliamo ribadire l’importanza della scuola pubblica e della formazione universitaria, così come dell’educazione permanente degli adulti.

Ogni investimento dedicato ai giovani, alla costruzione di una identità forte, matura, attenta ai cambiamenti epocali ed alle sfide della modernità, non può che ritornare in futuro decuplicato nei suoi effetti. Il cittadino viene formato a partire dall’asilo, attraverso la serietà e la professionalità di coloro che ne curano la crescita.

In Italia, paradossalmente, la figura degli insegnanti, a partire dai maestri elementari, sembra rimasta ancorata ad un passato in cui il solo fatto di andare a scuola, in un’aula calda o perlomeno non gelida, doveva apparire come un privilegio. E’ inevitabile richiamare allora la memoria di uno dei più grandi massoni italiani del passato, di cui quest’anno ricorre il centenario della morte, Giosue Carducci, il quale dal suo magistero non cessò mai di sottolineare la radicale importanza dei docenti, del loro ruolo civile, attori principali nel processo di costruttori di un paese e della sua identità, enfatizzando quindi la straordinaria fecondità dell’istituzione scolastica.

 

Inoltre, bisogna insistere sulla fondamentale importanza della Scuola di Stato come strumento di integrazione degli stranieri, come luogo di costruzione dei cittadini futuri, evitando che si cada nel modello della scuola-ghetto, ove le diverse confessioni si fabbricano il proprio modello educativo in una sorta di tregua armata con le altre comunità. Il rischio è quello di allevare nuovi relativismi, nuovi fondamentalismi, fucina di uomini e donne che non si identificheranno affatto con la Costituzione della Repubblica e con la società aperta, ma solo con la propria comunità. La costruzione di un processo di pace mondiale passa anche attraverso queste sfide locali, o se si vuole, glocali, giacché la postmodernità insegna che anche la dimensione più piccola può assumere rilevanza generale in determinati momenti. Proprio perché uniformata a profondi principi di auto-educazione del cittadino, la Libera Muratoria esalta la valenza positiva di tutte le istituzioni formative e pedagogiche preposte alla formazione dell’individuo. Non è compito della Libera Muratoria pronunciarsi su temi scottanti quali quelli dei cosiddetti PACS o DICO; diverse sono le opinione dei singoli massoni su tale questione. La materia è certamente difficile, ma non sembra degna di un paese maturo una discussione basata su proclami e scomuniche, sui richiami alla famiglia naturale senza una riflessione assennata sulla complessità della vita di relazione e sulle sue costellazioni che da essa scaturiscono nella realtà del XXI secolo. Ci troviamo allora dinanzi a paradossi bizzarri. Si difende a giusto titolo la famiglia naturale, che in realtà è il frutto di una complessa evoluzione storica e sociale, mentre non si ricorda che nel nostro paese è diventato drammatico per le donne lavoratrici avere figli, senza strutture adeguate e senza servizi degni di questo nome. Dove le adozioni sembrano delle Forche Caudine e la possibilità di trovare un lavoro stabile alza sempre di più l’età media dei giovani che entrano finalmente nella dimensione del mondo degli adulti. Abbiamo però anche qualche dubbio sul fatto che la famiglia naturale, una volta costituita secondo il rito concordatario, possa essere sciolta dai tribunali rotali, cancellando giuridicamente anche gli effetti civili, come se nulla fosse mai accaduto. Si danno infatti pesi e misure diverse e fortemente squilibrate a svantaggio della dignità di uno Stato Laico. Auspichiamo, quindi, per il futuro che tali problemi siano oggetto di un confronto civile e aperto e non di un nuovo braccio di ferro tra la dottrina della fede e la società civile. Le valenze pedagogiche della sociabilità massonica si coniugano in una contesto più ampio ed articolato, che non si pone affatto al di fuori di un atteggiamento responsabile rispetto alla complessità sociale del mondo globalizzato, che appare determinata da una dinamicità sino a qualche anno or sono inimmaginabile. La realtà sociale è, infatti, attraversata da rapidi mutamenti nei modelli culturali, nei costumi, negli atteggiamenti e nei comportamenti, individuali e collettivi, che impongono o, comunque, ingenerano continui adattamenti e innovazioni. La complessità, a sua volta, è foriera di numerose sfide per l’uomo d’oggi. Per altro verso, i progressi nel campo scientifico e tecnologico, i processi di globalizzazione dell’economia, le nuove emergenze planetarie, i forti flussi migratori provenienti dai Paesi più poveri e il sorgere di nuovi razzismi costituiscono ormai una sfida sociale, culturale e politica molto impegnativa per le società occidentali. In effetti, i temi, i problemi e le prospettive appena richiamate si configurano come fattori di disagio esistenziale. D’altra parte, l’espansione esponenziale delle informazioni veicolate dai mezzi di comunicazione di massa mentre, da un lato, offre possibilità di istruzione e di stimolo culturale, induce, dall’altro, pericolosi atteggiamenti di conformismo e rischi crescenti di manipolazione. Questi scenari ci consentono di concludere che viviamo immersi in una società complessa e cognitiva ma, ahimé, anche incerta e, perché no?, sotto molti aspetti, volgare (assolutamente priva di finezza, di signorilità, di garbo) e sguaiata (mancante di decoro, di decenza, di educazione); inoltre, inducono ad inquietanti interrogativi, che potremmo sintetizzare nel seguente quesito: «Che tipo di uomo per questa società?», non dimenticando, però, di aggiungere: «per immaginare e realizzare un mondo migliore?».

Ora, è ovvio che la risposta più immediata sia « un uomo capace di dominare la complessità e di ritrovare, di conseguenza, l’orizzonte di senso». Facciamo riferimento, quindi, ad un uomo, dotato di autonomia intellettuale e di creatività progettuale, protagonista della sua esistenza, che egli nobilita ad ogni istante con i valori che gli sono propri, la volontà e la libertà, e che gli consentono, queste ultime, di essere e mantenersi persona.

 

Ma, oggi, esistono “condizioni fisiologiche” che aprono una prospettiva positiva in tale direzione? O sono ben presenti nel contesto contemporaneo premesse che favorirebbero ben altre e pericolose derive? La risposta a questi interrogativi non è di quelle che possono essere date con superficialità. Non è difficile dedurre che oggi sono molte quelle che potrebbero essere definite emergenze esistenziali. E’ ragionevole, allora, ritenere che il futuro attende il loro superamento, impone una necessaria ed ineludibile rimodulazione delle coordinate che garantiscono all’uomo il recupero di una dimensione in grado di consentirgli un’esistenza in sintonia con se stesso e con il mondo. Ed è questo il progetto che postula, legittima ed invoca il contributo del pensiero e dell’azione della Massoneria. Occorre allora individuare quale ruolo potrebbe essere giocato dal Grande Oriente d’Italia, nel processo di costruzione della civiltà del terzo millennio, soffermandoci sul perchè della sua presenza, sui suoi principi e sulle sue finalità, sugli obiettivi da individuare e proporre ed sui conseguenti compiti da svolgere. Sotto il primo profilo, quello della presenza, la Massoneria trova una legittimazione filosofico-ideologica in quanto ha elaborato ed è portatrice di una propria Weltanschauung che contempla il rispetto delle diversità, alimentato e nobilitato dall’adozione dei valori dell’uguaglianza, della fratellanza, della libertà e della tolleranza; ma ha anche una propria paideia, per una pedagogia dell’umano. In ordine ai principi ed alle finalità, invece, le sarà sufficiente attestarsi su quelle adottate fino ad oggi, che possono essere riassunte nella dichiarata volontà di lavorare per il bene ed il progresso dell’umanità. La Massoneria è e resta un Ordine iniziatico i cui membri operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia; che propugna la tolleranza, il rispetto di sé e degli altri, la libertà di coscienza e di pensiero, promuove l’amore per il prossimo e ricerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale. Inoltre, essa afferma l’alto valore della singola persona umana e riconosce ad ogni uomo il diritto di contribuire autonomamente alla ricerca della verità. La Massoneria, poi, è apolitica e non tratta questioni di politica e di religione. Il massone presta la dovuta obbedienza e la scrupolosa osservanza alla Carta Costituzionale dello Stato nel quale risiede ed è tenuto ad astenersi dal partecipare, sostenere o incoraggiare qualsiasi azione volta a turbare l’ordine liberamente e democraticamente costituito della società. Quanto agli obiettivi, la Massoneria si configura come un laboratorio di idee, motore, quindi, di una propria elaborazione culturale e di una propria proposta di fronte ai grandi temi che si affacciano, di volta in volta, sulla ribalta della società. La Massoneria intende abitare il futuro sorretta dalla certezza di una “tradizione” ideologico-esoterica costituitasi nel tempo e che annovera tra i suoi protagonisti personaggi che hanno contribuito a fare la storia del mondo. Fin dai suoi albori speculativi la Massoneria ha saputo immaginare un progetto rivelatosi formidabile fattore di cambiamento per il mondo intero. Questo progetto, fra l’altro, contemplava e contempla: diritti civili, libertà, uguaglianza, organizzazioni internazionali a garanzia delle tutela di questi stessi valori e così via. Quali gli ulteriori obiettivi la Massoneria può oggi individuare per continuare a contribuire al bene ed al progresso dell’umanità? Per ora, nell’impossibilità di enumerarli, anche perché molti saranno definiti in itinere lungo il procedere della civiltà del terzo millennio, è sufficiente sottolineare che essi sono compresi nel Progetto di un Nuovo Umanesimo per il Rinascimento dei valori, la sola via per pervenire ad una Civiltà della Persona edificata sui fondamenti culturali della Massoneria, vale a dire, uguaglianza, libertà, fratellanza, tolleranza; valori, questi, che conducono all’amore gratuito dell’uomo per il proprio simile. Si tratta di un Nuovo Umanesimo inteso come consapevole conquista di un nuovo senso dell’uomo e dei suoi problemi, che possa veramente preludere ad una “rigenerazione” della civiltà, ad una Renovatio, cioè alla Rinascita dello spirito dell’uomo, appunto. La Massoneria concorre responsabilmente e produttivamente alla ricostruzione/ricostituzione dell’uomo, affinché l’esito delle dinamiche presenti nell’attuale momento storico non conduca ad una mesta deriva per la cultura e per la civiltà. La ri-costruzione dell’uomo è resa possibile dall’abbandono dell’etica dell’emergenza e dalla contestuale adozione di un’etica della responsabilità: mettere l’uomo al centro della vita può e deve, allora, rappresentare l’imperativo etico e/o la consegna esistenziale per combattere la “caduta delle evidenze etiche”, la “disaffezione alla socialità” e la “quasi stanchezza della democrazia” (= astensionismo dal voto, dominio occulto delle forze economiche e finanziarie, la mancanza di rispetto ed i conflitti tra poteri e ordini istituzionali, solo per restare in Italia).

 

Questa prospettiva consentirebbe di non venir meno alla fedeltà all’essere dell’uomo. A questo punto ci si deve chiedere: per realizzare questi obiettivi, quali sono le strade che la Massoneria è possibilitata a percorrere? Quali sono i compiti che ad essa derivano dall’assunzione di questa responsabilità di fronte all’uomo? La risposta a questi interrogativi impone alcune altre brevi considerazioni preliminari. E’ stato già ricordato che la proliferazione dei settori del sapere e la frammentazione delle conoscenze che ne è conseguita e la complessità dei problemi che affliggono il «villaggio globale», che costringe sovente la persona ad occuparsi esclusivamente del quotidiano a discapito dell’espansione dell’area della progettualità, hanno affievolito nell’uomo contemporaneo la coscienza del significato dell’esistenza. In particolare, quest’ultimo rischia di smarrire la capacità di meravigliarsi, di contemplare e di immedesimarsi, per scivolare lungo la china dell’indifferenza e della riduzione dei rapporti sociali: il suo sempre più accentuato ripiegamento individualistico sembrerebbe condannarlo all’impersonalità delle relazioni. Vive, in buona sostanza, una crisi di orientamento valoriale. Infatti, il progresso cognitivo, il moltiplicarsi delle offerte del plaisir e gli apparenti spazi delle libertà personale non sono, di per sé, portatori di autenticità e felicità: il senso dell’esistenza esige impegno, autenticità nelle relazioni e deve necessariamente essere ancorato ad un mondo di significati e di valori. Al contrario si assiste all’inesorabile graduale perdita dei valori personali: si sta sacrificando sull’altare del successo e del potere l’autenticità stessa della vita. A quest’ultima, il mondo dei mass-media sostituisce e riverisce sua maestà l’immagine. La sopravvalutazione dell’individualità, del piacere ed anche del sapere, in quanto tali, genera, invece, sempre un disorientamento generale e favorisce la caduta di quel partecipe senso d’umanità che alimenta la capacità individuale del percepirsi accomunati a tutti gli altri esseri viventi. Nel recupero dell’interiorità, lontano dal frastuono dei rumori e dell’annichilimento dell’esaltazione, risiede la possibilità di scoprire che «l’esistenza umana è orientata sempre verso qualcosa o qualcuno che sta al di fuori di se stesso: un significato da realizzare o un’altra esistenza umana da incontrare» ( V. Franki, 1980). Ne deriva la necessità di una ridefinizione di un nuovo atteggiamento vitale, modulato sul riconoscimento dell’interdipendenza di tutto e della conseguente complementarietà di tutti. Ad ogni uomo spetta il compito di condividere umanità e cooperare soprattutto alla riscoperta di un senso ampio e forte per cui vivere, implicante tutti gli altri esseri viventi e la realtà terrestre nel suo insieme. Da qui scaturisce, allora, il compito della Massoneria in ordine alla via da percorrere per realizzare gli obiettivi contenuti nel suo progetto d’umanità. Prima preoccupazione e intenzione della Massoneria, quindi, diventa l’esigenza di contribuire al potenziamento dell’orizzonte culturale, per consentire all’uomo di ritrovare la via del senso, cioè il percorso esistenziale finalizzato a promuovere in ogni singolo uomo la capacità d’intercettare le esigenze vitali dell’umanità intera, nella consapevolezza di una ricerca comune di giustizia, pace, felicità e Verità. Per realizzare ciò risulta, allora, necessario, in primo luogo, guadagnare la capacità di riaprire un dialogo diretto con la natura, con le cose e con le persone; poi, imparare ad ascoltare empaticamente gli altri, per registrare i problemi connaturati alla stessa vita associata, senza mai sposare interpretazioni ideologiche riduttive; infine, giovarsi delle conoscenze per rintracciare le informazioni efficaci per comprendersi, condividere e partecipare. In altri termini: l’uomo deve recuperare lo stesso senso del vivere, deve riconquistare una relazione significativa con l’esistenza e, solo allora, la crescita culturale si tradurrà in autenticazione d’umanità e comprensione della realtà della vita in ogni sua forma: è questa la scommessa che la massoneria è pronta a giocare e a vincere nel terzo millennio. La via della comprensione esistenziale e del dialogo coniugata all’impegno personale può consentire la crescita etica necessaria per giungere alla ri-definizione dell’orizzonte di senso: questo anelito, che potrebbe essere definito etico, deve essere il compagno di viaggio dell’uomo se egli vuole attingere la vita significativa. La Massoneria configurandosi come ambiente formativo al di là delle diversità delle condizioni culturali, sociali ed economiche, rappresenta un ambito di esistenza e, nel contempo, lo sfondo di valore entro il quale accogliere l’istanza etica, corroborarla con i propri principi, elaborarla in forma di comunicazione significativa e affidarla al confronto culturale. La Massoneria nel terzo millennio, dunque, come sentinella etica (non dimentichiamo che pur sempre Essa può essere definita «sistema morale velato da simboli») contro trionfanti ideologie del non-pensiero, volta a costruire le condizioni spirituali del futuro; per compiere, “spedizioni verso le terre del non-ancora, utopia speranza”; non per conquistarle, per esserci, non per integrarvisi ma per essere altro anche nell’altrove”. (I. Mancini). La Massoneria non può dare garanzie sul traguardo, ma garantisce che mai vi sarà ritorno sulle posizioni precedenti. Si fa viatico per il futuro: per fornire una dimensione di senso contenuta in una visione filosofica che ha attraversato il passato ed attraversa il presente ma che è rivolta soprattutto al futuro e che si incentra sull’Uomo. Per questo futuro il Grande Oriente d’Italia intende “lavorare” per insegnare all’uomo ad apprendere e formarsi: intende continuare ad essere laboratorio di produzione di un pensiero pensante incessante, non prefabbricato, sempre in atto, infinito, ricerca critica, emancipativa. Ma questo significa educare alle libertà: essere costruttori di comprensione e di dialogo in un mondo troppe volte trafitto dalla violenza e dalle ingiustizie; ma soprattutto fa comprendere la vera grandezza dell’essenza del vivere.

 

 

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L’ ORLANDO FURIOSO

L’ ORLANDO FURIOSO

 

Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo, il 1474. Machiavelli, Berni, Bembo, Guicciardini, Folengo, Aretino, i principali personaggi di questa età letteraria, nacquero in questo scorcio del secolo, a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove, il Bembo nel settanta, il Guicciardini nell’ottantadue, e nel novantaquattro il Folengo, e nel novanta Pietro Aretino.

Nel novantotto, proprio l’anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune fiorentino, Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L’uno attendeva alle gravi faccende dello Stato, e ne’ suoi viaggi in Italia e in Europa attingeva quella scienza dell’uomo e quella pratica del mondo, che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l’altro faceva il letterato in corte, e scrivea sonetti, canzoni, elegie, capitoli, commedie, tutto nel mondo della sua immaginazione.

Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finchè, avuta dal padre licenza, si mise con ardore allo studio delle lettere, e tutto pieno il capo di Virgilio, Orazio, Petrarca, Plauto, Terenzio, cominciò a far versi latini e italiani, come tutti facevano, elegie, canzoni, odi, epigrammi, madrigali, sonetti, epistole, epitalami, carmi.

Nel ’94, quando Carlo ottavo scendeva in Italia, il giovane Ludovico scrive un’ode oraziana a Filiroe, nome ch’egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia

… … asperi

furore militis tremendo,

turribus ausoniis ruinam.

E il giovane sdraiato sull’erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:

Rursus quid hostis prospiciat sibi,

me nulla tangat cura, sub arbuto

iacentem aquae ad murmur cadentis…

Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita: e che importa? sol che possa andar pe’ campi, seguire Lida, Licori, Filli, Glaura, e cantare i suoi amori:

Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris

Lyda modo meus est, est modo Phyllis amor…

Antra mihi placeant potius montesque supini,

vividaque irriguis gramina semper aquis …

Dum vaga mens aliud poscat, procul este Catones …

E scrive De puella, De Lydia, nome oraziano di una sua amata di Reggio, De Iulia, una cantante, De Glycere et Lycori, De Megilla, e fino De catella puellae, imitazione felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il ducato di Milano, chiamatovi da Alessandro sesto e che importa,

… … si furor, Alpibus

saevo flaminis irmpetu

… … iam spretis, quatiat celticus ausones?

Che importa servire a re gallo o latino,

si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?

Barbaricone esse est peius sub nomine, quam sub

moribus?

Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane, esclamando: “Improba secli conditio!” e lamentando “clades et Latii interitum”,

nuper ab occiduis illatum gentibus, olim

pressa quibus nostro colla fuere iugo,

svolge l’occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L’anno appresso alla calata di Carlo ottavo l’Ariosto recita l’orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara, De laudibus philosophiae, e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti, canzoni, elegie, dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre a diciannove anni, scrive un’elegia per la morte di Leonora d’Aragona, moglie del duca di Ferrara. Nell’introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:

Rime disposte a lamentarvi sempre,

accompagnate il miserabil core

in altro stil che in amorose tempre:

che or giustamente da mostrar dolore

abbiamo causa, ed è sì grave il danno

che appena so s’esser potria maggiore.

I suoi amori in italiano sono platonici, alla petrarchesca; in latino sono sensuali, all’oraziana. In latino tiene Megilla tra le braccia, e non può credere a’ suoi occhi, e dice:

An haec vera Megilla

cuius detineor sinu?

Haec, haec vera mea est; nil modo fallimur,

mi anceps anime: en sume cupita iam

mellita oscula, sume

expectata diu bona.

Ma in italiano Megilla è “l’alta beltade”, che “col suo beato lume illustra e imbianca l’occaso”, e l’amante e “nel dir lento e restio” e non descrive, perchè “chi descriver puote a pieno il sole?”.

Non è valore uman che tanto ascenda.

Se avesse potuto apprendere il greco, Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell’immaginazione un’altra fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma, tutto dietro al latino, non pensò per allora al greco:

Che ‘l saper nella lingua degli Achei

non mi reputo onor, s’io non intendo

prima il parlar de li latini miei.

Mentre l’uno acquistando, e differendo

vo l’altro, l’occasion fuggì sdegnata,

poi che mi porge il crine ed io nol prendo.

Morì il padre, ch’egli aveva soli ventott’anni, e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare Omero nel libro de’ conti:

Mi more il padre, e da Maria il pensiero

dietro a Marta bisogna ch’io rivolga;

ch’io muti in squarci ed in vacchette Omero.

Nè potè avere più agio e modo d’intendere “nella propria lingua dell’autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore, e ciò che scrisse Euripide, Pindaro e gli altri, a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e sì faconde”; perchè venuto in corte fu mandato qua e là, oppresso dal giogo del cardinale d’Este:

E di poeta cavallar mi feo:

vedi se per le balze e per le fosse

io potevo imparar greco o caldeo.

Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria, una commedia in prosa, scritta con tutte le regole della commedia plautina, e che parve un miracolo a Ferrara, appunto perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia, con tutte le regole dell’arte poetica e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s’imitava quel meccanismo, ma si riproducea lo stesso mondo comico, servi, parasiti, cortigiane, padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore, a quel modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori, vive tutto in quel mondo di Plauto, e nel suo lavoro d’imitazione perde di vista la società in mezzo a cui si trova. La sua commedia è una ricostruzione, non è una creazione, e intento al meccanismo, si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone, non so che licenzioso e buffonesco, conforme allo spirito comico, quale s’era sviluppato a Firenze, e si sentiva nel Lasca e nel Berni, segretario del Bibbiena. Ma l’Ariosto vive fuori di questo ambiente, e in un mondo tutto di erudizione, e quando vuol essere faceto, ti riesce grossolano. Oltrechè, essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati, ci sta a disagio, e non ci si abbandona, e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne’ viluppi, negl’intrighi, negli equivoci, prodotti dal caso o dalla malizia, in un imbroglio drammatico, che spesso stanca l’attenzione. Ma l’intrigo non basta a sostenere l’interesse, quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l’intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola, Volpino, Nebbia, Erofilo, Lucrano sono esseri insignificanti, nè dall’intreccio esce alcuna scena fondamentale, dove si raccolga l’interesse. Più tardi scrisse altre commedie, intestatosi a farle in versi sdruccioli, per rendere l’imitazione latina perfetta, parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in questa forma sgraziata, che vuol essere poesia e non è prosa, gli riesce meglio la commedia, ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società, come è il Negromante. Sbagliata la via, non si raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte, e con sue bugie cava quattrini da’ gonzi, è un argomento popolarissimo, e trattato allora da tutt’i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate, come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall’astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio, e l’ambiente di Firenze, dove lo speziale arguto continua il Sacchetti, il Pulci, il Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la società latina, dove il servo è più astuto del padrone, rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l’intende e la studia su’ libri. Cinzio, Camillo, Massimo sono mummie più che uomini, preda facile de’ birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale, ma il fondo del quadro, la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de’ servi e degli avventurieri. Concetto profondo, se l’Ariosto l’avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso, come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio, sì che i servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori, come Fazio e Temolo, che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui, che è il protagonista, non è proprio un astrologo, com’è nel Lasca, e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato, che fa l’astrologo senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall’astrologia messa in burla: qui l’astrologia ci sta per comparsa, nè da essa escono i mezzi d’azione. Se mastro Iachelino, che è il negromante, fosse un vero astrologo, che mentre vuol farla a’ padroni è burlato da’ servitori, il concetto sarebbe così spiritoso, com’è nell’astrologo del Lando, di cui si mostra più sapiente un contadino, anzi l’asina del contadino. Ma qui l’astrologo è un ignorantaccio, che, come dice il Nibbio suo servo e confidente, mal sapendo leggere e male scrivere, fa professione di filosofo, di medico, di alchimista, di astrologo, di mago:

e sa di queste e dell’altre scienzie

che sa l’asino e il bue di sonar gli organi.

Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte, e Fazio e Temolo, che sono i servi, dall’altra. Non mancano bei tratti, che rivelano nell’autore un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante, e il servo si beffa del negromante e del padrone, ed è in ultimo colui che l’accocca a tutti. Cinzio l’assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:

Si vede far tutto il dì, nè miracolo

è cotesto . .

Non vedete voi che subito

un divien potestade, commissario,

provveditore, gabelliere, giudice,

notaio, pagator degli stipendii,

che li costumi umani lascia, e prendeli

o di lupo o di volpe o di alcun nibbio?

– Capisco – dice Cinzio. La poca esperienza che hai del mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e’ possa scongiurare gli spiriti? – E Temolo risponde:

Di questi spirti, a dirvi il ver, pochissimo

nè meno crederei; ma li grandi uomini,

e principi e prelati, che vi credono,

fanno col loro esempio ch’io, vilissimo

fante, vi credo ancora.

Questo tratto è stupendo d’ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de’ grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio, viste le reti tese a Cinzio, a Massimo e a Camillo, il più ricco, domanda al negromante:

Delle tre starne che in piè avete, ditemi,

qual mangerete?

ASTROLOGO

Vedraimi ir beccandole

ad una ad una, ed attaccarmi in ultimo

alla più grassa, e tutta divorarmela.

NIBBIO

Eccoven’una, e la miglior: mettetevi,

se avete fame, a piacer vostro a tavola.

ASTROLOGO

Chi è? Camillo?

NIBBIO

Si.

ASTROLOGO

Si ben; mangiarmelo

voglio, che l’ossa non credo ci restino.

E questo Nibbio, quando vede scoperte le magagne dell’astrologo, egli, suo servo, confidente e mezzano, gli dà il calcio dell’asino, e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale, e poco studiato, e abborracciato nei momenti più interessanti. L’autore vi mostra un’attitudine più a narrare, ad esporre, a descrivere, che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino, è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione, lo si trova noioso, insipido, grossolano, molto al di sotto dell’aspettazione.

Ludovico era di coltura al di sotto de’ tanti dotti di quel tempo, ed anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti, gente oziosa, che i suoi staffieri e camerieri, e volendo trarre un utile dal nostro poeta, ne fece un “cavallaro”, mandandolo qua e là in suo servigio. Ludovico, ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo, quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze, vistolo papa, andò a lui pieno di speranza, e non ne cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese, e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in quell’occasione:

A veder pien di tante ville i colli

par che ‘l terren ve le germogli,

come vermène germogliar suole e rampolli.

Se dentro un mur, sotto un medesmo nome,

fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,

non ti sarian da pareggiar due Rome.

Inviato governatore in Garfagnana, alza le strida perchè il cardinale lo abbia tolto a’ dolci studi e a’ cari amici e spintolo in quel “rincrescevole laberinto”. Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria, e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi, sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio, questo no:

Io stando qui, farò con chiara tromba

il suo nome sonar forse tanto alto,

che tanto mai non si levò colomba.

E lo loda in latino e in volgare, e più sfacciatamente in latino:

Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?

Mystica quis casto castius Hyppolito?

Ma Ippolito non si curava delle lodi, e lo volea servo e non poeta:

Non vuol che laude sua da me composta

per opra degna di mercè si pona:

di mercè degno è l’ir correndo in posta…

S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,

dice ch’io l’ho fatto a piacere e in ozio:

più grato fòra essergli stato appresso.

Ludovico, scrittor di commedie, è lui medesimo un carattere de’ più comici, e se, rappresentando un mondo convenzionale, è riuscito nelle commedie poco felice, è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al naturale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre, e per loro si acconcia a servitù, rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita, starsene a casa fantasticando e facendo versi, vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico, non aveva ambizioni, non curava grandezze, nè onori; “gli sapeva meglio una rapa” in casa sua che t”ordo o starna o porco selvaggio “all’altrui mensa:

E così sotto una vil coltre,

come di seta o d ‘oro ben mi corco.

E più mi piace di posar le poltre

membra, che di vantarle che agli sciti

sien state, agl’indi, agli etiopi, e oltre.

Degli uomini son vari gli appetiti;

a chi piace la chierca, a chi la spada,

a chi la patria, a chi li strani liti.

Chi vuole andare attorno, attorno vada;

vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna:

a me piace abitar la mia contrada.

Visto ho Toscana, Lombardia, Romagna,

quel monte che divide e quel che serra

l’Italia, e un mare e l’altro che la bagna.

Questo mi basta: il resto della terra,

senza mai pagar l’oste, andrò cercando

con Tolomeo, sia il mondo in pace o in guerra.

Ma non è lasciato vivere, e ha tra’ piedi il cardinale, e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:

Apollo, tua merce, tua mercè, santo

collegio delle muse, io non possiedo

tanto per voi, ch’io possa farmi un manto.

… …

Or, conchiudendo, dico che, se ‘l sacro

cardinal comperato avermi stima

con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro

renderli, e tôr la libertà mia prima.

… …

Se avermi dato onde ogni quattro mesi

ho venticinque scudi, nè sì fermi

che molte volte non mi sien contesi,

mi debbe incatenar, schiavo tenermi,

obbligarmi ch’io sudi e tremi, senza

rispetto alcun ch’io muoia o ch’io m’infermi;

non gli lasciate aver questa credenza:

ditegli che più tosto ch’esser servo,

torrò la povertade in pazienza.

Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d’animo o cupido d’onori, che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero, che rompa la catena una buona volta, e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore, con una sua propria fisonomia nella scala de’ Sancio Panza e de’ don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma, con tante speranze nell’amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole, e la sera gli tocca andare a cena sino all’insegna del Montone:

Piegossi a me dalla beata sede:

la mano e poi le gote ambe mi prese,

e il santo bacio in amendue mi diede.

Indi, col seno e con la falda piena

di speme, ma di pioggia molle e brutto,

la notte andai sin al Montone a cena.

Ora lo prende la stizza, e si sfoga descrivendo la cupidità ingorda de’ cardinali; ora fa il filosofo, come volesse dire: – E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre, ne val poi la pena? –

Sia ver che d’oro m’empia la scarsella

e le maniche e il grembo, e se non basta,

m’empia la gola e il ventre e le budella;

in che util mi risulta essermi stanco

in salir tanti gradi? Meglio fora

starmi in riposo, o affaticarmi manco.

Ora ha aria di scusare il papa. – Poerino! Parenti, cardinali che gli diedero “il più bel di tutt’i manti,” amici che lo aiutarono a tornare a Firenze, dee dar bere a tanti!

Se fin che tutti beano, aspetto a trarme

la volontà di bere, o me di sete,

o secco il pozzo d ‘acqua veder parme,

meglio è star nella solita quiete.

Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni, con una perfetta varietà di caratteri, e con un’ironia tanto più pungente, quanto appare più ingenua e più bonaria. Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore, che fa un ritratto stizzoso de’ suoi amministrati, e deplora il tempo sciupato intorno ad essi, o di Ludovico che nega di andare in Ungheria, o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio, e gli narra la sua vita e le sue contrarietà, i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime fiacche, che significa: – Ma che ci è a fare? Pazienza! – E anche una specie di bonomia, che gli fa sciorinare tutt’i suoi difetti, come fossero perle. Anche il Berni è così, e si fa bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia, con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore, e meno cerca l’effetto e più l’ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po’ a sue spese, e senza ch’egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo così artificiato, dove per soverchio studio d’imitazione o per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita, Ludovico, che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale, qui in presenza di se stesso, come Benvenuto Cellini, crea un carattere comico de’ più interessanti, perchè non è solo il suo ritratto, ma del borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma, ha visto Firenze, è stato in Lombardia, ma il suo mondo non si è ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche, i suoi umori con la corte, i suoi piccoli fastidi, i suoi amori, le sue relazioni letterarie, i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto che l’Italia era corsa da’ barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il borghese colto, spensierato, pigro, tranquillo, ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate, è tutto qui con la sua quiete e il suo “fuge rumores”. Ci è in questo ritratto un po’ di Orazio, ma l’imitazione è qui natura, è somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo, perchè senti che l’uomo di cui tu ridi è onesto, gentile, ingenuo, inoffensivo, ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e non la satira, perchè quell’uomo non si propone di berteggiare nè di censurare, ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l’amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni, facezie, motti, proverbi, movimenti stizzosi d’immaginazione, tratti e pitture satiriche, e soprattutto di apologhi graziosissimi, piccoli capilavori. La terza rima, il linguaggio eroico e tragico del medio evo, il linguaggio della Divina Commedia e de’ Trionfi, in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia, il metro del capitolo, della satira e della epistola, con una sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell’Ariosto, dove la terzina è profondamente modificata, e prende forma pedestre, aguzzata e sentenziosa, come un epigramma o un proverbio.

La terzina, come il sonetto e la canzone, era il genere letterario e tradizionale. L’ottava, la cui immagine si vede già abbozzata ne’ rispetti e ne’ canti popolari, era il linguaggio de’ romanzi, delle narrazioni e delle descrizioni, recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e popolare. E la terzina sarebbe rimasta, come il sonetto e la canzone, stazionaria e convenzionale, se il Berni e l’Ariosto non le avessero data nuova vita, traendola dal cielo, e dandole abito conforme al tempo. L’ottava rima cantava; la terzina discorreva, berteggiava, satirizzava, esprimeva la parte prosaica e reale della vita.

Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l’Orlando furioso, con molta noia del cardinale Ippolito, che vedeva sciupato in quelle “corbellerie” il tempo destinato al suo “servizio”. Il Boiardo interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per andar “non so in che loco”. Morì qualche anno dopo, quando Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie, rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell’Omero ferrarese spronò l’Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in terza rima una storia epica de’ fasti estensi, ma smise subito, disacconcio il metro alla sua larga vena. E si risolse senz’altro di continuar la storia di Orlando, ripigliandola là dove l’avea lasciata il Boiardo. Se ne consigliò col Bembo, il quale lo esortò a scrivere il poema in latino. L’Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l’Orlando innamorato. Ma lo capiva l’Ariosto, che di quella lettura facea sua delizia, e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le stesse forme. Così cansò l’imitazione classica, e ricuperò la libertà del suo ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505, al suo trentunesimo anno, e vi si seppellì per dieci anni, e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle, e non se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c’era dunque nella sua testa? C’era l’Orlando furioso. Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.

E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico, di cui non era più alcun vestigio nell’arte, ma il puro sentimento dell’arte, il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne’ suoi fini il desiderio un po’ di secondare il gusto del secolo, e toccare tutte le corde che gli erano gradite, un po’ di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d’Este. Ma sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore, che è per lui fede, moralità e tutto, ed è il culto della bella forma, la schietta ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare, finchè non abbia dato alle sue creazioni l’ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di lavoro uscì l’epopea del Rinascimento, il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia, l’Arte.

Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l’uno e l’altro tra due secoli, prenunziati da astri minori, furono le sintesi, in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.

Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu più poeta che artista: all’artista nocquero la scolastica, l’allegoria, l’ascetismo, e la stessa grandezza ed energia dell’uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente, perchè l’arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme così dense e fisse, che il suo sguardo profondo non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.

Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico, nella sua realtà e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato. Già nel Petrarca spunta l’artista, che si foggia il mondo del suo cuore, e se lo compone e atteggia come pittore, e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio l’arte si trastulla a spese di quella realtà e di quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo, e il riso beffardo del Pulci, e già, vòto il tempio, è surta sugli altari la nuova divinità annunziata da Orfeo, tra’ profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare, e niente da negare. Trova il terreno già sgombro, e senza opera sua. Non è credente, e non è scettico; è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma, destituito di ogni parte nobile e gentile, senza religione, senza patria, senza moralità, non ha per lui che un interesse molto mediocre. Buona pasta d’uomo, con istinti gentili e liberi, servo non fremente e ribelle, ma paziente e stizzoso, adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà, con intelligenza, ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione, un accessorio, e la sua occupazione era l’arte. Andate a vedere quest’uomo mezzano e borghese come quasi tutt’i letterati di quel tempo, nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso, e che non sa conquistare la libertà e non sa patire la servitù, e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest’uomo quando fantastica e compone. Il suo sguardo s’illumina, la sua faccia è ispirata, si sente un iddio. Là, su quella fronte, vive ciò che è ancora vivo in Italia: l’artista.

Già questo mondo cavalleresco, che riempie la sua immaginazione, non era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni idealità si corruppe, molti cercavano ivi quell’ideale di bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l’idillio, i due mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c’era, ma lontana e confusa per le date, per i luoghi e per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali, ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti, dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto “cortesia”, e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que’ costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de’ sentimenti; un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo, nè da alcun codice, ma dall’essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: “in fè di gentiluomo”. Ci era il codice dell’onore e dell’amore, che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltà nell’amore, la devozione al suo signore, l’osservanza della parola, la difesa de’ deboli, la riparazione delle offese, erano gli articoli principali di quel codice, il cui complesso costituiva il così detto punto d’onore. Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle corti italiane, come quelle di Urbino, di Ferrara, di Mantova, era rimasto di quel mondo appena un barlume, e più nell’apparenza che nella sostanza, anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l’eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia, come in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell’onore non era dunque parte intima del carattere nazionale, e se allora potevano esserci uomini di onore, non ci era certo nè un popolo, nè una classe, dove l’onore fosse regola della vita, anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù, era dabbenaggine, e destava quel leggier senso ironico, la cui punta è appena dissimulata nell’esclamazione del poeta:

O gran bontà de’ cavalieri antichi!

Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco, che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni sentimento religioso, morale e politico, l’onore rimaneva senza base, e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali, e più brillanti che solide, di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la cavalleria, come la mitologia e come il mondo religioso, non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo, un mondo d’immaginazione, che interessava non per il suo ideale, ma per la novità, la varietà e la straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato era serio, e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso, cancellati tutt’i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare l’immaginazione, intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde, e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa l’attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre, interrompendo, intramettendo, ripigliando co’ passaggi più bruschi, e portando l’incoerenza fino nell’esterna orditura del racconto.

Già cominciava a spuntare una scienza dell’uomo e della natura. L’invenzione della stampa, la scoperta di Copernico, i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci, gli scritti del Pomponazzi, i Discorsi del Machiavelli, la Riforma, la costruzione solida di grandi Stati, come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare, e il mondo moderno, il mondo dell’uomo e della natura, o, per dirlo in una parola, la scienza, era ancora come un sole inviluppato di vapori, che non danno via a’ suoi raggi. E i vapori erano il mondo popolare dell’immaginazione, che suppliva alla scienza, riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata e ammessa, il miracolo de’ cristiani, il prodigio de’ pagani, gl’incanti de’ maghi e delle fate, le imposture degli astrologi. L’uomo stesso in mezzo a questa natura fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo, credulo, ignorante, abbandonato alle sue inclinazioni e passioni, determinato all’azione da sùbiti movimenti, anzi che da posata riflessione, e che non si ripiega mai in sè, non si studia, non si conosce, è tutto superficie, tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto anch’esso una forza naturale che un essere consapevole, una forza tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti, povera di “carattere” e di “autonomia”.

Nondimeno l’Italia era il paese, dove l’uomo, come intelligenza, era più adulto, più formato dall’educazione e dalla coltura, e dove il soprannaturale sotto tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica, un gioco d’immaginazione. Perciò, se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo reale, questo legame era spezzato tra noi, e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.

Ludovico era tutt’altro che uomo cavalleresco, anzi tirava al comico. E quando prese a voler continuare la storia del Boiardo, era come un pittore che dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata, pur di dipingerla bene. Molti chiedono: – Quale fu lo scopo dell’Ariosto? – Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l’ira di Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la redenzione dell’anima; l’Ariosto non canta l’impresa di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e Bradamante: l’impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco, non lo scopo, ma il tempo e il luogo nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri, le cortesie e le audaci imprese che furono “a quel tempo” che Agramante venne in Francia. Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi, appunto perchè non ci è un’azione unica e centrale, ma parti importanti di quell’immensa totalità che dicesi mondo cavalleresco. L’unità è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio, ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo. Se l’impresa di Agramante fosse non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco, ma una vera e seria azione, lo scopo del poema, e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest’azione, il romanzo sarebbe così difettoso, come difettosa sarebbe la Divina Commedia, a volerla giudicare con lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l’azione e la soperchiano! Bella quest’azione che ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo, e che ispira un interesse molto mediocre al poeta, il quale se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in un centro, e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica, e finita essa, continua senza di essa! Unità d’azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio, e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perchè l’essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell’individuo, la mancanza di serietà, di ordine, e di persistenza in un’azione unica e principale, sì che le azioni si chiamano avventure, e i cavalieri si dicono erranti. Staccarsi dal centro, andare vagando, e cercare avventure, è lo spirito di un mondo che ripugna così alla unità come alla disciplina. Volere organizzare questo mondo co’ precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine, e la varietà è unità. Come l’unità del mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito o nelle sue leggi, così l’unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.

La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell’iniziativa individuale; e ci vuole l’angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri erranti a Parigi, dove si combatte. E non ci si trovano che un par di volte, e appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a’ fantasmi delle loro passioni, tirati da amore, da vendetta, da gloria, e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico, ma anch’essa una grande avventura, cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri, la più parte re e signori, vanno discorrendo per il mondo, e Parigi non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa, e di cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli. Perchè al di sopra di quest’anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico, che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente, e sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l’attenzione, cansare in tanta varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l’imbroglio, ricondurti innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati, e nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila, egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal nodo dell’ordito, è come un faro, che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno. La scena si apre a Parigi, appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta. E allora appunto, quando il bisogno è maggiore, Rinaldo, Orlando, Brandimarte vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo, Orlando corre dietro ad Angelica, e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi corrono, Agramante mette il fuoco a Parigi, e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato, perchè una pioggia miracolosa spenge l’incendio, e Rinaldo guidato dall’angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà i pagani. Agramante che assediava, è assediato. I cavalieri pagani sono anche erranti. Ferraù cerca Orlando, a cui ha giurato di toglier l’elmo; Gradasso cerca Rinaldo, a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa, Rodomonte, Ruggiero, Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice, che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani. Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani. Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra’ cristiani, Ruggiero tra’ pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma Agramante rompe i patti, è disfatto, la sua flotta è dispersa da’ nemici e da’ venti, e vede di lungi la sua patria arsa da’ cristiani. Il poema cominciato a Parigi si termina a Parigi, con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto, ma non ne è l’anima o il motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti, l’amore, o il punto d’onore, o il maraviglioso, che tirasi appresso il cavaliere, quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice macchina o forza, senza personalità; e forze sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio, e tali sono pure le spade e gli scudi incantati, e gli anelli fatati, e gl’ippogrifi, e la lancia di Argalìa, e il corno di Astolfo, e simili storie viete e note, che lasciano fredda l’immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale, che ci si sta dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è, non è in quello, ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta, come sono gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva, nelle varie sue gradazioni, dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano, il cui modello è nel codice di onore, e che rappresenta la civiltà e il progresso nella comune barbarie.

I motivi spirituali di questo mondo, l’amore, l’onore e il maraviglioso o lo spirito di avventura, sono dal poeta portati a quell’ultimo punto che confina col ridicolo: l’amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d’onore degenera in puntiglio e produce i più strani effetti, la cui immagine tragica è Mandricardo, e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell’inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della Luna. Il mondo cavalleresco ne’ suoi motivi interni è spinto all’ultima punta. Se l’elemento soprannaturale è fiacco, e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace persona poetica, vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane, che abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche, serie e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un povero fante, la pazzia di Orlando, la peregrinazione di Astolfo nella Luna, la discordia nel campo di Agramante, Agramante in vista di Biserta, e Gradasso fatato, che, guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana, quando le ha ottenute e si crede felice, è ammazzato da Orlando. Reminiscenza di Achille è Ruggiero, liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di Alcina, e riuscito il più perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti minori, che danno il finito e il contorno a questo mondo nelle sue più lievi sfumature, come è la morte di Zerbino e il lamento d’Isabella, Olimpia abbandonata, la morte e le esequie di Brandimarte, le avventure di Grifone, Dudone, Marfisa, e le scene comiche di Martano, di Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori dell’ordinario e si discosti tanto da’ costumi e dal sentire del suo tempo, pure Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa l’immaginazione, che te lo dà alla luce con tutt’i caratteri di una vita presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco, rappresentare un mondo così straordinario con semplicità e naturalezza. Le condizioni di esistenza sono veramente fantastiche sino all’assurdo; ma una volta ammesse quelle basi, il movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno, con che scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia, o la discordia de’ pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi, e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali, come Rodomonte, Gradasso, Sacripante, Marfisa. Il poeta non s’intromette niente nella sua storia, e più che attore, è spettatore che gode alla vista di quel mondo, quasi non fosse il mondo suo, il parto della sua immaginazione. Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo ariostesco, che è stata detta chiarezza omerica. L’arte italiana in questa semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione, ed è per queste due qualità che l’Ariosto è il principe degli artisti italiani, dico “artisti” e non “poeti”. Non dà valore alle cose, slegate dalla realtà e puro gioco d’immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione, e intorno vi si travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo particolare, che non tiri la sua attenzione, e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto perchè l’interesse è non nella cosa, ma nella sua forma, la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata, e non hai schizzi, hai quadri finiti. Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo, qui te lo dà l’ottava, di una ossatura perfetta, e congegnata a modo di un quadro col suo protagonista, i suoi accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dà una serie, di cui lascia il legame all’immaginazione: l’Ariosto ti dà un vero periodo, così distribuito e proporzionato che pare una persona. E l’effetto è non solo in quella ossatura materiale così solida e bene ordinata, ma in quell’onda musicale, in quella superficie scorrevole e facile, che ti fa giungere all’anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de’ grandi pittori, quando l’immaginazione italiana mirava a dare all’immagine tutta la sua finitezza, l’Ariosto è pittore compìto, che non ti lascia l’oggetto finchè non ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari, o lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione, o di pretensione; ci è l’oggetto per se stesso, che si spiega naturalmente. Il poeta fissa l’esteriorità nel punto che è viva, quando cioè è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori, e non osserva, non riflette, non la scruta, non l’interroga, non cerca al di dentro, non la palpa, non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l’obbiettività del suo quadro; nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta, ci è la cosa che vive, e si move, e non vedi chi la move, e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la “divinità” dell’Ariosto. E non è solo nel minuto, ma nelle grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara ne’ più bruschi e complicati movimenti d’insieme. Indi è che dipinge duelli, battaglie, giostre, feste, spettacoli, paesaggi, castella, con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro, ma ti accorgi che è stata strofinata, leccata, lisciata e si vede l’intenzione dell’eleganza. Qui la superficie è così naturalmente piana, che ti par nata a quel modo e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:

Questa di verdi gemme s’incappella;

quella si mostra allo sportel vezzosa;

l’altra, che in dolce foco ardea pur ora,

languida cade e il bel pratello infiora.

Qui la rosa m’ha aria di una fanciulla civettuola, che prende questa o quell’attitudine per parer vezzosa. L'”incappellarsi”, lo “sportello”, quell'”ardere in dolce foco”, sono immagini appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata, ma come pare all’uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito, che l’orna e la vezzeggia, la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell’Ariosto, la rosa,

che in bel giardin su la nativa spina

mentre sola e sicura si riposa,

nè gregge nè pastor se le avvicina;

l’aura soave e l’alba rugiadosa,

l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:

gioveni vaghi e donne innamorate

amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,

che quanto avea dagli uomini e dal cielo

favor, grazia e bellezza, tutto perde.

Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di descrivere, ma di raccontare, e ti pone innanzi la cosa nella sua verità naturale, sì che niente paia oltrepassato, esagerato, o trasformato. L'”alba rugiadosa”, il “ceppo verde”, la “nativa spina”, i “gioveni vaghi”, le “donne innamorate”, i “seni e le tempie”, il “gregge e il pastore” sono tutte immagini naturali, distinte, plastiche, obbiettive, prodotte da una immaginazione impersonale, assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell’ottava, con tanta semplicità che l’ultimo verso par ti caschi per terra, come vil prosa, a quel modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui eleganza, armonia, colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito, ma sono la forma stessa delle cose, non il loro ornamento o la loro veste, ma la loro chiarezza. Come le cose minime, così le grandi masse sono disegnate con la stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze, perchè ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro, piccolo o grande che sia, prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata, e però ciascun quadro è in sè distinto e compìto, condotto e disegnato negli ultimi particolari. Lo spirito ne’ suoi preconcetti è limitato, e produce la “maniera”, che ti pone innanzi non la cosa vista, ma il modo di guardarla, la visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi, ne’ quali prevale la maniera, come il Petrarca, il Tasso, il Marino, e simili. Al contrario inimitabile è l’Ariosto che non ha maniera, perchè è tutto obbliato e calato nelle cose, e non ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una perfetta bonomia, un’aria di raccontare alla schietta e alla buona, come le cose gli si presentano, senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso, che riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità, senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è trasmutabile in tutte guise, non secondo il suo umore, ma secondo la varia natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien fuori l’eroico, il tragico, il comico, l’idillico, il licenzioso, come qualità naturali delle cose, anzi che del suo spirito. Di che viene l’evidenza miracolosa di questo mondo nella sua infinita varietà e libertà, e la sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti. L’evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi, cioè in azione, e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali, anch’essi in azione, cioè come movimenti, attitudini o motivi, accessorii che Dante fa indovinare, e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell’ottava. E perchè gli oggetti sono còlti in azione o in movimento, le descrizioni sono rare e sobrie, e appena accennati i caratteri e i paesaggi, che sono l’uomo e la natura nel loro stato d’immobilità, e abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze facilmente intelligibili, e gli antecedenti richiamati brevemente, e l’azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d’impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo, così nello stile non trovi intoppi o ingombri, e sei in acqua limpida e corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale, e concorre all’effetto, ora serio ora comico. L’effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione, al quale il poeta non prende altra partecipazione che artistica, che non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti. L’effetto è una viva curiosità sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione, come chi sa di sognare, e gli piace, e tiene gli occhi mezzo chiusi, immerso in quella contemplazione. Il sogno gli piace, pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente: è un dolce ozio dell’immaginazione. È un flutto d’immagini così vive e limpide, così naturali e così espressive, che ti tengono a sè e non ti concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore, tra colori e tra mormorii, che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell’orecchio. Quel mondo è il tuo rêve, o per dirla con linguaggio tolto a quel mondo, è il tuo castello incantato, il tuo sogno dorato. L’impressione non è così profonda che oltrepassi l’immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento. La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione, nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere, appena disegnate, è sparso il racconto, e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima, immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche esempio:

– Nè men ti raccomando ancora la mia Fiordi… –

ma dir non puote “ligi”, e qui finìo…

Stese la mano in quella chioma d’oro,

e strascinollo a se’ con violenza;

ma come gli occhi in quel bel volto mise,

gli ne venne pietade e non l’uccise.

Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni, quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move, e che non puoi chiamare ancora “sentimento”, quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell’Ariosto è Zerbino, e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo, ci è nel nostro cuore un piccol movimento, che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo, che partisce la tela d’argento ricamata dalla sua bella, e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena molto tenera, il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta la guarda, e la trova pallidetta come rosa:

rosa non còlta in sua stagion, sì ch’ella

impallidisca in su la siepe ombrosa.

Zerbino, morendo, nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all’amata:

per queste bocca e per questi occhi giuro,

per queste chiome onde allacciato fui…

Talora è una sola circostanza ben collocata, che dal sentimentale ti gitta nell’immagine:

e straccia a torto l’auree crespe chiome.

A quest’ufficio adempiono specialmente i paragoni, che nel più vivo dell’emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente, che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:

ad ogni sterpo che passando tocca,

esser si crede all’empia fera in bocca.

L'”impasto leone”, l'”uscito di tenebre serpente”, l'”orsa assalita nella petrosa tana”, il “vase a bocca stretta e a lungo collo, onde l’acqua esce a goccia a goccia”, e simili spettacoli, non nuovi e non originali, come presso Dante, ma di apparenze e movenze vivacissime, sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante, che è una vera canzone elegiaca, sparsa di amabili paragoni. Quell’occhio vagante, che cerca se stesso nella natura, ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono generale del sentimento più vicino all’elegiaco e all’idillico che all’eroico e al tragico; ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta, ma alla stessa tendenza dell’arte, dal Petrarca in qua. Anche la natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca l’anima, com’è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre. Ci è l’immagine, non ci è il sentimento:

Zaffir, rubini, oro, topazi e perle

e diamanti e crisoliti e iacinti

potriano i fiori assimigliar che per le

liete piagge v’avea l’aura dipinti…

Cantan fra i rami gli augelletti vaghi

azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli,

murmuranti ruscelli e cheti laghi

di limpidezza vincono i cristalli.

Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa, e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma

più che carbonchio lucida e vermiglia.

O stupenda opra! O dedalo architetto!

Non hai dunque il sentimento della natura, come non hai il sentimento della patria, della famiglia, dell’umanità, e neppure dell’amore, dell’onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale, che è la sua astrazione, il sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi, come:

il miser suole

dar facile credenza a quel che vuole.

Ecco magnifiche sentenze intorno all’amore:

Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibile,

e l’invisibil fa vedere Amore.

Che non può far di un cor che abbia suggetto

questo crudele e traditore Amore?…

Che lietamente in sul principio applaude,

e tesse di nascosto inganno e fraude.

… … Amor che sempre

d’ogni promessa sua fu disleale,

e sempre guarda come involva e stempre

ogni nostro disegno razionale…

Io dico e dissi e dirò finch’io viva

che chi si trova in degno laccio preso

pur che altamente abbia locato il core

pianger non dee, se ben languisce e muore.

Chi mette il piè sull’amorosa pania,

cerchi ritrarlo e non v’inveschi l’ale:

chè non è in somma amor se non insania,

a giudizio de’ savi universale.

Oh gran contrasto in giovenil pensiero

desir di lauda ed impeto d’amore!

Né, chi più vaglia, ancor si trova il vero,

chè resta or questo, or guel superiore.

Amor sempre rio non si ritrova:

se spesso nuoce, anche talvolta giova.

La lunga absenzia, il veder vari luoghi,

praticare altre femmine di fuore,

par che sovente disacerbi e sfogli

dell’amorose passïoni il core.

Amor dee far gentile un cor villano,

e non far d’un gentil contrario effetto.

Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali, ma luoghi comuni assai bene versificati, che non lasciano alcun vestigio di sè. Il sentimento, ora condensato in una sentenza, ora tradotto in una immagine, appena nato, si dissolve. Non mancano tratti sentimentali, come è la risposta di Dardinello a Rinaldo, o di Agramante a Brandimarte, o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico, e naufragati sotto a quei flutti d’immagini. Sono voci d’angoscia e di passione, che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando, che piangendo e chiamando Angelica la paragona ad un’agnella smarrita, e ci fa intorno de’ ricami.

In una società così poco sentimentale, così superficiale e mobile, e così ricca d’immaginazione, come povera di coscienza, si può concepire quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del Decamerone si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave, dove la vita nella sua rapida vicenda è così palpabile e così limpida “Procul este, profani.” Nessuna ombra del reale, nessuno spettro del presente, nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a’ miracoli dell’immaginazione. Il poeta volge le spalle all’Italia, al secolo, al reale e al presente, e naviga come Dante in un altro mondo, e quando dalla lunga via ritorna, si circonda, come d’una corona, di poeti e di artisti, vera immagine di quella Italia, madre della coltura e dell’arte, a cui egli presentava l’Orlando. Ma Dante si traeva appresso nell’altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co’ suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo, come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano, ciò che gli fa battere il cuore, è questo solo pensiero: “Quello che mi sta nella testa, quello che io vedo così bene qua dentro, uscirà così sulla tela?”. E tocca e ritocca, sino alla morte, scontento, inquieto: perchè non è tranquillo, chi ha qualche cosa a realizzare, sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia, libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello è la forma, la pura forma, la pura arte, il sogno di quel secolo e di quella società, la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l’anima tranquilla, sgombra di ogni preoccupazione, piena di fantasie, allegra nella produzione, e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole, che vive al di fuori e si espande nel mondo e s’immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile. Così è venuto fuori quasi di un getto, quasi per generazione spontanea, questo mondo cavalleresco, sorriso dalle Grazie, di una freschezza eterna, tolto alle ombre e a’ vapori e a’ misteri del medio evo, e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il Risorgimento realizzava il suo sogno, la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.

E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto. Era scettica e cinica, e credeva solo all’arte. E l’Ariosto le dava questo mondo dell’arte in un contenuto di pura immaginazione.

Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo sopra la mano, la ci fugge come ombra, e se guardiamo al di sotto, pare non ci sia nulla. Quando leggi Omero, senti uscirne, non sai come, le mille voci della natura, che trovano un’eco nelle tue fibre, e sembrano le tue voci, le voci della tua anima. Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto, e il contenuto sei tu, è vita della tua vita, è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto è un giuoco della immaginazione, e non ti ci profondi e non ti ci appassioni, appunto perchè hai il sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la lacrima, quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.

Pare, ma non è vero, che al di sotto di questa bella esteriorità non ci è nulla. Al di sotto ci è Momo, ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.

L’elemento dell’arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto il suo ciclo a Firenze, giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio, il Sacchetti, il Magnifico, il Pulci, il Berni hanno il proposito espresso della caricatura, hanno innanzi un mondo reale, di cui mettono in rilievo il lato comico. L’Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria, come fece il Cervantes, e nel suo mondo s’incontrano episodi comici, e anche licenziosi, e anche grotteschi, come la Gabrina, con la stessa indifferenza che s’incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma, se il suo riso non è intenzionale, non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando, come fece poi il Berni nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e più profondo.

È il riso dello spirito moderno, diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è, se non ancora la scienza, il buon senso, generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile, è il riso precursore della scienza.

Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora, ci si appassiona, ci vive entro, ne fa il suo mondo, più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore, un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila, ne acquista una piena intelligenza, fa e disfà, compone e ricompone, con assoluta padronanza, come materia di cui conosce tutti gli elementi, e che atteggia e configura a suo genio. La materia, in Dante così resistente e scabra, qui perde i suoi angoli e le sue punte, e come cera, riceve tutte le impressioni. L’immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione, e vi si cala e vi si obblia, e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella creatura. L’obbiettività è perfetta. Ma guarda bene, e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l’ha creata, e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura, e a ogni modo ci mette una grazia, che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso, nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta, un motto ti disfà in un istante le creazioni più interessanti, e ti avviene così spesso, che non ti abbandoni più e prendi guardia, e ti avvezzi a poco a poco a quell’ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l’autore sembra interamente scomparso nella sua creazione, tu non te la lasci fare, e sai che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d’ironia l’elemento subbiettivo e negativo.

Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il medio evo, il mondo chiamato “barbaro”, il passato, rifatto dall’immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel sentimento dell’arte, quel culto della forma e della bellezza, quella obbiettività di una immaginazione giovane, ricca, analitica, pittoresca, che caratterizza la nuova letteratura, che genera i miracoli della pittura e dell’architettura, e che lì giunge alla sua perfezione, congiunta con lo splendore e con l’armonia la massima semplicità e naturalezza di disegno. E c’è insieme quell’intimo senso dell’uomo e della natura, o del reale, che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario, quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell’uomo, generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi, perchè sai che quel mondo sei tu che lo componi, e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo, senti bisogno di esercitare la tua immaginazione, e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l’uomo, che ti fa un ghigno, e quel ghigno vuol dire: – Sono soldati e castelli di carta. – La cultura è nel suo fiore, l’immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione, ed opera i più grandi miracoli dell’arte; ma lo spirito è già adulto, materialista e realista, incredulo, ironico, e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo momento dello spirito moderno, che ricompone il passato non come realtà, ma come arte, e, appunto perchè semplice gioco d’immaginazione o arte pura, lo perseguita della sua ironia, è la vita interiore del mondo ariostesco, è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni, ed avrai accentuati gli estremi, tra’ quali erra questa unità superiore, dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell’uno e ciò che è troppo grossolano nell’altro. La quale fusione è fatta con gradazioni così intelligenti e con passaggi così naturali, e il lettore fin dal principio vi è così ben preparato, che non hai dissonanze o stonature, e niente ti urta, perchè il poeta opera senza coscienza o intenzione, e concepisce a quel modo naturalmente, ed è lui medesimo l’unità che comunica al suo mondo.

Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando, ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito, che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più fine gradazioni. È un “crescendo” di particolari e di colori, che ti rendono naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto, il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più schietta allegrezza comica, la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le tradizioni del medio evo, l’uomo non può trovare la pace che nell’altro mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo rende comico, cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in terra, si ritrova nell’altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull’ippogrifo nell’altro mondo, che è una vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gl’impedisce di entrare nell’inferno; ma all’ingresso trova le prime peccatrici, punite, come Lidia, per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio, e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre, e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista, Enoch ed Elia, che gli danno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo, e a lui danno frutti di tal sapore,

che a suo giudicio sanza

scusa non sono i due primi parenti

se per quei fur sì poco ubbidienti.

Astolfo vi trova buon cibo, buon riposo e “tutt’i comodi”. È il paradiso terrestre materializzato. Di là, “uscito del letto”, con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende forma satirica, senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:

Le lacrime e i sospiri degli amanti,

l’inutil tempo che si perde a giuoco,

e l’ozio lungo d’uomini ignoranti;

vani disegni che non han mai loco,

i vani desidèri sono tanti,

che la più parte ingombran di quel loco:

ciò che in somma qua giù perdesti mai,

là su salendo ritrovar potrai.

Per comprendere questa ironia, bisogna ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari, e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che “sta nel regno della luna”. Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle, che è il senno che si perde in terra.

Di sofisti e di astrologhi raccolto

e di poeti ancor ve n’era molto.

Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno, egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta allegria:

e vi son tutte l’occorrenze nostre;

sol la pazzia non v’è poca, nè assai,

chè sta qua giù, nè se ne parte mai.

L’ironia colpisce anche Angelica, la figliuola del maggior re del Levante, l’amata di Orlando, di Rinaldo, di Sacripante, di Ferraù, che finisce moglie di un “povero fante”. La scena comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della cavalleria, giostre, tornei, duelli, con Carlomagno circondato de’ suoi paladini, tra il fiore de’ cavalieri di Francia, di Spagna, di Lamagna, d’Inghilterra, tra cui pompeggia la figura di Angelica, la reina del racconto; e va a finire in un idillio, negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche, soprattutto nelle battaglie di Albracca, passando nel cervello di Ludovico, si trasforma in una concezione ironica.

Anche nella guerra tra Carlo e Agramante, unità esteriore e meccanica del poema, la cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è l’individualità, quella forza d’iniziativa che fa di ogni cavaliere l’uomo libero, che trova il suo limite in se stesso, cioè a dire nelle leggi dell’amore e dell’onore, a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite, e l’iniziativa individuale diviene confusione e anarchia, l’eroico divien comico. Il cavaliere non ubbidisce più che a’ suoi istinti e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale, nascono collisioni e attriti del più alto effetto comico. Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia, capitata da san Michele in un convento di frati, “tra santi ufficii e messe”:

avea dietro e dinanzi e d’ambi i lati

notai, procuratori ed avvocati.

Questa scena, dove sono attori san Michele, il Silenzio, la Frode, la Discordia, è ammiratissima per originalità di concezione e fusione di colori:

Dovunque drizza Michelangel le ale,

fuggon le nubi e torna il ciel sereno,

gli gira intorno un aureo cerchio, quale

veggiam di notte lampeggiar baleno.

Versi stupendamente epici, che vanno digradando fin nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora più efficace, perchè non ci è apparenza d’intenzione satirica, anzi ci si rivela una bonomia, un’aria senza malizia, dov’è la finezza dell’ironia ariostesca. La Discordia fa il suo mestiere, e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante rimasta proverbiale dov’è il vero scioglimento dell’azione, il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell’esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono più nelle cose che nelle frasi, fondati su quel subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl’istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il più spiccato carattere di questo genere, ed è rimasto proverbiale, mistura di forza e di coraggio e di bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne, la sua credulità e sciocchezza nel fatto d’Isabella, la sua comica lotta col pazzo Orlando, la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi, che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico, materia gigantesca vuota di senno, grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero, “di virtù fonte”, nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere, leale, gentile, magnanimo. Nella sua concezione ci entra un po’ l’Achille omerico, un po’ Damone e Pizia, Quinzio e Flaminio, collisioni tra l’onore e l’amore, tra l’amore e l’amicizia, da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato un po’ Ludovico, come si dipinge egli medesimo, vede che l’uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa, da cui escono le grandi figure eroiche, ne ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto semplicità e naturalezza: l’eroico va digradando nel fantastico e nell’idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo, gli eroi dell’antica cavalleria, e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d’Este, l’interesse è assai più per Orlando e Rodomonte, creazioni geniali e originali.

L’ironia è non solo nella concezione fondamentale del poema, ma negli accessorii cavallereschi. L’amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente cavalleresco, sì che, avendola per molto tempo in sua mano, non le ha tolto l’onore, “almeno” secondo che Angelica ne assicura Sacripante, il quale dal canto suo non vuole essere “così sciocco”. Doralice piange la morte di Mandricardo; ma, se non fosse vergogna, andrebbe “forse” a stringer la mano a Ruggiero:

Io dico “forse”, non ch’io ve l’accerti,

ma potrebbe esser stato di leggiero…

Per lei buono era vivo Mandricardo;

ma che ne volea far dopo la morte?

Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui grandi colpi de’ cavalieri, quei gran colpi “ch’essi soli sanno fare”. Una frase, un motto scopre l’ironia sotto le più serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra, appena percettibile nella serietà della fisonomia.

Questo risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla faccia, e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata, questa magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l’apparenza e l’illusione della realtà nelle cose più strane e assurde, tutto questo, fuso insieme senz’aria d’intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà, ti mostra la concezione come un corpo in movimento e cangiante, che non puoi fissare e definire, più simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti piace, perchè, mentre la tua immaginazione è soddisfatta, il tuo buon senso non è offeso, e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.

Questo mondo, dove non è alcuna serietà di vita interiore, non religione, non patria, non famiglia, e non sentimento della natura, e non onore e non amore, questo mondo della pura arte, scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese, è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un’alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne’ mezzi, ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a’ trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente, come è serio il lavoro di Omero, di Virgilio o di Dante, e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico, e perciò dal punto di vista del reale uno scherzo, o come dicea il cardinale Ippolito, una “corbelleria”. E sarebbe stato una corbelleria, se l’autore avesse voluto dargli più serietà che non portava, e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità, perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela, ed ha l’aria di beffarsi lui de’ suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo, e tenerne in mano le fila, e fare e disfare a talento, considerandolo non altrimenti che un arsenale d’immaginazione, è ciò che dicesi “capriccio” e “umore”. Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione, e si obblia in quel suo mondo, e gli dà l’ultima finitezza. Di che nasce che l’umore piglia la forma contenuta dell’ironia, e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile, dove vizio e virtù, vero e falso confondono i loro confini, e dove tutto è superficie, passioni, caratteri, mezzi e fini, superficie maravigliosa per chiarezza, semplicità e naturalezza di esposizione, che all’ultimo dispare come un fantasma, cacciato via da una frase ironica, dispare, ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell’immaginazione, dove si rivela un così alto sentimento dell’arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato, si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perchè questo è fatto senza espressa intenzione, anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa, i due mondi non sono tra loro in antitesi, come nel Cervantes, ma convivono, entrano l’uno nell’altro, sono la rappresentazione artistica dell’un mondo con sópravi l’impronta dell’altro. In questa fusione più sentita che pensata, e che fa dell’autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato, sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco, per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito dell’immaginazione italiana, e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.

