LA TRAGEDIA DEL TEMPIO

L

A   TRAGEDIA DEL TEMPIO

a cura diArturo Reghini —

Firenze, 12 novembre 1878 – Budrio, 1 0 luglio 1946 nome noto ai Liberi Muratori di antica iniziazione. Pur non avendo rivestito nell’Ordine uffici di rilievo, il suo nome s ‘ impose alla considerazione per il contributo di dottrina che egli recò alla Famiglia italiana.

Filosofo e matematico di grande levatura egli pose, fin da giovane e fino alla morte, la sua immensa cultura al servizio dell’Ordine nell’intento di suscitare nei Fratelli un maggiore interesse ai problemi della educazioni massonica, che è, insieme, elevazione intellettuale ed abito di vita. E ne dava l’esempio pensando ed operando.

Poiché i nuovi Fratelli possano apprezzare il prezioso contributo da lui recato alla cultura massonica italiana e i vecchi rinverdirne la memoria, si ripropone oggi l’articolo che apparve sulla rivista mensile Salamandra, anno I, n. 2, 20 marzo 1914, poi ripubblicato su L’ Acacia Massonica, n. 5-6, maggio-giugno 1949.

 

LA TRAGEDIA DEL TEMPIO

Il diciannove marzo 1314, al tramontare del sole, aveva il suo epilogo in Parigi, in una isoletta della Senna, una delle più grandi tragedie che la storia ricordi.

Sopra un rogo eretto a gran furia dai soldati di Filippo il Bello nell’isola degli Ebrei accanto al palazzo reale, due eretici relapsi venivano uccisi a fuoco lento. Sdegnato il perdono offerto loro per una ritrattazione, sopportavano in silenzio con sovraumana forza e serenità quel tormento di poche ore che ne coronava un altro di anni, e di tra il fumo e le fiamme perveniva sino a loro la simpatia della moltitudine reverente all’intorno ed il bacio del sole morente. Jacques de Molay, Gran Maestro dell’Ordine del Tempio, e Geoffroi de Charney, Maestro per la Normandia, ritraevano la loro coscienza in quell’interno dominio di pace che la carità cristiana, né per ferro né per fuoco, può togliere agli uomini di buona volontà. Vuole la tradizione, e nessun storico può dimostrarla errata, che Jacques de Molay prima di abbandonare i sensi parlasse al popolo dall’alto del suo patibolo.

Venerando nell’aspetto, grande ancora negli animi per la potenza avuta, reso sacro dal martirio, egli invocò sull’Ordine la protezione di san Giorgio, il santo dei cavalieri, e citò a comparire dinanzi al tribunale, per rendere conto dei loro delitti, il papa entro un mese ed entro un anno il re.

Moriva Clemente V poco più di un mese dopo, corroso il corpo dal lupus e l’animo, forse, dal rimorso per i suoi grandi delitti: l’avvelenamento di Enrico VI, la rovina dei Beguini e quella dei Templari. E sette mesi dopo rendeva la poco bella anima a Dio Filippo IV, ancora giovine, per un accidente di caccia.

Non ci è possibile esporre sia pure per sommi capi la storia dell’Ordine, e ci contenteremo per la intelligenza dell ‘argomento di tratteggiare a grandi linee il processo e la condanna dei cavalieri Templari. Rimandiamo per il resto il lettore alle opere non numerose né definitive sopra l’interessante soggetto.

  1. C. Lea vi ha dedicato un centinaio di pagine della sua Storia dell’lnquisizione nel medio evo; poiché, secondo il Lea, il processo dei Templari è un esempio tipico del procedimento inquisitoriale; è chiara in esso la disperata condizione, senza difesa, della disgraziata vittima, una volta caduta sotto la terribile accusa di eresia e presa nell’inesorabile ingranaggio della macchina inquisitoria. Tutti i documenti e le storie di questo processo narrano infatti una storia di crudeltà e di perfidie, di abusi e di orrori indicibili.

L’accusa generica di eresia formulata contro l ‘ Ordine da Filippo il Bello,  ‘aiuto compiacente dell’inquisitore di Francia, si precisava in accuse particolari grossolane, risibili, assurde per loro stesse. Si pretendeva che al ricevimento di un neofita il precettore lo conduceva dietro l’altare, od in sacrestia od in altro posto segreto, gli mostrava un crocifisso, gli faceva rinnegare Gesù e lo faceva sputare tre volte sulla croce. Che il neofita veniva spogliato e che il precettore lo baciava tre volte, sulle natiche, l’ombelico e la bocca. Che gli si dichiarava allora legittimo l’amore innaturale (unnatural lust, dice il Lea), assicurandolo che era molto praticato nell’Ordine. Che la corda portata dai Templari giorno e notte sopra la camicia come simbolo di castità, si consacrava avvolgendola intorno ad un idolo avente forma di testa umana con una grande barba, e che questa testa (il famoso Baphomet), benché nota al solo Gran Maestro ed agli anziani, veniva adorata nei Capitoli. Si accusavano, infine, i preti dell’Ordine di non consacrare l’ostia nella celebrazione della messa.

Queste le pazze accuse, incoerenti, inverosimili per qualsiasi cervello non fosse stato irrimediabilmente deformato dal fanatismo cattolico, e queste le accuse che i poveri Templari dovettero confessare per non morire sotto la tortura.

L’ Inquisitore di Francia, dunque, presa conoscenza in virtù del suo ufficio della accusa di eresia, invitava Filippo ad arrestare quei cavalieri che si trovassero nei suoi Stati ed a portarli in esame dinanzi all’inquisizione. La mattina del 13 ottobre 1307 all’improvviso quasi tutti i Templari del Regno venivano presi; nel Tempio di Parigi venivano arrestati centoquaranta Templari con de Molay ed i capi dell’Ordine alla testa; ed il ricchissimo tesoro dell’Ordine cadeva nelle avidissime mani del re, già fortissimamente indebitato coi cavalieri del Tempio. Così ripagava Filippo coloro che lo avevano pochi anni prima protetto e salvato dalla sollevazione popolare provocata falseggiando la moneta.

L’inquisizione si pose subito al lavoro. E lavorò così bene che dei centotrentotto catturati nel Tempio di Parigi, soltanto tre riuscirono a non fare confessione di sorta. La confessione la si faceva fare, a dir vero, all’uscita dalla camera di tortura, ed alla vittima si faceva giurare che essa era libera e non obbligata per forza o paura; ma per comprendere che razza di libertà fosse questa basta considerare che la disgraziata creatura sapeva bene come, ritrattando quel che avea detto o promesso di dire sotto la corda, si esponeva a nuova tortura od al patibolo come eretico relapso. Soltanto in Parigi 36 Templari morirono sotto la tortura; e nel resto di Francia la mortalità mantenne questa spaventosa proporzione del 25 per cento.

Naturalmente de Molay non fu risparmiato. Pare facesse una breve confessione, quantunque i documenti papali concernenti il processo siano così pieni di falsità evidenti da non potere riporre in essi che scarsissima fiducia.

Esaminato di nuovo, ad esempio, sempre per cura di Filippo, che agiva oramai d’amore e d’accordo con Clemente V, de Molay avrebbe confermate le precedenti confessioni e richiesto umilmente l’assoluzione e la riconciliazione.

Or bene, nella bolla papale del 12 agosto 1309, emessa cinque giorni prima che questo esame avesse principio, se ne trovano riferiti i resultati, senza omettere, si capisce, che le confessioni furono libere e spontanee. Nessuna maraviglia, dunque, se nel novembre, quando una commissione papale lesse questa bolla papale a de Molay, egli restò sbalordito; e poi, indignato, augurò che piacesse a Dio si tenesse verso persone così perverse l’abitudine dei Saraceni o dei Tartari che decapitavano o tagliavano in due quelli che falsavano il vero.

I principi cristiani, cui Filippo aveva annunciata la scoperta della eresia dei Templari, istigati da Clemente V procedettero anche essi contro i cavalieri perseguitati in tal modo per tutta l’Europa e fino nelle lontane isole del Mediterraneo; e tranne in alcuni paesi come l’Aragona e l’Inghilterra dove i Templari avevano amichevoli relazioni con quei re, la persecuzione non conobbe pietà. Clemente V infatti che aveva convocato il Concilio di Vienna per giudicare l ‘ Ordine del Tempio come corpo, aveva gran furia, e poiché gli premeva di avere molto materiale da portare al Concilio, eccitava i tribunali a procedere etiam contram juris regulam.

Ed i tribunali raddoppiavano di zelo: si torturavano di nuovo i poveri prigionieri, e si ardevano coloro che si rifiutavano di confermare le precedenti confessioni. Gli ufficiali ed i membri dell’Ordine erano oramai sparsi per le prigioni di Europa; pure il papa ebbe l’impudenza di citare l ‘ Ordine a comparire dinanzi al Concilio mediante i suoi delegati e procuratori.

Il papa si riserbava di giudicare direttamente de Molay ed i principali ufficiali dell’Ordine; e si destreggiò in modo da impedir loro di comparire dinanzi al Concilio. Gli altri cavalieri, dispersi, isolati, sbigottiti, abituati ad obbedire e non a prendere iniziative non seppero né poterono efficacemente difendere l’Ordine.

Clemente, poiché l ‘ Ordine non aveva mandato i suoi capi e procuratori a difenderlo, ne propose senz’altro la condanna. Fu nominata una commissione per discutere la cosa ed ascoltare i rapporti degli inquisitori; ed ecco un giorno dinanzi a questa commissione si presentano sette templari offrendosi di difendere l’Ordine in nome di duemila cavalieri, erranti per le montagne del lionese. Invece di ascoltarli il papa li fa porre in prigione; alcuni giorni dopo due eroi compaiono a ripetere l’offerta, non sgomentati dalla sorte dei loro fratelli, ed anche questi Clemente fa imprigionare. Il Concilio esitava dinanzi all’infamia di una condanna senza difesa; senza le pressioni del papa e di Filippo non avrebbe forse condannato i templari; e l’essere scomparsi gli atti del Concilio di Vienna dagli archivi papali è abbastanza significativo. Ma Filippo il Bello agitando lo spauracchio della questione della condanna di Bonifacio Vili per eresia, che portava naturalmente ad infirmare la validità delle nomine cardinalizie di Bonifacio e quindi anche la validità della stessa elezione di Clemente V, riescì a fare prevalere la sua volontà.

Nel marzo 1312 Clemente presentava ad un concistoro segreto di prelati e di cardinali una bolla, nella quale, dopo avere ammesso che le prove raccolte non giustificavano canonicamente la definitiva condanna dell’Ordine, invocava lo scandalo oramai caduto su di esso e la necessità di provvedere ai suoi possessi in Terra Santa per sopprimerlo provvisoriamente. Un mese dopo per altro un’ altra bolla con ordinanza apostolica aboliva provvisionalmente ed irrevocabilmente l ‘ Ordine, lo poneva sotto perpetua inibizione, e scomunicava ipso facto chiunque avesse voluto entrare in esso e portarne l’abito. Le grandi proprietà dell’Ordine del Tempio venivano trasferite a quello degli Ospitalieri di S. Giovanni di Gerusalemme; ma fu eredità quasi nominale tanto larga breccia vi fecero colla violenza e colla frode Filippo ed altri principi. I cavalieri infine venivano rinviati al giudizio dei concilii provinciali, ad eccezione del Gran Maestro e dei capi.

Per investigare i procedimenti tenuti contro di essi, ed assolverli o condannarli Clemente nominò una commissione di tre cardinali, che, insieme ad altri prelati, emisero una sentenza di perpetua prigionia. Il 19 marzo 1314 Jacques de Molay, Hugues de Peraud,

Visitatore di Francia, Geoffroi de Charney, Godefroi de Gonneville furono tratti dalle prigioni dove avevano languito per quasi sette anni e condotti sopra un palco eretto dinanzi a Notre Dame per sentirsi leggere questa condanna. Tutto sembrava così finito, quando, tra la meraviglia della moltitudine raccolta all’intorno e lo sgomento dei prelati. de Molay e Geoffroi de Charney si alzarono. E si dichiararono colpevoli non dei delitti loro  imputati, ma di non avere difeso I ‘Ordine per salvare la loro vita: l ‘ Ordine era puro e santo, false le accuse, strappate le confessioni. Così dicendo, essi ben sapevano quale sarebbe stata la inevitabile conseguenza.

Quando Filippo seppe della inattesa novità andò su tutte le furie; ma il caso era semplice, le leggi canoniche prescrivevano che un eretico relapso doveva bruciarsi senza neppure ascoltarlo; i fatti erano manifesti e non occorreva aspettare il giudizio formale di una commissione papale, bastava un breve consulto col suo concilio.

Lo stesso giorno, al tramonto, il rogo dislegava quelle due grandi anime da ogni nube di mortalità. Mancò agli altri due il coraggio di imitarli, accettarono la condanna e perirono miseramente in prigione.

L’eresia Templare.

In questo modo cadeva il Grande Ordine militare e contemplativo ad un tempo, che riuniva insieme i due caratteri che l’India aveva separato nei due ashramas dei Brahmani e degli Kshatria.

Furono i templari veramente colpevoli di eresia? Ebbero essi in realtà l’intenzione di formarsi un dominio temporale? Uopo sei secoli la questione non è stata ancora risolta; ed anche il Lea, che pure trova nel fattore economico la spiegazione della tragedia templare, riconosce che essa promette di rimanere uno dei problemi insoluti della storia.

Che Filippo IV, indebitato coll’Ordine, finanziariamente rovinato al punto da battere moneta falsa, abbia agito per avidità non vi è nessun dubbio; anche Dante, testimone autorevole, lo investe con tutta la sua potenza accusandolo di avere portato nel Tempio le cupide vele; ma la verità di questo fatto non basta per escludere la loro eresia, e se la sola cupidigia avesse spinto Filippo egli avrebbe forse rivolto le medesime accuse contro l ‘ Ordine degli Ospitalieri, anche più ricco di quello del Tempio. E ben vero che a Filippo, tutto inteso a rafforzare ed estendere il suo dominio in Francia, doveva dare molta ombra la potenza dei templari, completamente indipendenti da lui ed anche dal papa, perché di fatto l’unica autorità temporale e spirituale era pei templari quella del loro Grande Maestro. E tanto più doveva impensierirsi Filippo in quanto che de Molay aveva trasportato il quartiere generale dell’Ordine da Cipro in Parigi, cosa abbastanza strana per un Ordine avente l’unico scopo designato di combattere in Terra Santa, e molto inquietante per il recente esempio dei cavalieri teutonici che si erano creato un dominio nella Germania settentrionale.

Egoisticamente e politicamente parlando, Filippo aveva tutte le ragioni per agire come fece; ma queste ragioni puramente economiche e politiche sufficienti a spiegare l’azione del re di Francia, non sono invece sufficienti ad escludere la possibilità dell’eresia templare.

Naturalmente non intendiamo parlare di un’eresia meschina, come quella compendiata nelle ridicole accuse riferite più innanzi, né di una semplice eterodossia formalistica, ma di una possibile eresia molto più radicale, di una autonomia nei capi mentale e spirituale dall’autorità cattolica, e che base e resultante ad un tempo di una maturità interiore, si elevava senza altro al di sopra di ogni espressione in credi, formule, emblemi e cerimonie.

Metafisicamente parlando è fuori dubbio che la rigidità della disciplina e l’abdicazione della individualità doveva portare anche nei templari a quella superiorità spirituale che ne è la naturale conseguenza, e che è manifesta, per esempio, nei Gesuiti, un Ordine molto simile al templare per la ferrea disciplina, lo spirito gerarchico ed altri caratteri.

Per noi la falsità delle accuse di grossolane pratiche eretiche è evidente; e così pure che le confessioni si dovettero soltanto alla tortura od alla paura della tortura; ma la questione della possibilità dell’eresia templare, intesa in un senso più profondo e più serio rimane aperta, e noi vogliamo esaminarla un momento pur sapendo che il solo ausilio delle considerazioni storiche non può condurre a deciderla definitivamente in un senso o nell’altro.

Ricordiamo lo sfondo storico della questione: la grande lotta tra la Chiesa e l ‘ Impero, ricordiamo il pullulare delle eresie per tutta la Francia, l’Italia e gran parte dell’Europa, e la naturale simpatia degli eretici per i ghibellini. E consideriamo l’importanza che doveva avere agli occhi dei contendenti un Ordine possente, ricchissimo, indipendente e per giunta ravvolto nel segreto. Assolutamente autonomo per la bolla stessa di fondazione e pei brevi papali, impenetrabile agli estranei grazie al mistero, organicamente omogeneo ed obbediente all’autorità assoluta del Gran Maestro, esso costituiva un perfetto e temibile strumento di azione, uno strumento ideale per chi avesse voluto tentare un travolgimento sociale od anche soltanto isolarsi come in una medioevale fortezza dalle autorità e dalla società di quel tempo. La mancanza di prove materiali non basta per escludere che dalla fondazione dell’Ordine od in seguito la Grande Maestranza abbia potuto trovarsi nelle mani di uomini liberi da devozione verso la Santa Sede ed anche dalla credenza cristiana; che anzi, se gli intendimenti eretici vi furono, ogni prova materiale deve essere stata accuratamente evitata perché troppo pericolosa dato il fanatismo e la inquisizione, e. perché ogni legame esteriore era superfluo in una società che traeva la sua forza non da una comunità di credenze ma dalla ferrea legge per la quale i fratelli doveano obbedire passivamente agli ordini del loro capo. L’ Ordine del Tempio, infine, era un ordine militante e non missionario, e, se eretico, non colla propaganda ma coll’azione doveva cercare di opporsi alla religione dominante.

Inutile dunque cercare negli archivi la prova dell’eresia templare; in mancanza di mezzi migliori solo l’analisi della loro attitudine ed il concetto tradizionale rimastone potranno illuminare la questione.

E ciò nonostante attraverso alla necessaria apparente ortodossia della stessa regola dell’Ordine si possono trovare degli indizii molto interessanti. Il paragrafo 12, per esempio, della «Régle du Temple» pubblicata a cura di Henri de Curzon, permette all’Ordine di cercarsi delle reclute tra i cavalieri scomunicati, aprendo così un comodissimo rifugio a tutti i perfetti, i catari, gli albigesi, patarini ed eretici di ogni specie. Molto significativa è anche la grande rassomiglianza tra l ‘ Ordine del Tempio e l ‘ Ordine degli Assassini, la potente contemporanea associazione orientale dipendente dall’autorità assoluta del Vecchio della Montagna. Simili nei due Ordini il segreto, le iniziazioni, i lavori, l’organizzazione, lo spirito di gerarchia e la disciplina.

Nella lotta tra Chiesa ed Impero i templari non potevano apertamente manifestare le loro simpatie perché la funzione dell’Ordine era esplicitamente un’ altra. Pure quando Urbano IV preparava una crociata contro Manfredi troviamo che Etienne de Sissy, maresciallo dell’Ordine e Precettore di Puglia, rifiutò di dare al papa il suo aiuto; ed al papa che gli ordinò di dimettersi dalla sua carica rispose audacemente che nessun papa si era mai immischiato degli affari interni dell’Ordine, e che egli avrebbe rassegnato il suo ufficio solo al gran Maestro che glie lo aveva conferito. Urbano lo scomunicò, e l ‘ Ordine lo sostenne rimproverando al papa di volere distrarre per la crociata contro Manfredi le forze destinate per la guerra in Palestina.

Un’ altra forte presunzione di eresia si può trovare interpretando il canto chiuso dei poeti d’amore, ed il simbolismo della gaia scienza dei trovatori che prendevano tanto volentieri a soggetto delle loro canzoni il leggendario Ordine del Graal, di cui quello del Tempio pareva la reale manifestazione.

Il posto che Dante dà ai templari nella Divina Commedia mostra quale importanza avesse secondo lui I ‘Ordine nella vita politica del suo tempo. Dante, che ha attaccato così fieramente i francescani ed i domenicani ed in generale i papi, la Chiesa ed il clero, non ha una sola parola contro i templari, anzi ne prende apertamente le difese; ed i templari, Filippo il Bello e Clemente V costituiscono grandissima parte dell’allegoria politica della Commedia.

Per tutto il poema li tiene sempre presenti; inveisce contro il papa e contro Filippo ogni volta che ne ha l’occasione, invoca la vendetta di Dio contro di loro e nella grande visione finale del Purgatorio raffigura nella meretrice la Chiesa e nel gigante che delinque in sua compagnia Filippo. Clemente V ha il suo posto bello e pronto tra i simoniaci perché agì per denaro contro i templari, e, per vendicare la morte di J. de Molay bruciato vivo col capo in alto, Clemente è destinato ad andare a prendere il posto di Bonifacio e quindi a bruciare col capo all’ingiù: e farà quel d’Alagna esser più giuso.

E questo dice Dante dopo aver fatto pochi versi innanzi la glorificazione dell’imperatore e delle bianche stole, cioè dei Templari.

Dante, infatti, ben sapendo che per la regola Templare, inspirata da San Bernardo, l’abito bianco colla croce rossa era riservato ai soli templari, e ben conoscendo la bolla di Clemente V che scomunicava ipso facto chi avesse osato indossare l’abito dei templari, riveste della bianca stola i beati del Paradiso, approfittando abilmente del comodo riparo offerto da un passo dell’Apocalisse; ed è San Bernardo, anche egli rivestito dalla bianca stola (come Dante si prende cura di specificare) che lo scorta all’ultima visione. Così facendo egli sfidava deliberatamente la Chiesa; e questa apologia e glorificazione palese e coperta; è troppo calorosa ed insistente, il dolore e lo sdegno troppo possenti per non essere intimamente legati agli ideali più cari a Dante; l’avere fatto della tragedia templare un elemento fondamentale dell’allegoria politica induce a ritenere che nel suo pensiero l’Ordine del Tempio era strettamente associato a quella sua Monarchia condannata per eresia dalla Chiesa.

L’ortodossia cattolica dei templari, come quella di Dante, è dunque più che sospetta agli occhi dell’osservatore spregiudicato e non superficiale. E questa impressione si accorda perfettamente col concetto tradizionale dell’Ordine del Tempio trasmessoci dalle società segrete posteriori.

L’eredità templare.

La tradizione afferma intanto che l ‘ Ordine continuò ad esistere anche dopo e nonostante la condanna papale. In un libro raro e segreto – A Sketch of the History of the Knights Templars – stampato a soli cento esemplari nel 1833, di cui è autore James Burnes, Grande Officiale dell’Ordine del Tempio, si racconta che Jacques de Molay, prevedendo il suo martirio, nominasse a suo successore in potere e dignità Giovanni Marco Larmenio di Gerusalemme.

E da allora sino ad oggi la linea dei Grandi Maestri si è mantenuta regolare ed ininterrotta; l’originale della carta di trasmissione firmato da tutti i Grandi Maestri e che il Burnes riporta nel suo libro, si trova a Parigi, insieme agli antichi statuti, rituali, sigilli, ecc. e nel convento generale dell’Ordine tenuto a Parigi nel 1810 venne esaminato da circa duecento cavalieri Templari.

Nel 1811 Napoleone fece chiamare il Gran Maestro dell’Ordine, Bernard Raymond; e gli ordinò che la celebrazione dell’anniversario del martirio di J. Molay si facesse pubblicamente con grande pompa religiosa e militare. Grandissimo fu lo stupore ed infiniti i commenti provocati da questa grande cerimonia pubblica; ben pochi arrivarono infatti a comprendere perché mai Napoleone potesse dare tanta importanza alla tragedia avvenuta cinque secoli prima; ma forse qualcuno dei nostri lettori avrà intuito le profonde ragioni ideali dell’interesse imperiale, e legato in una visione sintetica gli uni agli altri gli avvenimenti dei due tempi.

Altri documenti e manoscritti che riferiscono la storia dell’Ordine prima e dopo la condanna si trovano negli archivi del Grand Prieuré Indépendant d’ Helvétie, che è oggi la quinta provincia dell’Ordine del Tempio. Secondo questi manoscritti, in armonia colla tradizione massonica, i Templari sfuggiti al disastro in Svezia, Norvegia, Irlanda e Scozia continuarono l ‘ Ordine e per meglio sfuggire alle persecuzioni si nascosero entro la corporazione dei Liberi Muratori, continuando dentro di essa ed in segreto il loro Ordine. Si permise ai cavalieri di ammogliarsi per potere continuare l ‘ Ordine nei loro figli; e per maggiore sicurezza per circa tre secoli nessun estraneo venne iniziato al grado di Maestro Scozzese, riserbando tale grado soltanto ai figli dell’Ordine.

Sopra i legami e la derivazione della Massoneria dall’Ordine del Tempio tutti gli autori massonici si trovano d’accordo.

Senza addentrarci nelle complicatissime questioni di esegesi massonica ricordiamo come il rituale e conseguentemente i lavori del grado più importante del rito Scozzese, il 30 0 o Cavaliere Kadosh, si inspira unicamente al martirio di J. de Molay; e la parola di passo del grado pare tolta di peso dai versi nei quali Dante invoca la vendetta divina sopra Clemente V e Filippo il Bello. E poiché lo spirito eretico dell’Ordine massonico non discende certo dalle innocenti ghilde e corporazioni medioevali di muratori, è ben presumibile che in ultima analisi risalga proprio all’Ordine templare. In ogni modo è certo che il grado politico del Rito Scozzese, il rito massonico più diffuso, trae dai Templari la sua derivazione ideale; vendetta, vendetta, o Signore, grida anche oggi il cavaliere templare.

E la vendetta si è parzialmente compiuta per opera appunto della Massoneria.

E quasi a rendere evidente il carattere fatale della rivoluzione, la nemesi dei re di Francia li portava ad espiare il delitto di Filippo proprio nel quartiere generale dell’Ordine, divenuto per essi la prigione del Tempio.

Ivi su’ I medio evo il secolare

Braccio discese di Filippo il Bello, Ivi scende de l’ultimo Templare

Su l’ultimo Capeto oggi l’appello.

Ed è fama che il giorno della esecuzione di Luigi XVI, un gigante orribile e barbuto, una specie di genio diabolico della rivoluzione, sempre presente quando vi erano preti da strozzare, montò sul patibolo e, prendendo a piene mani il sangue reale, ne spruzzò le teste all’intorno gridando Peuple français, je te baptise au nome de Jacques et de la liberté.

La continuazione esteriore dell’Ordine del Tempio ed il concetto rimastone nell’Ordine massonico si accordano dunque nell’indicarci la profonda eterodossia del grande Ordine medioevale.

La Massoneria ed i numerosi ordini templari oggi esistenti sono gli eredi storici, esteriori dell’Ordine del Tempio. Ma la continuazione interiore, spirituale non pare oramai associata a questa esteriore derivazione.

Pure l’eredità templare non può essere andata perduta, pure è fatale che la vendetta si compia e che perisca di spada chi di spada ha ferito. Coloro che conoscono la immateriale indistruttibile natura degli esseri vedono nella perennità puramente spirituale delle individualità la base e la prova di una reale eredità; e quando questa vi è, non è questione che di tempo e di contingenze perché se ne veda la inesorabile manifestazione nel mondo degli uomini.

Pubblicato in commemorazione | Lascia un commento

ESCHILO L’ INIZIATO

ESC

 

ESCHILO L’INIZIATO

di  Sebastiano Vittorini

 

da

L’ACACIA MASSONICA

Anno VI – Num. 4-5 – Dicembre 1952

 

Eschilo nasce ad Eleusi. Eleusi è la città ancora dei Misteri iniziatici, i più celebri della Grecia antica, anzi di tutta la classica antichità. Ad Eleusi, tutti gli anni, si celebravano le Feste Eleusinie: in gennaio (mese di Amtesterione), i piccoli Misteri — mikrà mystèria in agosto (mese di Boedromione), i grandi Misteri — nègala mystèria — I piccoli avevano luogo nella borgata di Agra, presso Eleusi e a tre stadi da Atene. Bagnava Agra il fiumicello Ilisso, in cui si specchiava un tempietto, ove si compiva la cerimonia delle purificazioni preparatorie degli iniziandi, che vi si erano apprestati con un digiuno.

Secondo Clemente Alessandrino, dopo i Lavacri, il Daduco — guida ieratica — faceva porre i piedi ai Candidati su pelli di vittime immolate a Giove Melichio e Ctesio. Dopo il Mistagogo raccoglieva da quelli un terribile giuramento, che li legava al mantenimento del segreto dei Misteri. Spiegati loro alcuni termini ermetici sull’agricoltura, si dava loro il comandamento di mangiare il proprio cuore», cioè di farsi vincere dalla tristezza». Infine loro insediamento su un trono e caratteristiche danze e inni sacri. Da allora aveva inizio un noviziato di questi neofiti, che prendevano il nome di <<misti» (mystai), che potevano essere ammessi ai grandi Misteri dopo almeno un anno della loro prima iniziazione.

Allora passavano al grado superiore di <<epopti» (epòptai cioè spettatori). I grandi Misteri autunnali, che avevano inizio il 15 agosto, duravano 9 giorni. Si volgevano di notte, fra rappresentazioni simboliche: spettacoli impressionanti, che miravano ad indurre gli iniziati a penetrare più addentro nei misteri d’oltretomba che, travaglio degli spiriti superiori di ogni tempo, costituivano il contenuto precipuo e fondamentale delle Eleusinie.

Anche questi Misteri si iniziavano con la purificazione, stavolta nelle acque del mare (ritenuto lustrale), al quale i Misti iniziandi si recavano nel secondo giorno.

Le Feste autunnali culminavano nella grande solennità del sesto giorno, nel quale si compiva I ‘Epoptea o grande iniziazione.

L’origine del Misteri Eleusini si perde nel mito, e nei secoli del medio evo greco s’immerge. Durano essi fino al IV sec. d. C., fino al tempo in cui, la maggior parte dei loro iniziati passò seguace del puro Cristianesimo primitivo trionfante.

Le testimonianze dei Misteri Eleusini sono in buona parte del periodo ellenistico. Non poche si devono ad autori cristiani; alcuni di questi lo riferirono con farisaico spirito denigratorio: Ma, per molti punti essenziali, possiamo ricostruire la tradizione, e, attraverso Platone, Aristofane ed Eschilo, risalire fino all’inno omerico in onore di Demetra, ed anche più indietro, fino al periodo miceneo, grazie, adesso, alle testimonianze offerteci dalle vestigia archeologiche, in ispecie d’arte vascolare.

E proprio nell’inno omerico che è detto che Demetra mostra l’usanza dei riti sacri e rivela il mistero delle esaltazioni orgiastiche eleusinie ai re legislatori: ad Eumolpo, il leggendario re-poeta, che, dopo la rivelazione della dea dell’agricoltura, avrebbe, per il primo, istituiti i Misteri d’Eleusi; a Trittolemo e a suo padre Celeo eleusini, a Diocle, ispiratore delle famose leggi che per secoli ressero esemplarmente Siracusa. <<Riti — dice l’inno — che mai non lece non trasgredir né spiare — né propalar, l’ossequio a le dee ne rattiene la voce –—. Quegli beato che vide tai cose, ma chi de le sacre fu cerimonie privo, di simile sorte non gode, — quando sia morto, sotto la foscheggiante tenebra».

L’ altissimo contenuto esoterico e morale ormai in buona parte manifesto. Sappiamo che nei Misteri, fra l’altro, si veniva ad apprendere la dottrina d’una vita futura e d’un premio o d’una pena dopo la morte, proporzionati al bene o al male che s’era fatto quaggiù.

Questa dottrina si basava sul dogma della metempsicosi, per cui i filosofi ritenevano l’anima umana poter essere colpevole di qualche peccato anche prima di incarnarsi. Cioè non poteva capitare agli iniziati, perché purificati. Perciò, secondo Piatone, le purificazioni liberano dai delitti durante la vita e dopo la morte. E i Mistagoghi proclamavano, perciò che i («profani» dopo la morte sarebbero stati gettati nel fango, e, al contrario gli <<iniziati» avrebbero avuto in premio un delizioso giardino del regno di Plutone.

Il contenuto però più intimo e segreto dei Misteri riguardava la parte per così dire teologica delle rivelazioni, prima di tutto il dogma dell’unità di Dio, insegnato dai Mistagoghi in un senso tale da rendere non solo compatibile, ma anche filosoficamente logico, il politeismo allora dominante. Si ammetteva già in un unico Supremo Principio Universale, così vago, dapprima, da essere compatibile con tutta la policroma mitologia pagana; ma poi, via via più preciso fino a diradare come sogni le numerose deità, alla potenza delle quali la fantasia degli eccitati interrogatori della natura voleva addebitare degli alti di creazione, con cui poter spiegare l’esistenza degli infiniti modi ed apparenze di essa natura.

Un mito poi fa da sfondo ai Misteri eleusini: quello di Cerere. l’Iside degli Egizi, la Demeter dei Greci, la Terra Madre cioè, il principio passivo, alimentatrice del genere umano. Sono note le peregrinazioni di Cerere, sotto sembianze di vecchia, per vari paesi, in cerca della figlia Proserpina. Giunta un giorno ad Eleusi. dopo una sosta al fonte Calliroe, penetra nel palazzo del re Celeo, dove la vecchia Jambe riesce a farla ridere con scherzi lubrici. E presa intanto come nutrice di Demofonte, figlio del re, che una notte tiene sollevato sul fuoco per consumarne le parti mortali. Sopravvenuta la madre, getta un grido tale di spavento che la dea lascia cadere per la sorpresa sul fuoco il

 

pargolo che s’incenerisce. Cerere vuol riparare alla disgrazia, e prende ad educare Trittolemo, figlio maggiore di Celeo e gli da un carro con aggiogati i draghi e lo manda ad insegnare agli uomini l’arte di usare l’aratro e seminare il frumento.

Nei Misteri eleusini, al culto di Demetra venne associato quello di Dioniso, che personificava le occulte energie produttive della natura, il dio della vigna e del vino. Bacco, per cui i greci inventarono il ditirambo, che si vuole abbia dato origine alla tragedia Di questa comunanza di culto ad Eleusi fa fede Sofocle, nell ‘Antigone:

che di nomi abbondi — pregio-ed amor di Semele progenie di Giove altisonante, che comun culto e rito — hai con l’augusta Cerere — nell’Eleusinio lito».

Eschilo, poi, nato in un luogo così sacro, era anche figlio di Euforione, pitagorico, anzi scolaro di Pitagora, della famiglia degli Eupatridi, erede dunque di una tradizione aristocratica.

Egli, altamente greco, poeta di stirpe: ma ancor più Eleusino, anzi Eleusiaco, cioè mistico nel modo istesso che Shakespeare inglese ed anglicano. Cicerone ci dice che Eschilo era pitagorico oltre che poeta. Pitagora, il filosofo semi-mago e semi-bramino — ci dice Victor Hugo sembra essere entrato, attraverso Euforione, in Eschilo. Nella profonda e misteriosa lite fra gli dei celesti e gli dei terrestri, guerra intestina del paganesimo, Eschilo era terrestre; era della fazione degli dei della terra. I ciclopi avevano lavorato per Giove; egli li respinge e preferisce loro i Cabiri dei Misteri. E adorava Cerere, cioè Demetra, cioè la terra madre, al cui indirizzo esclama: tu. Cerere, nutrice della mia anima!». Di là, la sua venerazione per l’Asia, la terra compatta, senza capi né seni, poco penetrabile dal mare. Ed è perciò che Egli fa dire a Minerva. «La grande Asia» ed alle Oceanine del Prometeo: «il suolo sacro dell’Asia». È l’esaltazione di quell’Asia, ov’è l’India, ov’è l’Egitto (poiché Eschilo considera l’Egitto parte dell ‘Asia) ove vivono le più grandi tradizioni mistiche, da dove vengono le più alte rivelazioni esoteriche. per bocca dei più grandi iniziati, da dove viene la luce iniziatica.

E la grande Asia la sentiamo presente in molte parti della formidabile e magnifica Opera conosciuta, che impone un’ascoltazione palpitante di un Superiore sentimento religioso, che attinge nel sacro misterioso dell ‘Universo Signore della Vita.

La maiestà ieratica della sua geniale statura di trageda ci richiama quei vasti poemi del Gange, che procedono nell’Arte con l’andatura del mammuth, e che fra gli Illiadi e le Odissee hanno l’aria di ippopotami fra i leoni (quest’immagine è d’un altro gigante dell’Arte: Victor Hugo).

Eschilo ha la smisuratezza mistica orientale; perciò da qualcuno è detto saturo di ebraismi e di sirianesimi. Infatti Egli fa trasportare il trono di Giove dai venti, come la Bibbia quello di Jéhovah dai Cherubini, come il Rig-Veda il trono d’Indra dai Marut, compagni di Vata, dio del vento, e di Rudra dio del turbine distruggitore. E si è notato, nel suo linguaggio drammatico, l’inserimento di giochi di parole fenici. Sembra di ispirazione ninivita, ad esempio, la metafora: <<Serse dagli occhi di drago» per voler dire: «dagli occhi chiaroveggenti»; infatti nel dialetto di Ninive la parola Draka significava il drago e il chiaroveggente. Nel suo esilio in Sicilia, in Ortigia soleva bere religiosamente al Fonte Aretusa, cui fu sentito più volte dare il nome misterioso di Alphaga, che in assiro, significa: sorgente satura di sale.

Ecco perché dell’Arte eschilea s’è detto ch’essa ha del cosmico. Ed Eschilo poteva esser cosmico, perché era un iniziato; e rivelava di essere un iniziato quando, nelle sue titaniche creazioni, i Misteri di Eleusi esplodevano, come vampate di vulcani, o muggivano, come tuoni sotterranei ammonitori. Allora non solo, come gli altri tragedi, si dava ad insegnare la purificazione dell’anima mediante il dolore, ma additava alla vita umana la sua liberazione e la sua elevazione al vero supremo, sollevando un lembo del velo e lasciando intravedere un mondo luminoso.

Così Prometeo, il sublime forzato, generosamente sublime, grida dall ‘aspra roccia caucasica, cui è inchiodato dal Potere, nemico acerrimo dell ‘uomo possessore della luce, grida: «La scienza a prezzo del dolore!» in cui è riposto l’alto significato iniziatico della profonda ragione del perpetuo cimento umano per il conseguimento della conoscenza delle origini e dei fini della vita universa e particolare, attraverso gli spinosi sentieri dell ‘esperienza guidata dallo spirito.

E per questo ispirato, umanissimo capolavoro, Eschilo riesce a conquistarsi anche la simpatia di Aristofane, il cattivo genio, che ebbe da ridire anche su Socrate, nelle Nuvole: ed in lui trova il difensore, che fa tutto ciò che è in suo potere, per evitare ad Eschilo il bando dalla Madre Grecia, che gli addebitava la rivelazione dei Misteri,

Più che alla rivelazione dei riti eleusini, però, dal cui addebito, secondo Aristotile. fu assolto, Eschilo deve il bando a una situazione politica demagogicamente democratica, fra la quale egli era elemento inviso, pur essendo un amante e un sostenitore del suo popolo.

Tutto prova intanto che Eschilo fu un iniziato, a parte le tracce, non poche e non lievi dei principi e dei riti, richiamanti i Misteri. Basta d’ altronde gettare uno sguardo in un suo dramma, perché,-l’anima si senta purificata. Soggioga l’incrollabile sua fede ricompensata dal dominatore dei dominatori », sedente giusto giu dice. Lo si sente appagato dalla convinzione che ogni ingiustizia spezza contro lo scoglio della verità viva». E la esprime con forza prestigiosa là dove dice: <<Quando la forza procede accompagnata alla giustizia, è egli possibile vedere più magnifica unione?».

Mantenendosi più spesso nell’umano e nel terrestre, se

talvolta si spinge in un al di là, lo fa per innalzare il mondo degli dei a ideali più puri, ricacciando nello sfondo la credenza degli antenati, rimasta a quel politeismo, che domina fra l’invidia e la malevolenza avverso a I ‘umanità, dei vizi della quale danno deprimente spettacolo le sue deità.

Ed il meraviglioso quadro di un Universo divino, che si spiega davanti l’ascoltatore delle tragedie di Eschilo, spicca a rivelarci l’Ispirato dionisiaco, che ha vissuto l’intimo suo conflitto fra la tradizione religiosa ereditata e i propri maturi convincimenti, che si sono sostanziati del cibo spirituale di tutti i gradi della mistica iniziazione.

E di questa vissuta lotta, in cui resta vittorioso il principio di evoluzione e di progresso continuo della Vita, se ne ha una prova viva nella trilogia del Prometeo, di cui resta solo la prima parte e qualche frammento, e in cui la colpa del Titano non è se non la sua benevolenza verso l’ Umanità, e per essa Egli soffre la pena terribile comminatagli dal geloso Zeus, pena che non è, non può essere eterea, perché tutto si evolve e chi è fermo muore; la trilogia infatti si concludeva con la riconciliazione del dio del cielo e la liberazione dell’incatenato benefattore dell ‘Umanità.

Lo stesso concetto evolutivo domina I ‘Orestea. In essa Oreste esegue l’ordine, ricevuto da Apollo, di uno spietato assassinio, espiazione ed epurazione, secondo il pensiero apollineo; ma il matricida è travolto dagli spiriti vendicatori della madre uccisa, ciò che può voler dire che la coscienza del Poeta, la quale riflette quella dei contemporanei, si rivolta contro il rigore atroce della vecchia legge del taglione.

Ma il Poeta trova un mezzo per conciliare le esigenze di giustizia vecchie e nuove: la fondazione dell ‘Areopago.

E l ‘ Atena e l’Apollo intanto, che presiedono alla purificazione ed assoluzione di Oreste e riescono a trasformare le Erinni furenti in Eumenidi pacificamente conviventi, indicano un progressivo perfezionamento morale degli dei. E la fine dell’Orestea testimonia della raggiunta pace intima del Poeta, attraverso un processo lento e doloroso della sua purificazione morale. Per lui adesso la teologia non è più rivelazione ferma, statica, indiscutibile. La influenza, la Gnosi dei Misteri, iniziarsi nei quali è procedere nell’elevazione, grado a grado, nella conoscenza dei problemi della Vita, in tutte le varie sue manifestazioni, alle vette delle quali sono le ineffabili conquiste coscienti dello spirito.

Così, in un frammento di una delle novanta e forse più tragedie di Eschilo — di cui ne conosciamo solo sette — in un frammento dicevo di Le Figlie del Sole, Eschilo ci appare come il profeta di una religione panteistica, che identifica Zeus con l’ Universo, fuori quindi di ogni rigore dommatico.

 

Genio, nei cui riguardi, lo spirito umano ha una sommità: l’Ideale, verso cui il Grande Architetto discende, I ‘Uomo iniziato ascende.

Vivo, Atene misconosce questo Genio, morto, gli erige un monumento, al quale il popolo accorre, adorante il Poeta che l’amò e l’eroico suo difensore in Maratona e Salamina.

Morto, delle sue tragedie si ordina dallo Stato un esemplare ufficiale completo ed unico, custodito come reliquia d’un dio.

Siracusa, 1950.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

lL’ILLUMINISMO

L’Illuminismo

 


La vita culturale del XVIII secolo fu dominata da un grandioso movimento intellettuale che, in omaggio al ruolo rischiaratore assegnato alla ragione, è stato chiamato “Illuminismo”.
In questo variegato e complesso fenomeno culturale convergono posizioni e orientamenti molto diversi, ma è possibile individuare alcune caratteristiche comuni. Tra queste, innanzitutto, il modo di considerare la ragione, strumento che appartiene a tutti gli uomini indistintamente, in grado di vagliare criticamente la realtà, con il proposito concreto di assicurare la felicità e il benessere degli uomini.
L’Illuminismo fu un fenomeno essenzialmente laico che, in un periodo di discriminazioni religiose, si schierò in favore della tolleranza, cioè della possibilità per chiunque di professare liberamente la propria fede. In prima fila, in questa battaglia fu il francese Voltaire, la cui idea di tolleranza era un diretto corollario dell’idea illuminista di religione naturale contro l’oscurantismo delle verità rilevate. In politica fu sostenitore dell’assolutismo illuminato, al contrario di Montesquieu il quale sosteneva che il potere del monarca dovesse essere limitato da leggi e organismi costituzionali: di qui la fondamentale teoria della divisione dei poteri, ripresa da Locke.
Quest’ultimo ha esposto la sua famosa teoria sulla Legge di natura affermando l’esistenza di diritti naturali, quali la vita, la libertà e la proprietà, considerando lo Stato un’istituzione umana. In tal modo la sovranità dello Stato veniva fondata sulla volontà dei cittadini e sul loro consenso, ammettendo come pienamente legittima l’opposizione ad un potere che violasse questi diritti, come anche affermava Jefferson.
In una posizione a sé va collocato Rousseau, per la sua critica alla società vista come una continua sopraffazione del forte sul debole, del ricco sul povero, iniziata con l’istituzione della proprietà privata.
Tutti i paesi europei parteciparono, in maggiore o minor misura, al movimento illuminista ed un solo tratto accomunò intellettuali, riformatori e pubblico colto: la convinzione di essere tutti partecipi di una grande opera di rinnovamento che non conosceva confini nazionali.

1

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

VEDOVE E FIGLI DI…LETTI DIVERSI LA MASSONERIA            GIUDICATA IN PERIFERIA

VEDOVE E FIGLI DI…LETTI DIVERSI LA MASSONERIA            GIUDICATA IN PERIFERIA

di Carlo Boccadifuoco

VERSO IL SOLE

Introduzione

Questo scritto non vuole moraleggiare indicando costumi. Non ha velleità di ricercare colpe da addossare. Una sola mira è presente, quella di denunciare il profondo malessere, per pudore e convenienza sempre taciuto, che in Massoneria ubiquitariamente si respira.

Da tanto una domanda sorge spontanea: “ dov’è la nostra età dell’oro!”

l malessere c’è, serpeggia, disgrega, acuisce e appiattisce.

Nelle periferie, dove ovattato giunge il mercimonio delle capitoline manovre, i Fratelli avvertono profonda la solitudine e l’assenza di programmi. E’ qui che il Maestro Venerabile perde Fratelli, a volte incolpevole agnello, per l’immobilismo che regna sovrano. Improvviso poi giunge un clangore assordante, scoppia la lite nell’Obbedienza che ora respira storcendosi, desta dal lungo “riposo”. Ora, ruffiani di turno, strateghi mancati, per mendicare un grembiale splendente, si mettono all’opra, maggiormente lordando i loro già miseri guanti mai stati bianchi.

A pochi massoni importa conoscere l’Arte. Raramente qualcuno s’adopra per approfondire l’Iniziazione. Nessuno, solo e pensoso, dopo i primi entusiasmi medita Rituali e Statuti per progredire la costruzione del Tempio.

L’eggregore, mai nato, è morto prima di essere.

E’ questa l’amara realtà che non confessiamo. Non vogliamo essere nemmeno coscienti della nostra pochezza, del nostro “niente”. Solo dibattiamo tra noi reboanti parole che ancor più costruiscono “prigioni alla virtù e innalzano templi al vizio”.

A tale sì nobile schiatta, non può arridere la Nike alata di Samotracia. Ipocriti con noi stessi, non fidiamo nell’umiltà del distruggerci, unica via per la rinascita. L’araba fenice ed il pellicano che “allatta” lagrime di sangue, sono simbolismi avvizziti.

Un suggerimento, allora, per noi tutti deve essere valido:

“Non facciamo della tolleranza la virtù soverchiante ogni cosa. Essa è intolleranza quando applicata ad oltranza. Parimenti, non usiamo la violenza sottile, ricordiamoci sempre che la forza è il primo ed unico rifugio degli imbecilli.”

Estote cauti sicut serpens, sed candidae columbae.

La ragione naturalmente antidogmatica della Massoneria, quella che spaventa le altrui coscienze, ci determina ad una sola condotta, proporre ai profani il nostro credo meritocratico, rammentando che la morale non è esclusivo appannaggio dei monsignori di turno.

Solo un’opinione vogliamo indicare a chi vorrà opporre, al nostro scrivere, le necessità di una superiore politica massonica: “Gravitare in un’orbita è solo opportunità; salire sul carro dei vincitori, del passato conflitto mondiale, è solo opportunità. La Massoneria non è exoterismo ad oltranza, la sua forza non sta in questo. La Massoneria è introspezione, è costruzione interiore, è sapienza Esoterica.  Giocare ai massoni producendo massonismi è sterile ricerca di “vili metalli” che deve rimanere fuori delle nostre porte.”

I “soffiatori” restano tali.

 

 

INCONTRI

Michelangelo: “Creazione di Adamo” (particolare). Disegno liberamente interpretato.

 

***

RIFONDIAMOCI!

CONSIDERAZIONI GENERALI

Virtù e vizi, esaltazioni e fanatismi, magnificenze e povertà morali, sono il mosaico del pavimento a scacchi su cui le vicende sociali hanno condotto l’odierna umanità ad una profonda crisi esistenziale. Essa si evidenzia, in questo nostro tempo di travagli, tra una sinistra arrogante e litigiosa, e una destra non certo sociale ma liberal capitalista, che non si defila. Un nuovo ordine emerge “Globalizzazione”.

Solo nel prosieguo la “conoscenza-coscienza” si accorge che il nostro cioccolato, il gelato artigianale, il grana padano, la ricotta, l’olio d’oliva e…. sono malamente copiati, mentre soggiacciamo ad imperativi economici ora ineluttabili.

Intanto i nuovi santi, ecumenisti del liberal capitalismo, indicano all’Uomo una via dove sempre meno egli interpreta se stesso e sempre più è servo nella condizione di pedina, di una nuova tecnologica gleba.

In questo dilagante e imperante malessere, anche le regole della più becera morale sono invalidate. Il nuovo motto, il motto di questi “unti” del credo consumistico è: “Unico fine il lucro.”

Siamo tornati all’epoca dei principi mercanti tra cui s’aggirano nuove baronie senza blasone e tradizioni. Razza arrivista di “banchieri, pizzicagnoli, notai dai ventri obesi, dai cuori a forma di salvadanai”, che nella loro follia, agiscono spinti dalla volontà di possesso del denaro.

In questo dilagante marasma, la “Vedova”, madre assai cara per pochi tra i pochi, che certo ha goduto, in passato, momenti d’alto carisma e levatura morale, mostra l’esausto fianco, mentre il prossimo futuro, sfoggia turbinosi aeri all’orizzonte.

Intanto i suoi figli di…letti diversi, armata brancaleone d’orpelli brillanti trapunta, trascinando il logoro antico glorioso vessillo, si pascono tra appetiti sottaciuti e rituali scherniti.

L’alchemico motto, V.I.T.R.I.O.L.U.M. con cui spesso ci forbiamo la bocca, che male traduciamo e certo non capiamo, non dimostra tra noi, cultori mancati di qualsiasi Opera, d’avere diritto d’ospitalità.

Mentre giovane incede il terzo millennio, da molti esperti esoteristi indicato quale panacea agli antichi e sempre nuovi malanni, si esibiscono, nel panorama della Massoneria italiana, settanta e più gruppi diversi, a volte tra loro sedicenti amichevoli parenti, ma, più sovente, gli uni contro gli altri armati.

S’innalza allora, dalla pugna che sorge, la voce dei moderni “iniziati”, dei bene informati, simile a strumenti stonati. Sorniona suggerisce che non v’è angoscia per questo “fisiologico” interno massacro, anzi adducono gli stessi, “quaestio pietosa”, che in questo consueto stato di cose si perpetua la maledizione di Hiram.

Ciò che però più crea sconforto, adombrato, dall’interpretazione fallace del mito del Maestro assassinato, è che si nascondono, nelle Logge, i meschini rancori e le invidie di fratelli cruenti contro fratelli, misere beghe da baruffe chiozzotte.

Bisogna allora asserire che, s’è vero che chi ci perseguita è la maledizione di Hiram il Maestro, non merita egli d’essere ricordato perché vendicativo, battagliero e cattivo. Sono queste le stesse qualità già attribuite a quel dio che, portato in battaglia nell’arca dell’alleanza, pretende l’uccisione d’ogni pugnace nemico e, summa iniuria, del prigioniero sull’ara [1].

Squallida difesa!

Forse che la filogenesi che opera per ogni specie animale, cum magna sollertia iudicandi, affinché impari dall’esperienza, ed a volte ciò avviene anche per l’uomo, non agisce solo sul massone che mostra d’essere proprio un grosso insulso masso…ne!

Si potrebbe anche pensare che ai moderni Liberi Muratori non bastino le lotte che istituzioni secolari e religiose diverse hanno, contro la Vedova, promosso!

Simile malessere purtroppo è vissuto anche in altre fondazioni esoteriche ma, mal comune, non è mezzo gaudio.

Ordini cavallereschi, Riti simbolici e Istituzioni si squassano… mentre tre Gran Maestri, pubblico ludibrio, si accapigliano in R.A.I. alla presenza del vescovo d’Ivrea monsignor Bettazzi.

E’ necessario allora giustamente ritenere che la Massoneria, che si autodefinisce istituzione meritocratica, patisce di male oscuro che la distoglie dalle opportune indicazioni dei landmarks.

E’ conveniente ora ricordarci che la Massoneria moderna, quella che lascia i panni dei muratori e degli scalpellini, vestendo quelli del notaio, del borghese e del… vinaio, nasce per la necessità di sedare annose lotte fratricide nell’Albione medievale [2], in cui l’anglicano e il puritano cercano il riscatto contro il nemico cattolico.

Il primevo compito, presto però finisce e le nazioni si compattano sotto l’egida di un governo sovrano. Gli stranieri, qui e là, sono cacciati ed il cattolico è confinato. L’enfasi della bramata ed ottenuta vittoria rivendica ora nuovi ideali esoterici e mitiche discendenze misteriosofiche.

Forse con intenzione si dimenticano in polverosi meandri le bolle del XV secolo scozzese in cui si dichiara che la Loggia “S. Paolo di Scozia” si riunisce “Sotto gli Auspici della Santa Madre Chiesa”.

Ecco allora, in quest’interpretazione dei fatti, che l’avvenuto superamento del cattolicesimo esige l’avvento di una nuova ritualità, che però possieda antica tradizione. E’ così che l’ebraismo [3] compie il suo ingresso tra le braccia della Vedova che soffre o meglio che s’offre! S’immettono però tra i nuovi rituali, accanto alla Bibbia anche i Vangeli; sembra di sentir dire “non ti amo, però non facciamoci la guerra”.

Le minoranze sono così apparentemente tutelate dal “summa lex summa iniuria.”

Nell’onda del rinnovamento, in Francia, s’inventano “Cavalieri Kadosch e del Serpente di Bronzo, Principi Rosa Croce e Maestri Segreti, Cavalieri del Santo Sepolcro e ….” Inutili patacche, nate per gli imbecilli, che non si sposano con la novella serpeggiante filosofia del borghese. Presto l’avvento della macchina a vapore e del telaio spingerà la sinistra Hegeliana alla formulazione delle dottrine marxiste.

Alea iacta est!

La società di profitto è fondata con concetto moderno, la s.p.a. è nata, mentre il mostro, che diverrà l’holding multinazionale, fa capolino tra le brume incerte di un fosco futuro.

Non dimentichiamo però, come già enunciato, che le lotte intestine non avvengono solo tra gruppi diversi, all’indice della legittimità e regolarità massonica.

La rissa che regna sovrana e continua, tra Gran Maestri che dicono: “Io….”, si mostra cruciale nelle Logge, per la produzione dei disastri che hanno definito “fisiologici”. Nello sfascio totale si deve ricordare che la mancanza d’obiettivi e, l’assenza d’assunzione di rigore esoterico da parte del gruppo cui si partecipa, ha responsabilità enormi per l’ozio e l’inedia in cui si soggiace nei lavori di Loggia.

In neuropsichiatria infantile si parla di “sindrome abbandonica” e di “mancata introiezione”, quest’ultima non perché le Logge siano incapaci di compiere questa fase, bensì perché non c’è nulla da introiettare.

Ben sa il Maestro Venerabile come difficile è creare e rispettare un organigramma di lavori, pochi hanno interesse per l’esoterismo, non tutti hanno una preparazione filosofica adeguata.

E poi confessiamolo, non esiste una filosofia massonica tipica di cui cibarsi; anche il credo del Grande Geometra dell’Universo è epidermico e, purtroppo, le oscure e profonde prigioni al vizio non sono mai state scavate!

Kant è stato dimenticato da noi massoni moderni; torniamo discenti, rileggiamo la sua morale e la critica alla ragion pura.

Sembra proprio che la Massoneria sia la peggiore nemica di se stessa comportandosi, così come fa, all’opposto di quanto asserisce nei suoi antichi scritti.

Non è difficile subito accorgersi, per chi nuovo venuto, che i figli delle vedove non sono filantropi esoteristi. Il ricco capitalista iniziato ha mire diverse dalla pratica della beneficenza occulta. E’, infatti, più facile che la compia pubblicamente perché l’offerta è deducibile dall’imponibile o perché ciò gli permette l’acquisto d’immagine che può tradursi in voti elettorali. Il professore associato, spera invece che, dal mutuo soccorso appaia chi lo sollevi e spinga alla titolarità dell’agognata cattedra. Altri, volti anonimi, sono portatori di ben diversi vezzi.

Pochi, anzi meno ancora, credono nella magnificenza dei Rituali e all’Istituzione come “religo” naturale che innalza l’uomo sopra le stoltezze della sua miseria.  Lucifero, il “Luci Fer” condannato da chi con interesse ha brigato, è anch’egli senza dignità in Massoneria.

Insomma, mentre un luogo comune interno alle Logge, derivante dai soliti bene informati, recita che i massoni sono il sale della terra, è immediato accorgersi che tutto è improvvisato, tutto è precario in sintonia con il vecchio adagio “il pesce……”

Ed ecco proprio da lì, ex abrupto, ora giungono tavole. Il Gran Maestro ha partorito, emana direttive, ma solo in materia d’appannaggi che ritardano. Anzi, è d’obbligo affermare che i Gran Maestri hanno anche il malvezzo di chiedere alla base e, non per democrazia, cosa inventarsi per sentirsi vivi.

Sembra che la base, oltre che sopportare i pesi massonici, debba pagare un prezzo morale per avere l’onore di fornire idee al capo.

Così il novello Narciso può bighellonare tra un convivio ed il successivo, tra un uzzai gridato forte e un pensato “l’avemo de novo fregati”.

“Tutto va bene madama la marchesa, però la vigna non è più nostra, il palazzo è in rovina, i creditori ci rincorrono e….”

Tra gli altri un Gran Maestro che lasciò frettolosamente il G.O.I. per fondare un’altra “fabbrichetta”, dove a dispetto degli Statuti Generali dell’ordine ha detenuto il maglietto continuativamente dal 1993 a pochi mesi or sono, ha talmente poco sentimento massonico da non sapere cernere il loglio dal grano. Pari, al desiderio di protagonismo, sono però le capacità di spese di rappresentanza.

Tutta l’immoralità e disonestà raccontate sono possibili, in ogni obbedienza, perché la Vedova non ha un collegio di revisori dei conti che pubblicamente e sotto l’egida del C. P. ne dichiarano le rendite.

Qualcuno obietterà, ma l’Istituzione non è un’associazione sportiva o culturale, non è una s.p.a., non è un…, già pensandoci bene essa non è niente, in ciò la sua immoralità.

La Vedova che s’offre, è solo un coacervo d’individui che cause, concause ed occasioni, triade che spesso conduce al reato, hanno messo insieme all’indice del più generico dei “volemose bene” o se preferite del siciliano “futti futti c’a Diu pidduna tutti” (froda se vuoi e se sai, ma non ti fare scoprire).

Molti si sono chiesti chi e perché ha interesse che l’Istituzione rimanga non riconosciuta dallo Stato, ciò, nonostante i nobili ideali espressi nelle antiche carte.

Perché questo mostro che sforna denaro che in gran parte auto fagocita non decolla, a quali interessi politici è asservito? Ripensando con Fratelli al tempo di qualche anno fa, rileggendo la stampa guardandoci in faccia pensiamo: “Possibile che siamo fessi? Perché non capiamo che ci prendono per il… naso?”

Gli scismi, in quest’istituzione d’uomini a mezzo servizio, sono da tempo moneta spicciola, ma chi alita sul fuoco, chi vuole che restiamo ignorati, perché questa triste situazione accade solo nel nostro Paese?

I litigi da cortile continuano sovrani; le elevazioni di grado sono merci di scambio, tutto è calpestato e deriso.

In ogni gruppo, per sparuto che sia, presto la Vedova ha meno figli e, summa iniuria, sono sempre i migliori che se ne vanno.

Si, ammettiamolo, esistono più veri massoni fuori dell’Istituzione che all’interno della sua cerchia!

Possiamo tornare a sostenere, debole discolpa, che il disagio della Massoneria è comune a quello sociale, in ciò facendo nostro un ermetismo alchemico che afferma essere il micro specchio del macro che vi si rispecchia.

Intanto la Vedova dolente segue il feretro del defunto marito, sempre più sola e disperata nell’uggioso cammino. L’eletta progenie dei suoi già nobili figli è sempre maggiormente sparuta, meno dotata e più ridanciana essendo distante dalla bara che incede solenne, nascosta tra le brume del tempo.

E’ anche possibile affermare, orribile attenuante, che la Massoneria si comporta come un partito politico povero, rigonfio di fame di potere che non ha e che, solo nascostamente e iniquamente, ricerca.

Non per questo però i figli della Vedova sono gli unici ideatori d’ogni male della nostra Nazione.

Proprio quei partiti politici che ipocritamente la condannano e ne fanno un capro espiatorio delle loro malefatte, ad essa a piene mani nascostamente vogliono attingere, specie nel momento elettorale.

La Libera Muratoria è un’associazione senza fini di lucro ma, il gettito di euro che crea è ingente. Dove finisce il fiume di denaro, certi gruppi hanno acquistato anche sedi prestigiose mentre, stranamente, tutte le vedove convergono a Roma.

Certo è qui che il meretricio politico ha eletto la sua sede di favore, qui, la sofferente Vedova s’offre.

Qui, la “filiale” di prestigio con segreteria e arredo superbo, maggiordomo [4] e segretario, dà al G. M. l’illusione d’essere qualcuno, e forse lo è, almeno per i gonzi che lo sovvenzionano con i propri quattrini.

Certo è interessante poter conoscere gli intestatari dei beni acquistati, molti nutrono dubbi che si tratti di multiproprietà.

Gli specchi per le allodole brillano nella capitale, dove tronfi G. M. si ammantano dei panni del dì della festa e con voce stentorea proclamano d’essere gli unici, veri e soli, puri e integerrimi detentori della chiave spezzata.

Nuovi avvoltoi calano sulla preda occhieggiante che si presenta pasciuta. L’ingresso è semplice, i pesi massonici non sono gravosi commisurati all’interesse privato che è tanto. I comparati avvengono, anche illustri, illustri? Uomini di partito entrano nelle Logge dove anche la criminalità ha fatto il suo ingresso.

I servizi segreti, disperati, inviano rapporti, la magistratura indaga, ma tutto continua come sempre. Sembra che a toccare certi lerciumi, oltre che sporcarsi si può essere radiati dai propri ruoli.

Certo i politici nascostamente vicini alla Massoneria, curano che quest’istituzione rimanga misconosciuta dallo Stato, vogliono che sia “no profit”, solo in questo modo essa è un tornaconto preciso per la partitocrazia ché, se tutto dovesse andare male, torneranno ad accusarla delle più turpi mostruosità.

La verità di quanto asserito si può rileggere nei fatti Sindona e Calvi o nello scandalo I.O.R…e in quelli che dimostrano come la magistratura si adopri per arrestare la puzza di carogna che emerge da certi ambienti.

E’ però ora necessario fare una precisa separazione tra le lordure avvenute ed il genuino valore etico della concezione massonica.

E’ innegabile che solo in Massoneria si possano svolgere discorsi sul simbolismo e sulla ritualità, sull’exoterismo e sull’esoterismo ma, purtroppo, in questi temi molti confondono il mezzo con il fine.

Il cammino iniziatico che quest’Istituzione offre, a chi sa comprenderlo, è luce che schiude una conoscenza ai più preclusa.

La forza della Massoneria è nel progresso del cammino iniziatico che conduce, come avvenne a Jonathan Livingston, alla conquista della gran volta, al volo di precisione, alla libertà interiore in un tutt’uno con l’idea del Grande Architetto.

Abbiamo credenza però che questo dio trascendente e immanente, in cui i massoni dicono di confidare e si configurano, si è rammaricato di avere creato l’uomo Libero Muratore. Forse oggi, memore di quel senno che trabocca dal poi, preferirebbe continuare a pensare a se stesso pensante.

Dove sono i Jonathan, i Sullivan, i Ciang, forse non dimorano più qui. Le lotte fratricide li hanno cacciati.

Povera Massoneria che proprio da se stessa deve difendersi come dal peggior nemico. Povera Massoneria sfruttata e vilipesa dai politicanti che non più solo di notte tramano per conquistare sempre maggiore influenza.

Le nuove baronie già sono sorte, gli antichi casati coi nuovi si sono scambiati, mentre un popolo stanco non solleva la testa al novo crescente romor.

Confidiamo però che fremere di sdegno non sia solo uno sport per ricchi.

CANZONETTA

(è riportata solo l’ultima parte)

Recitata in Napoli nel dì 21 gennaio 1750. Assisteva ai lavori, tra gli altri, proveniente dall’Inghilterra, il F… THOLVACH. La visita avvenne in occasione del travaglio della Loggia denominata “Della Concordia” all’obbedienza del F… Raimondo di Sangro, Principe di S. Severo, primo Gran Maestro in Italia.

…… LA CATENA

Su compagni, su Maestri

Di quest’Ordine sublime

Facciam pur con nostre rime,

Che ciascun di noi s’addestri

Al tirar colpi novelli

In onore dei fratelli.

Sono tutti curiosi

Di saper nostri lavori;

Ma farem dei nostri cuori,

I segreti così ascosi,

Che n’eppur sia noto a quelli

Come bevono i Fratelli.

Quei che vantan nostri segni

Stolti son qual Uom che crede

Di saper ciò che non vede,

E mai pur saremo degni

Noverarci tra di quelli

Senza il titol di Fratelli.

Ma la nostra scienza tutta

Sull’amore e l’equitate,

Sull’aver d’altri pietate,

Sul far bene è sol costrutta.

Né mai fuori di tai livelli

Va la norma dei Fratelli.

Ogni etade ed ogni suolo

Visti ha prenci e Regj a schiere,

Cambiar l’armi lor guerriere

Per un semplice grembiuolo,

E vestirlo e farsi belli

Del gran nome di Fratelli.

Se tra noi luogo non hanno

Le tue Ninfe, Amor, perdona;

Ch’ove il tuo nome risuona,

Tutto è colpa e tutto è inganno,

Né tener san donne imbelli

Il segreto dei Fratelli.

CORO

Via, stringiamci mano a mano,

E teniamci saldi insieme,

A dispetto di chi freme,

Per tal nodo almo e sovrano,

E così si rinnovelli

Quest’unione de Fratelli.

Chi scrive è stato iniziato nell’ormai, ahimè lontano, martedì sette Gennaio 1969. Ha ricoperto diversi incarichi nel R…S…A…A… nella C. M. I. e nell’Emulation e, anche se la memoria non è più la migliore, ricorda con drammatica vivacità le vicissitudini vissute nell’Obbedienza.

A te Lettore addentro alle iniziatiche cose formulo il migliore augurio di una lunga e felice vita massonica. A te Viandante curioso dico non condannarci, siamo pur sempre figli, forse vittime di questo mondo.

A Noi voglio ricordare che siamo una banda di stanchi ed oscuri eroi, in un tempo che eroi non vuole. Abbiamo però un compito sovrano, trasmettere l’INIZIAZIONE a chi da noi discenderà.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

IL SEGRETO CARBONARO

Il Segreto Carbonaro

Torna all’Indice


La Carboneria adoperò ogni cura per mantenere i suoi segreti. Per le caratteristiche che assunse la Società in Italia, il segreto da “iniziatico” diventò ben presto “settario” (come dire: “politico”). Lo stesso modello organizzativo della Carboneria – gerarchico verticale senza comunicazione orizontale – doveva favorirne la sicurezza contro nemici esterni ed interni.
Il “segreto” non resse, e non poteva reggere dal momento che la Carboneria proponeva se stessa come organizzazione “di massa”, ambito di raccolta di correnti politiche e ceti sociali diversi.
Benché le cifre che si fecero dopo i moti del ’21 fossero del tutto esagerate (si parlò di oltre 600.000 affiliati nel solo Regno delle Due Sicilie) la diffusione delle Vendite sul territorio fu assai più ramificata di quanto non sia mai stata quella delle Logge.
E benché gli Statuti auspicassero Vendite scarsamente numerose (da 5 a 20 iscritti al massimo), alla Carboneria si aderiva a famiglie intere. Non erano pochi quelli che portavano fieramente sui vestiti i tre nastri con la scheggia… e la repressione ebbe buon gioco ad abbattersi su di loro.
A proposito di segreto… Carboneria.org NON è una associazione, ma un sito web personale il cui curatore raccoglie e coordina il lavoro suo e di altri, senza che questo implichi alcun legame formale fra loro. Il nome (e l’indirizzo, e il numero di telefono…) del curatore sono facilissimamente individuabili per chi abbia un minimo di curiosità – e in effetti, sono pubblicamente registrati…- Non è dunque per un’esigenza di “segretezza” che non sono spiattellati in cima alla home page, ma piuttosto per un costume di riserbo che dopo due o tre lustri di lavoro in Loggia per il Cugin Delfaggio è diventato una esigenza.

All’avvantaggio!
Salute e Fratellanza!

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

PRIMA TAVOLA DEL M .’.  V .’. SUL TEMA DEL VIAGGIO

 

PRIMA TAVOLA DEL M T  V T

SUL TEMA DEL VIAGGIO

 

Il viaggio circolare e il viaggio rettilineo

 

di A.R.; lavoro presentato in Loggia il 19 Novembre 2001

«Impariamo a pensare come Leonardo: usare l’immaginazione, stravolgere le regole»
David Perkins

«Siamo tutti cercatori d’oro, smarriti in un deserto dove le vie che conducono al successo sono poche e sepolte nella sabbia, bloccate da condizionamenti mentali che ci impediscono di cogliere un suggerimento anche quando l’abbiamo sotto gli occhi, attratti iresistibilmente da oasi che ci accontentano a metà ma sembrano tanto meglio del vuoto che le circonda. In questa situazione la virtù migliore è il coraggio, con tutti i suoi rischi; la strada di quanti hanno scoperto le pepite è cosparsa di scheletri, quella che ci ha portato al volo dei fratelli Wright o alla relatività di Einstein è costellata di brutte figure e tragici incidenti»

Ermanno Bencivegna

 

Perché Claudio Magris ha scelto “Itaca e oltre”, che ci parla dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, metaforica odissea dello spirito umano, come titolo fra i tanti possibili?
Magris stesso ha risposto a questa domanda: «Perché il tema centrale è questo: se il viaggio della vita, e quindi anche della letteratura e della poesia, possa essere inteso nel senso classico del restare fedeli a se stessi. Oppure se questo viaggio dimostra l’impossibilità della sosta, il continuo mutare, la perdità dell’identità, il diventare un altro. Il viaggio circolare contrapposto al viaggio rettilineo.» È l’ulissiaco viaggio circolare inteso come metafora della vita, come odissea con il ritorno, come fedeltà alla propria identità e al proprio senso del divenire contrapposto al viaggio rettilineo nel quale il soggetto non torna a casa e a se stesso ma disperde e dissolve la propria identità in un musiliano “delirio di molti”.

L’odissea del nostro tempo è un’odissea senza Itaca, una nuova odissea senza ritorno.
Itaca si configura in questo viaggio dell’essere, non come luogo reale e concreto, ma come nòstos – ritorno, come ritrovamento di sé da parte dell’individuo dopo la sua odissea in cui è divenuto più intensamente se stesso, maturato ed arricchito, attraverso la molteplicità delle esperienze che ha vissuto e di tutto ciò che ha incontrato e reso consustanziale. Itaca non è che un miraggio, una sorta di Fata Morgana, una illusione dell’immaginazione, è un sentimento luminoso, è un luogo dell’anima, è una mera idealità in quanto si definisce nella forma di puro oggetto intenzionale dela coscienz, è una consapevolezza della propria unità e identità di soggetto cosciente.

L’oltre Itaca che cosa significa? Indubbiamente vi è un’allusione al riaffacciarsi dell’avventura, all’odissea che inizia di nuovo senza una rotta definita, senza una direzione precisa. L’aldilà di Itaca sembra essere una cifra da decrittare nelle sue implicazioni problematiche. Dobbiamo intendere l’oltre Itaca come un’ulteriore ricerca, o – fuori allegoria – come un impegno etico da perseguire, o come una tensione unitaria che dia ala e senso alla vita, o come conquista della totalità intesa come ricerca di assoluto?
Il punto nodale della questione – come sostiene Magris – è se fondersi oppure no su qualcosa di assoluto, anche là dove l’assoluto è sentito come opera dell’uomo. Tutto questo è strettamente connesso al modo con cui si concepisce l’individuo: se cioè egli debba essere un’unità anche in mezzo a infinite spinte centrifughe, oppure se l’io debba sentirsi potenziato dal rifiuto dell’unità, e quindi del fondamento che costituisce quell’unità.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

 

RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

Di recente un Fratello mi ha fatto questa affermazione:

 

<<C’è una logica nelle cose o siamo noi a dare una logica alle cose?. La prima è mal posta infatti anche se così fosse essendo noi stesse cose “relative” non potremmo “assolutamente” affermarlo; la seconda si offre gradita allo scopo che si persegue nel contatto duale azione-informazione.>>

 

Il mio contributo è stato il seguente:

 

 

<<Io credo nel G.’.A.’.D.’.U.’., questo dovrebbe di per sé già darti la risposta a tutto, e’ l’Ente Supremo che informa della sua sottile energia inconoscibile, il tutto. Nel corso dell’ininterrotta catena del tempo l’uomo ha poi inventato o descritto, se preferisci, una serie di sub categorie delle energie attraverso delle sub categorie linguistiche. Sono fermamente ed intimamente convinto che si debbano utilizzare gli strumenti della conoscenza intuitiva, che per sua stessa natura è “individuo specifica” e pertanto incomunicabile al 100%.>>

 

Questo ha, pare, soddisfatto il carissimo Fratello, ma dall’altro lato mi ha spinto a riflettere di più sul senso delle cose che di logica parlano. Il tutto ovviamente alla luce della incomunicabilità insita nei limiti della linguistica quando tali argomenti tratta.

 

La mia affermazione istintiva copiava il merito delle prime parole del vangelo di San Giovanni “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui”.

 

In greco antico la parola “verbo” è l o g o s (logos); è facile capire che la nostra parola “logica” trova la sua radice in logos, pertanto se ammettiamo che un Ente Supremo sia il creatore / demiurgo di tutte le cose, è automatico che in tutte le cose troveremo una parte del logos, e quindi che tutte le cose sono dotate di logica.

 

 

Il ricercatore, in ogni campo, nella ricerca dei sottili fili che uniscono gli eventi, che formano il divenire, ottiene risultati solo quando è in grado di intravedere e seguire quel logos (o logica) che discende dall’Ente Supremo, sarà pertanto in grado da qualunque punto di partenza, ricerca biomedica, matematica, fisica, filosofica, di raggiungere la Verità finale.

 

Non credo che tale percorso sia semplice, qualcuno lo ha definito la via dolorosa, ma credo che tantissimi siano quelli che, una volta intrapreso, ce la fanno ad arrivare sino in fondo; quello che si trova in fondo a tale percorso “logico” è per sua stessa natura incomunicabile, in quanto facente parte della costituzione del ricercatore stesso e della strada che individualmente ha intrapreso e seguito.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

ENEA PRESENTA IL RAMO D’ORO, ENEIDE, CODEX VATICANUS,

 

ENEA PRESENTA IL RAMO D’ORO,

ENEIDE, CODEX VATICANUS,

 

Renderò il deserto un lago d’acqua

e la terra arida una fontana.

Nel deserto pianterò il cedro, l’acacia,

il mirto e  l’olivo selvatico…

Isaia, 41, 18-19

 

Pochi archetipi hanno esercitato nel tempo un fascino così profondo e fecondo come quello dell’ Albero, il cui simbolismo è diffuso virtualmente in ogni cultura umana. Pur se la trattazione esaustiva del suo significato esoterico e dei suoi innumerevoli miti va ben oltre le possibilità di questa tavola, merita di essere ricordato che l’albero, come l’uomo stesso, è dotato di una duplice natura, terrena e celeste, e simboleggia quell’ asse del mondo ponte fra il mondo della materia e quello dello spirito, cui sono riconosciuti significati e poteri immensi di conoscenza e di vita. Come “arbor vitae” o “arbor philosophica” spesso viene rappresentato capovolto, con le fronde in basso e le radici in alto, a significare il processo della creazione che – a partire dallo spirito – si manifesta nei multiformi aspetti del mondo sensibile. Uno dei più antichi esempi di albero rovesciato è quello descritto nelle Upanishad: “Questo universo è un albero che esiste eternamente, con le radici in alto e i rami che si estendono in basso. La pura radice dell’albero è Brahman, l’immortale, in cui i tre mondi (cioè il cielo, la terra e gli inferi) hanno il loro essere, che nessuno può trascendere, che è veramente il sé”. Metafisicamente l’Albero rappresenta la forza universale, che si dispiega nella manifestazione come l’energia della pianta dalle radici invisibili si dispiega nel tronco, nei rami, nel fogliame e nei frutti. All’ Albero, con alto grado di uniformità, si associano idee di immortalità e di conoscenza sovrannaturale da una parte, di tentazione e di forze mortali e distruttrici (serpi, demoni o draghi) dall’altra. In questa sede ci occuperemo soltanto del carattere “immortalante” dell’albero, carattere che come vedremo passa per analogia a sue singole componenti (rami, frutti…), che diventano quasi simbolo del simbolo.

Già le Tradizioni più antiche testimoniano di una “bevanda di immortalità” che stilla dall’albero come “soma” o “amrta” nel mondo vedico, come “haoma” nelle antiche culture iraniche e soprattutto nella Qabbalah, ove al grande e possente “Albero di Vita” è connessa una “rugiada” per virtù della quale si produce la resurrezione dei morti. Altre volte sono i frutti dell’albero a promettere l’immortalità, come nel caso delle mele del Giardino delle Esperidi o dell’Albero della Vita biblico. Infine, ancora più spesso, sono i rami che appaiono come pegno di resurrezione ed immortalità: il mirto dei misteri eleusini, il “ramo d’oro” di Enea, l’ulivo e le palme della tradizione cristiana e più in generale i rami di alberi sempre verdi o che producono fiori gialli od olii usati nelle lampade, segno evidente della loro natura ignea e solare…

Lo studio di questi antichissimi simboli rivela importanti e ricorrenti analogie. Consideriamo ad esempio il vischio: questa pianta parassita che sottrae acqua e sostanze minerali alle altre piante era ritenuta dagli Antichi una pianta del regno intermedio (né albero né cespuglio) e secondo la leggenda nasceva dove il fulmine aveva colpito un albero. Per la sua natura sempreverde il vischio era considerato una panacea, nonché simbolo di immortalità. Particolarmente apprezzati nell’antica Roma e presso i druidi celtici, erano i ramoscelli di vischio che crescevano sulle querce. Secondo Ranke-Graves, essi erano considerati gli organi sessuali della quercia, così che quando i druidi li tagliavano con un falcetto d’oro a scopi rituali, attuavano una vera e propria castrazione simbolica. Il denso succo delle loro bacche rappresentava così lo sperma (che in greco significa “seme”) della quercia ed era considerato un liquido con grandi doti ringiovanenti. Plinio afferma che i druidi tagliavano i rami di vischio con falcetti d’oro, li raccoglievano in un panno bianco e li offrivano poi agli Dei insieme al sacrificio di due tori bianchi. Le tradizioni di tutto il mondo antico raccomandavano infatti l’uso delle mani nude o di strumenti d’oro nella raccolta delle erbe medicinali particolarmente preziose, allo scopo di preservarne la forza. Ecco ad esempio come la Sibilla descrive ad Enea, desideroso di ritrovare nell’Averno il padre Anchise, proprietà e modalità di raccolta del ramo d’oro:

 

…Poiché se tanto amore e così grande desiderio si trova nel tuo animo di solcare due volte la palude Stigia e vedere due volte il nero Tartaro e ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro…

 

e ancora:

 

…Pascendosi le colombe volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Quindi, quando giunsero all’ingresso del maleodorante Averno, veloci si levano in volo e discese per l’aria limpida, si posano nel luogo desiderato sull’albero dalla doppia natura (NdT: sia vegetale che aurea) da cui rifulse pei rami lo scintillio dell’oro. Come il vischio, che si riproduce su un albero, suole nel freddo invernale verdeggiare di fronda novella nei boschi, e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l’aspetto dell’oro frondoso sull’elce ombroso, così la sottile foglia d’oro tintinnava al vento leggero…

 

E’ proprio grazie al ramo d’oro, simbolo dell’albero della vita e analogo dell’aurea verga di Hermes, Enea può attraversare – da vivo – il regno dei morti nelle viscere della terra (“interiora terrae”), compiendo così il suo viaggio iniziatico di rigenerazione. Verde ed oro, simboli di vita e luce…

E veniamo dunque all’acacia, di cui si conoscono 1.200 specie. La botanica classifica l’acacia fra le leguminose della famiglia delle mimosacee, piante arboree o arbustive originarie dell’Australia o dell’Africa centrale. Le acacie in genere presentano foglie bipennate, spesso modificate per adattarsi alle temperature elevate e all’aridità delle regioni australi in cui crescono. Alcune specie recano brevi rami appiattiti simili a spine, detti fillodi, che contribuiscono a svolgere la funzione fotosintetica delle foglie. I semi commestibili, il legname pregiato e le gomme ricavabili da alcune varietà conferiscono al genere un grande valore commerciale. Sul piano esoterico, la natura sempreverde, la presenza di fiori gialli e sopratutto il legno duro e resistente fanno dell’acacia un simbolo del superamento della morte presso numerose culture antiche.

Secondo gli Egizi, gli Dei erano nati sotto l’acacia della dea Saosis, a nord di Heliopolis e lo stesso Horus era emerso da un albero di acacia. Leggende posteriori collegarono l’acacia non solo alla nascita, ma anche alla morte ed alla vita ultraterrena. Nel Libro dei Morti, alcuni bimbi divini accompagnavano il defunto al sacro albero di Acacia, parti del quale venivano battute e schiacciate dal morto: queste parti erano ritenute dotate di un magico potere curativo. Gli Arabi consideravano l’incorruttibile acacia una manifestazione di el-Huzza, Dea il cui nome significava “forte, possente” il di cui santuario si trovava nella valle di Nakhla ed era costituito da tre alberi di acacia arabica, in uno dei quali si manifestava la Dea.

Anche gli Ebrei attribuivano all’acacia un altissimo significato simbolico, tanto da farla entrare nella costituzione dell’Arca dell’Alleanza. Era questo il recipiente nel quale Israele aveva riposto le Tavole della Torah, dopo averle ricevute sul monte del Sinai; su di esse erano incisi i Dieci Comandamenti. L’Arca (si noti come questa parola di origine indoeuropea che indica il “custodire” è alla radice di “arcano”, cioè “esoterico, segreto”), fu trasportata per tutti i 40 anni di viaggio nel deserto, e accompagnò Israele durante i lunghi anni di conquista della Terra Promessa, fino a venire posta nel Tempio costruito dal Re Salomone. Si trattava di una cassa lunga due cubiti e mezzo (Esodo, 25, 10 sgg.; ogni cubito è circa mezzo metro), larga un cubito e mezzo, e alta un cubito e mezzo; veniva trasportata inserendo due lunghi pali negli appositi anelli, come illustrato dalla figura. Quando Israele si accampava, al centro dell’accampamento veniva eretto il Tabernacolo, e nel Santo dei Santi era riposta l’Arca. Questa era composta di due pezzi principali: un parallelepipedo inferiore e un coperchio che lo chiudeva, un chiaro riferimento alla terra e al cielo.

 

Il parallelepipedo inferiore era formato da tre distinte scatole. Le due esterne erano entrambe d’oro, mentre quella mediana era di legno d’acacia. Senza approfondire i numerosi significati di questa scelta, ci limiteremo a ricordare che lo strato di acacia separava le lamine d’oro come un isolante elettrico, onde permettere a ciascuna delle due di costituire uno schermo separato. Una doppia schermatura, insomma, in grado di isolare completamente la Torah dai campi energetici negativi, e di captare solo quelli positivi. I tre strati del recipiente inferiore alludono anche alle tre dimensioni spaziali cui si aggiunge la dimensione temporale (il coperchio costituito da un’unica lamina d’oro sovrastata dai Cherubini) e la “quintessenza”, rappresentata dalle Tavole della Torah.

E veniamo infine al mito di Hiram, cuore pulsante della simbolica massonica ed in particolare del 3° grado: per non aver voluto svelare la parola sacra ai tre cattivi compagni (simboleggianti l’ignoranza, il fanatismo e l’avidità), il saggio Architetto viene ucciso e sepolto sotto un ramo d’acacia. Lì viene trovato da uno dei nove Maestri inviati alla sua ricerca ed infine disseppellito da tre persone, il Maestro Venerabile e i due Sorveglianti; ogni tentativo di riportare in vita il cadavere fallisce finché il Maestro Venerabile invita i Sorveglianti, sconvolti perché ad Hiram si stacca la carne dalle ossa, ad unire i loro sforzi in una catena vivente e – grazie alle risorse dell’Arte – desta a nuova vita il Maestro assassinato. Non possono sfuggire le analogie fra questo mito ed i molti altri basati sul ciclo vita-morte-resurrezione. Fra tutti ricorderò nuovamente quello di Osiride, dio egizio della vegetazione, ucciso con l’inganno dal fratello Seth. L’illustrazione in alto, tratta dal testo ermetico Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) narra il dramma in tre tempi. In alto a sinistra Seth, coperto dall’arco, imbraccia ancora la spada sanguinante mentre ai suoi piedi giace Osiride smembrato. Accanto accorre Iside che rappresenta il secondo tempo del dramma: ritrova il fratello-marito e presumibilmente s’appresta a vendicarlo. Infine, in primo piano, la riesumazione di Osiride operata da tre personaggi, due soldati romani – evidentemente stupiti – ed un ineffabile sapiente orientale raffigurante, secondo il costume dell’epoca, Ermete Trismegisto. Superfluo sottolineare le analogie fra i soldati e il sapiente dell’illustrazione ed il Maestro Venerabile e i Sorveglianti del mito massonico. In effetti, secondo una ipotesi ben documentata, proprio questa illustrazione ermetica del mito d’Osiride sarebbe alle origini della leggenda di Hiram e dei tratti essenziali del rituale d’iniziazione al terzo grado.

Acacia, in greco acacia, significa esente da colpa, innocente, non nocente. Massonicamente si dirà che il Maestro “conosce l’Acacia” ed anche che si diviene Maestri passando da Squadra a Compasso attraverso l’Acacia, cioè che si diviene incorruttibili ed immortali “procedendo dalla rettitudine (Squadra) all’iniziativa “Compasso” passando per l’Acacia (innocenza)” 8. Simbolo fra i più importanti nell’Istituzione muratoria, l’acacia rappresenta l’iniziato che esce dalla bara di Osiride per trasformarsi in Horus; dell’Agnello di Dio (Cristo) che resuscita; dello stato di rigenerazione che ogni uomo dovrebbe raggiungere superando se stesso. Poiché l’ucciso sopravvive simbolicamente in ogni Maestro, il ramo di Acacia allude agli ideali massonici che sopravvivono alla morte. Gli annunci mortuari massonici vengono ornati con questo simbolo e ramoscelli di Acacia vengono deposti sulla tomba del Fratello defunto…

Secondo Osvald Wirth l’Acacia è emblema della sicurezza e della certezza, poiché la morte simbolica di Hiram, come quella di Osiride e di Cristo, non rappresenta il disfacimento dell’essere, ma una trasformazione che conduce alla Luce, che il colore giallo dei suoi fiori sembra preannunciare. Infine, Mackey nella sua enciclopedia riafferma che l’Acacia massonica con «…la sua natura sempre verde ci rammenta l’immortalità dell’anima libera da macchie». Indicazione che nel termine ‘libera’ cela una consonanza col trentaquattresimo verso aureo di Pitagora: «Allora, lasciato il corpo, salirai al libero etere. Sarai un dio immortale, incorruttibile, invulnerabile».

Compreso il suo significato, siamo dunque sempre degni dell’Acacia? Certamente no e non c’è nulla di umiliante nell’ammettere le nostre debolezze umane. Osvald Wirth confessava: “Ammesso nove lustri fa in Camera di Mezzo, non posso ancora vantarmi di conoscere l’Acacia. Come voi, in realtà sono rimasto Compagno. I miei viaggi non sono finiti ed io lavoro senza posa a conquistare la Maestria, che sono ben distante dal possedere”

L’essenziale, cari Fratelli, sta tutto in quel lavorare “senza posa” la nostra pietra, sforzandoci di trasformare questo simbolo sublime – il ramo d’oro – in realtà vivente

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

IL  FUTURO  E’ NEL GOVERNO  DELLE CIVILTA’

IL  FUTURO  E’ NEL GOVERNO  DELLE CIVILTA’

 

 

Il 20° Secolo si è caratterizzato con trasformazioni di modernizzazione basate sulla fisica e sulla chimica, queste hanno modificato il sistema economico, quello sociale e di conseguenza anche quello umano, proponendo all’uomo la necessità di individuare nuove forme di governo delle proprie comunità. Oggi assistiamo all’arrivo di nuove scienze: la Biotecnologia e la Dromologia.  Immaginare una società sotto l’influsso di queste due enormi entità ci sembra, ad oggi, quasi impossibile da decifrare per l’enorme portata delle modificazioni in atto e per l’intensità con cui si manifesteranno. Queste scienze, secondo la descrizione di alcuni studiosi, esigeranno sistemi di governo sicuramente molto complessi, molto diversi da quelli attuali, con esigenze di altissima preparazione, e quindi con la necessità di scuole di altissima capacità formativa, intellettiva e culturale.

 

Le biotecnologie saranno “l’oro verde” del 21° Secolo. Le forze economiche e politiche che controlleranno le risorse genetiche del pianeta eserciteranno un potere enorme sull’economia mondiale del futuro, proprio come, per l’era industriale, lo fu l’accesso ai combustibili ed ai metalli preziosi ed il loro conseguente controllo, il quale determinò un dominio su mercati e popoli.

 

Possiamo tranquillamente affermare che il nuovo e più importante sistema di potere del 21° Secolo è già individuato e riuscirà sicuramente ad attecchire, sta alla società moderna fare in modo che ciò non avvenga con caratteristiche di forte prepotenza, anche se a tutt’oggi nessuna organizzazione mondiale è in grado di possedere strumenti di tutela.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

NOËL CORBU: IL NASTRO MAGNETICO CHE HA CREATO IL “MITO”

NOËL CORBU: IL NASTRO MAGNETICO CHE HA CREATO IL “MITO”

 

di Pietro Marino

 

Rennes-le-Château

 

 

 

 

 

Dopo la morte di Bérengere Saunière, Noël Corbu (1912-1968) acquistò i suoi possedimenti per trasformarli in un ristorante. Le bizzarrie del parroco francese furono un ottimo spunto per ricamare su Rennes-le-Château le più incredibili ipotesi misteriose. Per attirare clienti nella piccola città francese, egli incise un nastro magnetico che faceva ascoltare agli avventori del ristorante. Fra questi vi erano alcuni giornalisti, che divulgarono in breve tempo il “mito” di Rennes, facendogli acquistare una risonanza internazionale.

 

In questa pagina è pubblicato il testo completo tratto dal nastro magnetico di Noël Corbu dedicato ai misteri di Rennes-le-Château.

 

 

Testo del nastro magnetico di Noël Corbu

 

“La storia di Rennes-Le-Château risale nella notte di tempi.

 

Si può affermare senza dubbio che questo altipiano sia stato abitato da sempre. Alcuni storici hanno scritto e fissato la fondazione di Rennes-Le-Château ad opera dei Visigoti all’inizio del V secolo. Questo è assolutamente negato dalla quantità di vestigie molto più antiche, che sono state trovate sulla superficie del suolo, preistoriche, paleolitiche o neolitiche, iberiche, galliche, romane, Gallo-romane. La loro abbondanza e la loro diversità provano, senza la possibilità di provare diversamente, che Rennes-Le-Château era, prima dei Visigoti, una grande città.

 

Altri storici pensano che Rennes Le-Château era la capitale dei Soclatesi, tribù gallica e molto forte che tenne in scacco Cesare per lungo tempo. Quest’ ultimo, nei suoi commentari, riferendo la caduta della loro capitale, parla del paesaggio circostante e la sua descrizione corrisponde esattamente al panorama che si vede da Rennes-Le-Château: picco di Bugarach a sud-est, picco di Cardou ad est, terra di Becq e altipiano di Fanghes a sud, l’Aude e i suoi meandri ad ovest e la sua valle in direzione di Alet e Carcassonne. Nulla manca e si può ragionevolmente immaginare che Rennes-Le-Château, prima di essere potente capitale dei Visigoti, era stata capitale gallica, poi grande città Gallo-romana, e certamente prima di questa epoca, grande habitat preistorico.

 

Perché questa importanza di Rennes-Le-Château durante queste epoche?

 

1) per la sua posizione geografica che domina tutte le valli: quella della Sals che va da Rennes-Le-Château a Narbonne, quella dell’Aude verso Carcassonne e verso Sijean, quella che va a finire a Puivert e Chalabre, e quella che da Rennes-Le-Château permetteva di andare in Spagna prima che fosse costruita la strada passante per le gole di Pierre-Lily. La strada Rennes-Le-Château/Spagna è stata certamente una via romana, perché se ne trovano ancora dei tronconi perfettamente lastricati, e nella località detta “La Rode” è stata trovata una ruota in bronzo ed un timone di carro romano, attualmente al museo di Tolosa;

 

2) per il numero delle sorgenti che danno acqua in abbondanza e che non sono mai state seccate;

 

3) per il suo clima molto moderato, molto meno freddo ed esente di nebbia e foschia in inverno, molto meno caldo in estate di tutta la valle.

 

Questi tre punti fanno di Rennes-Le-Château un luogo assolutamente privilegiato, una sorte di oasi nel bacino che essa domina.

 

Fin dal V secolo, Rennes-Le-Château che si chiamava RHAEDE, è una grande città. Capitale dei Visigoti del Razés, conta più di 30.000 abitanti. La sua importanza è tale che i Vescovi incaricati da Carlomagno per evangelizzare la Septimania- i visigoti che hanno abbracciato il catarismo, l’eresia cristiana dell’arianesimo – non menzionano nel rapporto all’imperatore che due importanti città: Rhaede e Narbonne. La cittadella di Rhaede aveva una superficie di almeno tre volte più grande di quella del villaggio attuale.

 

La città si estende a Sud fino ad un altro picco dove era costruita un’altra fortezza che si chiama il Castello. Un’altra cinta di fortezze difendeva Rhaede: sono i castelli di Coustaussa, Blanchefort, Arc, Bézut, Caderonne e Couiza.

 

La decadenza di Rennes-Le-Château comincia con le lotte albigesi. In parte distrutta, fu, per ordine di San Luigi ricostruita. Filippo l’Audace spinse l’ opera del padre, e si può dire che nel XIII secolo, se la città non ha l’importanza che aveva prima, la cittadella è sempre in piedi ed anche potente. Ma un affare di vendita assai confuso del territorio di Rhaede al re di Castiglia fa che gli spagnoli, per recuperare il loro acquisto invadono la Septimania e distruggono un prima volta Rhaede. Ricostruita solamente in parte, subisce una seconda distruzione nel 1370. Fu la fine. Mai più Rhaede si rialzò dalle sue rovine: a poco a poco gli abitanti discesero verso valle e Rhaede, divenuta Rennes-Le-Château, era solamente un piccolo Villaggio invece della città orgogliosa di 30.000 abitanti.

 

Rennes-Le-Château certamente sarebbe caduta nell’oblio totale se un prete originale di Montazels, da Couiza non venne ad assumere la guida della canonica il 1 giugno 1885. Durante 7 anni, l’abate Bérenger Saunière condusse la vita di un povero curato di campagna, e nei suoi archivi, sul suo libro dei conti, si può leggere, alla data del 1° febbraio 1892; ” Io devo a Léontine, 0 frs. 40; Io devo ad Alphonsine 1 fr, 65 “, ed i suoi risparmi che egli chiama ” fondi segreti ” ammontavano in quel tempo a 80 frs 65.

 

In questo stesso mese di febbraio 1892, cadendo in rovina l’altare principale della chiesa attuale, aveva chiesto un aiuto al Consiglio municipale che l’aveva accordato a lui per restaurarlo. Gli operai che lo smontavano trovarono in uno di pilastri dei rotoli di legno che contenevano delle pergamene. L’abate immediatamente avvertito se ne impadronì e qualche cosa dovette attirare la sua attenzione, perché fece immediatamente bloccare i lavori. Il giorno seguente, partì per Parigi, dicono, ma noi non ne abbiamo alcuna conferma.

 

Al suo ritorno, fece riprendere i lavori, ma non fece più fare solo l’altare principale, ma tutta la chiesa, poi iniziò al cimitero dove spesso lavorava da solo.

 

Demolì la tomba della contessa di Hautpoul-Blanchefort e cancellò le iscrizioni che vi erano sulla lapide.

 

Il Consiglio municipale si turbò della cosa e gli impedì di lavorare nel cimitero, ma il male era fatto, perché questa tomba doveva avere un’indicazione. Fece costruire muri attorno al giardino, di fronte la chiesa, utilizzò uno splendido pilastro di stile visigoto dell’altare, che danneggiò facendovi incidere ” Missione 1891 “, per sostenere N.D. di Lourdes, in un altro piccolo giardino. Fa interamente restaurare il presbiterio; poi, nel 1897, ordinò la costruzione della casa, della Torre, del cammino di ronda, del giardino d’inverno, e il tutto costò un milione nel 1900, quello che rappresenta 250 milioni della nostra valuta. Egli arredò la casa e la torre in modo fastoso. Il suo stile di vita era regale. L’abate Saunière riceveva chiunque venisse a trovarlo ed ogni giorno vi erano feste. Il consumo di rum che egli faceva venire direttamente dalla Giamaica e dalla Martinica giunse a 70 litri al mese. Senza contare i liquori di tutti i tipi, i vini di ottima qualità; le anatre erano ingrassate con biscotti così che divenissero più saporite. Era un vera sibarite.

 

Ricevette un anno Monsignor Billard che, secondo persone del paese, ripartì molto felice. Monsignor Billard era stupito della vita del prete, ma non diceva nulla. Il suo successore Monsignor Beauséjour, immediatamente richiese i conti all’abate Saunière e lo convocò, per spiegarsi, a Carcassonne, Ma non volendo niente dire, trovò come pretesto che era ammalato e che non poteva affrontare il viaggio sino a Carcassonne. E, come sostegno del suo dire, inviò dei certificati del medico Dr Rocher di Couiza, certificati falsi, in quanto noi abbiamo una lettera del suddetto Dr Rocher che in sostanza dicono ” Mio caro amico, io vi spedisco il certificato che mi avete chiesto ed è un piacere per me darvi soddisfazione “. L’abate Saunière non potette andare a Carcassonne, ma lui andò comunque all’estero: Spagna, Svizzera ed il Belgio. Viaggi assolutamente segreti e, per imbrogliare, lasciò alla sua domestica e donna di fiducia, Marie Dénarnaud delle lettere preparate concepite così: ” Caro Sig.ra ” o ” Sig. ” o ” Signorina “, ” io ho ricevuta la vostra lettera: Io mi scuso di non poter rispondere più lungamente, ma io devo andare al capezzale di un collega ammalato, A molto presto.” firmato “Saunière ” . Marie Dénarnaud apriva la posta e se una lettera richiedeva una risposta, metteva una di queste lettere in una busta e la spediva – Per tutti l’abate non aveva lasciato Rennes.

 

Tuttavia al vescovato le cose peggioravano. Nel 1911, Monsignor Beauséjour, esasperato per non essere capace di avere alcun chiarimento dal suo prete, lo incolpò di traffico di Messe e lo sospese. Fu condannato in contumacia. Il traffico di Messe non stava in piedi, perché loro costarono 0,50 frs; quale era la quantità di Messe che sarebbe stato necessario che l’abate Saunière dicesse per coprire le sue spese? Ma questo era l’unico motivo che aveva Monsignor di Beauséjour ” per immobilizzare ” il suo prete.

 

L’abate Saunière non si inchinò di fronte alla sentenza ed immediatamente fece appello alla corte di Roma. Assunse come difensore un avvocato ecclesiastico, il canonico Huguet il quale, a spese del curato, andò a Roma. Il processo durò due anni e finì con un non luogo a procedere, il capo di accusa non era provato. Ma informata dal vescovo delle magnificenze e dello stile di vita dell’abate, Roma a sua volta chiese chiarimenti che l’abate Saunière rifiutò di nuovo di dare. E sotto l’accusa di rivolta ed oltraggio verso i superiori venne di nuovo sospeso, questa volta definitivamente, l’11 aprile 1915. Comunque, si faceva capire all’abate Saunière che se avesse fatto onorevole ammenda, si sarebbe potuto considerare una mitigazione della pena.

 

Ma l’abate esacerbato, non volle assolutamente sentire alcuna cosa, né della diocesi, né della chiesa. Sbalordito, per opporsi al suo vescovo, affittò il presbiterio per 99 anni. Nella piccola cappella, che egli aveva fatto costruire, celebrava la Messa ed una gran parte della popolazione di Rennes-Le-Château andava ad ascoltarla, mentre il prete regolare, nominato dal vescovo, obbligato a vivere a Couiza a quattro chilometri, perché nessuno lo voleva, diceva messa in una chiesa vuota.

 

Durante tutta la lunghezza del suo processo con la chiesa, l’abate Saunière non fece più una costruzione. Ma qando fu tutto finito, rifece dei progetti: costruzione della strada da Couiza a Rennes-Le-Château a sue spese, perché aveva l’intenzione di comprare una macchina; conduzione dell’acqua presso tutti gli abitanti, costruzione di una cappella nel cimitero; costruzione di un bastione attorno a Rennes; costruzione di una torre di cinquanta metri di altezza in modo di vedere chi si avvicinava, con una scala circolare all’interno, una biblioteca alla fine della scala; alzata di un piano della torre attuale così come del giardino di inverno. Questi vari preventivi e lavori ammontavano ad otto milioni, cioè più di due miliardi di nostri franchi. Ed il 5 gennaio 1917 accettò i preventivi e firmò l’ordine di tutti questi lavori.

 

Ma il 22 gennaio, cioè 17 giorni dopo, prese freddo sul terrazzo, ebbe un attacco cardiaco che, complicato da una cirrosi epatica, non lo perdonò.

 

In breve, morì lo stesso giorno. Messo su una poltrona del salotto, rimase esposto un giorno, coperto con una coperta con dei fiocchi rossi. Per riverenza, quelli che andavano, staccavano un fiocco e lo portavano via. Fu seppellito nella tomba che stava facendo costruire nel cimitero.

 

La famiglia di Saunière si preoccupò, poi, avere l’eredità; ma, stupore, l’abate Saunière aveva comprato tutto, ordinato sotto il nome della sua domestica, Marie Dénarnaud, e lei era la proprietaria legittima, così che gli eredi presunti andarono via del tutto mortificati.

 

Marie Dénarnaud, molto addolorata alla morte del vicario, divenne un esempio di austerità. Si ritirò nel presbiterio, vivendo assolutamente sola e non spostandosi più. Non si recò più a Couiza. Durante gli anni, si rifiutò di vendere la proprietà, ma invecchiando, non era più capace né di sorvegliarla, né di fare la manutenzione, e gradualmente fu la distruzione e la depredazione. Libri rari, francobolli, opere d’arte furono rubati. Quando finalmente, nel 1947, si decise, vendette al Sig. ed alla Sig.ra Corbu che trasformeranno la vecchia residenza del vicario in un albergo “La Torre “.

 

Quanto all’origine del tesoro che il vicario certamente ha trovato e di cui una gran parte deve ancora esistere, gli archivi di Carcassonne ce ne danno un chiarimento: Bianca Castiglia, madre di San Luigi, reggente del regno della Francia durante le crociate del figlio, giudicò Parigi poco sicura per conservare il tesoro reale, perché i baroni e le piccole persone si ribellavano contro il potere regale. Si trattava della famosa rivolta dei pastorelli. Fece dunque trasportare il tesoro da Parigi a Rennes, che le apparteneva, vi riuscì e morì dopo poco. San Luigi ritornò dalla crociata, ma andò via di nuovo e morì a Tunis. Suo figlio, Philippe l’Audace, doveva conoscere il nascondiglio del tesoro, perché si interessò molto di Rhaede, dove fece fare molte opere di difesa. Ma dopo lui, vi è un buco e Filippo il Bello è obbligato a fare della moneta falsa, perché il tesoro della Francia era scomparso. Noi dobbiamo supporre che egli non conosceva il nascondiglio.

 

Il tesoro fu trovato due volte: nel 1645, un pastore chiamato Ignace Paris, mentre pascolava le pecore, cadde in un buco e portò nella sua capanna un basco pieno di pezzi di oro. Raccontò che aveva visto una stanza piena di pezzi di oro, ma divenne folle per difendere i pezzi di oro che aveva portato. Il signore e le sue guardie ricercarono invano il luogo dove era caduto il pastore, poi ci fu l’abate Saunière e le pergamene.

 

Sempre secondo gli archivi che danno una lista del tesoro, questo era composto da 18 milioni e mezzo di pezzi di oro, cioè in peso approssimativamente a 180 tonnellate, più numerosi gioielli ed oggetti religiosi. Il suo valore intrinseco, secondo questa lista, è più di cinquanta miliardi. D’altra parte se si considera il suo valore storico (un pezzo di oro di questa epoca vale 472.000 franchi) si arriva al’incirca a 4.000 miliardi.

 

Così, in questo villaggio modesto, dal panorama e dal prestigioso passato, dorme uno dei tesori più favolosi che ci sia al mondo.

 

Texte de la bande magnétique de Noël Corbu

 

L’histoire de Rennes-le-Château se perd dans la nuit des temps.

 

On peut affirmer sans crainte que ce plateau a toujours été habité. Certains historiens ont écrit et fixé la fondation de Rennes-le-Château par les Wisigoths aux environs du Vème siècle. Ceci est absolument démenti par la quantité de vestiges beaucoup plus anciens que l’on trouve à fleur de sol, qu’ils soient préhistoriques, paléolithiques ou néolithiques, ibères, gaulois, romain, gallo-romains, Leur abondance et leur diversité prouvent, sans contestation possible que Rennes-le-Château était, bien avant les Wisigoths, une grande cité.

 

D’autres historiens pensent que Rennes-le-Château était la capitale des Soclates, très forte peuplade gauloise qui tint en échec César pendant longtemps. Ce dernier, dans ses commentaires, relatant la chute de leur capitale, parle du pays environnant et sa description correspond exactement au panorama que l’on voit de Rennes-le-Château : pic de Bugarach au Sud-Est, pic de Cardou à l’Est, terre de Becq et plateau des Fanges au Sud, l’Aude et ses méandres à l’Ouest et sa vallée en direction d’Alet et Carcassonne. Rien n’y manque et l’on peut raisonnablement supposer que Rennes-le-Château, avant d’être puissante capitale Wisigothe, a été capitale gauloise, puis grande cité gallo-romaine, et certainement avant cette époque, grand habitat préhistorique.

 

Pourquoi cette importance de Rennes-le-Château pendant ces temps ?

 

I- Par sa situation géographique qui domine et commande toutes les vallées : celle de la Sals venant de Rennes-le-Château et Narbonne, celle de l’Aude vers Carcassonne et vers Sijean, celle aboutissant à Puivert et Chalabre, et celle qui de Rennes-le-Château permettait d’aller en Espagne avant que la route passant par les gorges de la Pierre-Lys soit percée. La route Rennes-le-Château/Espagne a été certainement une voie romaine, car on retrouve encore des tronçons parfaitement dallés, et au lieu-dit “La Rode” on a trouvé une roue en bronze et un timon de char romain, actuellement au musée de Toulouse.

 

2- Par le nombre de sources qui, sur ce piton donnent de l’eau en abondance et qui n’ont jamais été taries.

 

3- Par son climat très tempéré, beaucoup moins froid et exempt de brouillard et de brume en hiver, beaucoup moins chaud en été que la vallée.

 

Ces trois points font de Rennes-le-Château un endroit absolument privilégié, une sorte d’oasis dans la cuvette qu’elle domine.

 

Dès le Vème siècle, Rennes-le-Château qui s’appelait RHAEDE, est grande cité. Capitale Wisigothe du Razés, elle compte plus de 30.000 habitants. La rue des bouchers en comprenait18.000. Son importance est telle que les Evêques chargés par Charlemagne d’évangéliser la Septimanie – les wisigoths ayant embrassé bien avant le catharisme, l’hérésie chrétienne de l’arianisme – ne mentionnent dans le rapport à l’Empereur que deux villes importantes : Rhaede et Narbonne. La citadelle de Rhaede avait une superficie d’au moins trois fois plus grande que le village actuel. On dénombrait 7 lices.

 

La ville s’étendait au Sud jusqu’à un autre piton où était bâtie une autre forteresse que l’on appelle le Castella. Une autre ceinture de forteresses défendait Rhaede : ce sont les châteaux de Coustaussa, de Blanchefort, d’Arc, du Bézut, de Caderonne et de Couiza.

 

La décadence de Rennes-le-Château commence avec les luttes albigeoises. En partie détruite, elle est, sur l’ordre de Saint-Louis rebâtie. Philippe le Hardi poussa l’oeuvre de son père, et l’on peut dire que sous le XIIIème siècle, si la ville n’a plus l’importance qu’elle avait avant, la citadelle, elle, est toujours debout et aussi puissante. Mais une affaire assez confuse de vente du territoire de Rhaede au roi de Castille fait que les espagnols, pour récupérer leur achat, envahissent la Septimanie et détruisent une première fois Rhaede. Rebâtie en partie seulement, elle subit une seconde destruction en 1370. Ce fut la fin. Jamais plus Rhaede ne se releva de ses ruines : petit à petit les habitants descendirent vers les vallées et Rhaede étant devenu Rennes-le-Château ne fut plus qu’un petit Village au lieu de l’orgueilleuse ville de 30.000 habitants.

 

Rennes-le-Château serait certainement tombé dans l’oubli total si un prêtre originaire de Montazels, près de Couiza ne vint prendre la cure le 1er juin 1885. Pendant 7 ans, l’abbé Bérenger Saunière mena la vie de tout pauvre curé de campagne, et dans ses archives, sur son livre de comptes, on peut lire, à la date du 1er février 1892 ; “Je dois à Léontine, 0 fr. 40; je dois à Alphonsine 1 fr, 65”, et ses économies qu’il nomme ses “fonds secrets” se montent à cette époque à 80 frs 65.

 

En ce même mois de février 1892, le maître autel de l’église actuelle tombant en ruines, il avait demandé une aide au Conseil municipal qui la lui avait accordée pour le remettre en état. Les ouvriers le démontant trouvèrent dans un des piliers des rouleaux de bois contenant des parchemins. L’abbé immédiatement alerté s’en empara et quelque chose dut retenir son attention, car il fit arrêter immédiatement les travaux. Le lendemain, il partait en voyage pour Paris, dit-on, mais nous n’en avons aucune confirmation,

 

A son retour, il fit reprendre les travaux, mais là, il ne fit plus faire que le maître autel, mais toute l’église, puis, il s’attaqua au cimetière où il travaillait souvent seul.

 

Il démolit même la tombe de la comtesse d’Hautpoul.Bianchefort et rasa, lui-même, les inscriptions qui étaient sur cette dalle,

 

Le Conseil municipal s’émut de la chose et lui interdit de travailler au cimetière, mais le mal était fait, car cette tombe devait avoir une indication, Il fait construire les murs autour du jardin, devant l’église, utilise un splendide pilier de style wisigoth de l’autel, qu’il mutile en y faisant graver “Mission 1891″ pour supporter N.D de Lourdes, dans un autre petit jardin. Il fait entièrement restaurer le presbytère; puis en 1897, commande la construction de la maison, de la Tour, du chemin de ronde, du jardin d’hiver, le tout lui coûte un million en 1900, ce qui représente 250 millions de notre monnaie. Il meuble la maison et la tour fastueusement. Son train de vie est royal. L’abbé Saunière reçoit quiconque vient et tous les jours ce sont des fêtes. La consommation de rhum, qu’il fait venir directement de la Jamaïque et de la Martinique atteint 70 litres par mois. Sans compter les liqueurs de toutes sortes, les vins fins; les canards sont engraissés avec des biscuits à la cuiller pour qu’ils soient plus fins, C’est un véritable sybarite.

 

Il reçoit une année Monseigneur Billard, qui, d’après les gens du pays, repart.., assez content. Mgr Billard a été étonné de la vie de son prêtre, mais il ne dit rien, Mais son successeur Mgr de Beauséjour, demande immédiatement des comptes à l’abbé Saunière et le convoque pour s’expliquer à Carcassonne, Mais ce dernier ne voulant rien dire, prétexte qu’il est malade, qu’il ne peut faire le voyage de Carcassonne, Et, à l’appui de ses dires, montre des certificats du Dr Rocher, médecin à Couiza, certificats faux, puisque nous avons une lettre du Dr Rocher disant en substance ceci ” Mon cher ami, je vous envoie le certificat que vous me demandez et je me ferai un plaisir de vous donner satisfaction”. L’abbé Saunière ne peut se rendre à Carcassonne, mais il peut cependant aller à l’étranger : Espagne, Suisse et Belgique. Voyages absolument secrets, et pour donner le change, il laisse à sa bonne et femme de confiance, Marie Dénarnaud des lettres toutes prêtes ainsi conçues : “Chère Madame” ou “Monsieur” ou “Mademoiselle”, “J’ai bien reçu votre lettre: Je m’excuse de ne pouvoir répondre plus longuement, mais je suis obligé d’aller au chevet d’un confrère malade, A très bientôt. ” signé “Saunière”. Marie Dénarnaud ouvrait le courrier et si une lettre nécessitait une réponse, mettait une de ces courtes missives dans une enveloppe et l’envoyait- Pour tout. le monde l’abbé n’avait pas quitté Rennes.

 

Cependant à l’évêché, les choses empiraient. En 1911, Mgr de Beauséjour, excédé de ne pouvoir obtenir aucune explication de son prêtre, l’inculpe de trafic de messes et l’interdit. Condamnation par contumace. Le trafic de messes ne tient pas debout, car elles coûtaient 0,50 fr, c’est dire la quantité de messes qu’il aurait fallu que l’abbé Saunière reçoive pour couvrir ses dépenses. Mais c’était le seul moyen qu’avait Mgr de Beauséjour “pour coincer” son prêtre.

 

L’abbé Saunière ne s’incline pas devant la sentence et aussitôt fait appel en cours de Rome. Il prend pour se défendre un avocat ecclésiastique, le chanoine Huguet, qui, aux frais du curé, va à Rome. Le procès dure deux ans et se termine par un non-lieu, le chef d’accusation n’étant pas prouvé. Mais instruit par l’évêque des magnificences et du train de vie de l’abbé, Rome à son tour demande des explications que l’abbé Saunière se refuse à nouveau de donner. Et c’est sous l’inculpation de révolte et outrage envers ses supérieurs qu’il est de nouveau interdit, et cela définitivement, le 11 avril 1915. Cependant, on faisait comprendre à l’abbé Saunière que s’il faisait amende honorable, on pourrait envisager un adoucissement. On verrait.

 

Mais l’abbé ulcéré, ne veut absolument plus rien entendre, ni de l’évêché, ni de l’Eglise. Inderdit, pour contrer son évêque, il a loué le presbytère pour 99 ans. Dans la petite chapelle, qu’il s’est fait construire, il dit la messe et une grosse partie de la population de Rennes-le-Château vient l’écouter, tandis que le prêtre régulier, nommé par l’évêque, obligé d’habiter Couiza à quatre kilomètres delà, car personne ne le veut, dit sa messe dans une église pour ainsi dire vide.

 

Pendant toute la durée de son procès avec l’Eglise, l’abbé Saunière n’a plus fait de construction. Mais tout étant consommé, il refait des projets : construction de la route de Couiza à Rennes-le-Château à ses frais, car il a l’intention d’acheter une automobile; adduction d’eau chez tous les habitants, construction d’une chapelle dans le cimetière; construction d’un rempart tout autour de Rennes; construction d’une tour de cinquante mètres de haut de façon à voir qui entre, avec un escalier circulaire à l’intérieur, une bibliothèque suivant l’escalier; haussement d’un étage de la tour actuelle ainsi que du jardin d’hiver. Ces divers devis et travaux se montent à huit millions or, soit plus de deux milliards de nos francs. Et le 5 janvier 1917, il accepte les devis et signe la commande de tous ces travaux.

 

Mais le 22 janvier, soit 17 jours après, il prend froid sur la terrasse, a une crise cardiaque, qui, compliqué d’une cirrhose du foie, ne lui pardonne pas.

 

Bref, il meurt dans la journée. Mis dans un fauteuil du salon, il y reste exposé tout un jour, couvert d’une couverture avec des pompons rouges. En vénération, ceux qui venaient, coupaient un pompon et l’emportaient. Il fut enterré dans le tombeau qu’il était en train de se faire construire au cimetière.

 

La famille Saunière se préoccupa, alors, pour avoir l’héritage; mais, stupeur, l’abbé Saunière avait tout acheté, tout commandé sous le nom de sa bonne, Marie Dénarnaud, et celle-ci était et demeurait sa légitime propriétaire de sorte que les héritiers présomptifs s’en allèrent tout penauds.

 

Marie Dénarnaud, très coquette à la mort du curé, devint un exemple d’austérité. Elle se retira au presbytère, vivant absolument seule et ne bougea plus. Elle ne descendit plus une seule fois à Couiza. Pendant des années, elle se refuse à vendre son domaine, mais l’âge venant, elle ne pouvait plus ni surveiller, ni faire entretenir, et petit à petit ce fut la destruction et le pillage. Livres rares, timbres, oeuvres d’art, tout fut volé. Quand finalement, en 1947, elle se décida et vendit son bien à Monsieur et Madame Corbu qui transformèrent l’ancienne résidence du curé en hôtel ” La Tour”.

 

Quant à l’origine du trésor que le curé a certainement trouvé et dont une grande partie doit encore subsister, les archives de Carcassonne nous en donnent l’explication : Blanche de Castille, mère de Saint Louis, régente du royaume de France pendant les croisades de son fils, jugea Paris peu sûr pour garder le trésor royal, car les barons et petites gens se révoltaient contre le pouvoir royal. Ce fut la fameuse révolte des pastoureaux. Elle fit donc transporter le trésor de Paris à Rennes, qui lui appartenait, puis entreprit de mâter la révolte, elle y réussit et mourut peu après. Saint Louis revint de la croisade, puis repartit de nouveau et mourut à Tunis. Son fils, Philippe le Hardi, devait connaître l’emplacement du trésor, car il s’intéressa beaucoup à Rhaede, et fit faire de nombreux travaux de défense. Aussi retrouve-t-on encore à certaines fondations de tours des éperons qui sont une caractéristique de son époque. Mais après lui, il y a un trou et Philippe le Bel est obligé de faire de la fausse monnaie, car le trésor de France a disparu. Nous devons supposer qu’il ne connaissait pas la cachette.

 

Le trésor fut trouvé deux fois : en 1645, un berger nommé Ignace Paris, en gardant ses moutons, tombe dans un trou et ramène dans sa cahute un béret plein de pièces d’or. Il raconte qu’il a vu une salle pleine de pièces d’or et devint fou pour défendre les pièces qu’il a apportées. Le châtelain et ses gardes recherchent vainement l’endroit où est tombé le berger, puis ce fut l’abbé Saunière et les parchemins.

 

Toujours d’après les archives qui donnent une liste du trésor, celui-ci se composait de 18 millions et demi de pièces d’or en nombre, soit en poids environ 180 tonnes, plus de nombreux joyaux et objets religieux. Sa valeur intrinsèque, d’après cette liste, est de Plus de cinquante milliards. Par contre, si l’on prend sa valeur historique, la pièce d’or de cette époque valant 472.000 Francs, on arrive environ à 4.000 milliards.

 

Ainsi, dans ce modeste village, au panorama et au passé prestigieux, dort un des plus fabuleux trésors qui soit au monde.

 

Codice HTML © Copyright 2001 La Melagrana. Tutti i diritti riservati.

 

{23-10-2001}

 

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento