LA NOTIZIA STORICA SUL R.S.A.A.

LA NOTIZIA STORICA SUL R.S.A.A.

fornita dal Pyron, Segretario del Sacro Impero del S. C. di Francia,

pubblicata nell’ “Estratto dal libro d’oro del S. C. di Francia”

nel 1813

Lavoro originale di ricerca e traduzione a cura di

 

Giuseppe Vatri

 

che ne autorizza la pubblicazione su questo sito

 

Il Sovrano Grande Ispettore Generale Pyron, segretario del Sacro Impero, ha dato, in forma di istruzione, una Notizia sulla Libera Mur(atoria) e sulla fondazione dei Supremi Consigli del trentatreesimo grado.

NOTIZIA

L’origine della Libera Muratoria risale alla costruzione del primo tempio di Gerusalemme, sotto il regno di Salomone, l’anno del mondo 2992, 1012 anni prima della nascita del Cristo.

 

La descrizione dei segni mistici per le iniziazioni, le sofferenze dei Muratori sotto i successori di Salomone, il racconto storico del fuoco sacro nascosto da Geremia e ritrovato da Neemia, sono consacrati in differenti capitoli della Bibbia.

 

Di tutte le istituzioni divine e umane, la Muratoria è per noi la migliore, perché tutti i sui atti, concentrati nelle parabole, e rappresentati con dei geroglifici, hanno una tendenza continua verso la pratica delle virtù innate nel cuore dell’uomo, che lo richiamano senza posa al principio della legge divina e naturale, ne alteri feceris quod tibi fieri non vis (1).

 

La Muratoria non è solo contemplativa, essa è anche attiva verso l’umanità sofferente; ed i suoi emblemi lugubri nel terzo grado simbolico non sono che un linguaggio mistico per esprimere che il vero Muratore è colmo di dolore, quando considera come l’universalità degli uomini non sia perfettamente felice.

 

I Muratori stessi non sono sempre stati felici! Dopo la distruzione del terzo tempio, i più zelanti si ritirarono nella Tebaide, dove presero il nome di Kadosh, o Santi; essi coltivarono, nel ritiro, le conoscenze che i loro antenati avevano loro trasmesso e, aggiungendovi la scienza degli antichi misteri, dei quali Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone, Virgilio, avevano divulgato la dottrina; è infatti a questi ultimi che si deve la conservazione delle alte scienze.

 

Dopo le crociate, la loro scienza fu trasportata in Oriente, dove si formarono Arnaldo di Villanova, Raimondo Lullo, Ruggero Bacone, Tommaso d’Aquino, ed altri sapienti che hanno reso illustre la Muratoria.

 

Le disgrazie dei tempi relegarono di nuovo una gran parte dei Muratori nei deserti della Tebaide, dove i loro successori coltivano ancora oggi le scienze che sono state loro trasmesse; altri si rifugiarono in Scozia, e si riunirono all’Ordine dei Cavalieri di Sant’Andrea che si era formato, in Palestina, a partire da gentiluomini Scozzesi. Essi vi presero il nome di Muratori Liberi e Accettati. Giacomo VI, re di Scozia, fu uno dei loro Grandi Maestri, e trasportò la loro Loggia a Edimburgo. Presto la Muratoria si sparse in tutta Europa: tutti i grandi vollero farsi ammettere alla antiche Iniziazioni d’Egitto, di Palestina, di Grecia, e nei nuovi misteri che facevano loro seguito.

 

Dal 936, la Muratoria aveva preso consistenza in Inghilterra.

 

Nel 1327, EDOARDO III ne aveva riconfermato le Costituzioni.

 

Nel 1425, ENRICO VI fu ammesso nell’Ordine.

 

Ma i segreti dell’Ordine rimasero chiusi tra pochissime persone le quali, legate dal loro giuramento, concordarono di non accordarne la conoscenza che a coloro che avessero meritato di conoscere quelle tradizioni.

 

Da ciò, deriva questa diversità dei riti, questa moltitudine di gradi, che dividono, per così dire, la Libera Muratoria in altrettanti dogmi che gradi.

 

Il Nord ha i suoi istituti, le sue parole, i suoi segni e toccamenti particolari; e questi stessi istituti sono ancora divisi in differenti sfumature.

 

La Scozia, uno dei primi asili dei Muratori rifugiatisi, ha ugualmente la sua propria particolare Muratoria.

 

L’Irlanda, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’America Inglese, l’America Francese, l’Italia, e il suo Mezzogiorno, hanno così i loro dogmi, i loro segni, le loro parole e toccamenti.

 

La stessa Francia ha sul suo territorio sistemi dogmatici differenti.

 

Ciascuna di queste potenze Muratorie pretende di possedere in esclusiva la scienza ed i misteri dei primi Muratori, cosa che rende la Muratoria in qualche modo straniera a se stessa a causa delle difficoltà che essa esperimenta nelle sue comunicazioni.

 

In tutti questi differenti sistemi dogmatici, ve ne è uno che appare concentrato in una liturgia più vicina alla Muratoria primitiva e a tutto ciò che appartiene alla Alta Muratoria professata sui due emisferi: questo dogma è quello conosciuto sotto il nome di Rito Scozzese Antico e Accettato, che contiene tutto insieme la simbolica e la mistica di tutti i Riti, le scienze filosofiche, ermetiche e cabalistiche, gli istituti della perfezione e della saggezza; infine, tutto ciò che si designa con il nome di Muratoria antica, di Muratoria moderna e di Muratoria rettificata.

 

CARLO EDOARDO, ultimo rampollo degli Stuart, fu il capo della Muratoria antica e moderna. Egli designò, come Gran Maestro e suo successore, FEDERICO II re di Prussia.

 

FEDERICO II accordò alla Muratoria una protezione particolare: essa era l’oggetto di tutta la sua sollecitudine.

 

A quell’epoca, il Rito scozzese antico e accettato non era composto che dai venticinque gradi dei quali il Prin(cipe del) R(eal) S(egreto) era l’ultimo.

 

Dei progetti di rinnovamento, delle discussioni sollevate in Germania del 1782, gli fecero temere che la Muratoria non divenisse la preda dell’anarchia di coloro che, sotto il nome di Muratori, avrebbero potuto tentare di degradarla, di avvilirla, di lavorare alla sua distruzione.

 

FEDERICO prevedendo, nel 1786, che la sua vita non sarebbe più durata a lungo, concepì il progetto di concentrare il sovrano potere Muratorio del quale era rivestito, in un Consiglio di Grandi Ispettori Generali, i quali, dopo la sua morte, potessero regolare, conformemente alla costituzione e agli Statuti, il governo della Alta Muratoria.

 

Il primo maggio 1786, egli portò a trentatré gradi la gerarchia dei gradi del Rito Scozzese antico e accettato, che era allora limitata a venticinque. Diede al trentatreesimo grado il nome di Potente e Sovrano Grande Ispettore Generale. La potenza data a questo grado, e destinata a reggere e governare il Rito, fu concentrata in un Sovrano Capitolo, sotto il nome e titolo di Supremo Consiglio dei Sovrani Grandi Ispettori Generali, trentatreesimo e ultimo grado del Rito.

 

Il grado di Princ(ipe) del R(eal) S(segreto) che, all’epoca del 1786, era investito della potenza del Rito, fu allora classificato come trentaduesimo ed il suo potere sparì per fare posto a quello dei Sovrani Grandi Ispettori Generali.

 

Il primo maggio 1786, FEDERICO ne fissò Costituzioni, Statuti e Regolamenti.

 

L’articolo 5 dice, che non ci sarà che un solo Consiglio di questo Grado in ogni Nazione o Reame in Europa; due negli Stati Uniti d’America; uno nelle Isole Inglesi e uno nelle Isole Francesi.

 

Ogni Consiglio non può essere composto che da nove Membri; ma l’estensione dell’Impero Francese ne ha fatto portare i membri a ventisette.

 

L’articolo 8 vuole, che dopo la morte di FEDERICO II, i Supremi Consigli siano i sovrani della Muratoria.

 

Di conseguenza è detto, all’articolo 12, che i Supremi Consigli eserciteranno, in ogni Nazione o Reame nel quale saranno stati stabiliti, tutti i poteri Muratori dei quali FEDERICO II era rivestito.

 

Poiché ogni nazione è indipendente da tutte le altre nel Governo civile, FEDERICO aveva pensato che fosse più giusto che ognuna possedesse entro se stessa una Alta Corte Muratoria al di sopra della quale non vi fosse appello; e questa politica sarebbe risultata gradita ad ogni governo Muratorio, perché non sarebbero potute esistere sovrapposizioni di poteri.

 

Uno spirito di invasione e di infrazione alle Costituzioni del 1786 ha tuttavia elevato, ben di recente, delle pretese contrarie. Il Supremo Consiglio di Francia se ne è lamentato! una Circolare del 14 settembre scorso, un Decreto del 30 gennaio seguente, ed infine una Circolare dello stesso giorno, che è stata inviata a tutte le Logge ed i Capitoli di Francia, ed ai Grandi Orienti esteri, fermeranno lo sguardo dei Muratori e li richiameranno alla Sovrana Potenza e alle Costituzioni del 1786.

 

Dall’ Estratto dal Libro d’Oro del Supremo Consiglio di Francia, 1813.

 

 

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KIPLING, L’EQUIVOCO DELL’IMPERIALISMO

KIPLING, L’EQUIVOCO DELL’IMPERIALISMO

Franco Cuomo

 

Ricorre quest’anno il centenario della prima edizione del romanzo “Kim” di Rudyard Kipling. Ricordiamo qui di seguito lo scrittore, che fu maestro massone, con un approfondimento dell’opera nei suoi aspetti più significativi e controversi. Un incontro in omaggio a Kipling si terrà a Trieste il 20 febbraio per iniziativa dell’ARS, Associazione di Ricerche Storiche.

 

L’errore da evitare nell’accostarsi all’opera di Kipling è quello di lasciarsi condizionare dall’urgenza di ricercarne gli spunti ideali. Non perché non ve ne siano – al contrario, ne è piena – ma perché qualsiasi tentativo d’interpretarli è al novanta per cento destinato a produrre effetti fuorvianti. Per due motivi. Primo: le medesime attribuzioni idealistiche, riferite alle storie di Kipling, producono reazioni opposte a seconda del momento e dei punti di vista da cui le si mette a fuoco. Essere definito “poeta dell’imperialismo”, ad esempio, poteva suonare come una nota di merito fino alla vigilia dell’ultimo conflitto mondiale (“una definizione appropriata”, scriveva un ingenuo critico degli anni ‘20, destinata a “viaggiare di bocca in bocca… senza invecchiare o logorarsi”). Oggi, invece, per una naturale evoluzione del giudizio storico, ha un’apparenza disonorevole. Secondo motivo: l’etica di Kipling corrisponde a regole che sfuggono a un comune metro di giudizio, indipendentemente dal tentativo di ritrovarvi connivenze morali con il colonialismo vittoriano, per il semplice fatto ch’egli è un massone britannico, rigorosamente fedele a un sistema di valori che è per sua naturainiziatico, quindi incomunicabile a chi non ne possiede la chiave. Per quanto concerne in specie il rapporto tra la Libera Muratoria e l’universo di Kipling – in termini specificamente storici, non morali – non si possono ignorare le modalità che caratterizzarono il processo di formazione di una massoneria autoctona in estremo oriente. Un processo lento e complesso, con implicazioni problematiche, spesso inquietanti per uno spirito libero, poiché la massoneria penetrò in quelle contrade al seguito di eserciti coloniali, di mercanti, di tecnici occidentali. Così, per quanto riguarda in specie i massoni inglesi, non si può dimenticare il discrimine che si trovarono costretti ad applicare nelle loro logge coloniali rispetto a quei culti incompatibili con la massoneria, respingendo – o accogliendo con molta cautela – i nativi aderenti a religioni nelle quali la credenza nell’Essere Supremo non fosse così esplicita come nella tradizione monoteistica cristiana, ebraica, islamica. Un discrimine equivocabile in certi casi per razzismo, ma che obbiettivamente non lo era, anche se poteva assumerne la connotazione in apparenza. All’epoca di Kipling, d’altronde, questo discrimine poteva dirsi in buona misura superato, poiché a partire dal 1860 furono ammessi nella massoneria indiana gli adepti della cultura indù. Grazie soprattutto al movimento di riforma religiosa del Brahmo Samaj – di iniziativa quindi del popolo indiano – volto a rilanciare gli aspetti monoteistici della tradizione indù. Ma grazie anche alla saggezza del venerabile della loggia Meridian Lodge n.345, angloindiana, che volle iniziare per la prima volta un brahmano rilevando come dietro le rifrangenze mitologiche dell’induismo – apparentemente politeistiche – c’era lo spirito unitario del Brahma vedico. Il problema, naturalmente, non si poneva per gli indiani di religione islamica e per quelli della comunità sikh, credenti per antichissima tradizione in un Essere Supremo. Più complesso sarebbe il discorso per il buddismo, date le differenze esistenti tra Grande Veicolo (Mahayama) e Piccolo Veicolo (Hinayama), negatore quest’ultimo di un principio creatore divino ; e per certi altri culti dell’India, come lo jainismo, portatore di una visione ascetico-eroica dell’universo, quale risultato dell’opera congiunta di anime superiori sulla materia increata. Né si può dire che l’intransigenza inglese nei confronti di questi culti non fosse in qualche modo giustificata, poiché da una certa apertura nei loro confronti finirono per derivare forme discutibili di co-masonry (massoneria mista), lontane dallo spirito massonico originario. E’ tuttavia innegabile che al di là della necessità del discrimine un certo pregiudizio britannico dovette in certa misura giocare nell’enfatizzare queste difficoltà anche laddove si sarebbero potute superare. Non si spiega altrimenti perché mai la Gran Loggia dell’India abbia ricevuto il riconoscimento soltanto nel 1961 (per essere poi disconosciuta nuovamente, come si sa, in questi ultimi anni). Non è superfluo comunque ricordare che fu proprio un venerabile proveniente dal movimento Brahmo ad iniziare il giovane Kipling alla massoneria. Rudyard Kipling venne iniziato nella loggia Hope and perseverance n.1 di Punjab, in India, nel 1886 (quindi giovanissimo, tanto che fu necessaria una dispensa speciale, non avendo compiuto ventuno anni). Risulta da documentazione certa che gli fu conferito il grado di maestro all’atto stesso dell’iniziazione e che fu in seguito venerabile dell’importante loggia di Lahore. Ebbe accesso un anno dopo ai gradi superiori. Ricevette nell’87 il Grado del Marchio e nell’88 quello di Royal Ark Mariner. E’ lo stesso Kipling a fornire ampie indicazioni sulla sua attività massonica in una realtà coloniale segnata, come quella indiana, da pesanti differenze, non solo di razza, ma di casta. Nella poesia Mother Lodge parla di uomini che nell’intimità del “tempio” si chiamano tra loro “fratelli”, mentre all’esterno si salutano dicendosi formalmente: “Sir, sergente, sahib, salaam”. E’ significativo, in relazione a quanto si è detto sulla difficoltà d’incontro e integrazione tra la massoneria e le culture indigene. Più specificamente, nel racconto L’uomo che volle farsi re (dal quale venne tratto un film con Sean Connery e Michael Caine) spiega in termini quasi didascalici come non si debba usare la massoneria a fini di potere. Anche qui lo scenario coloniale diventa uno sfondo di straordinaria efficacia didascalica. La trama racconta di due soldati inglesi che raggiungono l’impervia regione del Kafristan per fondarvi un proprio regno, modellato secondo la struttura di una Loggia, ritenendo che le regole massoniche possano servire a dominare la popolazione indigena. Ma la gente del luogo già conosce i segreti dell’Arte reale e l’intento dei due avventurieri fallirà per il distorto uso ch’essi intendono fare di un potere incompatibile con interessi profani. Comunque lo si voglia interpretare, questo racconto non è certo animato da spirito imperialista. Anzi, contrasta in maniera radicale con le accuse ricorrenti dei detrattori di Kipling. Ma anche in maniera meno esplicita, meno evidente talvolta, i grandi principi d’ispirazione muratoria sono sempre presenti nelle opere più note di Kipling, come Kim e i due Libri della giungla, dove i rapporti tra le creature non soltanto umane rispondono a finalità di armonia universale. Il che non è sempre facile da cogliere, nonostante l’apparente semplicità del testo, poiché spesso la descrizione scorre in funzione di una contingenza storica immediata e particolare, dalla quale scaturisce l’equivoco della vocazione imperialista di Kipling. Per esempio, si voluto intravedere nel brano che segue l’intento, da parte dell’autore, d’imporre anche alla giungla la mistica del militarismo coloniale britannico: – Ma gli animali sono intelligenti come gli uomini? – Essi obbediscono come gli uomini: il mulo, il cavallo, l’elefante e il bue, tutti obbediscono al loro conducente, e questo al suo sergente, e il sergente al suo tenente, il tenente al suo capitano, il capitano al suo maggiore, il maggiore al suo colonnello, il colonnello al comandante della brigata, che comanda tre reggimenti, e il comandante della brigata al suo generale, il generale al viceré, che è al servizio della regina. C’è chi ha preteso di leggere questa tirata in un’ottica imperialista, attribuendole fini apologetici di quell’ordine gerarchico grazie al quale ogni azione, ogni evento provocato e ordinato dall’uomo – anche la fatica degli animali – diventa funzionale all’interesse dell’Inghilterra. C’è chi ne ha tratto la conclusione che per Kipling uomini e bestie debbano essere, perché il loro ruolo sia compiuto, “al servizio della regina”. Ma è un’interpretazione riduttiva, rispetto a quella più nobile, più aderente ad una visione divina e al tempo stesso razionale del mondo, secondo la quale ogni evento è armonicamente collegato a tutti gli altri. E’ questa, con ogni probabilità, l’idea centrale dell’universo “coloniale” di Kipling, della sua giungla pensante, delle sue regole dall’apparenza elementare ma dallo spirito spesso imperscrutabile. Ed è da questo che nasce probabilmente il malinteso al quale non seppero sottrarsi nemmeno i dotti che gli conferirono nel 1907 il Premio Nobel, motivandolo come riconoscimento “all’opera più segnata d’indirizzo idealistico”. Ma il Nobel di massone è lo stesso Kipling a darselo da solo, per coloro che seppero leggerlo tra le righe di If, la più popolare delle sue poesie, quando nomina gli “utensili logori” con i quali il perdente deve ricostruire il suo destino.

 

 

 

 

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IL LABORATORIO

NOTE SU PITAGORA
IL LABORATORIO
N. 34
GENNAIO-FEBBRAIO 1998
Pitagora è un personaggio circondato da un alone di mistero e di ammirazione, che è stato preso a modello etico, intellettuale e spirituale da generazioni di uomini, ma è un modello sfaccettato, tanto nebuloso sotto certi aspetti, quanto nitido e ineccepibile sotto tanti altri. Per questo, certi lati della vita e dell’insegnamento mi pare che offrano ancora motivo di riflessione.
Pitagora nacque a Samo, dal tagliatore di pietre Mnesarco e visse in un arco di tempo che si può inquadrare fra il 580 ed il 490 a.C. Sembra che abbia viaggiato moltissimo, entrando in contatto con la cultura e la sapienza di molteplici popoli. I suoi insegnamenti, come quelli di altri grandi maestri, non furono mai scritti da lui, ma diffusi e tramandati solo oralmente. Tuttavia, si può ritenere che la sua dottrina si sia mantenuta integra fino alla metà del V sec. a.C. quando, secondo Polibio, cominciarono le persecuzioni. L’episodio più grave fu l’eccidio di Crotone, dove furono arsi vivi tutti gli adepti presenti e si salvarono, perché assenti, soltanto Lisida che si recò a Tebe e Archippo che andò a Taranto, dando origine a quelle scuole iniziatiche. Fin qui la dottrina di Pitagora può considerarsi sufficientemente pura, perché le interpretazioni personali dei discepoli erano ancora rare, essendo fortissimo l’ossequio all’autorità del Maestro: il famoso “ipse dixit”. Poi Filolao, scrivendo, ruppe lo “arcanum pitagoricum”.
Il primo pitagorismo trasse origine sicuramente dal mondo della Scienza dei Misteri. Dato che la sua dottrina spaziava da un campo all’altro delle conoscenze e del pensiero, si ritenne che Pitagora fosse stato iniziato ai Misteri Greci, ma anche a quelli di molte aree del mondo conosciuto. In Siria, per esempio, in Egitto per la metempsicosi, dai caldei e dai fenici dai quali forse derivò le sue teorie sui numeri e sugli astri. Poi anche dai sacerdoti di Zaratustra per quanto riguarda il dominio della catarsi, le norme sulla verità e la purezza. Infine avrebbe avuti contatti con indù, traci, druidici e con i cretesi presso i quali, una volta ammesso ai Misteri Cabirici, sarebbe avvenuta la sua “catabasi”.
È difficile indagare a fondo su tutte queste vicende, ma cerchiamo di individuare la nota caratterizzante del pitagorismo: ha abbracciato in unica sintesi domini di conoscenze diverse, applicando princìpi e sapere iniziatico all’ambito della natura, della musica, della matematica, della scienza e altro, fino a proporre una speciale forma di vita ed ispirare un ben definito ideale politico. Allora, nel determinismo della dottrina pitagorica, più che all’influenza di tante e diverse iniziazioni e più opportuno dar valore agli studi che Pitagora fece presso la “scuola italica” con Anassimandro e Talete, perché forse lì, nacque quell’aspetto caratteristico di applicazione, anche alla realtà visibile, alla natura, del metodo sperimentale, proprio nel campo dell’interiorità, solo alle iniziazioni ed ai misteri.

La Tetractis pitagorica costruita secondo il teorema di Talete

La vita dei pitagorici si svolgeva essenzialmente nei centri iniziatici, il primo dei quali fu fondato da Pitagora a Crotone e da questo si diffusero in altre città della Magna Grecia. Abbiamo notizie abbastanza sicure sulla struttura ed il funzionamento di tali scuole, mirate a creare comunità di adepti e di sapienti, in cui erano ammesse pure le donne, anche se il matrimonio non era incoraggiato. L’insegnamento mirava, prima di tutto, all’elevazione morale degli adepti, per mezzo della rinunzia alla passione e della purificazione del corpo. Da qui le numerose, severe limitazioni: il silenzio nei suoi diversi significati, l’esame di coscienza giornaliero, la comunità dei beni, l’astensione dalle carni, almeno di alcuni animali, la proibizione di certi vegetali ed altre. La vita ascetica era rivolta all’elevazione dell’anima che se, durante la temporanea unione al corpo, si manteneva immune da corruzione, poteva tornare subito alla sua origine divina e godere della beatitudine suprema: la contemplazione dell’armonia universale. Invece, se si era contaminata di colpe gravi, la condanna era ugualmente immediata, la dannazione definitiva. Ma se le colpe erano più lievi, l’anima usufruiva di prove di appello con reincarnazioni in animali e vegetali, per poter risalire alla sfera divina: da qui l’astensione dei pitagorici da violenze sugli animali e da sacrifici cruenti. Questa dottrina presuppone ovviamente trascendenza e immortalità dell’anima, che è considerata il principio armonizzatore e regolatore delle varie parti e funzioni del corpo, ma che ha anche un’entità autonoma: è “il Numero che muove se stesso”.
L’ammissione era selettiva: erano richieste particolari qualificazioni, tra cui un esame fisiognomico, capace di garantire, attraverso certi caratteri fisici, la predisposizione di un candidato a precisi orientamenti spirituali ed intellettuali. Gli ammessi erano divisi in due gruppi: gli exoterici e gli esoterici. Nel primo gruppo si distinguevano tre gradi: Uditori, Parlatori, Matematici. Nel primo grado – importantissimo – vigeva la disciplina del silenzio. L’adepto doveva solo ascoltare, mai parlare né per discutere, criticare, chiedere spiegazioni. Doveva solo accettare ciò che udiva sulla base dell’autorità del Maestro. Da qui la formula “àutos épha” o “ipse dixit”. Questo è il punto fondamentale dell’intero insegnamento pitagoreo: per un primo momento, le verità devono essere solo ammesse, poi mediante una maturazione silenziosa, verificate, riconosciute per esperienza personale e la sapienza, piano piano, viene acquisita sulla base della propria convinzione diretta, non della dialettica altrui: così diviene patrimonio intimo ed indelebile dell’iniziato. Questo periodo di meditazione autonoma, associato all’osservanza di certe regole di vita, durava dai due ai cinque anni. Accedendo al secondo grado, quello dei Parlatori, il discepolo poteva parlare per domandare, discutere ed esprimere le proprie opinioni. Ma solo nel grado dei Matematici avveniva la partecipazione effettiva alla conoscenza, appresa solo per trasmissione orale, con il linguaggio simbolico.