 

 

 

 

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LAICITA’ E’ LIBERTA’

 

“Laicità è libertà”

Allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi

 

Gentili Autorità intervenute, Signore e Signori, Carissimi Fratelli,

 

il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani è lieto di accogliervi nel tempio dei Liberi Muratori per l’annuale allocuzione che si tiene nel quadro delle manifestazioni connesse alla Gran Loggia, evento per noi estremamente importante ed il cui impianto mostra con patente evidenza il consolidamento di una scelta culturale intrapresa dalla più importante e numerosa Obbedienza regolare liberomuratoria italiana, ovvero quella di essere istituzione trasparente, aperta e dialogante con e, soprattutto, nella società civile italiana ed europea. Il nostro modo di intendere l’esperienza massonica, infatti, ci fa sentire soggetti a pieno titolo della modernità e non cultori di una dimensione occulta e sfuggente, di cui il mondo esterno non comprenderebbe il senso. Al contrario, come esplicitato negli statuti del G.O.I., è nostro fermo desiderio che le finalità della nostra appartenenza libero-muratoria siano pienamente comprensibili da parte dell’opinione pubblica e di tutte le istituzioni in essa attive, giacché il nostro intento è quello di contribuire in modo costruttivo al-l’edificazione di una coscienza di pace, tolleranza e libertà, al pieno servizio, quindi, degli altissimi ideali contenuti nella Carta Costituzionale. Proprio per tale ragione, in questa come in molte altre occasioni, desideriamo rivolgerci al Paese per esplicitare contenuti, valori, princìpi, ma anche riflessioni e suggerimenti che sono emersi nel corso dei nostri lavori durante l’anno passato e che continueranno in quello presente con ulteriori contenuti, sebbene essi si ispirino alla ininterrotta tradizione iniziatica e spirituale della Massoneria europea nata agli albori del secolo dei Lumi. La Libera Muratoria è un’officina di libertà, innanzitutto intellettuale e spirituale; essa costituisce un luogo di ricerca esoterica, perché, attraverso simboli e riti, i singoli cittadini iniziati all’Arte latomistica sono chiamati a mettersi in continua discussione ed a procedere su di un cammino di inesauribile perfezionamento interiore. La Massoneria si propone esplicitamente come una sorta di palestra per spiriti liberi, che da punti di vista diversi hanno trovato nel dialogo uno strumento di mutua educazione permanente. Da questo punto di vista, la Libera Muratoria aspira a dare un contributo forte, ma non dogmatico, alla costruzione dell’autonomia critica dei singoli, i quali non sono chiamati ad eseguire ordini o ad aderire ad un punto di vista unico, ma a confrontarsi tra loro e con il mondo reale, esaltando i valori dell’eguaglianza, della fratellanza e della libertà, che insieme fondano i presupposti intangibili della moderna democrazia. Il progetto massonico non ha, pertanto, velleità cospirative o ambigue, né agisce nell’ombra per scopi incomprensibili. Esso mira esplicitamente, lo ripeto, a formare ed educare un cittadino maturo, capace di affrontare le sfide poste dalla complessità sociale in quest’epoca di angosce e conflitti, che sempre più emergono nella postmodernità, mettendo spesso in crisi la sicurezza e l’equilibrio del mondo. Quali sono, allora, questi particolari valori su cui i Massoni si ritrovano, pur così diversi tra loro per lingua, cultura, religione, opinioni politiche e filosofiche? Qual è il mistero che tiene insieme, in una secolare catena d’unione, così tanti fratelli, che, altrimenti, mai si sarebbero incontrati nella vita profana? Quale il vero segreto di questa unione? Nella tradizione alchemica, il vero iniziato non cerca l’oro profano ma la trasmutazione profonda della sua ipseità più vera e intima, per liberarla e sanarla dalle incrostazioni e delle contaminazioni che altrimenti trascinerebbero l’umanità verso percorsi oscuri e tenebrosi. Così, il vero massone percorre la sua strada cercando la luce, perché è mosso dalla certezza che egli non detiene la conoscenza assoluta e che, quindi, gli altri, anche i più diversi, sono per lui interlocutori indispensabili e preziosi al fine di potersi avvicinare ad essa. Egli sa, infatti, che l’Ordine massonico non possiede affatto una verità rivelata – ed a tal proposito non smetteremo mai di ribadire che la Massoneria non è né una religione né una setta che possieda una sapienza teologica propria da imporre agli altri -, ma sa anche che la Massoneria, grazie al suo “saper di non sapere”, offre uno spazio di dialogo per avvicinarsi, senza paraocchi e steccati irremovibili o dogmatici, alla verità. Il primo segreto massonico si rivela, allora, nella capacità di ascoltare, la virtù fondamentale richiesta all’apprendista libero muratore che, arrivato dalla vita profana carico di tutte le sue conoscenze, è invece obbligato al silenzio, affinché apprenda ad ascoltare gli altri e, quindi, solo successivamente a dialogare con essi. Infatti, in loggia, non si deve convincere, non si deve convertire, non si deve uniformare nessuno. Ciascuno espone, dopo averlo prudentemente meditato, il suo punto di vista, proposto agli altri come un vero e proprio dono di sé, che egli offre alla sua comunità e non come soluzione finale e definitiva nel cammino della conoscenza.

 

La parola, l’ordine del discorso, intesi come estrinsecazione di una propria intuizione, sempre superabile, criticabile, falsificabile se necessario, ossia come pensiero fecondo in movimento ed in un continuo processo di evoluzione, costituiscono, pertanto, il secondo segreto della nostra esperienza.

Ciò serve non solo a garantire la libertà individuale del singolo, ma anche a sottolinearne la responsabilità ineliminabile. L’iniziato ascolta, interviene, suggerisce, si corregge, procede nelle sue riflessioni e finalmente agisce secondo la sua coscienza, plasmata attraverso un metodo dialogico, critico e aperto. È così che, a partire dal ‘700, uomini di estrazione e formazione differente hanno appreso la prima grande lezione della modernità, quella della autonomia soggettiva di pensiero e giudizio, praticata tra eguali, nonostante le allora radicate differenze di censo e di religione. Tale prassi ha fondato e scolpito in modo indelebile la nostra concezione della laicità, vissuta non come antagonismo alle fedi, ma come terreno comune di dialogo e di sociabilità condivisa nonché condivisibile tra soggetti diversi, ma non per questo antagonisti. Andare d’accordo quando si è tutti della stessa opinione è molto facile; è un esercizio che non costa fatica, ma che allo stesso tempo non porta grandi meriti. Costruire un territorio di mutua riconoscibilità, di reciproca legittimità, di identità trasversale, di rispetto interculturale ed interreligioso, questo è stato lo sforzo ed allo stesso tempo il successo straordinario realizzato dalla Massoneria nei suoi esiti migliori ed autentici. Tale risultato ha scatenato ostilità e persecuzioni di ogni tipo, sia da parte di quelle religioni che vi hanno ravvisato non solo un pericolo per le proprie teologie (nonostante il fatto che la Libera Muratoria nascesse in Inghilterra come istituzione strettamente ispirata dalle dottrine cristiane), ma anche per motivi molto concreti, ossia di natura politico-sociale e politico-economica e non prettamente spirituale, giacché le prime logge costituivano, come la moderna storiografia ha messo definitivamente in luce, un fecondo laboratorio della democrazia moderna, del parlamentarismo, del superamento delle classi sociali e dell’intolleranza religiosa. Non è un caso, quindi, che le più importanti e significative carte costituzionali dei paesi occidentali, oppure che la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo”, si siano ispirate tutte in modo più o meno diretto a princìpi palesemente massonici e che siano state redatte con il concorso determinante dei Liberi Muratori attivi sulla scena internazionale tra ‘700 e ‘800. Per questi motivi, la profonda attenzione dedicata dalla Massoneria universale, ed in particolare da quella italiana, riguardo al tema della laicità è rimasta sempre viva, anche se oggi, in modo quasi paradossale, tale costante viene ad assumere un’attualità molto più scottante e pregnante che nei decenni passati. Abbiamo, infatti, tutti assistito, ed in modo sempre più evidente attraverso i vorticosi cambiamenti indotti dalla globalizzazione, ad un violento ritorno del peso assunto dalle religioni non per i profondi valori etico-morali e spirituali ad esse connessi, ma per il loro sempre più frequente voler agire sul piano prettamente giuridico e istituzionale. Da più parti, anche tra laici pentiti dell’ultim’ora, si afferma che la laicità moderna stia cantando il canto del cigno. Fondamentalisti di diversa ispirazione e tradizione hanno già preparato un ampio repertorio bandistico per questo funerale. Ciò risulta preoccupante, poiché, una volta finito il funerale, le diverse bande smetteranno di suonare insieme ed inizieranno, come già avvenuto in passato, ad intonare roboanti marce di battaglia, sempre ed immancabilmente in nome di Dio, nella vana certezza di riuscire a trionfare l’una sull’altra. Ma se, di fatto, si estinguesse la tanto esecrata laicità, lo stesso dialogo interreligioso si tramuterebbe in un braccio di ferro non tanto tra teologi ed intellettuali, ma tra istituzioni politico-religiose, che finirebbero per negoziare i propri spazi reciproci in modo proporzionale alle proprie forze. In questo senso, noi vogliamo sottolineare un concetto fondamentale: la laicità intesa come spazio di tutti, condiviso e sicuro, garantito e garantista, e non come una sorta di terra di nessuno, posta tra due linee di trincea, dove tutto può accadere con inaudita violenza, è e resta al servizio non solo dei cittadini, ma anche e soprattutto delle Chiese e delle comunità religiose. Essa, infatti, attraverso la neutralità dello Stato, rimane uno strumento di salvaguardia per tutti ed impedisce che una visione fondamentalista della propria verità si tramuti in un argomento per legittimare l’oppressione o l’eliminazione dell’altro. Parliamo di laicità e non di laicismo fondamentalista, né di estromissione delle religioni dallo scenario sociale e culturale della postmodernità. La nostra concezione della laicità si oppone apertamente ad ogni riesumazione dello Stato Etico, in qualsivoglia versione, iper-razionalista, materialista o confessionale. In una società aperta, il contributo critico delle teologie, dei valori religiosi e comunitari, rappresenta senza dubbio una risorsa importante, giacché nessuno vuole cancellare la storia e la tradizione dei diversi paesi. Allo stesso tempo, però, la pretesa di uniformare e subordinare le leggi dello Stato ad una visione teologale esclusiva costituisce un pericolo molto serio ed alquanto evidente.

 

La funzione della laicità moderna non è quella di scardinare le leggi o i sacramenti di questa o quella fede, ma di stabilire, in modo equidistante, una serie di norme che salvaguardino la libertà indelebile dell’individuo dall’interferenza di altri poteri non pubblici e statali al contempo miranti ad orientare il diritto secondo princìpi che non scaturiscono affatto dalla dialettica interna ad una società aperta, ma da una fonte esterna allo Stato stesso, la quale, invece, deterrebbe, nella sua infallibilità, un’autorevolezza divina e, quindi, indiscutibile. Quanto accaduto nel campo della bioetica e soprattutto della fecondazione eterologa, con particolare riguardo per la discutibile determinazione dello statuto ontologico dell’embrione che ne è scaturita, ci sembra molto discutibile. La legislazione del paese si è trovata a doversi conformare a princìpi fondamentalmente di carattere teologico, senza che opzioni filosofico-religiose, etiche e giuridiche di altra natura ispirativa avessero un qualche ascolto; e ciò, nonostante le circostanziate denunce di ampia parte della comunità scientifica, che ha sottolineato l’oscurantismo in cui veniva condannata tanto la nostra società sul piano dei diritti individuali, ma anche la stessa ricerca scientifica, che, di fatto, è stata imbrigliata ben al di là di quella serie di minima moralia che erano ampiamente condivisi tra le parti in causa. I diritti delle donne e dei nascituri sono stati così anteposti ad una sacralizzazione a priori dell’embrione, mentre la negazione della fecondazione eterologa si è fondata su criteri moralistici, rispettabili, forse anche condivisibili da parte dei singoli, ma non per questo imponibili per legge a tutta la società civile. Riteniamo che vi siano temi sui quali la scelta degli individui, difficile, dolorosa, contraddittoria, debba trovare garanzie e non soluzioni dogmatiche di natura religiosa, valevoli per una fede, ma non per altre o per coloro che si ispirano ad altre opzioni di carattere etico-filosofico. Non si dica o pensi, a seguito di tali riflessioni, che la Massonerianon difenda la vita e non la tuteli. Una tradizione secolare di martiri caduti a difesa dei diritti umani e civili, contro la tortura, la pena di morte, l’intolleranza, l’ineguaglianza, incarnata dalla Libera Muratoria, lo dimostra ampiamente. Noi abbiamo intrapreso questo cammino, quando altri inquisivano chi parlava di libertà di stampa e di ricerca, di libertà sindacali e sociali, ma anche semplicemente di autonomia della propria coscienza. Il problema è come e con quali strumenti un valore fondamentale come quello della vita e della felicità debba essere garantito e, soprattutto, con quali priorità. Ritorniamo, allora, anche se obtorto collo, sul tema del relativismo, che da più parti viene invocato come atto d’accusa nei confronti della laicità, della modernità, ed ovviamente della Massoneria, che di tale malsana dottrina sarebbe stata l’ispiratrice. Noi Massoni non ci sentiamo affatto relativisti, sia perché ciascuno di noi ha le proprie concezioni religiose, etiche e filosofiche, sia perché il relativismo inteso come assoluto rifiuto di dedurre princìpi generali e fondativi del nostro operare è lontanissimo dal nostro modo di vedere la realtà. L’indiscutibile impegno nella difesa dei diritti umani e civili, il continuo operare a tutela della democrazia e della libertà, la diffusione dei princìpi della fratellanza e del dialogo, la centralità della ricerca interiore del cammino iniziatico e, quindi, la sacralità dell’uomo e della vita, sono fatti e valori che distinguono la storia della Libera Muratoria universale ed in particolare quella del nostro paese. Ma l’accu-sa di relativismo cela molte ambiguità. Cosa è in realtà il relativismo di cui ci si accusa e si accusa la modernità? È in sostanza il non voler sottostare all’assolutismo di questa o di quella dottrina teologica, ossia il tessuto connettivo o, se si vuole, il sale della democrazia moderna, della libertà di coscienza contro l’intolleranza ed il fondamentalismo. Riconoscere che la storia e la scienza, quindi, il cammino continuo della conoscenza, hanno offerto all’umanità nuove opportunità di benessere e di salute, scardinando visioni infondate della realtà ed aprendo scenari nuovi, non ci sembra affatto una colpa. Ese questo è un peccato, di esso sono cariche tutte le istituzioni religiose e le Chiese che, di epoca in epoca, hanno cambiato il loro giudizio, la loro interpretazione teologica della natura, a seguito dell’ineludibile evidenza prodotta da scoperte scientifiche rivoluzionarie. Galileo era relativista? Ed Einstein? E le nuove generazioni di fisici, biologi, etc.? Forse il relativismo è qualche cosa di differente e tale termine merita senza indugi di essere meglio definito e circostanziato. In questo sforzo ci aiutano le rimarchevoli considerazioni avanzate da due grandi filosofi del secolo scorso. Penso a Karl Popper ed a Karl Jaspers. Per vie diverse, entrambi hanno sottolineato che il relativismo non coincide affatto con la disponibilità culturale e spirituale ad accettare la sfida del nuovo, che eventualmente falsifica e nega quelle che avevamo ritenuto verità acquisite, ma si identifica piuttosto con la pretesa di disporre di una conoscenza assoluta ed indiscutibile, a cui subordinare, ed in cui coartare, ogni nuova acquisizione scientifica o storica.

 

Relativisti sono, pertanto, coloro che ritengono, nel nome di una pretesa verità assoluta, di avere risposte a priori per ogni quesito e che non si sottopongono né al criterio scientifico di falsificabilità dei loro presupposti, né che si mettono in discussione dinanzi alla sfida rappresentata da schemi concettuali differenti. Le scoperte di Galileo erano inaccettabili dal punto di vista di una determinata cornice teologico-filosofica del mondo e, quindi, da condannarsi. Chi lo condannò era relativista, e non Galileo o coloro che hanno ritenuto e ritengono in fieri il cammino della conoscenza, pronti a mettere in dubbio le proprie verità qualora l’evidenza mostri che esse sono fondate su presupposti errati o contraddittori. Il relativismo è, quindi, quel tipo di dogmatismo che considera esaurita la ricerca critica, che si ritiene superiore ad ogni verifica scientifica, storica o filosofica, che reputa di essere esente da critiche e pertanto non più perfettibile, perché autoreferenzialmente già perfetto e concluso. Nella sua cornice, nel suo hortus conclusus, il relativista, ossia il dogmatico, si ritiene perfetto, o perlomeno assume il proprio punto di vista come tale. Può solo porsi dinanzi agli altri in termini di superiorità spirituale e concettuale, può solo illuminare coloro che ancora dimorano nelle tenebre, ma non può essere illuminato dagli altri. Se mai, qualora qualcuno, o qualche dottrina scientifica, mettesse in crisi i propri theologoumena, egli dovrà rifiutare tale evidenza e, se possibile, vietarla o censurarla. Queste riflessioni, apparentemente astratte, hanno riflessi concreti nel drammatico scenario internazionale, dove una nuova ventata di fondamentalismo nega alla radice la separazione tra Stato laico e religione. Il tentativo di mettere in crisi la laicità, nel contesto della globalizzazione e della trasformazione multietnica del sociale, viene a sottrarre alla società occidentale uno strumento fondamentale per governare i conflitti interreligiosi e per arginare forme inaccettabili di intolleranza. Soprattutto in questo quadro spinoso, se non drammatico, il Grande Oriente d’Italia ribadisce la sua fortissima attenzione per la difesa della qualità e della centralità della Scuola Pubblica, luogo primario ed essenziale di formazione del cittadino, che non si sottrae alla complessità sociale, ma che, anzi, vi può maturare la propria coscienza civica e democratica, aperta e tollerante. L’enfasi smodata per la privatizzazione del sistema scolastico a detrimento di quello pubblico crea il rischio fondato di potenziare scuole prettamente religiose, che formino non cittadini di una società aperta, ma fedeli appartenenti a comunità separate ed in prospettiva antagoniste. Vorremmo veder realizzare una scuola dell’accoglienza, dotata pienamente dei mezzi necessari per affrontare una sfida secolare, quella di un’integrazione rispettosa delle culture di provenienza, ma non subordinata agli estremismi intolleranti, educante alla pace ed alla conoscenza dell’altro e dei suoi valori: insomma, una comunità educante e non un ghetto di lusso o per poveri, a seconda dei casi. A questo proposito, dobbiamo rilevare che anche le recenti proposte di volere introdurre l’insegnamento della religione islamica nelle scuole italiane – perseverando nell’errore commesso in precedenza a favore di quella maggioritaria nel nostro paese – destano in noi profonde inquietudini. Al di là delle questioni tecniche (ad esempio, quale forma teologica di Islam bisognerebbe insegnare, visto che ce ne sono diverse? Chi designerebbe il docente, se come per la religione cattolica, occorrerà il placet di una autorità religiosa?), rimane una obiezione di fondo: la scuola pubblica non è e non deve essere un luogo dove si devono impartire catechismi di sorta, e per questa ragione noi crediamo che di per sé stesso ogni insegnamento confessionale sia in tale sede inappropriato e inopportuno. Infatti, a lungo andare, il risultato non sarebbe altro che quello di creare per comodità classi chiuse, basate sull’appartenenza religiosa, nuovi ghetti istituzionali e non classi multiculturali e multireligiose unite da valori comuni, quali quelli della Costituzione e dell’appartenenza ad una società libera. Quando, al contrario, si pone il problema di inserire nei programmi scolastici uno studio serio e articolato della storia delle religioni, che permetta di conoscere culture e società diverse ma sempre più in mutuo contatto, sì da creare i percorsi della coesistenza, del dialogo e della conoscenza dell’altro. Come si vede, anche in questo caso, non siamo affatto relativisti, ma abbiamo in mente un modello, certamente perfettibile e migliorabile, del processo di costruzione di un equilibrio sociale, che garantisca la laicità dello Stato, una laicità non pensata contro qualcuno, ma a favore di tutta la collettività, affinché essa possa vivere in pace ed armonia e non in una sorta di tregua armata. Gentili Autorità intervenute, Signore e Signori, Carissimi Fratelli, vi ringrazio per la pazienza e per l’attenzione con cui avete seguito le molteplici considerazioni che, in questa solenne occasione, attraverso la voce del Gran Maestro, il Grande Oriente d’Italia rivolge, per tramite delle vostre persone, al paese nel quale ci onoriamo di vivere, lavorare ed operare.

 

Speriamo di aver mostrato come la nostra Istituzione viva con intensità la sua adesione a quelli che reputiamo essere valori centrali della democrazia e di un modo equilibrato di vivere ed interpretare la postmodernità, mossi da un prudente ottimismo e da fede profonda nella centralità dell’uomo e della sua grandezza. Se, infatti, non avessimo questa convinzione e questa speranza, non ci troveremmo ancora insieme dopo due secoli di esistenza. Chi si attendeva dal Gran Maestro indicazioni di voto, scelte di campo (destra o sinistra), per le prossime tornate elettorali, sarà di certo rimasto deluso, ma la Libera Muratoria del Grande Oriente d’Italia non intende, né può svolgere un indebito ruolo politico che non le compete, in quanto è rispettosa dell’autonomia decisionale e politica dei cittadini. Essa esprime, promuove grandi valori, agita problemi, stimola coscienze e soprattutto opera per evitare una conflittualità tra Stato e Chiesa. Ma questo non significa che debba assistere silente alle pesanti ingerenze del Presidente della Conferenza Episcopale italiana, che con l’appello al voto ha inteso orientare quello dei cattolici, fissando il criterio per decidere per chi votare, anche se non ha indicato nomi e cognomi e partiti. Vogliamo chiarire che non ci doliamo del fatto che l’alto prelato abbia ribadito posizioni che la Chiesa sostiene da tempo sulla procreazione, l’aborto, le questioni di fine vita, i diritti delle coppie non sposate, perché ha il diritto di manifestarle, ma ciò che è grave è che le abbia riproposte nel corso di una campagna elettorale; il che suona come chiamata alle armi o come richiesta di un impegno futuro a tradurre in leggi principi religiosi da parte di quelle forze politiche e/o di coloro che intendono beneficiare del voto confessionale. Maggiori sensibilità e cautela avrebbero dovuto consigliare il silenzio e il rispetto dell’autonomia politica dei cittadini cattolici e, soprattutto, l’astenersi dal favorire politici subalterni. Abbiamo da poco concluso proprio le celebrazioni dei duecento anni di vita e di attività massonica della nostra Obbedienza nella nostra amatissima patria, ma non ci siamo limitati al ricordo ed al compiacimento per i meriti acquisiti dai padri fondatori. Le diverse manifestazioni che hanno scandito il bicentenario del G.O.I. hanno, infatti, voluto senza timori offrire una rivisitazione, anche critica, della storia libero-muratoria italiana. Si sono evidenziati gli straordinari meriti di coloro che, messi nella condizione profana di poterlo fare, hanno voluto il suffragio universale, la parità tra i cittadini, l’eguaglianza tra i sessi ed i censi ed il voto alle donne, la scuola pubblica e gratuita, il riconoscimento del diritto di sciopero e di organizzazione sindacale, la costituzione delle società operaie e di mutuo soccorso, la fondazione di opere di solidarietà e di risparmio, il rispetto dei diritti umani e l’abolizione di leggi inique come, ad esempio, la pena di morte. Abbiamo avuto la forza morale di denunciare, ancora una volta, i pericoli insiti nell’abuso della denominazione “massoneria”, utilizzata per mascherare miseri fini affaristici, di carriera e ancor peggio, sì da stravolgerne i principi: fenomeno, che nel piduismo trovò la sua peggiore estrinsecazione e di cui siamo stati le prime vittime. Al riguardo abbiamo formulato condanne senza appello. Oggi in Italia opera una Libera Muratoria vivace, intelligente, al passo coi tempi, in grado di interrogarsi sui grandi problemi dell’umanità, sulle sfide aperte, sensibile alle sofferenze che da più parti della società emergono attraverso nuove forme di povertà e di emarginazione, solidale con i più umili e con coloro che sono indifesi. Essa rappresenta per la società un valore aggiunto. I grandi temi che sono stati toccati, però, mostrano che la società ha ancora bisogno di noi, dei valori della laicità, ma anche di una cultura spirituale tollerante e critica, princìpi di cui, peraltro, siamo già stati portatori nei secoli precedenti. Chi riteneva che la nostra funzione storica si fosse ormai esaurita è ora costretto a ricredersi. La Massoneria resta pienamente luogo di libera aggregazione spirituale, capace di coniugare la moderna laicità con la ricerca della verità, ambito di confronto e di riflessione, che educa i diversi a stare insieme, ad essere fratelli pur nelle rispettive posizioni culturali, e, quindi, uniti nell’inesauribile cammino di ricerca che abbiamo intrapreso. Non siamo uomini perfetti, altrimenti non avremmo bisogno di questa istituzione che parte proprio dalla necessità di un mutuo perfezionamento. Non siamo uomini pieni di certezze assolute, anzi siamo spessi attanagliati dai dubbi, da mille interrogativi. In un mondo che vende facili soluzioni, come gadget al supermarket, ma che conosce un disagio sempre crescente, in particolare tra i giovani, noi proponiamo un percorso apparentemente arcaico, ma allo stesso tempo modernissimo, quello che ci mette sempre e comunque dinanzi allo specchio e che ci induce a superare le nostre paure, le nostre debolezze, ma anche a mitigare la superficialità, l’aggressività, la voglia di chiuderci in noi stessi.

