RPTOOLI DEL MAR MARTO. OVVHIO ALLE MISTFICAZIO

Sezione: Copertina
Rubrica: Cultura
Numero: 4 – 24 Gennaio 2002
Rotoli del Mar Morto, occhio alle mistificazioni
Cinquant’anni dopo la scoperta vengono integralmente pubblicati i manoscritti del Mar Morto, antichi testi biblici redatti dagli ebrei esseni. Coi quali alcuni credono di poter scuotere l’edificio storico e dottrinale di giudaismo e cristianesimo. Ma solo al prezzo di evidenti manipolazioni. Peter Carsten Thiede, uno dei più autorevoli studiosi della materia, controbatte: “I rotoli attestano la storicità del background culturale e religioso dei Vangeli”

intervista a Peter Carsten Thiede a cura di Rodolfo Casadei

Oramai è solo questione di giorni. Ancora una breve attesa e poi i papiri più famosi del mondo, quei manoscritti del Mar Morto che hanno fatto accapigliare due generazioni di storici, ermeneuti, biblisti, archeologi, ecc. si trasformeranno definitivamente nella prima grande impresa editoriale scientifica del nuovo secolo. Alla fine di gennaio comincerà la pubblicazione integrale dei 15 mila papiri (per lo più frammenti) di contenuto biblico rinvenuti nelle grotte di Qumran, in Cisgiordania. Il piano dell’opera, a cura della Oxford University Press, prevede ben 37 volumi. Molte voci si sono già levate per annunciare l’avvento di rivoluzioni teologiche e dottrinali sull’onda di questa pubblicazione. Per chiarirci un po’ le idee su quello che ci aspetta ci siamo rivolti a Peter Carsten Thiede, studioso tedesco professore di Storia del Nuovo Testamento presso la Scuola superiore di Teologia di Basilea e grande esperto dei Rotoli del Mar Morto: è visiting professor per questa materia presso l’università israeliana di Ber-Sheva nel Negev e direttore per la Rilevazione danneggiamenti dei Rotoli presso l’Autorità archeologica israeliana a Gerusalemme.
Professor Thiede, secondo alcuni studiosi l’imminente pubblicazione completa dei “rotoli del Mar Morto” scuoterà dalle fondamenta l’edificio della biblistica e costringerà a riscrivere intere parti della Bibbia. È d’accordo con queste affermazioni?
Non sono d’accordo per nulla. Gli esperti conoscono tutti i rotoli e i frammenti in questione da molto tempo. Non è affatto vero, come di tanto in tanto si legge qua e là, che ad importanti studiosi è stato impedito l’accesso ai testi. In parole povere, le principali teorie circa l’impatto dei Rotoli sulla Bibbia, sul giudaismo e sul cristianesimo sono ben note da tempo e, come si sa, sono piuttosto controverse. L’unica cosa che adesso cambierà davvero è che nessuno dovrà più necessariamente recarsi a Gerusalemme per leggere i rotoli. Tutti potranno farlo a casa loro, o in una biblioteca. Ma… c’è un importante “ma” da tenere presente: questi testi sono scritti in paleo-ebraico, in aramaico e in greco, e la maggior parte di essi sono molto frammentari e danneggiati. Saranno sempre necessarie grande preparazione e professionalità per capire il significato di questi frammenti di pelli e di papiro. Nei prossimi mesi dobbiamo sicuramente attenderci l’apparizione di molte teorie sensazionaliste basate sulla lettura dei Rotoli. Esse saranno diffuse da autori privi della competenza per capire ciò che hanno letto, ma dotati della volontà di nuocere alla Bibbia, oppure al giudaismo, oppure al cristianesimo.
I Rotoli del Mar Morto sono stati scoperti fra il 1947 e il 1956. Perché c’è voluto tanto tempo per arrivare alla loro pubblicazione integrale?
In realtà, i primi rotoli sono stati pubblicati già nel 1948! C’è voluto tutto questo tempo per arrivare alla loro pubblicazione integrale perché ci siamo trovati di fronte a migliaia di frammenti, quasi sempre molto piccoli, che dovevano essere ricomposti come in un puzzle. E naturalmente molti pezzetti del puzzle mancavano. Non va poi dimenticato che la maggior parte di questi testi erano in precedenza sconosciuti: ciò significa che gli studiosi non avevano un testo base di riferimento con cui fare i paragoni. Ricostruire e pubblicare un testo sconosciuto a partire dai suoi frammenti non è certo un’operazione facile. All’epoca della scoperta solo un pugno di studiosi era capace di un’impresa del genere. Fino al 1967 – cioè fino al momento della riunificazione di Gerusalemme – gli studiosi ebrei, che ovviamente sono i veri esperti della lingua ebraica, non erano autorizzati ad esaminare la maggior parte dei rotoli e dei frammenti, che erano conservati presso il Museo John Rockefeller a Gerusalemme est. Dopo il 1967 il vecchio team di esperti e gli studiosi ebrei si sono impegnati a formare una nuova generazione di studenti. E così grazie alla seconda generazione di studiosi dei materiali di Qumran, molto più numerosi di quelli della prima, si è potuto condurre a termine il lavoro.
Alcuni personaggi sembrano suggerire che le Chiese cristiane dovranno revisionare le loro dottrine alla luce dei rotoli di Qumran. Per esempio secondo Giza Vermes, uno degli studiosi di Qumran, le scoperte che ci vengono dai rotoli dimostrerebbero che nelle più antiche versioni dei Vangeli Gesù non era presentato come “figlio di una vergine”, ma semplicemente di una “giovane donna”. Davvero andiamo incontro a una stagione di importanti revisioni dottrinali?
Vermes sbaglia. Sulla “nascita verginale” di Gesù i rotoli non aggiungono nulla che già non sappiamo. In tutti i manoscritti in lingua ebraica contenenti la profezia di Isaia circa la nascita del Messia (Is 7, 14) viene usata la parola alma. Tecnicamente significa “giovane donna”, ma in tutti i casi in cui è utilizzata nelle Scritture, risulta riferita a giovani donne vergini. La cosa non è affatto strana: in una cultura tradizionale come quella degli antichi ebrei era ovvio che una giovane donna, se non era sposata o non era una prostituta, doveva essere per forza una vergine. La parola ebraica che significa “vergine” in termini biologici e anatomici è betula: la si può usare per definire donne di qualsiasi età, donne anziane comprese, che non hanno mai avuto rapporti sessuali. Ma Isaia usa la parola alma proprio per far capire che la vergine di cui parla è una giovane donna, una donna in grado di concepire e mettere al mondo un figlio. Quando, nel III secolo a.C., la Bibbia ebraica fu tradotta in greco dagli ebrei stessi per quegli ebrei della diaspora che non riuscivano più a leggere l’ebraico, per tradurre l’espressione alma di Isaia fu utilizzato il greco parthenos, che significa precisamente “vergine”. Ben prima che il cristianesimo facesse irruzione nella storia, per gli ebrei era assolutamente ovvio che la “giovane donna” di cui parlava la profezia di Isaia era una “vergine”. Matteo nel suo Vangelo non fa altro che citare la traduzione greca di Isaia. Dunque ha ragione al 100 per cento quando afferma che Isaia ha profetizzato una nascita verginale.
Alcuni anni fa lei ha preso parte al dibattito relativo al contenuto e alla datazione del frammento 7Q5 che, secondo la teoria di padre O’Callaghan, sposterebbe la data di redazione del Vangelo di Marco dall’inizio del II secolo d.C. all’anno 50 circa, trasformandolo nel racconto di un testimone oculare e in una prova importante della storicità dei Vangeli. Ma in generale, la pubblicazione dei rotoli di Qumran rafforzerà la storicità dei Vangeli oppure, al contrario, evidenzierà errori e incongruenze?
La pubblicazione finale di tutti i rotoli rafforzerà ulteriormente la storicità del background culturale e religioso dei Vangeli. Su questo non ho dubbi. Naturalmente i rotoli ci aiutano a capire certe parole ed espressioni presenti nel Vangelo, e perciò, in un paio di casi, le nostre traduzioni moderne potranno essere migliorate. Ma l’insegnamento o, come dice lei, la “dottrina”, resterà immutata.
Secondo una certa interpretazione, sostenuta soprattutto in alcuni libri di giornalisti anglosassoni, il cristianesimo non sarebbe altro che una religione di seconda mano derivata dalle dottrine degli Esseni, i cui monaci vissero presso il monastero di Qumran. La pubblicazione dei rotoli smentirà definitivamente questa interpretazione oppure no?
Sì, la smentirà completamente. Ora siamo assolutamente certi che Qumran non fu un “monastero”, ma un centro di formazione dove gli esseni – che sono a tutti gli effetti una corrente dell’ebraismo – trascorrevano un periodo che poteva durare fino a tre anni prima di uscire, insediarsi in qualche altra zona del paese, fondare famiglie e “cellule” missionarie, incaricate di diffondere la loro interpretazione delle profezie bibliche. I cristiani hanno fatto proprie alcune delle interpretazioni degli esseni e ne hanno respinte altre. Questa pratica non ha nulla di strano: i cristiani erano ebrei come gli esseni, avevano in comune con loro gli stessi testi di riferimento, cioè la Torah, i Profeti, i Salmi. Era normale che esistesse un “dialogo teologico” fra loro e gli esseni. Tuttavia – e questo è un aspetto decisivo – per quanto riguarda l’insegnamento circa Gesù di Nazareth come il vero, profetizzato e atteso Messia, figlio di Dio e Salvatore, i cristiani non hanno copiato alcun insegnamento esseno, ma proclamato una nuova, vittoriosa verità.
 

 

di Casadei Rodolf
Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

REGOLAMENTO DELLA PARFAITE LOGE D’ECOSSE,

REGOLAMENTO DELLA PARFAITE LOGE D’ECOSSE, BORDEAUX, 1746

Giuseppe Vatri

che ne autorizza la pubblicazione su questo sito


Nomi dei (grandi) ufficiali della Parfaite Loge d’Ecosse:

  • Il Rispettabile Gran Maestro

  • Il Deputato Gran Maestro

  • I due Grandi Sorveglianti

  • Il Grande Segretario

  • Il Grande Tesoriere

  • Il Grande Oratore

  • L’Intendente e Maestro delle Cerimonie.

Art. 1mo.

La Loggia si riunirà regolarmente una volta ogni quindici giorni, in un giorno stabilito, & i fratelli che non vi si saranno presentati, a meno di assenze, malattie, o altre ragioni valide, pagheranno 24 s di ammenda.

2.

Il Maestro, o in sua assenza il Deputato o i due Grandi Sorveglianti, potranno convocare delle Logge straordinarie qualora una ragione urgente lo richiedesse, e facendo comunque avvertire tutti i fratelli. In queste Logge non si delibererà che su argomenti urgenti; si osserverà in queste Logge lo stesso ordine in assenza del Maestro. Nei giorni di Loggia ordinaria, in caso di assenza di questi ufficiali, un fratello che ne avrà avuto il permesso da uno di loro potrà anch’egli riunire la Loggia.

3.

Nessun fratello potrà entrare in Loggia senza decori; chi non li portasse con sé, pagherà 24 s.

4.

A Loggia aperta, nessun fratello potrà parlare al Maestro, né senza averne avuto il permesso dai Sorveglianti, né senza stare in piedi; non potrà uscire senza permesso, né interrompere un fratello che sta parlando sotto pena, in tutti questi casi, di 24 s, che potranno essere aumentati per i recidivi.

5.

I fratelli non terranno mai in Loggia alcun discorso su argomenti di Stato o di Religione; né diranno in Loggia alcuna cosa che possa offendere la modestia; né faranno irritare un fratello, sotto pena di 6 (s) di ammenda che potranno essere aumentati secondo i casi.

6.

I fratelli non parleranno male di chicchessia sotto pena di 6 s (di ammenda).

7.

Tutti i fratelli conserveranno un inviolabile segreto su ciò che sarà accaduto in Loggia, anche sulle cose minime, nei confronti dei profani & dei Muratori ordinari, sotto pena un Luigi d’oro di ammenda per la 1ma volta, e di due per la 2da con tre mesi di esclusione.

8.

Tutte le ammende alle quali i fratelli saranno stati condannati saranno poste in una cassetta per i poveri; i fratelli saranno tenuti a pagare le ammende prima che la Loggia sia chiusa & nel caso che il fr(atello) non possa pagare, sarà tenuto a dare soddisfazione alla Loggia seguente, sotto pena di raddoppio. I fr(atelli) presteranno attenzione a mettere nella cassetta per i poveri Muratori ciò che considereranno giusto.

9.

Tutti i fratelli pagheranno regolarmente all’inizio di ogni mese 6 s, che potranno essere aumentati nel seguito in caso di necessità per il bene della Loggia.

10.

Tutto il denaro delle entrate di Stato sarà rimesso nelle mani del Tesoriere che terrà un Registro delle entrate e delle spese, verificato e siglato dal Maestro, & rendiconterà ogni volta che la Loggia lo ritenga giusto; egli lo farà comunque almeno alla Loggia che seguirà quella di San Giovanni, per fare approvare, prima di rimettere il tutto a quello che lo sostituirà.

11.

Il Segretario nella Loggia di un mobile per chiudervi i registri, gli ornamenti e le carte della Loggia. Il Maestro avrà una chiave di questo mobile per il caso di bisogno & i Registri non potranno uscire dalla Loggia senza permesso.

12.

Dopo che il Maestro, o i Sorveglianti, abbiano battuto il maglietto, i fr(atelli) conserveranno un profondo silenzio, sotto pena di 24 s di ammenda, che potrà essere aumentata secondo i casi.

13.

Tutti gli argomenti proposti saranno passati al voto secondo l’avviso della Loggia, una sola volta per ogni Loggia; ma potranno essere di nuovo votati durante 3 Logge consecutive. Se non saranno ripresentati antro l’ultima e se lo scrutinio non è loro favorevole, saranno rinviati di 9 mesi.

14.

Prima di procedere al Ricevimento di qualcuno, questi pagherà sette Luigi d’oro per il bene della Loggia, la quale potrà aumentare la detta contribuzione in caso di bisogno o farne grazia in favore di colui che giudicherà meglio; (in cambio della quale contribuzione) la L(oggia) si impegna a fornire i suoi gioielli.

15.

Il Segretario terrà un Registro sul quale inserirà il nome dei fratelli, con le deliberazioni. Tale registro sarà verificato e siglato dal Maestro.

16.

L’elezione del R(ispettabile) G(ran) M(aestro) si farà il 24 del 1mo mese. A Loggia aperta, ognuno scriverà su un biglietto il nome di quello che vorrà eleggere; raccolti i biglietti, il Maestro ne darà lettura e chi avrà ricevuto più voti sarà eletto Maestro. Qualunque intrigo è espressamente vietato ai fratelli sotto pena di 2 Luigi d’oro.

17.

L’elezione del Deputato e dei Grandi Segretari sarà fatta dopo quella del Maestro e alla maggioranza dei voti & di seguito il Maestro nominerà i suoi altri ufficiali.

18.

Tutte le deliberazioni passeranno a maggioranza dei voti e in caso di parità deciderà il voto del Maestro.

19.

Qualora uno scrutinio risultasse sfavorevole all’argomento posto ai voti, nessun fratello potrà mormorare sotto pena di un Luigi d’oro di ammenda.

20.

Gli ultimi fratelli ricevuti si metteranno al servizio con obbedienza per il bene della L(oggia), sotto il governo del Secondo Gran Sorvegliante.

21.

Nessun fratello prenderà la parola più di una volta sulla stessa questione, a meno che non sia per meglio chiarire la sua proposta o che non sia chiamato dal Trono a dire qualcosa.

22.

I Fratelli che presenteranno una domanda alla L(oggia) per una beneficenza certificheranno che la disgrazia sia avvenuta in una situazione onesta o subita.

23.

Qualora un f(ratello) Scozzese si presentasse per visitare la L(oggia) sarà esaminato a fondo e gli sarà richiesto di assumere le proprie obbligazioni conformemente agli usi ed ai regolamenti di questa Loggia.

24.

I f(ratelli) visitatori che si trovassero in Loggia saranno posti a destra & a sinistra del Gran Maestro.

25.

Se un argomento è votato in Loggia straordinaria, senza che tutti i fr(atelli) siano stati avvertiti di presentarsi, il voto sarà considerato nullo e non avvenuto.

26.

Non potrà essere ricevuto alcun Fr(atello) che non abbia l’età di 25 anni compiuti.

27.

I fratelli potranno accrescere il Regolamento tute le volte che lo giudicheranno opportuno; ma non potranno essere apportati cambiamenti agli altri articoli se non il giorno della Gran L(oggia) Generale.

28.

Il numero dei Fr(ratelli) Scozzesi residenti a Bordeaux, è stato fissato a venticinque, esclusi i F(ratelli) stranieri, i cui Ricevimenti potranno ampliarsi fintantoché la R(ispettabile) Loggia lòo giudicherà opportuno, secondo le deliberazioni approvate il 10 del 9no mese.

Fatto e decretato nella nostra Grande Loge d’Ecosse l’ottavo (giorno) del decimo mese dell’anno 5746

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LA VESTE DI DIO

LA VESTE DI DIO

 

Premessa :

Questo breve testo contiene in maniera sintetica il nuovo insegnamento che viene dato al mondo e che svela quello che era oggetto di segreto nelle antiche iniziazioni nelle Scuole dei Misteri, dalle quali sono derivate in seguito religioni, filosofie e ordini iniziatici che conservarono in parte gli antichi miti e gli antichi simboli, perdendo però di vista il significato reale di essi. Questo saggio è stato composto come elemento di sintesi per le varie scuole di indirizzo spirituale, ed ognuna di essa potrà scorgere un aggancio che le è proprio. Proprio per la sua composizione, e per il motivo che il mondo è sconvolto dalle divisioni che mettono fratello contro fratello anche se la ricerca e lo scopo è comune a tutti, questo testo scontenterà tutti. Credo però che il ricercatore sincero della verità, se è chiamato a ciò, rileverà dei dubbi nella sua granitica conformazione, ed in base a ciò vorrà per lo meno verificare prima di condannare. A tal scopo è stato scritto il libro “Insegnamento iniziatico

Esiste uno strumento “karmico” che ha molteplici usi e molteplici aspetti. Esso è la “veste dell’anima”.