Il teorema di Pitagora

A questo punto va valutato il significato del termine “Matematica”. Per Pitagora, come poi per Platone, vuole essere una preparazione, un avviamento ad usare lo sguardo interiore rivolgendolo, dalla contemplazione delle cose naturali e mutevoli a ciò che realmente esiste, sempre uguale a se stesso. Si deve anche considerare che non si trattava di una sola scienza, ma di un complesso di scienze “fisiche”, oltre la matematica, la musica, la scienza dei ritmi degli astri, la gnomonica, la cosmologia. Scienze che avevano dell’umano e del divino allo stesso tempo, con un duplice aspetto, interiore ed esteriore, non di carattere empirico, ma metafisico. Erano il punto intermedio, il ponte idoneo al trapasso dall’exoterismo all’esoterismo, alla fase realizzativa iniziatica.
Ma tornando al cammino esoterico, quando l’allievo era giunto ai Matematici aveva da superare un’altra serie di prove, prima di essere ammesso al rapporto diretto con il Maestro, prima di poterne “vedere il volto”: infatti, fino a quel momento, ne udiva solo le parole restandone separato da un tendaggio. A questo punto del rituale, dal simbolismo ben evidente, l’iniziato riceveva la dignità di “Perfetto o Compiuto” (Teleiios) e di “Colui che è da venerare” (Sebastikòs). In tale fase sorgeva “il vincolo del silenzio”, non quello didattico, educativo del novizio, ma come sacro impegno di non comunicare ad alcun prezzo l’insegnamento esoterico. Chiunque trasgredisse l’impegno del silenzio, in qualunque fase del cammino esoterico si trovasse, moriva moralmente e, nella scuola, gli si faceva un cenotafio. Gli esoterici avevano segni simbolici di riconoscimento ed il più importante pare che fosse il Pentagramma.
I pitagorici non vivevano distaccati dal mondo. Gli adepti potevano restare nella scuola e dedicarsi unicamente alle discipline iniziatiche o tornare nella vita ordinaria svolgendo un’attività qualunque, ma restando indelebilmente realizzati. Pitagora espresse anche la sua concezione della politica: il potere doveva essere in possesso di uomini sapienti e questi erano gli iniziati, che ricevevano proprio come ultimo, l’insegnamento dell’esercizio dei pubblici poteri in modo da sapere instaurare un regime non tirannico, ma a carattere oligarchico, su sfondo teocratico e sapientale.
A questo punto è opportuno esaminare il concetto di “numero”, elemento base della dottrina di Pitagora, per il quale il numero non è solo un’entità aritmetica quantitativa, ma anche un principio metafisico qualitativo, è una fase armonica ed inducente armonia, regolando come legge assoluta l’universo e quanto in esso accade. Il numero è l’essenza di tutte le cose, la legge universale che tutto armonizza e governa. Ricordiamo anche, che secondo Pitagora è nella “armonia” che si conciliano tutti gli “opposti”, che incontriamo ovunque e che si configurano proprio come opposizioni numerali. Per esempio, i concetti di illimitato e di limitato sono, da un punto di vista numerico, una semplice opposizione di pari e dispari, opposizione questa che, esaurirebbe la serie dei numeri, senza l’eccezione dell’unità, detta “pariimpari”, perché unita ad un pari dà un dispari e viceversa. Questa “dottrina degli opposti” è fondamentale per i pitagorici. Essi ne individuarono dieci coppie, videro che i due membri costituenti non erano perfettamente uguali e stabilirono che l’ordine dell’universo veniva assicurato da “l’Armonia” che, sotto l’aspetto cosmogonico era l’armonia delle sfere celesti ruotanti attorno al “fuoco centrale”, mentre sotto l’aspetto etico era “l’Anima”, forza unificatrice e ordinatrice delle discordanze della materia corporea. L’anima, in quanto numero che muove se stesso, è forza autonoma ed assume, in una scala di valori metafisici, ordinati sul grado di armonicità, una posizione intermedia e mediatrice fra il numero inferiore della realtà corporea ed il numero superiore dell’Armonia Superiore della monade divina.


La sezione aurea

È quindi con la combinazione della dottrina degli opposti con quelle dell’armonia e del numero che si compone l’unità della filosofia pitagorica, perché l’armonia in cui i contrasti si annullano, elimina l’urto dei pluralismi rappresentato dagli stessi opposti.
Ma cerchiamo di vedere perché “il numero è base di tutto”. Pitagora, fondatore dell’acustica, facendo i suoi esperimenti con il monocordo, che permette di ottenere suoni diversi a seconda della lunghezza della corda stessa messa in tensione, giunse a scoprire il rapporto fra altezza del suono e lunghezza della corda vibrante, stabilendo una conformità con leggi esprimibili numericamente di un fatto, fino ad allora constatato solo dall’orecchio. Così, anche se non poté contare le vibrazioni, scopri il rapporto numerico che intercorre fra numeri separati da intervalli di ottava, di quinta e di quarta, fissando le leggi armoniche dei principali accordi. Se l’acustica e cioè la musica, era suscettibile di una determinazione numerica, così doveva essere anche per tutti gli altri fenomeni naturali. Perciò i pitagorici individuarono l’elemento primordiale, di tutte le cose fisiche, nel punto che fecero corrispondere all’unità, elemento numerico, ed il numero divenne lo “arkè”, cioè il principio di tutte le cose. In un periodo storico, in cui ci si orientava già verso l’idealismo platonico, non fu difficile considerare il numero come essenza anche delle entità ideali come l’Amore, l’Amicizia, la Bellezza, la Giustizia. Questa concezione metafisica dovette, per forza, riflettersi nella pratica e mostrare l’armonia anche come ideale etico della condotta umana, la mèta della perfezione morale, così come portare all’identificazione della beatitudine suprema, promessa all’anima purificata, nella “Armonia Universale”.
Alla luce di queste dottrine cambia la filosofia del numero, ereditata da filosofie precedenti. Il 3 è un numero sacro, perché contiene il principio, la metà e la fine; il 10 è sacro e perfettissimo, perché è la somma dei quattro primi numeri, che rappresentano, in fisica, i quattro elementi e, in geometria, il punto, la linea, la superficie ed il corpo espressi graficamente sotto forma di punti allineati e sovrapposti a formare un triangolo equilatero, chiamato “tetrakis” perché la misura dei lati è quattro, figura sacra sulla quale i pitagorici facevano i loro giuramenti.


Il Tetraedro: primo dei cinque poliedri platonici

Un cenno rapidissimo alla cosmologia pitagorica, per ricordare come quella Scuola ebbe intuizioni precocissime confermate talvolta addirittura dopo millenni: la sfericità della terra, la sua rivoluzione attorno ad un centro, abolendo il geocentrismo per sostituirlo con quello che sarà l’eliocentrismo, la rotazione sul proprio asse della Terra. Non è neppure il caso di sfiorare l’importanza delle teorie di Pitagora e dei pitagorici nella storia della matematica.

Rolando Brogelli


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LE (GRANDI) COSTITUZIONI LATINE

LE (GRANDI) COSTITUZIONI LATINE

DEL 1786

 

avoro origine di ricerca e traduzione a cura di

Giuseppe Vatri

che ne autorizza la pubblicazione su questo sito

 


RA INSTITUTA SECRETA ET FUNDAMENTA ORDINIS

VETERUM STRUCTORUM LIBERORUM

AGGREGATORUM

ATQUE

CONSTITUTIONE MAGNAE

ANTIQUI ACCEPTI RITUS SCOTICI

Anni MDCCLXXXVI

UNIVERSI TERRARUM ORBIS SUMMI ARCHITECTONIS

GLORIA AB INGENIIS

NUOVI ISTITUTI SEGRETI E BASI FONDAMENTALI

della antichissima e rispettabilissima Società dei Muratori Antichi Riuniti, conosciuta sotto il nome di Ordine Reale e Militare della libera arte dei tagliatori della pietra.

Noi, FEDERICO, per grazia di Dio, Re di Prussia, Margravio di Brandeburgo, ecc. ecc. ecc.

Sovrano Gran Protettore, Gran Comandante, Gran Maestro Universale e Conservatore della antichissima e rispettabilissima Società degli Antichi Liberi Muratori o Architetti Uniti, altrimenti chiamata l’ORDINE Reale e Militare dell’Arte Libera dei Tagliatori della Pietra o Libera Muratoria:

A TUTTI GLI ILLUSTRI E AMATI FRATELLI CUI QUESTO DOCUMENTO ARRIVERA’:

Tolleranza, Unione, Prosperità

E’ evidente e incontestabile che, fedeli alle importanti obbligazioni che ci siamo imposti nell’accettare il protettorato della antichissima e rispettabilissima Istituzione conosciuta ai nostri giorni con il nome di ORDINE DEGLI ANTICHI LIBERI MURATORI RIUNITI, noi ci siamo applicati, come chiunque sa, a circondarla della nostra particolare sollecitudine.

Questa Istituzione universale, la cui origine risale all’inizio della società umana, è pura nel suo dogma e nella sua dottrina; essa è saggia, prudente e morale nei suoi insegnamenti, nella sua pratica, nei suoi progetti e nei suoi mezzi; essa si raccomanda soprattutto per il suo scopo filosofico, sociale e umanitario. Questa società ha per oggetto l’Unione, la Felicità, il Progresso e il Benessere della famiglia umana in generale e di ogni uomo in particolare. Essa deve dunque lavorare con fiducia ed energia e compiere sforzi incessanti per raggiungere il suo scopo, il solo che essa stessa riconosca degno di se stessa.

Ma nell’andare del tempo, la composizione degli organi della Muratoria e l’unita del primitivo governo, hanno subito dei gravi attentati, causati dai grandi rovesciamenti e dalle rivoluzioni che, mentre cambiavano la faccia del mondo o lo sottomettevano ad un continua vicissitudine, hanno, nelle diverse epoche, sia nell’antichità che nei nostri giorni, disperso gli antichi muratori su tutta la superficie del globo. Questa dispersione ha dato origine a dei sistemi eterogenei che oggi esistono sotto il nome di RITI e il cui insieme costituisce l’ORDINE.

Tuttavia, altre divisioni, nate dalle prime, hanno dato luogo alla organizzazione di nuove società: la maggior parte di queste non hanno nulla in comune con la Arte Libera della Libera Muratoria, salvo il nome di qualche formula conservata dai fondatori, per meglio nascondere i loro segreti progetti – progetti spesso troppo esclusivi, talvolta pericolosi e quasi sempre contrari ai principi e alle sublimi dottrine della Libera Muratoria, tale quali noi li abbiamo ricevuti dalla tradizione.

I dissensi ben noti che queste nuove associazioni hanno suscitato nell’ORDINE e che hanno per troppo tempo fomentato, hanno risvegliato i sospetti e la sfiducia di quasi tutti i Principi, alcuni dei quali lo hanno crudelmente perseguitato.

Alcuni Muratori, di meriti eminenti, sono infine riusciti a placare questi dissensi ed hanno tutti, da lungo tempo, espresso il desiderio che esse fossero oggetto di una deliberazione generale, al fine di provvedere ai modi per impedirne il ripresentarsi e di assicurare il mantenimento dell’ORDINE, ristabilendo l’unità nel suo governo e nella composizione primitiva dei suoi organi, così come la sua antica disciplina.

Condividendo questo desiderio che noi stessi abbiamo provato fin dal giorno nel quale siamo stati completamente iniziati ai misteri della Libera Muratoria, noi non abbiamo potuto nasconderci né il numero, né la natura, né la grandezza reale degli ostacoli che noi avremmo dovuto superare per soddisfare quel desiderio. La nostra prima cura è stata quella di consultare i membri più saggi e più eminenti dell’Ordine in tutti i paesi, sulle misure più adatte da intraprendere per raggiungere un fine così utile, rispettando le idee di ognuno, senza far violenza alla giusta indipendenza dei Muratori e soprattutto alla libertà di opinione che è la prima e la più sacra di tutte le libertà, ma nello stesso tempo la più pronta ad andare in ombra.

Fino al presente, che ci erano stati più particolarmente imposti in quanto Re, gli avvenimenti numerosi e importanti che hanno caratterizzato il nostro regno, hanno paralizzato le nostre buone intenzioni e ci hanno allontanato dallo scopo che ci eravamo imposti. Ormai è al tempo, così come alla saggezza, all’istruzione e allo zelo dei fratelli che verranno dopo di noi, che competerà il compimento ed il perfezionamento di un’opera così grande e così bella, così giusta e così necessaria. E’ a loro che noi lasciamo in eredità questo compito, raccomandando loro di lavorare senza interruzione, ma con pazienza e precauzione.

Tuttavia, nuove e pressanti richieste che, da ogni parte, ci sono state indirizzate, in questi ultimi tempi, ci hanno convinto della necessità di opporre immediatamente una robusta barriera allo spirito di intolleranza, settario, scismatico e anarchico, che alcuni innovatori cercano oggi di introdurre tra i fratelli. I loro progetti hanno maggiore o minore estensione e sono o imprudenti o reprensibili: presentati sotto falsi colori, questi progetti, cambiando la natura dell’Arte libera della Libera Muratoria, tendono a deviarla dal suo scopo e devono necessariamente causare il discredito e la rovina dell’ORDINE. Di fronte a tutto ciò che accade nei reami vicini, noi riconosciamo che un intervento da parte nostra è divenuto indispensabile.

Questa ragione e altre cause non meno gravi ci impongono dunque il dovere di riunire in un solo copro di Muratoria tutti i RITI del Regime SCOZZESE le cui dottrine sono, a parere generale, quasi le stesse che quelle delle antiche Istituzioni che tendono all’identico fine, e che, non essendo che i rami principali di un solo e stesso albero, non differiscono tra loro che per delle formule, ormai conosciute da molti, e che sono facili da conciliare. Questi RITI sono quelli conosciuti sotto i nomi di Rito Antico, di Heredom o di Hairdom, dell’Oriente di Kilwinning, di Sant’Andrea, degli Imperatori di Oriente e di Occidente, dei principi del Real Segreto o di Perfezione, del Rito Filosofico ed infine del Rito Primitivo, il più recente di tutti. Adottando, di conseguenza, come base della nostra riforma salutare, il titolo del primo di questi Riti ed il numero di Gradi della gerarchia dell’ultimo, noi li DICHIARIAMO ora riuniti in un solo ORDINE, il quale, professando il Dogma e le pure Dottrine della antica Libera Muratoria, abbraccia tutti sistemi del Rito Scozzese sotto il nome di RITO SCOZZESE ANTICO ACCETTATO.

La dottrina sarà comunicata ai Muratori in trentatré Gradi, divisi in sette Templi o Classi. Ogni Muratore sarà tenuto a percorrere successivamente ognuno di questi Gradi, prima di arrivare all’ultimo e più sublime; e, per ciascun Grado, dovrà sostenere quell’intervallo di tempo e quelle prove che gli saranno imposte conformemente agli Istituti, Decreti e Regolamenti antichi e nuovi dell’ORDINE, così come nel Rito di Perfezione.

Il primo Grado sarà conferito prima del secondo, questo prima del terzo e così di seguito fino al Grado Sublime – il trentatreesimo ed ultimo – che sorveglierà, dirigerà e governerà tutti gli altri. Un corpo o Riunione di membri in possesso di questo Grado formerà un SUPREMO GRAN CONSIGLIO, depositario del Dogma; il quale sarà il Difensore ed il Conservatore dell’ORDINE che governerà e amministrerà conformemente al presente documento e alle Costituzioni qui di seguito decretate.

Tutti i Gradi dei Riti riuniti, come è detto sopra, dal primo al diciottesimo, saranno classificati tra i Gradi del Rito di Perfezione nel loro ordine rispettivo e, considerando le analogie e le similitudini che esistono tra loro, essi formeranno i diciotto primi Gradi del RITO SCOZZESE ANTICO ACCETTATO; il diciannovesimo Grado ed il ventitreesimo Grado del Rito primitivo formeranno il ventesimo Grado dell’ORDINE. Il ventesimo ed il ventitreesimo Grado del Rito di Perfezione, cioè il sedicesimo ed il ventiquattresimo grado del Rito primitivo, formeranno il ventunesimo e il ventottesimo Grado dell’ORDINE. I PRINCIPI DEL REAL SEGRETO occuperanno il trentaduesimo Grado, immediatamente al di sotto dei SOVRANI GRANDI ISPETTORI GENERALI il cui Grado sarà il trentatreesimo ed ultimo dell’ORDINE. Il trentunesimo Grado sarà quello dei Sovrani Giudici Comandanti. I Grandi Comandanti, Grandi Eletti Cavalieri Kadosh, prenderanno il trentesimo Grado. I Capi del tabernacolo, i Principi del Tabernacolo, i Cavalieri del Serpente di Bronzo, i Principi di Grazia, i Grandi Comandanti del Tempio e i Grandi Scozzesi di Sant’Andrea, comporranno rispettivamente il ventitreesimo, il ventiquattresimo, il venticinquesimo, il ventiseiesimo, il ventisettesimo e il ventinovesimo Grado.

Tutti i Sublimi Gradi di questi stessi Sistemi Scozzesi riuniti saranno, per la loro analogia o la loro identità, distribuiti nelle classi del loro ordine che corrispondono al regime detto del RITO SCOZZESE ANTICO ACCETTATO.

Ma giammai né sotto qualunque pretesto sia, nessuno di questi sublimi Gradi potrà essere assimilato al trentatreesimo e molto Sublime Grado del SOVRANO GRANDE ISPETTORE GENERALE, PROTETTORE E CONSERVATORE DELL’ORDINE, che è l’ultimo del RITO ANTICO ACCETTATO SCOZZESE e, in alcun caso, nessuno potrà godere degli stessi diritti, prerogative, privilegi o poteri dei quali noi investiamo questi Ispettori.

Così noi conferiamo loro la pienezza della potenza suprema e conservatrice.

E, affinché il presente proclama sia fedelmente e per sempre osservato, noi ordiniamo ai nostri Cari, Valenti e Sublimi Cavalieri e principi Muratori di vegliare alla sua esecuzione.

DATO dal nostro Palazzo, a Berlino, il giorno delle Calende – primo – di Maggio, l’anno di Grazia 1786, e del nostro regno il 47m

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NOTE SU PITAGORA

NOTE SU PITAGORA

 

IL LABORATORIO

  1. 34

GENNAIO-FEBBRAIO 1998

 

 

 

 

 

Pitagora è un personaggio circondato da un alone di mistero e di ammirazione, che è stato preso a modello etico, intellettuale e spirituale da generazioni di uomini, ma è un modello sfaccettato, tanto nebuloso sotto certi aspetti, quanto nitido e ineccepibile sotto tanti altri. Per questo, certi lati della vita e dell’insegnamento mi pare che offrano ancora motivo di riflessione.

Pitagora nacque a Samo, dal tagliatore di pietre Mnesarco e visse in un arco di tempo che si può inquadrare fra il 580 ed il 490 a.C. Sembra che abbia viaggiato moltissimo, entrando in contatto con la cultura e la sapienza di molteplici popoli. I suoi insegnamenti, come quelli di altri grandi maestri, non furono mai scritti da lui, ma diffusi e tramandati solo oralmente. Tuttavia, si può ritenere che la sua dottrina si sia mantenuta integra fino alla metà del V sec. a.C. quando, secondo Polibio, cominciarono le persecuzioni. L’episodio più grave fu l’eccidio di Crotone, dove furono arsi vivi tutti gli adepti presenti e si salvarono, perché assenti, soltanto Lisida che si recò a Tebe e Archippo che andò a Taranto, dando origine a quelle scuole iniziatiche. Fin qui la dottrina di Pitagora può considerarsi sufficientemente pura, perché le interpretazioni personali dei discepoli erano ancora rare, essendo fortissimo l’ossequio all’autorità del Maestro: il famoso “ipse dixit”. Poi Filolao, scrivendo, ruppe lo “arcanum pitagoricum”.

Il primo pitagorismo trasse origine sicuramente dal mondo della Scienza dei Misteri. Dato che la sua dottrina spaziava da un campo all’altro delle conoscenze e del pensiero, si ritenne che Pitagora fosse stato iniziato ai Misteri Greci, ma anche a quelli di molte aree del mondo conosciuto. In Siria, per esempio, in Egitto per la metempsicosi, dai caldei e dai fenici dai quali forse derivò le sue teorie sui numeri e sugli astri. Poi anche dai sacerdoti di Zaratustra per quanto riguarda il dominio della catarsi, le norme sulla verità e la purezza. Infine avrebbe avuti contatti con indù, traci, druidici e con i cretesi presso i quali, una volta ammesso ai Misteri Cabirici, sarebbe avvenuta la sua “catabasi”.

È difficile indagare a fondo su tutte queste vicende, ma cerchiamo di individuare la nota caratterizzante del pitagorismo: ha abbracciato in unica sintesi domini di conoscenze diverse, applicando princìpi e sapere iniziatico all’ambito della natura, della musica, della matematica, della scienza e altro, fino a proporre una speciale forma di vita ed ispirare un ben definito ideale politico. Allora, nel determinismo della dottrina pitagorica, più che all’influenza di tante e diverse iniziazioni e più opportuno dar valore agli studi che Pitagora fece presso la “scuola italica” con Anassimandro e Talete, perché forse lì, nacque quell’aspetto caratteristico di applicazione, anche alla realtà visibile, alla natura, del metodo sperimentale, proprio nel campo dell’interiorità, solo alle iniziazioni ed ai misteri.

 

 

La Tetractis pitagorica costruita secondo il teorema di Talete

 

La vita dei pitagorici si svolgeva essenzialmente nei centri iniziatici, il primo dei quali fu fondato da Pitagora a Crotone e da questo si diffusero in altre città della Magna Grecia. Abbiamo notizie abbastanza sicure sulla struttura ed il funzionamento di tali scuole, mirate a creare comunità di adepti e di sapienti, in cui erano ammesse pure le donne, anche se il matrimonio non era incoraggiato. L’insegnamento mirava, prima di tutto, all’elevazione morale degli adepti, per mezzo della rinunzia alla passione e della purificazione del corpo. Da qui le numerose, severe limitazioni: il silenzio nei suoi diversi significati, l’esame di coscienza giornaliero, la comunità dei beni, l’astensione dalle carni, almeno di alcuni animali, la proibizione di certi vegetali ed altre. La vita ascetica era rivolta all’elevazione dell’anima che se, durante la temporanea unione al corpo, si manteneva immune da corruzione, poteva tornare subito alla sua origine divina e godere della beatitudine suprema: la contemplazione dell’armonia universale. Invece, se si era contaminata di colpe gravi, la condanna era ugualmente immediata, la dannazione definitiva. Ma se le colpe erano più lievi, l’anima usufruiva di prove di appello con reincarnazioni in animali e vegetali, per poter risalire alla sfera divina: da qui l’astensione dei pitagorici da violenze sugli animali e da sacrifici cruenti. Questa dottrina presuppone ovviamente trascendenza e immortalità dell’anima, che è considerata il principio armonizzatore e regolatore delle varie parti e funzioni del corpo, ma che ha anche un’entità autonoma: è “il Numero che muove se stesso”.

L’ammissione era selettiva: erano richieste particolari qualificazioni, tra cui un esame fisiognomico, capace di garantire, attraverso certi caratteri fisici, la predisposizione di un candidato a precisi orientamenti spirituali ed intellettuali. Gli ammessi erano divisi in due gruppi: gli exoterici e gli esoterici. Nel primo gruppo si distinguevano tre gradi: Uditori, Parlatori, Matematici. Nel primo grado – importantissimo – vigeva la disciplina del silenzio. L’adepto doveva solo ascoltare, mai parlare né per discutere, criticare, chiedere spiegazioni. Doveva solo accettare ciò che udiva sulla base dell’autorità del Maestro. Da qui la formula “àutos épha” o “ipse dixit”. Questo è il punto fondamentale dell’intero insegnamento pitagoreo: per un primo momento, le verità devono essere solo ammesse, poi mediante una maturazione silenziosa, verificate, riconosciute per esperienza personale e la sapienza, piano piano, viene acquisita sulla base della propria convinzione diretta, non della dialettica altrui: così diviene patrimonio intimo ed indelebile dell’iniziato. Questo periodo di meditazione autonoma, associato all’osservanza di certe regole di vita, durava dai due ai cinque anni. Accedendo al secondo grado, quello dei Parlatori, il discepolo poteva parlare per domandare, discutere ed esprimere le proprie opinioni. Ma solo nel grado dei Matematici avveniva la partecipazione effettiva alla conoscenza, appresa solo per trasmissione orale, con il linguaggio simbolico.

 

 

Il teorema di Pitagora

 

A questo punto va valutato il significato del termine “Matematica”. Per Pitagora, come poi per Platone, vuole essere una preparazione, un avviamento ad usare lo sguardo interiore rivolgendolo, dalla contemplazione delle cose naturali e mutevoli a ciò che realmente esiste, sempre uguale a se stesso. Si deve anche considerare che non si trattava di una sola scienza, ma di un complesso di scienze “fisiche”, oltre la matematica, la musica, la scienza dei ritmi degli astri, la gnomonica, la cosmologia. Scienze che avevano dell’umano e del divino allo stesso tempo, con un duplice aspetto, interiore ed esteriore, non di carattere empirico, ma metafisico. Erano il punto intermedio, il ponte idoneo al trapasso dall’exoterismo all’esoterismo, alla fase realizzativa iniziatica.

Ma tornando al cammino esoterico, quando l’allievo era giunto ai Matematici aveva da superare un’altra serie di prove, prima di essere ammesso al rapporto diretto con il Maestro, prima di poterne “vedere il volto”: infatti, fino a quel momento, ne udiva solo le parole restandone separato da un tendaggio. A questo punto del rituale, dal simbolismo ben evidente, l’iniziato riceveva la dignità di “Perfetto o Compiuto” (Teleiios) e di “Colui che è da venerare” (Sebastikòs). In tale fase sorgeva “il vincolo del silenzio”, non quello didattico, educativo del novizio, ma come sacro impegno di non comunicare ad alcun prezzo l’insegnamento esoterico. Chiunque trasgredisse l’impegno del silenzio, in qualunque fase del cammino esoterico si trovasse, moriva moralmente e, nella scuola, gli si faceva un cenotafio. Gli esoterici avevano segni simbolici di riconoscimento ed il più importante pare che fosse il Pentagramma.

I pitagorici non vivevano distaccati dal mondo. Gli adepti potevano restare nella scuola e dedicarsi unicamente alle discipline iniziatiche o tornare nella vita ordinaria svolgendo un’attività qualunque, ma restando indelebilmente realizzati. Pitagora espresse anche la sua concezione della politica: il potere doveva essere in possesso di uomini sapienti e questi erano gli iniziati, che ricevevano proprio come ultimo, l’insegnamento dell’esercizio dei pubblici poteri in modo da sapere instaurare un regime non tirannico, ma a carattere oligarchico, su sfondo teocratico e sapientale.

A questo punto è opportuno esaminare il concetto di “numero”, elemento base della dottrina di Pitagora, per il quale il numero non è solo un’entità aritmetica quantitativa, ma anche un principio metafisico qualitativo, è una fase armonica ed inducente armonia, regolando come legge assoluta l’universo e quanto in esso accade. Il numero è l’essenza di tutte le cose, la legge universale che tutto armonizza e governa. Ricordiamo anche, che secondo Pitagora è nella “armonia” che si conciliano tutti gli “opposti”, che incontriamo ovunque e che si configurano proprio come opposizioni numerali. Per esempio, i concetti di illimitato e di limitato sono, da un punto di vista numerico, una semplice opposizione di pari e dispari, opposizione questa che, esaurirebbe la serie dei numeri, senza l’eccezione dell’unità, detta “pariimpari”, perché unita ad un pari dà un dispari e viceversa. Questa “dottrina degli opposti” è fondamentale per i pitagorici. Essi ne individuarono dieci coppie, videro che i due membri costituenti non erano perfettamente uguali e stabilirono che l’ordine dell’universo veniva assicurato da “l’Armonia” che, sotto l’aspetto cosmogonico era l’armonia delle sfere celesti ruotanti attorno al “fuoco centrale”, mentre sotto l’aspetto etico era “l’Anima”, forza unificatrice e ordinatrice delle discordanze della materia corporea. L’anima, in quanto numero che muove se stesso, è forza autonoma ed assume, in una scala di valori metafisici, ordinati sul grado di armonicità, una posizione intermedia e mediatrice fra il numero inferiore della realtà corporea ed il numero superiore dell’Armonia Superiore della monade divina.

 

 

La sezione aurea

 

È quindi con la combinazione della dottrina degli opposti con quelle dell’armonia e del numero che si compone l’unità della filosofia pitagorica, perché l’armonia in cui i contrasti si annullano, elimina l’urto dei pluralismi rappresentato dagli stessi opposti.

Ma cerchiamo di vedere perché “il numero è base di tutto”. Pitagora, fondatore dell’acustica, facendo i suoi esperimenti con il monocordo, che permette di ottenere suoni diversi a seconda della lunghezza della corda stessa messa in tensione, giunse a scoprire il rapporto fra altezza del suono e lunghezza della corda vibrante, stabilendo una conformità con leggi esprimibili numericamente di un fatto, fino ad allora constatato solo dall’orecchio. Così, anche se non poté contare le vibrazioni, scopri il rapporto numerico che intercorre fra numeri separati da intervalli di ottava, di quinta e di quarta, fissando le leggi armoniche dei principali accordi. Se l’acustica e cioè la musica, era suscettibile di una determinazione numerica, così doveva essere anche per tutti gli altri fenomeni naturali. Perciò i pitagorici individuarono l’elemento primordiale, di tutte le cose fisiche, nel punto che fecero corrispondere all’unità, elemento numerico, ed il numero divenne lo “arkè”, cioè il principio di tutte le cose. In un periodo storico, in cui ci si orientava già verso l’idealismo platonico, non fu difficile considerare il numero come essenza anche delle entità ideali come l’Amore, l’Amicizia, la Bellezza, la Giustizia. Questa concezione metafisica dovette, per forza, riflettersi nella pratica e mostrare l’armonia anche come ideale etico della condotta umana, la mèta della perfezione morale, così come portare all’identificazione della beatitudine suprema, promessa all’anima purificata, nella “Armonia Universale”.

Alla luce di queste dottrine cambia la filosofia del numero, ereditata da filosofie precedenti. Il 3 è un numero sacro, perché contiene il principio, la metà e la fine; il 10 è sacro e perfettissimo, perché è la somma dei quattro primi numeri, che rappresentano, in fisica, i quattro elementi e, in geometria, il punto, la linea, la superficie ed il corpo espressi graficamente sotto forma di punti allineati e sovrapposti a formare un triangolo equilatero, chiamato “tetrakis” perché la misura dei lati è quattro, figura sacra sulla quale i pitagorici facevano i loro giuramenti.

 

 

Il Tetraedro: primo dei cinque poliedri platonici

 

Un cenno rapidissimo alla cosmologia pitagorica, per ricordare come quella Scuola ebbe intuizioni precocissime confermate talvolta addirittura dopo millenni: la sfericità della terra, la sua rivoluzione attorno ad un centro, abolendo il geocentrismo per sostituirlo con quello che sarà l’eliocentrismo, la rotazione sul proprio asse della Terra. Non è neppure il caso di sfiorare l’importanza delle teorie di Pitagora e dei pitagorici nella storia della matematica.

 

Rolando Brogelli

 

 

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NELL’INERESSE DEI FRATELLI

 

(Una Loggia d’istruzione in tempo di guerra)

Un racconto di Ruyard Kipling

 

 

Stavo acquistando un canarino in un negozio di uccelli quando egli mi rivolse per la prima volta la parola, suggerendomi di comprare un esemplare dal piumaggio giallo meno brillante. “Il colore viene da quello che mangia” disse. “E va via, se non si sa come nutrirli. I canarini sono uno dei miei hobbies”.

Uscì dal negozio prima che potessi ringraziarlo. Era un uomo di mezza età, grigio di capelli, con una corta barba nera, e un aspetto molto simile a quello di un terrier Sealyham con occhiali d’argento. Per qualche motivo, il suo volto e la sua voce mi rimasero impressi così distintamente che, alcuni mesi dopo, quando lo urtai su un marciapiede di stazione gremito dai membri di un Club di pescatori in escursione sul Tamigi, lo riconobbi, mi voltai e lo salutai con un cenno del capo.

“Ho seguito il suo consiglio, per quel canarino” dissi.

“Davvero? Bene” mi rispose cordialmente da sopra la canna da pesca inguainata e appoggiata sulla spalla, prima che la folla ci separasse.

Alcuni anni dopo entrai in un negozio di tabacchi, per farmi pulire una pipa, che si era malamente otturata.

“Bene! Bene! E il canarino come va?” disse l’uomo dietro il banco. Ci scambiammo una stretta di mano, e domandammo all’unisono: “Qual è il suo nome?”.

Lui era Lewis Holroyd Burges, di Burges e Figlio, come avrei potuto vedere sopra la porta, ma il figlio era stato ucciso in Egitto. Aveva i capelli che si erano imbiancati, e gli occhi leggermente infossati. “Bene! Bene! E pensare” disse “tra tutta questa moltitudine di gente, proprio lei doveva riapparire così all’improvviso e in un modo tanto curioso, quando c’è così tanta gente che sparisce per sempre, eh?”. (Fu allora che mi disse della morte del figlio Lewis, e perché il ragazzo era stato battezzato con il nome Lewis.)

“Sì. Adesso non è rimasto molto da fare per una persona di mezz’età. Anche gli hobbies… avevamo l’abitudine di andare a pesca insieme. E lo stesso era per i canarini! Li allevavamo per il colore: la nostra specialità era una sfumatura di arancione vivace. Bene! Bene! E adesso dobbiamo localizzare dov’è l’occlusione nella sua pipa”.

Si curvò sulla pipa fedifraga, e si mise all’opera con la stessa tranquilla perizia di un chirurgo. Un soldato entrò, disse qualcosa a voce bassa, ricevette risposta, e uscì.

“Oggi la maggior parte dei miei clienti sono soldati, e un certo numero di loro appartiene alla Massoneria” disse il signor Burges “Mi si spezza il cuore dare loro il tabacco che mi chiedono. D’altra parte, solo una persona su cinquemila ha un palato educato al tabacco. Certo delle preferenze, ma non un palato educato. Ecco qui di nuovo la sua pipa. Merita un trattamento migliore di quello sinora ricevuto. Vi è una procedura, un rituale in ogni cosa. Le assicuro che sarà il benvenuto, ogni volta che le capiterà di passare qui davanti. Ho un paio di curiosità che forse possono interessarla”.

Uscii dal negozio con in corpo il più raro dei sentimenti – la sensazione che è il solo diritto della giovinezza – ovvero che probabilmente avevo incontrato un amico. A poca distanza dall’ingresso fui accostato da un ferito in convalescenza, che mi chiese del negozio di Burges. Pareva che il posto godesse di una certa fama, nel circondario.

Feci modo di ritornarvi altre volte, e con una certa frequenza, ma fu solo dopo la terza visita che scoprii come il signor Burges avesse degli interessi nella ditta Ackerman e Pernit, grossi importatori di sigari, e che tali interessi erano giunti a lui tramite uno zio i cui figli adesso vivevano vicino a Cromwell Road, e mi disse che lo zio aveva frequentato la Borsa valori.

“Sono un negoziante per istinto” disse il signor Burges. “Mi piace il rituale con cui si servono i clienti. Il negozio mi ha fatto bene. Mi piace fare altrettanto servendomi del negozio”.

L’attività era stata iniziata da suo nonno nel 1827, ma gli arredi e le suppellettili dovevano risalire almeno a mezzo secolo prima. I vasi per il tabacco da pipa e da fiuto, rossi e marroni, con corone, insegne dell’Ordine della Giarrettiera e nomi di miscele dimenticate scritte con lettere dorate; i barili levigati di tabacco Orinoco, sui quali sedevano i clienti favoriti, il bancone di mogano, color ciliegia scura, gli scaffali dalle modanature delicate, i contenitori di giunco intrecciato per i sigari, le bilance tedesche montate su argento e il rullo olandese d’ottone e la taglierina per i pani di tabacco, erano tutte cose da desiderare ardentemente.

“Non sono poi così male” ammise. “Quel grosso vaso di Bristol non ha compagni, per quanto ne sappia. Quelle otto anfore per il tabacco da fiuto, laggiù sul terzo scaffale, provengono dalla manifattura di Dollin, che nel ’47 lavorava per Wimble; le guardi, sono dei pezzi assolutamente unici. Esiste ancora qualcuno del mestiere in grado di dirci che cosa fosse l’Hollande di Romano? Oppure la miscela di Scholten? Ecco una tabacchiera del tempo di Giorgio I, ed ecco un Luigi XV; cosa sto dicendo? XIII, XIII, naturalmente una grattugia per trinciare il tabacco da fiuto. Erano i ferri del mestiere, ai tempi di mio nonno. E ora dove si possono trovare in giro, al di fuori del Museo Britannico? Chi sa dirmelo?”.

Le sue pipe – vorrei che questo fosse un racconto per intenditori – la stupefacente collezione di pipe che aveva in salotto, e per l’occasione ebbi il privilegio di conoscere sua moglie. Una mattina, mentre contemplavo con bramosia uno stipetto per cigarros (badate bene, non sigari), di legno di jacaranda con le placche delle serrature d’argento e manigliette ai cassettini di fattura spagnola, un canadese ferito entrò nel negozio, disturbando il nostro piccolo e felice comitato in riunione.

“Senta un po’”, incominciò con voce fragorosa. “È lei la persona a cui devo rivolgermi?”.

“Chi l’ha mandata?” domandò il signor Burges.

“Uno di stanza a Messines. Ma non è questo il punto! Non ho con me il minimo certificato, o altro pezzo di carta; niente, se mi sono spiegato. Ho lasciato la Loggia dovendo diciassette dollari di arretrati per le iscrizioni. Però quel tipo che era con me a Messines mi ha detto che qui da voi la cosa non avrebbe avuto la minima importanza”.

“E aveva ragione” disse il signor Burges. “Ci riuniamo stasera, alle sette”.

La faccia dell’uomo si allungò di una spanna buona: “Diavolo!” disse. “Ma io sono in ospedale, e non posso uscire di sera”.

“E ogni martedì e venerdì, alle tre pomeridiane” aggiunse prontamente il signor Burges. “Naturalmente dovrà superare un colloquio d’ammissione”.

“Penso che non ci saranno problemi, su questo” fu la risposta allegra. “A martedì, allora” se ne andò via zoppicando, e tutto raggiante.

“Chi sarebbe?” domandai.

“Ne so quanto voi, tranne che deve essere un Fratello. Adesso Londra è piena di Massoni. Bene! Bene! Bisogna fare quello che si può, in giorni come questi. Se oggi pomeriggio viene a prendere il tè da noi, dopo andremo insieme alla Loggia. È una Loggia d’Istruzione”.

“Ne sono felice. Qual è la sua Loggia?” domandai, perché sino a quel momento non ne era ancora stato menzionato il nome.

“Fede e Opere 5837, il terzo sabato di ogni mese. La nostra Loggia d’Istruzione si riunisce nominalmente ogni giovedì, ma ora i nostri incontri sono più frequenti, poiché in città ci sono molti Fratelli provenienti da altre Logge”. A questo punto entrò un nuovo cliente e io me ne andai, molto interessato dall’ampiezza degli hobbies del Fratello Burges.

All’ora del tè era vestito come se dovesse andare al Servizio Domenicale, e al posto degli occhiali d’argento aveva un pince-nez d’oro. Ringraziai la mia buona stella per aver pensato di cambiarmi, indossando panni decenti. “Certo, dobbiamo aver questo riguardo per la Massoneria” disse approvando. “Ogni rituale serve a rafforzare l’animo umano. Per l’uomo il rituale è una necessita ovvia. Più la vita quotidiana è sconvolta, più la gente ricorre al rituale. Comunque da parte mia aborrisco ogni forma di applicazione piatta del rituale. A proposito, le dispiacerebbe darci una mano nel colloquio, se stasera ci sono molti Fratelli provenienti da fuori? Ne troverà alcuni alquanto arrugginiti, ma… è lo Spirito, non la lettera che dà vita. La questione dei Fratelli esterni è molto importante. Vede, adesso ce ne sono moltissimi a Londra, e sono così pochi i posti in cui possono incontrarsi o riunirsi”.

“Sei proprio bravo!” disse la signora Burges, porgendogli la custodia del grembiule, chiusa a chiave e con sopra segnate le iniziali.

“La nostra Loggia è appena dietro l’angolo” proseguì lui. “Non deve essere troppo critico nei confronti della nostra sistemazione. Un tempo il posto era un garage”.

Da quello che riuscii a capire nell’oscurità che tutto mortificava, vagammo passando per una scuderia e un cortile. Il signor Burges mi pilotò, scusandosi di ogni cosa in anticipo.

“Non deve aspettarsi..”, stava ancora dicendo, quando salimmo incespicando i gradini di un portico ed entrammo in un’anticamera accuratamente decorata, con appese alla parete delle stampe di soggetto massonico. Notai ai posti d’onore Peter Gilkes e Barton Wilson, padri della pratica dell’Emulation; il Christopher Wren di Kneller; Dunkerley, con sotto il suo ex libris Fitz-George e la banda sinistra sulle armi reali; la caricatura di Wilkes fatta da Hogarth, oltre alla sua Notte di pessima reputazione, e una serie ben incorniciata di Grandi Maestri, da Anthony Sayer in giù.

“Questo è un altro suo hobby?” domandai.

“No, le cornici no” disse il signor Burges sorridendo.

“Dobbiamo ringraziare il Fratello Lemming”. Mi presentò al socio anziano di Lemming e Orton, il cui negozietto è difficile da trovare, ma il cui giudizio e assegni in materia di stampe, godono, invece, di ampia circolazione.

“Le cornici sono la cosa migliore” disse il Fratello Lemming, dopo aver ricevuto i miei complimenti. “Ce ne sono altre nel salone della Loggia. Venga a vederle. Lì abbiamo quel grande Desaguliers, che per poco non se ne andava a finire nello Iowa”.

Non avevo mai visto il salone di una Loggia così bene arredato. Dal pavimento rivestito di mosaici sino al soffitto appropriato, dai tendaggi ai pilastri, dagli arredi alle sedie, dalle sedie alle luci, per finire alla piccola cantoria finemente intagliata e situata in un angolo della stanza: ogni singolo oggetto era perfetto, sia in sé, sia per quanto riguardava l’effetto generale. Espressi la mia opinione su ognuno di essi, ripetendomi diverse volte.

“Le avevo detto di essere un ritualista” disse il signor Burges. “Guardi come sono intagliati quei covoni di grano, e quei grappoli, sugli schienali di queste sedie in cui siedono i Guardiani. Come voleva la vecchia tradizione, prima che fosse rovinata dai mobilieri che servono le Logge massoniche. Ho pescato quella coppia a Stepney, dieci anni fa, proprio nello stesso periodo in cui ho trovato il martelletto”. Era di avorio antico e ingiallito, tagliato in un pezzo unico da una qualche poderosa zanna. “Viene dalla Costa d’Oro” disse. “Laggiù apparteneva a una Loggia Militare, nel 1794, come si può leggere dalla scritta incisa sopra”.

“Se la domanda è legittima,” presi a dire “quanto..”.

“Ci costò” disse il Fratello Lemming, con i pollici infilati nei taschini del panciotto “un’apprezzabile somma di denaro quando facemmo i lavori nel 1906, anche tenendo conto che il Fratello Anstruther, che era il nostro appaltatore, trovò il modo di tirarsi bellamente fuori dalle spese. Per inciso, mi hanno detto che quel concio là è tutto di marmo di Carrara. Non me ne intendo affatto di marmi. Penso che dalla fondazione ci abbiamo messo dentro… oh, un’altra discreta somma di denaro. Bene, ora andiamo nella sala del colloquio a sentire i Fratelli”.

Fui accompagnato in una stanza comoda, sulle cui pareti era posta una fila di cubicoli che avevano tutta l’aria di essere confessionali (mi accertai in seguito che lo erano stati un tempo, quando furono scovati dalle parti di Oswestry, e pagati una somma ridicola). Pochi uomini in uniforme attendevano all’altra estremità della sala. “È solo l’inizio della processione. Il resto si trova in anticamera” disse un dignitario della Loggia.

Fratello Burges mi assegnò un discreto cubicolo, dicendo: “Non si sorprenda. Vengono in tutte le condizioni”.

Condizioni era parola adatta per descrivere il mio primo penitente, che aveva il capo completamente avvolto da bende: era fuggito da un ospedale per ufficiali, come se fosse evaso da Pentonville. Mi domandò, con parlata scozzese piena di termini profani, come potevo pensare che riuscisse a parlare un uomo cui erano rimasti in bocca solo sei denti, oltre ad aver perso mezzo labbro inferiore. Cosicché scendemmo a un compromesso: mi avrebbe risposto a gesti.

Il prossimo – un neozelandese proveniente da Taranaki – capovolse il procedimento, perché aveva un braccio solo e al collo. Diffidai di un enorme sergente maggiore dell’artiglieria pesante, che mi colpì per l’eccessiva e disinvolta loquacità, tanto da mandarlo dal Fratello Lemming nel cubicolo accanto al mio: lì saltò fuori che era stato dignitario supremo di un Distretto. Il mio ultimo postulante mandò all’aria quel poco di serenità che mi era rimasta.

Pareva che si fosse dimenticato tutto, proprio tutto.

“Non la biasimo” disse alla fine, inghiottendo la saliva. “Se fossi al suo posto mi guarderei bene dall’accettare le mie risposte, ma le do la mia parola che, nella misura in cui ho avuto una religione, la Massoneria è stata tutta la religione che ho avuto. Per amor di Dio, Fratello, lascia che mi sieda di nuovo in una Loggia!”.

Quando i colloqui ebbero termine, un Dignitario di Loggia fece il giro dei presenti, con i grembiuli per ciascuno. Niente roba con orpelli vistosi o argentature assortite, ma della seta a coste pesanti con delle nappe e – quando una persona poteva dimostrare di avere il diritto di fregiarsene – livelle di decorosa placcatura. Qualcuno davanti a me strinse una cintura alla vita di una persona tutta rigida e silenziosa, in borghese e con il nastrino dei congedati. “Perdinci! Questa sì che è vita” lo udii pronunciare. Il compagno annuì con un cenno del capo. L’altro esplose improvvisamente: “Ehi! Cosa stai facendo? Smettila! Avevi promesso di non farlo più! Piantala!” e diede un buffetto agli occhi bagnati di pianto del suo compagno. “Lascia che versi un po’ d’acqua” disse un segnalatore australiano. “Non vedi che il povero diavolo è felice?”. Risultò che il Fratello silenzioso era stato vittima dello shock da granata, e che era stato accettato dal Fratello Lemming, avendo l’amico come garante e – cosa che indusse maggiormente Lemming a farlo passare – la minaccia che in caso di rifiuto sarebbe bastata la delusione a provocargli un attacco convulsivo. Così il “traumatizzato” si mescolò felicemente e in silenzio ai Fratelli, evidentemente abituati a scene siffatte. Ci allineammo, secondo le tradizioni in fila per due, quasi cinquanta di numero, ed entrammo nella Loggia accompagnati da quello che credevo essere un armonium, ma che scoprii essere un organo di pregio. Ci volle del tempo prima che tutti ci fossimo accomodati perché dieci o dodici tra noi erano mutilati e dovevano essere aiutati a sedersi su poltrone o chaises longues. Presi posto tra un caporale dei Servizi medici, con un piede solo, e un capitano della Territoriale, che mi disse di aver fatto “baruffa” con una bomba, che lo aveva piegato in due direzioni. “L’esecuzione di Bach che l’organista ci sta dando è di prima qualità” disse estasiato. “Mi piacerebbe conoscerlo. Ai miei tempi premevo anch’io i tasti di un pianoforte”. “Glielo presento dopo la riunione” disse uno dei Fratelli regolari, che sedeva dietro di noi: una persona grassoccia e con una barba a punta, e appartenente alla professione medica, come venne fuori in seguito. “Tutto sommato c’è ben poca gente che suona Bach, non è vero?”. E i due s’immersero subito in una conversazione musicale, che per i non appassionati è altrettanto affascinante di un trattato di trigonometria.

Una Loggia d’istruzione è soprattutto una sede in cui sfoggiare il rituale. Essa non può iniziare o conferire cariche, e si limita a organizzare conferenze e a rinfrescare la memoria degli adepti. Il Venerabile Fratello Burges, assiso fulgidamente nella Sedia di Salomone (scoprii in seguito dove fosse stato reperito anche questo oggetto), disse con brevi parole ai Fratelli di altre Logge come la loro presenza fosse gradita, e come sarebbero stati egualmente bene accetti in incontri futuri, e chiese loro di votare la cerimonia che avrebbe dovuto essere attuata per la loro istruzione.

Quando la decisione fu annunciata, volle sapere se vi erano dei Fratelli esterni disposti ad assumersi le responsabilità rituali di un Dignitario di Loggia. Protestarono, timidamente, di essere troppo arrugginiti. “È proprio questo il motivo per cui..”, disse il Fratello Burges, mentre l’organo suonava dolcemente Bach. Il mio capitano amante della musica si agitava tutto nella sedia.

“Un attimo, Venerabile signore” il dottore grassottello si alzò. “Abbiamo qui tra noi un musicista che ha bisogno di uno strumento e di un’occasione opportuna. Solamente” proseguì con tono colloquiale “gli scalini che portano alla cantoria sono un po’ troppo ripidi”.

“Quanto pesa il nostro Fratello?”, disse Fratello Burges con la solennità di un’iniziazione.

“Poco più di cinquanta chili” disse il Fratello “mi sono pesato questa mattina, Venerabile signore”.

Il penultimo Maestro in carica, che era anche un sergente maggiore di Batteria, attraversò la sala con passo ondeggiante, prese tra le braccia quel peso di piuma, portandolo sopra in cantoria, dove quello scricciolo d’uomo suonava gioiosamente, come un’anima portata di sorpresa in paradiso, mentre l’organista abituale manovrava il mantice. Quando gli esterni furono convinti, dopo molte lusinghe, a fornire i dignitari necessari, si diede l’avvio al ripasso di una cerimonia. Fratello Burges proibì che i membri regolari suggerissero. Gli esterni dovevano farcela interamente da soli, e il sergente maggiore di Batteria, sorpreso a dare una mano, fu allontanato d’autorità, come suggeritore troppo esperto, essendo di rango elevato. Procedettero con fatica, dopo che quell’aiuto fu ritirato.

Il caporale, quello dei Servizi medici e senza un piede, seduto alla mia destra si lasciò sfuggire una risatina soddisfatta.

“Si trova a suo agio?” gli chiese il dottore.

“A mio agio? È come stare in Paradiso, potermi di nuovo sedere in una Loggia. Mi sta ritornando tutto in mente, assistendo ai loro sbagli. Non è che abbia molta religione, ma tutta quella che ho mi viene dalla Loggia”. Riconoscendomi s’imporporò leggermente, come capita a chi si ripeta parlando con la stessa persona. “Sì, ‘velata in allegoria e illustrata con simboli’: la Paternità di Dio e la Fratellanza dell’Uomo; e cosa diamine uno dovrebbe desiderare di più?… Li guardi!” s’interruppe ridacchiando. “Ma vedi un po’! Hanno fatto un bel garbuglio della cosa. Io avrei saputo fare meglio, figuriamoci. Certo, vorrei vedere che non dovessero ripetere tutto!”.

Il nuovo organista mascherò il piccolo pasticcio, e la sua musica parve il fruscio di tante ali angeliche. Quando i dilettanti ebbero finito, alquanto rossi e imbarazzati, chiesero che i Fratelli regolari della Loggia mostrassero per prova come andasse eseguita la cerimonia, da loro così abborracciata. Allora compresi per la prima volta di quali significati possa essere investito quel perfetto rituale di parola e gesto. Applaudimmo tutti, in modo particolare il caporale con un piede solo.

“Siamo alquanto orgogliosi delle cose che facciamo, e vale la pena di fare del proprio meglio di fronte a un pubblico simile” disse il dottore.

Dopo il Maestro fece una breve conferenza sul significato di alcuni simboli e diagrammi dipinti. Il tema era tutt’altro che inedito, ma la sua voce profonda e oratoriale lo rivestì di nuovo interesse.

“Stupefacente come persistano queste vecchie intestazioni da quaderno di scuola” disse il dottore. “D’accordo”, l’uomo mutilato d’un piede parlava con cautela, facendo uscire le parole da un angolo della bocca, come un ragazzino in classe, “ma sono proprio queste frasi edificanti che ci vedremo intorno, quando saremo giù all’inferno nel nostro letto di carboni ardenti E dovete credermi! Ne ho infrante abbastanza per sapere. Adesso zitti!,” si piegò in avanti, bevendo ogni parola del discorso. Di lì a poco Fratello Burges toccò un punto che aveva dato origine a qualche divergenza nell’applicazione del rituale. Chiese informazioni.

“Ecco, in Giamaica, Venerabile signore”, prese a dire un membro esterno, spiegando come dalle sue parti si era risolto quel particolare. Intervennero un’altra persona e poi un’altra ancora, situate in diversi punti della Loggia (e del mondo) e quando la discussione si fu sufficientemente accalorata, il dottore si allontanò silenziosamente passando accanto alle pareti, e dandoci delle sigarette, da dietro le spalle.

“Un’innovazione che può apparire troppo audace” disse, mentre ritornava a sedersi nel posto, alla mia sinistra, lasciato libero dal capitano musicista. “Ma gli uomini non possono parlare seriamente senza tabacco, e poi siamo solo una Loggia d’Istruzione”.

“E io ho imparato più in una sera che in dieci anni”. L’uomo con un piede solo si volse verso di noi, cessando per un attimo di interessarsi a un Yeoman in speroni, scuro di complessione e dall’aria acida, che pontificava sul rituale olandese. Il fumo azzurrognolo e le parole aumentavano, mentre l’organo su in cantoria ci benediceva tutti.

“Ma è veramente delizioso” dissi al dottore. “Come è incominciato?”.

“È stato Fratello Burges. Si era messo a discorrere con le persone che capitavano nel suo negozio, all’inizio della guerra. Ha detto, a noi che ce ne stavamo a sonnecchiare tutti placidi nella Loggia, che ciò di cui quelle persone avevano più bisogno era una Loggia dove potessero semplicemente starsene seduti, ed essere felici: come lo siamo noi adesso. Aveva perfettamente ragione. Stiamo imparando molte cose, in questa guerra. Per un uomo la Loggia è molto più importante di quanto la gente immagini comunemente. Come ha appena detto l’amico alla nostra destra, la Massoneria è l’unico credo concreto di cui ci hanno parlato sin da quando eravamo bambini. Banale o non banale, coincide alla perfezione con come ci hanno insegnato che dobbiamo comportarci”. Sospirò. “E se questa guerra non ha fatto capire, a noi tutti, cosa sia la Fratellanza Umana, allora sono… un unno!”.

“Come avete fatto ad attirare la gente?” domandai ancora. “Oh, dissi (come mi aveva suggerito Burges) ad alcune persone ricoverate nell’ospedale qui vicino che avevamo una Loggia d’istruzione, e che loro sarebbero stati i benvenuti. E vennero. E lo dissero agli amici. E gli amici vennero! Questo accadde due anni fa, e adesso funzioniamo come Loggia d’Istruzione per due sere la settimana, con una matinée quasi ogni martedì e venerdì, per quelle persone che non possono avere permessi serali. Certo, la situazione è alquanto curiosa. Non avevo idea di cosa significasse la Massoneria, prima che iniziasse questa guerra”.

“Neppure io, sino a questa sera” risposi.

“Eppure è abbastanza naturale, se uno ci pensa. C’è Londra – anzi tutta l’Inghilterra – formicolante di Massoni provenienti da ogni parte del mondo, e con nessun posto dove andare. Ebbene, la nostra percentuale settimanale, negli ultimi quattro mesi, di persone visitanti è stata di poco inferiore alle centoquaranta persone. Dividi per quattro, e diciamo che abbiamo trentacinque Fratelli esterni per volta. Il nostro record è di settantuno presenze, ma siamo giunti a far stare dentro ottantaquattro persone, nei banchetti. Può vedere da solo in che razza di buco insignificante siamo sistemati!”.

“Anche i banchetti!” esclamai. “Deve costarvi l’ira di Dio. Possono i Fratelli non di questa Loggia..”.

Il dottore – faceva di nome Keede – rise. “No, un Fratello esterno non può”.

“Ma una persona, dopo un pomeriggio come questo, vuole..”.

“Lo dicono tutti quanti. È la difficoltà che abbiamo. Si comportano esattamente nel modo da lei indicato, e si offendono quando non accettiamo le loro offerte”.

“Ah, non accettate?” domandai.

“Mio caro amico, a che ci servirebbe? Non tutti possono fermarsi al banchetto. Diciamo che vi partecipano cinquanta persone la settimana, quindici sterline, sessanta il mese, settecentoventi l’anno. Quanto pensa che possano valere gente come Lemming e Orton? Ed Ellis e McKnight, quell’uomo lungo e grosso laggiù, loro due che trattano generi alimentari? Per quale somma crede Burges possa compilare un assegno, senza battere ciglio? Non è che adesso lui abbia un motivo per mettere da parte soldi. Le assicuro che non abbiamo scrupoli nel chiedere il contributo dei Fratelli esterni, quando abbiamo bisogno di qualcosa. Altrimenti non potremmo fare quello che facciamo. Ha notato come la Loggia è tenuta: ottoni, gioielli, arredamento, e così via?”.

“Davvero, l’ho notato” dissi. “È linda ed elegante come una nave. Uno potrebbe mangiare per terra”.

“Bene, venga qui uno di quei giorni in cui non c’è riunione, e troverà facilmente una mezza dozzina di Fratelli, con non più di otto gambe tra tutti, che lustrano e danno olio di gomito e spolverano ogni cosa alla loro portata. Questa primavera ho curato uno, sotto shock da granata, dandogli da lucidare i nostri gioielli. Li ha levigati a tal punto da far quasi scomparire i numeri, ma… gli ha impedito di combattere gli unni mentre dormiva. E quando abbiamo bisogno di Maestri che ci sostituiscano – due matinées la settimana sono piuttosto gravose – possiamo scegliere i nostri P.M. da qualsiasi parte del mondo. I Dominions badano al rituale molto di più di una normale Loggia inglese. Inoltre… oh, la riunione sta per aggiornarsi. Ascolti i saluti, ne vale veramente la pena”.

Il colpo secco ed improvviso del grande martelletto ci mise tutti in piedi, dopo qualche ascesa e caduta tra i mutilati. Allora il sergente maggiore di Batteria recitò, con voce acconciamente esercitata, le formule usuali, calde e fraterne, di saluto rivolto a Fede e Opere dalla sua Loggia e Distretto tropicali. Gli altri seguirono senza ordine, con tutte le tonalità possibili, dal grugnito allo squittio. Udii Hauraki, Inyanga Umbezi, Aloha, Luci del Sud (da qualche parte verso Punta Arenas), Loggia dei Rudi Conci (e l’aria ben rude aveva quel Fratello navale proveniente da Terranova), due o tre Stelle di questo o di quello, mezza dozzina di virtù cardinali, variamente disposte, i cui saluti andavano dal Klondyke sino a Kalgoorlie, una Loggia Militare proveniente da un fronte, gettata lì con un severo arrotamento scozzese dal mio amico con il capo avvolto completamente in bende, e poi tutto il resto, mischiato insieme come l’Impero stesso. Proprio alla fine vi fu una certa agitazione. Il Fratello silenzioso aveva incominciato a emettere dei suoni, e il suo compagno cercò di calmarlo.

“Lasci che parli! Lasci che parli!” esclamò professionalmente il dottore. L’uomo sussultava tutto e storceva la bocca, e alla fine borbottò qualcosa di non intelligibile anche per il suo stesso amico; infine un P.M. di piccola statura e di carnagione scura si spinse avanti con aria d’importanza.

“Tutto a posto” disse. “Vuol dire..” e sparò fuori qualche nome gallese lungo una spanna, aggiungendo: “Significa Pembroke Docks, Venerabile signore. Anche in Galles siamo buoni massoni”. L’uomo silenzioso accennò con il capo in segno d’approvazione.

“Certo” disse il dottore, per nulla turbato. “A volte è questo il modo in cui capita. Héspere panta feres, non è vero? La Stella li conduce tutti a casa, non è vero? Devo prendere delle note su questo caso, dopo la Loggia. Ho visto che a lei non interessa la musica” proseguì “ma temo che dovrà sopportarne ancora. È una parafrasi da Michea. È un arrangiamento del nostro organista. La cantiamo come antifona ogni volta che concludiamo una riunione”.

Anch’io potei apprezzare quello che seguì. Si limitarono a cantare una mezza dozzina di persone dalla voce esercitata, le quali seguirono una struttura antifonale sino all’ultimo verso, quando intervenne la Loggia al completo. La do come l’ho sentita:

 

Ti abbiamo mostrato, o Uomo,

Ciò che è bene.

Cosa esige il Signore da noi?

O la Coscienza da noi?

Ma in modo giusto comportarsi,

Ma praticare la misericordia,

E con il nostro Dio in umiltà procedere,

Come dovrebbe ogni Massone.

 

Uscimmo dalla stanza quando udimmo la musica e le parole cantate con la strana aria dell’Apprendista appena ammesso. Notai che i Fratelli Regolari della Loggia non incominciarono a togliersi di dosso le loro insegne prima dei versi:

 

Grandi Re, Duchi e Signori

Le spade hanno deposto.

 

Si mossero verso l’anticamera, adesso approntata per il banchetto, ai versi:

 

Abbiamo al fianco nostro

L’orgoglio dell’Antichità,

Che rende gli uomini nel loro stato giusti.

 

Il Fratello (un uomo di chiesa dalla grande corporatura) che mi trovai accanto a tavola mi disse come tale ritualità fosse “una cosa esteriormente piacevole e inventata per motivi di vanità”, sulla forza di qualche vecchia leggenda. Formulò l’opinione che la Massoneria dovesse essere considerata alla stregua di “un’astrazione intellettuale”. Un ufficiale del Genio espresse il suo disaccordo, e ci raccontò come in Fiandra, un anno prima, circa dieci o dodici Fratelli avevano fatto una Loggia in ciò che era rimasto di una Chiesa. All’infuori degli “emblemi di mortalità” e di un’abbondanza di grezzi conci, non vi era alcun altro arredo.

“Sono sicuro che non ne sentivate affatto la mancanza” disse il religioso. “L’idea dovrebbe bastare da sola, senza troppi fronzoli”.

“Ma non fu così”. disse l’altro. “Ci demmo un mucchio da fare, e con del materiale mimetico su cui mettemmo le mani ricavammo le nostre insegne, e con del vecchio metallo ci forgiammo i gioielli. Li conservo ancora. Ci tenne felici per delle settimane”.

“La vostra posizione era assolutamente irregolare e non autorizzata. Chi era il vostro Garante?” domandò il Fratello della Loggia Militare. “La Loggia suprema dovrebbe prendere delle iniziative contro..”. “Se la Loggia suprema avesse un minimo di buon senso” s’intromise un soldato semplice tre posti più in su “darebbe il permesso per delle Logge itineranti al fronte, e ci manderebbe anche dei conferenzieri di prima qualità”.

“Allora lei conferirebbe le dignità promiscuamente?” disse scandalizzato lo scozzese.

“Tutte le volte che una persona ne facesse richiesta, ovviamente. Mezzo esercito ci entrerebbe dentro”.

La persona giocò con la sua idea per un certo tempo e dimostrò che, con una somma d’iscrizione ridotta al minimo, la Loggia suprema avrebbe ricavato rendite enormi.

“Ritengo” disse pensosamente l’ufficiale del Genio “di poter disegnare un equipaggiamento completo per una Loggia itinerante, che pesi meno di quaranta libbre”.

“Avete torto, e ve lo dimostrerò. Ci abbiamo provato anche noi” disse quello proveniente dalla Loggia Militare; e i due ce la misero tutta, discutendo seduti di fronte, ciascuno con il proprio taccuino in mano.

Il banchetto era l’essenza stessa della semplicità. Molti dei presenti mangiavano in fretta, in modo da poter ritornare in orario alle loro caserme e ai loro ospedali, però di tanto in tanto un Fratello veniva dall’oscurità esterna, per riempire una sedia o vuotare un piatto. Si trattava di Fratelli che erano venuti in precedenza, e non avevano bisogno di essere esaminati.

Un uomo entrò quasi barcollando, con elmetto, fango delle Fiandre, equipaggiamento al completo e tutto il resto: fresco fresco dal treno che lo aveva portato a Londra, in congedo.

“Devo aspettare due ore per la coincidenza” spiegò. “Allora mi sono ricordato delle vostre serate. Dio mio, come si sta bene qui!”.

“Che treno deve prendere, e da quale stazione?” domandò meticolosamente il religioso. “Molto bene. Cosa prende da mangiare?”.

“Qualsiasi cosa, tutto. Ho vomitato nella Manica un mese intero di razioni”.

Fece il pieno per dieci minuti, senza pronunciare neppure una parola. Poi, sempre senza parlare, cadde con la faccia in avanti sul tavolo. Il religioso lo prese per un braccio già fiacco e lo pilotò verso un divano, dove il soldato si lasciò cadere, mettendosi subito a russare. Nessuno si prese la briga di voltarsi.

“Anche questo è abituale?” domandai.

“Perché no?” disse il religioso. “Stasera tocca a me svegliare quelli che devono prendere il treno. In queste occasioni non rispettano il mio abito sacerdotale”. Mi voltò l’ampia schiena e continuò la discussione intrapresa con un Fratello di Aberdeen, via Mitilene, dove, nel tempo libero lasciatogli dal dragaggio mine, aveva elaborato una teoria completa delle rivelazioni di San Giovanni l’Evangelista, quando era nell’isola di Patmos.

Io caddi nelle mani di un sergente-istruttore dei mitraglieri, di professione designer di moda femminile. Mi disse che le donne inglesi, considerate come categoria generale, “perdono nei corsetti quello che guadagnano nei vestiti”, e che “Satana in persona non può salvare una donna che indossa dei corsetti da trenta scellini sotto un abito da trenta ghinee”. A questo punto, e con mio grande rammarico, gli attaccò un bottone uno zelante tenente della sua stessa specialità, e lui tornò di nuovo a essere un sergente, in un battito di tacchi.

Gironzolai per la stanza, esaminando le stampe appese ai muri e la collezione massonica nelle vetrinette, prestando nel frattempo orecchio ai discorsi, uno più inconcepibile dell’altro, che si svolgevano attorno a me. La compagnia si assottigliò a poco a poco, finché non rimase solo una dozzina o due di noi. Ci raccogliemmo all’estremità di una tavola posta accanto al fuoco, con il nostro volatile notturno proveniente dalle Fiandre che ronfava a pieni polmoni nel cavo del suo elmetto, che qualcuno gli aveva messo capovolto sulla faccia.

“E qual è stata la sua impressione?” disse il dottore.

“Come un mondo nuovo” risposi.

“Lo è, in realtà”. Fratello Burges rimise il pince-nez d’oro nella custodia e inforcò nuovamente gli occhiali d’argento. “O meglio, ciò che si potrebbe fare con un minimo d’impegno. Quando penso alle possibilità che ha la Massoneria nella situazione attuale, mi domando…”. S’interruppe, fissando il fuoco.

“Anch’io mi chiedo” disse lentamente il sergente maggiore “Ma… nel complesso… sono incline a essere d’accordo con lei. Potremmo fare molto, in quanto Massoni”.

“Come aiuto… come aiuto… non in sostituzione della religione” proruppe irosamente l’uomo di chiesa.

“Oh Signore! Non possiamo lasciare in pace la religione per un istante?” mormorò il dottore. “Non lo fa… chiedo scusa, non volevo offendere nessuno”.

Il religioso aveva l’aria di essere andato in collera. “Kamerad!” proseguì saggiamente il sergente maggiore, con tutte e due le mani alzate. “Non certamente in sostituzione di una fede religiosa, ma come un modello di vita applicabile alla maggior parte degli uomini. Ciò che ho visto al fronte mi rende sicuro della cosa”.

Fratello Burges uscì dalla sua meditazione: “Credo che a Londra ci siano una dozzina – venti -altre Logge che si riuniscono ogni sera, e che oltre a istruire conferiscono anche le dignità. Perché i giovani non dovrebbero parteciparvi? Essi praticano quello che noi predichiamo da sempre. Bene! Bene! Tutti noi dobbiamo fare quello che possiamo. A che servono i vecchi Massoni, se non possono dare un piccolo aiuto, nel loro proprio campo?”.

“Esatto” disse il sergente maggiore, rivolgendosi al dottore. “E a che accidenti serve un Fratello, se non gli è permesso di aiutare gli altri?”.

“Fate allora come volete” disse il dottore stizzosamente, Era chiaro che non gli facevano questi discorsi per la prima volta. Prese qualcosa che il sergente maggiore gli aveva sporto, e se lo mise in tasca, accompagnando il gesto con un cenno del capo: “Sbagliavo” mi disse “quando mi vantavo della nostra indipendenza. Qualche volta non riusciamo a evitare i contributi. Con questo” e batté la mano sulla tasca “daremo un banchetto, martedì. A proposito, prenda un altro panino. I migliori sono quelli col prosciutto” mi porse un vassoio.

“Certo che lo sono” dissi. “Ne ho presi solo cinque o sei. Sono andato alla loro caccia”.

“Sono contento che le piacciano” disse Fratello Lemming. “Gli ho dato il pastone con le mie stesse mani, e l’ho salato io stesso, nel posticino che ho nel Berkshire. Di nome faceva Carlomagno. Visto che siamo in discorso, dottore, devo prepararne un altro per il mese prossimo?”.

“Naturalmente” disse il dottore con la bocca piena. “Un pochino più grasso dell’ultimo, per favore. E non si dimentichi quanto aveva promesso a proposito dei nasturzi in salamoia. Sono apprezzati”. Fratello Lemming annuì con il capo, sopra la pipa che aveva accesa, mentre noi davamo inizio a una seconda cena. Improvvisamente il religioso, dopo aver dato un’occhiata all’orologio, arraffò una mezza dozzina di sandwiches da sotto il mio naso, li mise in un sacchetto di carta oleata e si avvicinò con cautela al soldato che dormiva sul divano.

“Qualche volta hanno il risveglio brusco” disse il dottore. “I nervi, sapete”. Il religioso si portò in punta di piedi direttamente dietro il suo capo, e batté, tenendosi distante per tutta la lunghezza del braccio, nel centro dell’elmetto. L’uomo si svegliò rapido come il fulmine, mentre il religioso faceva un passo indietro, e compì il gesto di afferrare un fucile che non c’era.

“Ha appena mezz’ora di tempo per prendere il treno” il religioso gli passò i sandwiches. “Mi segua”.

“È straordinariamente gentile, e le sono molto grato” disse l’uomo, torcendosi per entrare nelle cinghie rigide. Seguì la sua guida nell’oscurità, dopo aver salutato.

“Chi era?” disse Lemming .

“Non lo so esattamente” rispose il dottore con indifferenza “È stato qui altre volte. Dev’essere una specie di P(ast) M(aster)”.

“Bene! Bene!” disse Fratello Burges, le cui palpebre si stavano chiudendo dal sonno. “Noi tutti dobbiamo fare quello che possiamo. Non è quasi tempo che chiudiamo?”

“Mi chiedo” dissi, mentre ci aiutavamo l’un l’altro a entrare nei cappotti “cosa succederebbe se la Loggia suprema fosse informata di ciò”.

“Ciò cosa?” Lemming si voltò con movimento rapido verso di me.

“Una Loggia d’Istruzione aperta tre sere e due pomeriggi la settimana; e poi anche quella specie di pensione che avete messo in piedi. Come iniziativa va bene, ma non mi sembra che la cosa sia molto regolare”.

“La questione non è ancora stata sollevata” disse Lemming. “Ci penseremo dopo la guerra. Nel frattempo si continua nello stesso modo”.

“Dovrebbero essercene a dozzine, di Logge simili” ripeté Fratello Burges, mentre uscivamo dalla porta. “Londra è piena di gente nostra, e non c’è un posto dove si possano incontrare. Pensate alle possibilità della situazione. Pensate cosa potrebbe fare la Massoneria attraverso la Massoneria per tutto il mondo. Spero di non essere ipercritico, ma ci sono delle volte in cui mi viene in mente che la Massoneria abbia gettato al vento la possibilità che aveva d’intervenire nelle nuove condizioni create dalla guerra, come del resto ha fatto la Chiesa da parte sua”.

“Sei fortunato che il padre stia accompagnando quel tizio a King’s Cross” disse Fratello Lemming “altrimenti ti sarebbe già saltato alla gola. Ciò che lo turba veramente è la nostra posizione legale all’interno della Legge massonica. Penso che uno di questi giorni andrà a riferire il nostro caso. Bene, buona notte a tutti”. Il dottore e Lemming svoltarono insieme.

“Sì,” disse Fratello Burges, infilando il suo braccio nel mio “quasi come ha fatto la Chiesa. Tuttavia, sono forse troppo ritualista”.

Non dissi niente. Stavo rimuginando quanto mi ci sarebbe voluto per battere il religioso sul tempo, e riferire io il caso di Fede e Opere 5837 E.C.

 

 

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L’ESCATOLOGIA PITAGORICA NELLA TRADIZIONE OCCIDENTALE

E

 

Per quanto l’esame dell’Escatologia pitagorica della Tradizione occidentale possa sembrare restrittivo in un convegno destinato a valutare l’incidenza del pensiero pitagorico sulla scienza e sulla cultura contemporanea, vi sono almeno due ragioni che inducono a considerarlo come centrale. La prima riguarda le relazioni fra la visione pitagorica ed il R.S.I., promotore con il G.O. d’Italia di questo Convegno. La seconda concerne come tale visione si è trasmessa sino ai nostri giorni all’interno di quella che è stata indicata con il nome di Tradizione Iniziatica Occidentale. Ambedue inducono a ritenere che esista, almeno in una parte delle Scuole Iniziatiche attuali, un filone pitagorico che ne costituisce il fondamento.

Entro questo contesto, essenziale risulta stabilire perché il Rito Simbolico, erede della Risp. Loggia. “Ausonia” di Torino e del G.O.I., decidesse in un Convegno del 1876 di aggiungere alla propria denominazione quella di “Italiano”. Decisione tanto più notevole per le implicazioni che aveva quando si tenga presente che in quello stesso anno il Grand Orient de France espungeva dai suoi Rituali il riferimento al G.A.D.U. sulla scia dell’impostazione positivistica diffusa da Augusto Comte.

Senza soffermarsi sulle condizioni della L.M. italiana dopo l’avvenuta unificazione nazionale è opportuno, per altro, ricordare che la corrispondente unificazione fra il G.O.I. di Torino con caratteristiche simboliche ed il G.O. di Palermo con caratteristiche scozzesi, aveva indirizzato il nuovo G.O. in una direzione assai simile a quella francese. Come ha rilevato Mola, nel tracciare la storia della L. M. italiana in questo periodo, prevalenti risultavano in essa sia le tendenze positiviste che un esteso anticlericalismo ed una marcata politicizzazione. Le une e le altre frutto delle circostanze storiche che avevano presieduto all’unificazione nazionale, ma, anche, degli indirizzi culturali sviluppatisi in Italia nella seconda metà del secolo XIX.

Significativa appare a questo riguardo la presenza, accanto ad un positivismo a sfondo spesso materialista, dell’idealismo neohegeliano divenuto alla moda dopo che Augusto Vera e Bertrando Spaventa lo avevano vitalizzato. Impostazione destinata ad assurgere a filosofia dominante con Croce e, addirittura, di Stato con Gentile, ma in ambedue i casi ostile a qualsiasi valutazione metafisica e contraria, come il positivismo, ad ogni approfondimento iniziatico. Note sono le posizioni assunte da Croce verso la L.M. ed il sarcasmo da lui manifestato per le sue caratteristiche rituali.

Non meraviglia, pertanto, che in tale situazione si sviluppassero indirizzi filosofici e culturali più vicini a ciò che positivisti e neohegeliani andavano negando. E non stupisce che tali indirizzi si rifacessero con una diversa lettura di Vico agli sviluppi che aveva avuto in Italia la filosofia prima e dopo la Scuola Pitagorica. Essenziale va considerato il contributo di un filosofo di Todi, Enrico Caporali che nella rivista “La nuova scienza” negli anni 1885-1890 e, poi, in opere di più vasto respiro sviluppò una critica alle posizioni positivistiche e neohegeliane sulla base delle concezioni italico-pitagoriche. Critica che si collegava a quelle neoplatoniche di Bertini, Bonatelli ed Acri.

È interessante notare come questi indirizzi trovassero echi e riferimenti in uno studioso maggiormente legato alla L. M. come Arturo Reghini, nato nel 1878 e morto nel 1946, e di cui occorre ricordare sia l’azione in difesa dell’esoterismo massonico che il tentativo di dare vita con Frosini dal 1909 al 1921 ad un nuovo Rito, quello Filosofico, sviluppato in tale prospettiva. Particolarmente attinente al nostro tempo rimane la polemica che Reghini condusse all’inizio degli anni venti con Sacchi, G. M. dell’Ordine Martinista, a proposito dell’accusa rivolta da questo ultimo alla L. M. di eccedere nella segretezza. Sosteneva Reghini, al pari di quanto viene affermato oggi, che la segretezza massonica non aveva nulla a che fare con quanto comunemente si intende con tale termine, che essa andava considerata come la riservatezza propria delle “operazioni iniziatiche”, e che parlate della L. M. come di una società segreta finiva con il fare il gioco di coloro che per ben altri motivi ne volevano l’eliminazione.

Si comprende così come l’aggiunta di “Italiano” alla denominazione del Rito Simbolico avesse un esteso sottofondo che,Arturo Reghini accanto alla rivendicazione della Risp. Loggia “Ausonia” di una L.M. non infeudata né alle Logge francesi né a quelle inglesi allora esistenti in Italia, rinviava a motivi più profondi anche se affioravano soltanto in modo superficiale. Occorre, infatti, aggiungere che dopo il 1876 il Rito Simbolico, diventato R.S.I., malgrado si movesse in una linea più tradizionale ed accentuasse il valore di alcuni “Landmarks” come il 2°, il 4° ed il 12°, non sviluppò molto tali motivi. Ed è soltanto cento anni dopo, nel 1976, per una singolare coincidenza che il R.S.I. opera quell’approfondimento in senso pitagorico che gli ha consentito di realizzare il Convegno “Pitagora 2000”.

Più conseguente rimase la posizione del Reghini, ed è a questa che occorre rifarsi per comprendere come la visione iniziatica pitagorica si sia trasmessa sino ai nostri giorni, iniziando con il delineare il concetto di Tradizione Occidentale quale lo elaborò il Reghini. Malgrado, in realtà, che la distinzione fra Tradizione Orientale e Tradizione Occidentale sia comunemente accolta, e Guénon ne abbia data una esauriente differenziazione basata sulla coincidenza della prima con le dottrine indù, maomettane e cinesi, non altrettanto chiara è rimasta la delimitazione della seconda. Si è così ritenuto a lungo che la Tradizione Occidentale dovesse coincidere con la Tradizione Cristiana, o per meglio dire che, parlando di Tradizione Iniziatica in Occidente si dovesse intendere un retaggio esoterico che si rifaceva all’ebraismo, prima, ed al cristianesimo dopo. Numerose sono, del resto, le testimonianze che sembrano suffragare tale tesi soprattutto nella L.M. dalla dominanza delle concezioni cristiane in quella anglosassone alla distinzione delle Logge di S. Giovanni e di S. Andrea nel Rito Scozzese Rettificato di Willermoz, per citare soltanto due esempi.

A questa tesi il Reghini oppose una serie di analisi approfondite che si concretizzarono nella constatazione che soltanto intorno al XVIII secolo si ha la presenza nella L.M. di una terminologia ebraica sostitutiva di quella greca. Sotto questo profilo, come rilevò in un libro assai noto “Le parole sacre e di passo” del 1922, si assiste, per molteplici ragioni storiche e culturali in pare riprese da Ragon, ad una sostanziale modificazione dei presupposti iniziatici ed alla pressoché totale perdita delle incidenze misteriosofiche di origine greca.

È in numerosi scritti, che vanno dalla polemica con Sacchi e con Papus del 1923 alle note pubblicate con lo pseudonimo di Pietro Negri nel 1928 nella rivista “Ur”,Papus (Gérard Encausse) che Reghini tratteggia le caratteristiche di una Tradizione Occidentale non cristiana. A Sacchi ed al Martinismo rimprovera, fra l’altro, l’identificazione del tetragramma con il nome di Gesù e la riduzione della “numerologia” in senso cristiano operata da Saint-Martin. A Papus la tendenza di voler fare del Martinismo una sorta di “cavalleria cristiana”. Posizioni degne di rilievo ma non sempre esatte, come ha dimostrato Brunelli, almeno per quanto si riferisce alla interpretazione del “tetragramma” quale fu considerato dopo Martinez de Pasqually.

In modo più specifico Reghini affronta la distinzione fra Tradizione Orientale e Tradizione Occidentale analizzando quella che può definirsi la Sapienza antica rispetto a Roma.Documento di Sacchi, Gran Maestro dell’Ordine Martinista Si ha così un Oriente che investe l’Asia, dall’Anatolia (il Levante) sino all’estremo Oriente, ed un Occidente che abbraccia la Grecia, Roma e le regioni settentrionali mentre intermedio rimane l’Egitto anche se più vicino all’Occidente. Non a caso, nota ancora Reghini, il meridiano che divide Occidente ed Oriente passa per la piramide di Cheope.

Tutto ciò conferma per Reghini le negazione dell’occidentalità del Cristianesimo e del carattere cristiano della Tradizione Iniziatica Occidentale. In pratica è, pertanto, da ritenersi che l’occidente è diventato cristiano a seguito dì una serie di eventi storici che ne hanno modificato ma non distrutto una dottrina largamente fondata sulle posizioni misteriosofiche che hanno il loro centro nell’antica Grecia e nelle regioni settentrionali.

Impostata in questa maniera la valutazione di come la Escatologia Pitagorica, quale parte integrante della Tradizione Iniziatica Occidentale non cristiana, si sia trasmessa sino ai nostri giorni, implica, in primo luogo, la determinazione di quest’ultima. Problema non facile in quanto legato alla caratterizzazione della Sapienza iniziatica romana abbastanza complessa nelle sue componenti. Come ha rilevato Mircea Eliade la religione dei romani ha subito tali e tante modificazioni che non è agevole rilevare in essa un nucleo iniziatico centrale definito. Le indicazioni offerte ancora da Reghini in uno scritto del 1934 su “Il simbolismo dodecimale ed il fascio etrusco” permettono, tuttavia. di identificare alcune notazioni essenziali e le linee più generali delle componenti della Tradizione Occidentale.

Nel loro complesso tali componenti possono analizzarsi in tre direzioni distinte ma confluenti fra loro. Costituiscono la prima alcune notazioni riguardanti la posizione preminente nella religione romana il Giano, divinità studiata da Guénon, anche in riferimento alla L.M. per i suoi molteplici significati;René Guénon l’esistenza presso i romani dei “Collegia fabrorum”, considerati spesso come antecedenti delle comunità massoniche; la presenza della leggenda di Saturno e delle Quattro Età dell’umanità, collegabile, secondo Evola, alla concezione mediterranea orientale degli Anni Cosmici ed a quella degli Yuga indiani; la delimitazione dei 12 fratelli Arvali come Collegio assai simile al Circolo degli Adityas dell’Agartha. Esprimono la seconda, più connessa alla Tradizione etrusca, la ripartizione dei cittadini romani in tre tribù e quattro curie; i 12 dei “consentes” o “complices”; i 12 “fasces” o “litui” a 12 verghe dei littori. Caratterizzano la terza, legata all’incidenza pitagorica, una serie di elementi analizzati da Gianola nel 1921 nei suo volume “La fortuna di Pitagora presso i romani dalle origini sino ai tempi di Augusto”, e fra cui merita di essere ricordata la leggenda delle relazioni fra Numa Pompilio e Pitagora.

Sempre in questa direzione può essere indicata, per l’epoca di Augusto, la restaurazione del “regno di Saturno” indicata da Virgilio nella IV “Egloga”, e l’annuncio dell’inizio di un dramma cosmico-storico con la fine dell’umanità, fatto dal neopitagorico Nigidio Figulo e riportato da Lucano nella “Farsaglia”. Annuncio che sembra ripetere i miti crepuscolari romani insiti nella visione delle 12 aquile da parte di Romolo e nella valutazione dei 12 mesi aventi ognuno la durata di cento anni indicati per la permanenza di Roma.

Tali riferimenti testimoniano esistenza di un complesso di dottrine a sfondo iniziatico fondamento di una Tradizione Occidentale non cristiana che si continua nei secoli successivi. Degna di nota la posizione di Apollonio di Tiana e dei neopitagorici, in cui confluiscono elementi ermetici come quelli presenti nella “Tavola di Smeraldo” riferita, talvolta, allo stesso Pitagora e ritenuta scoperta da Apollonio. Significativa, anche, la permanenza di incidenze pitagoriche nella cultura europea del XII e XIII secolo probabilmente avvenuta attraverso gli arabi. In un testo ermetico di questa epoca, la “Turba philosophorum” stampato nel 1702, si legge, infatti, “il nostro maestro Pitagora è il piede dei Profeti e la testa dei Sapienti”.

In epoche più recenti è del resto noto come nel 1813 Fabre Olivet abbia pubblicato la prima traduzione dei “Vers dorés de Pythagore” in una prospettiva che ha fatto di questo studioso uno dei più approfonditi conoscitori dell’Ermetismo e della Sapienza antica. Si potrebbe anche, aggiungere come un accenno a Pitagora si trovi nelle “Costituzioni” di Anderson per quanto oscurato da una dizione non precisa.

Quest’ultimo riferimento non deve, tuttavia, fuorviare nella considerazione delle caratteristiche della L.M. anglosassone, espresse da Anderson, rispetto a quelle della L. M. continentale più vicina alla Tradizione Occidentale. Note sono le critiche dello stesso Reghini alla posizione speculativo-operativa propria alle Logge anglosassoni e riportata in Italia, fra gli altri, dal Porciatti, e le sue considerazioni sulla L.M. come dottrina e tecnica per la “liberazione” dell’uomo in sintonia con le indicazioni di Guénon. Noto è, del pari, come ancora Reghini, in un volume su “I numeri sacri nella Tradizione Massonica”, ritrovasse numerosi elementi pitagorici nella Simbologia massonica. Fra questi il “Delta”, la “Stella fiammeggiante” e la “Tavola da tracciare”.

Se da questa sommaria analisi si passa a considerare quello che si può definire come il “Corpus” dottrinale pitagorico non sarà difficile affermare che esso va inteso come una “Scienza totale” a struttura olistica. In questo senso Mircea Eliade ha rilevato che in Pitagora “la conoscenza scientifica era integrata in un insieme di principi etici, metafisici e religiosi, accompagnati da diverse tecniche corporee”. Ed Evola ha aggiunto che la caratteristica della dottrina pitagorica era quella di “abbracciare domini diversi in un’unica sintesi”. Esempio paradigmatico di tale tendenza l’ideale politico pitagorico, trasmessoci da Giamblico nella “Vita pythagorica”, e che sviluppa sul piano profano una completa impostazione metafisica.

Ma se queste sono alcune caratteristiche della dottrina pitagorica ricavabili dagli autori classici e moderni, più difficile risulta stabilire quanto di essa spetti a Pitagora, e quanto ai suoi continuatori. Dubbi esistono sulla stessa figura storica di Pitagora, talvolta confuso con un altro Pitagora neopitagorico del I secolo d.C. a cui va ricondotto il simbolismo della Y pitagorica. Ancora discussa è, d’altra parte, la successione delle fasi della Scuola pitagorica, anche se la ricostruzione più attendibile sembri al momento attuale quella di Holger Thesleff. Secondo questa si avrebbero in tale Scuola quattro periodi distinti, indicabili come Pitagorismo primitivo, Pitagorismo del V secolo a. C. con Archita, Pitagorismo dell’età ellenistica ed, infine, Neopitagorismo con Apollonio di Tiana e Numenio di Apamea. Ne deriva una valutazione complessa delle modalità espresse nel tempo dai Pitagorici sul piano iniziatico, confermata, fra l’altro, da come si sono attribuiti ai discepoli di Pitagora le qualifiche di “acusmatici” e di “matematici”, dando maggiore peso a volte alla prima e a volte alla seconda di esse.

Con questi limiti è tuttavia possibile formulare alcune ipotesi su quella che doveva essere la “Scienza totale” dei Pitagorici, analizzandola in tre punti distinti. Di essi il primo riguarda l’Organizzazione della Scuola, il secondo le Tecniche usate, il terzo l’Escatologia. Quest’ultima, anche se prima sul piano delle condizioni che conducono alla “liberazione” dell’uomo, diventa ultima in una ricostruzione razionale quando si proceda con la metodologia indicata da Guénon.

Entro questo contesto l’Organizzazione della Scuola, e meglio si direbbe la progressione secondo cui il “profano” diventa “iniziato”, è identificabile nelle due categorie degli “exoterici” e degli “esoterici”. I primi, a quanto ci hanno trasmesso i più antichi commentatori, suddivisi nei tre gradi degli “acusmatici” od uditori, dei “parlatori” e dei “matematici”. I secondi indicati come “perfetti” o “compiuti” o, anche, come “teleios”, termine usato per indicare colui che si avvicina ad una perfezione che è soltanto del “sebastikos”, ossia di colui che è da venerare. Da ricordare che gli “esoterici” potevano essere sia “attivi” che “speculativi”, ossia agire nel mondo profano o dedicarsi alla meditazione.

Senza insistere su un aspetto abbastanza marginale attinente ad una possibile corrispondenza tra tali categorie e quelle della L. M. quali si sono andate configurando nei secoli, è ipotizzabile che i gradi degli “exoterici” siano ritrovabili in quelli di “apprendista”, “compagno” e “maestro”. In questo senso la qualifica di “perfetto” o “teleios” potrebbe avvicinarsi a quella di “Maestro Architetto” del R.S.I. o al perfezionamento implicito nello “Holy Royal Arch”. Da un altro punto di vista la distinzione di livello pitagorica potrebbe farsi anche coincidere con coloro che sono pervenuti ai “Piccoli Misteri” e coloro che hanno raggiunto i Grandi Misteri.

Più complessa appare la valutazione delle Tecniche usate dai Pitagorici anche per i riferimenti che si ritrovano, soprattutto nei “Versi dorati”, a modalità aderenti a regole igieniche ed a presupposti coincidenti con il modo di comportarsi nella vita di tutti i giorni. L’accenno di Diogene Laerzio che fondamentale era per i Pitagorici “l’essere uniti da una comunanza di simboli” lascia, però, intravedere una metodica simile a quella della L.M.. Come il Massone il Pitagorico analizza e riflette su “simboli” che gli consentono di sollevarsi dal mondo profano verso i piani più elevati sino a raggiungere la perfezione. È probabilmente in questa prospettiva che deve considerarsi il momento indicato da taluni come “divinificatio”, e che rappresenterebbe il raggiungimento da parte dell’adepto della fase iniziatica finale.

Fondamento dell’Organizzazione della Scuola e delle Tecniche usate e, come già indicato, la Escatologia pitagorica alla quale bene conviene il termine di “liberazione” come è usato in senso iniziatico. A differenza, infatti, della “salvazione” cristiana per cui tutti possono raggiungere la meta dopo che il Cristo ha lavato l’umanità dal “peccato originale”, la “liberazione” iniziatica di alcuni e non di tutti e come tale si ritrova nelle dottrine pitagoriche. Essa costituisce il risultato di una serie di passaggi che soltanto alcuni possono compiere, e che induce a ritenere, come ha rilevato Mircea Eliade una stretta parentela fra la impostazione pitagorica, l’Orfismo ed i Misteri Greci. Collegamenti che non escludono secondo una osservazione del Burkert, la presenza di incidenze “sciamaniche”, dimostrate, fra l’altro, dalla diffusa opinione che Pitagora avesse, come gli sciamani, una “coscia d’oro”. Ne deriva una posizione che rende sempre più la dottrina pitagorica impregnata dalle finalità che caratterizzano la Tradizione Occidentale anche nei suoi riferimenti indoeuropei. Importanti sono, a questo riguardo, gli accostamenti ipotizzati da Evola fra il Pitagorismo e le dottrine iperboree, etrusco-italiche, preindoeuropee e preromane.

Inserite in una prospettiva escatologica, la conoscenza matematica e la dottrina dei numeri, considerate spesso dai commentatori del pensiero pitagorico quali anticipazioni delle conoscenze matematiche moderne, acquistano un ben diverso valore. L’una e l’altra appaiono, indipendentemente dalla loro portata pratica, come momenti significativi per la conoscenza dell’Essere. Parafrasando Guénon si può affermare che per Pitagora ed i Pitagorici la matematica costituisce una “Scienza sacra” atta a fare pervenire gli adepti alla sua valutazione: L’Uno come la sacra “Tetrade” vanno intesi quali termini che esprimono le caratteristiche dell’eterna processualità che dall’unità dà luogo al molteplice e che da questo risale a quella. Impostazione tanto maggiormente accoglibile quando si ricordi, ancora con Guénon, che in epoche oramai lontane ma alla base della attuale non esisteva differenza che di livello fra le conoscenze esoteriche e quelle quotidiane. In altre parole non esisteva un concetto di scienza quale oggi postulato e la “Scienza Tradizionale” si poneva su un piano completamente diverso da quello da esso espresso.

La riprova del significato di “Scienza sacra” della dottrina dei numeri si ritrova nella Cosmologia pitagorica che ci è stata tramandata da Platone che non a caso affida ad un pitagorico, Timeo, l’illustrazione delle caratteristiche del cosmo. La stessa distinzione, di origine pitagorica, di un triplice mondo raffigurabile nell’Olimpo, nel Cosmos e nel mondo sublunare rafforza tale assunto. Induce quasi a ritenere che nella cosmologia pitagorica si possa ritrovare lo spunto per l’interpretazione di Guénon sulla esistenza di molteplici stati dell’Essere di cui la natura umana costituisce una delle componenti.

Ultimo punto che bene si inquadra in questa visione è quella che riguarda la dottrina della “metempsicosi”, spesso considerata come concernente pressoché esclusivamente la possibilità di una serie di passaggi da una specie all’altra in relazione a quello che l’uomo ha fatto nel corso della sua esistenza. In realtà, come ha dimostrato Reghini, la “metempsicosi”, rettamente intesa, implica la “palingenesi” ossia la capacità dell’uomo di sollevarsi dal suo stato presente per rientrare nell’Essere, avendo raggiunto la “liberazione”. Prospettiva molto più ampia della precedente, fra l’altro resa dubbia dall’impossibilità, rilevata da Guénon sul piano generale, dell’uomo di perdere lo stato che gli è proprio, e che non esclude, secondo la Tradizione Ermetica, la rinascita di chi non è rientrato nei Principio primo.

La conclusione che si può trarre da un esame per molti lati limitato ed impreciso nelle dottrine pitagoriche non è soltanto quella della larga parte che esse hanno nella Tradizione iniziatica Occidentale, ma, anche, dell’attualità della “escatologia” che ne costituisce il fondamento. In un’epoca nella quale il concetto di “operatività” ha perduto l’originario significato di “operazioni trasmutatorie” necessarie alla “liberazione” per diventare l’azione dell’iniziato nel mondo profano, il richiamo alle dottrine pitagoriche acquista un nuovo valore. Esso indica la limitatezza dell’agire dell’iniziato in tale mondo, anche se, al pari del “perfetto” pitagorico, può essere attivo in esso al fine di avviare non l’umanità che, come rilevava Guénon, è concetto equivoco di origine positivista, ma gli uomini verso la Luce. Sottolinea, al contrario, la profonda esigenza trasmutativa a cui gli iniziati devono ispirarsi e di cui il R.S.I. costituisce una delle vie per realizzarla con la validità che gli viene dai legami che mantiene con la Tradizione Iniziatica Occidentale.

 

Virgilio Lazzeroni

 

 

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EQUINOZIO D’AUTUNNO

EQUINOZIO D’AUTUNNO

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Carissime Sorelle e Carissimi Fratelli,

Nel mensile di agosto ho svolto alcune riflessioni   sul dovere dei Massoni di fronte ad un grave lutto dei Fratelli. Da Nord a Sud le cronache estive ci hanno messo davanti a tragici  eventi come il crollo del ponte “Morandi” a Genova, la tragedia del parco del Pollino in Calabria e molti altri a cui è stato dato meno rilievo sui notiziari. Da Nord a Sud la morte ha devastato molte famiglie. Non è mio compito svolgere considerazioni politiche o tecniche sulla fatalità o prevedibilità di questi eventi, ma vorrei condividere con il lettore un pensiero sull’Oriente Eterno cui tutti, volenti o nolenti, siamo diretti. La “morte” è una costante nel simbolismo massonico. Già il nostro deambulare in Tempio da Nord a Sud, con incedere costante, ci indica la strada che stiamo percorendo e la sua meta. Il simbolismo massonico ci viene sempre in aiuto quando ci troviamo di fronte alle grandi domande sulla vita.

Il 21 settembre celebriamo l’Equinozio d’Autunno, in coincidenza dell’entrata del Sole in Bilancia.

Riprendendo i nostri Lavori in Loggia, rinnoviamo l’impegno assunto con noi stessi di trasformare la pietra grezza in pietra cubica, ricercando la Verità nell’incontro con la nostra Interiorità. Il segno della Bilancia è associato alla morte. Qui comincia nello zodiaco il ciclo involutivo, in cui la vegetazione sembra morire, per poi rigenerarsi in altre forme e sostanze. Questa legge di natura riguarda anche l’uomo. Come il frutto si separa dall’albero, il seme si separa dal frutto e dal seme macerato nella terra nascerà una nuova pianta, così il corpo deve separarsi dalla sua anima perché questa possa rinascere a nuova vita.

È in autunno che avviene quella separazione di cui parla Ermete Trismegisto quando afferma: «Tu separerai il sottile dal denso con grande abilità», intendendo che dobbiamo separare lo spirituale dal materiale, attività che noi Massoni siamo esortati a fare prima di entrare in Tempio lasciando fuori i nostri metalli. Ma quali sono questi metalli che dobbiamo “lasciare” fuori dallo Spazio Sacro? Ho assistito di recente ad un battibecco ove si sosteneva che le donne non possono entrare in Tempio con i monili (orecchini e collane) perché sono metalli.

Purtroppo la scena (del crimine) è stata ancora una volta un social network (“Facebook”) che non ha tradito la mia aspettativa di assistere, inerme a considerazioni di asseriti massoni che di dottrina massonica, pur nella loro saccenza, hanno dimostra to di sapere poco o nulla.

Non ho la presunzione di essere depositaria della verità perché come voi sono alla sua ricerca, ma l’osservazione mi ha fatto sorridere non tanto per il suo contenuto, perché se al suo autore non è stata data una buona istruzione, c’è poco da scandalizzarsi, quanto il tono sprezzante utilizzato affatto disposto ad accettare l’opposta opinione secondo cui i metalli,

cui i rituali massonici si riferiscono, sono quelli interiori e non esteriori (lo stesso Rituale adottato anche dal nostro Ordine prevede, infatti, la restituzione al neofita dei metalli di cui è stato spogliato in Tempio). Ma cos’hanno i metalli a che vedere con la morte? Tutto.

La morte simbolica che subiamo più volte, deve portarci a rinascere sempre più scevri di quelle scorie che impediscono alla Luce di penetrare all’interno della nostra mente e queste scorie sono rappresentate dai metalli.

Ogni volta che moriamo non abbiamo terminato la nostra fatica di spoliazione perché la ricompensa continua ad essere la Morte, fino a quando non ci saremo liberati di tutti quegli involucri di cui è costituita la nostra personalità e che rappresentano i legami che tengono prigioniero il nostro Spirito alla Materia.

Se dal punto di vista simbolico riusciamo a dare un significato alla Morte, da massoni come affrontiamo quella Fisica?

La dottrina massonica non offre alcuna risposta e non può farlo, ognuno di noi è un Microcosmo a sé ed ha il suo approccio.

La Libera Muratoria, tuttavia, ci mette a disposizione gli strumenti per ragionare sull’estremo passo verso l’Oriente Eterno, tra cui l’indirizzo adogmatico, l’utilizzo della Ragione ed un’ampia visione cosmologica.

Siamo, infatti, consapevoli di non essere il Centro dell’Universo né che questo sia stato costruito per noi; ne facciamo intimamente parte secondo un’architettura che non lascia nulla al caso. Tutto si evolve verso uno Scopo Supremo.

Sta a noi, con il lavoro interiore ed il sapiente uso degli attrezzi che abbiamo a disposizione, cercare di trovare questo Scopo Supremo nelle risposte che più si allineano al nostro sentire, alla nostra formazione e soprattutto che ci aiutino ad affrontare con serenità l’ultimo passaggio da questa Terra, senza alcuna presunzione di avere la risposta giusta per tutti.

Torniamo quindi nei nostri Templi ad affinare con il Lavoro cui siamo chiamati, l’uso di questi attrezzi senza mai dimenticare che non lavoriamo solo per noi stessi ma anche per il bene del nostro prossimo.

Buon Equinozio d’Autunno

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LA RITUALITÀ (MODO. TEMPO, SPAZIO)

 

LA RITUALITÀ (MODO. TEMPO, SPAZIO)

 

Vittorio Vanni

 

 

Il Teurgo è, letteralmente, il creatore o generatore di Dèi.

James J. Fraser, Il Ramo d’Oro, Boringhieri, Torino, 1973.

Marcel Mauss, Teoria generale della Magia, Newton Compton, Roma, 1975, pag.21.

Ernesto De Martino. Il Mondo Magico, Boringhieri, Torino, 1958, pag.117.

Enciclica Humanum genus di Leone XIII, 20 marzo 1884.

La teofania è l’irruzione del numinoso, del sacro, del divino, indotta dal rito.

Cornelio Agrippa, filosofo e mago rinascimentale la cui maggiore opera è La Filosofia Occulta (Cfr. La Filosofia Occulta, Ed. Mediterranee, Roma, 1972, prefazione d’Arturo Reghini.)

Desmond Morris, I gesti nel mondo, Mondadori, Milano, 1995.

Konrad Lorenz, L’Anello di Re Salomone, Rusconi, Milano, 1989.

Iränaus Eibl-Eibenfeldt, Amore ed odio, Mondadori, Milano, 1995.

Eduard T. Hall, Il linguaggio silenzioso, Garzanti, Milano, 1972

Vitus B.Droscher, Il cosiddetto animale, Garzanti, Milano, 1974.

Cfr. Sonetti alchemici di Cecco d’Ascoli e Frate Elia con note storiche e commento a cura di Mario Mazzoni, Atanòr, Roma, 1995, sesto sonetto, p. 45.

Cfr. i testi: E. A. Wallace, Budge Amulets and Superstitions, Dover Publications, Inc, NewYork, 1978; Jan Marqués-Riviére Amuleti, talismani e pentacoli, Ed. Mediterranee, Roma,1972, e soprattutto Frederick Thomas Elworthy, L’Occhio del Diavolo, Armenia, Milano, 1988. I suddetti autori, massoni, hanno costituito un notevole corpo di studi atti a ricostruire l’essenza teorica e storica della ritualità universale e massonica)

Eggregoro (o anche eggregore) è un neologismo creato nella prima metà del XIX secolo. Sembra sia stato usato per primo da Eliphas Levi, pseudonimo dell’Abbé Louis Costant, notevolissimo personaggio del mondo esoterico e politico della sua età. Tratto dal greco egregorion, ‘il vegliante’, designa gli angeli caduti dell’apocrifo biblico Il Libro di Enoch, che, per amore delle figlie degli uomini, abitarono la terra, insegnando all’umanità ogni arte e scienza. Nella fraseologia esoterica attuale indica un’entità psichica collettiva che si produce sia per via naturale in qualsiasi congresso umano di almeno tre persone, che per via rituale. La caratteristica dell’eggregore consiste nel suo non essere la somma matematica delle energie. Può assumere esistenza e autonomia individuale per opera del teurgo, che è un creatore di Dèi.

 

 

IL MODO, IL TEMPO, LO SPAZIO

Si può tentare di definire la ritualità, peraltro imperfettamente, data la sua natura di collegamento fra mondo fisico e mondo iperfisico, come un insieme codificato di parole, atti e oggetti analogizzati simbolicamente all’invocazione ed evocazione d’esseri sovrannaturali. Le religioni exoteriche usano la ritualità in questi termini, inducendo atteggiamenti affettivi ed emozionali, mentre gli assiomi esoterici ritengono l’universo stesso (macrocosmo) un’entità energetica indifferenziata. L’uomo, (microcosmo) è l’immagine individualizzata e differenziata di quest’energia, e attraverso la teurgia  può attrarla e usarla, dandogli a sua volta forma antropica differenziata e quindi evocabile e invocabile. È nota l’importanza magico-rituale del Nome: per gli antichi possedere il Nome di un dio, (dando quindi all’energia universa una sua specificità individuale) significava possederne la potenza.

Vi è nella comparazione fra ritualità religiosa e ritualità iniziatica una differenza di grado, se non di qualità, che rende la seconda incomparabilmente superiore. Il secondo criterio rituale che Fraser codificò all’inizio degli studi antropologici, riportato poi dal Mauss nei suoi studi magico-antropologici, enuncia che «il rito magico ordinariamente, agisce di per sè‚ costringe, mentre il rito religioso adora e concilia; il primo ha un’azione meccanica immediata, il secondo agisce indirettamente e attraverso una specie di rispettosa persuasione»

Un esempio tipico di questo procedimento è stato studiato da un punto di vista antropologico dal De Martino  che ha esaminato l’iniziazione sciamanica di Aua: «Fu nel mezzo di un tale accesso di misterioso e sommergente gaudio che io diventai sciamano; il misterioso, l’inqualificabile, il senza orizzonte, l’irrelativo, l’insorgente, il caotico diventa ora il piccolo Aua, una forma definita, un’esistenza qualificata, uno »spirito» che verrà quando sarà chiamato, e che fornisce il potere paragnomico».

Se è vero che i rituali massonici, come notò già Leone XIII nella sua più interessante enciclica antimassonica, assomigliano a quelli legati ai sacramenti, ciò deriva dal fatto che la liturgia cattolica non è una creazione specifica e originale del cattolicesimo, ma è un’interessante imitazione della ritualità antica, in piccola parte ebraica, ma soprattutto indotta da quella misterica, sia mediterranea che mediorientale. Il calendario liturgico, l’uso dei colori, gli strumenti rituali, ecc., sono stati completamenti indotti da ciò che i cristiani chiamarono sprezzantemente il «paganesimo», mentre ne tramandavano sia le speculazioni teurgico-metafisiche del neoplatonismo (Cfr. Porfirio, Giamblico, Plotino) che le connotazioni popolari (festività, venerazione dei santi, processioni, esorcismi ecc.). Uno dei grandi meriti della civiltà cattolica consiste proprio nell’aver tramandato fino a epoche recenti, o quanto meno al periodo pre-riformistico, la grandiosità liturgica e simbolica del mondo antico.

La Chiesa Romana in tempi recenti ha rinunciato all’uso del latino come lingua sacra nelle sue cerimonie; ha espurgato le grandi e universali tradizioni rituali dai suoi schemi liturgici, ha rinunciato al simbolismo architettonico nelle chiese e cattedrali moderne. Solo un simbolista e ritualista può oggi apprezzare e rimpiangere con cognizione di causa ciò che la Chiesa Romana ha volontariamente perduto. La fretta – a nostro giudizio errata – di adeguarsi al presente non considera che solo in un ipotetico e lontano futuro l’umanità potrà evolversi tanto da poter intuire, comprendere, vedere, la bellezza infinita dei frattali delle linee di forza dell’energia universale, il suono silente dell’armonia delle sfere che il rito tradizionale induce, la gioia infinita e l’illuminazione che la teofania produce nell’uomo.

La caratteristica fondamentale della ritualità è la sua universalità. Gli ultimi cento anni di studi etnologici, antropologici e psicoanalitici affermano che gli assiomi fondamentali della ritualità, la sua stessa applicazione formale sono stati e sono fondamentalmente gli stessi. I Sumeri e i Babilonesi di quattromila anni fa, i bramani ayur-vedici ancora più antichi, le tribù amerindiane del XIX secolo, le stirpi oceaniche e gli aborigeni australiani del XVII secolo, i misteriosofici mediterranei dell’era precristiana hanno avuto e hanno la stessa forma e sostanza rituale. I semplici assiomi delle modalità rituali si possano così sintetizzare:

LO SPAZIO

 

geografia e geofisica sacra: scelta di una località in cui le forze cillenie e quelle ctoniche, prima intuite per via naturale, e susseguentemente conosciute per tradizione, possano favorire nell’uomo stati superiori di coscienza.

creazione di uno spazio sacro in cui possa effettuarsi un’influenza spirituale, una ierofania.

orientamento spaziale, geografico e astronomico, o allineamento macro-microcosmico.

 

IL TEMPO

 

orientamento temporale-astronomico

 

rituali solari: solstiziali ed equinoziali legati all’aumento o alla diminuizione della luce e all’inizio delle stagioni

rituali lunari delle quattro fasi

rituali lunari delle domificazioni della luna

rituali orario-planetari

 

orientamento astrologico

 

riti astrologico-decanali

riti astrologico-zodiacali

 

Negli ultimi tre secoli, ma soprattutto dalla metà del ’700 in poi, il calcolo, ma soprattutto la percezione del tempo è completamente cambiata e negli studi rituali, come nell’operatività magico-rituale, vi è la necessità di percepire la successione temporale così come la concepivano gli antichi, una struttura scandita in senso verticale (il tempo – i tempi- i tempi del tempo) ritmata dai cicli inesorabili del sole, della luna, delle stelle, delle stagioni e del lavoro che era ad esse sinergicamente connesso.

In questo modo vi era allora un tempo per ogni cosa, mentre adesso non vi è più niente che abbia il senso del tempo reale. L’attuale struttura del tempo, strumentale, meccanica, artificiosa, schiaccia e appiattisce l’uomo, che soffre nella morsa dei ritmi innaturali imposti dall’attuale inciviltà e fra la pulsione di quelli naturali che la sua natura biologica, psichica, intellettuale, spirituale, abbisognerebbe. La scansione cronologica non è più indotta dal rapporto micro-macrocosmico, dall’allineamento fra umanità ed universo, ma da valori, necessità, desideri, interessi, bisogni tecnico-sociologici che, in astratto legittimi, si rivelano poi disumanizzanti.

Le problematiche legate all’uso del tempo rituale non si risolvono unicamente con la conoscenza del tempo tradizionale, che sarebbe relativamente semplice ritrovare. Negli ultimi secoli sono avvenute profonde modificazioni biologiche e biopsichiche dell’organismo umano (prodotte dalle implicazioni psicosomatiche della variazione del tempo individuale). La prima e più importante perdita è stata quella del tempo memoriale o sociale, in seguito alla scomparsa dei mores che facevano sì che la tradizione orale fosse nel frattempo storia e mito, identità individuale e sociale assieme.

La mente, strumento dell’intelletto, ha necessità di definire, di limitare la realtà fisica, di concentrarne l’essenza in uno spazio mentale più puntiforme possibile, proprio perché l’intelletto possa metaforizzarne e simboleggiarne l’esperienza materiale, ritrovando l’indefinito e l’infinito nell’astrazione metafisica. La memoria individuale è resa quasi inutile dalla quantità e dalla rapidità delle informazioni, quasi sempre effimere e transeunti, e quindi labili, deboli, evanescenti. Le incidenze interiori di questo processo sono di difficile verifica logica, ma producono comunque una deconcentrazione e un’alienazione sia dalla realtà esterna che dall’interiore. Questa modifica biopsichica dell’entità fisiologica può produrre nel frattempo una modifica all’entità animica ad essa corrispondente, con conseguente perdita di alcune facoltà intuitive sui piani sottili che già l’umanità del medioevo conservava in parte.

 

IL MODO

 

  1. A) Il Segno

 

Le modalità dell’evocazione teofanica sono prodotte dalla magia simpatica. Questo termine non tradizionale è stato indotto dalla definizione di Fraser, ripresa poi dal Mauss e significa una tecnica magica che si ritiene produca il suo effetto grazie all’identità fra lo scopo perseguito e i mezzi adoperati. Il principio è che «simile produce simile». Il termine tradizionale è segnatura, sigillo, analogia.

Le concezioni magiche tradizionali ritenevano, per il principio esoterico del: «Tutto in Uno, Uno in Tutto», che ogni energia universa si rispecchiasse sulla natura, sulle cose, sull’uomo. Se la finalizzazione del rito era quindi la creazione di uno stato di potenza si pensava che adunando tutto ciò che materialmente e/o simbolicamente rispecchiava l’energia «potenza» si potesse attrarne le qualità. Da qui le tavole analogiche tradizionali d’equipollenza simbolica, di cui il massimo codificatore fu Cornelio Agrippa.

Il Quadro di Loggia nei vari gradi massonici è un esempio classico di questa «evocazione», espressa per il principio analogico con simboli rappresentati graficamente.

 

  1. B) Il gesto rituale come comunicazione metafisica.

 

La principale forma di comunicazione non-verbale è stata il gesto. Gli studi di Morris, Lorenz, Iränaus Eibl-Eibesfeldt,  Hall,  Drosher  hanno affermato che la gestualità negli animali e nell’uomo è innata, ma può evolversi e maturarsi per apprendimento. Il gesto ieratico, espressione prima della ritualità, è comune a tutte le culture, anche senza influenza diretta. Esprime un’imitazione, istintiva e cosciente, dei grandi cicli celesti e terrestri, ed uno degli elementi fondamentali dell’allineamento micro-macrocosmico, con cui l’uomo può sperimentare stati dell’essere non comunemente conosciuti.

 

  1. C) Il contatto rituale come scambio d’energie sottili.

 

Nelle antiche credenze, comuni ad Oriente ed Occidente, non si considerava, nella fisiologia materiale, dell’uomo solo la sua componente visibile.

Energie più sottili, chiamate in Occidente eteriche o astrali formavano la sua fisiologia non visibile con potenzialità che potevano essere attivate, scambiate ed aumentate attraverso il contatto fisico, in quanto la posizione dei centri o nodi energetici fisici coincidevano con quelli iperfisici. L’imposizione delle mani, ad esempio nell’unzione regale, nell’ordinazione sacerdotale o nella terapeutica, trasmetteva energie sottili attraverso uno dei nodi più importanti della fisiologia visibile ed invisibile dell’uomo. Lo schiaffo o collata dell’investitura cavalleresca trasmetteva qualità marziali attraverso la violenza (o lo choc dell’atto).

Nell’iniziazione artigiana da cui la Massoneria prende origine, il segno nei vari gradi tende ad attivare le energie corrispondenti.

Il segno gutturale del 1° grado evoca il Logos, che attraverso il Fiat effettua la creazione primigenia, l’inizio spaziale e temporale dell’attuale stato dell’essere. Il segno cardiaco del 2° grado risveglia il pensiero del cuore, quella facoltà intuitiva e istintiva che poneva l’umanità in contatto diretto con l’energia universa, e che è stato in parte perduto attraverso la necessaria evoluzione umana verso la razionalità, il pensiero della mente.

Il cammino esoterico non comporta certamente la perdita della razionalità, conquista terribile, faticosa e dolorosa, ma la riacquisizione e la coordinazione mentale e spirituale di quegli elementi di sensibilità sottile perduti dall’uomo nel suo cammino evolutivo. Il segno addominale del 3° grado riattiva il terzo gran nodo energetico dell’uomo, quello generativo, la cui forza, come recita l’Ecclesiaste, «è più forte della morte».

Frate Elia da Cortona fu un notevolissimo personaggio, successore di S.Francesco nell’Ordine e perseguitato per sospetta eresia da S. Antonio da Padova e da Gregorio IX. In un suo sonetto ermetico Elia accenna a questa operatività quando afferma:

 

Allor ti puoi tocar sotto il belico

e dire: i’ son Maestro certamente.

 

I toccamenti massonici, segno di riconoscimento dei Fratelli nei vari gradi, esprimono lo stesso concetto, in quanto le dita della mano esprimono a loro volta vari tipi d’energia, secondo gli schemi analogici della cosiddetta »mano pantea»  misterica e neoplatonica. La presa o griffe del Maestro, detta anche i «Cinque punti della Maestria», che rappresenta la parte finale del rituale d’elevazione al grado di Maestro, rappresenta una vera trasmissione fisiologica e metafisica di poteri iniziatici.

È da notare che la ritualità massonica non è in genere una trasmissione personale e diretta di un’influenza spirituale. Essendo la trasmissione esoterica, quella, appunto, iniziatica, del terzo stato sociale, ha caratteristiche collettive, perché necessita di un certo numero di Fratelli, tre o cinque o sette, per la validità del rito. La presa di Maestro è invece l’unica forma massonica concessa di trasmissione iniziatica diretta e personale, da Maestro a Discepolo.

Un altro esempio di ritualità massonica attraverso il gesto e il contatto consiste nella Catena d’unione. Introdotta nella Massoneria francese nella seconda metà del XVIII secolo, ha origini primordiali nell’ambito della ritualità universale. L’uso rituale della catena d’unione, mantenuto nella liturgia massonica, ha un’antichissima origine nelle danze rituali dei popoli antichi. Per questi la danza non era soltanto un mezzo di puro divertimento, ma aveva una scopo pragmatistico di ritualità magica, in cui ci si riprometteva di mettere in opera una forza sovra-individuale, cercando di metterla a profitto della comunità. Quest’antica operatività, la cui arte esiste ancora in alcune comunità religiose od esoteriche, è tuttora vivente. Secondo queste concezioni, la danza agisce nel frattempo su due piani:

 

Eggregorico: la formazione d’eggregoro  è facilitata dalla simultaneità dei movimenti,   indotta dal ritmo musicale ossessivo, spesso dalla ripetizione di un motivo cantato di tipo mantrico, ecc.che produce una sinergia simultanea delle componenti psichiche ed animiche dei partecipanti.

Individuale: lo stordimento della coscienza impegnata in un’attività fisica di notevole fatica, l’assenza di pensiero che ne deriva, favorisce, in una sorta d’inebriamento spesso aumentato da bevande ed eccitanti, il distacco dei corpi sottili e quindi la possibilità d’estasi e visioni e di contatto quindi con i piani superiori.

 

A esemplificare quest’operatività si possono ricordare le danze dionisiache, che potevano terminare con il furore delle baccanti e delle menadi, i sacerdoti cananei di Baal (III I Re XVIII, 26), i profeti israeliti (I Re [Sam.], X,5; XIX,20). Ai nostri tempi possiamo ricordare come nell’islamismo vi sia ancora la confraternita religiosa Mawlawiyyah (in turco ‘Mevleva’), o dei «dervisci giranti», la setta metodista degli Jumpers (saltatori) in Inghilterra ed in America, quella dei Chlysti nella Russia.

Nell’antico mondo mediterraneo i balli ciclici o pirrici, sia maschili sia femminili o misti potevano essere di semplice girotondo o tendendosi stretti incrociando le mani dietro le spalle. Il mito narra che fu Teseo che, per sciogliere un voto ad Apollo, danzò con i suoi compagni prima a destra, poi a sinistra, stabilendo così i primi ritmi della strofe e dell’antistrofe. Sono così caratterizzati i nostri stessi procedimenti d’apertura e chiusura rituale con deambulazione a destra (senso orario o solare), e, in alcuni usi rituali, la chiusura con deambulazione a sinistra (senso antiorario o polare).

La storiografia riporta queste danze, ricordate anche nei poemi omerici alla tradizione cretese. Le pirriche presero il nome da Pirro, figlio d’Achille che l’avrebbe danzata in tali forme. Alessandro l’avrebbe danzata a Faselide, intorno alla tomba di Teodette, prima della conquista della Persia. È chiaro in questo caso che Alessandro intendeva ottenere magicamente un rapporto od un’identificazione con l’eroe defunto.

Ognuna di queste danze originarie fornì il tipo della lirica corale per i generi melici, già tradizionalmente affermati nelle caratteristiche di melodia e di ritmo. Le battute che segnarono il tempo delle danze furono più spesso di 2/4 o 6/8 e meno frequentemente di 2/4 o 6/8 e, tra queste, quelle di 6/8 e 5/8, più proprie delle danze che si chiamavano stasimotere, nelle quali i danzatori, pur movendosi per evoluzioni diverse, non si allontanavamo mai dal luogo scelto per l’esecuzione orchestrale; mentre il 2/4 e 2/2 erano tempi appropriati agli embateri o danze processionali, che più da vicino si riportavano al passo della pirrica.

Alcame, per primo, nei parteni, usò alternare i ritmi di 6/8 e 2/6 e concepì un nesso ritmico-melico che nelle danze stasimotere e processionali si susseguivano di continuo. I vari passi tradizionali che accompagnavano i ritmi meriterebbero un’analisi da un’esperta di questo settore, e producevano certamente un loro particolare effetto sia psichico sia metafisico.

Pur senza dilungarsi in descrizioni tecniche, si può ricordare che ogni euritmia aveva una particolare finalizzazione, così come insegnava ancora pochi decenni fa la scuola esoterica di Gurdgjeff. Un’altra applicazione statica di questa dottrina si può ancora esemplificare nei segni d’ordine massonici o iniziatici in genere.

La caratteristica della catena d’unione così come oggi è effettuata è quella di aumentare in proporzione geometrica la potenzialità eggregorica dei partecipanti, che il capo-catena ha il compito di raccogliere e finalizzare con particolari metodiche. Il contatto fisico dei partecipanti, eseguito secondo le regole della fisiologia sottile, produce energia: la concentrazione dei partecipanti e quella del capo-catena la dirigono.

Questo contatto fisico si ottiene semplicemente stringendo con la mano destra la mano sinistra del partecipante, e viceversa, come nella pratica rituale del girotondo che inconsciamente i bambini effettuano da sempre, tenendo conto che l’energia circola meglio secondo queste considerazioni: la mano destra dell’uomo ha polarità positiva, la sinistra negativa. Per la donna, la polarizzazione è opposta. Se la catena fosse formata da soli uomini o sole donne, sarebbe sufficiente il tenersi semplicemente per mano. Se la catena è mista si deve procedere in tal modo: gli uomini incrociano le braccia (la destra sulla sinistra), prendendo la mano sinistra dell’uomo che gli è accanto con la mano destra. Le donne (alternate agli uomini) non incrociano le braccia ma avendole distese prendono con la destra (-) la destra (+) dell’uomo che gli è accanto a destra e con la sinistra (+) la sinistra (-) dell’uomo che gli è accanto a sinistra. Se le posizioni non fossero queste avremmo la sinistra dell’uomo (-) unita con la destra (-) della donna e la destra della donna (-) con la sinistra dell’uomo (-). In questo caso l’energia non potrebbe ne prodursi ne circolare.

Curiosamente la catena d’unione massonica, nelle comunioni solo maschili, – corretta in quanto sinistra [-] con destra [+] – è effettuata come se dovessero esservi elementi femminili. Quando la catena è correttamente chiusa ogni membro a occhi chiusi visualizza intensamente il volto del capo-catena che a sua volta, sempre a occhi chiusi, visualizza lo scopo o l’effetto proposto.

Quando il capo-catena ritiene che l’energia si sia prodotta e sia circolata correttamente, invia l’energia, scuotendo per tre volte le braccia (ogni volta con una pausa d’alcuni secondi) producendo lo stesso effetto nei partecipanti alla catena, che la sciolgano subito dopo. Le antiche scuole iniziatiche avevano una vera e propria teoria rituale sull’uso operativo della catena d’unione.

LA PAROLA

 

La parola costituisce il modo di comunicazione legato alla razionalità, ed interagisce con essa. La raggiunta razionalità degli esseri umani ha prodotto l’uso della parola, ma l’uso della parola a sua volta produce razionalità. L’esposizione di un concetto, astratto o concreto che sia, attraverso la parola è una tecnica mentale complessa e raffinatissima che è oggetto di una precisa branca di studi psichici e psicologici. All’origine di questa razionalità la definizione di una qualsiasi realtà, fisica o metafisica che fosse, attraverso la parola, era considerata un potere formidabile sulla stessa realtà considerata.

Per il principio esoterico d’unità globale non vi era differenziazione fra realtà descrittiva e realtà descritta, e nominare una cosa significava nel contempo possederla. L’uso di formule magiche, di lingue arcaiche, o anche di semplice glossolalia determinava quindi dominio o potere sulla cosa desiderata o anche sulle stesse divinità di cui si possedeva il nome.

Per questo molto spesso gli Dei o anche le città avevano un nome segreto, da nascondere ai profani o ai nemici. Lo stesso concetto è applicabile all’uso di all’assumere uno ieronimo all’atto dell’iniziazione.

Nel rituale massonico, come in ogni rituale d’altro genere, vi sono due componenti essenziali. Una parte liturgica, basata sulle modalità sovradescritte di spazio, tempo e modo, in una schematicità ormai ampiamente descritta e codificata scientificamente, in modo tale che è possibile oggi avere dei parametri oggettivi di giudizio rituale. Cade così ogni soggettività individuale nella «correzione» o «restaurazione» di un rituale massonico, spesso affidate all’arbitrio estetico o ideologico del singolo.

La parte letteraria del Rituale, in cui si esprimono concetti etici e morali, speranze, desideri e volontà, costituisce le finalizzazioni indispensabili, che possano anche variare con il mutare dei tempi, in modo da riportarne l’evoluzione-involuzione su basi tradizionali. La prudenza in questo campo è però indispensabile

La parte liturgica, che si fonda su principi immutabili ed eterni – come quelli che pongono l’uomo in contatto fisico e metafisico con l’universo – non può esser variata. I termini simbolico-operativi della Massoneria, ad esempio, avendo acquisito nel tempo una loro suggestività, ma soprattutto una loro potenza eggregorica, sono divenuti degli schemi liturgici a noi specifici e non possono più esser variati. In questi termini la Massoneria si può rilevare come un ponte forse unico fra un lontanissimo passato e un lontanissimo futuro, quando l’umanità avrà effettuato un salto di qualità tale da avere in se stessa gli schemi razionali ed istintivi assieme che collegano l’uomo alla natura, all’universo e a Dio.

Quando questo avverrà, gli strumenti religiosi, rituali, iniziatici diverranno le stampelle che il malato ormai guarito lascia, come un ex-voto, ai santuari dei miracoli.

 

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INIZIA LA REGOLA DEI POVERI COMMILITONI DELLA SANTA CITTA’

 

INIZIA LA REGOLA DEI POVERI COMMILITONI DELLA SANTA CITTA’

 

 

 

I-Quale divino ufficio debbano udire

 

Voi che rinunciate alla vostra volontà, e tutti gli altri che per la salvezza della anime con cui militano per un certo tempo, con cavalli e armi per il sommo re, abbiate cura di udire con pio e puro desiderio nella sua totalità Matutini e l’Integro Servizio, secondo l’istituzione canonica e la consuetudine dei dottori regolari della Santa Città.

 

Soprattutto da voi, venerabili fratelli, è dovuto il sommo grado, poiché disprezzata la luce di questa vita, e superata la preoccupazione dei vostri corpi, avete promesso di disprezzare il mondo incalzante per amore di Dio per sempre: rifocillati e saziati dal divino cibo, istituiti e confermati dai precetti del Signore, dopo la consumazione del Divino Mistero nessuno tema la battaglia, ma sia preparato alla corona.

 

 

 

II-Dicano le preghiere del Signore, se non hanno potuto udire il servizio di Dio

 

Inoltre se un fratello lontano per caso per un impegno della cristianità orientale (e questo più spesso non dubitiamo sia avvenuto) non potesse udire per tale assenza il servizio di Dio: per Matutini dica tredici orazioni del Signore e per le singole ore, sette; per i Vespri, riteniamo se ne debbano dire nove, e questo lo affermiamo unanimemente a libera voce: Questi infatti impegnati così in un lavoro di preservazione, non possono accorrere nell’ora opportuna al Divino Ufficio. Ma se fosse possibile, nell’ora stabilita non trascurino quanto dovuto per istituzione.

 

 

 

III-Che cosa fare per i fratelli defunti

 

Quando uno dei fratelli professi sacrifica ciò che è impossibile strappare alla morte, che non risparmia nessuno, ciò che è impossibile strappare: ai cappellani e ai sacerdoti che con voi caritatevolmente e temporaneamente servono al Sommo Sacerdote comandiamo con carità di offrire per la sua anima a Cristo con purezza di spirito l’ufficio e la Messa solenne. I fratelli ivi presenti, che pernottano pregando per la salvezza del fratello defunto, dicano cento orazioni del Signore fino al settimo giorno per il fratello defunto: dal giorno in cui fu annunciata la morte del fratello, fino al predetto giorno, il numero centenario venga rispettato con fraterna osservanza nella sua integrità con divina e misericordiosa carità scongiuriamo, e con pastorale autorità, comandiamo, che ogni giorno, come al fratello si dava e si doveva nelle necessità così si dia ad un povero fino al quarantesimo giorno ciò che è necessario al sostentamento di questa vita, per quanto riguarda cibo e bevanda. Del tutto proibiamo ogni altra offerta, che nella morte dei fratelli, e nella solennità di Pasqua, inoltre nelle altre solennità, la spontanea povertà dei poveri commilitoni di Cristo era solita in modo esagerato dare al Signore.

 

 

 

IV-I cappellani abbiano soltanto vitto e vestito

 

Comandiamo che per comune accordo del capitolo le altre offerte e tutte le altre specie di elemosine, in qualunque modo siano, vengano date con attenta cura ai cappellani o gli altri che restano temporaneamente. Perciò i servitori della Chiesa abbiano soltanto vitto e vestito secondo l’autorità, e non pretendano di avere nulla di più, tranne che i maestri spontaneamente e caritatevolmente abbiano dato.

 

 

 

V-I soldati temporanei defunti

 

Vi sono tra di noi dei soldati che temporaneamente e misericordiosamente rimangono della casa di Dio, e Tempio di Salomone. Perciò con ineffabile supplica vi preghiamo, scongiuriamo, e anche con insistenza comandiamo, che nel frattanto la tremenda potestà avesse condotto qualcuno all’ultimo giorno, per amore di Dio, fraterna pietà, un povero abbia sette giorni di sostentamento per la sua anima.

 

 

 

VI-Nessun fratello professo faccia un’offerta

 

Abbiamo decretato, come più sopra fu detto, che nessuno dei fratelli professi presuma di trattare un’altra offerta: ma giorno e notte con cuore puro rimanga nella sua professione, perché sia in grado di eguagliare il più santo dei profeti in questo: prenderò il calice della salvezza, e nella mia morte imiterò la morte del Signore: poiché come Cristo diede la sua anima per me, così anche io sono pronto a dare l’anima per i fratelli, ecco l’offerta giusta: ecco l’ostia viva gradita a Dio.

 

 

 

VII-Non esagerare nello stare in piedi

 

Abbiamo sentito con le nostre orecchie un teste sincerissimo, che voi assistete al divino ufficio stando costantemente in piedi: questo non comandiamo anzi vituperiamo: comandiamo che finito il salmo, “Venite esultiamo al Signore” con l’invitatorio e l’inno, tutti siedano tanto i forti quanto i deboli, per evitare scandalo. Voi che siete presenti, terminato ogni salmo, nel dire “Gloria al Padre”, con atteggiamento supplice alzatevi dai vostri scanni verso gli altari, per riverenza alla Santa Trinità ivi nominata, e insegnammo ai deboli il modo di chinarsi. Così anche nella proclamazione del Vangelo, e al “Te Deum laudamus”, e durante tutte le Lodi, finché finito “Benediciamo il Signore”, cessiamo di stare in piedi, comandiamo anche che la stessa regola sia tenuta nei Matutini di S. Maria.

 

 

 

VIII-Il riunirsi per il pasto

 

In un palazzo, ma sarebbe meglio dire refettorio, comunitariamente riteniamo che voi assumiate il cibo, dove, quando ci fosse una necessità, a causa della non conoscenza dei segni, sottovoce e privatamente è opportuno chiedere. Così in ogni momento le cose che vi sono necessario con ogni umiltà e soggezione di reverenza chiedete durante la mensa, poiché dice l’apostolo: Mangia il tuo pane in silenzio. E il Salmista vi deve animare, quando dice: Ho posto un freno alla mia bocca, cioè ho deciso dentro di me, perché non venissi meno nella lingua cioè custodivo la mia bocca perché non parlassi malamente.

 

 

 

IX-La lettura

 

Nel pranzo e nella cena sempre si faccia una santa lettura. Se amiamo il signore, dobbiamo desiderare di ascoltare attentamente le sue parole salutifere e i suoi precetti. Il lettore vi intima il silenzio.

 

 

 

X-Uso della carne

 

Nella settimana, se non vi cadono il Natale del Signore, o la Pasqua, o la festa di S. Maria, o di tutti i Santi, vi sia sufficiente mangiare tre volte la carne: l’abituale mangiare la carne va compresa quale grave corruzione del corpo. Se nel giorno di Marte cadesse il digiuno, per cui l’uso della carne è proibito, il giorno dopo sia dato a voi più abbondantemente. Nel giorno del Signore appare senza dubbio, opportuno dare due portate a tutti i soldati professi e ai cappellani in onore della Santa Resurrezione. Gli altri invece, cioè gli armigeri e gli aggregati, rimangono contenti di uno, ringraziando.

 

 

 

XI-Come debbono mangiare i soldati

 

E’ opportuno generalmente che mangino due per due, perché l’uno sollecitamente provveda all’altro, affinché la durezza della vita, o una furtiva astinenza non si mescoli in ogni pranzo. Questo giudichiamo giustamente, che ogni soldato o fratello abbia per sé solo una uguale ed equivalente misura di vino.

 

 

 

XII-Negli altri giorni siano sufficienti due o tre portate di legumi

 

Negli altri giorni cioè nella seconda e quarta feria nonché il sabato, riteniamo che siano sufficienti per tutti due o tre portate di legumi o di altri cibi, o che si dica companatici cotti: e così comandiamo che ci si comporti, perché chi non possa mangiare dell’uno sia rifocillato dall’altro.

 

 

 

XIII-Con quale cibo è necessario cibarsi nella feria sesta

 

Nella feria sesta riteniamo lodevole accontentarsi di prendere solamente un unico cibo quaresimale per riverenza alla passione, tenuto conto però della debolezza dei malati, a partire dalla festa dei santi fino a Pasqua, tranne che capiti il Natale del Signore o la festa di S. Maria o degli Apostoli. Negli altri tempi, se non accadesse un digiuno generale, si rifocillino due volte.

 

 

 

XIV-Dopo il pranzo sempre rendano grazie

 

Dopo il pranzo e la cena sempre nella chiesa, se è vicina, o, se così non è, nello stesso luogo, come conviene, comandiamo che con cuore umiliato immediatamente rendano grazie al sommo procuratore nostro: che è Cristo: messi in disparte in pani interi, si comanda di distribuire come dovuto per fraterna carità ai servi o ai poveri i resti.

 

 

 

XV-Il decimo del pane sia sempre dato all’elemosiniere

 

Benché il premio della povertà che è il regno dei cieli senza dubbio spetti ai poveri: a voi tuttavia, che la fede cristiano vi confessa indubitabilmente parte di quelli, comandiamo che il decimo di tutto il pane quotidianamente consegniate al vostro elemosiniere.

 

 

 

XVI-La colazione sia secondo il parere del maestro

 

Quando il sole abbandona la regione orientale e discende nel sonno, udito il segnale, come è consuetudine di quella regione, è necessario che tutti voi vi rechiate a Compieta, ma prima desideriamo che assumiate un convivio generale. Questo convivio poniamo nella disposizione e nella discrezione del maestro, perché quando voglia sia composto di acqua; quando con benevolenza comanderà, di vino opportunamente diluito. Questo non è necessario che conduca a grande sazietà o avvenga nel lusso, ma sia parco; infatti vediamo apostatare anche i sapienti.

 

 

 

XVII-Terminata la Compieta si conservi il silenzio

 

Finita la Compieta è necessario recarsi al giaciglio. Ai fratelli che escono da Compieta non venga data licenza di parlare in pubblico, se non per una necessità impellente; quanto sta per dire al suo scudiero sia detto sommessamente. Forse può capitare che in tale intervallo per voi che uscite da Compieta, per grandissima necessità di un affare militare, o dello stato della nostra casa, perché il giorno non è stato sufficiente, sia necessario che lo stesso maestro parli con una parte dei fratelli, oppure colui al quale è dovuto il comando della casa come maestro. Così questo comandiamo che avvenga; poiché è scritto: Nel molto parlare non sfuggirai al peccato. E altrove: La morte e la vita nelle mani della lingua. In questo colloquio proibiamo la scurrilità, le parole inutili e ciò che porta al riso: e a voi che vi recate a letto, se qualcuno ha detto qualcosa di stolto, comandiamo di dire l’orazione del Signore con umiltà e devota purezza.

 

 

 

XVIII-Gli stanchi non si alzino per i Matutini

 

Non approviamo che i soldati stanchi si alzino per i Matutini, come è a voi evidente: ma con l’approvazione del maestro, o di colui al quale fu conferito dal maestro, riteniamo unanimemente che essi debbano riposare e cantare le tredici orazioni costituite, in modo che la loro mente concordi con la voce secondo quanto detto dal profeta: Salmeggiate al Signore con sapienza: e ancora: al cospetto degli angeli salmeggerò a te. Ma questo deve dipendere dal consiglio del maestro.

 

 

 

XIX-Sia conservata comunità di vitto tra i fratelli

 

Si legge nella pagina Divina: Si divideva ai singoli, come era necessario per ciascuno. Perciò non diciamo che vi sia accezione di persone ma vi deve essere considerazione delle malattie. Quando uno ha meno bisogno, ringrazi Dio, e non si rattristi: colui che ha bisogno si umili per l’infermità, non si innalzi per la misericordia, e così tutte le membra saranno in pace. Ma questo proibiamo ché a nessuno sia lecito abbracciare una astinenza fuori posto, ma conducano una vita comune costantemente.

 

 

 

XX-Qualità e stile del vestito

 

Comandiamo che i vestiti siano sempre di un unico colore, ad esempio bianchi, o neri, o, per così dire, bigi. A tutti i soldati professi in inverno e in estate, se è possibile, concediamo vesti bianche, cosicché coloro che avranno posposto una vita tenebrosa, riconoscano di doversi riconciliare con il loro Creatore, mediante una vita trasparente e bianca. Che cosa di bianco, se non l’integra castità? La castità è sicurezza della mente, e sanità del corpo. Infatti ogni militare, se non avrà preservato nella castità, non potrà raggiungere la pace perpetua e vedere Dio; come attesta l’apostolo San Paolo: Seguiamo la pace con tutti e la castità, senza cui nessuno vedrà il Signore. Ma perché una sia di questo stile deve essere privo della nota arroganza e del superfluo; comandiamo a tutti che abbiano tali cose affinché ciascuno da solo sia capace senza clamore di vestirsi e svestirsi, mettersi i calzari e levarseli. Il procuratore di questo ministero con vigile cura sia attento nell’evitare questo, coloro che ricevono abiti nuovi, restituiscano subito i vecchi, da riporre in camera, o dove il fratello ci spetta il compito avesse deciso, perché possano servire agli scudieri o agli aggregati, oppure ai poveri.

 

 

 

XXI-I servi non portino vesti bianche, cioè pallii

 

Decisamente disapproviamo quanto era nella casa di Dio e del tempio dei suoi soldati, senza discrezione e decisione del comune capitolo, e comandiamo, che venga radicalmente eliminato quasi fosse un vizio proprio. I servi e gli scudieri portavano una volta vestiti bianchi, donde derivavano danni. Sorsero infatti in zone ultra montane alcuni falsi fratelli, sposati, ed altri, che dissero di appartenere al Tempio, mentre sono del mondo. Costoro procurarono tante ingiurie e tanti danni all’ordine militare, e gli aggregati presuntuosi come professi insuperbendo fecero nascere numerosi scandali. Portino quindi sempre vestiti neri: nel caso in cui questi non possano essere trovati, abbiano quelli che si possano trovare nella provincia in cui abitano, o quanto può essere avvicinato alla più semplice di un unico colore, cioè bigio.

 

 

 

XXII-I soldati professi portino solo vestiti bianchi

 

A nessuno è concesso portare tuniche candide, o avere pallii bianchi, se non ai nominati soldati.

 

 

 

XXIII-Si usino solo pelli di agnelli

 

Abbiamo deciso di comune accordo, che nessun fratello professo abbia pelli di lunga durata perenne o pelliccia o qualcosa di simile, e che serva al corpo, anche per coprirlo se non di agnelli o arieti.

 

 

 

XXIV-I vecchi vestiti siano dati agli scudieri

 

Il procuratore o datore dei vestiti con ogni attenzione dia i vecchi abiti sempre agli scudieri e agli aggregati, e talvolta ai poveri, agendo con fedeltà ed equità.

 

 

 

XXV-Chi brama le cose migliori abbia le peggiori

 

Se un fratello professo, o perché gli è dovuto o perché mosso da superbia volesse abiti belli o ottimi, meriterebbe per tale presunzione senza dubbio quelli più umili.

 

 

 

XXVI-Sia rispettata la qualità e la quantità dei vestiti

 

E’ necessario osservare la quantità secondo la grandezza dei corpi e la larghezza dei vestiti: colui che consegna gli abiti sia in questo attento.

 

 

 

XXVII-Colui che consegna i vestiti conservi innanzitutto l’uguaglianza

 

Il procuratore con fraterno intuito consideri la lunghezza, come sopra fu detto, con la stessa attenzione, perché l’occhio dei sussurratori o dei calunniatori non presuma di notare alcunché: e in tutte queste cose, umilmente mediti la ricompensa di Dio.

 

 

 

XXVIII-L’inutilità dei capelli

 

Tutti i fratelli, soprattutto i professi, è bene che portino capelli in modo che possano essere considerati regolari davanti e dietro e ordinati; e nella barba e nei baffi si osservi senza discussione la stessa regola, perché non si mostri o superficialità o il vizio della frivolezza.

 

 

 

XXIX-Circa gli speroni e le collane

 

Chiaramente gli speroni e le collane sono una questione gentilizia. E poiché questo è riconosciuto abominevole da tutti, proibiamo e rifiutiamo l’autorizzazione a possederli, anzi vogliamo che non ci siano. A coloro che prestano servizio a tempo non permettiamo di avere né speroni, né collane, né capigliatura vanitosa, né esagerata lunghezza di vestiti, anzi del tutto proibiamo. A coloro che servono al sommo creatore è sommamente necessaria la mondezza interna ed esterna, come egli stesso attesta, dicendo: Siate mondi, perché Io sono mondo.

 

 

 

XXX-Numero dei cavalli e degli scudieri

 

A ciascun soldato è lecito possedere tre cavalli, poiché l’insigne povertà della casa di Dio e del Tempio di Salomone non permette di aumentare oltre, se non per licenza del maestro.

 

 

 

XXXI-Nessuno ferisca uno scudiero che serve gratuitamente

 

Concediamo ai singoli militari per la stessa ragione un solo scudiero. Ma se gratuitamente e caritatevolmente quello scudiero appartiene a un soldato, a costui non è lecito flagellarlo, e neppure percuoterlo per qualsiasi colpa.

 

 

 

XXXII-In che modo siano ricevuti coloro che restano a tempo

 

Comandiamo a tutti i soldati che desiderano servire a tempo a Gesù Cristo con purezza d’animo nella stessa casa, di comprare fedelmente cavalli idonei in questo impegno quotidiano, e armi e quanto è necessario. Abbiamo anche giudicato, tutto considerato, che sia cosa buona e utile valutare i cavalli. Si conservi perciò il prezzo per iscritto perché non venga dimenticato: quanto sarà necessario al soldato, o ai suoi cavalli, o allo scudiero, aggiunti i ferri dei cavalli secondo la facoltà della casa, sia acquistato dalla stessa casa con fraterna carità. Se frattanto il soldato per qualche evento perdesse i suoi cavalli in questo servizio; il maestro per quanto può la casa, ne procurerà altri. Al giungere del momento di rimpatriare, lo stesso soldato conceda la metà del prezzo per amore divino, e se a lui piace, riceva l’altra dalla comunità dei fratelli.

 

 

 

XXXIII-Nessuno agisca secondo la propria volontà

 

E’ conveniente a questi soldati, che stimano niente di più caro loro di Cristo, che per il servizio, secondo il quale sono professi, e per la gloria della somma beatitudine, o il timore della geenna, prestino continuamente obbedienza al maestro. Occorre quindi che immediatamente, se qualcosa sia stato comandato dal maestro, o da colui al quale è stato dato mandato dal maestro, senza indugio, come fosse divinamente comandato, nel fare non conoscano indugio. Di questi tali la stessa verità dice: Per l’ascolto dell’orecchio mi ha obbedito.

 

 

 

XXXIV-Se è lecito andare senza comando del maestro in un luogo isolato

 

Scongiuriamo, e fermamente loro comandiamo, che i generosi soldati che hanno rinunciato alla propria volontà, e quanti sono aggregati, senza la licenza del maestro, o di colui cui fu conferito, di non permettersi di andare in un luogo isolato, eccetto di notte al sepolcro, in armi, e sorvegliare, poiché l’astuto nemico colpisce di giorno e di notte, o a quei luoghi che sono inclusi nelle mura della santa città.

 

 

 

XXXV-Se è lecito camminare da soli

 

Coloro che viaggiano, non ardiscano iniziare un viaggio né di giorno né di notte, senza un custode, cioè un soldato o un fratello professo. Infatti dopo che furono ospitati nella milizia, nessun militare, o scudiero o altro, si permetta di andare per vedere negli atri degli altri militari, o per parlare con qualcuno, senza permesso, come fu detto sopra. Perciò affermiamo saggiamente, che in tale casa ordinata da Dio, nessuno secondo il suo possesso svolga il proprio servizio o riposi; ma secondo il comando del maestro ciascuno agisca così che imiti la sentenza del Signore, con cui ha detto: Non sono venuto a fare la mia volontà, ma di Colui che mi ha mandato.

 

 

 

XXXVI-Nessuno chieda singolarmente ciò che è a lui necessario

 

Comandiamo, che sia scritta tra le altre come propria questa consuetudine e posta ogni attenzione confermiamo perché si eviti di cercare il vizio. Nessun fratello professo, deve chiedere che gli sia assegnato personalmente un cavallo o una cavalcatura o delle armi. In che modo? Se la sua malattia, o la debolezza dei sui cavalli, o la scarsezza delle sue armi, fosse riconosciuta tale, che avanzare così sia un danno comune: si rechi dal maestro, o da colui chi è dovuto il ministero dopo il maestro, e gli esponga la causa con sincerità e purezza: infatti la cosa va risolta nella decisione del maestro, o del suo procuratore.

 

 

 

XXXVII-I morsi e gli speroni

 

Non vogliamo che mai oro o argento che sono ricchezze particolari appaiano nei morsi o nei pettorali, né gli speroni, o nei finimenti, né sia lecito ad alcun fratello professo acquistarli. Se per caso tali vecchi strumenti fossero stati dati in dono, l’oro o l’argento siano colorati in modo che il colore o il decoro non appaia arroganza in mezzo agli altri. Se fossero stati dati nuovi, il maestro faccia ciò che vuole di queste cose.

 

 

 

XXXVIII-Sulle aste e sugli scudi non venga posta una copertura

 

Non si abbia una copertura sopra gli scudi e le aste, perché secondo noi questo non è proficuo, anzi dannoso.

 

 

 

XXXIX-L’autorizzazione del maestro

 

Al maestro è lecito dare cavalli o armi a chiunque, o a chi ritiene opportuno qualunque altra cosa.

 

 

 

XL-Sacco e baule

 

Non sono permessi sacco e baule con il lucchetto: così siano presentati, perché non si posseggano senza il permesso del maestro, o di colui a cui furono affidati i compiti della casa e i compiti in sua vece. Da questa norma sono esclusi i procuratori e coloro che abitano in provincie diverse, e neppure è inteso lo stesso maestro.

 

 

 

XLI-L’autorizzazione scritta

 

In nessun modo a un fratello sia lecito ricevere, o dare, dai propri parenti, né qualsiasi uomo, né dall’uno all’altro, senza il permesso del maestro o del procuratore. Dopo che un fratello avrà avuto licenza, alla presenza del maestro, se così a lui piace, siano registrati. Nel caso che dai parenti sia indirizzato a lui qualcosa, non si permetta riceverla, se prima non è stato segnalato al maestro. In questa norma non sono inclusi il maestro e i procuratori della casa.

 

 

 

XLII-La confessione delle proprie colpe

 

Poiché ogni parola oziosa si sa che genera il peccato, che cosa essi diranno ostentatamente riguardo alle proprie colpe davanti al severo giudice. Dice bene il profeta che se occorre astenersi dai buoni discorsi per il silenzio, quanto più occorre astenersi dalle cattive parole per la penda del peccato. Vietiamo quindi che un fratello professo osi ricordare con un suo fratello, o con qualcun altro, per meglio dire, le stoltezze, che nel secolo nel servizio militare compì in modo enorme, e i piaceri della carne con sciaguratissime donne, o qualsiasi altra cosa: e se per caso avesse sentito qualcuno che riferisce tali cose, lo faccia tacere, o appena può si allontani per obbedienza, e al venditore d’olio non offra il cuore.

 

 

 

XLIII-Questua e accettazione

 

Se a un fratello fosse stata data qualcosa senza averla chiesta, la consegni al maestro o all’economo: se un altro suo amico o parente non volesse che fosse usata se non da lui, questa non riceva fino a quando abbia il permesso del maestro. Colui al quale sarà stata data la cosa, non dispiaccia che venga data ad un altro: sappia per certo, che se si arrabbiasse per questo, agisce contro Dio. Nella sopraddetta regola non sono contenuti gli amministratori ai quali in modo speciale è affidato e concesso il ministero riguardo al sacco e al baule.

 

 

 

XLIV-I sacchi per il cibo sui cavalli

 

E’ utile a tutti che questo ordine da noi stabilito sia rispettato senza eccezioni. Nessun fratello presuma di confezionare sacchi per il cibo di lino o di lana, preparati con troppa cura: non ne abbia se non di panno grezzo.

 

 

 

XLV-Nessuno osi cambiare o domandare

 

Nessuno presuma di cambiare le sue cose, fratello con il fratello, senza l’autorizzazione del maestro, e chiedere qualcosa, se non fratello al fratello, purché la cosa sia piccola, vile, non grande.

 

 

 

XLVI-Nessuno catturi un uccello con un uccello, neppure proceda con il richiamo

 

Noi giudichiamo con sentenza comune che nessuno osi catturare un uccello con un uccello. Non conviene infatti aderire alla religione conservando i piaceri mondani, ma ascoltare volentieri i comandamenti del Signore, frequentemente applicarsi alle preghiere, confessare a Dio i propri peccati con lacrime e gemito quotidianamente nella preghiera. Nessun fratello professo per questa causa principale presuma di accompagnarsi con un uomo che opera con il falco o con qualche altro uccello.

 

 

 

XLVII-Nessuno colpisca una fiera con l’arco o la balestra

 

E’ conveniente camminare in atteggiamento pio, con semplicità, senza ridere, umilmente, non pronunciando molte parole, ma ragionando, e non con voce troppo elevata. Specialmente imponiamo e comandiamo ad ogni fratello professo di non osare entrare in un bosco con arco o balestra o lanciare dardi: non vada con colui che fece tali cose se non per poterlo salvare da uno sciagurato pagano: né osi gridare con un cane né garrire; né spinga il suo cavallo per la bramosia di catturare la fiera.

 

 

 

XLVIII-Il leone sia sempre colpito

 

Infatti è certo, che a voi fu specialmente affidato il compito di offrire la vita per i vostri fratelli, e eliminare dalla terra gli increduli, che sempre minacciano il Figlio della Vergine. Del leone questo leggiamo, perché egli circuisce cercando chi divorare, e le sue mani contro tutti, e le mani di tutti contro lui.

 

 

 

XLIX-Ascoltate il giudizio riguardo a quanto è chiesto su di voi

 

Sappiamo che i persecutori della Santa Chiesa sono senza numero, e si affrettano incessantemente e sempre più crudelmente ad inquietare coloro che non amano le contese. In questo si tenga la sentenza del Concilio fatta con serena considerazione, che se qualcuno nelle parti della regione orientale, o in qualunque altro luogo chiedesse qualcosa su di voi, a voi comandiamo di ascoltare il giudizio emesso da giudici fedeli e amanti del vero; e ciò che sarà giusto, comandiamo che voi compiate senza esitazione.

 

 

 

L-In ogni cosa sia tenuta questa regola

 

Questa stessa regola comandiamo che venga tenuta per sempre in tutte le cose che immeritatamente sono state a voli tolte.

 

 

 

LI-Quando è lecito a tutti i militari professi avere una terra e degli uomini

 

Crediamo che per divina provvidenza nei santi luoghi prese inizio da voi questo genere nuovo di religione che cioè alla religione sia unita la milizia e così per la religione proceda armata mediante la milizia, o senza colpa colpisca il nemico. Giustamente quindi giudichiamo, poiché siamo chiamati soldati del Tempio che voi stessi per l’insigne e speciale merito di probità abbiate casa, terra, uomini, contadini e giustamente li governate: e a voi è dovuto in modo particolare quanto stabilito.

 

 

 

LII-Ai malati sia dedicata un’attenzione particolare

 

Ai fratelli che stanno male occorre prestare una cura attentissima, come si servisse a Cristo in loro: il detto evangelico, sono stato infermo e mi visitaste sia attentamente ricordato. Costoro vanno sopportati pazientemente, perché mediante loro senza dubbio si acquista una retribuzione superiore.

 

 

 

LIII-Agli infermi sia sempre dato ciò che è necessario

 

Agli assistenti degli infermi comandiamo con ogni osservanza e attenta cura, che quanto è necessario per le diverse malattie, fedelmente e diligentemente, secondo le possibilità della casa sia loro amministrato, ad esempio, carne e volatili ed altro, fino quando siano restituiti alla sanità.

 

 

 

LIV-Nessuno provochi l’altro all’ira

 

Massima attenzione va posta perché qualcuno non presuma di provocare l’altro all’ira: infatti la somma clemenza della vicina divina fraternità congiunse tanto i poveri quanto i potenti.

 

 

 

LV-In che modo siano accolti i fratelli sposati

 

Permettiamo a voi di accogliere i fratelli sposati in questo modo, se chiedono il beneficio e la partecipazione della vostra fraternità, entrambi concedano una parte della loro sostanza e quanto avessero ad acquistare lo diano all’unità del comune capitolo dopo la loro morte, e frattanto conducano una vita onesta, e si studino di agire bene verso i fratelli, ma non portino la veste candida e il mantello bianco. Se il marito fosse morto prima, lasci la sua parte ai fratelli: la moglie ricavi il sostegno della vita dall’altra parte. Consideriamo infatti questo ingiusto che fratelli di questo tipo risiedano nella stessa casa dei fratelli che hanno promesso la castità a Dio.

 

 

 

LVI-Non si abbiano più sorelle

 

Riunire ancora sorelle è pericoloso: l’antico nemico a causa della compagnia femminile cacciò molti dalla retta via del paradiso. Perciò, fratelli carissimi, perché sempre tra voi sia visibile il fiore dell’integrità, non è lecito mantenere ancora questa consuetudine.

 

 

 

LVII-I fratelli del Tempio non abbiano parte con gli scomunicati

 

Questo, fratelli è da evitare e da temere, che qualcuno dei soldati di Cristo in qualche modo si unisca ad una persona scomunicata singolarmente e pubblicamente, o presuma di ricevere le sue cose, perché la scomunica non sia simile al marantha (vieni Signore). Ma se fosse soltanto interdetto, non sarà fuori posto avere parte con lui, e ricevere caritatevolmente le sue cose.

 

 

 

LVIII-In che modo vanno ricevuti i soldati secolari

 

Se un soldato dalla massa della perdizione, o un altro secolare, volendo rinunziare al mondo, volesse scegliere la nostra comunione e vita, non si dia a lui subito l’assenso, ma secondo la parola di Paolo, provate gli spiriti se sono da Dio così a lui sia concesso l’ingresso. Si legga dunque la Regola in sua presenza: e se costui ottempererà diligentemente ai comandi di questa esimia Regola, allora se al maestro e ai fratelli sarà piaciuto riceverlo, convocati i fratelli esponga con purezza d’animo a tutti il suo desiderio e la sua richiesta. In seguito il termine della prova dipenda in tutto dalla considerazione e dalla decisione del maestro, secondo l’onestà di vita del richiedente.

 

 

 

LIX-Non siano chiamati tutti i fratelli al consiglio privato

 

Comandiamo che non sempre siano convocati al consiglio tutti i fratelli, ma solo quelli che il maestro avrà ritenuto idonei e provvidenziali per il consiglio. Quando volesse trattare le questioni maggiori, quale dare la terra comune, o discutere dell’Ordine stesso, o ricevere un fratello: allora è opportuno convocare tutta la congregazione, se così ritiene il maestro; udito il parere di tutto il capitolo, quanto di meglio e di più utile il maestro avrà ritenuto opportuno, questo si faccia.

 

 

 

LX-Devono pregare in silenzio

 

Comandiamo con parere concorde che, come avrà richiesto la propensione dell’anima e del corpo, i fratelli preghino in piedi o seduti: tuttavia con massima riverenza con semplicità, senza chiasso, perché uno non disturbi l’altro.

 

 

 

LXI-Ricevere la fede dei serventi

 

Abbiamo saputo che molti da diverse province, tanto aggregati, quanto scudieri desiderano vincolarsi nella nostra casa a tempo con animo fervoroso per la salvezza delle anime. E’ utile che riceviate la fede loro, affinché per caso l’antico nemico non intimi loro nel servizio di Dio alcunché furtivamente o indecentemente, o li distolga improvvisamente dal buon proposito.

 

 

 

LXII-I fanciulli, fin quando sono piccoli, non siano ricevuti tra i fratelli del Tempio

 

Quantunque la Regola dei Santi Padri permetta di avere dei fanciulli in una congregazione, noi non riteniamo di dover caricare voi di tale peso. Chi volesse dare in perpetuo suo figlio, o un suo congiunto, nella religione militare: lo nutra fino agli anni, in cui virilmente con mano armata possa eliminare dalla Terra Santa i nemici di Cristo: in seguito secondo la Regola il padre o i genitori lo pongano in mezzo ai fratelli, e rendano nota la sua richiesta. E’ meglio nella fanciullezza non giurare, piuttosto che diventato uomo ritirarsi in modo clamoroso.

 

 

 

LXIII-Sempre i vecchi siano venerati

 

E’ bene che i vecchi con pia considerazione, secondo la debolezza delle forze siano sopportati e diligentemente onorati: i nessun modo si usi severità in quanto la tolleranza è necessaria per il corpo, salva tuttavia l’autorità della Regola.

 

 

 

LXIV-I fratelli che partono per diverse province

 

I fratelli che si incamminano per diverse province, per quanto lo permettano le forze, si impegnino a osservare la Regola nel cibo e nella bevanda e nelle altre cose, e vivano in modo irreprensibile, perché abbiano buona testimonianza da coloro che stanno fuori: non macchino il proposito di religione né con parola né con atto, ma soprattutto a coloro, con i quali si sono incontrati, offrano esempio e sostanza di sapienza e di buone opere. Colui presso il quale avranno deciso di alloggiare, abbia buona fama: e, se è possibile, la casa dell’ospite in quella notte non manchi della candela, affinché il nemico tenebroso non procuri la morte, Dio non voglia. Quando avranno sentito di riunire soldati non scomunicati, diciamo che colà devono andare non preoccupandosi di una utilità temporale, quanto piuttosto della salvezza eterna delle loro anime. Ai fratelli diretti nelle zone aldilà del mare con la speranza di essere trasportati, raccomandiamo di ricevere con questa convenzione coloro che avessero voluto unirsi in perpetuo all’Ordine militare: entrambi si presentino al Vescovo di quella provincia e il presule ascolti la volontà di colui che chiede. Ascoltata la richiesta, il fratello lo invii al maestro e ai fratelli che si trovano nel Tempio che è in Gerusalemme: e se la sua vita è onesta e degna di tale appartenenza, misericordiosamente sia accolto, se questo sembra bene al maestro e ai fratelli. Se nel frattempo morisse, a causa del lavoro e della fatica, come a un fratello, a lui sia riconosciuto tutto il beneficio e la fraternità dei poveri e dei commilitoni di Cristo.

 

 

 

LXV-A tutti sia distribuito in modo uguale il vitto

 

Riteniamo anche che questo in modo congruo e ragionevole sia rispettato, che a tutti i fratelli professi sia dato cibo in eguale misura secondo la possibilità del luogo: non è infatti utile l’accezione delle persone, ma è necessario considerare le indisposizioni.

 

 

 

LXVI-I soldati abbiano le decime del Tempio

 

Crediamo che avendo abbandonato le ricchezze a voi donate abbiate ad essere soggetti alla spontanea povertà, per cui in questo modo abbiamo dimostrato in quale modo spettino a voi che vivete in vita comune le decime. Se il Vescovo della chiesa, al quale è dovuta giustamente la decima, avrà voluto darla a voi caritatevolmente: deve dare a voi le decime che allora la Chiesa sembra possedere con il consenso del capitolo comune. Se un laico dovesse impossessarsi di essa (decima) o sottrarla dal suo patrimonio in modo condannabile, e confessando la propria colpa avrà voluto lasciare a voi la stessa: secondo la discrezione di colui che presiede questo può essere fatto, senza il consenso del capitolo.

 

 

 

LXVII-Le colpe leggere e gravi

 

Se un fratello avrà sbagliato in modo lieve nel parlare, nell’agire o altrimenti, egli stesso confessi al maestro il suo peccato con l’impegno della soddisfazione. Per le cose lievi, se non esiste una consuetudine, ci sia una lieve penitenza. Nel caso in cui tacesse e la colpa fosse conosciuta attraverso un altro, sia sottoposto a una disciplina e ad una riparazione maggiore e più evidente.

 

Se la colpa sarà grave, si allontani dalla familiarità dei fratelli, né mangi con loro alla stessa mensa, ma da solo assuma il pasto. Il tutto dipenda dalla decisione e dall’indicazione del maestro, affinché sia salvo nel giorno del giudizio.

 

 

 

LXVIII-Per quale colpa il fratello non sia più accolto

 

Soprattutto occorre provvedere che, nessun fratello, sia potente o impotente, forte o debole, voglia esaltarsi e poco a poco insuperbire, difendere la propria colpa, possa rimanere indisciplinato: ma, se non avrà voluto correggersi, a lui venga data una correzione più severa. Che se non avrà voluto correggersi con pie ammonizioni e per le preghiere a lui innalzate, ma si sarà innalzato sempre più nella superbia: allora secondo l’apostolo, sia sradicato dal pio gregge: togliete il male da voi: è necessario che la pecora malata sia allontanata dalla società dei fratelli fedeli. Inoltre il maestro che deve tenere in mano il bastone e la verga (cioè il bastone, con cui sostenga le debolezze delle altre forze, la verga con cui colpisca con lo zelo della rettitudine i vizi di coloro che vengono meno) con il consiglio del Patriarca e con una considerazione spirituale sul da farsi affinché, come dice il beato Massimo, la più libera clemenza non approvi l’arroganza del peccatore, né l’esagerata severità non richiami dall’errore chi sbaglia.

 

 

 

LXIX-Dalla solennità di Pasqua fino a Tutti i Santi si possa soltanto portare una camicia di lino

 

Per il grande caldo della regione orientale, consideriamo compassionevolmente, che dalla festa di Pasqua fino alla solennità di Tutti i Santi, si dia a ciascuno una unica camicia di lino, non per il dovuto, ma per sola grazia, e questo dico per chi vorrà usufruire di essa. Negli altri tempi generalmente tutti portino camicie di lana.

 

 

 

LXX-Quanti e quali panni siano necessari nel letto

 

Per coloro che dormono nei singoli letti riteniamo di comune consiglio, se non sopravviene qualche grave causa o necessità: ciascuno abbia biancheria secondo la discreta assegnazione del maestro: crediamo infatti che a ciascuno sia sufficiente un pagliericcio, un cuscino e una coperta. Colui che manca di uno di questi, prenda una stuoia, e in ogni tempo sarà lecito usufruire di una coperta di lino, cioè un panno: dormano vestiti con la camicia, e sempre dormano indossando gli stivali. Mentre i fratelli dormono, fino al mattino non manchi la lucerna.

 

 

 

LXXI-Va evitata la mormorazione

 

Comandiamo a voi, per divino ammonimento di evitare, quasi peste da fuggire, le emulazioni, il livore, le mormorazioni, il sussurrare, le detrazioni. Si impegni ciascuno con animo vigile, a non incolpare o riprendere il suo fratello ma ricordi tra se la parola dell’apostolo: non essere un accusatore, né diffamatore del popolo. Quando qualcuno avrà conosciuto che un fratello ha peccato in qualcosa, in pace e fraterna pietà, secondo il precetto del Signore, lo corregga tra sé e lui solo: e se non lo avrà ascoltato prenda un altro fratello: ma se avrà disprezzato entrambi, in riunione davanti al capitolo tutto sia rimproverato. Soffrono di grave cecità, coloro che calunniano gli altri; sono di grande infelicità coloro che non si guardano dal livore: da qui sono immersi nell’antica iniquità dell’astuto nemico.

 

 

 

LXXII-Si evitino i baci di tutte le donne

 

Riteniamo pericoloso per ogni religioso fissare lungamente il volto delle donne: perciò un fratello non osi baciare né una vedova, né una nubile, né la madre, né la sorella, né un’amica, né nessuna altra donna. Fugga dunque la milizia di Cristo i baci femminili, attraverso i quali gli uomini spesso sono in pericolo: così con coscienza pura e vita libera può perennemente conversare al cospetto del Signore

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