 

In una società che è cambiata e che cambia vorticosamente, anche la Massoneria è cambiata, pur restando fedele a se stessa, agli Antichi Doveri, che oggi professiamo con serenità, come una Istituzione che ha molto da dare ancora alla costruzione di un mondo più giusto, ed in cui il diritto alla felicità sia un fine collettivo e non un privilegio di pochi.

Noi non dobbiamo nasconderci, perché nulla abbiamo da nascondere. La luce deve brillare e con essa il dialogo con tutti coloro che lo vogliano. Ma, se possibile, noi riteniamo che si debba cercare di dialogare anche con coloro che stentano a farlo. È un impegno difficile e, talora, arduo, ma il percorso massonico è sempre irto di ostacoli. Soprattutto quando si vuole essere interpreti critici della modernità senza prevaricare nessuno. La laicità è un dono costruito con grande fatica, anche dai Massoni. Difendiamolo con saggezza, con il dialogo, con la forza della ragione, ma anche con equilibrio e chiarezza. Perdere o sminuire la centralità della dimensione laica significa aprire le porte a nuove forme di dispotismo e di illiberalità. Compito della Libera Muratoria è senza dubbio stato ed è ancora anche quello di educare, con l’esempio e con la testimonianza, alla laicità ed alla tolleranza. Poiché non ci riteniamo depositari del vero, riconosciamo che ci sono molti uomini liberi e aperti che Massoni non sono e che, però, si comportano come tali. Aiutiamo queste voci, da qualsiasi parte provengano, a costruire un dialogo vero, che insegni all’umanità a superare gli schemi ed i preconcetti, a non accecarsi nel nome di certezze assolute. Noi cercheremo di essere sempre lì dove questa voce di saggezza, di pace e di tolleranza sarà necessaria, perché la Laicità è il sale di una società aperta, il respiro della Libertà. Significa tolleranza, capacità di credere nelle proprie idee senza restarne succubi: mantenere una capacità critica ed emanciparsi dal culto di sé.

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1805 – 2005 GUECENTO ANNI PER L’ITALIA

“1805-2005 Duecento anni per l’Italia”


“1805-2005 Duecento anni per l’Italia”
Allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi

 

Gentili Autorità presenti, Signore e Signori, Carissimi Fratelli,

la Massoneria è una Comunione di spiriti liberi e critici, non una società segreta; i nostri fini e le nostre ambizioni sono chiare e devono esserlo anche per la società civile; siamo presenti come componente etica e culturale, non come potenza politica, tanto meno occulta. Noi lavoriamo per il nostro perfezionamento interiore, in una catena di sociabilità che si arricchisce attraverso il confronto tra differenze e singolarità che cercano il vero ed il giusto, attraverso un’ininterrotta opera di levigazione della pietra grezza, che poi non è altro che la nostra anima. Non siamo una religione né ci contrapponiamo alle fedi rivelate; anzi, esse sono una fonte di arricchimento interiore per i nostri Fratelli, ciascuno nella libertà del suo cuore e della sua coscienza. Come istituzione la Massoneria, infatti, non propone verità salvifiche o sacramenti che si contrappongano a quelli dell religioni, né opera per la loro svalutazione; induce ed educa soggetti diversi al confronto, in uno spirito di continua apertura e ricerca e non di relativismo assoluto, giacché noi crediamo sia nell’esi-stenza dell’Essere Supremo sia della verità. Semplicemente lasciamo ad altri il compito di dare certezze e definizioni teologiche, che non ci competono, mentre ci impegniamo a compiere un cammino in cui i valori e le convinzioni dei singoli trovino una cassa armonica di risonanza e di dialogo, nella consapevolezza che l’alterità può essere una ricchezza.
Questa, gentili Autorità, Signore e Signori, Fratelli, non è una delle tante assemblee annuali, è la Gran Loggia che si tiene in occasione dei 200 anni di storia del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani e rappresenta per noi un evento straordinario di cui desideriamo rendervi partecipi.
E’ da meno di un mese, precisamente dal 5 di marzo, che la nostra Comunione ha iniziato i festeggiamenti connessi alla celebrazione ufficiale del suo bicentenario di fondazione. Che non si tratti di una semplice ricorrenza appare ormai evidente a tutti; siamo, infatti, usciti dalle muffe della bolsa laudatio dei tempi passati, dove sembrava tanto bello crogiolarsi tra i cimeli di un tempo glorioso, tra i quadri di grandi protagonisti della storia di ieri, ma senza aver nulla da dire al presente ed al futuro incombente. Noi, infatti, non dobbiamo avere né nostalgia né malinconia per il nostro prestigioso e secolare cammino, solo una forte coscienza ed un sincero orgoglio per quanto di fondamentale e di costruttivo è stato già fatto; se cadessimo, invece, nella nostalgica rimembranza del “come eravamo” saremmo come vecchi sconfitti, fuori da un tempo che non ci appartiene più, privi di idee, fuori posto per le sfide che ci si presentano, solo orientati verso quel che non potrà più ritornare, in attesa dell’estinzione. Il passato che, invece, si erge alle nostre spalle è tale da farci sentire come nani sulle spalle di giganti, ma solo al fine di poterne essere fieri ed al contempo capaci di interpretare i nostri tempi e le loro esigenze. Il riscatto, non solo di immagine, di cui è stata protagonista la nostra Comunione è una realtà – peraltro sancita attraverso atti legali – che abbiamo fortemente voluto e che sono andati positivamente in giudicato in Europa ed in Italia. Non è un caso che molte Obbedienze massoniche europee siano oggi indotte a prendere ad esempio proprio il modello del Grande Oriente d’Italia.
Chi può allora dimenticare, quando ci dicono che la nostra Obbedienza parrebbe essere così etica da sconfinare nella “politica”, che Mazzini, Garibaldi, Cavour e migliaia di altri cittadini e patrioti italiani, legati in forme e modi diversi alla Massoneria italiana, hanno sacrificato la loro esistenza per creare uno stato unitario che fosse all’altezza degli altri e che realizzasse ideali di tolleranza e di eguaglianza, tutti valori che, forse, in altri Paesi erano da tempo acquisiti? Celebrare può anche essere un’ottima forma per imbalsamare e liquidare il passato, ma per noi non è così. Quando ancora ci dicono che siamo stati antagonisti della Chiesa Cattolica, dovremmo forse dimenticare che nel nostro Paese, sino al XX Settembre 1870, quest’ultima esercitava il potere temporale attraverso un regime teocratico, sicché i contrasti con la Massoneria erano, all’epoca, di natura sostanzialmente politica: la nostra sociabilità metteva in discussione, come elemento di modernità e di democrazia, i regimi arcaici, la loro illiberalità ed intolleranza, mentre al contempo essa favoriva, palesemente anzitempo, il dialogo interreligioso e quello tra i censi, attraverso un messaggio di fratellanza universale, mai ateo o irreligioso? Dovremmo forse celebrare il passato irrigiditi dietro i nostri grembiuli e tutti gli altri paramenti, in modo da sfoggiare lustrini e pennacchi, gingillandoci come in uno yacht club pseudo-esoterico?

Noi non lo crediamo affatto! Questo bicentenario sarà piuttosto uno strumento per insistere sul presente e sul futuro attraverso la rivisitazione critica e aperta del passato, affinché le scelte intraprese, attraverso il lavoro straordinario compiuto da tutta l’Obbedienza, possano splendere di luce propria e non semplicemente per glorie antiche, la cui grandezza dobbiamo però custodire e saper valorizzare. Cosa avrebbero voluto i nostri grandi? Delle riservatissime cerimonie di rimembranza oppure una presenza serena, illuminata, trasparente, aperta e vitale? Siamo convinti che la risposta la sappiate già e la condividiate pienamente.
Non è, infatti, un caso che una inappropriata autocelebrazione, in qualche caso un po’ masochistica, dell’antico abbia fatto sì che, anche in Italia, i tesori di valori etico-morali da noi custoditi siano per anni rimasti di fatto celati alla società civile, quasi che ci si vantasse di un vano (e finto) potere che mai abbiamo realmente avuto, ma che faceva vaneggiare coloro che, tolto il grembiule,nulla hanno veramente contato, ben poco contano e nulla conterebbero. Abbiamo voltato pagina e questa occasione ci offre l’opportunità di chiamare a raccolta la forza del nostro Ordine, la sua capacità di essere corpo vitale, pieno di discorsi e di fermenti, luogo di educazione e formazione delle giovani generazioni che sempre più desiderano affrontare un percorso di maturazione, non attraverso sequele di dogmi e di certezze, ma che, nel dubbio, siano disponibili a cercare (e, speriamo, a trovare) la loro strada, grazie anche al confronto ed all’incontro con alterità prima ignote. Tra i pregi della Libera Muratoria vi è proprio quello di non fare a nessuno il lavaggio del cervello, di aprire i Templi, affinché chi partecipi ai riti ed alle tavole non creda né obbedisca a quanto possa venire lì presentato, ma possa farsi una sua idea in libertà, portando i propri dubbi, le proprie incertezze, ma anche la propria voglia di migliorare e di crescere. Questo modo di essere che dura da due secoli, ma – carissimi Fratelli e gentili ospiti – anche da prima, già nel XVIII secolo, hafatto paura e dato fastidio a molti; in tanti hanno pagato duramente per questo, a partire da semplici e innocenti poeti, come Tommaso Crudeli, per arrivare sino ai martiri caduti durante il Fascismo ed il Nazismo ed a coloro che in forme diverse si sono trovati non un comodo posto di lavoro, non una progressione di carriera (come tanti credono), ma, a seguito delle campagne sulla P2 – fenomeno esecrabile e, peraltro, di cui siamo state le prime vittime – hanno perso il proprio e con esso dignità e rispetto. Da queste nebbie e da questi pantani siamo da tempo usciti, senza dover ricorrere ad alcuna forma di respirazione artificiale per stare in piedi; può essere che per qualche momento abbiamo anche barcollato, ma oggi i piedi stanno ben saldi a terra e la testa guarda verso il cielo, con gli occhi rivolti verso il futuro.
Duecento anni al servizio di ideali costruttivi che hanno determinato il passaggioverso una modernità democratica ed egalitaria, verso una società libera in cui religione e potere secolare fossero ben separati e distinti; che la Massoneria sia stata una presenza imbarazzante è solo titolo d’onore per noi, poiché il fastidio recato nasceva dai valori e non dagli interessi, dal desiderio di portare una voce costruttiva e non dall’ambizione di costituire un potere “altro”. Se qualche errore è stato compiuto, come inevitabile in una storia secolare, noi non ci siamo sottratti al giudizio della storia: non a caso le nostre celebrazioni mireranno a discutere e sviscerare le dinamiche, i meriti, gli errori, le grandezze ed i limiti della nostra storia con il coinvolgimento di studiosi, massoni e non, come abbiamo sempre fatto negli ultimi anni.
Resta però il giudizio inequivocabile sul fatto che quando abbiamo cercato di imitare altri, di diventare più “liturgici”, gettando nel pattume la memoria e l’esempio del nostro passato – che non deve affatto essere ripetuto stupidamente, ma tenuto ben presente nella nostra memoria – ci siamo allontanati dai nostri valori e dalla nostra storia, inseguendo vane glorie ed onori. Nessun orpello vale la virtù, neppure la coda di qualche elegante abito da sera.
Duecento anni sono ancora pochi per la costruzione del Tempio e per la realizzazione di tutti quei valori che vediamo sempre meno riconosciuti attraverso gli alienanti processi di un certo tipo di globalizzazione; la Massoneria non deve forse criticare il mercato, quando immorale? l’insorgere di nuove povertà e ingiustizie? l’emarginazione e la riduzione dei cittadini a consumatori?
Qualcuno la può pensare così; ma allora quali oscure prigioni al vizio ed alle tenebre noi potremmo mai scavare attraverso i nostri riti esoterici? Quali ideali potremmo effettivamente costruire, se non ci interrogassimo sul presente, se la nostra Comunione non fosse fatta di uomini capaci di riflettere sui realia e di esprimere dubbi sullo status quo, soprattutto di fronte ad un mondo profano che non conosce fratellanza ed ignora i diritti umani in molte sue parti? La volta dei nostri Templi è scoperta perché non abbiamo il possesso della verità; d’altra parte abbiamo alzato colonne e pavimenti su cui poggiamo ben salde le nostre gambe e cerchiamo di fare il nostro lavoro muratorio come parte vivace e intelligente della società e non come corporazione elitaria, dimentica del mondo.

Lo spazio della Massoneria è fatto innanzitutto di libertà di pensare, di confrontarsi, di unire diversità e non di omologazione o di conformismo; èuno spazio che può, però, chiudersi se il nostro messaggio non è chiaro; per questo nei nostri rituali pretendiamo che il neofita dichiari di conoscere la storia e le finalità della Libera Muratoria. Non vogliamo persone venute a noi per sbaglio o per ignoranza, ma soggetti coscienti e responsabili; protagonisti di un percorso e non oggetti passivi di una nostra elucubrazione. Non a caso essere e dichiararsi massoni è oggi un gesto che può risultare ancora estremamente provocatorio, soprattutto in una società che sino a poco tempo addietro ci considerava come “cattivi soggetti” o, nei casi migliori, come anticaglie del passato, che avevano concluso la loro funzione storica. Queste celebrazioni, questo anniversario così importante, dovranno sottolineare il fatto che il nostro compito, il senso del nostro stare insieme, non sono affatto esauriti e che la capacità di offrire nelle nostre Logge un momento di ricerca, di educazione civile, etica e morale, costituisce una ricchezza che accresce i valori su cui il Paese marcia. La conferma della giustezza di queste considerazioni arriva non solo dai riconoscimenti pubblici, dalla vostra presenza qui oggi, ma anche dall’attenzione che ci è prestata dalle altre Massonerie mondiali, perché nuove generazioni si affacciano ai nostri Templi, perché dal nostro passato, da una storia gloriosa traiamo gli spunti necessari per andare avanti con entusiasmo e con idee forti, che poi sono, mutatis mutandis, quelle dei nostri fondatori. Ai nostri padri dobbiamo molto; ma l’Oriente Eterno, ove tutti dovremo andare prima o poi, non è un cimitero con tante lapidi su cui piangere le disgrazie presenti, ma un luogo dello Spirito abitato da anime forti, pieno di esempi, di testimoni, di martiri che non hanno vacillato, ma che hanno saputo testimoniare i valori di una cultura etica e morale che oggi ci permette di essere quel che siamo. Rendere omaggio a queste anime forti vuol dire vivere il presente e affrontare il futuro come contemporanei della posterità. Solo così avremo reso il dovuto omaggio a chi ci ha preceduto.
In questo rinnovato contesto, più che festeggiare e compiacerci, vorremmo allora contribuire ad una più circostanziata riflessione su molti temi sui quali si sta oggi dibattendo, in modo talora aspro, nella nostra società; in particolare, riteniamo di estrema importanza invitare tutta la Comunione ed il mondo profano ad una più accorta attenzione su alcune fondamentali questioni bioetiche. Forti della nostra storia – che è, per alcuni aspetti, diversa da quella di altre Massonerie – e ben consci della speciale situazione italiana, pur operando sempre nel solco dei Landmarks di Anderson, noi guardiamo al futuro e cisentiamo parte viva del presente; né depressi laudatores temporis acti, né imbalsamati sacerdoti di una liturgia che si esaurisce con se stessa, i Massoni hannoben chiara l’importanza delle battaglie laiche e civili che ne hanno distinto l’identità storica e che ne hanno fatto dei protagonisti e degli interpreti della società civile e non dei parrucconi che non hanno nulla da dire e da rappresentare al di là dei loro paramenti.
Le norme attuali che regolano in Italia la procreazione assistita ci sembrano alquanto insoddisfacenti; esse appaiono palesemente ispirate e incentrate su una serie di pregiudizi e hanno il fine di sostituirsi alle scelte dell’individuo, secondo un modulo di antica tradizione volto a subordinare la libera ricerca scientifica a dogmi metafisici. Sembra – come ai tempi di Galileo Galilei, quando un processo di eccezionale gravità mirò a censurare una nuova visione del mondo e con essa i limiti di una secolare teologia – che un certo oscurantismo voglia, ancora oggi, imporre limiti legali alla scienza, al progresso ed alla creatività umana.
Queste nostre considerazioni non devono essere prese, soprattutto nel mondo cattolico – che sappiamo osservarci con una certa attenzione – come l’ennesima manifestazione di relativismo e di deismo massonico. Infatti, anche quando non si è affatto d’accordo, vorremmo mantenere un dialogo sereno, senza rispondere a priori alle solite accuse che in realtà spostano su temi superati da anni le questioni più importanti. Ribadiamo allora che noi rispettiamoil punto di vista teologico della Chiesa e ci rifiutiamo di entrare nel suo merito come Comunione Massonica, giacché la Libera Muratoria non solo non ha una teologia, ma non deve affatto averla, pena il trasformarsi in una religione. Molti Massoni probabilmente potranno anche concordare con il punto di vista della Chiesa Cattolica uti singuli e quindi si atterranno, se lo riterranno opportuno, a tutta quella serie di comportamenti e di regole che la loro coscienza religiosa detterà eventualmente loro (né per questo, la nostra Istituzione potrebbe in alcun modo discriminarli o biasimarli); d’altro canto, proprio per l’adesione a quei principi etici che ci distinguono, tali Fratelli difenderanno il diritto degli altri cittadini a percorrere un cammino diverso, soprattutto in un campo che vede emergere nuove e rivoluzionarie scoperte dinanzi alle quali tante definizioni “morali” del concetto di individuus (segnatamente nel caso dell’embrione) appaiono francamente sempre meno adeguate e talora del tutto scientificamente out of date.

A nostro avviso, il diritto positivo deve restare nettamente separato dalla morale di qualsiasi religione (e quindi la questione non vale solo nei confronti del mondo cattolico, ma ad esempio di quello musulmano, ecc.), mentre lo Stato ha il dovere inalienabile di garantire la propria indipendenza, favorendo leggi che rispettino l’autonomia decisionale dell’individuo, in sostanza, la sua libertà, sottraendolo all’imposizione di norme scaturite da visioni olistiche e moralmente esaustive espresse da alcune “autorità superiori che possano arrogarsi il diritto di scegliere per lui su tutte quelle questioni che riguardano la sua salute e la sua vita”, come ha espressamente scritto nel Manifesto di bioetica laica un gruppo di studiosi della levatura di Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori e Angelo Petroni (“Sole 24 Ore”, Domenica 19 giugno 1996).
L’etica che difendiamo è quindi un’etica laica, sebbene per nulla antireligiosa; essa si pone semplicemente come non dogmatica e aperta, soprattutto dinanzi ad una scienza che viene a ribaltare costantemente una serie di “conoscenze” sedimentate da secoli e che appaiono di volta in volta del tutto superate. L’applicazione di un’etica inamovibile, di una verità acquisita ora e per sempre, poiché fondata su concezioni morali e filosofiche stabilite molti secoli or sono, qualora fosse utilizzata per imporre a tutti non solo giudizi morali inappellabili, ma anche norme di comportamento, leggi e sanzioni penali, rischierebbe di determinare un contesto del tutto intollerante, fazioso e, in sostanza, fondamentalista.
Percepiamo, ovviamente, la contraddittorietà di tante situazioni e anche la difficoltà di una parte del mondo cattolico a metabolizzare il dialogo con la scienza ed il progresso tra passato e futuro, tra impianti teologici e nuovi scenari fisico-biologici. Ad esempio, oggi (e probabilmente per molti secoli ancora) non saremmo in grado di affermare l’esistenza o meno di altri mondi abitati nell’immensità dell’universo o semplicemente di altre forme di vita, anche se ciò risulta alquanto possibile, se non addirittura probabile; tale evidenza, ovviamente, ha cambiato anche il punto di vista della Chiesa la quale, invece, un tempo avrebbe senza indugi rifiutato (come in effetti rifiutò) una siffatta e sconvolgente nozione che inevitabilmente aveva spiazzato la centralità e l’unicità della terra nel piano creativo e più specificamente del ruolo del Dio incarnato nella storia, relativizzandola (almeno in parte) in quella del cosmo, dove altri casi simili avrebbero, in teoria, potuto accadere nell’infinita volontà elibertà di Dio, che resta, comunque lo si pensi, inconoscibile in tutta la sua grandezza.
Così, tornando all’embrione ed alle polemiche che infiammano la discussione attuale, ci sembra che la determinazione del suo statuto ontologico, almeno come proposta dalla Chiesa Cattolica, sia ben lungi dall’essere scientificamente inappellabile. Non c’è quindi da stupirsi se anche un teologo salesiano come Norman M. Ford, in un suo saggio uscito nel 1988 (When did I begin? Conception of the human individual in history, philosophy and science, Cambridge 1988; tr.it.Quando comincio io? Il concepimento nella storia, nella filosofia e nella scienza, Baldini e Castoldi, Milano 1997), abbia mostrato alcune interessanti aperture a-dogmatiche, sollevando con molta onestà intellettuale non pochi interrogativi, dettati proprio dalla difficoltà di definire ontologicamente l’embrione nelle prime due settimane di vita.
Non meno gravi ci sembrano le considerazioni relative alle accuse di tecnocrazia concernenti la fecondazione artificiale eterologa, innanzitutto perchéfondate sul principio che esista una legge morale universale capace di definire una visione necessariamente condivisibile della natura, alla cui obbedienza richiamare tutti gli uomini. Si è opportunamente fatto notare che non esiste nulla di più culturale della definizione di “natura”. Quanto alle questioni relative alla definizione di “figlio” in senso giuridico e biologico, non ci sembra corretto presupporre che il donatore nella fecondazione eterologa sia una figura inquietante. A parte il fatto che tale teoria non risulta confermata dalle ricerche sociologiche, essa si presenta più come una valutazione soggettiva, piuttosto che come una verità morale oggettiva. Sono la libera scelta, la volontà, il deliberato consenso e l’amore dei genitori ad indurli ad avere un figlio, anche attraverso la fecondazione eterologa; questi sembrano essere i “fatti” centrali, sui quali ci rifiutiamo di dare giudizi ontologici e assoluti. In attesa, quindi, di ritornare in modo certamente più circostanziato e incisivo su questi temi – anche e soprattutto attraverso le voci di alcuni tra i più grandi protagonisti del dibattito scientifico e della ricerca – riteniamo doveroso, proprio in questa concitata fase della storia della società italiana, ribadire con forza quei valori laici sui quali si fondano tutti i moderni Stati democratici e di diritto e che sono stati affermati dopo oltre quattro secoli di lotte, nel nome della difesa dei fondamentali principi di libertà e di tolleranza: lotte che hanno visto la Libera Muratoria universale sempre in prima linea.