Per capirci dobbiamo concepire la realtà sotto due aspetti (ne ha molti altri in verità) : il mondo dell’anima e il mondo della personalità. Ogni mondo è triadico, composto cioè da tre sfere, o piani, indipendenti tra loro ma comunicanti. Quando siete ad esempio in stato di veglia, e provate una passione, in quel momento vivete ed agite anche in quel piano, il piano astrale. Così quando formulate pensieri concreti, oggettivi, un vostro veicolo è funzionante sul piano della mente inferiore. I mondi della personalità (che potremmo chiamare “inferno”, cioè inferi, o inferiori – dove le personalità sono i diavoli che tengono prigioniera l’anima – da qui la difficoltà di parlare alle anime…) sono il riflesso speculare dei mondi dell’anima, chiamati anche “regno di Dio”. I mondi dell’anima vengono chiamati in sanscrito Atma, Buddhi e Manas, che corrispondono nell’ordine al piano fisico, al piano astrale ed al piano mentale. Quindi : Atma-fisico, Buddhi-astrale, Manas-mentale. Ecco perché, ad esempio, quando un devoto usa il plesso solare (l’emozione) nell’adorazione di un maestro o di un ideale, si connette al piano Buddhico e può ricevere da lì le grazie che cerca. In pratica l’emozione si trasforma in sentimento (centro cardiaco). L’uomo è salito di un gradino verso Dio.

Il mondo delle anime è analogo a quello fisico nel quale ci troviamo ora, nel cosiddetto “stato di veglia” : ci sono corpi, paesaggi, ecc. Il pavimento di quel luogo di “sogno”, è il nostro cielo. Quando un anima s’incarna, scende letteralmente sotto terra. La vita del suo veicolo sul piano fisico è per lungo tempo il suo inconscio. Anche qui accade la stessa cosa riguardo la famigerata ottava sfera, il regno delle anime perdute.

Esiste un assioma esoterico che dice : <<Quando un uomo muore sul piano fisico, egli nasce nel modo delle anime, e quando muore nel mondo delle anime, egli nasce nel mondo fisico>>. Vita e morte sono il dramma del cosiddetto “samsara” che durerà , con la sua croce di dolori e piaceri, fino al termine del viaggio iniziatico, dopo il quale egli non sarà più un “prigioniero del pianeta”.

Possiamo chiamare il mondo delle anime “mondo soggettivo”, ed “oggettivo” l’altro.

I due mondi, quello degli uomini e quello delle anime (che è il quinto regno di natura) per ora hanno tenui legami, ma un giorno, molto prossimo, si fonderanno in uno solo ed allora “Dio camminerà di nuovo tra gli uomini”. Dio ci ha voltato le spalle ai tempi di Atlantide a causa della nostra cattiveria e delle nostre menzogne che si erano trasformate in magia nera, che perdura ancora da parte della Loggia Nera che cerca di impedire che l’uomo si salvi e lo asserve sempre più spingendolo a vivere una vita alienante fatta di illusioni e di annebbiamenti che sono parte del Guardiano della Soglia che l’iniziato in particolare e l’umanità in generale devono prima o poi affrontare e vincere se vogliono ritornare felici.

Voglio ricordare un assioma occulto :<<Al male fu concesso di governare, e l’uomo dovette sottostare alla legge di partecipazione al male, che presto sarà sostituita dall’antica legge del bene dominante, che sottostà a tutto ciò che Dio ha fatto>>.

Dice l’Apocalisse che un Angelo verrà portando in una mano la chiave dell’abisso, e nell’altra le catene per legare i malvagi. Questo è il primo passo della trasformazione del mondo, e sta già avvenendo. Anche le sciagure annunciate per la fine del kali yuga, compresi i falsi maestri che pullulano ovunque, sono davanti a noi, e ne vediamo chiaramente i segni minacciosi. La chiave è la conoscenza dei misteri dell’iniquità ed il funzionamento della veste dell’anima.

Quale sarà lo strumento, in grande, che verrà usato dal Bianco Cavaliere che numerose profezie di popoli diversi attendono ? Sarà la Veste di Dio, la veste “magica” del potere divino. Lo stesso strumento che in piccolo gli uomini stessi, anche i più comuni possiedono : la veste dell’anima. È una vera e propria veste di tessuto eterico fabbricato nelle “alte sfere” e che nessun potere terrestre può danneggiare. Quello che invece i malvagi possono fare è di sconnetterlo dal corpo fisico a predeterminate condizioni.

Ora mi spiego.

L’anima, quando intende fare esperienza dell’altra metà della creazione (la manifestazione), e per “salvare” la personalità (che dai teosofi viene chiamata “corpo lunare”), indossa una veste fatta dagli angeli (deva) con un materiale tratto dal piano mentale superiore. Essa è allo stesso tempo : un corpo ; un trasmettitore delle energie dell’anima (vari tipi di prana) al veicolo fisico, dandogli così salute fisica e psichica che lo mettono in grado di funzionare ad un livello superiore a quelle dell’animale ; permette che i chakras (che sono porte dal duplice scopo : sono ricevitori e trasmettitori di energie di piani diversi della coscienza, o mondi, e sono vere e proprie porte di accesso per l’ego in quei mondi, dove egli possiede già, o crea, il veicolo adatto per percepirli e agire in essi), collegati al corpo fisico attraverso le ghiandole a secrezione interna, possano funzionare.

La veste ricopre il corpo fisico ed ha speciali relazioni magnetiche con esso. Però, sotto la spinta delle frecce dell’odio, essa si svelle dal corpo fisico. Le frecce sono vere e proprie spine di diversa grandezza costruite con materiale eterico cristallizzato, che è a livello vibratorio vicinissimo alla materia atomica. Le spine sono, per usare il linguaggio del Mahabharata, “missili mantrici”. Quando la veste viene sconnessa, le spine, tranne qualche improvvisa fitta, non vengono avvertite, come ad esempio un uomo non avverte nel sonno quando un ratto gli rosicchia il naso, perché i denti secernono una speciale sostanza anestetizzante. Si avvertono solo malesseri, cali improvvisi ed inspiegabili di forza, di coscienza, d’intelletto, ecc.

Quando la veste, che possiamo anche chiamare “corpo causale”, viene sconnessa da qualche parte del corpo fisico, si crea una debolezza, detta anche “vizio”. A lungo andare i centri di energia, i chakras, smettono di funzionare. Le “ruote” si fermano e l’ego nel corpo fisico diventa spiritualmente impotente ed occultamente cieco e sordo.

Questa è la situazione umana.

Quando l’uomo ha percorso tutte le 777 incarnazioni, ha esperito tutto ciò che la sua anima doveva esperire ; quando l’uomo è sazio ed il desiderio materiale e la brama di vita si è spenta, egli è smarrito ed entra in crisi. È la “lunga notte dell’anima ” che i mistici conoscono.

A questo punto l’uomo, controvoglia, diventa un occultista e ricerca nel mondo la via che lo può portare veramente alla liberazione.

La liberazione è un fatto complesso che non può essere spiegato in poche parole, anche perché è necessaria una piccolissima preparazione teorica di base che la teosofia può dare. Possiamo solo dire questo : mentre l’individuo procede nel suo processo di “omeopatia karmica”, che possiamo anche chiamare “purificazione”, mediante gli eventi prestabiliti dal karma/destino, mentre egli si dedica anche allo studio dei testi sacri ed alla meditazione, gli angeli preposti a ciò e guidati dai Maestri che lavorano sotto la guida di Cristo, lavorano sui suoi corpi sottili e soprattutto sulla sua veste, “lavandola e stirandola” affinchè l’anima possa di nuovo riunirsi alla personalità ed ritornare come il figliol prodigo nel “regno di Dio”, la sua vera casa. Questo processo iniziatico è ben raffigurato nel libro di Giobbe, al qual testo ne corrisponde uno precedente babilonese. L’angelo anima ha vinto il diavolo personalità e l’uomo, dopo essere passato per il purgatorio entra in paradiso. Questa è chiamata “iniziazione cristica” e vari miti la ricordano, quali quelli di Ercole in Grecia (che simboleggia il ritorno dell’eroe, mentre la sua caduta viene ricordata dal mito di Narciso), di Attis a Roma, di Osiride in Egitto, di Quetzalcoatl in America Centrale, ecc.ecc.

Questa antica iniziazione veniva praticata nei templi di Iside ed Osiride in Egitto, dove Gesù passò tanti anni, ma veniva praticata ovunque, e forse la sua “sede” centrale era in India, dove tutte le tracce, per il sopravvenire del kali yuga furono del tutto cancellate e rimase pubblica solo la mistica delle upanishad e la filosofia trascendentale non-duale.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

FUOCO

[L’Alchimia si fonda] “…sulla permutazione della forma da parte della luce, fuoco o spirito.”

(DP I, 71)

“La chimica è incontestabilmente la scienza dei fatti, mentre l’alchimia è quella delle cause… [questa] tenta di penetrare il misterioso dinamismo che presiede alle loro trasformazioni… ci permette di intravedere Dio attraverso le tenebre della sostanza.”

(DP I, 79)

“…L’agente elementare fuoco senza il quale non si può realizzare nessuna combinazione…”

(DP I, 81)

[Il fuoco] “..nella sua essenza spirituale… s’introduce nei corpi nell’istante stesso in cui appaiono sul piano fisico.”

(DP I, 83)

“Questo principio universale… anima la sostanza, quale che sia il regno cui appartiene. Quindi si manifesta intorno a noi, sotto i nostri occhi, sia con le proprietà nuove che la materia ne deriva, sia con i fenomeni che ne accompagnano le emanazioni. La luce – fuoco rarefatto e spiritualizzato – possiede le stesse virtù e lo stesso potere chimico del fuoco elementare e grossolano.”

(DP I, 84)

(N.B. I richiami sono: DP 1, Les Demeures Philosophales, Tome I. DP 2, ibidem, Tome 2. Il numero di pagina fa riferimento all’edizione del 1965. MC, Le Mystère des Cathédrales, edizione del 1964. Le citazioni derivano tutte da traduzioni fatte «ex novo» sui testi originali).

 

Ricreazione

 

La parola “fuoco”, in francese feu, racchiude nel greco phúo tutti i significati di produzione, procreazione e generazione delle cose. Il fuoco è eminentemente ciò che fa nascere, che mette al mondo, che porta alla luce. Non si ha nascita senza fuoco generatore. Quindi giustamente gli è molto simile phôs, luce, lume, splendore, gloria, ma anche fiamma, che del fuoco è la manifestazione più evidente. Il fuoco è ciò che illumina per eccellenza. Non si ha illuminazione senza fuoco. È lui che inizia ai misteri, il vero Maestro. L’alchimista è philosophus per ignem, filosofo per mezzo del – o grazie al – fuoco.

Phós è uomo, talvolta eroe, ma sempre uomo mortale. In nulla al mondo si cela tanta luce quanta negli esseri umani. Montfaucon de Villars nel Conte di Gabalis riassume così tutta l’Opera:

…dobbiamo purificare ed esaltare l’elemento del fuoco che sta in noi e rialzare il tono di questa corda allentata. Basta concentrare il fuoco del mondo con specchi concavi in un globo di vetro; questo è l’artifizio che tutti gli Antichi hanno nascosto religiosamente e che il divino Teofrasto (cioè Paracelso) ha scoperto.

Se ora ci spostiamo sul vocabolo greco, scopriamo nuovi percorsi anagogici. Pûr, fuoco, si collega a puráme, messa, mietitura: ecco il vaglio, van in francese, cioè il vento che separa il grano dal loglio, il sottile dallo spesso (la terribile mietitura della fine del ciclo).

Un’altra assonanza getta nuova luce sull’iconografia esoterica, per esempio su certe immagini del Mutus Liber: púrgos, torre, recinto, baluardo, muro con torri, e anche purgóo, fortifico, e púrgoma, mura turrite, fortezza.

Sulla facciata della chiesa cattedrale di Amiens si vuole che una formella rappresenti Cristo mentre attraversa Gerusalemme. In effetti si vede un uomo di una certa età, rivestito di toga, che passa tra una fortezza turrita e una chiesa tenendo in ciascuna mano quelle che potrebbero sembrare due lampade. Passeggiata notturna di Gesù in una città che, massimo anacronismo, avrebbe già avuto chiese cristiane: gli eruditi non ci dicono da quale misterioso e apocrifo vangelo sia stato ripreso questo episodio. Resta per noi il fatto,  molto più interessante, che se quelle due lampade sono interpretate come pesi di bilancia, come in effetti appaiono, sono tenute come se si volesse indicare una proporzione, che potremmo facilmente immaginare di più parti a una (tuttavia, si noti, i due pesi sono stati rappresentati dal lapicida assolutamente identici).

Incuriosisce pûros, tufo calcareo, concrezione stalattica, ma anche concrezione pietrosa della vescica, come se il frequente riferimento nei testi ermetici al dolore dei calcoli biliari – si veda ad esempio l’inizio del testo di Basilio Valentino – volesse in qualche modo ricondurci al tema igneo. Certo, qui viene più facilmente alla mente Eudosso che nel dotto trattatello di Limojon de Saint-Didier ci insegna che il fuoco dei Filosofi è della natura della calce.

La sarabanda cabalistica potrebbe continuare, perché ha qui uno dei suoi terreni più fecondi. Ci torneremo nei passi appropriati, ma vogliamo ancora accennare al francese pur, puro, e a pur-gation, pur-ger, purge, così simili peraltro all’italiano, con tutti i significati connessi all’azione pur-ificante del fuoco e alle sue capacità di eliminare le feci in eccesso.

Eppure pourri (pronuncia “puri”) vuol dire corrotto: il fuoco è anche l’agente che provoca la putrefazione, ma questa è, in un certo senso, una corruzione benefica e necessaria per una purificazione successiva, quindi non si ha contraddizione.

Vedremo altrove i legami col fimo, per ora concludiamo col fuoco del fuoco, in greco pûr purós, la porpora, fuoco per eccellenza, conclusione definitiva dell’Opera Fisica. Resta il fatto che nell’Opera i Fuochi sono più di uno, come ci dice per esempio Ripley nei suoi Assiomi Filosofici:

Sono quattro i tipi di fuoco che devi conoscere: il Naturale, l’Innaturale, quello Contro Natura e quello Elementale che infiamma il legno. Noi ci serviamo di questi fuochi e non di altri. Il Fuoco di Natura sta in tutte le cose ed è il terzo menstruo. Quello Innaturale, detto imperfetto, è il fuoco di ceneri e dei bagni per la putrefazione, e senza di lui non si porta nulla sino alla putrefazione. Il Fuoco Contro Natura deve tormentare i corpi, è il drago che brucia con violenza, come il fuoco dell’inferno. Fai un fuoco nel tuo vetro, che bruci i corpi più efficacemente del fuoco Elementale.

Di questi quattro fuochi parla Maier nel XVII Emblema dell’Atalanta Fugiens. Il titolo dice “Una quadruplice ruota regge quest’opera di fuoco”, che nell’epigramma così è descritta:

Tu, che vuoi imitare l’opera di Natura, quattro sfere devi cercare, che agita all’interno un fuoco lieve. La più bassa ricordi Vulcano, la seconda indichi bene Mercurio, la terza abbia la Luna, la quarta, Apollo, sia anche intesa come fuoco di natura. Quell’incatenamento guidi nell’arte le tue mani.

