LA FRATELANZA E’ UN  IDEALE RAZIONALE…

 

 LA FRATELANZA E’ UN  IDEALE RAZIONALE…

La fratellanza è un ideale relazionale che richiede un lungo cammino. Alla  domanda: “Sei massone?” La risposta è “i miei Fratelli mi riconoscono come tale”. Ciò presuppone che la fratellanza sia responsabile del controllo dell’appartenenza alla Massoneria. Un membro non fraterno non può essere un massone.

La fratellanza è quindi una condizione fondamentale. Diventiamo Fratelli quando riceviamo la Luce o lo diventiamo a forza di lavorare su noi stessi? Più che l’Amore dell’altro, la fratellanza è il rispetto per l’uomo, è quindi di essenza iniziatica e soprattutto metafisica; trasmette un metodo di ricerca della Verità fuori dai dogmi. È un collegamento tra gli Iniziati.

Quanti di noi nel tempo hanno dimenticato che la Massoneria non si limita alla rigorosa applicazione di un rituale, per quanto bello, una volta ogni due settimane? La nostra ricerca da costruttori si deve esprimere con tutti i nostri Fratelli e non solo quelli del nostro grado o quelli che ci servono per fare la nostra “carriera”. La fratellanza è morte: è la morte di sé stessi nella propria individualità egocentrica, in quanto la scoperta della fratellanza inizia con l’imparare a condividere. La tolleranza non inizia forse quando accogliamo l’altro con tutte queste contraddizioni? Quando finisce una relazione qualsiasi essa sia (di amicizia, di amore, di lavoro) il primo sentimento è quello naturale dello sgretolamento ma, in realtà, si comincia a costruire una nuova realtà.

Questo passaggio è doloroso perché dobbiamo rinunciare alla prima impressione che spesso diamo per scontata e che è il nostro giudizio arbitrario, soggettivo e inconscio.

La fratellanza non esercita poteri magici, offre a tutti una virtù capace di mantenerla e questa virtù è la tolleranza. A metà tra giustizia e amore c’è il rispetto e la tolleranza. Non si può tollerare senza rispettare, perché il fondamento della tolleranza è prima di tutto la comprensione dell’altro, di tutti gli altri.

La tolleranza diventa così un tributo alla verità impenetrabile di cui ogni uomo è portatore. Anche questo sforzo che ci viene chiesto di trattare l’altro come se stessi si chiama “giustizia”, perché la giustizia consiste proprio nel mettersi al posto dell’altro. Tuttavia, dobbiamo ammettere che la tolleranza ha per definizione un limite: non possiamo permettere la libertà di un lupo all’interno di un ovile; è solo all’interno di questo limite, rappresentato dalla libertà dell’altro, che la tolleranza può trasformarsi in Amore, che diventa

una comunione che va oltre quella dello spirito per giungere alla comunione dei cuori. Tale è il paradosso della fratellanza: intelligenza del cuore che trascende quella della mente.

Direi anche che chi più si agita e gesticola è quello che ostacola il rapporto da persona a persona. Si esclude dalla fratellanza.

Se la fratellanza è un dovere per il massone, non è innata. Lei stessa lavora. Bisogna essere abbastanza puri e amare noi stessi per poter fraternizzare con il nostro prossimo senza ingannare nessuno.

L’amicizia è un attaccamento, un affetto reciproco,  che ha molto in comune con la fratellanza. Ma il tipo di relazione è diverso. Scegliamo il nostro amico, ma non nostro fratello. Di conseguenza, nell’amicizia, ci sono spesso più somiglianze che differenze. La fratellanza non è l’abbandono totale e senza riserve dell’amicizia. Nella nozione di fratellanza c’è una nozione di durata nel tempo che non si pone nemmeno: siamo Fratelli per la vita. La fratellanza rimane inseparabile dall’onestà che a volte impone di dispiacere, di scioccare, di offendere. Possiamo essere in fratellanza solo              essendo onesti con i nostri Fratelli, ma l’onestà non è in sé una fratellanza che ha una portata superiore. La nostra fratellanza massonica nasce dal fatto che tutti abbiamo un’origine comune attraverso la nostra Iniziazione. Abbiamo vissuto tutti la stessa rinascita e tutti rimaniamo sulla stessa strada, quella della ricerca della Luce. Costruire non può che essere un’opera comune e quindi fraterna. Dobbiamo vivere l’altro con le sue differenze ed ispirarci ad esse, senza lusinghe, senza giudizio e senza spirito di superiorità o rivalità, ma di condivisione e ricchezza. Montaigne ha detto nei suoi Saggi: “Se sono spinto a dire perché lo amavo, sento che questo si può esprimere solo rispondendo: Perché era lui, perché ero io”.

Qui troviamo gli strumenti di lavoro della pietra grezza che serviranno per praticare la fratellanza  come un’arte. Agire come un Fratello è saper temporeggiare le passioni ed a volte è qualcosa di complicato perché potremmo essere un fiume in piena o un lago di beatitudine e il Massone non ha il diritto di perdere la calma e indulgere in atteggiamenti o comportamenti che vanno oltre la finzione.

Quindi è essenziale meritare il nostro posto in Loggia per dominare le nostre passioni ed in particolare quelle del possesso, del potere, della vanità e dell’ipocrisia. La Massoneria non ha mai voluto essere una compagnia di dirigenti in cerca di potere o di posti da bramare nella scala della nostra organizzazione. Il nostro lavoro dovrebbe avere come unica ambizione quella di poter partecipare alla costruzione comune che rifletta la nostra personalità, priva di inutili citazioni che servono solo a mostrare la nostra poca conoscenza, o mettere in risalto solo le nostre capacità nella vita profana.

Essere fraterni è anche parlare la stessa lingua. È importante che la parola circoli e che possiamo esprimerci con umiltà e fraternità verso il Fratello, o le persone a cui ci rivolgiamo. Se il nostro più caro desiderio è progredire verso la Luce, accettiamo di ricevere ciò che ci deve essere dato e diamo senza contare tutto ciò che possiamo dare.

La fratellanza è come un gioco di specchi. I Fratelli sono il nostro specchio. Se ci guardiamo allo specchio per prima cosa ci mostrerà quello che siamo: persone intrappolate nel loro ego, un nemico che vuole esistere da solo. Se sapessimo guardarci allo specchio, sapremmo vedere come viviamo, come siamo guidati, come e quando ci arrabbiamo. Solo solo così potremmo combattere il nostro nemico, applicando il famoso “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli Dei”. Lo specchio è davvero uno strumento di rivelazione. Come simbolo, lo specchio è l’oggetto di introspezione per eccellenza. Ci fa riflettere su ciò che siamo, con le nostre qualità e i nostri difetti, i nostri desideri e le nostre antipatie, il nostro modo di vedere il mondo, le persone che ci circondano e le nostre idee per migliorarle e portarle verso il bene. Ci fa pensare a cosa vorremmo essere e cosa non siamo ancora.

Ma alcune persone non sopportano di vedere la loro immagine riflessa. Alcuni, come il “Narciso” del mito, si perdono guardando la propria immagine riflessa nell’acqua. L’ambivalenza del simbolo dello specchio dipende quindi essenzialmente dall’atteggiamento della persona e dalla maturità di chi si guarda.

Ci sono molti altri specchi, quando guardiamo negli occhi il nostro prossimo. Non è forse lui il nostro specchio? Non lo biasimiamo per le nostre colpe? Non esistiamo attraverso la visione degli altri?

Lo specchio ci rende consapevoli di tutto questo.

È essenziale accogliere lo sguardo degli altri e in particolare dei nostri Fratelli perché è questo che ci insegna a conoscere i nostri limiti, a spingerli indietro per offrire il meglio di noi stessi. È attraverso questo sguardo obiettivo che gli altri devono avere su di noi che si manifesta la nozione di fratellanza. Per essere veramente praticata la fratellanza richiede che chi ne fa uso sia libero.

Libero da cosa o da chi?

Liberato da ogni giudizio che non sia suo, liberato da riflessi condizionati, liberato da qualsiasi autorità esterna, da ogni rappresentazione del potere umano che spezza la fratellanza massonica la cui sopravvivenza è assicurata andando oltre ogni dogma. Esistere attraverso le azioni e l’ interazioni provocate dai legami fraterni, suppone che le nostre catene siano spezzate. Ritengo, quindi, che l’approccio fraterno prosperi e  cancellare le aspettative individuali e le intenzioni dogmatiche.

Permette a tutti di trovare il proprio posto e di non fornire risposte, perché nessuno può sapere in  anticipo quale insegnamento possa giovargli. La prima domanda che tutti dovremmo porci durante le nostre Tegolature con un profano, dovrebbe essere se possiede un’anima che può farlo progredire e farci progredire. A volte è un interesse personale che ci spinge a far entrare un profano, a volte siamo abbagliati dal suo lato visibile che riguarda la vita profana, il lato delle apparenze. Che sia un professore di facoltà, un venditore, un poliziotto, un trasformista, un cattolico, un ebreo o un agnostico che importa?

Insomma, la vera fratellanza, è vivere l’altro con le sue differenze, senza adulazione, senza pregiudizio, senza giudizio.

Vivere in fratellanza è offrire: ciascuno fa dono delle sue forze, ma anche delle sue debolezze. Le differenze non sono rivalità ma condivisione. La fratellanza è nozione di condivisione sia intellettuale che materiale, è dare la vita per l’aiuto reciproco.

 

 

 

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CENSURE IMMAGINARIE

CENSURE IMMAGINARIE

Il vittimismo selettivo nell’epoca in cui le parole non hanno alcun peso

Le contestazioni a Cecchettin, Ceccarelli, Massini e Siti viste al Salone di Torino non sono poi così diverse da quelle alla ministra Roccella. Ma ci piace indignarci solo per chi ci sta simpatico (o è nella nostra chat)

Unsplash

 

L’altro giorno una tizia solidamente di sinistra mi ha chiesto conto del successo di Vannacci. Poiché sopravvaluto sempre l’umanità, pensavo che volesse sapere com’era accaduto che uno sconosciuto fosse a un certo punto stato l’autore più venduto d’Italia, e quindi mi sono prodigata in spiegazioni tecniche.

 

La tempesta perfetta, la classifica Amazon per essere primi nella quale bastano trecento copie, il giornalista di Repubblica che se ne accorge, il nome che arriva a chi non l’avrebbe mai notato, la polarizzazione, l’appartenenza, la rava, la fava. La tizia era annoiatissima.

 

Mi ha obiettato: ma è un libro così banale, secondo me è per questo che i libri non vendono, perché devo comprare un libro se quel che ci trovo dentro è lo stesso che otterrei facendo una domanda a ChatGPT?

 

Ho cercato di spiegarle che veramente è il contrario, che è l’epoca dei tutorial, del giornalismo di Google, delle dieci righe di Wikipedia come massimo orizzonte d’approfondimento, solo le cose semplificate funzionano, quasi solo la letteratura per analfabeti ha un mercato.

 

A un certo punto, senza sapere niente di questa tizia che vedevo per la prima volta ma di cui non era difficile intuire il posizionamento sociale e culturale, ho detto: anche la Murgia scriveva cose semplici, non è che perché lei ti è affine e Vannacci no allora il successo della semplificazione di lui è inspiegabile. La tizia ha avuto degli spasmi alla muscolatura facciale, mi ha detto che la Murgia era la sua scrittrice preferita, ha chiesto se questo le facesse perdere punti ai miei occhi, e io ho pensato – per la trecentesima volta quest’anno – che la Meloni vincerà le prossime trecento elezioni.

 

Perché quelli che dovrebbero essere intelligenti sono i più fessi di tutti. Perché gli adulti si preoccupano del punteggio agli occhi degli interlocutori quando esprimono un loro gusto. Perché, soprattutto, non siamo in grado di avere criteri oggettivi, ma solo simpatie.

 

Quando la settimana scorsa Eugenia Roccella è stata contestata a un convegno, tutto è andato come previsto. Lei che si definisce censurata, che fa la vittima, mentre chi ha impostato sul vittimismo interi fatturati improvvisamente lo stigmatizza; e l’opinionismo di sinistra che per giorni ci fa venire l’orchite ripetendo a memoria la lezioncina sulla differenza tra censura dall’alto e contestazione dal basso.

 

In questi casi – era già successo coi giovani invasati che invece di urlare alla Roccella tiravano la vernice sulle opere d’arte, e i presunti intellettuali che ci spiegavano che era «vernice lavabile», non avendo evidentemente mai ritinteggiato le camerette dei figli e non sapendo quindi cosa significhi «vernice lavabile» – mi chiedo sempre da dove arrivi la frase che ripetono tutti.

 

La dice uno per primo e gli altri si convincono sia efficacissima e non valga la pena pensarne una propria? O c’è proprio una circolare, la cosa giusta da dire è vernice lavabile, la cosa giusta da dire è contestazione dal basso? Dove arriva, la circolare: nella chat di Giannini?

 

Breve divagazione, a proposito di censure immaginarie. Al Salone del libro di Torino – intitolato con un manifesto di mitomania, e cioè “Vita immaginaria” – a un certo punto Massimo Finzi Giannini parlava della chat che per qualche giorno ci ha fatto tanto divertire, ed è arrivata Serena Bortone.

 

Nel video – pubblicato sul TikTok di Robinson, quello che aveva già pubblicato la Schlein secondo cui l’equazione è che i lettori siano di sinistra: chiunque curi quell’account è evidentemente determinato a devastare la reputazione della sinistra dall’interno – Giannini dice a Bortone che lei si merita la standing ovation che le stanno facendo, e inquadrano la platea che è tutta compattamente seduta. È uno spot di vita immaginaria di rara efficacia. Fine della divagazione.

 

Insomma tutti si mettono lì a spiegare che non è censura ma contestazione, perché pensano le parole abbiano ancora un peso e «censura» significhi qualcosa, beati illusi, e si debba dire che no, noi la censura no, noi la censura mai.

 

La distinzione tra censura e contestazione mi ha fatto pensare che, se fossimo in anni di brigatisti, forse ci spiegherebbero che se un politico fa ammazzare un cittadino è dittatura, ma se un cittadino ammazza un politico è dialettica democratica. Non riesco a ricordarmi chi mi avesse detto che i partecipanti alla chat di Giannini verranno ricordati come coloro che firmavano appelli contro il commissario Calabresi, ma chiunque tu sia sappi che, sebbene in ritardo, sto ridendo rumorosamente.

 

Censura, contestazione: nessuno dice la cosa ovvia. Le reazioni all’essere molestate dal pubblico mentre si sta parlando possono variare: l’inglese, che ha parole per tutto, chiama heckler il tizio che urla cose dalla platea interrompendo un comico, e i comici che dal palco zittiscono gli heckler sono un genere a sé. Le reazioni possono essere più o meno efficaci, ma chi va a rompere i coglioni a qualcuno che sta parlando è comunque disturbato, comunque infelice, comunque esibizionista, comunque un caso umano (o una persona giovane, stato passeggero che racchiude tutti questi e molti altri limiti).

 

Sempre nel Salone dei libri immaginari – che Annalena Benini ha giustamente trasformato nel festival culturale adatto a un secolo di non lettori, non lettori che certo non vanno lì per i libri ma perché ci sono Gianni Morandi o Paolo Sorrentino, e comprano costosissime custodie di stoffa per libri, custodie in cui infileranno un tablet o magari un libro di ricette – c’è stata, l’avreste vista giacché era su tutti i siti, la contestazione di Elena Cecchettin.

 

Quel che non avete visto, e che invece mi pare il dettaglio migliore, è che la stessa tizia che ha disturbato la Cecchettin è andata, col costo d’un solo biglietto d’ingresso, a urlare in faccia anche a Filippo Ceccarelli che ha osato scrivere un libro su Berlusconi – «I morti li dovete lasciar stare!», gli ha ingiunto – e a Walter Siti, il cui “I figli sono finiti” le ha offerto agevole spunto per strepitare che i figli sono finiti perché li ammazziamo, noi assassini di bambini (Siti temo ne abbia ammazzati pochini: signora, le faccio sapere quando presento qualcosa, almeno ha degli aborti da rinfacciare).

 

Della contestazione a Siti e Ceccarelli non è stata data notizia per distrazione o per far sembrare più speciale quella alla Cecchettin? C’è differenza tra la contestatrice di scrittori e le contestatrici di ministra? È quella differenza tra il dal basso e il dall’alto che amano ripetere gli opinionisti da talk-show? O non è piuttosto quella del piano terapeutico necessario alla signora del Salone che mi descrivono come adulta, ma magari non alle liceali cui poi la giovinezza passa senza medicinali?

 

O è la stessa questione di Vannacci, e ha a che vedere con quanto sposiamo le idee di qualcuno? Se uno spostato, invece che la manica di Stefano Massini, avesse strattonato quella di Vannacci, ci saremmo turbati meno perché Vannacci non è nelle nostre stesse chat, o perché allo strattonatore di Massini possiamo dare del fascista e invece quello eventuale di Vannacci non sappiamo come chiamarlo (forse «staffetta partigiana»)? La signora che rompe i coglioni a Siti ci sembra una pazza perché, ohibò, è contro l’aborto; le liceali che rompono i coglioni alla Roccella ci sembrano sensate perché, in versione acerba, hanno le stesse nostre idee.

 

Ci piace tanto stigmatizzare il vittimismo di chi non ci piace: René Girard ormai lo citano pure sui bigliettini dei Baci Perugina; e, se “Critica della vittima” avesse venduto tante copie quanta è la gente che lo cita, Daniele Giglioli avrebbe accumulato più royalties di Umberto Eco. Ma nel profondo dei nostri cuoricini non ci dispiacciono né il vittimismo né la semplificazione: anzi; li consideriamo così preziosi da volerli riservare a chi ci sta simpatico, e ci infastidisce che se ne appropri l’avversario.

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centrosinistra

salone del libro

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GLI STATUTI SHAW

GLI STATUTI SHAW

Manoscritto del 1598

Essi osserveranno e guarderanno tutte le ordinanze precedentemente emanate dai loro predecessori, concernenti i privilegi del loro mestiere, e in particolare saranno sinceri gli uni con gli altri e vivranno insieme nella carità poiché sono diventati per giuramento fratelli e compagni del mestiere.

Obbediranno ai loro sorveglianti, diaconi e maestri per tutto ciò che concerne il mestiere.

Saranno onesti, fedeli e diligenti nello svolgere le loro mansioni, e si condurranno con dirittura verso i maestri o i proprietari delle opere che intraprenderanno, che siano pagati a opra o alloggiati e nutriti o pagati a settimana.

Nessuno intraprenderà un’opera, grande o piccola, se non è capace di eseguirla con competenza, sotto pena di un’ammenda di quaranta lire o di un quarto del valore dell’opera, senza pregiudizio del danno e delle penali da pagare ai proprietari dell’opera, secondo la stima e il giudizio del Sorvegliante Generale, o in sua assenza secondo la stima dei sorveglianti, diaconi e maestri della contea ove l’opera è in costruzione.

Nessun maestro prenderà il lavoro di un altro, dopo che costui si sia accordato col proprietario dell’opera,  che fosse un contratto scritto, un accordo con caparra o un accordo verbale, sotto pena di un’ammenda di quaranta lire.

Nessun maestro riprenderà un’opera alla quale altri maestri abbiano lavorato, finché chi lo ha preceduto non abbia ricevuto il salario del lavoro compiuto, sotto pena della medesima ammenda.

In ogni loggia nella quale i muratori sono ripartiti, si sceglierà ed eleggerà ogni anno un sorvegliante che abbia cura di questa loggia, e ciò col suffragio dei maestri delle logge e col consenso del loro Sorvegliante Generale, se è presente. Altrimenti lo si informerà che per l’annata è stato eletto un sorvegliante, affinché gli possa inviare le sue direttive.

Nessun maestro prenderà più di tre apprendisti in vita sua, se non col consenso speciale di tutti i sorveglianti, diaconi e maestri della contea ove abita l’apprendista che vuol prendere in più.

Nessun maestro prenderà o si legherà un apprendista per meno di sette anni, e di più non gli sarà permesso fare di questo apprendista un fratello e compagno del mestiere se questi non avrà servito altri sette anni dopo la fine del suo apprendistato, salvo dispensa speciale accordata dai sorveglianti, diaconi e maestri riuniti per giudicarne, e dopo che si siano sufficientemente provati il valore, la qualificazione e l’abilità di colui che desidera essere fatto compagno del mestiere; questo sotto pena di quaranta lire, da far ricadere su colui che sarà stato fatto compagno del mestiere contravvenendo a questa ordinanza, senza pregidizio delle pene che gli potranno essere inflitte dalla loggia alla quale appartiene.

Non sarà permesso ad alcun maestro di vendere il suo apprendista a un altro maestro, né di liberarsi con una somma di denaro dagli anni di apprendistato che deve all’apprendista stesso, sotto pena di un’ammenda di quaranta lire.

Nessun maestro riceverà un apprendista senza informarne il sorvegliante della loggia alla quale appartiene, in modo che il nome dell’apprendista e il giorno della sua ricezione possano essere debitamente registrati.

Nessun apprendista sarà introdotto senza che sia rispettata la medesima regola, come dire che la sua introduzione sarà registrata.

Nessun maestro o compagno del mestiere sarà ricevuto o ammesso, se non alla presenza di sei maestri e di due apprendisti introdotti, il sorvegliante della loggia essendo uno dei sei; il giorno della ricezione di detto compagno del mestiere o maestro sarà debitamente registrato, e il suo nome e il suo marchio saranno iscritti nel libro coi nomi dei sei che l’hanno ammesso e quelli degli apprendisti introdotti; i nomi degli istruttori che si devono scegliere per ciascun recipiendario daranno ugualmente iscritti nel libro. Tutto ciò a condizione che nessun uomo sia ammesso senza che si sia esaminata e sufficientemente provata la sua abilità e il suo

valore nel mestiere al quale è chiamato.