A questo proposito sembra ineludibile una sia pur breve riflessione sui recenti pronunciamenti espressi da alte autorità del mondo ecclesiale, vuoi sulla legge sulla fecondazione assistita e segnatamente sulla natura degli embrioni, vuoi sull’esortazione a disertare le urne in occasione del prossimo referendum. Noi non contestiamo certamente agli uomini della Chiesa il diritto di esprimere valutazioni etiche, coerenti con la propria cultura religiosa e teologica e di parteciparle a credenti e non, né tanto meno contestiamo a qualunque cittadino il diritto di manifestare il suo pensiero circa i comportamenti cui egli o altri si atterranno in vista di determinate scadenze istituzionali. E ovviamente non ci appartiene qualsiasi influenza o indicazione sulla scelta degli elettori. Troviamo, invece, gravissimo il tentativo di delegittimare, attraverso posizioni ufficiali, il confronto democratico referendario, valorizzando un espediente, quello dell’astensionismo totale, che ci pare diseducativo rispetto ai valori della moderna società civile e vanificante una prerogativa costituzionalmente garantita come principale strumento della volontà popolare. Evitare una verifica franca e aperta attraverso il non voto è un tentativo mal celato di sottrarsi ad un confronto e si palesa come un timore dinanzi ad un risultato che si prevede sfavorevole; e, certamente, non propone all’Italia e soprattutto alle nuove generazioni un modello costruttivo e formativo di democrazia e di dialogo. Promuovere l’astensionismo significa, infatti, diseducare al voto, violando quelle regole della religione civile alle quali si informa l’essere cittadini partecipi responsabili della res publica.
Anche se oggi per la Libera Muratoria è un giorno di festa, abbiamo ancora nel cuore le dolorose vicende occorse con tutta la loro drammaticità nel sud-est asiatico, che ci inducono ad una serie di riflessioni di ordine etico e filosofico che ci sembra debbano trovare spazio anche nel contesto di questa allocuzione.
Di fronte ad una catastrofe di portata eccezionalmente distruttiva quale quella dello tsunami vengono, infatti, in mente le sconsolanti e dolorose conclusioni di uno dei più grandi pensatori dell”800 europeo e del nostro Paese; Giacomo Leopardi. La manifestazione più brutale della violenza, per così dire matrigna e implacabile della natura, sembra aver trovato in questa sciagura una sua conclamata realizzazione, senza al momento lasciare spazio ad alcuna consolazione oppure ad una qualche accettabile spiegazione del perché di tale dramma. Una sorta di cui prodest? non può infatti trovare alcuna risposta soddisfacente.
Né avrebbe senso, come nella disperazione spesso accade, chiedersi dove fosse Dio. Noi non abbiamo alcun diritto di intervenire su questioni di ordine teologico, come già ribadito, ma la domanda, già fatta nel caso di sciagure dettate dalla follia umana (dov’era Dio ad Auschwitz?), si ripresenta in tutta la sua aporetica drammaticità. Il Grande Architetto dell’Universo, qualunque sia la fede professata dai nostri ascoltatori, certamente non era assente, ma la sua presenza andava forse vista nella capacità di tutti coloro che hanno sofferto di restare esseri umani, di mantenere la forza di vivere e combattere per evitare in futuro il dolore attraverso il quale erano (e sono) passati. Dal punto di vista della natura, il caso dello tsunami rientra tra i “fenomeni”: mille o un milione di morti non fanno differenza, in un universo dove si spengono interi sistemi solari e dove anche le stelle muoiono; ma dal nostro, per quanto piccolo, angolo di visuale, per il nostro essere nel e per il mondo, che senso ha tutto questo? Bisogna rassegnarsi, come le foglie autunnali sugli alberi in attesa di cadere, oppure possiamo, interrogandoci nel profondo, trarre qualche lezione e soprattutto maturare una coscienza che permetta, perlomeno, di limitare in futuro le conseguenze di questi – appunto – “fenomeni”?
Ma non si vuole affatto saltare subito ad alcuna conclusione o proporre qualche formuletta facile facile; bisogna ritornare ancora sul dramma in quanto tale e sugli interrogativi più generali che esso solleva alla nostra coscienza critica, così come i nostri riti ci fanno sbattere la faccia (e la mente) di fronte agli archetipi più tremendi e laceranti del nostro “esserci”.

Per quanto l’uomo faccia e farà, il diritto alla felicità resta un fine, qualcosa verso cui tendere ininterrottamente e senza limiti, ma pur sempre un tendere verso e non un possedere definitivamente. La felicità non può essere posseduta, ma solo attraversata, provata, goduta quando ci è vicina, perché la sua provvisorietà non è dettata dal nostro volere, ma si interseca con le cose del mondo, con il volere ed il piacere degli altri, con la natura e, anche, con il caso. Quale spiegazione per la sorte di coloro che, un bel mattino natalizio, sono andati in gita in barca in un mare meraviglioso e non sono più tornati? Quale spiegazione per coloro che, magari per un mal di testa, sono rimasti in albergo, e sono ancora vivi? Lasciamo da parte le possibili, quanto forse oziose, speculazioni sul destino, la sorte, gli angeli custodi e riflettiamo invece sul fatto che come esseri di “materia tendenziforme scagliati nell’universo”, come ci avrebbe definito Ernst Bloch, noi viviamo e giochiamo la nostra vita, scegliamo, talora subiamo, amiamo e soffriamo, ma non siamo onnipotenti e soprattutto siamo sempre accompagnati da “sorella morte”; è quasi un paradosso che il dono della vita ci appaia ancor più grande, quando stiamo per perderla o quando essa si spegne vicino a noi.
Questa dolorosa verità implica molte cose che, per noi Massoni, hanno un senso alquanto profondo. Conosciamo la morte, o almeno ne abbiamo dovuto attraversare un suo simulacro, e quindi siamo coscienti della nostra finitezza, perché abbiamo dovuto pensarci e, se non lo abbiamo fatto, vuol dire che di Massoneria non abbiamo ancora capito granché; per questo riteniamo di poter percorrere il nostro cammino nel Dasein come esseri liberi che, cercando la felicità, si ricordano della necessità e della responsabilità di salvaguardarla o di renderla possibile e non troppo provvisoria. Sciagure come questa più recente, dalla maggior parte di noi vissuta attraverso i media, ma in alcuni casi anche attraverso le vicende dirette di amici, parenti e Fratelli, costringono a soppesare la stupidità di un mondo che in troppe occasioni gode di una felicità fittizia, come un gruppo di ubriachi su un camion lanciato alla massima velocità lungo una strada di montagna.
La felicità non sarà mai totale per il mondo, almeno per questo mondo, dove storia e natura giocano le loro carte; è vero: siamo esseri limitati, possiamo ammalarci, soffrire e dobbiamo morire, ma dinanzi all’ineliminabilità di queste verità sappiamo anche che molti mali del mondo e soprattutto molte sciagure naturali possono essere previste, evitate o almeno temperate nelle conseguenze. Qui le carte – se si può usare la metafora del giocatore – tornano a noi ed alla nostra razionalità che deve accompagnare i sentimenti ed il coraggio con cui viviamo di giorno in giorno. La nostra Comunione ha – infatti – fini esoterici, ma non si è mai sottratta dall’esportare, come contributo critico e positivo, quanto maturato in un contesto più spirituale e simbolico. A che cosa servirebbe una dimensione etico-morale, esoterica, rituale e simbolica, se poi tutto ciò non facesse scaturire nella coscienza dei singoli e dell’Istituzione stessa il bisogno di essere testimoni di questa ricerca del bene e della felicità? Non è possibile allora che non ci si interroghi ancora una volta sugli aspetti, in diversi casi, amorali della globalizzazione, mentre non si globalizza la sicurezza, soprattutto dinanzi alle catastrofi naturali le quali, in casi come quello avvenuto, possono per certi versi essere previste con grandissimi risultati dal punto di vista della salvezza di migliaia di persone. Il diritto alla felicità torna – quindi – ad essere un tema su cui non ci stancheremo di insistere, perché esso implica il diritto dei popoli, degli umili della terra, ma anche di coloro che si muovono partendo dal ricco e opulento Nord del mondo, a non morire inutilmente e a non subire lacerazioni e perdite incolmabili per ignoranza o, peggio, per quello sciagurato ottimismo di chi, pur di guadagnare, pensa che queste cose non accadranno mai e che siano semplici invenzioni simulate dai ricercatori con i loro computer ed i loro modelli fisico-matematici.
L’attenzione alla natura, alla sua forza, alla sua capacità anche di vendicarsi di eventuali errori umani, o più sempliceente di fare il suo inesorabile corso, incurante di questi suoi figliastri, resta un dovere inderogabile.

Che l’atteggiamento della Massoneria sia, però, intrinsecamente diverso da quello di un Leopardi è evidente dalla speranza che comunque coltiviamo e dall’accettazione, che abbiamo già messo in conto, del dolore e della morte, unite, d’altro canto, all’ottimismo della ragione e non subordinate ad uno stolto ed incosciente edonismo, che ci porterebbe a godere di quanto possediamo ed a considerare non di nostro interesse quel che potrebbe capitare agli altri. Come i Fratelli sanno, il Grande Oriente d’Italia ha inteso sostenere in modoreale le popolazioni colpite dal cataclisma di dicembre; più precisamente abbiamo raccolto l’appello rivoltoci dalla Gran Loggia dell’India, alla quale vogliamo offrire un aiuto concreto, partecipando attivamente alla ricostruzione ed all’opera di soccorso alle popolazioni colpite. Ma questa è solo una parte del nostro dovere. Da un punto di vista più generale, noi dobbiamo testimoniare in tutte le sedi pubbliche ed in tutti gli spazi di discussione una cultura che intenda la solidarietà non come qualcosa indotta dall’emergenza, ma come una scelta della ragione e del cuore. Raccogliere fondi dopo una sciagura è nonostante tutto facile; operare affinché Stati più poveri o meno sensibili si dotino di strumenti di prevenzione e di piani di intervento o evacuazione all’altezza dei pericoli naturali incombenti è tutt’altra cosa. Se la Massoneria fosse così potente come alcuni pensano, non ci saremmo certo dimenticati di questi doveri. In ogni caso dobbiamo sottolinearne l’importanza. Per questa ragione, noi ribadiamo la centralità degli organismi umanitari internazionali, l’importanza assoluta delle Nazioni Unite, come camera di compensazione e di civiltà, comeluogo di dialogo e di superamento delle contraddizioni dinanzi ad ogni particolarismo.
Dalla morte nasce la vita, ma non sapremmo come dirlo a coloro che sono morti o a coloro che hanno perso i loro cari. Da queste morti nasce anche una grande rabbia per la felicità spezzata e negata; la natura ha fatto il suo corso, ma, lasciando perdere la chiamata in causa di Dio – soluzione che in tanti casi serve solo a giustificare gli ignavi ed i colpevoli – dov’era la ragione umana? dov’erano gli strumenti scientifici che potevano prevedere? dov’erano gli uomini? dov’era impegnata la loro mente? la loro ragione? Se il sonno della ragione genera mostri, possiamo aggiungere che, senza dubbio, esso aiuta la stessa natura ad estrinsecare il suo aspetto più brutale. Non possiamo peraltro dimenticare che anche noi stessi siamo parte della natura e che quanto facciamo o non facciamo, come ricordano i nostri rituali, è il frutto di una scelta, di un atto deliberato. Quando si dorme, quando si volta la testa dall’altra parte, si è comunque scelto, perché anche non fare nulla è una decisione, di cui ciascuno deve assumersi la propria responsabilità.
Non perdiamo la speranza, ma siamo sconcertati e profondamente colpiti. Vogliamo stringerci a coloro che hanno sofferto per partecipare del loro dolore, ma anche prendere un più marcato impegno a difesa del diritto dei popoli ad essere tutelati nella loro sicurezza. Sono questi i valori da globalizzare e non solo i pacchetti turistici o la circolazione delle merci. Certamente non basterà quanto è accaduto a convincere tutti che bisogna cambiare rotta e che molti Stati devono accettare norme di intervento nel contesto della protezione civile che oggi non hanno ancora. Forse, soprattutto i più poveri, vanno aiutati anche dai nostri più ricchi Paesi; ma prima, quando c’è tutto il tempo di agire con raziocinio. Dopo…, dopo è troppo tardi, almeno per coloro che il caso ha portato via, siano essi stati poveri o ricchi, locali o stranieri.
La morte, come ricordava, usando un linguaggio esoterico, un altro iniziato alla Massoneria, il Principe Antonio de Curtis, alias Totò, è una “livella”. Ma se, oggi, un occidentale ed un orientale giacciono insieme, indistinti, in qualche abisso o in qualche fenditura della terra, ciò non cancella il fatto che, almeno in parte, questa tragedia avrebbe potuto essere limitata. Al di là delle differenze di cultura, religiose e status sociale, nessun morto si sentirà indignato dalla vicinanza del Fratello straniero. Come concludeva Totò la sua celeberrima poesia, in vero ispirata al Dialogo sopra la nobiltà del Parini, altro poeta italiano nutritosi, almeno in parte alle nuove idee dell’Illuminismo: sti ppagliacciat e’e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie… appartenimmo â morte. Queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri… apparteniamo alla morte.
Noi aggiungiamo soltanto, a guisa di chiosa, che, fino a quando – però – apparterremo alla vita dovremo batterci affinché essa sia protetta, nella felicità e nella gioia a cui tutti i viventi hanno diritto di aspirare, nei limiti che la sorte individuale e la natura permetteranno, ma anche nelle potenzialità che la scienza e la ragione hanno la possibilità e l’effettività di garantire. Senza rimpianti, senza malinconia, il futuro – quindi – ci attende gravido di incognite e di sfide, ma noi siamo liberi Muratori e bravi costruttori; le grandi opere non ci spaventano anche se ne conosciamo la difficoltà; anzi, le cose semplici – diciamolo con franchezza – non ci piacciono troppo, altrimenti non ci saremmo trovati dove siamo, né ci saremmo messi in discussione come abbiamo fatto, per il bene ed il progresso non solo di noi stessi, ma dell’umanità.


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MASSONERIAE INTELLIGENZA RELIGIOSA

“Massoneria e intolleranza religiosa”

 

 

 

Gli annosi problemi connessi al processi di globalizzazione hanno sensibilmente mutato il nostro mondo; dopo un lungo periodo in cui la dimensione spirituale e religiosa sembrava declinare, anche l’illusione semplicistica che, con il collasso dell’Unione Sovietica, l’evoluzione tecnologica avrebbe superato ogni problema e conflitto umano appare oggi definitivamente svanita.

Noi dobbiamo attualmente fronteggiare un mondo molto più complesso che in passato, dove i confini nazionali non possono più separare culture e tradizioni, ma anche dove le differenze tra “interno” ed “esterno” stanno diventando via via senza senso. Anche l’attuale conflitto è globalizzato e nessuno può considerarsi fuori da questo grande e tragico gioco; gli eventi spagnoli lo dimostrano in modo inappellabile. In tale contesto, nuove forme di intolleranza religiosa stanno assumendo un forte significato politico che appare in continua crescita; alcuni dogmi religiosi, formulati in modo rude, schematico e acritico sono utilizzati come un bastone, talora contro la stessa tradizione religiosa e legale avita, ma semplicemente come un più efficiente e politicamente convincente strumento di propaganda ideologica e ovviamente, per queste stesse ragioni, anche di estrema pericolosità.

Un Mondo Occidentale, banalmente dipinto e presentato come “giudeo-cristiano” sta infatti diventando l’obiettivo di un Est “islamico”, secondo il disegno di alcuni movimenti religiosi fondamentalisti, che cercano così di assumere un nuovo tipo di leadership spirituale, in modo particolare, nel Nord Africa, nel Medio Oriente, nel Sud-Est asiatico, e in Asia centrale.

Dal canto opposto noi possiamo notare il radicarsi di alcune reazioni, psicologicamente negative, emerse nell’opinione pubblica europea, tali per cui molte persone, già da tempo impressionate dal fenomeno dell’immigrazione, sono ora fortemente scioccate dalla violenza delle azioni terroristiche; di fatto, molti dei nostri concittadini mostrano la tendenza a considerare unilateralmente tutti i Musulmani come intolleranti, potenzialmente terroristi o peggio. In questa situazione, la nostra Comunione non può restare in silenzio e guardare all’evolversi di questa tragedia come se si trattasse di qualcosa di esterno o semplicemente di “profano” per le nostre menti e i nostri animi “esoterici”.

La prima ragione che ci impone una chiara risposta è dovuta alla circostanza drammatica che la Massoneria è oggi l’obiettivo di una propaganda violentissima ed insultante da parte di alcuni gruppi fondamentalisti, che propongono un recente revival di alcune vecchie mitologie concernenti un famigerato piano massonico di “dominio mondiale”.

Si tratta del ciarpame contenuto in un clamoroso falso storico, noto come I Protocolli dei Savi di Sion , grazie al quale un gruppo di anti-semiti russi cercò di mostrare l’esistenza di un tremendo progetto imperialistico guidato da Ebrei e Massoni; in questi anni, tale opera viene frequentemente ristampata e promossa come un’assoluta fonte originale presso molti paesi orientali. Ma ciò sarebbe solo un problema di carattere semplicemente culturale, da affrontare con una ben organizzata campagna di informazione in Oriente riguardo ai valori della Massoneria. Il problema reale invece concerne – come il nostro caro Fratello Thomas W. Jackson ci ha ricordato nella lettera a tutti i Grandi Maestri – il diretto e violento attacco contro le nostre Logge, come è accaduto in Turchia pochi mesi or sono.

Cari Fratelli, non penso infatti che da parte nostra si possa semplicemente esprimere un dispiacere profondo o le nostre più sincere condoglianza al Gran Maestro della Turchia. Questo cambio di strategia tra i terroristi fondamentalisti deve essere attentamente vagliato e non possiamo abbandonare i Fratelli turchi soli ad affrontare questa battaglia e la loro sorte. La Turchia, infatti, è un paese a maggioranza islamica che da molti anni – nonostante alcuni inevitabili contrasti e problemi (che peraltro possiamo avere anche nelle società occidentali grazie ai nostri fondamentalisti locali) – sta vivendo un’esperienza di democrazia parlamentare, con leggi sociali e codici indipendenti da concezioni strettamente religiose, ma che rappresentano piuttosto un’immagine laica di uno Stato che non segue la sharî’a . Tale paese sta anche cercando di unirsi alla Comunità Europea; queste tendenze sono in contrasto con il sogno terroristico di intolleranza religiosa.

 

 

Noi non possiamo dimenticare che anche in molti paesi europei la Massoneria è stata severamente aggredita, perseguitata, vietata e continuamente condannata per pregiudizi religiosi e politici; fin quando le idee di tolleranza, di democrazia parlamentare, di Stato laico, di libertà religiosa e di mutuo rispetto, oppure i concetti fondamentali contenuti nella Carta dei Diritti dell’Uomo, non sono divenuti valori normali e condivisi, le nostre Comunioni, soprattutto nei paesi meno illuminati, sono state bersaglio di molte forme di violenza; in Italia, abbiamo attraversato le nostre tristi esperienze a partire dal XVIII secolo, poiché la Chiesa Cattolica non accettava la presenza delle prime Logge di origine britannica, sorte in Toscana, dove Cristiani (Protestanti e Cattolici) ed Ebrei, ma anche nobili, borghesi e normali cittadini potessero lavorare insieme. Il Fascismo fece a sua volta del suo meglio contro la nostra Comunione.

Il contesto multiculturale che la Libera Muratoria ha offerto ed ancor oggi offre, il suo legame culturale con la diffusione di idee democratiche e umanitarie, fondamentali per le moderne società occidentali, rappresentano una tradizione imprescindibile, capace di proporre un modello positivo e costruttivo per molti popoli orientali. Non possiamo nasconderci che, al contrario, proprio tali stesse idee costituiscono un serio e reale pericolo per tutti quei movimenti intolleranti che mirano all’esplosione di un definitivo conflitto di civiltà. Dal punto di vista di questi popoli, infatti, la nostra stessa esistenza, la nostra cultura, la nostra filosofia, la nostra storia, dovrebbero essere completamente sradicate e condannate all’oblio.

Abbiamo il dovere di ricordare che giustamente le nostre Comunioni non si sono rifiutate di iniziare Musulmani, Parsi, Hindu, Sikh e molti altri cittadini di diverse religioni del mondo, poiché tutte queste genti condividono con noi il credo comune nell’idea del Grande Architetto dell’Universo, che è il primo ed essenziale Landmark che noi dobbiamo rispettare. Grazie alla Massoneria, molti concetti culturali positivi concernenti gli ideali di tolleranza, fratellanza, libertà, democrazia, eguaglianza sono cresciuti in Europa ed America, ma anche in diverse regioni dell’Oriente e dell’Africa.

Se, da una parte, è chiaro che noi non ci occupiamo di “politica”, dall’altra non possiamo pensare che la nostra “filosofia” – così come essa è stata opportunamente chiamata dal nostro Fratello Jackson – non abbia un suo impatto sociale e culturale sulla vita di molti popoli ed in particolare tra i loro opinionisti e presso le loro élite più aperte. Ciò significa chiaramente che lo spazio esoterico e rituale offerto dalle nostre Comunioni rappresenta un mezzo di educazione spirituale e sociale, che propone a persone di differenti paesi, tradizioni e religioni l’opportunità di condividere grandissimi ideali ed altrettanto profondi concetti etici. Tale forma di educazione è pertanto un pericolo per i terroristi, per i fondamentalisti, per i figli dell’intolleranza.

Noi dobbiamo resistere, non semplicemente chiusi nei nostri bellissimi Templi, ma dobbiamo offrire una chiara testimonianza nelle nostre società, dove la necessità delle nostre idee profonde e della nostra tradizione sta crescendo sempre più, così come era già stato nel periodo dell’Illuminismo.

 

 

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“METTIAMOCI A LAVORO CON SPIRITO DI FRATELLANZA PER COSTRUIRE UNITI LA GRANDE OPERA

“METTIAMOCI A LAVORO CON SPIRITO DI FRATELLANZA PER COSTRUIRE UNITI LA GRANDE OPERA”

Carissimi Fratelli,

 

rivolgo un saluto a tutti voi maestri che avete scelto di partecipare a questa Tornata nazionale della Massoneria, presente nel nostro paese da oltre due secoli sotto la forma del Grande Oriente d’Italia anche se attiva da tempi immemorabili, grazie ai Liberi Muratori che ci hanno preceduto i quali, nonostante tutte le vicissitudini che in tempi passati hanno dovuto affrontare, sono stati in grado di tenere in vita e trasmettere fino ai nostri giorni “l’Arte del Costruire”.

 

Nell’assumere la guida del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani e nel reggere il maglietto di Gran Maestro, simbolo della carica alla quale sono stato chiamato, voglio esprimere un sentito ringraziamento. Sul piano personale la mia accettazione vuole avere un significato di pieno e convinto servizio, in spirito di unità e responsabilità. Senza l’essenza di questa convinzione, consentitemi proprio di dirlo con fraterna umiltà, le remore, le ansie e le preoccupazioni scaturite dalla nuova responsabilità, di cui sono assolutamente consapevole, avrebbero finito col prendere il sopravvento.

 

Non nego che sento sin d’ora il considerevole peso di questo impegno ma, ben conscio del dovere che l’alto ruolo mi impone, ribadisco con forza quanto già assunto con la promessa solenne prestata davanti a questa Gran Loggia. Sono estremamente orgoglioso di essere il vostro Gran Maestro e farò di tutto per esercitare al meglio la mia funzione nel rispetto della Tradizione, nell’osservanza degli Antichi Doveri, della Costituzione e dei Regolamenti del nostro Ordine.

 

Rivolgo a tutti coloro che mi hanno preceduto in questo alto ufficio, ad iniziare dal mio predecessore, il carissimo fratello Stefano Bisi, una parola di saluto e di grata riconoscenza per quanto fatto a favore di una costante ed armonica crescita del Grande Oriente d’Italia. Sono fiero di aver fatto parte delle sue Giunte, da Primo Gran Sorvegliante  e poi da Gran Maestro Aggiunto e quindi delle scelte e del lavoro che è stato fatto per il bene della Obbedienza,  a cominciare dalla giusta e strenua difesa dell’Ordine dinanzi alla Commissione Nazionale Antimafia, di fronte ad accuse ingiuste e scioltesi come neve al sole, per non parlare del riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra atteso da una vita, sino alla vicenda di Palazzo Giustiniani.

 

Il fratello, Stefano Bisi merita una triplice batteria di giubilo per tutto quello che ha fatto e che farà. Il mio affettuoso grazie va altresì ai fratelli della Giunta uscente del Grande Oriente d’Italia, fratelli capaci e meritevoli che hanno agito in silenzio e senza l’aiuto dei quali tanti importanti risultati non sarebbero stati raggiunti.

 

Cari fratelli, oggi la Libera Muratoria deve fare i conti con le trasformazioni che coinvolgono il mondo, a partire dal cambiamento degli equilibri geopolitici, la sostenibilità di modelli economici che ritenevamo ormai consolidati, il valore dei rapporti tra le persone e la qualità della vita, temi delicati di non facile soluzione che generano incertezze e preoccupazioni per il futuro.

 

In questo contesto si inserisce, come argomento di estrema rilevanza, la qualità della comunicazione, intesa come strumento principale per la diffusione di idee, che può essere utilizzato con modalità differenti e, soprattutto, con differenti intenzioni. L’epocale cambiamento, legato alle nuove regole di comunicazione che coinvolgono l’intero pianeta, è un processo iniziato da qualche decennio soprattutto in seguito allo sviluppo della tecnologia digitale, la quale ha portato ad una trasformazione così profonda da poter dire che un “nuovo mondo virtuale” sta prendendo il sopravvento rispetto a quello reale.

 

Come tutti i cambiamenti legati al progresso tecnologico, anche la “comunicazione in rete” sta incidendo sulla vita degli uomini, agevolando il confronto tra forme culturali differenti ed il contatto tra popoli lontani, aspetti che possono essere considerati una ricchezza, se non altro per la loro utilità. Teniamo anche in considerazione che questa “rivoluzione della comunicazione” ha messo in moto un processo di “fluidificazione” della società: l’incontro tra le differenti etnie, agevolato dai nuovi mezzi di comunicazione, sta portando l’uomo ad omologarsi in una diffusa globalizzazione, una sorta di tendenza uni-formatrice, intesa come ricerca dell’unità nella forma esteriore più che nei principi della sua esistenza.

 

Nell’illusione di costruire una nuova identità, l’uomo contemporaneo sta affievolendo gradualmente la propria personalità, riducendosi ad una sorta di unità spogliata della qualità principale che contraddistingue ogni essere umano. Tutto ciò conduce a conseguenze apparentemente paradossali anche se i fatti parlano chiaro riguardo alla qualità dei rapporti umani: più si è collegati virtualmente più ci si trova realmente lontani. Tale tendenza è facilmente riscontrabile visto che, nonostante questi nuovi strumenti abbiano agevolato i contatti tra persone, sta aumentando sempre più l’incapacità di ascolto e dialogo, favorita da una sorta di incomprensione non solo linguistica ma soprattutto concettuale. Del resto, un autentico dialogo, attraverso il quale si crea un intimo confronto disinteressato tra le parti, dipende da quanto i partecipanti sono disposti a “mettere in dubbio” le proprie convinzioni. La degenerazione della qualità della comunicazione è arrivata a tal punto che l’essere umano, avendo ormai rivolto l’attenzione esclusivamente all’apparire, è sempre meno in grado di manifestare in maniera naturale e spontanea anche i più semplici fatti legati alla vita quotidiana, tenendo presente che ogni aspetto anche intimo e riservato, se diffuso attraverso i social media rischia di alimentare discussioni non solo sterili ma soprattutto divisive.

 

Il rovesciamento dell’ordine naturale delle cose è rilevabile da numerose espressioni del linguaggio quando, soprattutto nel nostro ambito e per fini di carattere prevalentemente individualistico, vengono usate frasi o termini tradizionali che hanno un loro valore simbolico, travisandone tuttavia, se non sovvertendone, il vero significato. Prendiamo, soltanto come esempio, l’interpretazione diffusa nel mondo moderno sul concetto di “libero pensiero”. In tale ambito questa idea viene intesa come diritto alla libertà di espressione della propria individualità, concezione che, quando viene considerata nella sua interpretazione più ampia, spesso degenera nel disconoscimento aprioristico non solo di ogni gerarchia, ma anche delle diversità di valore, di merito e di esperienza, con conseguenze potenzialmente devastanti. In ambito iniziatico l’idea di “Libertà”, per noi così preziosa, non può ridursi a concezioni personalistiche, ma deve necessariamente tendere alla ricerca del “pensiero libero”, da intendersi quale liberazione da credenze, da pregiudizi e, più in generale, da tutti quei condizionamenti individuali che, nostro malgrado, limitano la nostra esistenza ed il nostro percorso iniziatico. Allo stesso modo la “Cacciata dei mercanti dal Tempio” non può essere vista come il semplice allontanamento pregiudizievole del diverso da sé, ma come una chiara indicazione volta alla eliminazione di qualsiasi interferenza dal proprio Tempio interiore.

 

A questo punto vale la pena domandarsi se in un ambiente così ingannevole il massone di oggi sia ancora in grado di mantenere l’orientamento necessario per riconoscere la sacralità della propria esistenza. Ormai, mentre non ci sono dubbi sulla direzione intrapresa dalla civiltà contemporanea, sembra strano che il peso della crisi dei valori tradizionali non abbia avuto l’attenzione dovuta da parte dei fratelli, distratti, nel tentativo di conformarsi al mondo esterno, da tematiche che non dovrebbero appartenerci.

 

Il massone più di altri dovrebbe essere interessato a conoscere la verità, sempre disposto a mettersi in discussione dal momento che è molto più facile credere che cercare, visto che per conoscere la verità occorre indagare per rimuovere ciò che la nasconde, il che è ancora più difficile quando si ha l’intenzione di effettuare tale lavoro su sé stessi.

 

Inoltre, risulta arduo parlare di “Libertà” iniziatica quando i Massoni non si sentono neppure liberi di lavorare tranquillamente all’interno dei propri Templi; noi tutti non possiamo non cogliere i segnali di tale fenomeno, visto che recentemente siamo stati sopraffatti al nostro interno da menzogne veicolate attraverso una comunicazione più o meno anonima.

 

Vale la pena di riflettere su quanto è accaduto facendo un’autocritica sulle responsabilità di ciascuno, per prepararsi in futuro a dare la giusta solidità alla Massoneria, cosa possibile soltanto se ognuno sarà disposto a cambiare il proprio orientamento in modo da poter essere tutti pronti a svolgere il compito assegnatoli, coscienti che siamo all’alba di una nuova era, quella dell’intelligenza artificiale.

 

Naturalmente è ancora presto per fare ipotesi definitive sull’avvenire, anche se sappiamo che ci sarà una ulteriore accelerazione dei cambiamenti in atto, considerando che fino ad oggi siamo noi che facciamo le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano, mentre in futuro tali decisioni potrebbero essere prese da un algoritmo.

 

Del resto, senza pretendere di pensare che i Massoni possano essere i salvatori dell’Umanità, sappiamo bene che la Massoneria, nonostante le contingenze di carattere profano che la affliggono, è ancora in possesso di tutti gli strumenti necessari per stimolare i suoi aderenti a intraprendere il lavoro interiore, in forza del patrimonio simbolico trasmesso dai Liberi Muratori delle antiche corporazioni di mestiere e mantenuto ancora integro da parte di quei massoni sempre attenti a percorrere la via della tradizione libero- muratoria e che, pur non avendo nessun ruolo apparente, faranno in modo che l’iniziazione muratoria non si possa interrompere.

 

Il dato di fatto è che tali strumenti simbolici non vengano tenuti come reliquie da adorare e venerare, ma vengano utilizzati per un effettivo lavoro di elevazione interiore, vitalizzando il simbolo attraverso un’incessante attività iniziatica dentro e fuori le porte del tempio massonico, dando un contenuto al contenitore ed evitando di confondere il simbolo con ciò che simboleggia.

 

Possiamo spingerci a dire che il futuro della Massoneria non dipende quindi soltanto da “grandi uomini”, più o meno noti, ma da tutti coloro che, nel silenzio, sono disposti a lavorare  a favore dell’elevazione spirituale dell’Uomo, sempre pronti a tenere attiva l’esistenza umana “per il bene e il progresso dell’Umanità”.

 

Occorre che ognuno di noi faccia la propria parte, attraverso uno sforzo personale, cosa che non può essere delegata a nessun’altro e tantomeno disattesa, visto che il primo dovere assunto il giorno della nostra iniziazione, è quello di “percorrere incessantemente la via iniziatica tradizionale per il perfezionamento interiore”.

 

Tale lavoro è indispensabile per il futuro del Grande Oriente d’Italia, come del resto deve avvenire in qualsiasi costruzione architettonica la quale, per mantenere il giusto livello di solidità, deve essere composta da pietre ben sgrossate e ben levigate. In altre parole, per fare in modo che il processo di costruzione della fratellanza possa perdurare, occorrerà sempre più mettere in atto un lavoro personale di demolizione degli egoismi ed individualismi.

 

I due aspetti sono strettamente collegati: tanto più si demolisce e quindi si annulla la tendenza all’individualismo, tanto più costruiamo uniti da un comune obiettivo, realizzando per naturale conseguenza una concreta idea di “amore fraterno”. Per essere ancora più precisi, il lavoro che da oggi dobbiamo compiere è quello di trasformare tutte le tensioni trasversali, che rischiano di far crollare l’intera struttura, in forze verticali, verso quel vertice comune rappresentato dalla “chiave di volta”, dove le tensioni si annullano e le forze si uniscono in un solo punto.

 

Per questo motivo continuiamo a lavorare all’interno dei nostri Templi, consapevoli che lo spirito di fratellanza è l’unico collante che ci tiene tutti “Uniti nella costruzione della Grande Opera”.

 

Viva il Grande Oriente d’Italia.

 

 

 

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IL PRINCIPE SAN SEVERO, ALCHIMISTA E GRAN MAESTRO

 

IL PRINCIPE Dl SANSEVERO,

ALCHIMISTA E GRAN MAESTRO

di

Sigfrido E.

n questa fase della storia della Libera Muratoria napoletana, si inserisce la vicenda del Principe di Sansevero, il quale fornirà la versione ufficiale sulla sua esperienza massonica in

 

una Lettera scritta a Benedetto XIV e datata il 1 agosto 1751, un mese dopo la rinuncia alla Gran Maestranza dell’ Ordine [1] : “Compie in questo corrente mese di Luglio appunto un anno, Santissimo

 

Padre, da che un ragguardevolissimo Cavaliere della Corte del mio Re Carlo Borbone [2], col quale avea gran dimestichezza, secretamente parlandomi m’invitò ad entrare nel ruolo di coloro, che volgarmente Liberi Muratori son detti”. Il Principe racconta quindi che, dopo essere stato interrogato dal “Presidente o sia dal Maestro, siccome essi dicono, dell’Ordine”, venne ammesso all’iniziazione: “e avendoci il Presidente e tutti gli altri Confratelli acconsentito, son tra loro ricevuto a’ 22. di Luglio del prossimo passato anno”, ovvero del 1750.

Il Principe non manca di sottolineare di essersi trovato “in mezzo ad onestissima Gente” e che, avendo partecipato a numerose riunioni, non si era imbattuto “in alcuna cosa viziosa, se non in molte piuttosto ridicole ed insulse, cioè in certi enigmi, sotto i quali ciascuna bagattella alla società appartenente si nasconde”; e continua quindi affermando che per tale motivo si era piuttosto disgustato; tuttavia, aveva deciso di “perseverarci per qualche tempo” soprattutto perché gli sembrava ‘flaudabile” che uomini di diverso ceto, “posta da banda la nobiltà della nascita e la gravità degl ‘ impieghi, doveano fra loro familiarmente conversare, e promettersi uno scambievole soccorso in caso di caderne in bisogno” e pensando inoltre che “si potesse apportare un grandissimo benefizio alla Patria coll’unire insieme gli animi de’ più Potenti Cittadini e quelli de’ Giureconsulti”.

“Trenta giorni appena dopo la mia ricezione – continua il Principe – per comune consentimento di tutti fui eletto Presidente, o per meglio dire Gran Maestro dell’ Ordine nel Regno Napoletano”. Il Principe di Sansevero, infatti, su proposta dallo Zelaja, venne “di comune consenso acclamato e riconosciuto per Gran Maestro dell’ Ordine”, riconoscimento che gli fu confermato il 24 ottobre 1750 anche dalla Loggia del Larnage: pertanto, sotto il Gran Maestrato del Principe di Sansevero, le Logge napoletane andarono a costituire una Gran Loggia Nazionale[3]

Sorge, a questo punto, una legittima perplessità: come è possibile che il Principe di Sansevero, per quanto prestigiosa fosse la sua figura, potesse essere eletto Gran Maestro dell’ Ordine appena un mese dopo la

sua ricezione ? Una così folgorante carriera massonica appare alquanto improbabile [4], mentre sembra ben più verosimile l’ipotesi che il Principe di Sansevero fosse stato iniziato già diverso tempo prima, e che nel 175 abbia invece voluto imprimere una svolta decisiva alla Massoneria napoletana, riorganizzandone le Logge rafforzandola e rendendola autonoma con la costituzione della Gran Loggia Nazionale.

L’ idea che il Principe di Sansevero facesse parte della Libera Muratoria da prima del 1750, è stat già avanzata da più parti, e secondo Gamberini il Principe sarebbe stato iniziato nella Loggia del duca di Villeroy fra il 1736 e il 1737 [5]. Henri Theodor Tschudi riporta il testo di un’Orazione che il Principe avrebbe pronunciata nel 1745, in occasione dell ‘ ingresso di alcuni Apprendisti nella sua Loggia[6][7].Il tono dell’ orazione è tale che a tenerla non può essere stato che il Maestro Reggente della Loggia: pertanto, il Principe di Sansevero nel 1745 non solo sarebbe già stato inserito nell’ Ordine, ma vi avrebbe occupato un posto di primo piano. Inoltre, in un documento massonico dell’epoca, un volumetto recante il titolo Le Costituzioni della Società dei Liberi Muratori, viene riportata la “Canzonetta Recitata in Napoli nel dì 21. Gennaio 1750.assistendo il F.. Tolvach Inglese al travaglio della Loggia della Concordia, una delle Logge del F.. Raimondo di Sangro, Principe di S. Severo, Primo Gran Maestro in Italia”21 : apprendiamo in tal modo il titolo distintivo di una delle Logge del Principe di Sansevero, ma soprattutto troviamo la conferma che il Principe era già a capo della Massoneria napoletana il 21 gennaio 1750, cioè sei mesi prima della data del 22 luglio 1750, in cui egli stesso afferma di essere stato iniziato.

In mancanza di documenti più precisi ed attendibili, la vera data dell’iniziazione massonica del Principe di Sansevero resta ancora avvolta nel mistero. Riteniamo tuttavia che un’indicazione in merito sia stata fornita, in forma velata, dallo stesso Principe nella Lettera Apologetica, quando parla del suo Progetto d’una Multiplice Difesa Interna, affermando che “questo ammirabile trattato è la cosa, che con più gelosa cura custodisce l’ Autore . ci sembra infatti di poter scorgere, nella Molteplice Difesa Interna, non solo un modello di fortificazione militare, ma anche un’ allusione allo schema della Triplice Cinta[8][9], simbolo dell’insegnamento iniziatico coi suoi tre gradi visti come barriere da superare per penetrare nel punto centrale, cuore del mistero e fonte dell ‘ insegnamento.

Non ci sembra eccessivamente azzardato ipotizzare che la data del 1741, attribuita a tale Progett024, possa essere la vera data dell’ iniziazione massonica del Principe, il che sembrerebbe trovare conferma in un altro passo che precede il brano in questione, ed in cui il Principe cita un’ altra sua opera sulla vera cagione produttrice della luce”25 : vedere o ricevere la Luce è ciò che il neofita chiede all’atto della sua iniziazione, e non possiamo non ricordare, in proposito, la frase con cui lo stesso Principe aveva salutato alcuni Apprendisti in occasione del loro ingresso nella sua Loggia: “è giusto, infine, che vi renda partecipi della Luce che avete cercato con tanta cura.”.

Inseguito alla Bolla di Scomunica di Benedetto XIV, il Re si era fatto fare dal Principe “il ristretto di tutta l’Istoria di tali Liberi Muratori”, e il Principe aveva rimesso nelle sue mani anche la “nota dei soggetti che sono aggregati in detta setta”, ovvero la lista dei Massoni napoletani. Il IO luglio 1751 Carlo III emanava a sua volta l’Editto di condanna della Libera Muratoria, e vietava la sua presenza della Massoneria nel Regno: “Quindi, per ovviare ad un male sì grave e dannevole di una Società troppo sospetta per la profondità del segreto, per la vigilantissima custodia delle sue Assemblee, pel sacrilego abuso del giuramento, per l’ arcana Caratteristica, con cui i suoi membri si riconoscono tra di essi, e per la dissolutezza delle crapole, sorgive tutte di perniciose conseguenze; la proibiamo assolutamente ne’ nostri Domini sotto la pena di dover essere i liberi Muratori puniti come perturbatori della pubblica tranquillità e come rei di violati diritti della nostra Sovramta

Alcuni giorni prima, il Principe aveva già comunicato al Re la sua formale abiura, cosa di cui avrebbe poi dato notizia nella sua Lettera al Papa, pur senza specificarne il momento: “tosto dunque rinunziai al Gran Maestrato; e a tutti gli altri seriamente ed efficacemente consigliai di fare lo stesso”; un’ informazione più precisa in merito, la troviamo in una lettera al Papa del Nunzio Gualtieri del 3 luglio: “frattanto sento che il loro Gran Maestro Principe di S. Severo abbia portato la renuncia di tal’ impiego nelle mani della M.S., e che questi gli facesse una gran ripassata” e sempre dal Nunzio apprendiamo che il Re aveva mandato a sequestrare in casa del Principe il “Libro delle Cabale”

In una lettera inviata al Papa, il Re manifestava inoltre la sua soddisfazione per il successo che avevano ottenuto il suo Editto, ed ancor più per essere finalmente riuscito ad acquisire “molte scritture” sulla Libera Muratoria, che si affrettava ad inoltrare al Pontefice, “affinché per sé e per gli altri Principi Cattolici ne faccia quell’uso salutare e prudente, che stimerà il suo savio intendimento”

L’esame dei documenti consegnati dal Principe di Sansevero a Carlo III, e da questi trasmessi al Pontefice, ci interessa in modo particolare, dal momento che ne possiamo deduuve degli utili chiarimenti sul sistema massonico adottato nelle Logge del Principe e, in termini più generali, sul modo in cui la Massoneria veniva praticata a Napoli.

Lo stesso Carlo III descrive i testi in questione nella sua lettera al Papa: oltre agli Statuti ed ai Cerimoniali “professati da’ Muratori di qui”, vi si trova una delle Costituzioni delle Loggie d’Inghilterra “qui capitate, ma non per anco accettate” e che concernono “la prima classe de’ Muratori blu, divisa in tre gradi, cioè di Apprendente, di Compagno, e di Maestro”. Il Re aggiunge che “i segreti, e le cerimonie di questo prim’ ordine del Muratorismo, quantunque Sien sempre condannabili per se stessi, ad ogni modo si riducono a mere inezie, ed a ridicole puerilità vestite con abito serio e misterioso per incalappiare gli sciocchi, e dar risalto alle follie”

Seguono poi i documenti relativi alle “altre tre classi, o vero Gradi maggiori del Muratorismo, di Maestro Scozzese, di Eletto, e della Sublime Filosofia. Lasciando però da parte questo ultimo, che riducesi ad un titolo puramente scientifico, ben iscorgerà V.S. negli altri due rimarchevoli Gradi un fanatismo dichiarato di guaste fantasie da per tutto, un putrido impasto di sogni cabalistici, e di favole Rabbiniche nella storia, una irreligiosa superstizione, e professamento de’ Misteri sagri nelle cerimoni, un misterioso parlare di sangue, di torti, e di vendette ne’ propri fini, ed un dilicato adombramento di Crovvellismo”

Dalla lettera di Carlo III, appare dunque chiaro che il sistema massonico adottato dalla Gran Loggia del Principe di Sansevero era un sistema fondato sugli Alti Gradi, mentre le Costituzioni di Anderson, su cui si fondava la Massoneria “Inglese”, limitata ai primi tre gradi, pur essendo note nell’ ambiente napoletano, non erano state accettate: infatti alla prima “classe de’ Muratori blu”, coi suoi tre Gradi simbolici di Apprendista (Apprendente), Compagno e Maestro, erano stati aggiunti tre “Gradi maggiori”, i cui princìpi, delineati in documenti “ignoti forse finora a chicchessia”, possono essere messi in rapporto con lo schema prospettato dal Ramsay e con la Massoneria “Scozzese”.

Per quanto concerne il Grado della Sublime Filosofia, sesto del sistema adottato a Napoli, il Principe così si esprime: “Ad ogni modo, perché io tengo parimenti il grado della Sublime Filosofia, posso assicurare, che quello è necessario, e che senza di esso il Muratorismo resta imperfetto. Ma è troppo difficile di stabilir questo Grado; ed io non ne conosco, che una sola Loggia”, aggiungendo, in seguito, “anzi credo, che Marseglia sia la sola città, dove vien conosciuto, e praticato questo Grado”

Il Principe spiega quindi che questo Grado è limitato ad “un picciol numero di animi scelti”, in quanto, essendo basato sul gusto per la scienza e lo studio, “altro dunque non è, che una spezie di Accademia”. I Sublimi Filosofi, o Accademici, svolgono dei lavori di carattere squisitamente intellettuale, riunendosi ogni settimana intorno ad una “Tavola grande” ed esponendo le loro ricerche ed i loro esperimenti, “o la Pianta, o il Calcolo, o lo Sperimento”, e discutendone insieme.

Anche nella Lettera al Papa, il Principe di Sansevero, esprimendo un giudizio alquanto critico nei confronti di taluni aspetti della Libera Muratoria, e parlando delle molte cose “piuttosto ridicole ed insulse” che vi aveva riscontrato, manifesta la sua convinzione che, all ‘ interno dell ‘ Ordine massonico, alcuni spiriti eletti possano perseguire dei fini altamente speculativi, ponendo la loro associazione “al coperto del Misterio, e del Segreto”.

Il Segreto assume qui un valore preciso: esso non serve più a nascondere delle “bagattelle”, ma costituisce la necessaria copertura di un prezioso lavoro di ricerca scientifica e filosofica, ed è in tal senso paragonabile al Silenzio imposto agli antichi iniziati per evitare che la loro “Scienza segreta”, trasmessa a profani, potesse essere da questi mal compresa ed ancor peggio utilizzata. Il Principe afferma di non aver mai partecipato a queste assemblee di Sublimi Filosofi, ma di esserne stato solo informato da un amico; tuttavia, l’importanza che egli stesso attribuisce a questo Grado, ed il fatto che gli intenti di una tale Accademia appaiono in perfetta armonia con la sua passione per la speculazione e la ricerca, ci inducono a pensare che Don Raimondo abbia invece avuto particolare interesse a curare proprio questo Grado e che non solo possa averlo istituito a Napoli, ma che possa aver continuato a praticarlo in segreto anche dopo la sua formale abiura.

Alla filosofia di questo Grado corrisponde, molto probabilmente, quella delineata dallo Tschudy nel suo Catechismo o Istruzione per il Grado di Adepto o Apprendista Filosofo Sublime o Sconosciuto ed ispirata a due classici alchemici del XVII secolo, il Novum Lumen Chymicum del Cosmopolita e l’Ode Alchemica di Fra Marcantonio Crasselame Chinese, pseudonimo del Marchese Santinelli.

Il fatto che entrambi i testi citati siano riconducibili all’ area del pensiero rosacrociano-6, ci consente infine di vedere un collegamento ideale fra il Grado della Sublime Filosofia, con il suo interesse per la scienza e lo studio, e il XVIII Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato (Principe Rosa Croce) che, ispirandosi alla tradizione rosacrociana, ne ripropone le istanze culturali fondate sulla ricerca delle leggi della natura, ragion per cui è stato anche definito come “il Deposito della Scienza Universale

 

IL PRINCIPE ALCHIMISTA

Fu davvero un Alchimista Don Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, ben noto per la sua misteriosa Cappella e per essere stato, nel 1751, il primo Gran Maestro della Libera Muratoria in Italia?

Certo, quel che sappiamo delle sue ricerche e sperimentazioni non sembra a prima vista sufficiente per affermarlo con certezza; inoltre, fra i suoi scritti, non ne troviamo nessuno di carattere esplicitamente alchemic028 ; anzi, come rileva con malcelata soddisfazione la Cioffi, fra i titoli della sua pur ricchissima

  • Il Ferguson (Bibliotheca Chemica, London 1954, vol. II, p.369) riporta la notizia che al Sendivogius (ovvero al Cosmopolita) sarebbe sato rivolto l’esplicito invito ad entrare a far parte della Fraternità dei Rosacroce e in ogni caso la sua opera rientra nella corrente di pensiero rosacrociano, come vi rientra quella del Santinelli, che in un’ altra sua opera (Il Carlo Quinto, ca. 1676) parla di un ordine della Rosea Croce.
  • Gamberini: Emblemi, ed.cit. p. 104: secondo Gamberini, il Grado di Principe Rosa Croce sembra sia stato praticato per la prima volta a Lione verso il 1 762; esso è presente, sempre come XVIII Grado, nel Rito di Perfezione di Heredom. La sua origine è riconducibile alla presenza rosacrociana nelle Loggie massoniche fin dal XVII secolo, ed alla fondazione stessa dell’Ordine massonico nel 1717; nel 1740 i Rosa+Croce di Heredom francesi fondarono il Capitolo di Clermont, mentre verso il 1760-70 vennero fondati diversi Ordini rosacrociani ad opera del Conte di Saint Germain, del teosofo Schrôder, dello Schrôpfer e del Barone von Ecker (cfr. Soro, op.cit. p.3234 e 153-57)
  • Gli Alchimisti si definivano Filosofi, in quanto amavano e perseguivano la Conoscenza ed Eroi perchè il cammmo che affrontavano era irto di ostacoli e pericoli e tale da poter essere affrontato solo dall’entusiasmo e dall’audacia di una natura eroica: similmente l’Origlia (Istoria dello Studio di Napoli, Napoli 1754, Tomo II,

p.378, 379, 386) definisce “Eroe” il Principe e “filosofiche” le sue ricerche.

biblioteca “non compare nessun nome classico della tradizione esoterica cinque-seicentesca . La cosa non ci inquieta né ci meraviglia, dal momento che non sarebbe neanche inverosimile che il Principe avesse voluto occultare o affidare in mani sicure, testi e documenti compromettenti, per evitare che si conoscesse il vero orientamento del suo pensiero e delle sue ricerche, il che del resto rientra nelle consuetudini dei membri delle società iniziatiche, che han sempre avuto cura di evitare che i loro segreti fossero conosciuti dai profani.

Siamo convinti che la ricerca alchemica abbia costituito il più importante, ma anche il più celato dei suoi interessi, e riteniamo che il Principe, maestro nell’uso di un gergo cabalistico, abbia in realtà inteso dare delle precise informazioni in merito alla sua esperienza iniziatica ed alle sue ricerche, ma che lo abbia fatto in forma velata sia nei suoi scritti che nella decorazione della sua Cappella, rivolgendosi a chi, conoscendo i suoi “sentimenti”, fosse in grado di interpretare i suoi messaggi.

Per esempio, nella Lettera Apologetica, mette in relazione alcune sue invenzioni agli Elementi Acqua, Fuoco e Aria, interpretabili alla luce della simbologia massonica dei primi tre Gradi, per poi proseguire con delle indicazioni riconducibili allo spirito rosacrociano della Sublime Filosofia, e quindi al simbolismo alchemico: ricordiamo la descrizione del grande Oriuolo progettato per il cortile del suo palazzo, sul quale la testa di un Dragone araldico avrebbe assolto alla funzione di pendolo, un’allegoria del Tempo, di quel vecchio Saturno che nei testi alchemici simboleggia il Soggetto iniziale della Grande Opera, e di cui il Dragone è il segno geroglifico, indicato come Drago nero e squamoso.

Nella biografia del Principe possiamo anche trovare un’ allusione al momento in intraprende una nuova, più delicata fase della sua ricerca: è in quel 1747 in cui, ritiratosi dai passatempi mondani prese ad applicarsi di giorno agli studi meccanici e di notte alle scienze, dedicandosi a quelle cose “che dagli altri sono stimate per lo più passatempi de’ putti, e trattenimento delle vecchie” 30. Lavoro di donne e gioco di bambini! L’ Origlia non avrebbe potuto essere più esplicito nel segnalare che a partire dal 1747 il Principe, compiute le Fatiche d’Ercole della prima preparazione della Pietra dei Filosofi. si era dedicato a quello che gli Alchimisti hanno definito il loro Regime, unico e lineare, che consiste nel cuocere e nel far digerire la materia preparata: operazione delle più segrete, perché, quando la si conosce “non è altro che un lavoro di donne, un gioco di bambini”- I . Con questa duplice immagine i Filosofi ermetici indicavano le fasi della Soluzione e della Coagulazione che si alternano durante la cottura dell’Uovo Filosofico, nel vaso contenente la materia preparata, all ‘ interno del forno alchemico o Athanòr.

Segue, puntuale e precisa, I ‘enumerazione dei colori che si sviluppano nel Vasofilosofale durante la Cottura. Quattro sono i colori principali dell’Opera, come ci insegna il misterioso monaco-alchimista Basilio Valentino 2 che li simboleggia con altrettanti emblematici animali: il Corvo, simbolo del Nero, il Pavone, anzi la Cauda Pavonis, con cui viene indicata l’ apparizione di molteplici colori che precede la manifestazione del colore Bianco; il Bianco, che viene invece simboleggiato da un candido Cigno, oppure, secondo altri autori, dalle Colombe di Diana; infine il Rosso, la Fenice che risorge dalle sue ceneri, simbolo della rigenerazione della Pietra nell ‘ Opera al Rosso.

Dopo aver accennato alla felicità provata negli “Scoprimenti de’ Segreti che altrove con somma gelosia si custodiscono”, il Principe parla dei procedimenti da lui trovati per ristagnare il rame e fabbricare la latta: Cuivre et Laiton, ou Leton, ci ricorda Dom Pernety33, sono termini che designano la “Materia al

29) R.Cioffi (La Cappella Sansevero, Arte barocca e ideologia massonica, ed. 10/17, Salerno 1987, p.78). 30) Origlia, op.cit. p.343

31 ) Vedi, sull’argomento: Ireneo Philalethe: Introitus apertus ad occlusum regis palatium, in: Musaeum Hermeticum, Frankfurt 1678. Vedi anche Fulcanelli: “Terminate le gravose Fatiche d’Ercole, il suo lavoro si riduce al Gioco da bambini di cui parlano i testi, cioè a sorvegliare il fuoco, cosa che anche una donna che sta filando può facilmente fare e farlo bene” (Il Mistero delle Cattedrali, ed. Mediterranee, Roma 1972 p. 129)

  • Basilio Valentino: Le Dodici Chiavi (Practica, cum Duodecim Clavibus et Appendice de Magno Lapide antiquorum Sapientum, in: Tripus Aureus, Francofurti 1618); ried. franc. a cura di •E.Canseliet, ed. de Minuit, Paris 1956, Chiave IX, p.i85.
  • Pernety A.J.: Dictionnaire mytho-hermetique, Paris 1787, ried. Paris 1972, p.95 e 188

Nero, che occorre sbiancare”, come ci ricorda anche l’iscrizione incisa in basso sullo stipite sinistro de] Porta Magica di Roma[10]:

azot et ignis dealbando latonam veniet sine veste dianam

Il Principe si sofferma quindi sulla “maniera da Lui ritrovata d’imprimere ad una sola tirata

Torchio qualsivoglia figura, siasi umana, o di fiori, o d’ ogni altra cosa, variamente colorata” e di produn “ad una sola pressione del torchio e ad un medesimo tempo delle pagine stampate con caratteri di pi colori”, indicando con ciò i colori variopinti che appaiono dopo l’Opera al nero e che preludono alla fas dell’Albedo in cui si manifesta il colore Bianco.

E con una coerenza che difficilmente potremmo ritenere casuale, subito dopo, il Principe, elencand alcune sue invenzioni in campo tessile, cita per prima quella del drappo dipinto che definisce Peki Partenopeo, in cui è riuscito ad ottenere, su fondi scuri come il verde ed il turchino, un “Bianco senz corpo alcuno… la cui bianchezza è tale, che sovrasta ogni altra candidezza”. L’apparizione di tale Bianc perfetto, indica, in termini alchemici, che la Materia ha raggiunto un grado di perfezione e di fissità tale d non poter più essere distrutta dal fuoco; da questo punto in poi occorre solo continuare l’ azione del fuoc per perfezionare il Magistero al Rosso.

Ma il Principe interrompe qui la sua successione di colori, con questo drappo di seta che “riduss all’ultima perfezione” nell’ anno 1749, segno che ormai ha raggiunto, nei suoi studi e nelle sue ricerche, l; necessaria chiarezza. E l’Opera al Rosso? Nelle pagine che seguono il Principe non ne fa parola.

Eppure la Fenice, simbolo dello Zolfo dei Filosofi e del Magistero condotto alla perfezione nel l’Opera al Rosso, farà la sua apparizione qualche tempo dopo, in un altro testo fatto pubblicare da Principe: nella Breve Nota si legge infatti che le due Macchine Anatomiche fatte realizzare dal Principe, s trovavano nel suo Palazzo, “in una stanza di un altro Appartamentino, che chiamano della Fenice, il qual sta tutto in fabbrica, per renderlo meglio diviso e comodo”.

Ci chiederemo allora se esista un rapporto fra il sistema circolatorio “pietrificato” che i due famos scheletri esibiscono, e la loro collocazione nell’appartamento dedicato al mitico uccello, simbolo dell rigenerazione. Per il momento ci limiteremo a segnalare che il “sangue coagulato” della materia vivente detto anche Adamo o Adamas perché rappresenta la Terra Rossa con cui è stato creato il primo padre degl uomini e che racchiude in sé lo Zolfo filosofico del Magistero al Rosso.

(fine seconda parte

 

[1] ) Vedi la corrispondenza del Nunzio Gualtieri col Cardinale Valenti, Segretario di Stato del Papa (Archivio Segreto Vaticano, Nunziatura di Napoli, voll. 233-238), pubblicata da P. Sposato (Documenti vaticani per la storia della Massoneria nel Regno di Napoli al tempo di Carlo III di Borbone, Tivoli 1959).

[2] ) Si tratterebbe di Guglielmo Moncada, Principe di Calvaruso (secondo il Palermo, ed.cit. p.458) oppure del Principe Gennaro Carafa della Roccella.

[3] ) Ed Stolper: La Massoneria settecentesca nel Regno di Napoli, in “Rivista Massonica” n. 10, 1975, p.594. Un po’ diversa la versione data dal Soriga: “verso il 1745 per opera più che altro delle truppe straniere al servizio di Carlo III, si organizza una Gran Loggia in Napoli sotto il Gran Magistrato di Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, curioso spirito di transizione, metà alchimista, metà scienziato” (R. Soriga: Le Società Segrete, l’emigrazione politica e i primi moti per l’indipendenza. Scritti raccolti e ordinati da Silio Manfredi, Modena 1942,

[4] ) Lo stesso Federico di Prussia, quando era Principe ereditario, fu inziato nella stessa notte, dal 14 al 15 agosto 1739, prima come Apprendista, poi come Compagno ed infine come Maestro, ma attese ben sei anni prima di divenire Gran Maestro, dopo che la Loggia berlinese “Zu den drei Weltkugeln” era stata elevata a Gran Loggia Madre (cfr. E.Lennhoff: Die Freimaurer, Zurich-Leipzig-Wien 1929, trad.it. Il Libero Muratore, ed. Bastogi, Livorno 1976, p.83-84; R.di Castiglione, op.cit. p.82)

[5] ) G.Gamberini: Mille volti di Massoni, ed.Erasmo, Roma 1975, p.27. Vedi: Le premier Livre d’architecture de la Maconnnerie francaise: le Registre Coustos-Villeroy (1736-37), in “Bulletin du Centre de Documentation du Gran Orient de France” Paris, n.51, mai-juin 1965, p.64; cfr. R. di Castiglione, op.cit. p.78-79

[6] ) H.T.Tschudy: L’Etoile Flamboyante ou la Societé des Francs-Maçons considerée sous tous les aspects, A l’Orient chez le Silence, Francfort-Paris, A.Boudet, 1766, vol.ll p.49-55. Cit. e trad. it. in R. di Castiglione, op.cit., p.183-84.

[7] ) Il titolo completo dell’opera è: Le Costituzioni della Società de ‘Liberi Muratori Poste in ordine nuovo Dal ex G..M..E..S..T.. D..G..M.. Per uso della Gran Loggia Nazionale e Logge di sua dipendenza… in Cosmopoli, nella Stamperia del Figlio della Vedova, A spese dei Fratelli. Il volumetto, scoperto nel 1866 dallo Speradio, venne da questi ritenuto il testo ufficiale degli Statuti massonici del 1750 e riprodotto nella sua traduzione dell’opera di F.T. e B. Clavel: Storia della Massoneria, Napoli 1873 (p.543-79). Diversi storici della Massoneria ritengono che il documento sia stato stampato in data successiva (De Blasiis, op.cit. p.240, nota 3; Soriga, op.cit. p.74; M.P. Azzurri, op.cit. p.80 e 91; E. Stolper, op.cit. p.594-96); da parte nostra, non riteniamo che si possa escludere che il documento appartenga al periodo della Gran Maestranza del Principe di Sansevero (cfr. S.E.F. Hôbel: Un documento problematico, in “Hiram” n. l, genaio 1988, p. 16-19) 22) Lettera Apologetica, p.210

[8] ) Cfr. R. Guenon: Simboli della Scienza sacra, ed. Adelphi, Milano 1975, p.76 ss. 24) Origlia, op.cit. p.327

[9] ) Lettera Apologetica, p.208. L’Origlia (op.cit. p.385) riferisce che in tale opera il Principe spiega “con mirabile chiarezza” i fenomeni della luce “facendoli derivare tutti da un solo, e semplicissimo principio” e considerando il “vero significato degli ebraici vocaboli”.

[10] ) Vedi Vinci Verginelli: Bibliotheca Hermetica, ed.Nardini,• Firenze 1986, p.90; sullo “sbiancare Latona” vedi anche M.Mayer: Atalanta fugiens, hoc est Emblemata nova de secretis naturae chymica, ed. J.Theodor d Bry, Oppenheim 1618; ed.franc. Librairie de Medicis, Paris 1969, Emblema XI, p. 120 ss.

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locandina architettura e massoneriaLa Biblioteca è stata ricostituita dopo il 1945, anche grazie a numerosi Fratelli, come Vittorio Acquarone, i quali avevano custodito le pubblicazioni del Grande Oriente durante la soppressione dell’Ordine o le avevano recuperate dopo la sua ricostituzione. La Biblioteca si è sviluppata con l’acquisizione del Fondo Lattanzi e Maruzzi. Per volontà del Gran Maestro Gustavo Raffi e della Giunta di incrementare il patrimonio culturale dell’istituzione e di agevolarne la fruizione, nel febbraio 2000 è stato costituito il Servizio Biblioteca che ha acquisito e sistemato alcuni Fondi preziosi quali Stolper, Volli, Landolina, Ungari, a cui si devono aggiungere le recenti acquisizioni dei Fondi Mosca-Ferrari, Giuseppe e Francesco Leti e Gregogna. Si sta procedendo ad un riordino completo del patrimonio librario, censito in nove lingue, attraverso la sua informatizzazione, che ha portato all’inserimento su elaboratore elettronico di 9301 record, con aggiornamento di tutte le nuove acquisizioni e un organico recupero dell’arretrato. Servizio Biblioteca GOI

La Biblioteca è costantemente aperta alla consultazione e presta servizio di Assistenza bibliografica ad Organi del Grande Oriente, a Collegi, a Logge ed a singoli Fratelli, ad Archivi pubblici e privati, a strutture museali, a ricercatori.

Servizio Biblioteca GOI - Rivista MassonicaIl Servizio Biblioteca ha iniziato un lavoro di recupero delle fonti storiche quali la Rivista Massonica del Grande Oriente d’Italia nelle sue diverse testate (Acacia, Lumen Vitae, Massoneria Oggi, Hiram) dal 1870 ad oggi, il Bollettino del Grande Oriente d’Italia dal 1862 al 1869, L’Almanacco del Libero Muratore dal 1872 al 1882, la rivista Ipotenusa dal 1959 al 1963, L’Acacia Rivista Massonica dal 1908 al 1917; si sta inoltre procedendo all’ulteriore recupero e completamento di altre collezioni periodiche (Incontro delle Genti, La Fenice, Lux, Rassegna Massonica, Voce Fraterna e altri). Nella Sala “Paolo Ungari”, negli ampi spazi di Villa Il Vascello, presso Istituzioni Culturali esterne come il Museo Napoleonico a Roma, il Campidoglio, Il Museo Storico della Liberazione di Roma in Via Tasso, il Teatro Il Vascello, il Cinema Trevi, sono stati organizzati 60 incontri, presentazioni di libri e conferenze. Sono inoltre state allestite 20 mostre e rassegne bibliografiche, abbinate alle presentazioni di libri ed in forma autonoma (Architettura e Massoneria. L’esoterismo della costruzione; L’esoterismo della costruzione; I Mille di Garibaldi nell’album di Alessandro Pavia; Massoneria, Risorgimento e Film Muto; José Antonio Ferrer Benimeli nei suoi libri). Sono stati stabiliti contatti con Università italiane e straniere e con Centri di Studi Massonici Internazionali.

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locandina architettura e massoneriaLa Biblioteca è stata ricostituita dopo il 1945, anche grazie a numerosi Fratelli, come Vittorio Acquarone, i quali avevano custodito le pubblicazioni del Grande Oriente durante la soppressione dell’Ordine o le avevano recuperate dopo la sua ricostituzione. La Biblioteca si è sviluppata con l’acquisizione del Fondo Lattanzi e Maruzzi. Per volontà del Gran Maestro Gustavo Raffi e della Giunta di incrementare il patrimonio culturale dell’istituzione e di agevolarne la fruizione, nel febbraio 2000 è stato costituito il Servizio Biblioteca che ha acquisito e sistemato alcuni Fondi preziosi quali Stolper, Volli, Landolina, Ungari, a cui si devono aggiungere le recenti acquisizioni dei Fondi Mosca-Ferrari, Giuseppe e Francesco Leti e Gregogna. Si sta procedendo ad un riordino completo del patrimonio librario, censito in nove lingue, attraverso la sua informatizzazione, che ha portato all’inserimento su elaboratore elettronico di 9301 record, con aggiornamento di tutte le nuove acquisizioni e un organico recupero dell’arretrato. Servizio Biblioteca GOI

La Biblioteca è costantemente aperta alla consultazione e presta servizio di Assistenza bibliografica ad Organi del Grande Oriente, a Collegi, a Logge ed a singoli Fratelli, ad Archivi pubblici e privati, a strutture museali, a ricercatori.

Servizio Biblioteca GOI – Rivista MassonicaIl Servizio Biblioteca ha iniziato un lavoro di recupero delle fonti storiche quali la Rivista Massonica del Grande Oriente d’Italia nelle sue diverse testate (Acacia, Lumen Vitae, Massoneria Oggi, Hiram) dal 1870 ad oggi, il Bollettino del Grande Oriente d’Italia dal 1862 al 1869, L’Almanacco del Libero Muratore dal 1872 al 1882, la rivista Ipotenusa dal 1959 al 1963, L’Acacia Rivista Massonica dal 1908 al 1917; si sta inoltre procedendo all’ulteriore recupero e completamento di altre collezioni periodiche (Incontro delle Genti, La Fenice, Lux, Rassegna Massonica, Voce Fraterna e altri). Nella Sala “Paolo Ungari”, negli ampi spazi di Villa Il Vascello, presso Istituzioni Culturali esterne come il Museo Napoleonico a Roma, il Campidoglio, Il Museo Storico della Liberazione di Roma in Via Tasso, il Teatro Il Vascello, il Cinema Trevi, sono stati organizzati 60 incontri, presentazioni di libri e conferenze. Sono inoltre state allestite 20 mostre e rassegne bibliografiche, abbinate alle presentazioni di libri ed in forma autonoma (Architettura e Massoneria. L’esoterismo della costruzione; L’esoterismo della costruzione; I Mille di Garibaldi nell’album di Alessandro Pavia; Massoneria, Risorgimento e Film Muto; José Antonio Ferrer Benimeli nei suoi libri). Sono stati stabiliti contatti con Università italiane e straniere e con Centri di Studi Massonici Internazionali.

 

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