Nel commento, riprendendo Ripley, Maier afferma che il fuoco naturale coagula, quello innaturale dissolve, il fuoco contro natura corrompe e quello elementale fornisce il calore e il primo movimento. Aggiunge che si concatenano secondo un ordine invariabile per cui il secondo è spinto all’azione dal primo, il terzo dal secondo, il quarto dal terzo e dal primo insieme, per cui ognuno di loro è di volta in volta attivo e passivo. I Maestri si divertono a dare mille nomi ai loro fuochi, nomi che sarebbe davvero ingenuo prendere alla lettera, mentre in realtà sono descrizioni delle diverse manifestazioni di un unico agente. Alcuni elenca Dorn nelle sue Congeries Paracelsicae, e può essere interessante, e curioso, leggerli:

Il fuoco in Alchimia si manifesta su diverse materie e con diversi effetti. Ci sono le fiamme di legna, che chiamano fuoco vivo, e con cui si calcinano o riverberano i corpi di tutti i metalli e delle altre cose. C’è il calore continuo della candela o della lucerna, con cui si fissano le cose volatili. C’è il fuoco di carboni, con cui si cementano (calcinano), colorano e purgano dai loro escrementi i corpi (questo inoltre porta oro e argento al massimo grado di qualità, imbianca Venere e insomma rinnova tutti i metalli). C’è, per un’altra operazione, la lamina infuocata di ferro, su cui si esaminano le tinture. C’è il calore eccitato col fuoco in mezzo alla limatura di ferro. C’è quello nelle ceneri. C’è quello nella sabbia. C’è quello nel bagno del Mare o di Maria (come si dice), con cui si fanno diverse distillazioni, sublimazioni e coagulazioni. C’è il bagno di rugiada, che si chiama anche vaporoso, con cui si fanno molte soluzioni di cose corporee. C’è il ventre equino, in cui si fanno specialmente putrefazioni e digestioni. Poi, oltre a tutti questi, c’è il fuoco invisibile, cioè quello dei raggi del Sole, che si manifesta con i suoi effetti mediante un cristallo o uno specchio, e che gli antichi non hanno menzionato…

Non possiamo infine non citare Artefio che nel suo preziosissimo Libro Segreto riprende più volte questo tema igneo. Uno dei paragrafi più importanti dice:

Abbiamo propriamente tre fuochi, senza i quali l’arte non si può compiere. Colui che lavorasse senza quelli si affaticherebbe invano. Il primo è di lampada. È continuo, umido, vaporoso, aereo e artificioso da trovare, perché la lampada deve essere proporzionata alla chiusura, e in questa lampada va usato molto ingegno, cui non arrivano coloro che hanno dura cervice, perché se la lampada non è geometricamente e adeguatamente adattata al forno, o per difetto di calore non vedrai i segni attesi al momento giusto, e partendo perderai ogni speranza in un’attesa troppo lunga, o se è troppo veemente brucerai i fiori dell’oro e ti lamenterai tristemente delle tue fatiche. Il secondo fuoco è di ceneri, dove è posto il vaso sigillato ermeticamente, o piuttosto è quel calore dolcissimo che circonda il vaso che proviene dal vapore temperato della lampada. Questo fuoco non è violento se non è troppo eccitato, è digerente, alterante, si prende altrove che dalla materia, è unico, è anche umido e secco. Il terzo è il fuoco naturale della nostra acqua. Perciò è chiamato fuoco contro natura, perché è acqua e tuttavia essa fa sì che l’oro diventi vero spirito, ciò che il fuoco comune non potrebbe fare. Questo è minerale, uguale, partecipa dello zolfo, rompe, congela, dissolve e calcina tutto, è penetrante, sottile, non bruciante, è la fontana in cui si lavano il Re e la Regina, di cui abbiamo sempre bisogno, all’inizio, nel mezzo e alla fine. Degli altri due fuochi invece non abbiamo sempre bisogno, ma solo talvolta…

Si sarà notato che Artefio non parla del quarto fuoco, quello elementale, che descrivevano gli altri, Maier in particolare. Questo è alla base stessa della nostra manifestazione. Proprio per questo motivo la maggior parte degli autori lo dà per scontato. Ora, da qui partono considerazioni che toccano il grande arcano del Fuoco Segreto o Filosofico, su cui Fulcanelli torna così spesso nelle sue opere. Non mancherà perciò l’occasione di riprendere l’argomento, e allora, tra gli altri Maestri, leggeremo anche il famoso Pontano che gli ha dedicato un apposito libretto.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

KIPLING, L’EQUIVOCO DELL’IMPERIALISMO

Franco Cuomo

 

Ricorre quest’anno il centenario della prima edizione del romanzo “Kim” di Rudyard Kipling. Ricordiamo qui di seguito lo scrittore, che fu maestro massone, con un approfondimento dell’opera nei suoi aspetti più significativi e controversi. Un incontro in omaggio a Kipling si terrà a Trieste il 20 febbraio per iniziativa dell’ARS, Associazione di Ricerche Storiche.

 

L’errore da evitare nell’accostarsi all’opera di Kipling è quello di lasciarsi condizionare dall’urgenza di ricercarne gli spunti ideali. Non perché non ve ne siano – al contrario, ne è piena – ma perché qualsiasi tentativo d’interpretarli è al novanta per cento destinato a produrre effetti fuorvianti. Per due motivi. Primo: le medesime attribuzioni idealistiche, riferite alle storie di Kipling, producono reazioni opposte a seconda del momento e dei punti di vista da cui le si mette a fuoco. Essere definito “poeta dell’imperialismo”, ad esempio, poteva suonare come una nota di merito fino alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale (“una definizione appropriata”, scriveva un ingenuo critico degli anni ‘20, destinata a “viaggiare di bocca in bocca… senza invecchiare o logorarsi”). Oggi, invece, per una naturale evoluzione del giudizio storico, ha un’apparenza disonorevole. Secondo motivo: l’etica di Kipling corrisponde a regole che sfuggono a un comune metro di giudizio, indipendentemente dal tentativo di ritrovarvi connivenze morali con il colonialismo vittoriano, per il semplice fatto ch’egli è un massone britannico, rigorosamente fedele a un sistema di valori che è per sua naturainiziatico, quindi incomunicabile a chi non ne possiede la chiave. Per quanto concerne in specie il rapporto tra la Libera Muratoria e l’universo di Kipling – in termini specificamente storici, non morali – non si possono ignorare le modalità che caratterizzarono il processo di formazione di una massoneria autoctona in estremo oriente. Un processo lento e complesso, con implicazioni problematiche, spesso inquietanti per uno spirito libero, poiché la massoneria penetrò in quelle contrade al seguito di eserciti coloniali, di mercanti, di tecnici occidentali. Così, per quanto riguarda in specie i massoni inglesi, non si può dimenticare il discrimine che si trovarono costretti ad applicare nelle loro logge coloniali rispetto a quei culti incompatibili con la massoneria, respingendo – o accogliendo con molta cautela – i nativi aderenti a religioni nelle quali la credenza nell’Essere Supremo non fosse così esplicita come nella tradizione monoteistica cristiana, ebraica, islamica. Un discrimine equivocabile in certi casi per razzismo, ma che obbiettivamente non lo era, anche se poteva assumerne la connotazione in apparenza. All’epoca di Kipling, d’altronde, questo discrimine poteva dirsi in buona misura superato, poiché a partire dal 1860 furono ammessi nella massoneria indiana gli adepti della cultura indù. Grazie soprattutto al movimento di riforma religiosa del Brahmo Samaj – di iniziativa quindi del popolo indiano – volto a rilanciare gli aspetti monoteistici della tradizione indù. Ma grazie anche alla saggezza del venerabile della loggia Meridian Lodge n.345, angloindiana, che volle iniziare per la prima volta un brahmano rilevando come dietro le rifrangenze mitologiche dell’induismo – apparentemente politeistiche – c’era lo spirito unitario del Brahma vedico. Il problema, naturalmente, non si poneva per gli indiani di religione islamica e per quelli della comunità sikh, credenti per antichissima tradizione in un Essere Supremo. Più complesso sarebbe il discorso per il buddismo, date le differenze esistenti tra Grande Veicolo (Mahayama) e Piccolo Veicolo (Hinayama), negatore quest’ultimo di un principio creatore divino ; e per certi altri culti dell’India, come lo jainismo, portatore di una visione ascetico-eroica dell’universo, quale risultato dell’opera congiunta di anime superiori sulla materia increata. Né si può dire che l’intransigenza inglese nei confronti di questi culti non fosse in qualche modo giustificata, poiché da una certa apertura nei loro confronti finirono per derivare forme discutibili di co-masonry (massoneria mista), lontane dallo spirito massonico originario. E’ tuttavia innegabile che al di là della necessità del discrimine un certo pregiudizio britannico dovette in certa misura giocare nell’enfatizzare queste difficoltà anche laddove si sarebbero potute superare. Non si spiega altrimenti perché mai la Gran Loggia dell’India abbia ricevuto il riconoscimento soltanto nel 1961 (per essere poi disconosciuta nuovamente, come si sa, in questi ultimi anni). Non è superfluo comunque ricordare che fu proprio un venerabile proveniente dal movimento Brahmo ad iniziare il giovane Kipling alla massoneria. Rudyard Kipling venne iniziato nella loggia Hope and perseverance n.1 di Punjab, in India, nel 1886 (quindi giovanissimo, tanto che fu necessaria una dispensa speciale, non avendo compiuto ventuno anni). Risulta da documentazione certa che gli fu conferito il grado di maestro all’atto stesso dell’iniziazione e che fu in seguito venerabile dell’importante loggia di Lahore. Ebbe accesso un anno dopo ai gradi superiori. Ricevette nell’87 il Grado del Marchio e nell’88 quello di Royal Ark Mariner. E’ lo stesso Kipling a fornire ampie indicazioni sulla sua attività massonica in una realtà coloniale segnata, come quella indiana, da pesanti differenze, non solo di razza, ma di casta. Nella poesia Mother Lodge parla di uomini che nell’intimità del “tempio” si chiamano tra loro “fratelli”, mentre all’esterno si salutano dicendosi formalmente: “Sir, sergente, sahib, salaam”. E’ significativo, in relazione a quanto si è detto sulla difficoltà d’incontro e integrazione tra la massoneria e le culture indigene. Più specificamente, nel racconto L’uomo che volle farsi re (dal quale venne tratto un film con Sean Connery e Michael Caine) spiega in termini quasi didascalici come non si debba usare la massoneria a fini di potere. Anche qui lo scenario coloniale diventa uno sfondo di straordinaria efficacia didascalica. La trama racconta di due soldati inglesi che raggiungono l’impervia regione del Kafristan per fondarvi un proprio regno, modellato secondo la struttura di una Loggia, ritenendo che le regole massoniche possano servire a dominare la popolazione indigena. Ma la gente del luogo già conosce i segreti dell’Arte reale e l’intento dei due avventurieri fallirà per il distorto uso ch’essi intendono fare di un potere incompatibile con interessi profani. Comunque lo si voglia interpretare, questo racconto non è certo animato da spirito imperialista. Anzi, contrasta in maniera radicale con le accuse ricorrenti dei detrattori di Kipling. Ma anche in maniera meno esplicita, meno evidente talvolta, i grandi principi d’ispirazione muratoria sono sempre presenti nelle opere più note di Kipling, come Kim e i due Libri della giungla, dove i rapporti tra le creature non soltanto umane rispondono a finalità di armonia universale. Il che non è sempre facile da cogliere, nonostante l’apparente semplicità del testo, poiché spesso la descrizione scorre in funzione di una contingenza storica immediata e particolare, dalla quale scaturisce l’equivoco della vocazione imperialista di Kipling. Per esempio, si voluto intravedere nel brano che segue l’intento, da parte dell’autore, d’imporre anche alla giungla la mistica del militarismo coloniale britannico: – Ma gli animali sono intelligenti come gli uomini? – Essi obbediscono come gli uomini: il mulo, il cavallo, l’elefante e il bue, tutti obbediscono al loro conducente, e questo al suo sergente, e il sergente al suo tenente, il tenente al suo capitano, il capitano al suo maggiore, il maggiore al suo colonnello, il colonnello al comandante della brigata, che comanda tre reggimenti, e il comandante della brigata al suo generale, il generale al viceré, che è al servizio della regina. C’è chi ha preteso di leggere questa tirata in un’ottica imperialista, attribuendole fini apologetici di quell’ordine gerarchico grazie al quale ogni azione, ogni evento provocato e ordinato dall’uomo – anche la fatica degli animali – diventa funzionale all’interesse dell’Inghilterra. C’è chi ne ha tratto la conclusione che per Kipling uomini e bestie debbano essere, perché il loro ruolo sia compiuto, “al servizio della regina”. Ma è un’interpretazione riduttiva, rispetto a quella più nobile, più aderente ad una visione divina e al tempo stesso razionale del mondo, secondo la quale ogni evento è armonicamente collegato a tutti gli altri. E’ questa, con ogni probabilità, l’idea centrale dell’universo “coloniale” di Kipling, della sua giungla pensante, delle sue regole dall’apparenza elementare ma dallo spirito spesso imperscrutabile. Ed è da questo che nasce probabilmente il malinteso al quale non seppero sottrarsi nemmeno i dotti che gli conferirono nel 1907 il Premio Nobel, motivandolo come riconoscimento “all’opera più segnata d’indirizzo idealistico”. Ma il Nobel di massone è lo stesso Kipling a darselo da solo, per coloro che seppero leggerlo tra le righe di If, la più popolare delle sue poesie, quando nomina gli “utensili logori” con i quali il perdente deve ricostruire il suo destino.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LA RITUALITA’

 

 

LA RITUALITÀ

 

Vittorio Vanni

 

Eggregoro (o anche eggregore) è un neologismo creato nella prima metà del XIX secolo. Sembra sia stato usato per primo da Eliphas Levi, pseudonimo dell’Abbé Louis Costant, notevolissimo personaggio del mondo esoterico e politico della sua età. Tratto dal greco egregorion, ‘il vegliante’, designa gli angeli caduti dell’apocrifo biblico Il Libro di Enoch, che, per amore delle figlie degli uomini, abitarono la terra, insegnando all’umanità ogni arte e scienza. Nella fraseologia esoterica attuale indica un’entità psichica collettiva che si produce sia per via naturale in qualsiasi congresso umano di almeno tre persone, che per via rituale. La caratteristica dell’eggregore consiste nel suo non essere la somma matematica delle energie. Può assumere esistenza e autonomia individuale per opera del teurgo, che è un creatore di Dèi.

 

 

Il modo, il tempo, lo spazio

Si può tentare di definire la ritualità, peraltro imperfettamente, data la sua natura di collegamento fra mondo fisico e mondo iperfisico, come un insieme codificato di parole, atti e oggetti analogizzati simbolicamente all’invocazione ed evocazione d’esseri sovrannaturali. Le religioni exoteriche usano la ritualità in questi termini, inducendo atteggiamenti affettivi ed emozionali, mentre gli assiomi esoterici ritengono l’universo stesso (macrocosmo) un’entità energetica indifferenziata. L’uomo, (microcosmo) è l’immagine individualizzata e differenziata di quest’energia, e attraverso la teurgia 1 può attrarla e usarla, dandogli a sua volta forma antropica differenziata e quindi evocabile e invocabile. È nota l’importanza magico-rituale del Nome: per gli antichi possedere il Nome di un dio, (dando quindi all’energia universa una sua specificità individuale) significava possederne la potenza.

Vi è nella comparazione fra ritualità religiosa e ritualità iniziatica una differenza di grado, se non di qualità, che rende la seconda incomparabilmente superiore. Il secondo criterio rituale che Fraser 2 codificò all’inizio degli studi antropologici, riportato poi dal Mauss nei suoi studi magico-antropologici, 3 enuncia che «il rito magico ordinariamente, agisce di per sè‚ costringe, mentre il rito religioso adora e concilia; il primo ha un’azione meccanica immediata, il secondo agisce indirettamente e attraverso una specie di rispettosa persuasione»

Un esempio tipico di questo procedimento è stato studiato da un punto di vista antropologico dal De Martino 4 che ha esaminato l’iniziazione sciamanica di Aua: «Fu nel mezzo di un tale accesso di misterioso e sommergente gaudio che io diventai sciamano; il misterioso, l’inqualificabile, il senza orizzonte, l’irrelativo, l’insorgente, il caotico diventa ora il piccolo Aua, una forma definita, un’esistenza qualificata, uno »spirito» che verrà quando sarà chiamato, e che fornisce il potere paragnomico».

Se è vero che i rituali massonici, come notò già Leone XIII nella sua più interessante enciclica antimassonica, 5 assomigliano a quelli legati ai sacramenti, ciò deriva dal fatto che la liturgia cattolica non è una creazione specifica e originale del cattolicesimo, ma è un’interessante imitazione della ritualità antica, in piccola parte ebraica, ma soprattutto indotta da quella misterica, sia mediterranea che mediorientale. Il calendario liturgico, l’uso dei colori, gli strumenti rituali, ecc., sono stati completamenti indotti da ciò che i cristiani chiamarono sprezzantemente il «paganesimo», mentre ne tramandavano sia le speculazioni teurgico-metafisiche del neoplatonismo (Cfr. Porfirio, Giamblico, Plotino) che le connotazioni popolari (festività, venerazione dei santi, processioni, esorcismi ecc.). Uno dei grandi meriti della civiltà cattolica consiste proprio nell’aver tramandato fino a epoche recenti, o quanto meno al periodo pre-riformistico, la grandiosità liturgica e simbolica del mondo antico.

La Chiesa Romana in tempi recenti ha rinunciato all’uso del latino come lingua sacra nelle sue cerimonie; ha espurgato le grandi e universali tradizioni rituali dai suoi schemi liturgici, ha rinunciato al simbolismo architettonico nelle chiese e cattedrali moderne. Solo un simbolista e ritualista può oggi apprezzare e rimpiangere con cognizione di causa ciò che la Chiesa Romana ha volontariamente perduto. La fretta – a nostro giudizio errata – di adeguarsi al presente non considera che solo in un ipotetico e lontano futuro l’umanità potrà evolversi tanto da poter intuire, comprendere, vedere, la bellezza infinita dei frattali delle linee di forza dell’energia universale, il suono silente dell’armonia delle sfere che il rito tradizionale induce, la gioia infinita e l’illuminazione che la teofania 6 produce nell’uomo.

La caratteristica fondamentale della ritualità è la sua universalità. Gli ultimi cento anni di studi etnologici, antropologici e psicoanalitici affermano che gli assiomi fondamentali della ritualità, la sua stessa applicazione formale sono stati e sono fondamentalmente gli stessi. I Sumeri e i Babilonesi di quattromila anni fa, i bramani ayur-vedici ancora più antichi, le tribù amerindiane del XIX secolo, le stirpi oceaniche e gli aborigeni australiani del XVII secolo, i misteriosofici mediterranei dell’era precristiana hanno avuto e hanno la stessa forma e sostanza rituale. I semplici assiomi delle modalità rituali si possano così sintetizzare:

Lo spazio

 

geografia e geofisica sacra: scelta di una località in cui le forze cillenie e quelle ctoniche, prima intuite per via naturale, e susseguentemente conosciute per tradizione, possano favorire nell’uomo stati superiori di coscienza.

creazione di uno spazio sacro in cui possa effettuarsi un’influenza spirituale, una ierofania.9

orientamento spaziale, geografico e astronomico, o allineamento macro-microcosmico.

 

Il tempo

 

orientamento temporale-astronomico

 

rituali solari: solstiziali ed equinoziali legati all’aumento o alla diminuizione della luce e all’inizio delle stagioni

rituali lunari delle quattro fasi

rituali lunari delle domificazioni della luna

rituali orario-planetari

 

orientamento astrologico

 

riti astrologico-decanali

riti astrologico-zodiacali

 

Negli ultimi tre secoli, ma soprattutto dalla metà del ’700 in poi, il calcolo, ma soprattutto la percezione del tempo è completamente cambiata e negli studi rituali, come nell’operatività magico-rituale, vi è la necessità di percepire la successione temporale così come la concepivano gli antichi, una struttura scandita in senso verticale (il tempo – i tempi- i tempi del tempo) ritmata dai cicli inesorabili del sole, della luna, delle stelle, delle stagioni e del lavoro che era ad esse sinergicamente connesso.

In questo modo vi era allora un tempo per ogni cosa, mentre adesso non vi è più niente che abbia il senso del tempo reale. L’attuale struttura del tempo, strumentale, meccanica, artificiosa, schiaccia e appiattisce l’uomo, che soffre nella morsa dei ritmi innaturali imposti dall’attuale inciviltà e fra la pulsione di quelli naturali che la sua natura biologica, psichica, intellettuale, spirituale, abbisognerebbe. La scansione cronologica non è più indotta dal rapporto micro-macrocosmico, dall’allineamento fra umanità ed universo, ma da valori, necessità, desideri, interessi, bisogni tecnico-sociologici che, in astratto legittimi, si rivelano poi disumanizzanti.

Le problematiche legate all’uso del tempo rituale non si risolvono unicamente con la conoscenza del tempo tradizionale, che sarebbe relativamente semplice ritrovare. Negli ultimi secoli sono avvenute profonde modificazioni biologiche e biopsichiche dell’organismo umano (prodotte dalle implicazioni psicosomatiche della variazione del tempo individuale). La prima e più importante perdita è stata quella del tempo memoriale o sociale, in seguito alla scomparsa dei mores che facevano sì che la tradizione orale fosse nel frattempo storia e mito, identità individuale e sociale assieme.

La mente, strumento dell’intelletto, ha necessità di definire, di limitare la realtà fisica, di concentrarne l’essenza in uno spazio mentale più puntiforme possibile, proprio perché l’intelletto possa metaforizzarne e simboleggiarne l’esperienza materiale, ritrovando l’indefinito e l’infinito nell’astrazione metafisica. La memoria individuale è resa quasi inutile dalla quantità e dalla rapidità delle informazioni, quasi sempre effimere e transeunti, e quindi labili, deboli, evanescenti. Le incidenze interiori di questo processo sono di difficile verifica logica, ma producono comunque una deconcentrazione e un’alienazione sia dalla realtà esterna che dall’interiore. Questa modifica biopsichica dell’entità fisiologica può produrre nel frattempo una modifica all’entità animica ad essa corrispondente, con conseguente perdita di alcune facoltà intuitive sui piani sottili che già l’umanità del medioevo conservava in parte.

 

Il modo

 

  1. A) Il Segno

 

Le modalità dell’evocazione teofanica sono prodotte dalla magia simpatica. Questo termine non tradizionale è stato indotto dalla definizione di Fraser, ripresa poi dal Mauss e significa una tecnica magica che si ritiene produca il suo effetto grazie all’identità fra lo scopo perseguito e i mezzi adoperati. Il principio è che «simile produce simile». Il termine tradizionale è segnatura, sigillo, analogia.

Le concezioni magiche tradizionali ritenevano, per il principio esoterico del: «Tutto in Uno, Uno in Tutto», che ogni energia universa si rispecchiasse sulla natura, sulle cose, sull’uomo. Se la finalizzazione del rito era quindi la creazione di uno stato di potenza si pensava che adunando tutto ciò che materialmente e/o simbolicamente rispecchiava l’energia «potenza» si potesse attrarne le qualità. Da qui le tavole analogiche tradizionali d’equipollenza simbolica, di cui il massimo codificatore fu Cornelio Agrippa. 7

Il Quadro di Loggia nei vari gradi massonici è un esempio classico di questa «evocazione», espressa per il principio analogico con simboli rappresentati graficamente.

 

  1. B) Il gesto rituale come comunicazione metafisica.

 

La principale forma di comunicazione non-verbale è stata il gesto. Gli studi di Morris, Lorenz, 9 Iränaus Eibl-Eibesfeldt, 10 Hall, 11 Drosher 12 hanno affermato che la gestualità negli animali e nell’uomo è innata, ma può evolversi e maturarsi per apprendimento. Il gesto ieratico, espressione prima della ritualità, è comune a tutte le culture, anche senza influenza diretta. Esprime un’imitazione, istintiva e cosciente, dei grandi cicli celesti e terrestri, ed uno degli elementi fondamentali dell’allineamento micro-macrocosmico, con cui l’uomo può sperimentare stati dell’essere non comunemente conosciuti.

 

  1. C) Il contatto rituale come scambio d’energie sottili.

 

Nelle antiche credenze, comuni ad Oriente ed Occidente, non si considerava, nella fisiologia materiale, dell’uomo solo la sua componente visibile.

Energie più sottili, chiamate in Occidente eteriche o astrali formavano la sua fisiologia non visibile con potenzialità che potevano essere attivate, scambiate ed aumentate attraverso il contatto fisico, in quanto la posizione dei centri o nodi energetici fisici coincidevano con quelli iperfisici. L’imposizione delle mani, ad esempio nell’unzione regale, nell’ordinazione sacerdotale o nella terapeutica, trasmetteva energie sottili attraverso uno dei nodi più importanti della fisiologia visibile ed invisibile dell’uomo. Lo schiaffo o collata dell’investitura cavalleresca trasmetteva qualità marziali attraverso la violenza (o lo choc dell’atto).

Nell’iniziazione artigiana da cui la Massoneria prende origine, il segno nei vari gradi tende ad attivare le energie corrispondenti.

Il segno gutturale del 1° grado evoca il Logos, che attraverso il Fiat effettua la creazione primigenia, l’inizio spaziale e temporale dell’attuale stato dell’essere. Il segno cardiaco del 2° grado risveglia il pensiero del cuore, quella facoltà intuitiva e istintiva che poneva l’umanità in contatto diretto con l’energia universa, e che è stato in parte perduto attraverso la necessaria evoluzione umana verso la razionalità, il pensiero della mente.

Il cammino esoterico non comporta certamente la perdita della razionalità, conquista terribile, faticosa e dolorosa, ma la riacquisizione e la coordinazione mentale e spirituale di quegli elementi di sensibilità sottile perduti dall’uomo nel suo cammino evolutivo. Il segno addominale del 3° grado riattiva il terzo gran nodo energetico dell’uomo, quello generativo, la cui forza, come recita l’Ecclesiaste, «è più forte della morte».

Frate Elia da Cortona fu un notevolissimo personaggio, successore di S.Francesco nell’Ordine e perseguitato per sospetta eresia da S. Antonio da Padova e da Gregorio IX. In un suo sonetto ermetico 13 Elia accenna a questa operatività quando afferma:

 

Allor ti puoi tocar sotto il belico

e dire: i’ son Maestro certamente.

 

I toccamenti massonici, segno di riconoscimento dei Fratelli nei vari gradi, esprimono lo stesso concetto, in quanto le dita della mano esprimono a loro volta vari tipi d’energia, secondo gli schemi analogici della cosiddetta »mano pantea» 14 misterica e neoplatonica. La presa o griffe del Maestro, detta anche i «Cinque punti della Maestria», che rappresenta la parte finale del rituale d’elevazione al grado di Maestro, rappresenta una vera trasmissione fisiologica e metafisica di poteri iniziatici.

È da notare che la ritualità massonica non è in genere una trasmissione personale e diretta di un’influenza spirituale. Essendo la trasmissione esoterica, quella, appunto, iniziatica, del terzo stato sociale, ha caratteristiche collettive, perché necessita di un certo numero di Fratelli, tre o cinque o sette, per la validità del rito. La presa di Maestro è invece l’unica forma massonica concessa di trasmissione iniziatica diretta e personale, da Maestro a Discepolo.

Un altro esempio di ritualità massonica attraverso il gesto e il contatto consiste nella Catena d’unione. Introdotta nella Massoneria francese nella seconda metà del XVIII secolo, ha origini primordiali nell’ambito della ritualità universale. L’uso rituale della catena d’unione, mantenuto nella liturgia massonica, ha un’antichissima origine nelle danze rituali dei popoli antichi. Per questi la danza non era soltanto un mezzo di puro divertimento, ma aveva una scopo pragmatistico di ritualità magica, in cui ci si riprometteva di mettere in opera una forza sovra-individuale, cercando di metterla a profitto della comunità. Quest’antica operatività, la cui arte esiste ancora in alcune comunità religiose od esoteriche, è tuttora vivente. Secondo queste concezioni, la danza agisce nel frattempo su due piani:

 

Eggregorico: la formazione d’eggregoro 15 è facilitata dalla simultaneità dei movimenti,   indotta dal ritmo musicale ossessivo, spesso dalla ripetizione di un motivo cantato di tipo mantrico, ecc.che produce una sinergia simultanea delle componenti psichiche ed animiche dei partecipanti

Individuale: lo stordimento della coscienza impegnata in un’attività fisica di notevole fatica, l’assenza di pensiero che ne deriva, favorisce, in una sorta d’inebriamento spesso aumentato da bevande ed eccitanti, il distacco dei corpi sottili e quindi la possibilità d’estasi e visioni e di contatto quindi con i piani superiori.

 

A esemplificare quest’operatività si possono ricordare le danze dionisiache, che potevano terminare con il furore delle baccanti e delle menadi, i sacerdoti cananei di Baal (III I Re XVIII, 26), i profeti israeliti (I Re [Sam.], X,5; XIX,20). Ai nostri tempi possiamo ricordare come nell’islamismo vi sia ancora la confraternita religiosa Mawlawiyyah (in turco ‘Mevleva’), o dei «dervisci giranti», la setta metodista degli Jumpers (saltatori) in Inghilterra ed in America, quella dei Chlysti nella Russia.

Nell’antico mondo mediterraneo i balli ciclici o pirrici, sia maschili sia femminili o misti potevano essere di semplice girotondo o tendendosi stretti incrociando le mani dietro le spalle. Il mito narra che fu Teseo che, per sciogliere un voto ad Apollo, danzò con i suoi compagni prima a destra, poi a sinistra, stabilendo così i primi ritmi della strofe e dell’antistrofe. Sono così caratterizzati i nostri stessi procedimenti d’apertura e chiusura rituale con deambulazione a destra (senso orario o solare), e, in alcuni usi rituali, la chiusura con deambulazione a sinistra (senso antiorario o polare).

La storiografia riporta queste danze, ricordate anche nei poemi omerici alla tradizione cretese. Le pirriche presero il nome da Pirro, figlio d’Achille che l’avrebbe danzata in tali forme. Alessandro l’avrebbe danzata a Faselide, intorno alla tomba di Teodette, prima della conquista della Persia. È chiaro in questo caso che Alessandro intendeva ottenere magicamente un rapporto od un’identificazione con l’eroe defunto.

Ognuna di queste danze originarie fornì il tipo della lirica corale per i generi melici, già tradizionalmente affermati nelle caratteristiche di melodia e di ritmo. Le battute che segnarono il tempo delle danze furono più spesso di 2/4 o 6/8 e meno frequentemente di 2/4 o 6/8 e, tra queste, quelle di 6/8 e 5/8, più proprie delle danze che si chiamavano stasimotere, nelle quali i danzatori, pur movendosi per evoluzioni diverse, non si allontanavamo mai dal luogo scelto per l’esecuzione orchestrale; mentre il 2/4 e 2/2 erano tempi appropriati agli embateri o danze processionali, che più da vicino si riportavano al passo della pirrica.

Alcame, per primo, nei parteni, usò alternare i ritmi di 6/8 e 2/6 e concepì un nesso ritmico-melico che nelle danze stasimotere e processionali si susseguivano di continuo. I vari passi tradizionali che accompagnavano i ritmi meriterebbero un’analisi da un’esperta di questo settore, e producevano certamente un loro particolare effetto sia psichico sia metafisico.

Pur senza dilungarsi in descrizioni tecniche, si può ricordare che ogni euritmia aveva una particolare finalizzazione, così come insegnava ancora pochi decenni fa la scuola esoterica di Gurdgjeff. Un’altra applicazione statica di questa dottrina si può ancora esemplificare nei segni d’ordine massonici o iniziatici in genere.

La caratteristica della catena d’unione così come oggi è effettuata è quella di aumentare in proporzione geometrica la potenzialità eggregorica dei partecipanti, che il capo-catena ha il compito di raccogliere e finalizzare con particolari metodiche. Il contatto fisico dei partecipanti, eseguito secondo le regole della fisiologia sottile, produce energia: la concentrazione dei partecipanti e quella del capo-catena la dirigono.

Questo contatto fisico si ottiene semplicemente stringendo con la mano destra la mano sinistra del partecipante, e viceversa, come nella pratica rituale del girotondo che inconsciamente i bambini effettuano da sempre, tenendo conto che l’energia circola meglio secondo queste considerazioni: la mano destra dell’uomo ha polarità positiva, la sinistra negativa. Per la donna, la polarizzazione è opposta. Se la catena fosse formata da soli uomini o sole donne, sarebbe sufficiente il tenersi semplicemente per mano. Se la catena è mista si deve procedere in tal modo: gli uomini incrociano le braccia (la destra sulla sinistra), prendendo la mano sinistra dell’uomo che gli è accanto con la mano destra. Le donne (alternate agli uomini) non incrociano le braccia ma avendole distese prendono con la destra (-) la destra (+) dell’uomo che gli è accanto a destra e con la sinistra (+) la sinistra (-) dell’uomo che gli è accanto a sinistra. Se le posizioni non fossero queste avremmo la sinistra dell’uomo (-) unita con la destra (-) della donna e la destra della donna (-) con la sinistra dell’uomo (-). In questo caso l’energia non potrebbe ne prodursi ne circolare.

Curiosamente la catena d’unione massonica, nelle comunioni solo maschili, – corretta in quanto sinistra [-] con destra [+] – è effettuata come se dovessero esservi elementi femminili. Quando la catena è correttamente chiusa ogni membro a occhi chiusi visualizza intensamente il volto del capo-catena che a sua volta, sempre a occhi chiusi, visualizza lo scopo o l’effetto proposto.

Quando il capo-catena ritiene che l’energia si sia prodotta e sia circolata correttamente, invia l’energia, scuotendo per tre volte le braccia (ogni volta con una pausa d’alcuni secondi) producendo lo stesso effetto nei partecipanti alla catena, che la sciolgano subito dopo. Le antiche scuole iniziatiche avevano una vera e propria teoria rituale sull’uso operativo della catena d’unione.

La parola

 

La parola costituisce il modo di comunicazione legato alla razionalità, ed interagisce con essa. La raggiunta razionalità degli esseri umani ha prodotto l’uso della parola, ma l’uso della parola a sua volta produce razionalità. L’esposizione di un concetto, astratto o concreto che sia, attraverso la parola è una tecnica mentale complessa e raffinatissima che è oggetto di una precisa branca di studi psichici e psicologici. All’origine di questa razionalità la definizione di una qualsiasi realtà, fisica o metafisica che fosse, attraverso la parola, era considerata un potere formidabile sulla stessa realtà considerata.

Per il principio esoterico d’unità globale non vi era differenziazione fra realtà descrittiva e realtà descritta, e nominare una cosa significava nel contempo possederla. L’uso di formule magiche, di lingue arcaiche, o anche di semplice glossolalia determinava quindi dominio o potere sulla cosa desiderata o anche sulle stesse divinità di cui si possedeva il nome.

Per questo molto spesso gli Dei o anche le città avevano un nome segreto, da nascondere ai profani o ai nemici. Lo stesso concetto è applicabile all’uso di all’assumere uno ieronimo all’atto dell’iniziazione.

Nel rituale massonico, come in ogni rituale d’altro genere, vi sono due componenti essenziali. Una parte liturgica, basata sulle modalità sovradescritte di spazio, tempo e modo, in una schematicità ormai ampiamente descritta e codificata scientificamente, in modo tale che è possibile oggi avere dei parametri oggettivi di giudizio rituale. Cade così ogni soggettività individuale nella «correzione» o «restaurazione» di un rituale massonico, spesso affidate all’arbitrio estetico o ideologico del singolo.

La parte letteraria del Rituale, in cui si esprimono concetti etici e morali, speranze, desideri e volontà, costituisce le finalizzazioni indispensabili, che possano anche variare con il mutare dei tempi, in modo da riportarne l’evoluzione-involuzione su basi tradizionali. La prudenza in questo campo è però indispensabile

La parte liturgica, che si fonda su principi immutabili ed eterni – come quelli che pongono l’uomo in contatto fisico e metafisico con l’universo – non può esser variata. I termini simbolico-operativi della Massoneria, ad esempio, avendo acquisito nel tempo una loro suggestività, ma soprattutto una loro potenza eggregorica, sono divenuti degli schemi liturgici a noi specifici e non possono più esser variati. In questi termini la Massoneria si può rilevare come un ponte forse unico fra un lontanissimo passato e un lontanissimo futuro, quando l’umanità avrà effettuato un salto di qualità tale da avere in se stessa gli schemi razionali ed istintivi assieme che collegano l’uomo alla natura, all’universo e a Dio.

Quando questo avverrà, gli strumenti religiosi, rituali, iniziatici diverranno le stampelle che il malato ormai guarito lascia, come un ex-voto, ai santuari dei miracoli.

 

 

Vittorio Vanni

 

Eggregoro (o anche eggregore) è un neologismo creato nella prima metà del XIX secolo. Sembra sia stato usato per primo da Eliphas Levi, pseudonimo dell’Abbé Louis Costant, notevolissimo personaggio del mondo esoterico e politico della sua età. Tratto dal greco egregorion, ‘il vegliante’, designa gli angeli caduti dell’apocrifo biblico Il Libro di Enoch, che, per amore delle figlie degli uomini, abitarono la terra, insegnando all’umanità ogni arte e scienza. Nella fraseologia esoterica attuale indica un’entità psichica collettiva che si produce sia per via naturale in qualsiasi congresso umano di almeno tre persone, che per via rituale. La caratteristica dell’eggregore consiste nel suo non essere la somma matematica delle energie. Può assumere esistenza e autonomia individuale per opera del teurgo, che è un creatore di Dèi.

 

 

Il modo, il tempo, lo spazio

Si può tentare di definire la ritualità, peraltro imperfettamente, data la sua natura di collegamento fra mondo fisico e mondo iperfisico, come un insieme codificato di parole, atti e oggetti analogizzati simbolicamente all’invocazione ed evocazione d’esseri sovrannaturali. Le religioni exoteriche usano la ritualità in questi termini, inducendo atteggiamenti affettivi ed emozionali, mentre gli assiomi esoterici ritengono l’universo stesso (macrocosmo) un’entità energetica indifferenziata. L’uomo, (microcosmo) è l’immagine individualizzata e differenziata di quest’energia, e attraverso la teurgia 1 può attrarla e usarla, dandogli a sua volta forma antropica differenziata e quindi evocabile e invocabile. È nota l’importanza magico-rituale del Nome: per gli antichi possedere il Nome di un dio, (dando quindi all’energia universa una sua specificità individuale) significava possederne la potenza.

Vi è nella comparazione fra ritualità religiosa e ritualità iniziatica una differenza di grado, se non di qualità, che rende la seconda incomparabilmente superiore. Il secondo criterio rituale che Fraser 2 codificò all’inizio degli studi antropologici, riportato poi dal Mauss nei suoi studi magico-antropologici, 3 enuncia che «il rito magico ordinariamente, agisce di per sè‚ costringe, mentre il rito religioso adora e concilia; il primo ha un’azione meccanica immediata, il secondo agisce indirettamente e attraverso una specie di rispettosa persuasione»

Un esempio tipico di questo procedimento è stato studiato da un punto di vista antropologico dal De Martino 4 che ha esaminato l’iniziazione sciamanica di Aua: «Fu nel mezzo di un tale accesso di misterioso e sommergente gaudio che io diventai sciamano; il misterioso, l’inqualificabile, il senza orizzonte, l’irrelativo, l’insorgente, il caotico diventa ora il piccolo Aua, una forma definita, un’esistenza qualificata, uno »spirito» che verrà quando sarà chiamato, e che fornisce il potere paragnomico».

Se è vero che i rituali massonici, come notò già Leone XIII nella sua più interessante enciclica antimassonica, 5 assomigliano a quelli legati ai sacramenti, ciò deriva dal fatto che la liturgia cattolica non è una creazione specifica e originale del cattolicesimo, ma è un’interessante imitazione della ritualità antica, in piccola parte ebraica, ma soprattutto indotta da quella misterica, sia mediterranea che mediorientale. Il calendario liturgico, l’uso dei colori, gli strumenti rituali, ecc., sono stati completamenti indotti da ciò che i cristiani chiamarono sprezzantemente il «paganesimo», mentre ne tramandavano sia le speculazioni teurgico-metafisiche del neoplatonismo (Cfr. Porfirio, Giamblico, Plotino) che le connotazioni popolari (festività, venerazione dei santi, processioni, esorcismi ecc.). Uno dei grandi meriti della civiltà cattolica consiste proprio nell’aver tramandato fino a epoche recenti, o quanto meno al periodo pre-riformistico, la grandiosità liturgica e simbolica del mondo antico.

La Chiesa Romana in tempi recenti ha rinunciato all’uso del latino come lingua sacra nelle sue cerimonie; ha espurgato le grandi e universali tradizioni rituali dai suoi schemi liturgici, ha rinunciato al simbolismo architettonico nelle chiese e cattedrali moderne. Solo un simbolista e ritualista può oggi apprezzare e rimpiangere con cognizione di causa ciò che la Chiesa Romana ha volontariamente perduto. La fretta – a nostro giudizio errata – di adeguarsi al presente non considera che solo in un ipotetico e lontano futuro l’umanità potrà evolversi tanto da poter intuire, comprendere, vedere, la bellezza infinita dei frattali delle linee di forza dell’energia universale, il suono silente dell’armonia delle sfere che il rito tradizionale induce, la gioia infinita e l’illuminazione che la teofania 6 produce nell’uomo.

La caratteristica fondamentale della ritualità è la sua universalità. Gli ultimi cento anni di studi etnologici, antropologici e psicoanalitici affermano che gli assiomi fondamentali della ritualità, la sua stessa applicazione formale sono stati e sono fondamentalmente gli stessi. I Sumeri e i Babilonesi di quattromila anni fa, i bramani ayur-vedici ancora più antichi, le tribù amerindiane del XIX secolo, le stirpi oceaniche e gli aborigeni australiani del XVII secolo, i misteriosofici mediterranei dell’era precristiana hanno avuto e hanno la stessa forma e sostanza rituale. I semplici assiomi delle modalità rituali si possano così sintetizzare:

Lo spazio

 

geografia e geofisica sacra: scelta di una località in cui le forze cillenie e quelle ctoniche, prima intuite per via naturale, e susseguentemente conosciute per tradizione, possano favorire nell’uomo stati superiori di coscienza.

creazione di uno spazio sacro in cui possa effettuarsi un’influenza spirituale, una ierofania.9

orientamento spaziale, geografico e astronomico, o allineamento macro-microcosmico.

 

Il tempo

 

orientamento temporale-astronomico

 

rituali solari: solstiziali ed equinoziali legati all’aumento o alla diminuizione della luce e all’inizio delle stagioni

rituali lunari delle quattro fasi

rituali lunari delle domificazioni della luna

rituali orario-planetari

 

orientamento astrologico

 

riti astrologico-decanali

riti astrologico-zodiacali

 

Negli ultimi tre secoli, ma soprattutto dalla metà del ’700 in poi, il calcolo, ma soprattutto la percezione del tempo è completamente cambiata e negli studi rituali, come nell’operatività magico-rituale, vi è la necessità di percepire la successione temporale così come la concepivano gli antichi, una struttura scandita in senso verticale (il tempo – i tempi- i tempi del tempo) ritmata dai cicli inesorabili del sole, della luna, delle stelle, delle stagioni e del lavoro che era ad esse sinergicamente connesso.

In questo modo vi era allora un tempo per ogni cosa, mentre adesso non vi è più niente che abbia il senso del tempo reale. L’attuale struttura del tempo, strumentale, meccanica, artificiosa, schiaccia e appiattisce l’uomo, che soffre nella morsa dei ritmi innaturali imposti dall’attuale inciviltà e fra la pulsione di quelli naturali che la sua natura biologica, psichica, intellettuale, spirituale, abbisognerebbe. La scansione cronologica non è più indotta dal rapporto micro-macrocosmico, dall’allineamento fra umanità ed universo, ma da valori, necessità, desideri, interessi, bisogni tecnico-sociologici che, in astratto legittimi, si rivelano poi disumanizzanti.

Le problematiche legate all’uso del tempo rituale non si risolvono unicamente con la conoscenza del tempo tradizionale, che sarebbe relativamente semplice ritrovare. Negli ultimi secoli sono avvenute profonde modificazioni biologiche e biopsichiche dell’organismo umano (prodotte dalle implicazioni psicosomatiche della variazione del tempo individuale). La prima e più importante perdita è stata quella del tempo memoriale o sociale, in seguito alla scomparsa dei mores che facevano sì che la tradizione orale fosse nel frattempo storia e mito, identità individuale e sociale assieme.

La mente, strumento dell’intelletto, ha necessità di definire, di limitare la realtà fisica, di concentrarne l’essenza in uno spazio mentale più puntiforme possibile, proprio perché l’intelletto possa metaforizzarne e simboleggiarne l’esperienza materiale, ritrovando l’indefinito e l’infinito nell’astrazione metafisica. La memoria individuale è resa quasi inutile dalla quantità e dalla rapidità delle informazioni, quasi sempre effimere e transeunti, e quindi labili, deboli, evanescenti. Le incidenze interiori di questo processo sono di difficile verifica logica, ma producono comunque una deconcentrazione e un’alienazione sia dalla realtà esterna che dall’interiore. Questa modifica biopsichica dell’entità fisiologica può produrre nel frattempo una modifica all’entità animica ad essa corrispondente, con conseguente perdita di alcune facoltà intuitive sui piani sottili che già l’umanità del medioevo conservava in parte.

 

Il modo

 

  1. A) Il Segno

 

Le modalità dell’evocazione teofanica sono prodotte dalla magia simpatica. Questo termine non tradizionale è stato indotto dalla definizione di Fraser, ripresa poi dal Mauss e significa una tecnica magica che si ritiene produca il suo effetto grazie all’identità fra lo scopo perseguito e i mezzi adoperati. Il principio è che «simile produce simile». Il termine tradizionale è segnatura, sigillo, analogia.

Le concezioni magiche tradizionali ritenevano, per il principio esoterico del: «Tutto in Uno, Uno in Tutto», che ogni energia universa si rispecchiasse sulla natura, sulle cose, sull’uomo. Se la finalizzazione del rito era quindi la creazione di uno stato di potenza si pensava che adunando tutto ciò che materialmente e/o simbolicamente rispecchiava l’energia «potenza» si potesse attrarne le qualità. Da qui le tavole analogiche tradizionali d’equipollenza simbolica, di cui il massimo codificatore fu Cornelio Agrippa. 7

Il Quadro di Loggia nei vari gradi massonici è un esempio classico di questa «evocazione», espressa per il principio analogico con simboli rappresentati graficamente.

 

  1. B) Il gesto rituale come comunicazione metafisica.

 

La principale forma di comunicazione non-verbale è stata il gesto. Gli studi di Morris, Lorenz, 9 Iränaus Eibl-Eibesfeldt, 10 Hall, 11 Drosher 12 hanno affermato che la gestualità negli animali e nell’uomo è innata, ma può evolversi e maturarsi per apprendimento. Il gesto ieratico, espressione prima della ritualità, è comune a tutte le culture, anche senza influenza diretta. Esprime un’imitazione, istintiva e cosciente, dei grandi cicli celesti e terrestri, ed uno degli elementi fondamentali dell’allineamento micro-macrocosmico, con cui l’uomo può sperimentare stati dell’essere non comunemente conosciuti.

 

  1. C) Il contatto rituale come scambio d’energie sottili.

 

Nelle antiche credenze, comuni ad Oriente ed Occidente, non si considerava, nella fisiologia materiale, dell’uomo solo la sua componente visibile.

Energie più sottili, chiamate in Occidente eteriche o astrali formavano la sua fisiologia non visibile con potenzialità che potevano essere attivate, scambiate ed aumentate attraverso il contatto fisico, in quanto la posizione dei centri o nodi energetici fisici coincidevano con quelli iperfisici. L’imposizione delle mani, ad esempio nell’unzione regale, nell’ordinazione sacerdotale o nella terapeutica, trasmetteva energie sottili attraverso uno dei nodi più importanti della fisiologia visibile ed invisibile dell’uomo. Lo schiaffo o collata dell’investitura cavalleresca trasmetteva qualità marziali attraverso la violenza (o lo choc dell’atto).

Nell’iniziazione artigiana da cui la Massoneria prende origine, il segno nei vari gradi tende ad attivare le energie corrispondenti.

Il segno gutturale del 1° grado evoca il Logos, che attraverso il Fiat effettua la creazione primigenia, l’inizio spaziale e temporale dell’attuale stato dell’essere. Il segno cardiaco del 2° grado risveglia il pensiero del cuore, quella facoltà intuitiva e istintiva che poneva l’umanità in contatto diretto con l’energia universa, e che è stato in parte perduto attraverso la necessaria evoluzione umana verso la razionalità, il pensiero della mente.

Il cammino esoterico non comporta certamente la perdita della razionalità, conquista terribile, faticosa e dolorosa, ma la riacquisizione e la coordinazione mentale e spirituale di quegli elementi di sensibilità sottile perduti dall’uomo nel suo cammino evolutivo. Il segno addominale del 3° grado riattiva il terzo gran nodo energetico dell’uomo, quello generativo, la cui forza, come recita l’Ecclesiaste, «è più forte della morte».

Frate Elia da Cortona fu un notevolissimo personaggio, successore di S.Francesco nell’Ordine e perseguitato per sospetta eresia da S. Antonio da Padova e da Gregorio IX. In un suo sonetto ermetico 13 Elia accenna a questa operatività quando afferma:

 

Allor ti puoi tocar sotto il belico

e dire: i’ son Maestro certamente.

 

I toccamenti massonici, segno di riconoscimento dei Fratelli nei vari gradi, esprimono lo stesso concetto, in quanto le dita della mano esprimono a loro volta vari tipi d’energia, secondo gli schemi analogici della cosiddetta »mano pantea» 14 misterica e neoplatonica. La presa o griffe del Maestro, detta anche i «Cinque punti della Maestria», che rappresenta la parte finale del rituale d’elevazione al grado di Maestro, rappresenta una vera trasmissione fisiologica e metafisica di poteri iniziatici.

È da notare che la ritualità massonica non è in genere una trasmissione personale e diretta di un’influenza spirituale. Essendo la trasmissione esoterica, quella, appunto, iniziatica, del terzo stato sociale, ha caratteristiche collettive, perché necessita di un certo numero di Fratelli, tre o cinque o sette, per la validità del rito. La presa di Maestro è invece l’unica forma massonica concessa di trasmissione iniziatica diretta e personale, da Maestro a Discepolo.

Un altro esempio di ritualità massonica attraverso il gesto e il contatto consiste nella Catena d’unione. Introdotta nella Massoneria francese nella seconda metà del XVIII secolo, ha origini primordiali nell’ambito della ritualità universale. L’uso rituale della catena d’unione, mantenuto nella liturgia massonica, ha un’antichissima origine nelle danze rituali dei popoli antichi. Per questi la danza non era soltanto un mezzo di puro divertimento, ma aveva una scopo pragmatistico di ritualità magica, in cui ci si riprometteva di mettere in opera una forza sovra-individuale, cercando di metterla a profitto della comunità. Quest’antica operatività, la cui arte esiste ancora in alcune comunità religiose od esoteriche, è tuttora vivente. Secondo queste concezioni, la danza agisce nel frattempo su due piani:

 

Eggregorico: la formazione d’eggregoro 15 è facilitata dalla simultaneità dei movimenti,   indotta dal ritmo musicale ossessivo, spesso dalla ripetizione di un motivo cantato di tipo mantrico, ecc.che produce una sinergia simultanea delle componenti psichiche ed animiche dei partecipanti

Individuale: lo stordimento della coscienza impegnata in un’attività fisica di notevole fatica, l’assenza di pensiero che ne deriva, favorisce, in una sorta d’inebriamento spesso aumentato da bevande ed eccitanti, il distacco dei corpi sottili e quindi la possibilità d’estasi e visioni e di contatto quindi con i piani superiori.

 

A esemplificare quest’operatività si possono ricordare le danze dionisiache, che potevano terminare con il furore delle baccanti e delle menadi, i sacerdoti cananei di Baal (III I Re XVIII, 26), i profeti israeliti (I Re [Sam.], X,5; XIX,20). Ai nostri tempi possiamo ricordare come nell’islamismo vi sia ancora la confraternita religiosa Mawlawiyyah (in turco ‘Mevleva’), o dei «dervisci giranti», la setta metodista degli Jumpers (saltatori) in Inghilterra ed in America, quella dei Chlysti nella Russia.

Nell’antico mondo mediterraneo i balli ciclici o pirrici, sia maschili sia femminili o misti potevano essere di semplice girotondo o tendendosi stretti incrociando le mani dietro le spalle. Il mito narra che fu Teseo che, per sciogliere un voto ad Apollo, danzò con i suoi compagni prima a destra, poi a sinistra, stabilendo così i primi ritmi della strofe e dell’antistrofe. Sono così caratterizzati i nostri stessi procedimenti d’apertura e chiusura rituale con deambulazione a destra (senso orario o solare), e, in alcuni usi rituali, la chiusura con deambulazione a sinistra (senso antiorario o polare).

La storiografia riporta queste danze, ricordate anche nei poemi omerici alla tradizione cretese. Le pirriche presero il nome da Pirro, figlio d’Achille che l’avrebbe danzata in tali forme. Alessandro l’avrebbe danzata a Faselide, intorno alla tomba di Teodette, prima della conquista della Persia. È chiaro in questo caso che Alessandro intendeva ottenere magicamente un rapporto od un’identificazione con l’eroe defunto.

Ognuna di queste danze originarie fornì il tipo della lirica corale per i generi melici, già tradizionalmente affermati nelle caratteristiche di melodia e di ritmo. Le battute che segnarono il tempo delle danze furono più spesso di 2/4 o 6/8 e meno frequentemente di 2/4 o 6/8 e, tra queste, quelle di 6/8 e 5/8, più proprie delle danze che si chiamavano stasimotere, nelle quali i danzatori, pur movendosi per evoluzioni diverse, non si allontanavamo mai dal luogo scelto per l’esecuzione orchestrale; mentre il 2/4 e 2/2 erano tempi appropriati agli embateri o danze processionali, che più da vicino si riportavano al passo della pirrica.

Alcame, per primo, nei parteni, usò alternare i ritmi di 6/8 e 2/6 e concepì un nesso ritmico-melico che nelle danze stasimotere e processionali si susseguivano di continuo. I vari passi tradizionali che accompagnavano i ritmi meriterebbero un’analisi da un’esperta di questo settore, e producevano certamente un loro particolare effetto sia psichico sia metafisico.

Pur senza dilungarsi in descrizioni tecniche, si può ricordare che ogni euritmia aveva una particolare finalizzazione, così come insegnava ancora pochi decenni fa la scuola esoterica di Gurdgjeff. Un’altra applicazione statica di questa dottrina si può ancora esemplificare nei segni d’ordine massonici o iniziatici in genere.

La caratteristica della catena d’unione così come oggi è effettuata è quella di aumentare in proporzione geometrica la potenzialità eggregorica dei partecipanti, che il capo-catena ha il compito di raccogliere e finalizzare con particolari metodiche. Il contatto fisico dei partecipanti, eseguito secondo le regole della fisiologia sottile, produce energia: la concentrazione dei partecipanti e quella del capo-catena la dirigono.

Questo contatto fisico si ottiene semplicemente stringendo con la mano destra la mano sinistra del partecipante, e viceversa, come nella pratica rituale del girotondo che inconsciamente i bambini effettuano da sempre, tenendo conto che l’energia circola meglio secondo queste considerazioni: la mano destra dell’uomo ha polarità positiva, la sinistra negativa. Per la donna, la polarizzazione è opposta. Se la catena fosse formata da soli uomini o sole donne, sarebbe sufficiente il tenersi semplicemente per mano. Se la catena è mista si deve procedere in tal modo: gli uomini incrociano le braccia (la destra sulla sinistra), prendendo la mano sinistra dell’uomo che gli è accanto con la mano destra. Le donne (alternate agli uomini) non incrociano le braccia ma avendole distese prendono con la destra (-) la destra (+) dell’uomo che gli è accanto a destra e con la sinistra (+) la sinistra (-) dell’uomo che gli è accanto a sinistra. Se le posizioni non fossero queste avremmo la sinistra dell’uomo (-) unita con la destra (-) della donna e la destra della donna (-) con la sinistra dell’uomo (-). In questo caso l’energia non potrebbe ne prodursi ne circolare.

Curiosamente la catena d’unione massonica, nelle comunioni solo maschili, – corretta in quanto sinistra [-] con destra [+] – è effettuata come se dovessero esservi elementi femminili. Quando la catena è correttamente chiusa ogni membro a occhi chiusi visualizza intensamente il volto del capo-catena che a sua volta, sempre a occhi chiusi, visualizza lo scopo o l’effetto proposto.

Quando il capo-catena ritiene che l’energia si sia prodotta e sia circolata correttamente, invia l’energia, scuotendo per tre volte le braccia (ogni volta con una pausa d’alcuni secondi) producendo lo stesso effetto nei partecipanti alla catena, che la sciolgano subito dopo. Le antiche scuole iniziatiche avevano una vera e propria teoria rituale sull’uso operativo della catena d’unione.

La parola

 

La parola costituisce il modo di comunicazione legato alla razionalità, ed interagisce con essa. La raggiunta razionalità degli esseri umani ha prodotto l’uso della parola, ma l’uso della parola a sua volta produce razionalità. L’esposizione di un concetto, astratto o concreto che sia, attraverso la parola è una tecnica mentale complessa e raffinatissima che è oggetto di una precisa branca di studi psichici e psicologici. All’origine di questa razionalità la definizione di una qualsiasi realtà, fisica o metafisica che fosse, attraverso la parola, era considerata un potere formidabile sulla stessa realtà considerata.

Per il principio esoterico d’unità globale non vi era differenziazione fra realtà descrittiva e realtà descritta, e nominare una cosa significava nel contempo possederla. L’uso di formule magiche, di lingue arcaiche, o anche di semplice glossolalia determinava quindi dominio o potere sulla cosa desiderata o anche sulle stesse divinità di cui si possedeva il nome.

Per questo molto spesso gli Dei o anche le città avevano un nome segreto, da nascondere ai profani o ai nemici. Lo stesso concetto è applicabile all’uso di all’assumere uno ieronimo all’atto dell’iniziazione.

Nel rituale massonico, come in ogni rituale d’altro genere, vi sono due componenti essenziali. Una parte liturgica, basata sulle modalità sovradescritte di spazio, tempo e modo, in una schematicità ormai ampiamente descritta e codificata scientificamente, in modo tale che è possibile oggi avere dei parametri oggettivi di giudizio rituale. Cade così ogni soggettività individuale nella «correzione» o «restaurazione» di un rituale massonico, spesso affidate all’arbitrio estetico o ideologico del singolo.

La parte letteraria del Rituale, in cui si esprimono concetti etici e morali, speranze, desideri e volontà, costituisce le finalizzazioni indispensabili, che possano anche variare con il mutare dei tempi, in modo da riportarne l’evoluzione-involuzione su basi tradizionali. La prudenza in questo campo è però indispensabile

La parte liturgica, che si fonda su principi immutabili ed eterni – come quelli che pongono l’uomo in contatto fisico e metafisico con l’universo – non può esser variata. I termini simbolico-operativi della Massoneria, ad esempio, avendo acquisito nel tempo una loro suggestività, ma soprattutto una loro potenza eggregorica, sono divenuti degli schemi liturgici a noi specifici e non possono più esser variati. In questi termini la Massoneria si può rilevare come un ponte forse unico fra un lontanissimo passato e un lontanissimo futuro, quando l’umanità avrà effettuato un salto di qualità tale da avere in se stessa gli schemi razionali ed istintivi assieme che collegano l’uomo alla natura, all’universo e a Dio.

Quando questo avverrà, gli strumenti religiosi, rituali, iniziatici diverranno le stampelle che il malato ormai guarito lascia, come un ex-voto, ai santuari dei miracoli.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

IL RITO FUNERARIO MASSONICO

 

 

 

Giuseppe Schiavone

 

 

 

Secondo gli alchimisti, Dio concepito come Fuoco decodifica l’acronimo I.N.R.I. non nell’espressione «Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum», ma in «Igne Natura Renovatur Integra».

Purificazione, dal gr. pür, püròs = fuoco.

Il simbolismo dell’incenso è in relazione con quello del fumo, del profumo e delle resine incorruttibili. All’incenso si attribuisce la capacità di innalzare la preghiera verso il cielo; per questo è un emblema della funzione sacerdotale e, perciò, uno dei Magi l’offrì al Bambino Gesù. L’incenso, nel rituale indù, è messo in rapporto con l’elemento «aria» e si dice che rappresenti la percezione della coscienza che è presente dappertutto. In America centrale, l’incenso si collega al simbolo del sangue, della linfa, dello sperma, della pioggia. Il fumo dell’incenso, come la nuvola, è una emanazione dello spirito divino.

Nella cultura esoterica il cielo si trova nell’interiorità del soggetto e coelum avrebbe la medesima radice di celatus, a, um, con significati analoghi.

«Secondo antichissimi rituali la linea orizzontale della Croce rappresenterebbe la morte, quella verticale la vita; ambedue insieme la risurrezione. La morte allegorica, seguita da una rinascita a vita nuova, con il testamento del Fratello Apprendista, si conosce nei rituali massonici del primo grado; e si conferma con la misteriosa leggenda di Hiram nel terzo grado» (L. Troisi, Dizionario massonico, Foggia, Bastogi, 1987, p. 276). «Il braccio orizzontale della Croce indica l’elemento passivo, la materia, l’uomo disteso al suolo. Il braccio verticale indica lo spirito, l’elemento attivo, l’uomo. L’idea (segno verticale), entrando nell’intelligenza ricettiva (segno orizzontale), feconda quest’ultima. La verticale è il fecondante, l’orizzontale il fecondato […]. La Croce a bracci uguali è simbolo del macrocosmo; a bracci disuguali, del microcosmo» (Ivi, p. 129). Il centro della Croce è il luogo favorevole di tutti i passaggi da un livello all’altro, da un luogo, o mondo, all’altro: è l’ombellico del mondo degli antichi, l’omphalos, la scalinata (confronta Bizzarri, La scala misteriosa del XXX°, n.d.r.) rituale di tante religioni, la scala degli Dei. Per di lì, temporalità ed eternità, terra e cielo, basso e alto entrano in comunicazione.

L’uroboros è il serpente che si mangia la coda, rappresentando un ciclo di evoluzione che si compie. Questo simbolo racchiude nello stesso tempo le idee di movimento, di continuità, di autofecondazione e di eterno ritorno. La forma circolare del simbolo ha dato luogo ad un’altra interpretazione: l’unione del mondo sotterraneo (raffigurato dal serpente) e del mondo celeste (rappresentato dal cerchio). Questa interpretazione sarebbe confermata dal fatto che l’uroboros, in alcune rappresentazioni, è metà nero e metà bianco. Significherebbe così l’unione di due principi opposti, il cielo e la terra, lo yin e lo yang cinesi, e tutti i valori di cui questi opposti sono portatori.

Mercurio, messaggero degli Dei, porta la divina ispirazione. È ambasciatore fra le divinità e l’uomo, legame tra finito e infinito, tra il mistero della natura e la comprensione umana a cui l’idea nuova arriva come messaggio dell’intelligenza universale.

Così anche in Giovanni, 1: 4–5, 9.

Eraclito, Frammenti, 44, 45.

Ivi, 46, 47.

Questa era anche la concezione degli «stilnovisti», i poeti medievali iniziati alla società esoterica dei Fedeli d’amore.

 

 

  1. Il rito, il suo senso, i suoi simboli

In Massoneria il rito funerario è il simbolo della metamorfosi dell’uomo nel fatale passaggio dalla caducità terrena all’eterno, dal contingente al trascendente, dal sensoriale allo spirituale, richiamando inoltre i concetti di rinascita, di evoluzione continua, di fratellanza universale, di reintegrazione nell’Uno.

Celebrare un defunto, nel Tempio massonico, significa sentirlo presente tra i vivi e così dichiarare una continuità di rapporto con lui, ovvero una continuità di comunicazione tra la vita e la morte; quindi una estensione della fratellanza dei viventi ai morti, in una catena universale, per essere fratelli nella vita attuale e oltre essa, anche dopo la morte. Tutto questo, ovviamente, c’induce a penetrare il senso autentico della morte, superandone la concezione comune o profana.

Per far ciò siamo obbligati a entrare nel Tempio dei Liberi Muratori parato a lutto, con addobbi che indicano che la morte può mietere gli uomini in qualunque stagione. Il rito inizia simbolicamente a Mezzanotte, quando cioè le tenebre più profonde stendono un velo di dolore sulla natura che attende, momentaneamente vedova, il ritorno dell’astro che la vivifica. La cerimonia viene avviata dal Maestro Venerabile, battendo debolmente un colpo di maglietto (simbolo della nascita dell’uomo), segue il Primo Sorvegliante che batte un colpo fortissimo (simbolo della forza vitale), conclude il Secondo Sorvegliante con un colpo appena sensibile (simbolo dell’ultimo respiro).

A questo punto i presenti si raccolgono intorno al tumulo che sta al centro del Tempio, così constatando dolorosamente che uno degli anelli della loro catena fraterna è spezzato e che la parola è smarrita. Per ripristinare allora la comunicazione interrotta a più alto livello, viene invocato Dio, il Grande Architetto dell’universo (G.A.D.U.), concepito anche come Fuoco che feconda ogni forma di vita 1, come Principio di ogni trasformazione, come Fine di ciascuna esistenza che ritorna a Lui reintegrandosi nell’Uno: reintegratio ad Unum, aut ad Ignem.

Segue il ricordo dell’estinto. In presenza della morte –simbolo di silenzio assoluto, di necessità di purificazione 2 per la seconda nascita che trascende la contingenza e immette nell’eterno– i presenti ne traggono un elevato ammaestramento che interiorizzano, divenendo fattore di edificazione coscienziale, sì che l’esempio del defunto possa insegnar loro a morire, perché v’è pure una dignità della morte, oltre che della vita: ne discende un’etica ed una pedagogia della morte.

Si fa strada così la consapevolezza che dalla morte possa scaturire un’importante e profonda lezione educativa; che dalla putredine della decomposizione possano nascere i profumi e le bellezze della vita (come, appunto, accade in natura); che il trapasso non è che l’iniziazione ai misteri di una risurrezione e che nulla si disperde e si estingue in natura.

È a questo punto infatti che il Maestro Venerabile versa per tre volte l’incenso 3 nei tre bracieri che sono attorno al tumulo e che i presenti, in pellegrinaggio intorno al feretro, gettano su di esso fronde di acacia, simbolo di rinascita, «pregando» affinché la sua memoria e la testimonianza delle sue virtù parlino (s’incidano) nella loro anima e conducano, attraverso assiduo lavoro e rigorosa ricerca, alla verità e alla luce.

L’ottimismo pian piano prende il posto del pessimismo, nella certezza dell’ininterrotta trasformazione–evoluzione della natura, della creazione continua, quindi della vita permanente, di cui il Fuoco è il principio ed il simbolo. In questo spirito, pertanto, i Fratelli riescono a ricomporre la catena d’unione e a scambiarsi baci fraterni intorno al tumulo. «Bruciano» ogni pensiero egoistico, i risentimenti, il ricordo delle offese subite e si rafforzano nella pace, nella concordia e nel comune lavoro, tenendo sempre presente il fondamentale precetto evangelico: «Non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te stesso e fa’ agli altri quello che per te medesimo brameresti». Su di esso giurano.

Dopo che ciascuno, in catena, attraverso il simbolo e la realtà del Fratello defunto, ha sublimato (purificato) se stesso nell’amore (quindi nel fuoco) e che la concentrazione sulla morte corporea ha aperto la porta del cielo (la janua coeli), cioè dell’interiorità e della coscienza 4, l’opera del soggetto giunge alchemicamente al punto cruciale (alla Croce 5 , appunto). Aperta la Porta d’oro, il Logos fa udire la sua voce interiore e rivela la sua luce, il suo fuoco, la sua essenza spirituale. Il soggetto, prendendone piena consapevolezza, lo fa proprio; lo reincarna nella propria coscienza (quindi certamente ad un più alto livello rispetto alla precedente incoscienza che ne aveva, essendo il lui presente all’inizio soltanto in forma latente). In quest’atto, sacrificio e rinfrancamento, dolore e consolazione si con–fondono determinando il fatto nuovo: cioè la nascita dell’uomo nuovo. L’atto trasmutatorio riceve l’intelligenza di sé (l’autocoscienza) e della speranza che lo sostiene e lo spinge, intesa quest’ultima come facoltà di perenne rigenerazione compresa nella circolarità dell’unità divina (l’uroboros 6). Pertanto, se tutto è Uno, la catena non s’interrompe mai, neanche di fronte alla morte, la quale anzi viene assunta nel piano divino fra le forme del divenire; quindi non come frattura negativa, ma come uno dei momenti della continuità positiva, vitale.

In questa prospettiva e con la fiducia nella Luce ritrovata, il Maestro Venerabile e i due Sorveglianti chiudono i lavori funebri all’alba. Come l’astro che nasce disperde le tenebre della notte, così la speranza – ch’è diventata certezza – che il Fratello passato all’Oriente eterno riposi nel grembo del comune Padre, dissipa ogni dolore e cambia in giubilo lo sconforto. È l’ora in cui il sole si mostra all’orizzonte e spande la gioia sugli esseri viventi. Rischiarati dai suoi raggi, i Liberi Muratori si uniscono in un caloroso triplice applauso per rallegrarsi della glorificazione del Fratello che s’è allontanato dalla Valle terrena e che ora è stabilmente in coelo, cioè nella coscienza purificata di ciascuno (come s’è detto prima), nel Fuoco interiore di ogni Fratello, dove egli è assunto come verbo, come parola interiore che insegna, fortifica e guida verso il bene.

Va da sé che dopo tale rituale processo trasmutatorio nulla può essere più lasciato alla materialità profana; perché non dev’esserci più la materialità, «non può» esserci. Una ulteriore prolungata fase di decomposizione (putrefactio) rallenterebbe, o arresterebbe, o invertirebbe il processo trasmutatorio. L’opera compiuta nel Tempio è reale, non virtuale, perciò le spoglie mortali devono essere autenticamente purificate, cioè penetrate e consumate dal fuoco, per essere strutturalmente da esso modificate. Solo così si realizza il consummatum est, l’ultima consummatio (il compimento perfetto), la parte più eterea della materia mortale ed immortale.

 

  1. Il fuoco

Fattore centrale, quindi, di questo piano di realizzazione è la purificazione, il fuoco che agisce, con modalità differenziate, nei diversi livelli dell’essere d’uomo: fisico, animico, spirituale. In primo luogo, la fiamma trasmuta chimicamente la materia grave in una materia eterea. In secondo luogo, a livello animico, la potestà pirica è la potestà mercuriale nella sua emanazione creatrice; cioè la facoltà poietica del soggetto (la facoltà creativa), la quale agisce come potere comunicativo per contatto (l’intuizione: il processo conoscitivo evocativo 7). In terzo luogo, agisce come principio o spirito igneo: il soggetto s’afferma coscientemente come fattore di cause che producono eventi importanti, analogici agli atti creativi divini (ad esempio, l’atto di fecondazione della vita avviene nel fuoco dell’amore); nel termine s(pir)itus v’è il radicale di pür (il fuoco fiammante, urente, il principio igneo). È la sede del fuoco centrale (o centro sensorio, o plesso), il punto d’intersezione di due linee (X) rappresentanti rispettivamente il principio attivo e il principio passivo in amore, cioè agenti l’uno sull’altro, il primo sul secondo, in modo tale da non generare squilibrio, ma equilibrio. È la sintesi delle metamorfosi generate dall’attivo intelligente. È il fuoco fecondante (germe vitale riproducente), la vibrazione di energia urente.

Nel linguaggio alchemico il fuoco è una sostanza pura, eterna, indispensabile per il compimento della Grande opera. Esso sarebbe alimentato dallo «zolfo dei saggi», simboleggiato dalla Fenice (che risorge sempre dalle ceneri, cioè dopo un processo di combustione, affermando risurrezione e immortalità, rinascita ciclica) e si armonizzerebbe con il volere del G.A.D.U. Presso i Maya Quiché la cenere ha una funzione magica in rapporto alla germinazione e al ritorno ciclico della vita. In alchimia la Fenice è collegata all’Opera al rosso, alla rigenerazione della vita universale e alla finalizzazione dell’Opera. Simbolicamente la cenere, legata al fuoco e alla siccità, è associata al principio yang, all’oro, al sole; la sua sacralizzazione è in relazione ai riti di passaggio e di purificazione attraverso il fuoco.

Per Aristotele il Fuoco è una espressione del Logos 8, concezione che egli mutua da Eraclito, secondo il quale il fuoco è l’elemento primordiale e tutte le cose non sono che trasformazioni di esso 9, prodotte per via di rarefazione e condensazione; l’universo stesso nasce dal fuoco, che di nuovo tornerà a distruggerlo ad intervalli stabiliti. È significativo notare che dei contrari, quello che presiede alla generazione Eraclito lo chiama guerra e contesa, quello che provoca invece distruzione ad opera del fuoco lo chiama accordo e pace, mentre il processo di trasformazione secondo il quale si forma il mondo lo chiama la strada in giù e in su 10.