Nessun maestro lavorerà ad alcuna opera di muratoria sotto l’autorità o la direzione di un altro uomo del mestiere avendo preso in carico un’opera di muratoria.

Nessun maestro o compagno del mestiere accoglierà un cowan (muratore a secco) per lavorare con lui, né lascerà che alcuno dei suoi aiutanti lavori con dei cowans, sotto pena di un’ammenda di venti lire ogni volta che qualcuno contravverrà a questa regola.

Non sarà permesso a un apprendista introdotto di intraprendere per un proprietario un lavoro o un’opera di un valore superiore alle dieci lire, sotto pena di un’ammenda di venti lire, e dopo aver eseguito questo lavoro non ne intraprenderà altri senza il permesso dei maestri o del sorvegliante del circondario.

Se qualche contestazione, litigio o dissenso nasce fra dei maestri, degli aiutanti o degli apprendisti introdotti, che le parti convengano e facciano conoscere la causa del loro litigio ai sorveglianti e ai diaconi della loro loggia entro il termine delle ventiquattro ore, sotto pena di un’ammenda di dieci lire, di modo che possano essere riconciliati e messi d’accordo e che le loro contese possano essere appianate dai sorveglianti, diaconi e maestri. Se avviene che una delle parti si intestardisce e si ostina, saranno esclusi dai privilegi della loro loggia e non sarà più permesso loro di lavorarvi finché non verranno a resipiscenza davanti ai sorveglianti, ai diaconi e ai maestri, come si è detto.

Tutti i maestri, imprenditori d’opere, veglieranno a che le impalcature e le passerelle siano solidamente installate e disposte, in modo che nessuna persona impiegata all’opera risulti ferita per la loro negligenza ed incuria, sotto pena di essere privati del diritto di lavorare come maestri incaricati di opere, e di essere condannati per il resto dei loro giorni a lavorare sotto gli ordini di un altro maestro principale incaricato di opera.

Nessun maestro accoglierà o impiegherà l’apprendista o l’aiutante di un altro maestro, che sia fuggito dal servizio di questo maestro o se l’ha accolto, non lo terrà con sé quando sarà informato della sua situazione, sotto pena di un’ammenda di quaranta lire.

Tutte le persone appartenenti al mestiere di muratore si riuniranno a tempo e luogo debitamente annunciati, sotto pena di un’ammenda di dieci lire.

Tutti i maestri che saranno stati convocati ad una assemblea o riunione presteranno il giuramento solenne di niente nascondere o dissimulare delle colpe o mancanze che avranno potuto commettere gli uni verso gli altri; né delle colpe o mancanze che sapranno che tal uomo del mestiere abbia potuto commettere verso i proprietari delle opere delle quali sono incaricati, sotto pena di una ammenda di dieci lire da imporre su coloro che avranno dissimulato tali colpe.

Si ordina che tutte le ammende previste qui sopra siano imposte sui delinquenti e contravventori a queste ordinanze dai sorveglianti, diaconi e maestri delle logge ai quali appartengono i colpevoli, e che il ricavato sia destinato ad un uso pio secondo l’avviso e la coscienza delle persone suddette. E al fine che queste ordinanza siano eseguite ed osservate quali esse sono state emanate, tutti i maestri riuniti nel giorno precedentemente indicato si impegnano e si obbligano ad obbedir loro fedelmente. Per questa ragione il loro Sorvegliante Generale ha chiesto la loro sottoscrizione autografa,  al fine che una copia autentica ne sia inviata a ciascuna loggia particolare di questo regno.

 

William SCHAW, Maestro delle Opere

 

 

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MASSONERIA E MASSONI ITALIANI DAL 1815 AL 1851

Trionfo  ligure  e  Amici Veri dei Virtuosi, all’obbedienza del G. O. di Francia.

di

Luigi Polo Friz

 

Si dibatte da anni, e si continua a farlo, sulla presenza o meno della Massoneria in Italia come Istituzione fra il 1815 e il 1860 e sulla sua eventuale partecipazione al processo risorgimentale. Nel 1925, con un sincronismo non programmato, si sono contrapposti sul tema un massone, Giuseppe Leti l e un antimassone, Alessandro Luzi0 2 . Il primo ha pervicacemente attribuito iniziazioni non provate, oppure ha anticipato arbitrariamente date di iniziazione di personaggi che hanno effettivamente preso parte ai moti risorgimentali, giungendo a soddisfare così in senso positivo al quesito posto. Abbarbicandosi altrettanto tenacemente a tesi precostituite ed utilizzando argomentazioni faziose, il secondo è giunto a conclusioni opposte.

 

La realtà che emerge allo stato dell ‘ arte è quella abbracciata, del tutto fortunosamente, da Luzio. Ciò non tanto per i supporti sui cui si è basato questo autore, che sono di una fragilità estrema. In assenza assoluta, per lo meno fino ad oggi, di documenti che consentano di far sfociare il dibattito verso conclusioni alternative, la situazione non può essere forzata più di quel tanto. Nel periodo in discussione non v’ era una Massoneria organizzata a livello nazionale. La stessa coscienza di un ‘ Italia unita tardò a prendere l’abbrivio. E’ tuttavia fuori dubbio che lungo la Penisola erano attive Logge clandestine, in alcuni casi tollerate perché frequentate prevalentemente o esclusivamente da cittadini di altre nazioni, a volte riconosciute da Grandi Orienti stranieri.

All’ultimo gruppo appartengono la Trionfo Ligure di Genova e la livornese Amici Veri dei Virtuosi3, legate al Grande Oriente di Francia (G.O.F.), fino al 1862 la prima, a tutto il 1870 la seconda. A posteriori per gli storici questa circostanza si è di-

mostrata particolarmente felice. Le Carte del G.O.F. sono state custodite fino a tempi recenti dallo stesso Grande Oriente, per essere poi conferite alla Bibliothèque Nationale di Parigi, che le ha collocate in un Fondo Massonico . La corrispondenza delle due Logge, le richieste di diplomi per passaggio ai gradi superiori e i piè di lista che ogni anno esse dovevano inviare a Parigi si sono miracolosamente conservati, non avendo subito le traversie di materiale analogo appartenente alle Logge italiane devote ad Obbedienze nazionali. In particolare la consultazione delle richieste di diplomi ed ancor più dei piè di lista ci ha riservato una piacevole sorpresa: ogni nome elencato, e globalmente nel periodo ‘francese’ gli affiliati delle due Officine si aggirarono intorno a 550 unità, è affiancato nella maggioranza dei casi da quello della data e della Loggia di iniziazione. Ciò ci ha consentito, congiuntamente al contenuto di altri documenti provenienti dalla stessa fonte e alla modesta saggistica già nota sull’ argomento, di allargare consistentemente lo spettro fin qui noto delle Officine che hanno operato nel nostro Paese durante il periodo della Restaurazione e di ricostruire con ragionevole completezza la storia delle due Logge menzionate.

Quando, nel 1859, venne costituita a Torino la Ausonia, precorritrice dell ‘odierna Massoneria italiana, i suoi membri, in particolare Livio Zambeccari, si preoccuparono subito di andare alla ricerca di altre Logge, o addirittura di un Grande Oriente italiano. “Unfratello disse di credere che in Genova esistesse una Loggia sotto il titolo di Unione dei Cuori”, che ad una più approfondita indagine non risultò ancora regolarmente costituita. Si parlò di Logge di Levante e di Ponente, “cioè Sarzana, Lerici, Spezia, Savona e Nizza”, già in rapporto tra loro per formare un Grande Oriente italiano, ma anche queste notizie non trovarono conferma. Venne menzionata quasi di sfuggita la Trionfo Ligure, che avrebbe meritato un’ attenzione di gran lunga maggiore. L’indagine sul suo conto non era stata superficiale, considerato che si era perfino saputo il nome del Venerabile, “un negoziante, certo Sig. Francesco Cipollina”. Dovette incutere rispetto il fatto che si trattava di Loggia “regolarmente costituita sotto il Grande Oriente di Parigi”, e così questo importante canale di informazione si inaridì subito.

La Trionfo Ligure iniziò i suoi lavori il 21 giugno 1856. Per qualche anno operò tranquilla, sotto la guida piuttosto personalizzata di Cipollina, che la considerò sempre cosa sua. Il 31 dicembre 1860 la Loggia deliberò di fondare a Livorno la Amici Veri dei Virtuosi. I dignitari eletti tre giorni dopo erano gli stessi della Trionfo Ligure, in contrapposizione al fatto che esiste un elenco di fondatori completamente diverso. Il 5 ottobre il Capitolo genovese, costituito in maggio, formalizzò al G.O.F. la richiesta di creare una Loggia filiale a Livorno e il 25 febbraio successivo ebbe luogo la cerimonia di insediamento. Nelle elezioni del 12 giugno 1861 nessuno fu confermato.

Numerose prove indicano che la Amici Veri dei

 

Virtuosi esisteva almeno dal 1859. Nella corrispondenza con Parigi i suoi membri lo ribadirono più volte. Propendiamo a credere che essa abbia chiesto aiuto alla Trionfo Ligure per regolarizzare la sua posizione, venendo accolta con diverso spirito rispetto a quello auspicato.

Ottenuto il riconoscimento da Parigi, rispetto alle entità massoniche emergenti nel neocostituito Regno d’Italia, la Amici Veri dei Virtuosi si sentì subito rinvigorita ed aumentarono le attese della casa madre. Ebbe anch’essa un Capitolo e nell’aprile 1863 appoggiò le sue aspirazioni per ottenere un Supremo Consiglio delineando una breve storia della Massoneria in Livorno, “la sola città che [in Italia], tra il 1815 ed il 1859 non sia rimasta senza Logge Massoniche”. Dopo il 1815 i membri della Napoleone costituirono la Fratellanza e la Progresso. A qualche anno di distanza la seconda fondò la Minerva, che nel 1842 assunse il nome di Livorno. Da questa Loggia nel 1850 sorse l’Amicizia. Nel 1855 se ne staccò un ramo, nucleo di una nuova Progresso, quasi subito trasformatasi nella Unione, ancora esistente all ‘ epoca del racconto.

In presenza di rare fonti questo riassunto sarebbe stato già prezioso. Esso mostra che dal 1815 al 1860 almeno sette Logge hanno svolto una attività nel capoluogo labronico l .

Non è detto che la narrazione del Venerabile della Amici Veri dei Virtuosi sia fedelissima, tenuto anche conto dell’ obiettivo a cui mirava. Fortunatamente, come abbiamo anticipato, altri documenti della stessa fonte lo integrano e lo affinano. V1 sono menzionate dieci Logge locali, che ebbero vita tra il 1815 e il 1860. In questo lasso di tempo quindi a Livorno operarono complessivamente diciassette Logge simboliche. Oltre a quelle menzionate, esse sono: Amici Concordi (1839-1840), Amici Costanti (1818-1858), Amici Riuniti (1840), Amici Veri Virtuosi (1836-1860), Avvenire (1845), Felice (1817), Fratelli Concordi (1840), San Giovanni (1830-1858), Unitaria (1868), Uniti Concordi ( 1840 -1845). Abbiamo inoltre individuato sette Officine superiori.

Rispondendo ad una lettera del G.O.F., che probabilmente lamentava eccessivo autoritarismo riguardo alla conduzione della Loggia, nel settembre 1858 Cipollina si giustificò affermando che originariamente essa “si componeva in prevalenza di capitani marittimi, iniziati in tutti gli Orienti del globo”. Era stato quindi impossibile “avere degli ufficiali stabili in permanenza”. Entrambe le dichiarazioni erano vere. Risulta dai piè di lista menzionati. Ma il Venerabile continuò ad attingere a questa categoria. A sette anni dalla fondazione dell ‘ Officina vi apparteneva il 50% dei fratelli. Viene da chiedersi fino a che punto tale situazione fosse casuale. Era gente sempre in giro per il mondo, che quindi non esercitava pretese sulla conduzione della Loggia.

Cipollina non godeva della stima di tutti gli affiliati. Carlo Masmejan, un orologiaio che svolse un ruolo importante nel Gran Consiglio del Grande Oriente Italiano (G.O.I., emanazione della Loggia Ausonia), riunì un gruppo di dissenzienti per tentare di sollevarlo dall’incarico. Scrisse di lui a Parigi che era un routinario, che ignorava il vero spirito della Massoneria e procurava il disordine nelle finanze. Per screditarlo aggiunse che “in Brasile faceva il falegname ed ora era commerciante di cappelli di paglia e di giocattoli”, ma non fu ascoltato. Insieme ai compagni di avventura gli toccò rinunciare a frequentare la Loggia ll Il Venerabile aveva controbattuto con pesanti accuse, ad esempio incolpando uno dei contestatori della “sottrazione della cassa”. Proseguì imperterrito nel suo cammino, anche perché ritornando dal Sud America, dove era stato iniziato alla Perseveranza di Bahia, si era ritrovato in Patria con un nucleo abbastanza consistente di fedelissimi massoni, vecchi compagni di emigrazione, che appoggiavano ogni sua azione.

Nel 1860 pervenne ai Genovesi una circolare del Grande Oriente Nazionale d’Italia sedente in Torino (poi G.O.I.). Datata 3 giugno, “invitava tutte le Logge sparse sulla superficie della cara Patria a volersi riunire con il neocostituito organismo onde formare quella unificazione tanto bramata da tutti i veri Italiani, senza dipendere da Grandi Orienti Muratori dell’Universo”. Cipollina non rispose. Chiese a Parigi numerose promozioni fino al 18mo grado, esplicitando anche il desiderio di avere per sé il 33mo. Dopo un rifiuto secco, insistette: “Come, a chi se non? Abbiamo perfino fondato una Loggia a Livorno, abbiamo la sicurezza di istallarne a Napoli, in Sicilia, a Firenze, a Milano. Alleghiamo l’inVito di un nuovo Grande Oriente a Torino, che abbiamo rifiutato per fedeltà al Grande Oriente di Francia e non abbiamo promozioni !” Il ricatto era palese, ma non ebbe alcun esito.

Nel luglio del ’62 la Trionfo Ligure prese atto del riconoscimento del G.O.I. da parte del G.O.F ma ribadì la sua fedeltà. In quella circostanza comunicò al Grande Oriente transalpino di aver “affiliato l’ illustrefratello generale Garibaldi, 3 0 , come membro effettivo della Loggia, e di aver chiesto al Capitolo di conferirgli il 18mo grado; era suo desiderio che fosse promosso al 33mo grado. La “domanda di aumento di salario” per il Nizzardo fu inviata a Parigi in ottobre. Il Gran Maestro, maresciallo Magnan, fece rispondere, forte degli statuti, che promozione di tale importanza richiedeva che il candidato si recasse a Parigi. Erano tempi in cui l’Eroe dei Due Mondi aveva altri pensieri e l’episodio non ebbe seguito.

A fine marzo 1863 Cipollina decise di aderire al torinese G.O.I.. Era un uomo stanco. Il 17 marzo 1864, a soli 52 anni, passò all ‘Oriente Eterno. Aveva avuto un’ esistenza avventurosa, non sempre fortunata. Cercò rifugio nell’Ordine. Così nel 1882, mentre era Venerabile Gregorio Ordufio, la Loggia decise di staccarsi dal Grande Oriente “e rimase libera e indipendente”. In questo modo pensava di liquidare le diatribe sorte con Michele Barabino, suo ex Venerabile promosso al 30mo grado e accusato di colpe di vario genere in due corpose circolari. La decisione non fu duratura. Dopo una breve dipendenza dal Supremo Consiglio di Torino, la Trionfo Ligure fu di nuovo inclusa nell’elenco delle Logge del Grande Oriente d’Italia. Stando alle commemorazioni è da presumere che vi rimase felice e contenta fino ai giorni nostri.

Liberatisi della Trionfo Ligure, che liquidarono ringraziandola frettolosamente e che nel decennio che seguì non venne mai più menzionata, i Livornesi si dedicarono immediatamente ad un’attività febbrile. Li guidò Fortunato Piperno, massone di vecchia data e uomo ambiziosissimo. Per evidenziare l’urgenza di avere un Capitolo, il Venerabile scrisse al G.O.F. che “massoni irregolari avevano fondato un Grande Oriente italiano. Avevano creato una società rivoluzionaria militante sotto il velo della Massoneria, continuavano la guerra al G.O.F. e distribuivano diplomi. Si sarebbero recati in Francia per cercare di visitare Logge regolari e forse lo stesso G.O.F., per far vedere che erano stati riconosciuti”. L’ arruffato resoconto non produsse un ‘ impressione favorevole. A Parigi in questa occasione si dimostrarono assai bene informati; dall’Italia ricevevano, infatti, rapporti regolari sul còmportamento della Amici Veri dei Virtuosi da Louis Haymann 1 3 Garante d ‘Amicizia del Maestro riferì che “la Loggia era composta per la massima parte di Israeliti, liberi da poco di aver visitato una Loggia irregolare a Firenze, dove ci si occupava di formare un Grande Oriente Italiano”. Secondo Haymann “Coen non aveva commesso nessun errore e la sua posizione andava rivista. Piperno era un semplice facchino”. Non aveva nulla da dire contro quella professione rispettabilissima, “ma il Venerabile non poteva pretendere maggiori riconoscimenti di quelli che aveva già avuti”. Par di capire che Piperno stesse tentando anch’egli la scalata al massimo grado del Rito Scozzese. Nell’ottobre del ’60 anche la Amici Veri dei virtuosi ricevette la circolare del G.O.I.. Si limitò a darne comunicazione a Parigi. In Loggia serpeggiava il malcontento. Nel dicembre dell’anno successivo Giuseppe Leone, Venerabile durante il biennio anteriore al riconoscimento del G.O.F., protestò assieme ad altri “contro l’atteggiamento dei nuovi venuti, che avevano emarginato gli anziani nelle ultime elezioni”.

Il 1862 fu caratterizzato da segnali contrastanti. Moisé De Castro inviò rapporti a Parigi in una veste non meglio identificata. In febbraio era molto preoccupato, perché tutto andava male, molti volevano sottomettersi al G.O.I., anche perché il G.O.F. non si faceva mai vivo . In effetti i contatti con ifratelli del Grande Oriente sedente in Torino si moltiplicarono e se ne ebbero anche riflessi ufficiali. In marzo, ad esempio, insieme alla Amici Veri dei Virtuosi, l’Amicizia, la Garibaldi e l’ Unione firmarono un appello a Magnan perché intercedesse per la grazia in favore di alcuni militari condannati a morte dal Governo pontificio. Si può dire che da quel momento e a più riprese lungo il decennio, nella Loggia livornese l’adesione o meno al G.O.I. fu il tema dominante nella lotta fra opposte fazioni.

Nuovo Venerabile era stato eletto Israele Costa, un cinquantenne professore di lingue, favorevole al cambio di obbedienza. I capi delle altre fazioni in cui era divisa I ‘ Officina reagirono rivolgendo autonomamente numerosi quesiti a Parigi. Rivendicando la trentennale fedeltà, Anselmo Carpi non usò metafore: “Se la Amici Veri dei Virtuosi passa al G.O.I. posso formare una Loggia all ‘ obbedienza del G.O.F. ?”. Piperno ed altri scrissero: “Non abbiamo trovato ragionevole rinunciare così brutalmente ad una posizione… Non abbiamo voluto precipitare una risoluzione perché siamo dell ‘ opinione che la Massoneria non ha nazionalità; perché, secondo noi, il G.O.I. non è completamente costituito, visto che è diviso in due parti, Torino e Palermo, alle quali se ne aggiungerà forse una terza, a Genova, perché a Livorno ci sono diverse Logge che lavorano sotto il G.O.I., ciascuna con viste diverse, qualcuna con opinioni esaltate e forse socialiste. Noi che siamo liberi e favoriti da un Capitolo che ci mette nell ‘ onorevole posizione dei gradi superiori, non troviamo conveniente di scendere al livello delle altre Logge, sottomettendoci ad un cosiddetto Capitolo capricciosamente organizzato, Capitolo che non è nemmeno ammesso negli statuti del G.O I Infine, e questo per noi è importante, noi consideriamo la vostra lettera indirizzata al G.O.I. come una semplice corrispondenza e non come un riconoscimento ufficiale”. Piperno e compagni conclusero: “Se la maggioranza della Loggia deciderà di passare al G.O.I., questa determinazione sarà per noi obbligatoria? Possiamo opporci come fondatori? Potremo continuare a lavorare alla vostra obbedienza, con lo stesso nome, conservando il Capitolo? Potremo eventualmente appartenere a due Grandi Orienti ?”

Un altro messaggio fu spedito da un gruppo capeggiato da Gabriele Paz. Anch’ esso insisteva sul fatto che “il G.O.F. li aveva onorati di un Capitolo e che quindi non trovavano logico rinunciare a questo privilegio ed ai loro gradi”. La lettera chiudeva con propositi non lontani dalle precedenti: “E’ possibile fondare a Pisa un ‘ altra Loggia all ‘ obbedienza del G.O.F.?” Durante il secondo semestre del 1862 gli incontri con i fratelli del G.O.I. si concretizzarono nella concessione di patenti RosaCroce a Pacifico Pacifici, Neri Fortini, Casanova Verano e Giuseppe De Zugni, appartenenti a Logge di quella obbedienza.

In ottobre venne comunicata al G.O.I. una strana decisione, quella di affiliarsi alla Amici Veri dei Virtuosi di Pisa, una Loggia appena istituita dal G.O.I., il quale, dopo due mesi, annunciò invece: “La benemerita Amici Veri dei Virtuosi di Livorno è stata accolta alla nostra obbedienza” e nel febbraio confermò di averne avuto l’assenso dal G.O.F.. Pubblicò anche un atto di sottomissione di settefratelli, poi diventati dodici, reso poco chiaro dalla stampa, che mutilò una parte del testo originale. Erano dei dissidenti o rappresentavano effettivamente la Loggia? Gabriele Paz presenziò ufficialmente all’Assemblea di Firenze del 1863, promossa dai Torinesi del G.O.I., partecipando attivamente ai lavori. Ciò potrebbe far propendere per la seconda ipotesi. Ma in questa storia le cronologie si sovrappongono e si inseguono disordinatamente. Solo un mese dopo il G.O.F. concesse alla Amici Veri dei Virtuosi di rimanere alla sua obbedienza.

Israele Costa, rieletto Venerabile per il 1863, e che aveva probabilmente cambiato idea riguardo al G.O.I., in aprile insistette perché venisse concesso ai Livornesi un Consiglio Kadosh. In quel momento la Loggia aveva 75 membri ed il Capitolo 39: “I massoni in possesso del 30mo grado c’erano, ma non era facile provarlo, considerato che avevano dovuto operare nell’ ombra, distruggendo i documenti per ragioni di sicurezza”. Il G.O.F. assentì e l’ I l novembre 1863 gli fu spedito il verbale di insediamento. Era una concessione rilevante. In passato solo due centri ne avevano beneficiato: Orano e Montevideo. Con il nuovo organismo il nucleo massonico che ruotava intorno alla Loggia acquisiva poteri assai vicini a quelli di una Comunità autonoma. Inoltre la capitale francese era lontana e modeste erano le possibilità di controllo del G.O.F. sul suo operato. A spingere i Parigini a tanta generosità possono essere state le voci che nel frattempo aveva attanagliato il G.O.I., con Filippo Cordova dimissionario. Comunque sia, questo evento riaggregò gli affiliati e consentì alla Loggia di riprendere un assetto stabile.

La Amici Veri dei Virtuosi, ultima testa di ponte italiana dell ‘ Obbedienza d’ oltralpe, cominciò ad informare sistematicamente il G.O.F. sui disordinati movimenti massonici della Penisola, strumentalizzando sempre le notizie con obiettivi propri. Il 26 aprile 1864, poco prima dell ‘ Assemblea che avrebbe dato vita al Grande oriente d’Italia, non ne fece mistero: “Sarebbe di somma utilità colpire il momento, fondare varie Logge simboliche e capitolari sotto la vostra obbedienza. Noi avremmo il mezzo di costruire quattro Capitoli, in quattro diverse città, con persone ragguardevoli, di tutta probità e di assoluta rispettabilità. Questo desiderio, questa proposta muove principalmente dal concetto di contrapporre con forze maggiori una barriera contro il raggiro degli agitatori, di riunire buoni elementi con persone di rango elevato, di abbattere e sventare il raggiro alimentato dai fautori di una politica esaltata, di allontanare il possibile caso che quel partito, nella prossima seduta convocata a Firenze per il 15 del prossimo mese di maggio, possa pervenire alla elezione di un Gran Maestro del colore esaltato o a qualche provvisorio provvedimento nel senso di un concetto sovversivo e preparatorio delle loro vedute”.

L’ultima infornata di notizie fu spedita il 19 ottobre. E’ un tentativo di apparire aggiornati su una materia di cui ormai sfuggivano gli aspetti sostanziali:

Non v’è niente di buono, se non il disordine assoluto che si mantiene, se non è aumentato, nelle idee sovversive. E’ perciò dimostrato che Cordova per primo, e gli altri dopo, non potevano con i loro principi concorrere nel partito di esaltazione, né avevano i mezzi efficaci per reprimerlo. Garibaldi è dimissionario. Si dice anche che Francesco De Luca occupa provvisoriamente questa funzione. Altri affermano che sia Ausonio Franchi. Si dice anche che Garibaldi, nuovamente impegnato, accetterà la Gran Maestranza. In ogni caso manca assolutamente nelle Logge italiane l’ ordine e l’ intelligenza.

La Concordia di Firenze si è divisa. Aurora, Garibaldi e Unione di Livorno si sono riunite, ma i migliori fratelli sono in sonno. A Pisa l’Azione e Fede si è fusa con la Galileo, ma molti fratelli si sono allontanati e sono diventati membri attivi della nostra Loggia in buon numero. A Lucca la Loggia agisce con indipendenza assoluta. In questo stato di cose è naturale che non ci sia risparmiato il più grande disprezzo. Ci chiamano francesi, non massoni e ci guardano come dei rinnegati.

A questo punto il G.O.F. comprese che laAmici Veri dei Virtuosi era completamente isolata dal sistema e che le sue informazioni erano diventate inattendibili. Dopo l’ Assemblea fiorentina del 1864, che aveva visto il disciogliersi spontaneo del G.O.I., era stato fondato il Grande Oriente d’Italia, che aveva subito preso contatto con i Francesi. Lodovico Frapolli , massimo interprete della Massoneria italiana in quegli anni, aveva eletto la Francia a sua seconda Patria da quando vi aveva completato gli studi all’ Ecole des Mines, nel 1842. Ora viaggiava spesso da Torino a Parigi ed aveva frequenti contatti diretti con gli alti dignitari del G.O.F.. Nel marzo 1865 il Bulletin du Gran Orient pubblicò due pagine estratte da un suo scritto, Une voix, dimostrando di aver seguito assai da vicino gli avvenimenti e di averne apprezzata I ‘ evoluzione.

Il Venerabileeletto per il 1864, Gabriele e Gabriello De Paz, aveva 66 anni. Nativo di Livorno, si dichiarava possidente, sotto-cancelliere e segretario del Concistoro israelitico. Era stato iniziato nel 1817 alla Felice, promosso dopo un anno Rosa-Croce dal Capitolo dellaAmici Costanti; I’ omonimo Sublime Consiglio gli conferì il 30mo grado nel 1839. Considerati gli ostacoli ad operare in una Loggia prima del 1860, aveva alle spalle un invidiabile curriculum iniziatico. Poteva trarne autorevolezza; se ne giovò invece per condurre i lavori con piglio autoritario, arrivando a chiedere poteri eccezionali a Parigi contro la minoranza che lo infastidiva. Il suo regime si consumò attraverso ammutinamenti, ribellioni, scissioni e dimissioni. Persino i fragili rapporti intrattenuti con le altre Logge locali vennero interrotti. Nel solo 1865 ifratelli che abbandonarono laAmici Veri dei Virtuosi furono in grado di fondare due Logge, che si sottomisero immediatamente al Grande Oriente d’Italia. De Paz ridusse allo stremo gli organici della loggia e delle Officine superiori che facevano perno su di essa. Al punto che, all’inizio del ’65, il Sublime Consiglio di Kadosh non poteva riunirsi “perché non era più in numero”. Nel 1866 rassegnò le dimissioni. Per perderne la memoria ifratelli rimasti ne cancellarono il nome dal piè di lista. Con ritmi annuali gli succedettero Angelo Alvarenga, negoziante, Giovan Battista Bianco, ingegnere, Alessandro Broglio, negoziante, e Antonio Mangini, avvocato. Nessuno di loro seppe trovare un giusto equilibrio fra le diverse anime dellaLoggia. Parve che Luigi Tognocchi, eletto nel 1871, fosse più adatto al compito. Professore contabile, dalla corispondenza che intrattenne con Frapolli sembra un brav’ uomo. Era appena rientrato in Italia dopo 22 anni di esilio, aveva fondato a Livorno una scuola di commercio e di lingue, ma il non avervi “voluto insegnare, né far insegnare quel maledetto catechismo … era stata causa della perdita di tutti i suoi scolari”. Si contentava ora di un qualsiasi posto di “magazziniere” in qualche branca della Stato, pur di avere un mezzo di sostentamento.

Trascorso qualche mese dall’elezione lo colpirono gli strali del professore Atanasio Bracci Gambini, che in una circolare a stampa lo accusò di aver provocato le dimissioni di Giugni e di Chambion da membri d’onore, di aver fatto per la Loggia abbonamenti a libri che poi tratteneva, di aver contratto debiti che non rimborsava, di aver introdotto donne ai lavori massonici e via dicendo. Essendo Tognocchi ex prete, spretato dal 1846, a Bracci Gambini sembrò di bollarlo duramente chiamandolo “confessore, presbiteriano e neo-pastore valdese” 18. Rieletto nel febbraio 1872, subito dopo il vecchio, irriducibile Anselmo Carpi gli rimproverò una gestione dispotica, avente per solo obiettivo l’adesione al Grande Oriente d’Italia. Il 16 marzo Tognocchi pronunciò un discorso sulla tomba di Mazzini, non sappiamo a quale titolo, considerato che di lui non vi sono tracce né nel Protocollo della Giovine Italia, né negli Scritti editi ed inediti. Qualche giorno prima l’ Oratore della Loggia, Gustavo Sevievi, reclamò perché il Venerabile aveva aperto i lavori senza la consueta convocazione “Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo”. Il 13 marzo Tognocchi scrisse a Frapolli di “aver dato le dimissioni, anche nella speranza che la Massoneria italiana si risollevasse”. Negli atti della Trionfo Ligure non abbiamo scorto alcun atteggiamento politico. La Amici Veri dei Virtuosi si arroccò invece sempre su posizioni moderate. Bisogna tuttavia tener presente il fatto che l’interlocutore con il quale assunsero questo atteggiamento, il G.O.F. era emanazione di un potere costituito. Il Gran Maestro Magnan era stato nominato per decreto dal Capo dello Stato, Napoleone III. L’ opportunismo può quindi aver giocato un ruolo rilevante per la conservazione di privilegi tanto accanitamente difesi.

Dalle fonti citate e da altre sparse abbiamo ricostruito un elenco parziale degli affiliati che frequentarono la Trionfo Ligure e la Amici Veri dei Virtuosi. Le due Logge avevano in comune la dislocazione in una città portuale, che ebbe un sicuro influsso sulla loro composizione. Per il resto ognuna possedeva caratteristiche distinte. Nel caso della prima, per 110 su 140fratelli abbiamo individuato le professioni: il 60% erano capitani di mare, il cui afflusso fu dunque inesauribile; seguono per il 25% i negozianti, mentre il residuo 10% è ripartito in una decina di categorie, una delle quali con un solo componente, I ‘ecclesiastico Domenico Migliarucci . La situazione della Amici Veri dei Virtuosi è più variegata. Dei 350 membri sui quali abbiamo fatto rilevamenti il 40% è costituito da negozianti.

 

 

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COSI’ A GAZA MUORE IL GIONALSMO OCCIENTALE

Così a Gaza muore il giornalismo occidentale: l’adesione alla narrativa israeliana è totale

Con il mito della democrazia occidentale, a Gaza muore anche quello del “grande giornalismo”. The Intercept ha analizzato “termini chiave” in oltre mille articoli (New York Times, Washington Post, Los Angeles Times), tra 7 ottobre e il 29 novembre: ne emerge un’adesione acritica alla narrativa israeliana e un pregiudizio anti palestinese e deumanizzante ancora più evidente nei tre principali media via cavo (Cnn, Msnbc e Fox), conclude The Column. Le voci palestinesi? Assenti da 50 anni.

 

Bambini e no

 

“Cimitero dei Bambini” è la definizione delle Nazioni Unite che forse meglio coglie la specificità del genocidio in corso, ma sulla stampa statunitense scompare – tra slittamenti semantici e omissioni. L’Intercept rileva che “solo due titoli degli oltre 1.100 articoli contenuti nello studio menzionano la parola “bambini” in relazione ai bambini di Gaza”.

 

In tv (The Column) tra il 7 e il 24 ottobre i bambini israeliani uccisi il 7 ottobre (circa 30, per altri 36) sono menzionati 1.221 volte, gli oltre 3.000 bambini palestinesi 699 volte. Termini come “orribile” o “brutale” etc. sono usati in modo sproporzionato nelle descrizioni dei bambini israeliani – una “mancanza di compassione” per i bambini palestinesi che è “forse dovuta al fatto che sono ‘indottrinati’ e ‘radicalizzati’ e quindi obiettivi legittimi dei bombardamenti israeliani.”

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Sul Washington Post l’uso discriminatorio delle parole è palese: “… bambini israeliani aggrediti in modo barbaro dai terroristi di Hamas, bambini palestinesi lasciati morire sotto i bombardamenti israeliani”. Nel primo caso, “deliberato, freddo, ideologico”, nel secondo “passivo, sterile, riluttante e potenzialmente anche responsabilità dei palestinesi”, osserva l’esperto.

 

Da notare che per i bambini di Gaza è stato coniato un nuovo acronimo: Wcnsf (Wounded Child No Surviving Family), ovvero “bambino ferito, senza famiglia sopravvissuta” – oltre mille gli amputati, con dei “seghetti”, senza anestesia, i farmaci bloccati a pochi chilometri da Israele. A oggi, sono stati uccisi 18.000 bambini palestinesi, 50.000 gravemente malnutriti, distrutta la salute psicologica di oltre un milione.

 

Il termine “massacro” (“slaughter”) non è mai stato usato per i palestinesi. Se appare è un palestinese a dirlo, con la forma del ‘punto di vista’: “… stanno tutti reagendo a quello che i palestinesi chiamano massacro”. Per gli israeliani viene usato centinaia di volte, in modo oggettivizzante: “Sono video molto difficili da vedere, questo è stato un massacro”.

 

Poco meglio la carta stampata. Le uccisioni di israeliani contro quelle palestinesi sono descritte come un “massacro” (“slaughter”) in un rapporto di 60 a 1; “carneficina” (“massacre”) in un rapporto di 125 a 2; “orribile” (horrific) in un rapporto di 36 a 4. I palestinesi non sono massacrati, ma semplicemente “uccisi” o “morti” – uso frequente della forma passiva – “dalla guerra”. Nel mese analizzato, gli israeliani sono menzionati 95.468 volte, i palestinesi 18.982, nonostante il crescente divario di uccisioni.

 

Guerra ai giornalisti

 

Una guerra mortale per i giornalisti, quasi tutti palestinesi, ma “giornalisti” compare in 9 titoli dei 1.100 analizzati e solo in 4 di questi si parla di giornalisti arabi. In tv è il portavoce dell’Idf a prendere quasi tutto lo spazio (19 giorni su 30 studiati), dove “afferma spesso (senza prove e quasi senza opposizione da parte dei giornalisti) che (…) scuole, università, luoghi di culto e abitazioni civili sono obiettivi legittimi.” Molti giornalisti convengono.

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dal blog di Elena Rosselli

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Le uccisioni di Hamas sono descritte “come strategie del gruppo”, quelle dei civili palestinesi “quasi alla stregua di errori una tantum”. Ma che questi ‘errori’ si ripetano ogni giorno, segnando una strategia, “i lettori se ne sono accorti e capisco la loro frustrazione”, riferisce un interno del Times (in anonimato, per paura di ritorsioni).

 

Il “promemoria” del NYT

 

Il 15 aprile 2024 l’Intercept, dopo aver visionato promemoria interni al Times e chat WhatsApp, svela le direttive interne su come raccontare il conflitto. E’ stata bandita la dicitura internazionale “territori occupati”; il termine “genocidio” è “da evitare” (se non in contesti strettamente legali), così come “pulizia etnica.” Non usare il termine “Palestina”, evitare “campi profughi”, se non in “casi molto rari”. Linee guida che “possono sembrare professionali e logiche se non si ha conoscenza del contesto storico del conflitto”, cioè l’occupazione, “nocciolo di tutto il conflitto”, spiega l’interno del Nyt.

 

Cancellare il termine “Territori occupati”, dicitura Onu e del diritto umanitario internazionale, e cancellare l’occupazione è praticamente la stessa cosa. Israele è per l’Onu “Occupying Power” (Potenza occupante), status che ha conseguenze anche giuridiche. L’occupante ha precisi doveri di tutela dell’occupato, mai rispettati. Al punto che la Corte Internazionale di Giustizia, Advisory Opinion del 9 luglio 2004, ‘avvertiva’ le agenzie di cooperazione internazionale a non sostituirsi a Israele per non oscurarne le responsabilità – e a non ‘regalargli’, di fatto, risorse.

 

Silenziare le voci palestinesi

 

“Come vengono incoraggiati i lettori americani a pensare ai palestinesi?”. Maha Nassar, Università dell’Arizona, ha vagliato 50 anni di articoli di opinione. Il racconto dei palestinesi è fatto “spesso in modi condiscendenti e persino razzisti” e per il 99% da non-palestinesi. New York Times, meno del 2% su 2.500 articoli; Washington Post, l’1%. The New Republic, su 500 articoli non una sola firma palestinese.

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“All Eyes On Rafah”?

 

La libertà di stampa in Israele è gravemente limitata. Il materiale giornalistico ritenuto “sensibile” è visionato dal Censore Militare, che decide, in base a “regolamenti di emergenza” di 70 anni fa, cosa si pubblica, cosa no, cosa va cambiato: nel 2023 sono stati 623 gli articoli censurati, 2.703 le parti oscurate (+972 Magazine). Nella classifica di Reporters Without Borders, Israele è oggi al 101esimo posto, 572 i giornalisti detenuti (stragrande maggioranza arabi) e 18 gli uccisi (sui 150 Onu, RWB conta solo i casi in cui è già dimostrata l’uccisione in relazione all’attività). La sede di Al Jazeera a Tel Aviv è stata chiusa, il materiale sequestrato. Via gli ultimi testimoni da Rafah.

 

La simpatia oggi è per i palestinesi. Il 70-80% degli statunitensi si informa sui social media, le nuove “forze dominanti del giornalismo”, e anche se l’ordine è di “censura sistematica dei contenuti palestinesi” (Human Rights Watch), il flusso di fotografie traumatiche e video inguardabili non si ferma.

 

Deumanizzare i palestinesi; “avvicinare” la sofferenza israeliana per dirottare l’empatia verso l’occupante; eliminare il contesto storico – la normalizzazione del genocidio in corso è in gran parte responsabilità dei media. Per non essere complici, utilizzare la terminologia internazionale e le corrette categorie storiche – coloni/nativi – e dar voce ai palestinesi sarebbe un buon inizio, ma solo l’inizio.

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ORA SERVE UNA COSTITUZIONE PER DIFENDERE L’UE DAGLI USA

Sapelli: ora serve una costituzione per difendere l’Ue dagli Usa

 

 

Pubblicazione: 15.06.2024 – Giuli PER DIFENDEREo Sapelli

Quello che sta accadendo dopo le elezioni europee mostra quanto l’Ue dei burocrati sia sempre più lontana dalla realtà degli Stati membri

scholz macron biden 1 ansa1280 640×300            Olaf Scholz, Emmanuel Macron e Joe Biden (Ansa)

 

Che vi sia un’ormai ineludibile separazione tra l’Europa formata dagli Stati firmatari dei Trattati e il costrutto funzionalista, ordinatore senza legittimazione costituzionale, costituito dall’insieme di Trattati che compongono l’Ue con la sua “burocrazia celeste”, è ormai sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. L’Ue sempre più ampia e compulsiva con regolamenti, direttive, addirittura documenti fatti propri dagli Stati europei e dai loro Parlamenti che descrivono percorsi istituzionali verso transizioni economiche, ecologiche, financo “morali” con rilevanti conseguenze su quello che è lo spirito pubblico dei cittadini dei singoli Stati nazionali afferenti all’Unione.

 

GERMANIA E FRANCIA/ Due classi dirigenti sconfitte possono “giocare” con una guerra mondiale non dichiarata?

COBAT Tessile: molto utile parlare del Piano Mattei oggi

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Le due guerre in corso – una nel plesso del Grande Medio Oriente con epicentro lo scontro tra il terrorismo di massa antisemita di Hamas e lo Stato ebraico, l’altra ai confini dell’Europa stessa, anzi, con la prossima ammissione dell’Ucraina nell’Ue nei confini dell’Europa funzionalista – non fanno che esacerbare questa divisione.

 

NOMINE UE/ Se Macron e Scholz tentano l’arrocco su “Ursula 2”

 

La causa prima è la lenta e poi via via più rapida dissoluzione del regime di potere impersonificato in Francia da Emmanuel Macron: la distruzione dei partiti continua senza sosta e l’emanazione di leggi grazie alle regole costituzionali adatte per uno stato d’eccezione prosegue, con il distacco crescente dei cittadini dalla partecipazione elettorale, mentre quella politica vede ormai primeggiare quella conservatrice delle forze di destra moderata ed estrema che si stanno raggrumando nella continua proliferazione di gruppi di cacicchi personalistici raccolti attorno a capi dotati di capacità di manovra sempre più ampia.

 

CONFERENZA IN SVIZZERA SULL’UCRAINA/ “Serve una tregua e le elezioni a Kiev, ora si riparta dal grano”

 

La Germania è l’altro caso eclatante, colpita com’è dalle sanzioni Usa e Ue contro la Russia che altro non hanno come scopo che disgregare l’industria tedesca e i suoi organici legami con l’Italia e la Cina, che gli Usa intendono distruggere. L’Ue è lo strumento scelto, mentre la Nato riafferma la volontà di fatto unipolaristica Usa, unipolarismo mascherato che è la fonte di un’altra disgregazione: quella delle relazioni internazionali, che prosegue con grande rapidità e pone le basi per l’ampliamento di conflitti sia sul piano dell’allargamento spaziale con prolungamenti di potenza che superano sempre più gli Stati originari, sia con il grado potenzialmente sempre più distruttivo degli armamenti, che fanno profilare il pericolo dalla guerra mondiale nucleare, minaccia sempre incombente.

 

In questo contesto l’atassia delle istituzioni Ue si avvicina al colmo, per il perdurare delle procedure di scelta del prossimo presidente della Commissione che continua a essere indicato dal Partito popolare europeo nella figura di Ursula von der Leyen, anche se dallo stesso partito sono emerse nell’ultimo congresso non poche contestazioni in merito.

 

Ma la sostanza del discorso è che la macchina della formazione funzionalista del potere di comando amministrativo che caratterizza l’Ue continua a funzionare come se nulla fosse. Si disgrega la democrazia francese, è in crisi quella tedesca, le Repubbliche baltiche muovono al confronto con la Russia, con la Polonia che fa da caposquadra con un revanscismo comprensibile, ma pericolosissimo in contesto di guerra, ma tutto continua come prima.

 

In questo quadro l’Italia pensa di poter svolgere un ruolo superiore alle sue forze, scambiando i risultati elettorali di una competizione dove metà dell’elettorato non ha votato e in cui il primo ministro ha stravinto più rispetto ai suoi compagni di Governo che rispetto all’altro candidato di riferimento dell’opposizione. Ebbene, l’unico punto forte di riferimento è lo spiccato atlantismo italico, che si è certo trasformato vieppiù, ma che rimane sempre quello della consolidata appartenenza all’anglosfera dell’Italia, con ben poche varianti rispetto alla nostra lunga storia diplomatica profonda.

 

In questo senso la necessità di richiedere una profonda trasformazione del rapporto tra la burocrazia celeste e gli Stati e i cittadini di codesti Stati, che fondano l’Europa storica, universale civilizzatrice del mondo, è sempre più inderogabile, se non vogliamo che il continente sprofondi tutto in una crisi irreversibile.

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SOCRATE:  UNA VITA NEL SEGNO DELLA POLITICA

SOCRATE:  UNA VITA NEL SEGNO DELLA POLITICA

di Antonio Binni

 

Secondo le fonti era un uomo brutto, sudicio, avvolto in un mantello sozzo e sdrucito, senza mai un lavoro stabile retribuito, privo di calzari sempre per strada, o nelle piazze, quotidianamente impegnato a demolire le granitiche opinioni del primo malcapitato, ma non l’ultimo, visto che importunava come un “tafano” tutti gli interlocutori involontari che incontrava. Una sorta di quasi sciamano in quei improvvisi – e talora durati per giorni – arresti di piena, totale immobilità, autentica statua vivente in aperto dialogo con i propri pensieri ispirati da quel demone, che, con strana voce interiore, lo guidava nelle proprie scelte. In sintesi. Un uomo strano, un àtopos, per dirla come lo consideravano i suoi stessi concittadini. Dunque, un uomo misterioso, così come un non meno misterioso filosofo perché esistono decine di “Socrati” a seconda delle interpretazioni date alle sue parole, visto che non ha mai lasciato scritto un rigo. Né impartiva lezioni. Ha avuto feroci detrattori. Come Nietzsche, che gli rimproverava di avere distrutto l’autentico spirito greco, sempre in cerca dell’equilibrio fra le due forze dell’apollineo e del dionisiaco. Perciò “monstrum in animo”, così come “monstrum in fronte”, dove palese è l’allusione alla sua ben nota bruttezza. Per contro, ha avuto, però, anche ammiratori autorevoli. Uno per tutti, Hegel, che lo definì “un eroe dell’umanità”. Su alcuni punti v’è tuttavia certezza. In primis. Socrate opera il distacco dalla precedente filosofia naturale. Come ha scritto Cicerone nelle Tusculane, Socrate ha segnato il passaggio della riflessione dal cielo alla terra, dalla natura agli uomini, dall’ignoto alla vita vissuta con le cose buone e cattive. Dunque, un capovolgimento totale del punto di vista fino a quel momento previlegiato dai precedenti filosofi posto che questi ultimi avevano invece fissato l’orizzonte delle loro indagini nel cielo e nella natura nella sua interezza. Non per caso tutte le loro opere avevano infatti per titolo Intorno alla natura. L’analisi sull’uomo diviene così centrale, con una inedita riflessione di natura morale svolta all’insegna dell’intellettualismo etico, norma, però, non generale, in quanto riserbata alle sole persone virtuose. Tesi originale ma proprio perché precetto privo del carattere della generalità duramente criticata a cominciare da Aristotele. Il che vale pure per il corollario desunto da quell’intellettualismo etico, ossia che il male può nascere solo dall’ignoranza, e non anche, invece, dal desiderio di fare del male. Con la coerente conseguente conclusione che, se gli errori morali provengono da errori intellettuali, è doveroso perdonare agli ignoranti le loro colpe, piuttosto che condannarli. Precetto per altro messo in atto quando venne condannato alla pena capitale. Altro punto fermo. Nel “non sapere” ha fatto la chiave di volta per dimostrare l’infondatezza delle opinioni provocate, base per cominciare una fruttuosa riflessione in comune attraverso domande e risposte atte a costruire discorsi veri, seppure solo provvisori, stimolo per una ulteriore ricerca perché le domande aprono nuovi spazi mentre le risposte li chiudono. Il procedimento noto come “ironia socratica” comporta un lavoro su se stessi, senza del quale non ha senso vivere. Questo, però, costituisce una netta cesura e una assoluta distanza dai sofisti che, con la forza retorica delle argomentazioni e del potere persuasivo della parola, sono autentici funamboli del pensiero siccome capaci di sostenere il tutto e, subito dopo, il contrario di tutto, cattivi maestri di una morale labile, di leggi da interpretare a seconda del bisogno, “cacciatori prezzolati di giovani ricchi”, aspiranti politici di pessime costituzioni politiche proprio perché figlie di un relativismo morale che non conosce ancoraggi assoluti. Queste note sono tuttavia essenzialmente preordinate a mettere in luce la centralità politica rivestita da Socrate nella sua città, quanto dire, a sottolineare un profilo fondamentale, oltre che di sicuro interesse, se è vero, come sembra inoppugnabile, che tutta la vita di Socrate si è svolta nel segno della politica. Secondo Platone, Sparta era la polis che vantava la costituzione più bella. Risaliva a Solone, che aveva impostato la prescelta oligarchia su tre fondamenti: forza – bellezza – saggezza. E qui non possono non illuminarsi gli occhi dei Fratelli Massoni visto che la Loggia è ordinata proprio su questi tre pilastri. L’ordinamento costituzionale ateniese era invece costruito su basi molto diverse, oltre che molto più complesse. A Atene la forma politica tradizionale era quella dell’egemonia del demos (donde democrazia) guidata, tuttavia, da una aristocrazia illuminata, composta da abbienti, a sua volta guidata da una massa di incompetenti. Come è stato autorevolmente osservato (L. CANFORA, Il mondo di Atene, Economica Laterza, 2013, pag. 10) la grandezza di quel ceto aristocratico è consistita proprio nell’avere accettato la sfida della democrazia, il rischio costante della sovrapposizione, facendo prosperare la comunità ateniese fino al punto di farne la culla dell’arte e della saggezza dell’intera Grecia. Questo sistema costituzionale era durato un secolo, fino a quando non fu abbattuto dal governo dei Trenta Tiranni (404 – 403 a. C.) imposto da Sparta alla duramente sconfitta Atene nella guerra del Peloponneso, per essere poi ricostituito al ritorno di “quelli del Pireo” militarmente guidati da Trasibulo. La democrazia, infatti, si abbatte, ma non si cambia perché non è, né modificabile, né migliorabile. In questo complesso quadro costituzionale, Socrate si muove al di fuori dei luoghi della politica, intrecciando complesse relazioni con le figure politiche più rilevanti dell’epoca. Oltre a Alcibiade, è il maestro di Crizia, il più autorevole e temuto esponente del governo dei Trenta, con il quale la città non si sarebbe mai riconciliata perché, per tutta la vita, fiero avversario della democrazia ateniese. Il teatro, accanto all’assemblea e ai tribunali, è il fondamento della vita pubblica di Atene. A differenza del teatro tragico, quello comico ha una efficacia direttamente politica. Il fatto che Aristofane abbia attaccato frontalmente, e ripetutamente, Socrate (Nuvole prime; Nuvole seconde), è una inoppugnabile conferma del ruolo politico svolto dal filosofo nella città. In questo senso depone altresì il fatto che altri importanti comici abbiano attaccato Socrate come il ghost – writer di Euripide, altro personaggio mal visto dalla città per la sua stretta amicizia con Crizia, perciò, come Socrate, bersagliato nella scena comica. Lo stesso Platone, del resto, non manca di porre Socrate al centro di una società estremamente politicizzata. È dunque difficile negare la stessa natura, tutta politica, dell’accusa che ha condotto il filosofo a morte. Ciò che veniva addebitato a Socrate era infatti l’avere allevato i due politici responsabili della rovina di Atene, rispettivamente Alcibiade e Crizia, il primo fautore della disastrosa spedizione in Sicilia, e, il secondo, affossatore della tradizionale politeia. L’azione politica svolta in concreto da Socrate è stata, però, ancora più incisiva per avere messo in discussione lo stesso fondamento del sistema costituzionale ateniese dal duplice profilo della competenza e del miglioramento degli uomini. Come in ogni democrazia antica, anche in Atene, nell’ordinamento costituzionale, rivestiva un ruolo centrale l’assemblea, nella quale avevano diritto di parlare tutti coloro che lo desideravano, posto che né la povertà, né l’umiltà dei natali costituivano un impedimento a manifestare il proprio punto di vista nell’interesse della città. La realtà era però diversa visto che in assemblea parlavano poi soprattutto coloro che “sanno parlare” perché hanno il dominio della parola. A conferma della preminente importanza che attribuisce alla politica, Socrate pone, però, la questione nevralgica se la politica abbia un suo oggetto specifico, salvo poi porre al centro della sua riflessione il tema della selezione dei governanti, o, come diremmo oggi, della classe dirigente. Salvo poi osservare che codesta selezione comporta il rifiuto inappellabile della democrazia. Ponendo il problema della competenza di chi tratta le questioni politiche, Socrate anticipa una problematica, ancor oggi, vivissima. Platone mostra poi di avere raccolto la preoccupazione socratica. Fondando nel 387 a. C. l’Accademia, scuola per aspiranti politici, comprova infatti che, a costruire animali politici, non basta una propensione naturale, per essere invece necessaria, al contrario, una dura preparazione. Lezione validissima anche ai giorni nostri, nei quali, purtroppo, domina invece l’improvvisazione. L’azione politica più efficace e significativa svolta da Socrate concerne tuttavia il miglioramento dei cittadini come mezzo indispensabile per il miglioramento della politica. Chi aspira a governare o addirittura a conquistare un simile ruolo, secondo Socrate, deve infatti offrire garanzie morali, le uniche che assicurano il perseguimento del bene comune e, dunque, del buon governo. In fondo, la costante discussione socratica di tipo politico messa in scena da Platone non mira, infatti, altro che a questo, ossia, alla ricerca del bene comune mediante il passaggio dall’io al noi. Eccedere l’individuale costituisce infatti l’unica – corretta – via in grado di irradiare con luce nuova la città. Altrimenti in preda dell’egoismo, padre di tutte le lotte intestine. Per operare una autentica rivoluzione sociale, insegna Socrate che occorre prendere le mosse dall’uomo “nuovo”. Solo a partire da ciò – e non prima – si può, infatti, finire per influire concretamente sulla città. Questa è la lezione che la Massoneria ha imparato perfettamente e che, da trecento anni, custodisce gelosamente, propugna alacremente, e mette in atto con ferma determinazione in tutti i paesi nei quali è presente. A conclusione di queste note si impone una ovvietà. Quando si guarda a Socrate, si pensa soprattutto all’uomo fedele alle proprie convinzioni fino al punto di accettare di subire la morte ingiusta pur di non tradirle. A fronte della concreta possibilità di sottrarsi alla pena mediante la fuga con la barchetta già pronta a questo scopo – evenienza neppure sgradita ai potenti della città – il filosofo preferisce infatti bere l’amara cicuta con la consapevolezza di avere positivamente concluso un ciclo di vita con un lascito del proprio insegnamento destinato a non invecchiare fino a quando esisterà un uomo. Fulgido esempio per tutta l’umanità elevato a mito e, con Erasmo da Rotterdam, degno addirittura di una preghiera (o sancte Socrates ora pro nobis). Socrate, come politico, fallisce. Platone, come politico in Siracusa, fallisce. Così come è destinato a fallire qualsiasi pensatore disarmato. Ciò nonostante, continuiamo, e continueremo sempre, a considerare Socrate come un punto di riferimento imprescindibile per chi aspiri ad una vita realmente autentica. La grandezza di un uomo non consiste infatti necessariamente nella vittoria, ma nella dignità e nella coerenza con le quali dà seguito – “con fatti e con parole”, come dirà più tardi Platone nella Settima lettera 324 a – a quello in cui crede fermamente.

 

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

 

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“OLTRE LA CRISI, LA BUSSOLA DEI VALORI PER RITROVARE L’UOMO”

“OLTRE LA CRISI, LA BUSSOLA DEI VALORI PER RITROVARE L’UOMO

Allocuzione del Gran Maestro Gustavo RaffI

Autorità presenti,

Signore e Signori,

Carissimi Fratelli,

 

viviamo un tempo di grande incertezza e spaesamento, nel quale la luce di chi conosce percorsi di umanità e ricerca deve uscire dal silenzio e farsi compagna di strada per i cercatori di senso. Domina oggi la filosofia spicciola del tirare a campare, della furbizia, del voltare lo sguardo per far finta di non aver visto, sentito o capito. L’umanità stessa, valore fondamentale del vivere civile, pare essere finita in secondo piano, perduta tra troppi marosi, così tanti che la Rosa dei venti sembra non bastare. L’urgenza di civiltà, la riscrittura di una serie di fondamenti etico-morali indispensabili, ritorna in tutta la sua gravità. Proprio perché il momento è molto difficile, a noi è sembrato opportuno dedicare questa Gran Loggia al tema delle prospettive. Innanzitutto quelle valoriali, ovvero quelle basate sui princìpi e sui minima moralia, che devono distinguere l’Italia e l’Europa che verranno. Rassegnarsi alla decadenza significherebbe, infatti, farsi complici del declino: pensare l’Italia vuol dire invece porsi con coraggio dinanzi a scenari sempre nuovi, saper leggere il senso d’incertezza che scorre nelle vene di questo Paese e in particolare dei suoi giovani, contribuendo a trovare risposte. C’è bisogno di riprendere il filo di un cammino culturale ed etico, lavorando insieme, per superare lo smarrimento.

 

La grande assente è la politica, ma anche le idee. Una radiografia dell’Italia mostra che si è trasformata e scentrata un’immagine, ma soprattutto un modo di stare nella realtà, perché si è lasciato campo all’improvvisazione e alla logica delle opposte fazioni. I Liberi Muratori non sono tra quelli che parlano di Finis Italiae. Non lo saremo mai. La nostra storia ci insegna altro. Ci dice che tra non poche ombre, può sempre spuntare una stella che traccia la strada ai viandanti. Le nostre battaglie per la laicità e la libertà, ci indicano alla storia come costruttori. Questo siamo, sempre.

 

Lanciamo forte il nostro grido: rinnovare l’Italia senza investire sulla cultura è mera illusione. Per uscire dai vicoli ciechi, occorre valorizzare giovani e scuola pubblica, lottare per il diritto al lavoro e la dignità della persona, dare respiro alle energie sane della società e alle sue attese di rinnovamento, aprire prospettive a saperi nuovi e all’innovazione, aiutare chi è senza diritti, legare in un nuovo patto civile i vecchi e i nuovi italiani: i figli degli immigrati che contribuiscono alla crescita della Nazione e vanno a scuola con i nostri figli, sono cittadini della nostra Italia.

 

Oltre a me moltissimi altri Liberi Muratori si sono riconosciuti in queste settimane, nel “Manifesto per una Costituente della Cultura”. Punti concreti, non parole nel deserto, per avviare una strategia capace di dare voce concreta a molteplici proposte volte a sostenere ricerca scientifica, scuola e università, in un contesto di piena collaborazione non solo tra le amministrazioni preposte a tale compito dallo Stato, ma anche nella sinergia tra pubblico e privato.

 

L’Italia è un paese dotato di un enorme patrimonio non solo culturale, in beni mobili ed immobili, fisici e immateriali, ma anche e soprattutto civile, fatto di tradizioni prestigiose, di buon senso, di umanità straordinaria, di capacità innovativa e di risorse umane di immenso valore, ma che rischiamo di svilire e di essere mortificate irreparabilmente. Il salto di qualità per superare l’incompiuto si deve fare insieme, unendo tutte le parti in un percorso, e tendendo verso un unico obiettivo: rimettere in piedi il Paese. Non è un’operazione di lifting ma di sostanza. E’ identità e progetto, responsabilità di divenire. Noi ci siamo: il Grande Oriente offre uno spazio di dialogo e di confronto, per dare un’anima all’Italia, per costruire un futuro solidale oltre i racconti e le ricette del momento. Ma niente si può realizzare se non si crea vera partecipazione, se non si coinvolgono i cittadini nei processi decisionali, se non si lancia una rivoluzione delle coscienze contro la precarietà e l’emarginazione.

 

L’Italia oggi è addormentata, si rotola sugli egoismi di parte. I massoni non sono uomini come gli altri: noi abbiamo il senso del tempo lungo. Vogliamo lavorare per realizzare progetti generazionali, partendo dall’identità culturale. Riappropriamoci dei classici e dei veri Maestri di pensiero, rideclinati nella quotidianità. Rimettiamoci a studiare Mazzini, a cogliere la lezione di etica nella sfera pubblica. ‘Cetto la Qualunque’ può far sorridere al cinema, ma non è la soluzione. Servono giganti, non nani e ballerine, per dare risposte ai problemi che viviamo.

 

Noi non stiamo a guardare: vogliamo essere protagonisti di un’azione mirata a rimettere in moto una Cultura che non è consumo, ma radice di ogni crescita possibile, leva per lo sviluppo del Paese. Occorre chiudere la stagione dei festival e delle cose transitorie, per puntare invece a una strategia generazionale capace di migliorare il Paese e impegnarsi al di là dell’interesse individuale. E’ con le cattedre, non con le sagre, che si costruiscono prospettive durature. E’ con l’esempio dei buoni cittadini che si può vivere un messaggio di rinnovamento morale. Con forza vogliamo contribuire al progresso dell’Italia, siamo pronti a dare una mano allo sviluppo del nostro Paese, in maniera disinteressata e perciò autentica e spendibile. Pronti a dare mente e braccia per trasformare le contingenze in destino. Non dobbiamo avere paura di cambiare la storia.

 

Serve un’opzione fondamentale: rimettere al centro del viaggio la bussola dei valori, per ritrovare l’Uomo. Andare oltre la provvisorietà delle visioni, perché siamo gli uomini dell’impossibile attualità, energie libere che sanno costruire percorsi di liberazione. Un tempo, anche recente, ci siamo opposti alle dittature e ai totalitarismi di ogni colore; abbiamo mantenuto la libertà tra la follia dei fili spinati e l’inferno della ragione: oggi la nostra lotta è contro la mediocrità e i giganti dell’ignoranza.

 

Nel De Civitate Dei, Agostino scrive: Initium ergo ut esset creatus est homo. L’Uomo è stato creato perché fosse un inizio. E’ nella nostra essenza la capacità di produrre il nuovo. Ma la novità è lotta, processo di libertà, inesauribile e inquieto pensiero. Assumere questa consapevolezza significa essere iniziatori, vivere portando nel petto un’etica laica che fa del confronto un metodo, indica la bellezza della differenza contro logiche di ripetizione. La vita è occasione e scelta. Ciò che conta è pensare la propria storia e vivere il proprio pensiero.

 

Ma nel passaggio tra i tempi che stiamo vivendo, non è possibile andare da soli: bisogna essere ‘legati’. Tenersi insieme in cordata per evitare gli scricchiolii degli argini. Non è più il tempo degli occhi fissi ma dello sguardo sull’altrove, di riscoprire la curiosità per ciò che non c’è ancora e che va costruito con impegno e responsabilità. Il compito dell’educazione delle coscienze è fondante, e non può essere lasciato alla fiction. Vanno ascoltate le voci dei veri Maestri, in ogni campo. Richiamiamo i saggi dall’esilio. Perdere la bussola dei valori, della centralità della pace, della cultura del rispetto, della cooperazione, della solidarietà, ma anche ovviamente della trasparenza, dell’onestà, del rigore, in antagonismo all’abuso, ai trucchetti di bilancio, a inganni e malaffari, pubblici e privati, avrebbe conseguenze devastanti e inaccettabili. I problemi si declinano nel nostro Paese, ma anche in Europa. Come Liberi Muratori vogliamo far sapere alla società civile italiana ed europea, attraverso la voce amica della altre istituzioni massoniche a noi vicine nel Continente, che la Massoneria coltiva i valori della pace, della tolleranza, della fratellanza tra popoli, come elementi fondanti di civiltà. Che in uno scenario di crisi profonda, ci sentiamo impegnati a difendere le istanze della cultura, intesa come progresso e crescita, anche economica. Il Grande Oriente d’Italia in tutte le sedi, anche e soprattutto in contesto europea, ove ormai da due anni partecipa al Meeting delle Organizzazioni Filosofiche non Confessionali, a Bruxelles, presso la Commissione Europea presieduta da Manuel Barroso, ha sempre insistito sulla centralità dei princìpi fondativi dell’unione tra i popoli europei, sulla cultura e sulla difesa dei diritti umani prima che sulle ragioni prettamente economiche. Amiamo l’Europa dei popoli e dei saperi, non quella delle banche.

 

In Patria e oltre confine, i Liberi Muratori sono sentinelle etiche del proprio tempo, maggior fabbri di nuova umanità. Non stanno in silenzio maledicendo l’oscurità ma si fanno carico di ciò che giovani e anziani, uomini e donne attendono per la loro vita concreta: risposte ai problemi sociali, al dramma di chi perde il lavoro, alla sofferenza di chi chiede da troppi anni giustizia.

 

Non vogliamo essere tra quelli che avvelenano i pozzi, ma lavorare sulla soglia di ogni possibilità, laddove una parola e una luce possono far cambiare rotta a decisioni che rischiano di negare la centralità dell’Uomo. Proprio perché non siamo un partito politico ma un’agenzia etica e un laboratorio di pensiero, storicamente radicati nella tradizione democratica dell’Italia, legati ai valori fondamentali della Carta Costituzionale e dell’Unità di un Paese che abbiamo contribuito a costruire e consolidare in questi 150 anni di storia, possiamo proporre spunti di riflessione non demagogici, svincolati da qualsiasi necessità di piacere o di avere una audience a tutti i costi favorevole. Possiamo esercitare tutta la scomodità del pensiero critico, e il volo alto della libera indagine, che in molti casi è stata la nostra forza più vera e originale.

 

Tenere tra le mani la bussola dei valori, è il presupposto per ogni decisione. Significa riscoprire i motivi che ci portano a stare insieme, dando un nome e un volto alle cose perché spesso il cavaliere dell’angoscia è anche il cavaliere dell’indifferenza. E’ un percorso fatto di coscienza e decisione, che impegna il futuro e porta a scegliere tra il giusto e ciò che è invece sbagliato. Il senso dei valori cui ci riferiamo non è una metafora astratta: ha a che fare con la coerenza, l’integrità, la possibilità che ognuno diventi persona in senso pieno e viva la storia nella novità del proprio essere. Il sapere aiuta a diradare orizzonti, a disegnare mappe nuove, allargando quei confini che per noi non sono limiti ma avamposti del confronto libero e dell’interesse comune.

 

Per questo non vogliamo essere ripetitori di glorie passate ma gente che apre squarci sul futuro, indicare che la regola prioritaria è la cura dell’Uomo. Dobbiamo proteggere la libertà dove viene minacciata, smascherare gli idoli e la sufficienza di chi pensa di poter bastare solo a se stesso. Sappiamo che tutto si può cambiare, ma occorre fatica e impegno. Perché dove non c’è lotta, non c’è storia.

 

Il liberalismo coniugato con il consumismo ha portato all’espropriazione dell’economia reale a cui si è sostituita l’economia finanziaria. Un gigantesco gioco del Monopoli fondato sul nulla, che sta trascinando verso l’abisso popoli e culture. Non è anacronistico chi, nell’età del relativismo, riprende a costruire perché sa che anche le rovine sono punti di partenza. Di questi irregolari che mettono insieme, pietra su pietra, imperativo morale e lavoro sociale, ha bisogno l’Italia e l’Europa. I Liberi Muratori possono fare la propria parte perché hanno molto da dire alla società: chi ha affrontato le prove iniziatiche e ha sperimentato l’incontro con le tenebre, non può perdersi d’animo. Sa che esiste la Luce e che questa Luce continua a brillare indipendentemente dalle vicende umane. Sottrarre terreno alla banalità vuol dire far saltare gli schemi del conformismo e le catene della rinuncia, vivendo unicità e profondità. Un’avventura mai conclusa, per la quale vale sempre la pena, come Ulisse, riprendere il mare senza sapere se ci sarà un’Itaca a cui far ritorno.

 

Libertà e volontà non sono uno slogan, ma la convinzione profonda che ciascun uomo, sulla faccia della terra, possa pensare, agire, lavorare, parlare, amare, soffrire e morire senza che nessuno lo obblighi a fare, a credere, a professare o a dichiarare ciò di cui non è convinto. Vogliamo essere padroni del nostro tempo.

 

Ho la gioia e l’onore di guidare migliaia di uomini del dubbio, che non hanno scelto le convenienze ma di essere scomodi, perché sono segno di libertà. Gente che nessuno può vendere o comprare, perché il loro segreto è la fratellanza. Liberare l’Uomo da povertà, soggezione e ignoranza, è ancora il compito del Grande Oriente d’Italia. Di questo Tempio comune che portiamo nel cuore, che è la casa dei ribelli in rivolta contro tutti i dogmi e i limiti. Dietro di essa si profila la grande ombra di Kant ma anche la storia di tante conquiste di laicità e di pensiero di cui siamo orgogliosi perché sono radice per il domani.

 

Oltre la crisi, oltre la notte, noi guardiamo avanti. Questo è un messaggio anche al nostro interno: in questi anni abbiamo abbattuto i muri della diffidenza e delle incomprensioni;, ora – come insegna il nostro Voltaire – dobbiamo ‘coltivare il nostro giardino’. Lo faremo camminando sempre più in cordata, e puntando su obiettivi precisi. Chi pensa ai metalli, agli onori e alle lotte per il potere, è fuori dal Tempio. E nulla ha capito della grande avventura di libertà e sapienza della Massoneria.

 

Per noi, come per tutti gli italiani, la posta in gioco è la responsabilità delle azioni. Il nostro Paese non ha bisogno di imbonitori ma di scelte strategiche su obiettivi a lungo termine. Spezzare l’ipoteca della precarietà significa riprendersi la propria storia e disegnare un tratto di futuro, come abbiamo cercato di indicare nel viaggio identitario che in quest’anno, da Trieste a Palermo, abbiamo percorso per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Un itinerario che avrà ancora altre tappe di confronto, perché è un metodo e un’ipotesi di lavoro più che una catena di eventi. Ha dimostrato come sia possibile dare spazio a valori, sapere e memoria per riflettere su ciò che vogliamo essere come italiani ed europei. Abbiamo scelto le piazze e i teatri, ci siamo mostrati senza paura, dialogando a viso aperto con chi non la pensa come noi. Abbiamo conquistato rispetto sul campo, togliendo i manichini dalle vetrine di tante celebrazioni con il torcicollo, mettendo invece in campo riflessioni e azioni che ci hanno accreditato come italiani veri, quelli che indossano il grembiule per servire una verità comune.

 

Nel 1861 l’Unità d’Italia aveva uno scopo preciso: diventare moderna. Non è un caso che La storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, da molti ritenuta la massima espressione ideologica del Risorgimento, si chiuda con l’esortazione a “fare il mondo moderno il mondo nostro”. L’Italia che grazie a Machiavelli, Bruno e Vico, ha contribuito alla nascita dello Stato moderno, può rimettersi in pari con l’Europa più avanzata. E’ l’Italia che ha inventato la modernità dell’Occidente, le ha aperto la strada con le sue innovazioni e il suo esempio di pensiero libero. E oggi? Non di rado occupiamo gli ultimi posti nelle graduatorie europee e mondiali per lavoro o ricerca, per assistenza ai più deboli o per capacità di offrire segnali di cambiamento. C’è poca tensione verso la costruzione di un’Italia diversa. La modernità non può dipendere da agenzie di rating o dagli umori di questo o quel leader. Non si può essere Arlecchino, servo di due padroni. L’Italia non può sperare nel miracolo o nella lotteria che cambia magicamente la vita. Se guardiamo all’Europa, vediamo che la Germania di oggi non ha superato solo la guerra, ma anche la riunificazione dei territori e ha disegnato un futuro. E Noi? Dopo 150 anni, non possiamo continuare con divisioni e distinguo tra Nord, Centro e Sud. Se non vogliamo farci del male da soli, occorre cambiare. E crescere con l’Europa, immaginare un destino, non fare i portaborse delle piccole opportunità. Chi vuol vincere, deve anticipare, non sfruttare la scia.

 

L’ultima indagine del Censis fotografa per fortuna un’altra Italia. Un paese che ha sete di futuro, che vuole farcela, che riscopre e vive valori quali la famiglia (indicato dal 65% dei cittadini), la qualità della vita, l’amore per il bello, il rispetto per gli altri. Tramontato il tempo dell’individualismo, si riscopre il valore delle relazioni, convinti che “ci possiamo salvare solo tutti insieme”. Quando si ha intelligenza non si deve aver paura di dialogare. Il vero massone è l’uomo che non si ferma, e non si accontenta. Cento volte meglio essere ribelli per la verità, che firmare armistizi con la decadenza o scendere a patti con la propria coscienza. Servono valori e storia profonda per spingere pensiero e azione oltre il ricatto del presente. Ma se si scava nel muro levigato delle contrapposizioni, si vedrà che la volontà di confrontarsi è più forte dei ceppi del pregiudizio e che una teoria critica è sempre possibile, anche laddove sembrano regnare qualunquismo e luoghi comuni. E’ proprio questo desiderio di profondità che l’Italia migliore deve saper intercettare, sottraendo le coscienze alla pressione dell’omologazione, alla dittatura dei mercati e delle mode di stagione. Dobbiamo dire a voce alta che i sogni non sono in vendita.

 

La nostra unica paura non è la morte, ma il non poter pensare più. Noi scegliamo di rimanere in piedi e di lavorare, senza sederci ai posti più comodi, da una parte o dall’altra del tavolo. Siamo oltre la politica e oltre i tecnici: liberi muratori dell’Italia in cammino. Abbiamo uno sguardo appassionato per comprendere il senso delle cose, contro la confusione delle voci, le talpe dell’antistoria e il salario della paura. Vogliamo continuare a dare storia a valori divenuti difficili: la ragione, la solidarietà, la giustizia sociale.

 

Il nemico dell’Italia è la banalità, la corsa a cercare il proprio interesse, senza curare le fondamenta. La speranza è che la nostra interrogazione, giunta da lontano, possa continuare a sovvertire false certezze, impedendo che si riposi a pochi metri dalla fossa comune della mancanza di progetti. L’imperativo mazziniano, “far centro della vita il dovere, senza calcoli di utilità”, è per noi una lezione non superata.

 

L’Uomo è la nostra bussola e l’Uomo è la meta che essa indica. Come ha scritto il Fratello Rudyard Kipling, “nulla può dirsi concluso, se non è concluso con giustizia”. Questa è la ragione della nostra lotta e della speranza che vogliamo portare all’Italia e all’Europa. Lottando per la verità, in nome dell’Uomo.

 

Il Grande Oriente d’Italia è membro della Confederazione Massonica Interamericana (Cmi) fondata il14 aprile 1947, un’organizzazione che riunisce 84 Grandi Potenze Massoniche, ammesse come membri e distribuite in 26paesi del Sud, Centro e Nord America, Caraibi ed Europa. Il CMI promuove un modello istituzionale innovativo attraverso l’integrazione della Massoneria Iberoamericana e, per estensione, della Massoneria Universale, con l’obiettivo di sviluppare tutte le potenzialità esistenti in un’organizzazione che conta quasi 400.000 membri che, attraverso lo scambio di idee, attività, principi, preoccupazioni ed esperienze, cioè il loro modo di vedere e comprendere il mondo, cercano di arricchire il pensiero dell’umanità e delle sue culture.

 

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IL MITO DI ATLANTIDE

IL MITO DI ATLANTIDE

 

(RICERCA RACCOLTA DA MARISA UBERTI)

 

 

 

Un’ Età dell’ORO in cui l’Uomo viveva in perfetta armonia con  il cosmo è sentita e tramandata da tutte le civiltà Antiche.L”ermetista  Fulcanelli, ne “Le Dimore Filosofali” ne parla in questi termini:”Quest’isola misteriosa,sulla quale Platone ci ha lasciato un’enigmatica descrizione,è forse esistita?…

 

“Alcune constatazioni sembrano dare ragione a coloro che credono nella realtà di Atlantide.Infatti,dei sondaggi effettuati nell’Oceano Atlantico hanno permesso di riportare in superficie dei frammenti di lava la cui struttura prova irrefutabilmente ch’essa si è cristallizzata all’aria.Pare dunque che i vulcani espulsori di questa lava si elevassero su delle terre emerse non ancora inghiottite dalle acque…Noi,per quel che ci riguarda,non vediamo niente di impossibile nel fatto che l’Atlantide abbia potuto avere un posto importante tra le regioni abitate,nè in quello che la civiltà si sia sviluppata fino a raggiungere l’alto grado che Dio sembra abbia fissato come limite del progresso umano…Limite al di là del quale si manifestano i sintomi della decadenza e si accentua la caduta,quando la rovina non è accelerata dal subitaneo scoppio d’un flagello improvviso”. Così ne parla  Fulcanelli, menzionando Platone:ma cosa ci ha lasciato scritto questo grande Filosofo Greco,nato ad Atene, nel 428/27-347 a.C. e fondatore dell’Accademia più importante dell’Antichità?  Egli scrisse, in  tarda età,  due dialoghi:”Timeo” e “Crizia”,in cui  discute sullo stato perfetto delle cose.A tal proposito, Crizia(il protagonista)  ricorda di aver sentito una storia,un tempo. Una storia che gli aveva raccontato suo nonno novantenne, quando questi  aveva l’eta’ di dieci anni.

Il nonno l’aveva -a sua volta -sentita dal grande legislatore ateniese Solone(638-558 a.C.), che a sua volta l’aveva appresa in Egitto da un sapiente sacerdote di Sais.

Il sacerdote  aveva descritto a Solone la bellezza di Atlantide, una terra costituita di fertili praterie e di alte montagne che la difendevano dai venti freddi del Nord e popolata da animali domestici e selvatici (tra cui l’elefante); il sottosuolo era ricco  dei piu’ pregiati metalli, tra  cui l’oricalco (che in realta’ é una lega composta da rame e zinco).

Vi abbondavano le sorgenti d’acqua calda e fredda, le cui acque affluivano poi in un grandioso bosco sacro per poi finire nei bacini del porto, dove si trovavano  moltissime navi protette da una cinta di mura dalla parte del mare e provenienti dai luoghi piu’ lontani.Vi erano palazzi e torri e un Tempio al dio Poseidone.

 

COME NACQUE ATLANTIDE?

 

“Su questa montagna aveva la sua dimora uno degli uomini primordiali di quella terra, nato dal SUOLO;  si chiamava Evenor e aveva una moglie chiamata Leucippe, ed essi avevano un’unica figlia, Cleito. La fanciulla era già donna quando il padre e la madre morirono; Poseidone si innamorò di lei ed ebbe rapporti con lei e, spezzando la terra, circondò la collina, sulla quale ella viveva, creando zone alternate di mare e di terra, le une concentriche alle altre; ve ne erano due di terra e tre d’acqua, circolari come se lavorate al tornio, avendo ciascuna la circonferenza equidistante in ogni punto dal centro, di modo che nessuno potesse giungere all’isola, dato che ancora non esistevano navi e navigazione…”.Possiamo immaginare l’isola come un’enorme “Triplice cinta” di terra e di acqua.(ricostruzione della capitale di Atlantide)

 

Platone continua, e ci informa ulteriormente:”…I sovrani di Atlantide anzitutto gettarono ponti sugli anelli di mare che circondavano l’antica metropoli, e fecero una strada che permetteva di entrare ed uscire dal Palazzo reale, che fin da principio eressero nella dimora del dio e dei loro antenati, e seguitarono ad abbellirlo di generazione in generazione, dato che ciascun re superava- all’apice della gloria-colui che l’aveva preceduto, sino a fare dell’edificio una meraviglia a vedersi, sia in ampiezza che in bellezza. E ,partendo dal mare, scavarono un canale largo trecento piedi, profondo cento, lungo 50 stadi, che arrivava alla zona più esterna creando un varco dal mare fino a che essa divenne un porto ;e il varco era abbastanza ampio da permettere l’entrata alle navi più grandi. Inoltre-a livello dei ponti-aprirono gli anelli di terra che separava gli anelli di mare, creando uno spazio sufficiente al passaggio di una trireme per volta da un anello all’altro e ricoprirono questi canali facendone una via sotterranea per le navi; infatti le rive furono innalzate di parecchio sopra il livello dell’acqua.  Ora, la più grande delle zone-cui si poteva accedere dal mare tramite questo passaggio-aveva una larghezza di tre stadi e la zona di terra che veniva dopo era altrettanto larga; ma le due zone successive, l’una d’acqua e l’altra di terra, erano larghe due stadi e quella che circondava l’isola centrale era di uno stadio soltanto. L’isola su cui sorgeva il palazzo aveva un diametro di cinque stadi…”

 

L’immagine, ricostruita, di tale descrizione può far pensare ad una sorta di ‘labirinto’ in cui in marrone sono le aree di terra e in azzurro quelle di acqua.  Espandendo le aree di terra e aggiungendo il grande canale che secondo Platone congiungeva gli anelli al mare, avremmo questa ricostruzione ipotetica:. Infine potremmo ricostruire l’isola come segue: in cui nella fascia A avremmo l’anello di terra principale;   B=anello di terra minore; C= cittadella; D= porto interno; E=secondo porto; F=Grande porto;  G=  Canale per il mare ;H=Quartiere mercantile-(elaborazione grafica dal sito web “MMM group”).Se questa ‘ricostruzione’ dovesse corrispondere alla reale mappa di    Atlantide,  la grande distribuzione di questo SIMBOLO-che possiamo assimilare ad un LABIRINTO’- porterebbe alla considerazione che molte civiltà Antiche abbiano avuto legami con essa, se non addirittura alla conclusione che gli eventuali ‘scampati’ alla grande catastrofe che la ingoiò, potrebbero essere successivamente approdati in vari continenti e aver ‘fondato’  una discendenza o aver portato delle conoscenze in quel luogo e fino a quel momento sconosciute dalle popolazioni locali. Il simbolo sarebbe dunque una reminiscenza dell’antico splendore e dell’architettura ‘sacra’ della perduta Atlantide?

 

Osserviamo, infatti,in questa sede, come il simbolo del labirinto sia stato ritrovato in tutto il globo terrestre. Sul simbolismo del labirinto mi sono soffermata parlando dei labirinti presenti nelle cattedrali. Alcuni esempi:

 

Naquane – Capo di Ponte(BS),Italia, Parco delle INCISIONI Rupestri, Roccia n.5(foto originale) e sua schematizzazione : è l’esatta ‘replica’ della mappa Atlantidea. Questo ‘labirinto’ è riferibile all’arte preistorica dei Camuni ed è sovrapposto ad una più labile figura umana.Alcuni studiosi lo hanno associato al repertorio rituale del mondo agricolo, connesso in un certo qual modo al periodo della semina e del raccolto, quindi ai cicli solari. Lo ritroviamo anche nell’arte Etrusca. Allo stato attuale delle conoscenze, restano comunque ancora da spiegare adeguatamente i simboli presenti nell’arte rupestre dei Camuni.

 

Kirkcudbright ,Inghilterra: incisione presente su un blocco di basalto poco distante dal cerchio di pietre e dal cimitero di cumuli di Cauldside Burn.

 

Altri simboli ‘labirintici’.

 

Ricostruzione del tracciato di pietre sull’isola di Gotland, Svezia.

 

Incisione presente di una moneta proveniente da Cnosso,  isola di Creta.

 

Questo è un simbolo sacro per gli indiani HOPI, una tribù del Pueblo, nel sud-ovest degli Stati Uniti.

 

Serie di monete del periodo Cretese(300-100 a.C.)Curiosa l'”evoluzione” della forma circolare in quella quadrata, sempre concentrica e con il medesimo ingresso.

 

(le immagini elaborate graficamente sono tratte dal sito web di “MMM GROUP”)

 

Per non parlare, poi, del simbolismo della “triplice cinta “di epoca più recente, che ho affrontato in altra sezione. Simbolismo che si ripete nella disposizione di mura difensive e di molti edifici nel  mondo intero.

 

Immagine di un sito archeologico Israelitico databile a 5.000 a a. fa. con costruzioni in cinte concentriche. Perchè si sentiva il bisogno di seguire questo schema architettonico?

 

IN QUALE EPOCA E DOVE COLLOCARE ATLANTIDE?

 

Platone parla di 9.000 anni prima, rispetto al tempo in cui sta raccontando la storia.

 

“In quel tempo  quel mare era

navigabile perche’ aveva l’isola Atlantide davanti al passaggio

che voi chiamate Colonne d’Ercole*; era un’isola piu’ grande che

la Libia e l’Asia** e serviva come passaggio alle altre isole a quelli

che viaggiavano, e da queste parti si poteva raggiungere il

continente, sulla riva opposta di questo mare.

Ora in codesta isola Atlantide, si affermo’ un potente regno che

signoreggio’ in tutta l’isola e in altre isole e in molte parti del

continente. Questo regno dalla nostra parte comprendeva la

Libia fino all’Egitto e l’Europa fino alla Tirrenia”.

 

*Colonne d’Ercole:  si identificano con lo Stretto di Gibilterra,  quindi il ‘mare’ di cui si  narra potrebbe essere l’ Oceano Atlantico.

 

**Per ‘Asia’dobbiamo comunque considerare la parte che allora era nota, probabilmente il Medio Oriente.

 

LA STRUTTURA SOCIALE e LA FINE DI ATLANTIDE

 

Dai racconti pervenutici attraverso Platone, e si noti con che meticolosità ce li descrive(un po’ troppo precisi per potersi trattare di pura fantasia!),sappiamo che l’Impero o il Regno Atlantideo -nonostante l’apparente condizione edenica in cui viveva, partecipava a guerre, possedeva una flotta militare immensa e poteva contare su circa 1.200.000 soldati. Tra le altre, Atlantide sostenne una grande guerra contro Atene che riuscì a sconfiggerla. Una cosa sembra impossibile: la civiltà ateniese(di millenni posteriore al 9.000 a.C.) non può essere contemporanea a quella Atlantidea.  Può essere che una simile civiltà fosse sopravvissuta per tutto quel tempo e ne restassero dei ‘brande  li’sparsi qua e là?

 

“… cerco’ d’un solo balzo di asservire il vostro territorio, il

nostro e e tutti quelli che si trovano in questa parte del mondo.

E allora, o Solone, la potenza della vostra citta’ fece risplendere

agli occhi tutto il suo eroismo e la sua forza. Poiche’ essa l’ebbe

vinta su tutte le altre per la forza d’animo e per arte militare.

Prima a capo degli Elleni, poi sola, perche’ abbandonata dagli

altri stati, Atene (…) vinse gli invasori, innalzo’ trofei, preservo’

dalla schiavitu’ quelli che non erano mai stati schiavi e (…) libero’

tutti gli altri popoli e noi stessi che abitiamo all’interno delle

colonne d’Ercole”.

 

Intanto Zeus

“…vedendo la depravazione nel quale é caduto un popolo cosi’

nobile e decidendo di punirlo (…) aduna tutti gli déi (…) Avendoli

riuniti disse loro…”.

 

Arriva una punizione, dunque, sottoforma di un terribile cataclisma, atto a far ‘cadere ‘l’intera civiltà Atlantidea. Questa ‘caduta’ è vista esotericamente come la caduta dell’Uomo nella materialità, vinto dai suoi stessi istinti che lo hanno portato ad allontanarsi dalla propria spiritualità e dalla sua condizione divina, paradisiaca. Un paragone può essere visto con la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre.

 

Cosa disse Zeus al ‘conclave’ degli dei che aveva riunito, non ci è dato sapere, ma Platone ci tramanda, nelle “Leggi” : “…..un tempo vi furono grandi mortalità, causate da inondazioni e da altre generali calamità, dalle quali ben pochi uomini riuscirono a salvarsi. Ed è ovvio pensare che, essendo state le città completamente rase da tale distruzione, gran parte della loro civiltà fu con esse seppellita sotto le acque, ed è occorso lunghissimo tempo per ritrovarne la traccia, e cioè non meno di parecchie migliaia di anni”. E nello specifico caso di Atlantide, nel Crizia torna a dire:

” In tempi posteriori per altro, essendo succeduti terremoti e cataclismi straordinari, nel volgere di un giorno e di una brutta notte […] tutto in massa si sprofondò sotto terra, e l’isola Atlantide similmente ingoiata dal mare scomparve “.

 

CAUSE PROBABILI DELLA SCOMPARSA DI ATLANTIDE

 

Platone narra così l’evento che gli viene raccontato:”… vi furono degli spaventosi terremoti e dei cataclismi. Nello spazio di un giorno e di una sola terribile notte, la vostra armata fu inghiottita d’un sol colpo e anche (…) l’Atlantide si inabisso’ nel mare e scomparve. Ecco perche’ ancora oggi quell’oceano (…) è difficile e inesplorabile per l’ostacolo dei fondi melmosi e bassi che l’isola inabissandosi vi ha formati.”

Dovremmo prima accertare dove situare Atlantide per poter fare delle ipotesi, comunque recenti indagini hanno permesso di capire che esisteva una grande civiltà nell’isola  di Thera (Santorini),che poi scomparve a seguito di un immane cataclisma, nel 1400 a.C.circa.minoan.gif (12466 byte)Come epoca siamo fuori, er collegarla ad Atlantide, a meno che si possa ammettere un errore di datazione da parte di Platone ma -d’altra parte- la sua estensione era troppo vasta per poter essere ‘contenuta’ nei limiti di questa area geografica dell’EGEO. Ma Platone fornisce alcune enigmatiche ‘indicazioni’: egli  poneva l’Atlantide nell’Atlantico ma nello stesso tempo diceva che essa era governata da Poseidone e da Eracle, entrambi decisamente associati all’Egeo, non all’Atlantico. Ciò ha permesso agli studiosi di pensare che potrebbe esserci stata davvero un’isola egea che scomparve, e quest’isola avrebbe potuto essere Thera. Inoltre, da alcuni studi condotti sulle rovine dell’isola greca,si è potuto confrontare il profilo verticale basato su carte idrografiche con la ricostruzione che si ottiene seguendo le indicazioni di Platone e si è osservato il medesimo schema alterno di terra ed acqua.

 

L’eruzione vulcanica di Thera potrebbe essere collegata alla registrazione da parte Egiziana di un evento accaduto nello stesso periodo, in cui vi fu “Oscurità prolungata, inondazioni e tuoni”. La scomparsa di Thera avrebbe portato alla scomparsa della civiltà minoica, la cui fine è ancora un mistero e aver favorito lo sviluppo di quella micenea.

 

Potrebbe essere stato l’impatto con un corpo celeste,  tipo un meteorite, un asteroide o frammenti di cometa. A tale proposito vi rimando ad una ricerca sull’argomento al link  http://dariosoldani.interfree.it/atlantide/tectiti.htm

 

NEL MONDO INTERO si ritrovano tracce di una civiltà antidiluviana

 

Esistono, sparsi per il nostro pianeta, molti  indizi che ci parlano di una civiltà ‘antecedente’  a quelle che la Scienza Ufficiale è disposta ad ammettere, facendo risalire l’inizio della Storia(ovvero l’uscita dalla PREISTORIA)nel 3.000 a.C., facendo coincidere tale datazione con l’ “invenzione” della scrittura. Nonostante molti dati inducano, per non dire impongano, di riflettere e analizzare la situazione, gli Studiosi Accademici preferiscono ignorarli e continuare a scrivere (soprattutto nei  testi scolastici) nozioni  che non sento di condividere in molti punti. I famosi ‘Oggetti fuori posto” esistono, non si può e non si deve ignorarli facendo finta che siano tutti grosse ‘bufale’ da relegare nel teatro dell’impossibile,  quindi dell’insesitente. Non concepisco il pensiero Ufficiale, secondo il quale se un reperto è ‘inclassificabile’, ovvero non rientra in alcuna delle caselle della storia umana che hanno già scritto anzitempo, non debba essere importante. Anche fosse un solo esemplare,  quel reperto c’è! E perchè  c’è,  se in quel momento non avrebbe dovuto esserci,  se la ‘tecnologia’ di quel periodo -ci dicono- era ferma a determinati livelli? Mistero!

 

L’importante è porsi sempre domande, di fronte agli anacronismi che ci paiono ‘fuori posto’.

 

Esse ci porteranno ad approfondire aspetti che non sospettavamo neppure. Oggi, con i moderni mezzi di esplorazione tecnologici, stiamo assistendo a fatti interessanti: l’individuazione di strutture sommerse sparse nelle acque dell’intero globo!

 

Viene spontaneo domandarsi: quante “Atlantidi” sono esistite?

 

Non sempre ciò che si ritrova è una prova attendibile, anzi nessuno esclude che l’analisi scientifica sia necessaria per attribuire ad un reperto la giusta importanza. Qui cercherò soltanto di mettere in rilievo alcune delle attuali zone che vengono scandagliate con i sonar e con le immersioni(dove possibile)e che vengono rese pubbliche. Anche i più ‘prevenuti’  non potranno astenersi dal porsi alcune  inevitabili domande!

 

Una città sommersa al largo di CUBA. Il 14 maggio 2001 veniva data notizia dalla d.ssa Paulina Zelitsky (presidente della Compagnia candese ‘Advanced Digital Communications(ADC)’che era stata scoperta una città sommersa al largo delle coste occidentali di Cuba, nel Mar dei Caraibi. Osservazioni compiute con:

 

-satellite; sonar alta precisione a scansione laterale a doppia frequenza;-robot telecomandati a distanza; sistemi di perlustrazione marini.

 

Rilevazione: strutture ‘somiglianti a piramidi, strade ed edifici, un centro urbano composto da architetture simmetriche. Chiaramente forme create da mano umana”.Profondità:700/800 m. Periodo cui si fa risalire: pre-classico della storia dell’America Centrale. Sembra che tali strutture si trovino in una faglia poco distante da un vulcano inattivo, di alcune faglie geologiche e dal letto di un fiume. La struttura è alta circa 40 metri, chiaramente un tempo doveva essere emersa. Le ‘piramidi ‘ricordano. dice la dott.ssa ,quelle della civiltà di Teotihuacan, nello Yucatan.  L’area occuperebbe un’estensione di 10 Kmq: se fosse naturale, rappresenterebbe una formazione geologica unica al mondo. Studi sono in corso.(fregio Maya raffigurante il ‘Diluvio’e il vulcano in eruzione;un indigeno si allontana con una imbarcazione).

 

BIMINI:nel 1968 vennero individuate rovine megalitiche al largo di Bimini,  non lontano da Cuba, tra l’Arcipelago Caraibico e le coste della Florida. Ciò fece raddrizzare sui loro scranni tutti gli studiosi e gli appassionati della mitica Atlantide, anche se con la localizzazione che ne offre Platone saremmo ben lontani.Profondità:6 metri sotto la superficie del mare.

 

Si estendono per oltre 600 metri in lunghezza e la caratteristica è che sembrano formare una strada, la “Strada di Bimini”  conosciuta anche come ‘Muraglia’. Qui si vede un blocco portato in superficie recentemente da Frank Joseph, che ha esplorato direttamente il sito sottomarino. Si noti come la squadratura rende quasi impossibile l’ipotesi di una formazione naturale.

 

Le descrizioni fatte da Platone ne escluderebbero il collegamento con Atlantide. Allora di cosa potrebbe trattarsi?

 

A soli 5 metri di profondità si trovano interessantissimi resti di colonne di Marmo di Carrara! Come e quando è arrivato fin lì? Non è stata data ancora fornita una risposta.

 

Nella ‘mappa di Piri Reis’,del 1513,è segnata(tra le altre cose che vedremo in un’apposita sezione) una grande isola-al centro dell’arcipelago delle Bahamas-che al centro presenta grossi blocchi disposti in fila, alcuni dei quali si trovano anche sulla linea costiera orientale.

 

Ma oggi quest’isola non esiste più…i casi ipotizzabili sono due: o a quell’epoca i mari erano ad un livello più basso e quindi quell’isola era una terra emersa,  oppure il turco copiò-come si presumo-la mappa da una ben più antica,  risalente ad un tempo in cui quell’isola esisteva(ma quando? le, in seguito, venne inghiottita dalle acque.

 

GOLFO DI CAMBAY,INDIA

 

Grafico i cui picchi rivelano la presenza di mura a distanza regolare. Il 1° luglio 2001 ricercatori dell’isituto nazionale di Tecnologia Oceanica(NIOT) hanno individuato, con il sonar, casualmente durante rilevamenti per l’inquinamento, a 40 metri di profondità tracce inconfutabili di una serie di strutture che sembravano non di origine naturale. Successivamente si capì che la struttura poteva riferirsi ad un centro urbano, anzi due per l’esattezza che aveva chiare similitudini con la tipologia insediativa della cultura di Harappa,c on la differenza che ‘quelle’ erano più vecchie di almeno 2.500 anni! Le strutture si estendono per circa 18 Kmq e accanto ad esse, per circa 9 Km, si nota il profilo del letto di un fiume. Gli studiosi accademici sono scettici(quando non lo sono?).Ulteriori studi sono in corso.

 

YONAGUNI, Mar della Cina strutture piramidali levigate e squadrate

 

LANZAROTE,NELLE ISOLE CANARIE,SPAGNA il ricercatore Pippo Castellano nel 1981 ha fatto una scoperta casuale ma sensazionale; in questa foto vediamo una  strutture ‘a camera’. A 22 metri di profondità giace una scala realizzata nel basalto vivo e altre si trovano a profondità diverse.

 

Al largo di MALTA, strade e ponti giacciono sott’acqua in attesa di nuove indagini. Abbiamo parlato della geografia di questi luoghi nella sezione dedicata all’Egitto.

 

E’stato inoltre ipotizzato un possibile collocamento di Atlantide in ANTARTIDE: il cataclisma avrebbe potuto essere contemporaneo ad uno slittamento dei continenti e dei poli, quindi l’isola avrebbe potuto ritrovarsi completamente ricoperta di ghiaccio e ora introvabile. Tre, cinque chilometri di spessore separano, però, l’Uomo dal suolo Antartico e questo è un limite invalicabile per poter accertare, per ora, qualcosa in merito.

 

Consiglio la visita al link seguente, per un riassunto di varie

teorie- molte altre ancora, oltre quelle ‘tracce’ che sicuramente giacciono, ancora dimenticate e mute, sul fondo di tutti i mari del globo.  Ma l’Atlantide di Platone dov’è? Forse un luogo dove ognuno di noi possa ritrovare la parte ‘perfetta’   di sè stesso.

 

Segnalo la presenza, anche in Italia, di reperti ‘anomali’ ancora poco conosciuti e poco indagati.

 

Ricordiamo le strutture sommerse di Capo colonna, in Calabria: blocchi di marmo semilavorato, giganteschi, coperti dall’acqua. Resta un mistero come abbiano potuto essere trasportati. In epoca Romana navi così grandi erano impossibili da manovrare e si pensi che la nave più grande costruita sotto NERONE giace sotto il porto di Fiumicino: essa non ha mai galleggiato bene per la sua stazza ,pertanto venne riempita di sabbia e la trasformarono in un pontile! A Capo colonna si trovano, sui fondali,  blocchi pesanti tonnellate e un mezzo di trasporto adatto allo scopo, in epoca Romana, non esisteva! Ammettendo pure che prima quelle colonne erano fuori dalle acque, che sono molto basse tra l’altro, e costituissero un complesso archeologico,” non si spiega comunque come siano stati portati in loco”(stralcio da un’intervista rilasciata da Pippo Castellano, su “Hera”n.19-Luglio 2001),assemblati, in qualche modo e poi-a causa di un evento imprecisato-sepolti sott’acqua.

 

 

 

Le notizie più recenti sconvolgerebbero la ‘geografia’ fin’ora  accettata, spostando le ‘colonne d’Ercole’ in Italia! Ecco un articolo al riguardo:

 

“Atlantide in Sardegna: possibile…

 

Su Atlantide si è scritto di tutto e si sono fatte le ipotesi più diverse su dove ubicare il mitico continente scomparso: Canarie, Azzorre, Creta, Santorini, Caraibi, Yucatan, Oman. A queste teorie se ne aggiunge ora una suggestiva. Assodato che, ovunque fosse, Atlantide si trovava al di là delle colonne d’Ercole, per qualcuno queste colonne non coincidevano, come da sempre si è pensato, con lo stretto di Gibilterra.

 

Secondo la teoria illustrata dall’archeologo Sergio Frau nel libro “Le colonne d’Ercole, un’inchiesta”, il limite estremo del mondo antico andrebbe spostato dalla strozzatura tra Spagna e Marocco al più prossimo canale di Sicilia. Una considerazione che darebbe ad Atlantide i confini noti e rassicuranti della Sardegna, l’isola più grande al di là del canale.

 

L’idea da cui nasce lo spostamento delle colonne, è semplice; secondo i racconti dei navigatori riportati nella letteratura antica, lo stretto posto agli estremi della Terra avrebbe fondali bassi e limacciosi (come il canale di Sicilia), costellati di secche sulle quali venivano sbattute le navi. Lo stretto di Gibilterra ha invece fondali profondi, una contraddizione palese con quanto riportato dalle fonti.

 

Ma perché la Sardegna e non, poniamo, le Baleari? Il mito parla di Atlantide come di una terra che dava tre raccolti all’anno (in Sardegna è possibile) e che, tra le sue peculiarità, era cinta da mura di ferro (l’isola è ricca di giacimenti di metallo). Se si considera inoltre che i fondatori della civiltà nuragica potrebbero avere legami di “parentela” con i Fenici, navigatori e alimentatori del mito di Atlantide, si ha un elemento in più per sostenere la teoria.

 

La parola spetta ora alla geologia: scavi e rilievi da effettuare nel Campidano, in prossimità di insediamenti nuragici coperti da una spessa fanghiglia, potranno dire se quest’ultima è di origine marina, se generata cioè da un enorme maremoto che, in epoca antica, avrebbe sconvolto la geografia dell’isola, magari facendone sprofondare una parte. E avremmo Atlantide a Porto Cervo.”

16 agosto 2002 (di Davide Passoni)

 

 

 

 

Si segnala la relazione del Congresso Internazionale tenutosi  a Milos nel luglio 2005, in cui il dr. Rosario Vieni  (Micenologo)  ha relazionato in merito alla corretta decifrazione del testo platonico, e non solo. Per leggere il pdf clicca qui.

 

Bibliografia  vastissima per approfondimenti relativa a questa sezione, ne elencherò solo alcuni:

 

“Le porte di Atlantide” Collins Andrew, Sperling & Kupfer

“Atlantide”, Alberto Arecchi-Liutprand Edizioni

“Underworld, Le misteriose origini della civilizzazione”, Graham Hancock,2002

“La fine di Atlantide. Alla ricerca della civiltà misteriosamente scomparsa sotto i ghiacci dell’Antartide” di Flem -Ath Rand Flem-Ath Rose,

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L’ESOTERISMO DI DANTE ALIGHIERI 2° PARTE

L’esoterismo di Dante Alighieri   2° PARTE

(di Alberto Canfarini)

 

 

 

L’inferno

Dante all’età di trentacinque anni prende coscienza dei suoi peccati commessi sia nella vita civile, sia in quella militare e decide di mettere ordine nella sua coscienza rettificandola percorrendo la via iniziatica.

 

Il Poeta inizia la narrazione della Divina Commedia dicendo: (1)

(Nel mezzo del cammin di nostra vita.

mi ritrovai per una selva oscura,

chè la diritta via era smarrita).

 

 

Il poeta cerca di risolvere la selva oscura delle sue passioni da solo, ma il suo tentativo di salire sull’erto colle fallisce, perché fu cacciato indietro da una lontra, un leone e da una lupa.

 

E’ chiara l’allusione che il mondo iniziatico è regolato da precise norme. La prima prescrive la necessità di avere una guida che ha già percorso la strada.

 

Virgilio si propone d’accompagnarlo nel difficile percorso che gli farà ritrovare la giusta via e per incoraggiarlo gli dice che lo ha inviato Beatrice.

 

Da qui inizia il viaggio iniziatico di Dante che arriva alla porta dell’Inferno e su di essa legge queste parole spaventose: (2)

 

 

(Per me si va nella città dolente,

per me si va nell’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente.

 

Giustizia mosse il mio alto fattore:

 fecemi la divina potestate,

la somma sapienza e l’primo amore.

 

 Dinanzi a me non fuor cose create

se non etterne, e io etterno duro:

Lasciate ogni speranza, voi, ch’entrate)!

 

 

La fervida immaginazione di Dante ci presenta l’Inferno come un cono composto da una serie di cerchi che degradano sempre più stretti verso il basso, con la punta verso il centro della terra.

 

Il Poeta narra, che quando Lucifero si ribellò a Dio, precipitò sulla terra creando una enorme cavità a forma d’imbuto che formò L’Inferno.

 

La terra che si ritrasse, emerse nell’emisfero australe e formò la montagna del purgatorio in mezzo alle acque di questo emisfero.

 

Secondo il sistema tolemaico l’altro emisfero era ritenuto completamente coperto dalle acque, perciò Dante afferma che il Purgatorio è una montagna in mezzo al mare australe.

 

I due poeti entrano nell’anticamera  dell’Inferno dove trovano gli “ignavi”qui vi sono le anime tristi di coloro che vissero senza infamia e senza lode e non sono sottoposti ne a pene ne a premi.

 

Virgilio dice a Dante: (3)

 

 (Non ragioniam di lor, ma guarda e passa).

 

Il poeta non se lo fa dire due volte, perché aveva una pessima opinione per le persone che non hanno il coraggio di schierarsi mai, la coerenza con le sue idee lo portarono a morire esule per non tradire le sue idee politiche.

 

Dante e Virgilio seguitano il cammino e arrivano sull’Acheronte, dove il nocchiero Caronte traghetta le anime verso l’Inferno.

 

Si scatena un terremoto, si vede una luce accecante ed il poeta cade tramortito, poi rinviene al colpo di un tuono.

 

Entra nel primo cerchio il Limbo, dove risiedono gli eroi e gli uomini virtuosi dell’antichità che hanno fatto grandi cose per l’umanità, ma non sono stati battezzati.

 

Finalmente i due poeti entrano nell’inferno dove incontrano il gigante Minosse, il giudice che assegna ad ogni anima la sua pena che dovrà scontare per l’eternità.

 

Se il poema si legge in modo analogico, sotto il velo appaiono le passioni più pesanti della natura umana, esse sono le tendenze più oscure dell’anima che ne impediscono la salita verso l’Empireo e  trattengono l’essere nel mondo duale.

 

Questa condizione non consente di percepire l’armonia che scaturisce dalla visione della vetta, della conoscenza metafisica “l’Uno”, di conseguenza dovranno rimanere in eterno nel dolore e nelle tenebre.

 

Dante nel poema propone l’osservazione delle passioni su personaggi storici, dimostrando di conoscere la regola iniziatica che prescrive d’effettuare l’osservazione e la rettifica della propria coscienza, con distacco, come un freddo osservatore, senza giudicare.

 

Così nell’inferno dantesco sfilano tutte le potenzialità negative che gravano come zavorra, come un pesante fardello l’anima umana.

 

Virgilio è la guida che accompagnò negli antichi misteri, Enea agli inferi ed al termine del viaggio gli fu donato il ramo d’oro d’Eleusi, simbolo dell’avvenuta purificazione e della riconquistata immortalità, ottenuta con il rito della morte e resurrezione iniziatica.

 

Nel secondo cerchio Dante trova i lussuriosi, che sono puniti con un vento violentissimo che li travolge.

 

Nel terzo cerchio vi sono i golosi che sono immersi nel fango puzzolente e flagellati da una pioggia senza termine, inoltre c’è Cerbero, il terzo guardiano dell’inferno che li azzanna.

Nel quarto cerchio Dante trova gli avari ed i prodighi divisi in due gruppi condannati a scontrarsi in eterno ed a rinfacciarsi gli errori, condannati anche a far rotolare grossi massi di roccia.

Nel quinto cerchio incontrano il fiume Stige dove sono puniti gli iracondi e gli accidiosi, i primi sono immersi nella palude dello Stige, i secondi sono costretti a rimanere sommersi senza potersi rialzare.

 

Virgilio e Dante sono traghettati dal quarto guardiano che si chiama Flegias.

 

Passati sull’altra sponda dello Stige, nel sesto cerchio incontrano la città di Dite, dove vi sono le anime consapevoli dei loro peccati.

 

I due poeti vogliono entrare nella città ma sono fermati dai demoni, dopo diversi tentativi riescono ad entrare grazie all’aiuto dell’Arcangelo Michele.

 

In questa città vi sono gli epicurei e gli eretici che giacciono in tombe infuocate e che Dante apostrofa “coloro che l’anima col corpo morta fanno” qui vi sono molti personaggi famosi.

 

Virgilio e Dante scendono nel settimo cerchio dove trovano il fiume Flegetonte nel quale scorre sangue bollente.

 

Il settimo cerchio è composto da tre gironi dove sono puniti i violenti.

 

 

Nel primo girone sono puniti i violenti contro il prossimo, immersi nel fiume di sangue bollente.

 

I tiranni sono immersi fino agli occhi, gli omicidi fino al collo, i predoni fino al petto.

 

Il secondo girone è posto oltre il fiume, che i due poeti attraversano con l’aiuto del centauro Nesso e quì trovano i violenti contro se stessi, i suicidi, che sono trasformati in piante secche e tormentati dalle arpie.

 

In questo secondo girone vi sono anche gli scialacquatori, morsi in eterno da cagne.

 

 

Nel terzo girone in una pianura resa infuocata da una pioggia di faville di fuoco, sono puniti i violenti contro Dio e la natura, sdraiati i bestemmiatori, seduti gli usurai, in continua corsa i sodomiti.

 

I due poeti scendono in un baratro portati dal mostro Gerione che ha la testa umana ed il corpo formato da parti di diversi animali.

 

Nell’ottavo cerchio scontano la loro pena i fraudolenti.

 

L’ottavo cerchio è formato da dieci bolge a forma circolare e concentriche.

 

Nella prima bolgia vi sono i ruffiani ed i seduttori che corrono in cerchio sferzati dai demoni.

 

Nella seconda bolgia gli adulatori ed i lusingatori immersi nello sterco.

 

Nella terza bolgia i simoniaci collocati in fosse a testa in giù con i piedi in fiamme e poi schiacciati nel terreno quando arrivano nuovi peccatori.

 

Nella quarta bolgia i maghi e gli indovini che devono camminare con la testa storta all’indietro perché nella vita hanno preteso di vedere il futuro.

 

Nella quinta bolgia i barattieri sommersi nella pece bollente ed uncinati dai diavoli.

 

Nella sesta gli ipocriti coperti di cappe di piombo dorate all’esterno.

 

Nella settima bolgia vi sono i ladri con le mani legate da serpenti che si trasformano gradatamente in rettili.

 

Nell’ottava bolgia i consiglieri fraudolenti tormentati da fiamme a forma di lingue.

 

Dante più scende nell’Inferno e più si rende consapevole della difficoltà del viaggio iniziatico che sta compiendo.

 

Fa sue le parole d’Ulisse, che per convincere i compagni a compiere l’impresa di superare lo stretto di Gibilterra pronunciò “l’orazion piccola”: (4

(O frati, dissi, che per cento milia

perigli siete giunti all’occidente,

a questa tanto piccola vigilia.

de’ nostri sensi, ch’è del rimanente,

non vogliate negar l’esperienza,

di retro al sol, del mondo senza gente.

Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza).

Dante uomo del medioevo che considerava la terra al centro dell’universo con tutti i pianeti che gli giravano intorno, non vide l’impresa  d’Ulisse come un tentativo di scoprire l’ignoto, ma condannò l’impresa, come una violazione delle leggi divine e collocò Ulisse all’inferno.

 

Nella nona bolgia vi sono gli scismatici ed i seminatori di discordia che vengono colpiti a colpi di spada con ferite che si rimarginano e poi vengono nuovamente straziati.

 

Nella decima bolgia sono puniti i falsari che hanno falsificato cose, persone, denaro o parole.

 

I falsari di cose puniti dalla lebbra, quelli di persone dalla rabbia, quelli di monete dall’idropisia, quelli di parole dalla febbre.

 

Sono malattie che cambiano, deturpano, falsificano l’immagine dei peccatori, come loro durante la loro vita vollero contraffare la verità.

 

Dante riserva il nono ed ultimo cerchio o pozzo dei giganti ai traditori e Virgilio gli dice: (5)

 

(Ecco Dite, dicendo, ed ecco il loco

 ove convien che di fortezza t’armi).

 

Come non paragonare queste parole con il simbolo d’Ercole dei tempi massonici quando l’apprendista deve affrontare le proprie passioni, il superamento delle prove ed ha necessità della forza o della volontà simboleggiata dal semidio.

 

Quest’ultimo cerchio è diviso in quattro settori dove regna il ghiaccio, nel punto più stretto risiede Lucifero, che con il suo enorme corpo muovendo le grandi ali tutto gela.

 

Il primo settore prende il nome di Cocito, vi sono i giganti che hanno sfidato le divinità superiori e sono condannati all’immobilità nel pozzo, vi sono anche i traditori dei loro parenti, immersi nel ghiaccio con la faccia rivolta in giù.

 

Il secondo settore si chiama Antenora, vi sono i traditori della patria, immersi nel ghiaccio con il viso rivolto in su.

 

Il terzo settore si chiama Tolomea, vi risiedono chi ha tradito gli ospiti, sono immersi sotto il ghiaccio con il viso verso l’alto e gli occhi congelati.

 

Il quarto settore prende il nome di Giudecca, vi sono chi ha tradito i benefattori, sono interamente immersi nel ghiaccio.

 

In questo ultimo settore vi sono anche quelli che Dante considera i massimi traditori, Cassio, Bruto e Giuda, sono maciullati in eterno dalle tre bocche di Lucifero.

 

Il poeta nella parte più profonda dell’inferno o della sua coscienza trova Lucifero, che  con le sue ali tutto ghiaccia, la cristallizzazione, sono le forze negative luciferine, che rendono incapaci d’usare la mente, l’intuizione ed il proprio arbitrio. Lucifero é il simbolo dell’io egoico, gravato dalle passioni più pervicaci, che va affrontato, rettificato altrimenti si è sempre in catene, si è sempre schiavi delle nostre passioni, che vanno superate con maturità per poter vedere nuovi lidi, è la “Nigredo alchemica”.

 

Sorge spontaneamente la domanda, perché Dante nella parte più profonda dell’inferno sostituisce il fuoco con il ghiaccio?

 

E’ una ulteriore conferma che la parte più segreta della Divina Commedia è stata scritta in chiave alchemica.

 

In alchimia viene detto: (Il fuoco che congela e l’acqua che arde).

 

Con il fuoco che congela non si intende, non implica l’idea del freddo, per congelamento si intende l’azione di rendere fisso il volatile ed è l’azione che compie il Fuoco spirituale interiore.

 

Con l’acqua che arde si intende il Solvente universale, le Acque corrosive che costringono l’anima al risveglio, causando reazioni nelle forze del corpo, prodotta dall’acqua, che Dante ci propone sotto forma di ghiaccio.

 

 

 

Gli elementi alchemici, per la comprensione, Dante li offre tutti, l’inferno che rappresenta il crogiolo alchemico che con il suo calore cuoce gli elementi, la nostalgia di una perduta condizione divina, che stimola l’adepto a recuperarla percorrendo la via iniziatica e praticando una serie di rettifiche dalle quali ne scaturisce la ripresa di coscienza della sua natura divina.

 

Dante descrive Lucifero con tre facce, una nera, una bianca ed una rossa, sono i colori dell’alchimia, che ha il potere di tramutare anche le energie infernali.

 

Il piombo che diviene argento ed infine “Oro”, simbolo della riconquistata immortalità, che si può riacquistare solo tramite una vera iniziazione tradizionale.

 

Il poeta descrive la sua morte iniziatica dicendo: (6)

 

 

 

(Com’io divenni allor gelato e fioco,

nol dimandar, lettor, ch’io non lo scrivo,

però ch’ogni parlar sarebbe poco.

Io non mori’, e non rimasi vivo):

 

Chi ha subito l’iniziazione e l’ha compresa ed assimilata, credo che può considerare questi versi, una magistrale pennellata di un grande spirito, che ferma nella mente un momento magico.

 

E’ un morire a se stessi in quanto individualità, vuol dire morire per vivere, lasciare il mondo di morte per rinascere ad una Vita migliore, non più in preda delle brame dell’io egoico, ma indirizzata alla ripresa di coscienza di quella Componente  spirituale ed eterna che alberga in noi.

 

Dante in questo poema tratta il tema della luce come emanazione divina, di conseguenza l’inferno viene trattato come un luogo dove manca la luce.

 

Le tenebre che pervadono la cavità infernale vengono descritte dal poeta con questi versi: (7)

 

 (Oscura e profonda era e nebulosa,

 tanto che, per ficcar lo viso a fondo,

io non vi discernea alcuna cosa).

 

Virgilio conferma dicendo: (8)

 

(Or discendiam qua giù nel cieco mondo).

 

L’Inferno è invaso da un buio quasi totale, che si può definire con il termine crepuscolo, Dante dice: (9)

 

 (Quiv’ era men che notte e men che giorno).

 

 

Una volta domato Lucifero, Virgilio e Dante s’aggrappano al suo folto pelo e passano il centro della terra.

Finalmente sono giunti all’uscita del budello infernale ed arrivano nel Purgatorio dove s’espande una luce naturale e Dante può dire: (10)

 

intrammo a ritornar nel chiaro mondo)

(11) (E quindi uscimmo a riveder le stelle)

 

Cosa vuol dire s’aggrappano a Lucifero; è l’opera di trasmutazione della materia, il piombo che diviene Argento, esso non viene scartato ma trasmutato, questa è la regola iniziatica in possesso di tutte le vere scuole iniziatiche, le energie vengono convertite da negative in positive.

 

E’ la stessa natura luciferina che vinta dalle forze divine, dalla luce, diviene strumento di redenzione per l’uomo.

 

Una volta uscito dall’inferno Dante si volta e vede Lucifero capovolto, quest’immagine simboleggia l’avvenuta purificazione alchemica delle energie.

Il Purgatorio

Dante inizia la narrazione del Purgatorio con questi versi: (1)

 

(Per correr miglior acqua alza le vele

ormai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sè mar si crudele.

 

E canterò di quel secondo regno,

dove l’umano spirito si purga,

e di salire al ciel diventa degno).

 

Questi versi alludono alla fase alchemica dell’Albedo che sta per iniziare, la decantazione, la purificazione dell’anima, il piombo che si trasforma in argento.

L’adepto finalmente può fare una scelta, se continuare a vivere sul braccio orizzontale della croce seguitando a dedicarsi alle conquiste di questa terra o intraprendere la difficile via verticale, la scalata della montagna, che lo può portare verso la liberazione, verso il risveglio della componente sacra ed immortale del suo essere.

 

I due poeti usciti dall’Inferno si trovano nell’emisfero australe agli antipodi di Gerusalemme; nel periodo storico di Dante questo emisfero s’immaginava interamente ricoperto d’acqua, perciò Dante afferma che il Purgatorio è una montagna circondata dal mare contornata da una spiaggia dove arrivano le anime che devono salire il monte per espiare i loro peccati.

 

Il Purgatorio se visto in chiave religiosa ha la funzione di riflessione, pentimento ed espiazione, se  osservato da un punto di vista iniziatico è il luogo dove si compie il lavoro d’introspezione e di rettifica, è il V.I.T.R.I.O.L. che la massoneria sembra avere ereditato dai Rosacroce.

 

Virgilio e Dante arrivati nell’arenile, incontrano Catone Uticense guardiano del Purgatorio.

 

Questa montagna ha la forma di un cono molto ripido, composto da dieci ripiani circolari.

 

I primi tre ripiani costituiscono l’antipurgatorio dove le anime sono trattenute fino a quando non è stata decisa la loro pena.

 

Nel primo ripiano, devono sostare le anime che sono state scomunicate e qui rimangono per un periodo trenta volte superiore a quello della scomunica.

 

Nel secondo ripiano vengono trattenute le anime che si sono pentite prima di morire e devono attendere per un periodo eguale a quello della loro vita.

 

Nel terzo ripiano o valletta dei principi, sostano per un periodo pari alla loro vita le anime troppo prese dalla gloria del mondo e che si pentirono prima di morire.

 

I due poeti chiedono ad un anima penitente quale è la via più agevole per entrare nel Purgatorio e si propone per guidarli Sordello concittadino di Virgilio.

 

Il Purgatorio è composto da sette cornici che rappresentano i sette peccati capitali ed al termine finalmente le anime possono avere accesso al Paradiso terrestre.

 

All’ingresso del Purgatorio c’è un angelo posto su tre gradini, con i tre colori alchemici, il nero, il bianco ed il rosso, come Lucifero all’inferno. L’angelico guardiano, con la spada incide sulla fronte di Dante sette “P” che rappresentano i sette peccati capitali, Superbia, Invidia, Ira, Accidia, Avarizia, Gola, Lussuria ed il poeta dice: (2)

 

 

 

(Sette P nella fronte mi descrisse

col punton della spada, e: Fa che lavi,

quando se dentro, queste piaghe,disse.

 

Cenere o terra che secca si cavi,

d’un color fora col suo vestimento,

e di sotto da quel trasse due chiavi.

 

L’una era d’oro e l’altra era d’argento:

pria con la bianca, e poscia con la gialla

fece  alla porta si ch’io fui contento.

 

Quantunque l’una d’este chiavi falla,

che non si volga dritta per la toppa,

diss’elli a noi, non s’apre questa calla.

 

Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa

d’arte e d’ingegno avanti che disserri,

perch’ell è quella che il nodo disgroppa).

 

L’angelo spiega a Dante che per aprire la porta del Purgatorio, occorrono due chiavi, una d’oro e l’altra d’argento, la prima è la più preziosa, ma proprio quella d’argento che rappresenta “l’Albedo”  determina l’apertura della porta perché vuole troppo d’acume e d’ingegno.

 

Ogni cornice è custodita da un angelo che rappresenta la qualità opposta al peccato, sono gli angeli dell’Umiltà, della Misericordia, della Mansuetudine, della Sollecitudine, della Giustizia, della Astinenza, della Castità.

 

A Dante al termine di ogni ripiano gli viene cancellata una P, dall’ala dell’angelo che è a guardia di quella cornice, segno che quella particolare espiazione o rettifica è stata compiuta.

 

Deve avvenire quella trasmutazione interiore totale che gli farà convertire il piombo in argento e poi in oro nell’interno del suo atanor o della sua coscienza.

 

L’adepto che procede in questo percorso, gradualmente alleggerisce il proprio fardello e si prepara a ricevere la luce spirituale che risveglierà in lui quella Natura divina che aveva dimenticato e che deve tornare a governare il suo essere.

 

Alla base del Purgatorio vi sono la anime che hanno commesso le colpe più gravi e man mano che si sale vi sono le colpe più lievi.

 

Questa è una precisa indicazione di tutte le vie iniziatiche. Sulla via le difficoltà, gli ostacoli, gradualmente vanno diminuendo con il procede del processo di purificazione della propria anima.

 

Le sette cornici equivalgono ai sette gradi di molte società iniziatiche, come i misteri di Mitra e Dante dovrà compiere l’opera di decantazione della sua anima se vorrà proseguire il cammino verso il Paradiso.

 

Egli è sempre guidato da Virgilio come deve essere qualsiasi adepto che riceve l’iniziazione.

 

Virgilio è l’Illuminato che conosce la via, la guida non può avere una cultura libresca, ma deve avere già percorso realmente la strada.

 

Nella prima cornice vi sono i superbi che espiano camminando e portando pesi molto pesanti.

 

Nella seconda gli invidiosi che indossano un cilicio e hanno le palpebre degli occhi cucite con fil di ferro.

 

Nella terza trova gli iracondi che sono puniti camminando nel fumo.

 

Nella quarta vi sono gli accidiosi che devono correre gridando esempi di sollecitudine e di accidia che viene punita.

 

Nella quinta vi sono gli avari ed i prodighi, che per espiazione sono legati e piangono bocconi.

 

In questa ultima cornice si scatena un terremoto e si unisce ai poeti l’anima di Stazio che dopo cinquecento anni di espiazione ora può raggiungere il Paradiso.

 

Nella sesta cornice vi sono i golosi, che Dante descrive come magrissimi che devono soffrire fame e sete.

 

Nella settima espiano i lussuriosi ed i sodomiti che sono puniti camminando nelle fiamme.

 

Dante scioglie i legami che lo tengono ancorato al mondo, con dolcezza senza reprimere quelle energie che lo appesantiscono.

 

Nel Purgatorio il poeta osserva le passioni, le pene di altri esseri umani, è un modo criptato per far comprendere a chi può capire, che questa è una delle componenti iniziatiche fondamentali, che prescrive di osservare nel profondo del nostro essere con distacco, come un freddo osservatore senza giudicare e sciogliere i legami che lo tengono ancorato al mondo, con dolcezza senza reprimere quelle energie che vanno tramutate. Come molto tempo prima aveva insegnato Ermete Trismegisto nella sua Tavola di Smeraldo:(Separerai la terra dal fuoco, il sottile dallo spesso, lentamente con grande cura).

 

Dante usa questi personaggi per indicare la rettifica interiore che sta compiendo su se stesso: con Manfredi verifica gli effetti devastanti dei rancori, delle inimicizie, con Jacopo del Cassero scopre come i ricordi pietrificano la coscienza nel passato, con Bordello come la polemica politica può incatenare, con Casella come può legare la stessa bellezza del mondo, che la metafisica definisce illusoria e temporanea.

 

Gradualmente il poeta si distacca dalle passioni, dai legami di sangue, dai pregiudizi, dal sentimentalismo oscurante, che cristallizza la mente ed il cuore nei meandri della vita passionale e materiale.

 

Un altro ostacolo da superare sono le chiacchiere della personalità dialettica che occupa in continuazione lo spazio della mente con pensieri rivolti a cercare consenso all’esterno o di sopraffare le idee altrui. A volte siamo invasi da pensieri pericolosi e subdoli come quelli involontari, che senza chiedere il permesso invadono la nostra mente all’improvviso come degli ospiti indesiderati, che interrompono l’attenzione  dai pensieri volontari sui quali eravamo concentrati.

 

La tecnica del silenzio interiore insegnata fin dall’antichità, è il solo modo per riportare la serenità nella nostra mente e nella nostra coscienza, ora l’ospite di riguardo, che con passi sempre più sicuri sta compiendo il suo ritorno a casa, troverà l’accoglienza che merita.

 

Attenzione, nel lungo e difficile percorso iniziatico, la purificazione deve avvenire realmente, altrimenti andiamo incontro al pericolo della contro iniziazione, diveniamo maghi di Lucifero.

 

Gli alchimisti per verificare se era avvenuta la realizzazione dell’albedo, per controllare se il piombo si era trasformato in argento, ponevano l’adepto di fronte alla prova del drago.

 

La prima fase alchemica è la separazione, l’anima liberata dal corpo (sale) deve affrontare una energia tremenda che cerca d’ imprigionare l’anima.

 

Sono gli antichi legami, è l’io egoico sempre in agguato, l’adepto non si deve distrarre, altrimenti rischia di perdersi nel mondo dell’occulto tenebroso.

 

Con la prova del drago possiamo verificare se si è determinata la totale purificazione della coscienza, se siamo al servizio del Sacro, o se siamo ancora ghermiti dagli artigli di Lucifero.

 

La liberazione è vicina, la Gnosi si va gradatamente realizzando perché non trova più ostacoli, la parte migliore della mente e del cuore sono pronti, ora si deve compiere l’iniziazione del Fuoco spirituale che Dante compie al termine della settima cornice attraversando un cerchio di fuoco, ma indugia, ha paura, e Virgilio lo incoraggia dicendo: (3)

 

(Credi per certo che, se dentro all’alvo

 Di questa fiamma stessi ben mill’anni,

non ti potrebbe far d’un capel calvo.

E, se tu credi forse ch’io t’inganni,

fatti ver lei, e fatti far credenza

con le tue mani al lembo de’ tuoi panni.

Pon giù omai, pon giù ogni temenza.

volgiti in qua, e vieni oltre sicuro;

ed io pur fermo, e contra coscienza.

Quando mi vide star pur fermo e duro

 turbato un poco, disse: Or vedi, figlio

tra Beatrice e te è questo muro).(4)

 

(Non aspettar mio dir più, ne mio cenno.

 Libero, diritto, sano è il tuo arbitrio,

 e fallo fora non fare a suo senno;

perch’io te sopra te corono e mitrio

 

 

Dante finalmente trova il coraggio d’affrontare la prova del fuoco, ormai la Luce divina ha iniziato ad illuminare il suo essere,  l’iniziando è divenuto cavaliere Kadosch, che riunisce corona e mitria, potere temporale e spirituale, realizzando completamente l’Albedo, l’anima è candida pronta per il matrimonio alchemico, quando la Luce divina irradierà l’intero essere trasformandolo nel colore dell’Oro.

 

Nel Paradiso si perviene in una realtà dove la luce s’espande ed illumina il cosmo, divenendo sempre più intensa e soprannaturale, Dante man mano che sale da cielo a cielo arriverà all’Empireo, sede eterna di Dio, dove nasce un fiume di Luce divina che poi s’irradia per tutto l’universo.

 

Uscito dal Purgatorio Dante arriva sulla riva di un fiumicello che gli sbarra la strada. Sull’altra riva compare una donna bellissima che illustra al poeta il luogo dove si trovano e gli toglie diversi dubbi.

 

Matelda cammina su una sponda e Dante sull’altra nella stessa direzione. All’improvviso compare una processione di beati con candide vesti ed al termine un carro trionfale tirato da un grifone. Si sente un tuono ed il carro e la processione s’arrestano.

 

Mentre gli angeli e i beati acclamano, scende dal cielo Beatrice e si siede sul carro, in quel momento Virgilio scompare.

 

Beatrice rivolge a Dante aspri rimproveri per i suoi trascorsi, e mentre Dante piange, Beatrice gli spiega dettagliatamente le sue colpe.

 

Matelda lo purifica con le acque del Letè e lo presenta a Beatrice pregandola di mostrarsi svelata.

 

Dante cade in ammirazione di Beatrice e s’addormenta, al suo risveglio la vede attorniata da sette donne.

 

Beatrice annunzia a Dante che presto verrà colui che libererà la chiesa e l’Italia dai malvagi, poi lo fa bagnare nelle acque dell’Eunoè che lo ricreano, finalmente è pronto per salire verso le stelle.

Ora Dante entra in comunione spirituale con Beatrice e descrivendola dice:

(…..Il santo rivo ch’esce da fonte onde ognin Ver deriva).

Il poeta è arrivato al Paradiso terrestre ed è pronto per innalzarsi con Beatrice verso le stelle, trascende i limiti della condizione umana e s’innalza in una sfera di fuoco.

 

Il Paradiso

 

La lettura in chiave esoterica del Paradiso è quella che richiede una maggiore preparazione per i contenuti esoterici, alchemici e spirituali, che sono velati da allegorie.

 

Dante nel Paradiso spiega la realizzazione della Rubedo, che rappresenta il matrimonio alchemico del mercurio con lo zolfo, ossia dell’anima purificata con lo spirito.

 

Questo matrimonio è possibile perché nel Purgatorio è avvenuta l’Albedo, il piombo è diventato argento, l’anima si è separata dal corpo pesante, nel senso che non è più schiava delle passioni.

 

Dante dopo aver rivolto una preghiera ad Apollo, il Dio sole, deve iniziare il percorso finale verso l’Empireo.

 

Quest’ultimo viaggio inizia con una caratteristica basata principalmente sulla capacità di saper vedere la luce come emanazione di Dio e dice: (1)

(Nel ciel che più della sua luce prende

fu’io, e vidi cose che ridire

ne sa ne può chi di là su discende);

 

Il primo animale citato è l’aquila, che come è noto riesce a fissare il sole, Beatrice supera anche l’aquila nel fissare la luce dell’astro, anche Dante tenta di guardare il sole, ma deve  desistere perché i suoi occhi non resistono, allora fissa il suo sguardo negli occhi di Beatrice che imperturbabile resta ferma a fissare quella Luce divina.

 

Per Dante la possibilità di vedere la gloria di Dio dipende da Beatrice, la donna, che come dice: (2)

 

 (Ma ella, che vedea il mio disire,

incominciò, ridendo, tanto lieta,

che Dio parea nel suo volto gioire:)

 

Il poeta parla delle belle immagini fatte dagli artisti o dalla natura, che sono niente in confronto al piacere divino che gli procurò Beatrice quando gli rivolse il suo viso ridente.

 

E conclude dicendo: (3)

 

(Quella che ‘mparadisa la mia mente)

 

Negli occhi di Beatrice Dante vede la Luce divina, scorge Dio che gli appare come un punto luminoso in mezzo a nove cerchi che sono corrispondenti ai nove cieli, ma superiori per il grado di virtù che li sostanzia.

 

Mentre contemplano lo splendore dei cerchi, Beatrice illustra a Dante le gerarchie celesti secondo le spiegazioni che Dio concesse a Dionigi Areopagita.

 

Prima categoria: (Serafini, Cherubini, Troni), seconda categoria: (Dominazioni, Virtù, Potestà), terza categoria: (Principati, Arcangeli, Angeli), inoltre gli spiega perché la Luce aumenta man mano che si avvicina al centro dove risiede Dio.

 

Si stabilisce un triangolo, la luce del sole, gli occhi di Beatrice e quelli di Dante. Questa luce riflessa da Beatrice, da l’inizio all’ascesa del poeta verso il cielo, egli inizia a varcare le possibilità umane.

 

Ora accompagnato da Beatrice, colei che da beatitudine, s’innalza attraverso una sfera di fuoco, verso i nove cieli vincendo la forza di gravità.

 

La sua guida rappresenta la Verità, l’Illuminazione prodotta dall’Intuizione superiore che si realizza con la conoscenza iniziatica.

 

Il poeta quando s’accorge che sta volando, chiede spiegazione alla sua guida e lei gli risponde: (4)

 

 

 

(Maraviglia sarebbe in te, se privo

d’impedimento, giù ti fossi assiso,

com’a terra quiete in foco vivo).

 

Non c’è pertanto da meravigliarsi se rimossi gli ostacoli che prima l’impedivano, Dante ora non possa volare.

 

Infatti sarebbe un miracolo, se puro come è diventato da ogni scoria di peccato, fosse rimasto ancorato alla terra.

 

I primi sette cieli prendono il nome dai pianeti del sistema solare, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno.

 

Gli ultimi due sono formati dalla sfera delle stelle fisse e dal Primo mobile. Questi nove cieli sono contenuti nell’Empireo dove le anime del Paradiso risiedono nella candida Rosa e hanno la possibilità di contemplare Dio.

 

Dante definisce l’Empireo, la sede di Dio, essa è immobile, perfetta ed eterna, dalla quale partono i movimenti che si comunicano ai nove cieli.

 

I pianeti assumono una caratteristica astrologica che li caratterizza; per esempio nel cielo di Venere ci sono gli spiriti che hanno saputo amare.

 

Questo percorso non è solo un viaggio attraverso i pianeti, ma anche attraverso le dimensioni.

 

Ora nel Paradiso i pianeti rappresentano la purificazione che si è determinata, la Rubedo che si va gradualmente concretizzando.

 

In questa fase Dante è sotto l’effetto del Fuoco divino e nel suo transitare da pianeta a pianeta, da cielo a cielo, cerca di comunicare le mutazioni che stanno avvenendo nella sua coscienza, è un momento traumatico, di rottura di un livello per passare in un stato di coscienza superiore.

 

E’ un momento di coinvolgimento e di trasfigurazione totale del suo essere ed il poeta passa dal sonno, all’estasi ed alla temporanea cecità.

 

Prima d’iniziare il viaggio dei cieli, Dante conoscendo bene i pericoli e le difficoltà di questo percorso, lancia un avvertimento a chi si accinge a seguirlo sulla via dell’iniziazione: (5)

 

(O voi che siete in piccoletta barca,

esiderosi d’ascoltar, seguiti

dietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:

non vi mettete in pelago, che, forse,

perdendo me, rimarreste smarriti).

 

Il primo cielo è quello della Luna, dove Dante nel suo poema pone le anime che non hanno adempiuto completamente ai loro voti, non per scelta ma perché costretti.

 

Dante ci comunica che il cielo della Luna, con la sua luce bianca simboleggia la fase alchemica dell’albedo pienamente realizzata.

 

Le intelligenze angeliche che presiedono questo cielo sono gli Angeli di terza categoria.

 

Nel secondo cielo di Mercurio Dante pone le anime che sulla terra si sono impegnate per l’amore e la gloria, come l’imperatore Giustiniano che riordinò le leggi nel grande Corpus Iuris.

 

Il poeta li descrive come spiriti che risplendono, cantando e danzando. Il poeta dal rinnovato Mercurio acquisisce la conoscenza che farà scaturire la saggezza.

 

Gli Arcangeli di terza categoria presiedono questo cielo.

 

Nel terzo cielo di Venere impera l’amore e vi appartengono coloro che seppero amare e si muovono armoniosamente in senso circolare.

 

Venere dona al poeta la capacità di riflettere all’esterno l’amore che ha conquistato in se stesso.

 

I Beati di terza categoria guidano questo cielo.

 

 

 

Nel quarto cielo del Sole impera la sapienza. Qui risiedono i Dotti della chiesa che espandono splendore mentre cantano e danzano in circolo. Il sole dona al poeta la sapienza, la conoscenza delle cose divine.

 

Presiedono questo cielo i Potestà di seconda categoria.

 

Nel quinto cielo di Marte vi sono le anime di quelli che morirono combattendo per la fede.

 

Marte gli elargisce la volontà, senza la quale un iniziato non può sperare di conquistare traguardi così elevati. Esse formano una croce greca ed al suo centro c’è Cristo, che per primo morì per dare fede all’umanità.

 

Le Virtù che presiedono questo cielo, sono angeli di seconda categoria.

 

Nel sesto cielo di Giove impera la giustizia, è abitato dalle anime dei re, principi e sapienti che hanno guidato con saggezza ed equità gli uomini. Essi volano e formano delle lettere luminose che compongono la frase: (Diligite iustitiam qui indicatis terram) Amate la giustizia voi che giudicate il mondo, frase ispirata dal primo libro della sapienza “Sophia Salomonos” nato sotto il patronato del  saggio re d’Israele Salomone, come i libri Qoelet e il Cantico dei cantici.

 

Questi libri esprimono un elogio alla sapienza biblica con lo scopo di difendere la cultura e la fede ebraica dalle tentazioni della cultura pagana ellenistica.

 

Dante da Giove acquisisce la capacità di riflettere la luce della Giustizia divina ed infatti da questo pianeta rivolge l’accusa al papa Bonifacio ottavo, di indegnità morale.

 

Il poeta sottolinea l’antitesi fra il giudizio umano, fondato sull’apparenza e quello divino, che ricerca la sostanza delle cose reali.

 

Dante condanna aspramente Bonifacio ottavo, che secondo il suo giudizio ha ottenuto il pontificato con l’inganno ed afferma:(esercita il suo ministero in modo di suscitare l’allegrezza di Satana).

 

Le Guide che amministrano questo cielo sono quelle di seconda categoria delle dominazioni.

 

Nel mondo di Saturno il poeta entra in una nuova dimensione, dove le energie negative cristallizzate del vecchio Saturno non riescono ad entrare.

 

Il settimo cielo di Saturno è dedicato alla meditazione, qui vi sono le anime che si sono dedicate alla contemplazione del divino.

 

Dante le pone su una scala celeste del colore dell’oro, impegnate a salire e a scendere, la scala è talmente alta che non si vede dove termina.

 

Le intelligenze dei Troni guidano questo cielo e sono i Beati di prima categoria.

 

Finalmente sta per nascere l’Uomo divino che salendo una scala d’oro perviene alla Rubedo, alla conclusione dell’Opera alchemica.

 

Dante percorsa la scala arriva all’ottavo cielo, quello simboleggiato dalle stelle fisse ed ha delle visioni, la Luce del Cristo, il sorriso di Beatrice, la Luce della Gnosi.

 

Il cielo delle stelle fisse è il luogo dove vi sono le anime trionfanti, sono come delle lucerne dalle quali s’espande la luce di Cristo. Qui risplende anche Maria con vicino l’Arcangelo Gabriele che gli volteggia intorno cantando.

 

In questo cielo Dante viene esaminato sulle tre virtù teologali.

 

  1. Pietro lo esamina sulla fede, S. Giacomo Maggiore sulla speranza, S. Giovanni sulla carità.

 

Questo cielo è presieduto dai Cherubini di prima categoria.

 

Il nono cielo è detto cristallino, o Primo mobile perché mosso direttamente da “Dio”

 

e trasmette il movimento ai cieli sottostanti.

 

Qui risiedono le gerarchie angeliche che appaiono distribuite in nove cerchi di fuoco che girano intorno ad un punto piccolissimo ma luminosissimo.

 

Sopra al Primo mobile c’è l’Empireo, che è immobile perché perfetto ed eterno. Questo centro dell’universo fa ruotare i cieli sottostanti con movimento rotatorio che partendo dal Primo mobile con una rotazione molto veloce gradualmente rallenta fino ad arrivare alla terra.

 

Questa è la sede di Dio, degli Angeli e della Rosa, dei Beati dell’antico e nuovo testamento.

 

Questo cielo è amministrato dalla gerarchia del Serafini di prima categoria.

 

Dante vede Beatrice “bella com’egli non l’aveva mai vista”, arrivati nella sede di Dio il poeta sente aumentare le proprie facoltà.

 

Vede un fiume di luce tra due rive piene di fiori e faville di luce. La visione cambia, il fiume diviene una scalinata circolare. I fiori si trasformano in Beati ed occupano mille gradini, le faville si trasformano in angeli volanti.

 

Mentre Dante contempla la rosa mistica, in un lampo vede i tesori di Dio; quando il poeta si volta per porgere una domanda a Beatrice non la vede più e trova al suo posto S. Bernardo, colui che ha emanato la regola dei templari.

 

Il Santo spiega al poeta la distribuzione dei Beati nella rosa mistica, che da Maria scendono formando una divisione tra i Beati del vecchio e del nuovo Testamento.

 

L’Arcangelo Gabriele vola vicino a Maria e S. Bernardo indica a Dante le più eccelse anime della rosa.

 

Il Santo chiede alla Vergine Maria di purificare Dante da ogni residuo d’impedimento terreno e di concedergli la contemplazione della visione di “Dio”.

 

Maria fissando lo sguardo su S. Bernardo gli fa comprendere che ha accolta la supplica.

 

Il Santo invita Dante a guardare verso l’alto e poi scompare perché ormai il poeta non necessita più di una guida, il suo animo è pronto alla contemplazione divina.

 

Fissa lo sguardo verso la Luce, ma non riesce a penetrarne l’essenza, allora invoca l’aiuto di Dio.

 

Dopo aver affermato che non ricorda quasi niente della visione ricevuta, dice d’aver visto L’Essenza divina come una luce intensissima.

 

Nel profondo di quella luce tutto ciò che è diviso e separato per l’universo, appare congiunto nell’Unità di Dio, legato da un vincolo d’amore e dice: (6)

 

(Nel profondo vidi che s’interna,

egato con amore in un volume,

ciò che per l’universo si squaderna);

 

Dante afferma che è insufficiente il suo parlare, con le parole, non può descrivere quello che ha visto in un attimo, tuttavia prosegue la narrazione affermando che in quella luce ha visto tre cerchi, di tre colori diversi, tre corone luminose che simboleggiano la Gloria di Dio, che opera come il potere eterno che lavora per l’Armonia dell’universo.

 

Il secondo cerchio é il Figlio, che si riflette nel primo il Padre ed il terzo é lo Spirito santo, che viene riflesso da entrambi come fuoco ed escama: (7)

(Nella profonda e chiara sussistenza

dell’alto lume parvermi tre giri

di tre colori e d’una contenenza;

e l’un dall’altro come iri da iri

parea reflesso, e ‘l terzo parea foco

che quinci e quindi igualmente si spiri).

 Dante fa un’altra escamazione: (8

 E’ tanto, che non basta a dicer poco.

O luce eterna, che sola in te sidi,

sola t’intendi, e da te intelletta

e intendente te ami e arridi)!

Il Poeta ribadisce che Dio è Uno e Trino, risiede solo in se stesso e comprende il Padre, il Figlio e lo Spirito santo che spira da entrambi, il poeta focalizza l’attenzione sul secondo cerchio, quello del Figlio, perché in essa vede una immagine che assume la forma umana.

 

E’ il mistero dell’incarnazione, che il poeta non potrebbe comprendere come “la quadratura del cerchio” se non fosse stato illuminato dalla Grazia divina.

 

Dante spiega con una similitudine che si era impegnato come fa il geometra, che con tutte le sue facoltà si concentra per trovare l’esatta misura del cerchio, ma non la trova, così lui voleva trovare il mistero della coesistenza in Cristo della natura divina e quella umana e dice: (9)

 

 (Dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta della nostra effige;

per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è ‘l geometra che tutto s’affige

per misurar lo cerchio, e non ritrova,

pensando, quel principio ond’egli indige),

 

Il poeta prosegue dicendo che le penne, ossia le ali della sua fantasia o intuizione, non potevano farlo volare così in alto se la sua mente non fosse stata  colpita  da una folgorazione divina, che illuminando il suo essere gli consentì di comprendere il mistero dell’incarnazione di Dio ed esclama: (10)

 

(Ma non eran da ciò le proprie penne:

se non che la mia mente fu percossa

da un fulgore in che sua voglia venne.

All’alata fantasia qui manco possa);

 

L’aiuto di Dio gli apre l’accesso al mistero più grande e può comprendere pienamente, con il risveglio dell’intuizione superiore, il mistero dell’incarnazione divina.

 

Al poeta dopo aver compiuto un volo così alto gli vennero a mancare le forze, ma ormai il suo desiderio di conoscenza e la sua volontà si muovevano come una ruota che gira con movimento uniforme, armonizzata e mossa dalla Volontà e dall’Amore di Dio che imprime il movimento al sole e le altre stelle e dice: (11)

 

(Ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,

si come rota ch’ igualmente è mossa,

l’amor che muove il sole e l’altre stelle).

 

Alcuni commentatori della Divina Commedia dicono che Dante nel trentatreesimo canto del Paradiso ha fallito, perché non è riuscito a spiegare i misteri della Trinità e dell’incarnazione divina.

 

Ritengo che questi ricercatori, con il metro della sola cultura, hanno formulato un giudizio che non rende  giustizia a Dante.

 

Il Poeta in questo lungo viaggio iniziatico ci può solo parlare, con un linguaggio allegorico, delle illuminazioni e delle visioni che ha ricevuto.

 

Dio si può rappresentare con l’immagine della luce, con quella del fuoco, si possono usare i termini corona luminosa, focolare misterioso, ma rimane quel Dio non manifesto, senza nome, purissimo Spirito che regna in eterno nell’universo, non si può e non si deve andare oltre, altrimenti si rischia di sminuire, di ridurre, di umanizzare il divino. Nel libro dell’Esodo, Dio rispose a Mosé: “Io sono colui che sono”.

 

Dio si è rivelato con un verbo, che rifiuta le definizioni riduttive, la sua Essenza non può essere usata dall’uomo per i suoi interessi.

 

Il poeta comunque comunica, a chi può comprenderli, due messaggi fondamentali per la comprensione dei misteri, che desidero ribadire: dice che con la coscienza rinnovata ed illuminata dalla folgorazione divina, gli è stato permesso di “ficcar lo viso per la luce eterna” ed in quella visione ha compreso il mistero dell’Unità e Trinità di Dio “Nel profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaterna”.

 

Già Ermete ha affermato: (……….. per la meraviglia di una cosa unica).

 

Molto tempo prima del cristianesimo fin dagli albori delle civiltà, l’umanità ha concepito il divino con il concetto dell’Unità e della Trinità di Dio, rappresentato con le peculiari caratteristiche, significati e diversità derivanti dalle differenze dottrinali, tipiche di ogni religione.

 

Si notano queste similitudini nelle divinità indoeuropee, nella religione Egiziana con Osiride, Iside e Horus; nella Trimurti dell’ induismo con Brama, Shiva e Vishnu, che spesso viene rappresentata come una divinità con un solo corpo e tre teste, questa figura divina è riconducibile allo stesso ed unico Dio, Brahman.

 

Dante riferito al mistero dell’incarnazione afferma “Dentro da se del suo colore stesso Mi parve pinta della nostra effige”. Il Poeta con questa frase, ci dona con una magistrale pennellata, l’immagine che poteva esprimere solo una mente geniale, per descrivere in modo velato il mistero più grande, infatti nella Genesi viene detto: (Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza).

 

Ricordiamoci che il poeta era un uomo del medioevo, vincolato dalle regole della segretezza, non poteva descrivere nella Divina Commedia il metodo iniziatico detto:  (Real Segreto) che consente di riprendere coscienza e risvegliare il Se o l’Aziz, nomi che secondo le diverse tradizioni si riferiscono a quella componente sacra ed immortale donata da Dio agli uomini.

 

Dante ha superato i limiti umani in lui si è realizzata “l’Anima Mundi” l’energia divina che s’irradia in tutto l’universo e che rappresenta il fuoco segreto dell’alchimista, ora il poeta è arrivato alla fase finale del percorso alchemico, la Rubedo.

 

Dante con la guida di Virgilio, Beatrice, S. Bernardo ed il dono dell’Illuminazione divina, ha tracciato la via, scesa agli inferi nel profondo della coscienza, prendendo consapevolezza delle forze luciferine, del piombo che alberga in noi, la Nigredo.

 

Risalita sulla montagna del purgatorio, la purificazione, la rettifica, la decantazione alchemica, l’Albedo, che tramuta il piombo in argento.

 

La salita al Paradiso terrestre ed il volo sublime attraverso i cieli e l’arrivo all’Empireo, sede divina, la Rubedo, ora l’Argento finalmente è divenuto Oro ed non è più suscettibile di mutazioni.

 

Si deve perdere la falsa identità che abbiamo di noi stessi, non identificarci più soltanto con l’io mortale, tornare alla consapevolezza e se possibile al risveglio del “Se”, o della nostra Natura originaria.

 

Termino questa ricerca con la convinzione che ormai, l’anima del sommo Poeta era in completa e perfetta armonia con la volontà di Dio

 

Alberto Canfarini

 

 

 

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