Il fuoco è lo strumento della modificazione degli stati che nella natura appaiono a prima vista stratificati ed insuperabili; è il mezzo affinché la vita, trascorrendo dall’una all’altra forma, si riveli. Il rapporto dell’uomo con il fuoco è atto di suprema intelligenza, perché è rapporto con il Logos. In questo quadro di riferimenti, pertanto, combustione, o carbonizzazione, o incinerazione significa non solo purificazione ma anche indiazione. Perciò l’uomo dovrebbe ardere dall’interno e dall’esterno, per mezzo di ambedue le modalità del fuoco, per bruciare tutte le scorie e, così, divenire pura scintilla in grado di unirsi alla fonte da cui s’è separato.

Dalla tradizione s’è tramandato sino ai nostri giorni un patrimonio simbolico e coscienziale che fa del fuoco una metafora ed uno strumento effettivo che dà senso alla vita e alla morte considerate in una continuità di perenne purificazione, sino a rendere possibile l’immortalità del soggetto.

Il valore dei riti funerari che fanno ricorso al fuoco, come quello massonico, sta nelle modificazioni che esso produce nell’officiante, o negli officianti. Si tratta di modificazioni di ciò che è mortale in ciò che non può morire. È ancora una volta una iniziazione – come nel massonico «Gabinetto di ri–flessione» –, ma questa volta realmente incontrando ed attraversando la morte, con un processo in grado di trasmutare un uomo in un morto vivente, ed un morto effettivo in un vivente, come chi è disceso agli inferi, come chi ha conosciuto l’estasi, come chi riesce a passare per la fessura tra i mondi, all’incrocio tra l’orizzontale e la perpendicolare (secondo l’insegnamento, come s’è già detto, del simbolo della Squadra e della Croce). Ciò che ci si attende dal fuoco è che esso ci apra questa fessura, agendo come l’amore, come il fuoco d’amore 11, permettendoci di andare al di là (nell’altra dimensione), per poi ritornare di qua consapevoli, già forti della morte e, quindi, immortali.

Ciò che ci si attende dal fuoco e dal rito funerario di cui stiamo parlando è una esperienza coscienziale che compia una trasmutazione totale del nostro essere fisico e animico.

Le guarigioni legate all’azione del fuoco – anche quelle fisiche, documentate – sono delle metafore di questo arcano potere igneo. Sono come delle testimonianze parziali, che rivelano la presenza del fuoco, la possibilità di una guarigione ben più completa, di una trasformazione radicale e globale, attraverso la liberazione dell’elemento sottile e immateriale nascosto nell’interiorità dell’uomo. Un elemento, questo, che non può essere distrutto dal fuoco perché egli stesso è fuoco, perciò è l’unica parte che resta dopo la combustione, la parte immodificabile e immortale, ciò che risorge dalle ceneri, lo spirito divino che venne ad abitare in noi (il Verbo che «habitavit in nobis»: Giovanni, 1: 14; il lapis dell’acronimo Vitriol «qui stat in nobis»).

Pertanto, oltre ad un fuoco risolutivo e trasmutativo, c’è un fuoco come aughé: splendore, luce, radianza. È il corpo di gloria o di luce (confronta Nicosia, La fortezza pitagorica,; Bianca, La rigenerazione n.d.r.). Da cui l’aureola che tutto circonda e che tutto riempie, splendendo con speciale forza radiante intorno ai volti e alle figure dei maestri, degli iniziati, dei santi.

Ogni esistente è avvolto da un’aura, come se l’intero universo fosse composto di un’unica materia risplendente, lucente, avvolgente; ed ogni cosa, anche miscroscopica, fosse una scintilla che se ne distacca per un attimo per vivere di vita propria, ma conservando le qualità «ignee» del tutto.

La polisemia del fuoco è suggestiva: fuoco come essenza della divinità, fuoco prometeico, fuoco come simbolo, fuoco ierofante, fuoco trasmutatore, fuoco amico, fuoco della cucina, fuoco del focolare, fuoco ammaliatore, fuoco dell’alchimia, fuoco come amore, fuoco come luce della conoscenza, fuoco come logos.

Questa è la ricetta dell’oro alchemico, scritta probabilmente da Giovanni Pontano (1429–1503):

 

Il nostro fuoco è minerale ed eterno, non evapora se non è eccitato oltre misura; partecipa dello zolfo, non proviene dalla materia; distrugge, dissolve, congela e calcina tutte le cose. Occorre molta abilità per scoprirlo e prepararlo; non costa nulla o quasi nulla. Inoltre è umido, carico di vapori, penetrante, sottile, dolce, etereo. Trasforma, non s’infiamma, non si consuma, circonda tutto, contiene tutto; infine è il solo della sua specie […].

Sappi dunque cercare con tutte le tue forze questo fuoco e ci arriverai, perché è quello che compie l’opera ed è la chiave di tutti i filosofi che non hanno mai rivelato; ma se tu indagherai bene e profondamente le cose sante, la proprietà del fuoco la conoscerai e non altrimenti.

Intendi: Sole = Oro = Zolfo = Anima = Cuore

Prima fatti padrone assoluto delle tue passioni, dei tuoi vizi, delle tue virtù; devi essere il dominatore del tuo corpo e dei tuoi pensieri. Poi accendi, o sveglia, per meglio dire, nel tuo «cuore» per immaginazione, il centro del «fuoco»; cerca di sentire dapprima una specie di caloricità lieve, poi più forte:

Fissa tale sensazione nel tuo «cuore».

Dapprima ti parrà difficile; la sensazione ti sfuggirà; ma cerca di mantenerla nel «cuore»; rievocala, ingrandiscila, diminuiscila a piacere; sottomettila al tuo potere; fissala e rievocala a volontà.

Prova e riprova.

Impadronisciti di questa forza e conoscerai il «Fuoco sacro o Filosofico».

 

Il fuoco ha la proprietà di riportare i corpi alla loro condizione originaria, per poi ricominciare il ciclo vitale. È tutto qui il segreto della rigenerazione. Il corpo incenerito ritrova la situazione primordiale della sostanza. Analogicamente il regressus ad uterum è un penetrare di nuovo nella matrice materna, per poi rinascere rinnovato. È il cammino (ed il compito) dell’iniziato, che conquista la libertà ignea, cioè la trasmutazione della coscienza, operando sul flusso psichico e mentale (fluidità mercuriale), essiccandolo e riducendolo ad una coscienza puntuale, universale, embrionale, come quella dell’uovo, del feto, del seme. In questa fissazione in stato seminale si ha il ritorno alla pura potenzialità, per una nuova attualità. «Solve et coagula»: il mistero (la dinamica) della morte e della vita sta anche qui.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

BRICOLE DI SIMBOLO E SIMBOLISMI

BRICOLE DI SIMBOLO E SIMBOLISMI

di Stefano Cappelletti

 

 

Il termine simbolo derivante dal greco “simbolon”, ovvero segno di riconoscimento, indica prevalentemente un concetto che viene reso fruibile attraverso una rappresentazione analogica che esclude in maniera quasi totale il ricorso alla parola scritta o parlata, che rende sensazioni e concetti che baypassando la ragione giungono direttamente alla parte centrale del nostro animo.
Ma è evidente che, nel nostro viaggio attraverso la realtà tangibile, siamo costantemente circondati da simboli dei quali non siamo sempre consapevoli e da altri di cui non è agevole trovare la chiave di lettura.
Il più semplice e noto simbolo massonico è la squadra: un semplice utensile da sempre usato dai muratori per verificare l’esattezza degli angoli retti. Ma oltre a questo cosa altro può essere, cosa può rappresentare?
Ebbene il simbolo-concetto squadra ha in ambito massonico un valore fondamentale, anche se non di immediata comprensione per il neofita che deve sviscerarlo all’inizio del suo cammino iniziatico.
Rappresenta la capacità di giudicare (e conseguentemente agire) correttamente, la volontà ferma di rispettare quell’insieme di valori morali insiti sin dall’antichità nel concetto di “angolo giusto” ovvero retto.
Nell’antico Egitto il geroglifico kan, che esprimeva il concetto di rettitudine interiore ed esteriore, era rappresentato, appunto, da una squadra.
Ponendo noi stessi come “strumenti di misura” di ciò che ci circonda è evidente che dobbbiamo dapprima tarare la nostra personale scala di valori di riferimento nella maniera corretta, una scala di misurazione che sia il più possibile stabile. Un modo di porsi davanti agli eventi che ha più affinità con l’imparzialità (riguardo agli eventi, ma anche verso se stessi) che con la virtù cardinale della giustizia.
Questo è all’apparenza un concetto abbastanza facile da comprendere, ma altra cosa è il traslarlo sul piano pratico, come ogni sincero Massone può testimoniare.
Provare a metterlo costantemente in pratica nella vita quotidiana…. in ogni contatto con gli altri domandarsi se stiamo agendo nella maniera corretta, se siamo “giusti ” o meno.
Le infinite possibilità e varianti che la vita ci propone avranno bisogno di altrettante risposte e non è nemmeno detto che a parità di situazioni i comportamenti “retti” siano sempre gli stessi, il variare di un fattore – fosse anche il solo tempo – impone un cambiamento.
E’ evidente come una “battaglia” combattuta in inverno necessita di una diversa strategia rispetto alla stessa combattuta in estate.
Ma la squadra è rigida…. segna sempre e costantemente un angolo di novanta gradi, e mal si adatta alle misure differenti.
Per questo per completarsi ha necessità del compasso.
Anch’esso, benchè più complesso, è uno strumento piuttosto usuale, tutti lo abbiamo maneggiato e sappiamo a cosa serve: a tracciare cerchi ed archi di raggio costante.
Ma il simbolo a cosa si riferisce? Alle capacità immaginative e creative dell’uomo. Proprio per la sua insita ecletticità attraverso il suo uso si possono tracciare non solo infiniti cerchi, ma risolvere problemi grafici di una certa complessità.
Ma fino ad un certo e determinato punto dato dalle estensione massima dei suoi bracci, oltre anche il compasso diviene inutile al suo scopo principale, potendo tracciare solo delle linee rette.
Quale migliore metafora per rappresentare l’intelletto umano, capace di mirabili opere entro il suo ambito terreno, ma incapace di superare i limiti imposti dalla sua condizione terrena; oltre la massima estensione del compasso esiste l’intangibile , il non conoscibile per esperienza diretta, il G.·. A.·. D.·. U.·..
E’ quindi dall’unione di questi due oggetti (che sono Massonicamente concetti o insiemi di concetti) che si viene a realizzare l’armonizzazione tra due forze apparentementi opposte, la rigidità della squadra e la mobilità del compasso.
Rettitudine e fantasia, difficile trovare fra di essi un equilibrio duraturo; in genere l’essere umano tende ad essere, a seconda delle situazioni, sopraffatto dall’uno o dall’altro e ciò dà origine a comportamenti opposti ed all’apparenza inconciliabili da cui nascono sin troppi attriti personali e sociali. Basti pensare al mai soluto scontro fra generazioni, tra padri e figli, tra ordine costituito ed anarchia, tra uomini e donne, tra ordine e caos.
Si nota abbastanza agevolmente che ogniqualvolta un elemento diviene eccessivamente preponderante viene inevitabilmente controbilanciato dalla necessità del suo opposto essendo entrambi aspetti caratteriali presenti nell’animo umano.
Ovvero, all’apparenza, queste due tendenze, quando sbilanciate tendono, sul principio dei vasi comunicanti, ad equilibrarsi.
L’unione tra due oggetti è generalmente realizzata con il compasso in posizione corretta (noce in alto e punte in basso) e la squadra con i bracci in alto ed il vertice in asse con la noce posto poco sopra le punte del compasso.
Subito si può notare come essi formino due frecce che indicano, contrapposte, il cielo e la terra, il sopra ed il sotto, il divino ed il terrestre e che quindi sono, anche qui, caratterizzazione e unione di concetti opposti. Ma un altro aspetto fondamentale è che la loro sovrapposizione si può realizzare in tre fondamentali modi, che rappresentano poi anche, ma non solo, il percorso seguito dai singoli all’interno del cantiere-Loggia-officina.
Nella prima la squadra è completamente sovrapposta al compasso, stando a significare che in una prima fase (apprendistato appunto) è la forza di volontà ad essere preminente sulla fantasia e che il bisogno di imporsi, di rispettare delle regole (anche se per il momento non compiutamente comprese) deve essere il primo impegno di chi entra a far parte della M.·..
Nella seconda i bracci dei due elementi si trovano incrociati e quindi, dopo un periodo di apprendimento e maturazione, non si può e non si deve reprimere del tutto la fantasia, ma dargli modo di esprimersi pur se all’interno di regole ancora ben determinate.
Nella terza il compasso è completamente sovrapposto alla squadra; allora la fantasia ben esercitata ed addestrata è libera di esprimersi certa che non darà origini ad incongruenze, perchè conosce i limiti e le leggi fondamentali entro le quali può muoversi. E’ cosciente dell’esistenza del cielo, ma anche della terra.
E’ un Artista pronto a realizzare le propria e personale Opera.
Queste tre fasi sono – o dovrebbero essere – quelle della corretta crescita, educazione e maturità di una persona, di un artigiano, di un artista, ma anche di una società umana.
Volendo continuare si potrebbero ricercare svariati significati attribuili ai simboli trattati, ma questa esposizione (pur se riduttiva nel suo schematismo) è importante per dimostrare quale può essere la forza insita nel linguaggio dei simboli.
Non solo per i concetti in se stessi, ma perchè dimostra, a mio avviso, come attraverso il linguaggio simbolico determinati concetti divengono (una volta assimilati correttamente) immediatamente fruibili acquistando al contempo una forza ed una potenza per lo più sconosciuta alle parole, chiunque guardando un simbolo può sentire (non pensare) ad un concetto e via di seguito a quelli ad esso collegati attraverso delle sensazioni che giungono direttamente al nostro intimo a prescindere dall’idioma, dalla razza, dall’età e dalla cultura di provenienza.
Sono i simboli il solo ed unico linguaggio universale che permette di realizzare appieno e concretamente una vera fratellanza di sentimenti.
Ed il concetto arriva diretto, senza intermediazioni assumendo varie sfaccettature soggettive che completano il messaggio principale.
Ci si soffermi solo un attimo a riflettere su quello che nel corso della storia ha significato a livello sia profano che iniziatico il simbolo della croce.
Attraverso il simbolo e la meditazione su di esso l’adepto riesce a rendere attiva la sua iniziazione, attraverso il simbolo esso può conoscere l’essenza delle cose che è simile per tutte e quindi può raggiungere quella conoscenza intuitiva che gli permetterà di avvicinarsi alla saggezza.
Una volta tolto il velo delle apparenze esso si renderà conto di come e quanto ogni cosa si assomigli (nel suo originale aspetto) alle altre e sia permeata dalla stessa energia e di come i simboli siano distillato di questo.
Quello sopradescritto è un linguaggio che racchiude enormi potenzialità, come ben sanno i moderni pubblicari impegnati a creare e promuovere simboli consumistici dove il continuo accostamento di un prodotto e di un marchio con dei concetti piacevoli ed appaganti tende a creare nella coscienza collettiva un automatismo per cui il solo fatto di “possedere” un certo marchio appaga un bisogno prima mentale che fisico.
E’ certamente questo un uso non corretto del potere del simbolismo, ma comunque indicativo della potenza del mezzo.
La sola condizione necessaria è che il simbolo sia sempre presente ed adeguatamente studiato, deve essere vissuto per rimanere in contatto con noi, e purtroppo la società occidentale ha perso contatto con quelli realmente importanti sostituiti da quelli mass-mediatici.
Il simbolo Tradizionale invece adempie ad una funzione insostuibile: conduce l’uomo verso l’Essenza e gli trasmette un insegnamento iniziatico ed esoterico, è un ponte tra l’uomo ed il sacro.
Maestro Eckhart diceva del simbolo che “la sua forma è rivelazione dell’essenza”.
I nostri predecessori, i massoni costruttori delle cattedrali medievali, costruivano non per sè stessi, ma in nome del creatore cercando di avvicinare la terra al il cielo e le loro opere, veri libri di pietra dove la forma diveniva indissolubilmente sostanza, parlavano il linguaggio dei simboli e nel cantiere il personaggio più importante dopo il Maestro dell’ Opera era lo scultore dei capitelli che modellava le immagini simboliche.
La stessa regola che scandiva la vita di questi artigani che realmente si scorticavano la mente e le mani sulla pietra grezza era una grande lezione di vita tanto che il passagggio dalle regole delle gilde muratorie operative alle costituzioni e “old charges” della massoneria speculativa di Anderson non fu certamente traumatica o distruttiva. In altre parole le leggi, nate dalla pratica e divenute simboliche, che possiamo ritrovare in antichi manoscritti propriamente operativi (come il Poema Regius o il manoscritto di Cooke ) non sono affatto dissimili nello spirito da quelli che tuttora regolano le basi della moderna L.·.  M.·..
E questo perchè provenienti da una comunità che viveva ed era essa stessa un simbolo, così come lo era la propria occupazione… costruire.
E che quindi si poneva al suo interno, similmente ad una attuale Loggia Massonica, in uno spazio a-temporale così come ciò che produceva.
In ultima analisi se è vero che siamo costantemente circondati da manifestazioni simboliche uno dei compiti dell’iniziato è quello di esserne cosciente al punto da acquistare la consapevolezza che lui stesso lo è (o può diventarlo) e da questo ricavarne le conseguenti responsabilità, morali e pratiche, verso sè stessi e verso il proprio prossimo.
Responsabilita che derivano dal fatto che le nostre azioni, le nostre parole, anche i nostri pensieri sono simboli e possono modificare la realtà che ci circonda, influire sulla nostra ed altrui vita e quindi devono essere trattate con estrema attenzione, preparazione e prudenza.

 


Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

ORIGINI E STORIA DEL RITO

Il RSAA è il risultato finale ed unitario di una complessa riforma che interessò vari Sistemi altograduali massonici, sviluppatisi l’uno indipendentemente dall’altro, nel corso del XVIII secolo, nell’ambito del cosiddetto Regime Scozzese. Tale Regime ebbe origine con l’avvento dei Maestri Scozzesi a partire dal 1738 circa e proseguì via via col Capitolo di Clermont (1754), con gli Imperatori d’Oriente e d’Occidente (1758) che posero in pratica una ritualità definita Rito di Perfezione o anche Rito di Heredom. Oggetto della riforma unificatrice in un sol Ordine, furono, oltre questi filoni, anche filoni altograduali minori e di più recente manifestazione, tra i quali il Rito Primitivo ed altri.

Il RSAA è la ritualità che caratterizza un particolare Corpo Massonico che la adotta e la fa propria. Tale Corpo Massonico si chiama “Supremo Consiglio dei Sovrani Grandi Ispettori Generali del 33° ed ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato“.

Il primo Supremo Consiglio (S.C.), detto Madre del Mondo, fu fondato a Charleston, Carolina USA, il 31 maggio 1801 e attualmente ha sede a Washington, D.C. USA.

Nel volgere di qualche diecina d’anni il RSAA, sotto l’impulso del S.C. di Charleston, si è diffuso praticamente in tutto il mondo attraverso ulteriori Supremi Consigli che si sono organizzati in Giurisdizioni territoriali nazionali, ciascuna autonoma ed indipendente, gelosa della propria sovranità.

“Sede del Supremo Consiglio del RSAA Giurisdizione Sud – Washington, DC”

IL RITO SCOZZESE IN ITALIA

Il S.C. d’Italia, che oggi assume la denominazione di “Supremo Consiglio dei SS.GG.II.GG. del 33° ed Ultimo Grado del Rito Scozzese Antico ed Accettato della Libera Muratoria per la Giurisdizione Italiana — Grande Oriente d’Italia — Palazzo Giustiniani“, come si rileva da un documento manoscritto, tramandato come Verbale della Fondazione, detto anche “Bolla di Fondazione“, fu fondato ed installato ritualmente a Milano il 16 marzo 1805 dal Conte Alexandre François Auguste De Grasse Tilly, S.G.C. del S.C. di Francia (1804), debitamente assistito da Fratelli francesi ed italiani, in forza di Patenti a lui conferite dal S.C. Madre del Mondo di Charleston, per cui il S.C. d’Italia fu una diretta emanazione di detto Corpo Rituale.

Nello stesso atto costitutivo del S.C. d’Italia è formalmente dichiarato che esso “crea e costituisce di sua sovrana autorità una Gran Loggia Generale in Italia sotto la denominazione di G\ O\ al Rito Scozzese Antico ed Accettato“. Il Grande Oriente d’Italia, così fondato, venne, quindi, installato ritualmente il 20 giugno 1805 dagli stessi fondatori del S.C. del RSAA.

Il S.C. d’Italia, sedente a Milano, aveva Giurisdizione soltanto sui territori del Regno Italico e ne era Sovrano Gran Commendatore lo stesso Viceré, Eugenio Beauharnais.

Successivamente, sul territorio italiano non ancora unificato, videro la luce anche altri SS.CC. tra cui, (a Napoli), un S.C., detto delle Due Sicilie (1809), un S.C. di Palermo (1860) e un S.C. di Napoli (1860). Dopo l’unificazione, dapprima si costituì, per fusione con quello di Milano, un S.C. di Torino (1862) e, più tardi, col trasferimento della Capitale a Firenze, se ne costituì ancora un altro in quella città (1864). Un ulteriore S.C. si stabilì, nel 1870, a Roma, definitiva Capitale del Regno. A seguito di numerose convenzioni, si conseguì, infine, non senza travagli, l’unificazione tra i diversi SS.CC. in un unico S.C. d’Italia, che fu quello sedente in Roma.

Da uno scisma verificatosi nel 1908, nacque un secondo S.C., detto di “Piazza del Gesù”, che dal 1912 fu riconosciuto da molti SS.CC. del mondo in contrapposizione con quello detto di “Palazzo Giustiniani”. Il ventennio fascista, durante il quale ogni attività massonica in Italia fu proibita, eliminò di fatto il problema di quella atipica duplicazione tra la continuità storica e il possesso di riconoscimenti di varie Giurisdizioni.

La separazione tra le Giurisdizioni del Grande Oriente d’Italia e del S.C. fu sancita nel 1922. La Conferenza di Parigi dei SS.CC. del mondo, tenutasi nel 1929, sancì questo principio per tutti i SS. CC.

Alla ripresa delle attività massoniche, nel 1943, dopo il fallimento dei tentativi di riunificazione, coloro che possedevano il supremo Grado del RSAA, ricostituirono i due SS.CC. di “Palazzo Giustiniani” e di “Piazza del Gesù”.

Tra il 1960 e il 1973, le residue incomprensioni tra i due tronconi storici della Massoneria Italiana, si ricomposero e da allora, nonostante altri conati scismatici, risalenti in particolare al 1977, falliti grazie alla lealtà dei Fratelli Scozzesi d’Italia e alla saggezza dei SS.CC. del resto del mondo, il S.C. di “Palazzo Giustiniani” rappresenta la legittimità, la regolarità e l’esclusività territoriale sulla Giurisdizione Italiana.

 

Pubblicato in commemorazione | Lascia un commento

IL SIMBOLISMO DELLO ZODIACO NEI PITAGORICI

 

 

René Guénon

in Études Traditionelles, giugno 1938

La Basilique Pythagoricienne de la Porte Maieure. Non avendo il volume a disposizione, citiamo dall’articolo pubblicato anteriormente sotto lo stesso titolo nella Revue des Deux Mondes, numero del 15 novembre 1926.

Quelques aspects du symbolisme du poisson, in Études Traditionelles, febbraio 1936.

 

Trattando la questione delle porte solstiziali ci siamo riferiti direttamente soprattutto alla tradizione indù, perché in essa i dati che vi si riferiscono sono presentati nel modo più chiaro; ma in realtà si tratta di qualcosa che è comune a tutte le tradizioni, e si può trovare anche nell’antichità occidentale. Nel Pitagorismo, in particolare, il simbolismo zodiacale sembra aver avuto un’importanza altrettanto considerevole; le espressioni ‘porta degli uomini’ e ‘porta degli dèi, da noi usate, appartengono del resto alla tradizione greca; solo che le informazioni giunte sino a noi sono in questo caso talmente frammentarie e incomplete che la loro interpretazione può dar luogo a parecchie confusioni, che non sono mancate da parte di coloro che hanno considerato tali informazioni isolatamente e senza renderle più chiare per mezzo di un raffronto con altre tradizioni.

 

Anzitutto, per evitare certi equivoci, sulla posizione reciproca delle due porte, occorre ricordarsi di quanto abbiamo detto sull’applicazione del ‘senso inverso’, a seconda che le si consideri in rapporto all’ordine terrestre o all’ordine celeste: la porta solstiziale d’inverno, o il segno del Capricorno, corrisponde al nord nel ciclo annuale, ma al sud in relazione al cammino del sole nel cielo; così, la porta solstiziale d’estate, o il segno del Cancro, corrisponde al sud nel ciclo annuale, e al nord in relazione al cammino del sole. Per questo, mentre il movimento ‘ascendente’ del sole va da sud a nord e il suo movimento ‘discendente’ da nord a sud, il periodo ‘ascendente’ dell’anno dev’essere invece considerato compiersi nella direzione nord-sud, e il suo periodo ’ discendente’ in quella sud-nord, come abbiamo già detto in precedenza. Proprio in rapporto a quest’ultimo punto di vista, secondo il simbolismo vedico, la porta del dêvaloka è situata verso nord e quella del pitriloka verso sud, senza che vi sia in ciò, malgrado le apparenze, alcuna contraddizione con quello che troveremo più avanti.

 

Citeremo, corredandolo delle spiegazioni e rettificazioni necessarie, il riassunto dei dati pitagorici esposto da Jérôme Carcopino1: «I pitagorici» egli dice «avevano costruito tutta una teoria sui rapporti dello Zodiaco con la migrazione delle anime. A quale data risalirebbe? È impossibile saperlo. Fatto sta che nel secolo II della nostra era, essa fioriva negli scritti del pitagorico Numenio, che ci è permesso di conoscere attraverso un riassunto secco e tardivo di Proclo, nel suo commento alla Repubblica di Platone, e un’analisi, al tempo stesso più ampia e più antica, di Porfirio, nei capitoli XXI e XXII del De Antro Nympharum». Ecco, diciamolo subito, un esempio piuttosto significativo di ‘storicismo’: la verità è che non si tratta per nulla di una teoria ‘costruita’ più o meno artificialmente, a questa o quella data, dai pitagorici o da altri, a modo di una semplice opinione filosofica o di una concezione individuale qualunque; si tratta di una conoscenza tradizionale, che concerne una realtà di ordine iniziatico, e, proprio in virtù del suo carattere tradizionale, non ha e non può avere alcuna origine cronologicamente assegnabile. Sono, beninteso, considerazioni che possono sfuggire a un ‘erudito’; ma egli dovrebbe almeno capire questo: se la teoria in questione fosse stata ‘costruita dai pitagorici’, come spiegare il fatto che essa si trova dappertutto, al di fuori di ogni influenza greca, e in particolare nei testi vedici, che sono sicuramente di molto anteriori al pitagorismo? Anche questo, Carcopino, in quanto ‘specialista’ dell’antichità greco-latina, può sfortunatamente ignorarlo; ma, da quel che riferisce egli stesso in seguito, risulta che tale dato si trova già in Omero; dunque, anche presso i Greci essa era conosciuta, non diremo solo prima di Numenio, cosa fin troppo evidente, ma prima dello stesso Pitagora; si tratta di un insegnamento tradizionale che si è trasmesso in modo continuo attraverso i secoli, e poco importa la data forse ‘tardiva’ alla quale certi autori, che non hanno inventato nulla e non ne hanno mai avuto la pretesa, l’hanno formulato per iscritto in modo più o meno preciso.

 

Detto questo, torniamo a Proclo e a Porfirio: «I nostri due autori concordano nell’attribuire a Numenio la determinazione dei punti estremi del cielo, il tropico d’inverno, sotto il segno del Capricorno, e il tropico d’estate, sotto quello del Cancro, e nel definire, evidentemente sulle sue tracce, e sulle tracce dei ‘teologi’ che egli cita e che gli sono serviti da guide, il Cancro e il Capricorno come le due porte del cielo. Sia per discendere nella generazione, sia per risalire a Dio, le anime dovevano quindi necessariamente varcare una di esse». Per «punti estremi del cielo», espressione un po’ troppo ellittica per essere perfettamente chiara da sola, bisogna naturalmente intendere qui i punti estremi raggiunti dal sole nella sua corsa annuale, dov’esso in certo modo si arresta, da cui il nome di ‘solstizi’; a tali punti solstiziali corrispondono le due ‘porte del cielo’, il che è appunto esattamente la dottrina tradizionale che già conosciamo. Come abbiamo indicato altrove, 2 questi due punti erano talora simboleggiati – per esempio sotto il tripode di Delfi e sotto gli zoccoli dei corsieri del carro solare – dal polipo e dal delfino, che rappresentano rispettivamente il Cancro e il Capricorno. Inutile dire, d’altra parte, che gli autori in questione non hanno potuto attribuire a Numenio la determinazione stessa dei punti solstiziali, che erano noti da sempre; si sono semplicemente riferiti a lui come a uno di coloro che ne avevano parlato prima di loro, e come egli stesso si era già riferito ad altri ‘ teologi’.

 

Si tratta poi di precisare il ruolo proprio di ciascuna delle due porte, ed è qui che nasce la confusione:, «Secondo Proclo, Numenio le avrebbe rigidamente specializzate: per la porta del Cancro, la caduta delle anime sulla terra; per quella del Capricorno, l’ascensione delle anime nell’etere. In Porfirio, invece, è detto soltanto che il Cancro è a nord e favorevole alla discesa, il Capricorno a sud e favorevole alla salita: di modo che invece di essere strettamente assoggettate al ‘senso unico’, le anime avrebbero conservato, sia all’andata che al ritorno, una certa libertà di circolazione». La fine di questa citazione esprime, a dire il vero, un’interpretazione di cui conviene lasciare tutta la responsabilità a Carcopino; non vediamo assolutamente in cosa quel che dice Porfirio sarebbe ‘contrario’ a quel che dice Proclo; forse è formulato in modo un po’ più vago, ma sembra di fatto voler dire in fondo la stessa cosa: ciò che è «favorevole» alla discesa o alla salita deve probabilmente intendersi come ciò che la rende possibile, poiché non é molto verosimile che Porfirio abbia voluto lasciar sussistere in tal modo una specie di indeterminazione, il che, essendo incompatibile con il carattere rigoroso della scienza tradizionale, non sarebbe in ogni caso in lui che una pura e semplice prova d’ignoranza su questo punto. Comunque, è visibile che Numenio non ha fatto altro che ripetere, sulla funzione delle due porte, l’insegnamento tradizionale conosciuto; d’altra parte, se egli pone, come indica Porfirio, il Cancro a nord e il Capricorno a sud, evidentemente egli considera la loro posizione nel cielo; lo indica d’altronde abbastanza chiaramente il fatto che, in quel che precede, sono in questione i ‘ tropici ‘, che non possono avere altro significato oltre quello, e non i ‘ solstizi’, che si riferirebbero invece più direttamente al ciclo annuale; e per questo la posizione qui enunciata è inversa a quella data dal simbolismo vedico, senza tuttavia che ciò costituisca alcuna differenza reale, giacché si tratta di due punti di vista ugualmente legittimi, che si accordano perfettamente fra di loro se si è capito il loro rapporto.

 

Ma vedremo qualcosa di ancor più straordinario: Carcopino continua dicendo che «è difficile, in mancanza dell’originale, trarre da queste allusioni divergenti», ma che in realtà, dobbiamo aggiungere noi, sono divergenti solamente nel suo pensiero, «la vera dottrina di Numenio», che, abbiamo visto, non è la sua propria dottrina, ma soltanto l’insegnamento da lui riferito, cosa d’altronde più importante e più degna d’interesse; «ma risulta dal contesto di Porfirio che, anche esposta sotto la sua forma più elastica» – come se potesse esserci «elasticità» in un problema che è unicamente una questione di conoscenza esatta – «essa resterebbe in contraddizione con quelle di certi suoi predecessori, e, in particolare, con il sistema che alcuni più antichi pitagorici avevano fondato sulla loro interpretazione dei versi dell’Odissea in cui Omero ha descritto la ‘ grotta d’Itaca’», cioè quell’‘antro delle Ninfe’ che non è altro se non una delle raffigurazioni della ‘caverna cosmica’ di cui abbiamo parlato in precedenza. «Omero, annota Porfirio, non si è limitato a dire che la grotta aveva due porte. Egli ha specificato che una era volta al lato nord, e l’altra, più divina, al lato sud, e che si discendeva dalla porta a nord. Ma non ha indicato se si poteva scendere per la porta a sud. Dice solo: è l’entrata degli dèi. Mai l’uomo prende il cammino degli immortali». Pensiamo che questo dev’essere il testo stesso di Porfirio, e non vi vediamo la contraddizione annunciata; ma ecco ora il commento di Carcopino: «Secondo questa esegesi, si scorgono, in quel compendio, dell’universo che è l’antro delle Ninfe, le due porte che s’innalzano ai cieli e sotto le quali passano le anime, e, al contrario del linguaggio che Proclo mette in bocca a Numenio, quella a nord, il Capricorno, fu dapprima riservata all’uscita delle anime, e quella a sud, il Cancro, fu di conseguenza assegnata al loro ritorno a Dio».

 

Ora che abbiamo completato la citazione, possiamo facilmente renderci conto che la pretesa contraddizione, anche qui, esiste solo secondo Carcopino; c’è infatti nell’ultima frase un errore evidente, e persino un duplice errore, che sembra veramente inspiegabile. Anzitutto, è Carcopino che aggiunge di propria iniziativa la menzione del Capricorno e del Cancro; Omero, a quanto dice Porfirio, designa le due porte solo per mezzo della loro posizione a nord o a sud, senza indicare i segni zodiacali corrispondenti; ma, siccome precisa che la porta «divina» è quella a sud, bisogna concludere che è questa che corrisponde per lui al Capricorno, esattamente come per Numenio, vale a dire che anch’egli situa le due porte secondo la loro posizione nel cielo, e tale sembra quindi esser stato, in genere, il punto di vista dominante in tutta la tradizione greca, anche prima del pitagorismo. Inoltre, l’uscita delle anime dal ‘cosmo’ e il loro ‘ritorno a Dio’ sono propriamente una sola e identica cosa, di modo che Carcopino attribuisce, apparentemente senza accorgersene, lo stesso ruolo a entrambe le porte; Omero dice, tutto al contrario, che per la porta a nord si effettua la ‘discesa’, cioè l’entrata nella ‘caverna cosmica’ o, in altri termini, nel mondo della generazione e della manifestazione individuale. In quanto alla porta a sud, essa è l’uscita dal ‘cosmo’, e, di conseguenza, per essa si effettua la ‘salita’ degli esseri in via di liberazione; Omero non dice espressamente se si può anche scendere per tale. porta, ma ciò non è necessario, poiché, designandola come «entrata degli dèi», egli indica a sufficienza quali siano le ‘discese’ eccezionali che vi si effettuano, conformemente a quanto abbiamo spiegato nel nostro studio precedente. Insomma, che la posizione delle due porte sia considerata in rapporto al cammino del sole nel cielo, come nella tradizione greca, o in rapporto alle stagioni nel ciclo annuale terrestre, come nella tradizione indù, è sempre il Cancro a essere la ‘ porta degli uomini’ e il Capricorno la ‘porta degli dèi’; non può esserci in questo alcuna variazione e di fatto non ve n’è alcuna; è solo l’incomprensione degli ‘eruditi’ moderni che crede di scoprire, nei vari interpreti delle dottrine tradizionali, divergenze e contraddizioni che non vi si trovano.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento