RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

RIFLESSIONI SULLA LOGICA

 

Di recente un Fratello mi ha fatto questa affermazione:

 

<<C’è una logica nelle cose o siamo noi a dare una logica alle cose?. La prima è mal posta infatti anche se così fosse essendo noi stesse cose “relative” non potremmo “assolutamente” affermarlo; la seconda si offre gradita allo scopo che si persegue nel contatto duale azione-informazione.>>

 

Il mio contributo è stato il seguente:

 

 

<<Io credo nel G.’.A.’.D.’.U.’., questo dovrebbe di per sé già darti la risposta a tutto, e’ l’Ente Supremo che informa della sua sottile energia inconoscibile, il tutto. Nel corso dell’ininterrotta catena del tempo l’uomo ha poi inventato o descritto, se preferisci, una serie di sub categorie delle energie attraverso delle sub categorie linguistiche. Sono fermamente ed intimamente convinto che si debbano utilizzare gli strumenti della conoscenza intuitiva, che per sua stessa natura è “individuo specifica” e pertanto incomunicabile al 100%.>>

 

Questo ha, pare, soddisfatto il carissimo Fratello, ma dall’altro lato mi ha spinto a riflettere di più sul senso delle cose che di logica parlano. Il tutto ovviamente alla luce della incomunicabilità insita nei limiti della linguistica quando tali argomenti tratta.

 

La mia affermazione istintiva copiava il merito delle prime parole del vangelo di San Giovanni “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui”.

 

In greco antico la parola “verbo” è l o g o s (logos); è facile capire che la nostra parola “logica” trova la sua radice in logos, pertanto se ammettiamo che un Ente Supremo sia il creatore / demiurgo di tutte le cose, è automatico che in tutte le cose troveremo una parte del logos, e quindi che tutte le cose sono dotate di logica.

 

 

Il ricercatore, in ogni campo, nella ricerca dei sottili fili che uniscono gli eventi, che formano il divenire, ottiene risultati solo quando è in grado di intravedere e seguire quel logos (o logica) che discende dall’Ente Supremo, sarà pertanto in grado da qualunque punto di partenza, ricerca biomedica, matematica, fisica, filosofica, di raggiungere la Verità finale.

 

Non credo che tale percorso sia semplice, qualcuno lo ha definito la via dolorosa, ma credo che tantissimi siano quelli che, una volta intrapreso, ce la fanno ad arrivare sino in fondo; quello che si trova in fondo a tale percorso “logico” è per sua stessa natura incomunicabile, in quanto facente parte della costituzione del ricercatore stesso e della strada che individualmente ha intrapreso e seguito

 

 

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SOGNO e ANGOSCIA

 

di

Saverio Di Landro

Sul campo di battaglia stavano per aprirsi le ostilità. Gli eserciti si fronteggiavano in una guerra fratricida.

Nel primo schieramento spiccava la figura di Arjuna.

Egli pensò:

  • “Stavolta dovrò combattere contro i miei cugini, e non so neanche il perché”. All’improvviso, mentre fervevano i preparativi, Arjuna fu assalito dai dubbi e scoprì che non c’era odio nel suo cuore.

Fu allora che una violenta angoscia si impadronì di lui:

  • “E’ finita! L’ora della battaglia sta per scoccare, e io confrontarmi coi fratelli. Ne riconosco i volti, anche in lontananza. Mi sono familiari da quand’ ero bambino, e ora dovrei deturparli !” L’ eroe rifletté sull ‘ esito della battaglia.
  • “Se anche scampassi alla morte – pensò – il rimorso non mi darebbe tregua. I miei giorni sarebbero segnati, e non potrei dimenticare l’ assassinio dei consanguinei. D’ altra parte, non posso sottrarmi ai miei doveri di guerriero”.

Dilaniato dai conflitti, Arjuna era molto confuso. All’improvviso, tra il polverone e le uniformi, gli parve di scorgere una luce… e in quell’istante, come per incanto, cominciò a sognare.

“Non sono desto, mi sembra. E forse non mi trovo più sul campo di battaglia. Qualcuno mi viene incontro: ne intravedo a malapena le fattezze”

Un auriga si avvicina all’ eroe. A un certo punto fu perfettamente riconoscibile: era il dio Krishna, musicista e seduttore di vergini, nelle notti estive. In quell’istante, prodotto dall’immaginazione del guerriero, Krishna andava ad ammonirlo, penetrando nei suoi sogni.

  • “Tu…esisti veramente?”, domando Arjuna.
  • “Nobile soldato, hai compiuto imprese valorose, ma la tua comprensione è scarsa. Vedo che non riesci a distinguere la realtà dall’ illusione”, gli rispose il dio.

Il guerriero, dominato dall’ angoscia, non riuscì ad afferrare il senso del discorso.

  • “Ma allora dimmi perché sei venuto a visitarmi, abbandonando la terra dei tuoi pari?”
  • “Mi sono accorto che eri in difficoltà: stavi per cedere le armi”
  • “E’ vero. Secondo te, non dovrei farlo?”
  • “No di certo. O meglio, è una questione più complessa”
  • “Dovrei forse combattere i fratelli, sparsi in questa regione?”
  • “Coloro che tu chiami fratelli sono ombre. Ne più né meno come me, che ti parlo come a un figlio” – “Cosa vuol dire? Spiegati meglio”, gridò Arjuna, sentendo crescere l’angoscia nel suo cuore.
  • “Intendo dire che il mondo è un grande sogno, una bolla di sapone prodotta dal gioco di un fanciullo. Osserva meglio queste truppe, eroe: sono illusioni. Fratelli o cugini – 0 come tu vuoi chiamarli – non hanno consistenza.

Arjuna non riusciva a capire e pensava che Krishna volesse tendergli una trappola.

  • “Non mi incanti. Non sono una di quelle giovinette che seduci col tuo flauto. La tua musica non fa breccia nel mio spirito!”
  • “11 tuo spirito! Se tu conoscessi la profondità, penseresti diversamente” – “E come?”

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  • “Concedimi la tua fiducia! Solo così potrai imparare”

Arjuna, rifletté sul suggerimento di Krishna, ma non per paura di combattere. Non voleva sottrarsi alla lotta, lui. Il suo problema era un altro, e si accorse che il Dio lo aveva messo a fuoco. Ma allora perché non fidarsene, nonostante certa fama?

  • “E va bene! Mostrami dunque una nuova prospettiva, creatura del sogno e del delirio”
  • “Ora ci siamo! Non sei più il bimbo capriccioso, che ha paura di cambiare! Così mi piaci, ora possiamo dialogare”

Ma Arjuna era ancora triste:

“Per quanto mi sforzi di ascoltarti, come faccio a fidarmi, se mi esorti a combattere? Se i miei avversari sono fantasmi esangui, dovrei scagliarmi contro di loro con tutte le mie forze! Questo si evince dalle tue parole. E con queste premesse non potrai avere udienza dal mio cuore!” La replica del Dio non si fece attendere.

  • “Sei un guerriero, adatto alla lotta. Per coltivare il fisico trascurasti lo spirito. Ma ora ci sono io a mostrarti nuove vie. Non voglio spingerti alla lotta, ma neppure alla fuga. Voglio soltanto dirti che I ‘ azione può essere compiuta in vari modi. Puoi donare la morte o la vita ai tuoi cugini, non importa! A me preme soltanto come consideri il tuo fare”
  • “Voglio insegnarti il non attaccamento al frutto delle azioni: ricorrendo ad un esempio, poiché ti ostini a non capire!”

Col volto contratto in una smorfia, tra lo stupore e la perplessità, Arjuna ascoltava attentamente.

  • “Creature di ogni tipo vengono a trovarti in sogno: uomini, donne, mostri e animali. E ti girano intorno, talvolta con sguardi minacciosi. Ma tu non te ne curi, e seguiti a dormire. Permetti loro di rincorrerti, salvo sopprimerne qualcuno per antipatia. In fondo tu sai che sono ombre, perciò non ti prendi la briga di combatterli. Ti curi forse di abbracciare una vergine nei sogni ? Voglio dire che la desideri o provi repulsione, solo finché non sai che è un ‘illusione. Ma quando ti svegli non resti insoddisfatto, se ti ha negato dei baci! Altrimenti saresti uno sciocco. Perché allora non agire così anche nel sogno della vita, e su i campi di battaglia?”

Le parole di Krishna erano convincenti e dettate da una grande saggezza. Nel cuore di Arjuna prese corpo un dubbio atroce: il Dio era frutto della sua fantasia o esisteva realmente? E chi parlava in quel modo edificante: la sua coscienza o una creatura autonoma, in forza di se stessa? Ma dopo tutto I ‘interrogativo era superfluo: meglio continuare ad ascoltare Krishna, mentre il Dio illustrava lo scopo della vita.  “Nobile condottiero, agisci pure come meglio credi: il mondo è un gran sogno, creato dalle nubi del pensiero. Ma evita di attaccarti alle tue azioni, e reputale un gioco da bambini. Come dei dadi si procede a caso: a volte si ha un risultato, a volte un altro. E l’esistenza difetta del suo senso”

Arjuna chissà perché, sentiva diminuire la sua angoscia. Come le parole di Krishna avessero il potere di calmarlo. Mentre la sua fiducia verso il Dio cresceva, l’eroe prese ad interrogarlo:  “Se ho ben capito, vuoi liberarmi dal male, oltre che dal bene?” Krishna si affrettò a rispondere:

“Proprio così, illustre guerriero. Entrambi sono perniciosi ed infettano la mente. L’osservazione non vale soltanto per il bene o il male, ma per qualsiasi altra contrapposizione. Non tenere in conto le seguenti coppie: vita/morte, bellezza/bruttezza, giovinezza/vecchiaia, salute/malattia. E scorgerai una realtà diversa!”

Dal tuo sguardo vedo che mi capisci. Le mie parole ti entrano nel cuore. Meglio così: arriverò al nucleo dottrinale. Ma intanto, nell’ attesa, preparati alla spontaneità: Come un bambino che non sappia cosa fare; come uno sciocco che ignori dove andare. In questo modo vedrai con altri occhi l’ Universo!

Esistono tre strade, illustre condottiero. Ma non devi percorrerle tutte: di fatto, si addicono a persone differenti. Esse furono istituite per permettere a chiunque di sotto il velo reale. E all ‘illusione di mostrare le sue spoglie! Cominciamo dalla via dell ‘ azione. Forse quello che più ti interessa, sebbene finora tu l’abbia fraintesa. Come percorrerla? Accantona le ricchezze mondane, perché non è con queste che la troveresti. Piuttosto considera il tuo corpo come un membro del divino e affidagli il controllo. Agisci senza attaccamento, spontaneamente, per scoprire l’universo. In un modo qualsiasi: mangiando, bevendo, respirando, camminando o riposando. In ogni caso, non curandoti degli esiti, con

le tue azioni, tu resti sulla via. Sappilo: solo l’atto responsabile si compie con naturalezza. Privo di desideri, e di passioni, bandirai dalla vita il tumulto e la rivolta. Sarai appagato dalla tua persona, senza mai frugare altrove. E solo allora, pur soddisfatto, mancherai di dilatare il tuo egoismo.

La seconda è la via della conoscenza. Devi imparare, eroe, che il mondo ha un’ altra faccia. Come nel caso della luna, la puoi vedere solo con la sapienza. Non intendo la pura erudizione, frutto di uno studio libresco. Le scritture sono un prodotto umano, che distoglie dal mondo dello spirito. Non potrai mai capire, finché ti attacchi alle parole altrui ! Nel tuo cuore, però, risiede una grande conoscenza, e solo tu puoi accedervi, in forza della volontà. “Sono pronto?” ti chiedi, e solo tu sai la risposta. Scrutando nei meandri del tuo animo vi scopri la saggezza per comprendere perfettamente il mio discorso. E sei in grado di affrontare ogni difficoltà, ben saldo nella tua posizione. Perché ti accorgi di aver creato tu gli ostacoli, nonché i mezzi per rimuoverli. La via della conoscenza esige fiducia in se stessi per scorgere il divino che sonnecchia nello spirito.

. Tu sei un guerriero e la via dell’ azione ti è familiare, a patto di adottare certe precauzioni. Ma anche sulla via del conoscere incederai tranquillo facendo leva sul tuo cuore. Non cercare l’esterno, dunque, e abbandona altri modi di pensare. Istruisci te stesso, coltivando i messaggi dello spirito. E rallegrati dei fallimenti, quanto dei successi. Nessun dualismo ti contaminerà, mentre attingi al tuo pozzo del sapere. L’autocontrollo sarà la tua misura, in una mente sgombra. E ti renderai conto di sapere già tutto. Senza lacune, riapprenderai la perfezione. Infine, quando avrai percorso il sentiero completo, scoprirai che gli opposti non esistono. Non distinguerai la conoscenza dall ‘ azione e neppure – ascolta! – l’ignoranza della conoscenza.”

Il guerriero aveva ascoltato attentamente, In particolare, era stato colpito dalla conclusione del discorso.

“Così le due vie alludono a una stessa meta?” – domandò.

  • “Ma certo” – rispose il Dio – “esse sono diverse solo in apparenza.”
  • “Sono curioso di apprendere la via della rinuncia, altrettanto interessante, suppongo. Avrei anche qui qualche prerogativa?”
  • “Sicuramente. Sebbene essa possa sembrarti la più distante. La rinuncia indica, ancora una volta, lo stesso traguardo. Vale a dire l’ esito di un percorso, in fondo, non si abbandona mai il punto di partenza. Rifletti, bene, illustre condottiero: per capire hai bisogno di cambiare la tua mentalità. Diversamente, impegolarti in queste vie, non ti servirà a nulla. Lasciami celebrare la terza di esse, dunque, che come le altre attende l’uomo adatto.

Il fruitore della terza via dell’azione è il guerriero accorto: di quella della conoscenza, lo studioso consapevole. Permettimi ora di accennare al religioso eretico, ovvero all’immorale che gronda di morallta.

Vedendo che Arjuna rimaneva perplesso, Krishna modificò il tono del discorso prefiggendosi una maggiore semplicità.

  • “Rinunciare non si significa starsene a meditare in una grotta! Rinunciare significa agire con naturalezza, ignorando il bene e il male. E’ difficile intendere certi presupposti e infatti gli asceti flagellano se stessi. Rinuncia la chiamano, nella loro ignoranza! Il martirio non porta da nessuna parte. Serve solo a distruggere il corpo. E il corpo, nobile guerriero, ci guida alla liberazione. Perciò, non disprezzarlo, ma limitati a rinunciare al godimento. E sappi che non ti vieto il piacere, bensì l’ attaccamento.

Sin dall’inizio accennai a questa via. Ecco perché dovrebbe esserti chiara. Non si tratta di non far, niente, aspettando a braccia conserte, che la morte ci strappi dall ‘involucro terreno! Altrimenti questa sarebbe la pista più agevole, del tutto adatta ai pigri. Assumi dunque le movenze del loto, il quale, pur sguazzando nel fango serba la sua purezza. E da tutti ammirato, per livida bellezza che si eleva sulla sporcizia di ogni tipo!

Arjuna coltivava un dubbio basilare e domandò al suo interlocutore:

  • “Mi stai dicendo che non esistono il peccato e il merito, buone e cattive azioni? Ma allora, come potrei osservare il mondo in questa prospettiva?”

Krishna avvertì la sincerità della domanda, e disse:

  • “E proprio questo che ti si chiede, nobile guerriero: di guardare con gli stessi occhi il brahmano erudito e la bestia più immonda. Infatti, finché ti curi di distinguerli, non cogli l’unità delle cose. Né squarci il

velo delle molteplici apparenze. Sospendi dunque ogni discriminazione, per amore della rinuncia! In fondo rinuncia e azione sono parole equivalenti che alludono ad una stessa realtà, suggellata dal divino!

Ora Arjuna sapeva quali percorsi seguire per travalicare le apparenze. Tuttavia non riusciva a capacitarsene: sognava o era sveglio. Chiese a Krishna un segno tangibile della sua presenza.

“Non capisci ancora chi sono? E’ strano. Chi meglio di te potrebbe saperlo? Del resto, poiché insisti, accennerò alle mie qualità.

Dal mio corpo nasce l’universo, con la luna e suoi soli. Ogni volta che ti affacci al mondo e il mio volto che osservi. Io produco le creature e al tempo stesso le accompagno alla morte. In un ciclo eterno, imperituro, ne dirigo gli intenti. Esse sono vuote e vacue, come città di geni. celesti, miraggi e allucinazioni. Tu mi interroghi sulla mia identità, ma prima dovresti specchiarti, nelle acque dei ruscelli per contemplare le tue sembianze, cioè le mie, nelle immagini riflesse. E anche nelle parole, mi troveresti: nel suono om, principio e fine di ogni cosa.

Invece sei confuso: dubiti di me, benché io ti sia apparso. E in questo modo ti perdi nelle creature, irretito dalla bellezza. Solo perché il tuo cuore si rivolge ad altre deità. Allora sappilo, con le tue invocazioni, e sempre a me che rendi omaggio. Puoi appellarti a Visnù o a Shiva: troverai soltanto me, in ogni angolo dell’universo. Mettiti all’opera, nobile guerriero: squarcia il velo reale, per scorgere I ‘ unità del multiforme. E destati dal sonno.

Arjuna rifletté a lungo su queste parole, e a un certo punto, di colpo, cominciò a capire. Fu un’esperienza straordinaria.

“Avverto nuove vibrazioni nel mio corpo, e riesco a percepire l’unità del cosmo. Sono io a produrre Krishna, il dio flautato: condividiamo tutti un’ unica matrice! Grazie all ‘ angoscia ho attinto alla realtà. E nella debolezza ritrovai I ‘oggetto del mio amore. Benché in fondo non l’ avessi mai lasciato.

In quell’istante Arjuna amò Krishna con tutto il cuore. E offri la sua devozione alla creature, tralci di una stessa vite! L’eroe si preparava ad abbeverarsi ad una fonte inestinguibile. L’esaltazione del momento, sul campo di battaglia, lo aveva inebriato. Così si armò di tutto punto, per saggiare la propria forza nei conflitti interiori e scopri un nuovo campo di battaglia, mentre fuori imperversava una lotta che non lo riguardava più.

Fu allora che, schivando le lance dei nemici, impegnati in una causa inconsistente, Arjuna si destò al mondo. •

 

 

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DARWINISMO E EVOLUZIONE

DARWINISMO E EVOLUZIONE

di

Silvio Nascimben

“L’evoluzionismo è solo un’ ipotesi e la fede non è contraria. Non deve essere letta, però, in chiave materialista”. Con questo messaggio di Karol Wojtyla, alla Pontificia Accademia delle Scienze, viene ufficializzato il “darwinismo” e con esso tutte le teorie evoluzionistiche che fino ad oggi erano bandite dalla Chiesa.

In verità, già nell ‘enciclica “Humani generis”, fu Pio XII ad affermare che il concetto di evoluzionismo era una “ipotesi seria” e non in contrasto con la fede cristiana, se non adottata come dottrina. Alla luce delle dichiarazioni di Giovanni Paolo II “che se ad originare il corpo umano è la materia vivente, e solo Dio può conferire all ‘ essere l’ anima spirituale”, di notevole interesse sono state le dichiarazioni di filosofi, scienziati, teologi e storici, concordi tutti, in buona sostanza, nel riconoscere lo storico ritardo con cui la Chiesa arriva, ancor oggi, ad ufficializzare le conquiste della scienza, nonostante l’eclatante scalpore che fece la riabilitazione di Galileo.

Ma cosa si intende per “darwinismo”?

Per darwinismo non deve intendersi il solo concetto di evoluzione della specie, concetto già enunciato nel Settecento e successivamente condiviso da J.B. Lamarck, nell’Ottocento, ma la spiegazione meccanicistica delle mutazioni spontanee, proposta da Darwin, e della loro ereditarietà. Sebbene l’interpretazione darwinista sia stata molto contrastata, all’epoca della sua enunciazione, è oggi riconosciuta dalla scienza ufficiale.

Nel gioco dell ‘evoluzione, la teoria darwinista nega l’ intervento di qualsiasi fattore “interno” ridu cendo l’immenso complesso delle mutazioni avvenute, nel corso dei millenni, ad un processo automatico di mutazioni, piuttosto complesso, che dà origine ad esseri viventi, in possesso di più adatti requisiti all’esistenza.

La teoria della adattabilità della sopravvivenza, secondo il principio evoluzionistico di Darwin, deve sostenere, però, l’impatto con strutture complicate che hanno creato non poche perplessità nei biologi. A causa della loro persistenza in varie specie viventi, essi sono stati costretti a considerare la presenza, nel processo evolutivo, di un principio “interno”. Un’altra considerazione, che ha messo in crisi la teoria “darwinistica”, è la “non adattabilità” all ‘ ambiente che spesso non è in stretto rapporto con la “mutazione” più favorevole alla sopravvivenza. E’ il caso, ad esempio, di alcune mutazioni avvenute in alcuni rettili: gli arti anteriori divenuti “ali”. Pur nell ‘ adempimento di un miglior adattamento ambientale, la loro mutazione non è certo avvenuta dall’oggi al domani, bensì nel corso di millenni e con trasformazioni frazionate, dirette nella stessa direzione, che si sono successivamente addizionate presentando un arto che da zampa era diventato ala. La teoria darwinistica, a questo punto, va a farsi benedire perché nell’ affermazione del principio della “più favorevole adattabilità all ‘ ambiente”, non riesce a spiegare lo “status quo” di un essere vivente, il rettile, durante i millenni necessari alla completa trasformazione.

Non disponendo di arti, ormai lontani dalla originaria identità e prossime “potenziali ali”, quindi imperfette e inservibili, come ha potuto, il mutante, superare le non poche difficoltà di sopravvivenza e di  ridotta adattabilità all’ ambiente, per le sopravvenute mutazioni? Il verificarsi di questo particolare stato di inadattabilità, nell’uomo non avrebbe creato, come del resto è già avvenuto, situazioni al limite dell ‘estinzione per la sua innata predisposizione alla suddivisione dell’umanità, fin dalle origini, in classi sociali, selezionando gli intelligenti, i forti, coloro che erano più validi, e schiavizzando i più deboli, coloro che, non più utili, andavano eliminati per non intralciare il processo selettivo della specie.

Stessa considerazione, in contrasto col concetto di Darwin, è che per effetto delle mutazioni evolutive spesso il figlio non è più intelligente del padre, ovvero più forte e, quindi, più valido.

L’accettazione di questi principi, nonché la dimostrazione della impossibilità del passaggio della cellula vivente all ‘uomo, per sole mutazioni casuali, sia pure dopo milioni di anni, dimostrata dai matematici con il calcolo delle probabilità, comporterebbe una radicale rivoluzione della concezione della vita e della impossibilità della sua ricostruzione scientifica, mediante il processo meccanicista.

La unica e grande verità è che l’essere vivente vuole vivere ed è pronto, per la sopravvivenza, a sfruttare ogni occasione propizia pur di vivere al meglio, nel suo ambiente.

La verità, che nessuno potrà giammai confutare, è l’ansia che scaturisce dall’attaccamento alla sopravvivenza, propria degli esseri viventi e, oserei dire, dei non viventi a causa della natura originaria, come la forza di gravità. Molto significativa fu la risposta di Edison, a chi gli chiese cosa fosse l’ elettricità: “Non lo so, ma funziona”. Potremmo, a questo punto, concludere che scienza non è che “la scienza di utilizzare le cose, di cui si ignora la natura originaria, e farle funzionare”. L’Uomo, stanco ormai di favole e di quelle leggende, che ebbero origine in un periodo molto confuso dell’umano genere, allora immerso in un mare infinito di ignoranza e superstizione, sebbene siano servite a frenare la violenza e i ben noti istinti umani di sopraffazione e di egoismo, si ritrova alle soglie del 3° millennio con un bagaglio di irrisoluti interrogativi. Pur plaudendo alla ennesima tardiva “conciliante assoluzione” della Chiesa, nei confronti di coloro che in nome della “scienza” hanno sfidato i suoi dogmi, l’Uomo del nostro secolo, volgendo lo sguardo al cielo, continua a chiedersi: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?”•

Tutta la saggezza del mondo… si riduce alla fine a questo, insegnarci a non temere la morte… Chi insegnasse agli uomini a morire insegnerebbe loro anche a vivere.

Montaigne

Da “Pensieri che vibrano

 

 

 

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LA MISTERIOSA ISOLA DEI QUATTRO MAESTRI

LA MISTERIOSA ISOLA DEI QUATTRO MAESTRI

di

Silvio Nascimben

Non tutti sanno che l’Irlanda dei Celti, che gli antichi Greci consideravano limitrofa perché situata all’estremo settentrione, era divisa nell’ antichità in “quattro regni” che ne cingevano, a loro volta, un altro, molto importante, collocato al centro.

Per questa ragione, in passato, l’Irlanda era denominata, spesso, “Isola dei Quattro Maestri”

Riteniamo utile riportare una considerazione di René Guénon, sull’ argomento: “Mai questa denominazione, come pure quella di “isola verde”, serviva a definire, ancor prima, un’ altra terra, oggi sconosciuta, molto più a settentrione -la scomparsa Ogigia – forse, o piuttosto Thulé, che fu uno dei principali “centri spirituali” dell’epoca, se non lo stesso “Centro supremo”.

Ritroviamo in un testo cinese, altre testimonianze ed una in particolare, quella del filosofo Chuangtse, recita: “L’ Imperatore Yao si affaticava molto credendo per questo di ben regnare. Ma, dopo aver visitato i Quattro Maestri, nella lontana isola di Tiu-Chee, dovette riconoscere di aver sbagliato tutto. Perché la forma perfetta rimane l’indifferenza del superuomo, che lascia girare la ruota cosmica, senza curarsene”

LA TERRA DEI BEATI VIVENTI

Altri significativi riferimenti si possono riscontrare anche nella mitologia indiana dove “l ‘ isola bianca”, delle lontane regioni iperboree, veniva definita come “la terra dove soggiornano i beati viventi”._Dalle svariate definizioni, in verità, mai generose di particolari, formulate dai tanti studiosi della “regione iperborea”, sembrerebbe che l’alone di mistero, ad essa legato, ispiri in misura minore l’immaginazione che non la scomparsa di Atlantide.

Questo tema affascinante ci viene proposto da due opere: “La Porte sous les eaux”, di John Flanders, e da un capolavoro, immeritatamente poco conosciuto, del grande Abraham Merrit, valente scrittore americano: “Dwellers in the Mirage”.

Sulla base di alcuni fatti concreti, di cui Merrit era venuto a conoscenza, in una regione ancora inesplorata dell’Alaska, miracolosamente preservata dai ghiacci, per effetto del vulcanismo, sopravvivrebbe, a detta di alcune tribù nomadi, l’ antica civiltà degli Iperborei.

Ciò spiegherebbe il ritrovamento occasionale, in quella regione, di alcuni tronchi di alberi, di specie tropicale.

IL TEMPIO Dl STONEHENGE

Secondo un’ antica tradizione, il Tempio megalitico di STONEHENGE non venne edificato nel luogo dove attualmente si trova bensì nella terra degli Iperborei.

Dando ascolto a questa leggenda, però, ci si imbatte in due evidenti interrogativi:

– il trasporto delle gigantesche stele megalitiche e le conseguenti difficoltà tecniche – le conoscenze astronomiche e tecniche che i misteriosi maestri-costruttori.

L’errore, poi, di considerare le civiltà megalitiche, primitive e grossolane, nonostante abbiano avuto un periodo di vita di molti millenni, ha sempre distolto l’ attenzione dei ricercatori che spesso, considerate le difficoltà di riscontro, preferiscono non squarciare l’ alone di leggenda legato, quasi sempre, a queste misteriose civiltà del passato.

La misurazione effettuata nel 1961, con il Carbonio 14 (Isotopo radioattivo del Carbonio, la cui presenza in un reperto organico, misurata in percentuale, consente di datare quest’ultimo con notevole precisione) su alcuni frammenti di legno provenienti dal Tumulo di Saint-Michel, la piccola collina di Tumac, ha fornito una datazione che va dal 7030 al 2920 a.C.

Affascinante, e apparentemente inspiegabile, rimane il legame “uomo e pietra megalitica”; alla luce della conoscenza odierna, l’osservazione attenta di massi enormi lavorati non riesce a fornirci l’esatta risposta della loro ignota collocazione, in certi determinati luoghi, proprio in considerazione degli strumenti ed i mezzi di cui disponevano.

Ciò vale per le gigantesche statue dell’Isola di Pasqua, le Piramidi, Stonehenge, Carnac, ecc. ecc. La scienza sacra dei Druidi, molto antecedente alle invasioni celtiche e risalente alla misteriosa civiltà dei “costruttori di megaliti”, teneva conto dell’ esatta conoscenza di “leggi occulte della natura” che reggono, in perfetto equilibrio, la diffusione delle invisibili correnti magnetiche, nel seno della Terra.

MENHIR E DOLMEN

Laddove una di queste forze si congiunge con una corrente d’ acqua, troviamo spesso, un “menhir”, mentre un “dolmen, a due o tre pilastri”, quasi sempre, indica una corrente tellurica si dirama in due o tre flussi.

Tutto ciò lascia presupporre che i Druidi, furono i depositari della arcana dottrina dei Maestri misteriosi, venuti da chissà quale angolo sperduto dell ‘Universo, e che vissero con gli uomini, nel periodo megalitico, e ne fossero, a loro volta, diventati maestri.

Varrebbe la pena penetrare meglio il significato di “omphalos”, che vuol dire “ombelico”, o meglio, “corridoio” che collega I ‘uomo al “transfinito”.

Uno di questi luoghi misteriosi è nei pressi di Bari, esattamente a Sovereto. Esistono le correnti magnetiche sotterranee, vi è un “menhir” e, poco lontano, a Bisceglie, un “dolmen”.

Forse, solo allora, potremmo spiegarci I ‘ ermetico significato dell ‘ indissolubile legame: Pietra grezza – Uomo maestro – Pietra lavorata.•

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APPUNTI PER UNA TEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MURATORIA

APPUNTI PER UNA TEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MURATORIA

di

Giuseppe Schiavone

  1. Le vie della ricerca

2.1. La via delle scienze fisiche

Le scienze fisiche hanno come oggetto di ricerca la natura, ivi compreso l’ uomo nella sua dimensione di essere di natura, considerato cioè metodologicamente come struttura bio-psichica (escludendo la sua dimensione spirituale, che è oggetto di altra ricerca). Si rivolgono alla realtà visibile, fenomenica; alle cose percepibili dai sensi direttamente o attraverso sofisticate strumentazioni.

Il metodo proprio delle scienze fisiche procede attraverso l’osservazione e l’ analisi di un oggetto (il fenomeno è da studiare), indipendentemente dal soggetto. Perciò tale metodo si dice oggettivo, sperimentale, analitico, impersonale.

Consiste nell’investigazione analitica e sperimentale di un fenomeno e nella ricerca della sua causa fisica (ad esempio, lo studio della caduta dei gravi e la scoperta della legge di gravità).

Per i corretti esiti scientifici di questa ricerca è necessaria la competenza tecnica, ma non l’affiatamento etico, che non incide sul procedimento, né sui risultati della sperimentazione. Semmai qui l’etica subentra nella fase di utilizzo degli esiti della ricerca medesima, ma non durante il suo svolgimento.

Lo sviluppo della scienza prevede l’uso metodico della verifica (attraverso la ricostruzione sistematica del fenomeno e l’accertamento veritativo d’ogni procedimento); l’accrescimento dei poteri dell’uomo (che si realizza congiuntamente, per un verso, con l’ ampliamento della conoscenza, per altro verso, con le conseguenti applicazioni tecnico-pratiche); l’ obiettività e l’ impersonalità della ricerca; I ‘ accettazione del carattere puramente strumentale e funzionale delle ipotesi e delle teorie, le quali sono accolte senza settarismo e, quando l’ interesse della ricerca lo esiga, abbandonate con disinvoltura, serenamente.

La verifica sperimentale si dispiega per il tramite di alcuni fondamentali passaggi metodologici, consistenti:

1) nella raccolta di numerosi materiali provenienti dall ‘osservazione accurata del comportamento del fenomeno (o dei fenomeni) in esame;

2) nel mettere a confronto detti materiali, ovvero nel procedere nella loro descrizione (indicando non le proprietà essenziali di una cosa, ma i caratteri estrinseci, anche se propri, e tali da permettere di distinguerla dalle altre), sia in rapporto al già conosciuto sia in rapporto a ciò che non si conosce;

3) nel catalogarli e riordinarli secondo tavole di classificazione;

4) nel ricercare le costanti e le cause specifiche dei fenomeni in oggetto;

5) nello scartare e annotare a parte le variabili, risalendo al motivo di tale incostanza;

6) nell ‘enunciazione di un’ ipotesi in grado di dare la spiegazione, eventualmente inserendola anche in nuovo sistema interpretativo;

7) nella verifica dell ‘ipotesi;

8) dopo di ciò, se il passaggio “7” risulta positivo, ovvero confermato, si ha la spiegazione del comportamento necessario del fenomeno, cioè la formulazione dei principi generali e, quindi, della legge; se, viceversa, il passaggio “7” risulta negativo, ovvero non verificato ma falsificato, bisogna tornare al punto di partenza “1 ” e ricominciare.

Ciò implica: a) il principio di autocorrezione permanente, ovvero il riconoscimento della scienza come un processo essenzialmente auto-emendabile, per cui nessuna sua proposizione (comprese quelle relative alle nozioni di base e compresi i principi stessi del metodo) è data per definitivamente accertata;

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  1. b) il principio di interdipendenza tra il momento dell’elaborazione razionale dei dati; c) il principio di applicabilità tecnica, in forza del quale il progresso della conoscenza scientifica non è separabile da quello dei mezzi tecnici, in particolare degli strumenti necessari alla sperimentazione.

Alle origini, nella Grecia del VI sec. a.C., scienza e filosofia nacquero come un’unità indistinta, ma i progressi ulteriori della ricerca scientifica e il presupposto antimetafisico delle filosofie moderne hanno portato alla distinzione delle discipline che dalla filosofia via via si sono differenziate e alla circoscrizione di due diversi ambiti: 1) quello delle scienze naturali e matematiche; 2) quello delle scienze umane o dello spirito.

Tale distinzione comporta la classificazione delle scienze (individuazione della specificità d’ ogni scienza e dei loro possibili rapporti di dipendenza e di correlazione) e la diversificazione e specializzazione del metodo proprio d’ogni campo di ricerca.

Da qualche tempo si parla pure di inter-discipline (come la fisico-chimica, la biofisica, la biochimica, ecc.), che si inseriscono tra le discipline tradizionali. Anch’esse, comunque, sono obbligate ad avere un loro specifico metodo di ricerca, che è dato dal risultato della coniugazione di più metodi.

La conoscenza scientifica, nel tempo, è venuta mutando in rapporto all’evoluzione delle scienze e della filosofia. Il modello classico della scienza come vera e propria “filosofia naturale”, e cioè come conoscenza delle essenze e delle relazioni d’interdipendenza necessaria fra le cose, ha subito nel corso del pensiero moderno molteplici revisioni riduttive (da Bacone a Newton, da Hume a Kant, dal positivismo al neopositivismo). La descrizione razionale del “come” dei fenomeni è apparsa sempre più chiaramente l’ unico obiettivo possibile dell ‘indagine scientifica, mentre la risposta al “perché” ha perduto a poco a poco rilevanza o è stata addirittura dichiarata priva di senso, specie quando essa comporti il ricorso a entità occulte o a ipotesi inverificabili (o apparentemente inverificabili secondo i metodi d’indagine ufficialmente accreditati). La preoccupazione di evitare ogni infiltrazione di assunti dogmatici (e metafisici) ha avuto come suo esito estremo la riduzione della scienza a sistema di convenzioni, stabilite secondo criteri economici o funzionali (Poincaré, Le Roy, Mach, Bergson, Croce, con intenti accentuatamente limitativi; mentre sul piano del formalismo neopositivistico, Carnap, Neurath, Reichenbach, Morris, ecc.).

Recentemente però, la nascita delle geometrie non-euclidee, la definizione dei limiti della meccanica classica e soprattutto il principio di indeterminazione hanno offerto argomenti suggestivi anche a chi ha voluto mettere l’accento sul fatto che sia i postulati sia gli esiti delle scienze non sono per nulla da considerare definitivamente veri, ma anzi aventi permanenti caratteri di incertezza: C’è, in questa visione meno trionfalistica della scienza, il presupposto teorico che esistano forme di conoscenza altra (ovvero di conoscenza alternata), come l’ intuizione, il giudizio storico e simili, fornite di un contenuto globale che la scienza deve ammettere di non possedere, impostata com’è sull’analisi del “particulare”.

In questo quadro, è perciò probabile che le conoscenze umane di ogni tipo debbano essere accolte senza pregiudizio, quanto meno come provvisori tentativi e fallibili congetture. Così come la superiorità critica dello scienziato (si da essere più vicino alla figura del saggio) debba consistere nella sua capacità di trarre tutte le conseguenze dell ‘ accettazione di un tale limite, fino all ‘ affermazione di un ‘ apertura e di una tolleranza nei confronti di tutti i “metodi” e “forme di conoscenza”, purché metodologicamente corretti e rigorosamente controllati nella loro individuale specificità, ovvero nel loro intrinseco logos.

2.2. La via religiosa

La via religiosa (detta anche “via umida”) in senso proprio si basa sulla trasmissione della rivelazione della volontà divina attraverso canoni dottrinari. Perciò non richiede una personale ricerca razionale, un approfondimento scientifico del fatto religioso, anzi bandisce la ragione, ch’è sostituita dalla fede. “Credo quia absurdum” diceva Tertulliano. Perciò questa via è dogmatica, monoculturale, spesso intollerante.

Eliminando la ragione (che peraltro è propria dell’essere razionale), essa s’appalesa come via devozionale: Per cui la tensione verso la conquista di stati di perfezione superiori avviene attraverso la fede e l’imitazione di un modello esemplare, per esempio la vita di un santo, soprattutto quella di Cristo (imitatio Christi). Cerca di purgare la psiche con tecniche di pentimento o confessionali. E’ espiatoria. Il fedele si affida a Dio, si mette nelle sue mani; si pone in posizione passiva, di fiducia cieca, di attesa paziente. Vive nel mondo cercando di non essere del mondo. Pratica la mortificazione della carne e dell’ anima, per eliminare le passioni. Pratica I ‘ astinenza, i fioretti, la supplica. Chiede l’ intervento divino su di sé, senza cercarlo in sé. Il soggetto, pertanto, non cresce di per sé, ma in virtù della grazia; o, in subordine, in forza della legittimazione (assoluzione) che gli dà il suo sacerdote (il confessore). Perciò il soggetto non è mai autonomo, ma sempre sottomesso. •

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CONSISERAZIONI SULLA PARAPSICOLOGIA (p.p.)

 

Il termine “parapsicologia” e di origine recente, ed e stato molto probabilmente coniato per dare

una “patente di rispettabilità” a tutta una serie di studi e ricerche in un campo che precedentemente (nel

XIX secolo e nella prima parte del XX) era detto “meta-psichica”.

Il nuovo termine offre il vantaggio della eliminazione delle due metà del vecchio, entrambe

troppo compromesse dalle varie correnti spiritualistiche, e di avere al loro posto introdotto una

“parentela” con una disciplina (la Psicologia) accettata nel dominio “ufficiale”.

Con ciò si intende dire che si e voluta portare anche nel mondo accademico quella parte della

conoscenza umana che ha a che fare con i rapporti diretti (e non “normali”) tra fatti psichici

sperimentati da persone diverse, oppure tra fatti psichici e fatti fisici (relativi sia allo spazio, che alla

materia e all’energia, che al tempo); la parapsicologia si interessa, infatti, dell’insieme di tutti quei

fenomeni in cui un pensiero o “forza psichica” ottiene un effetto. sensibile, obiettivamente registrabile,

ma non spiegabile in alcun modo con mezzi fisici, anzi sovente in contraddizione con le leggi note alla

scienza contemporanea.

Il fatto che un tale dominio di ricerche sia stato effettivamente accettato dalla scienza ufficiale, o

almeno da alcuni esponenti qualificati di essa, segue dalla istituzione di cattedre in parapsicologia in

diverse università; inoltre, un fenomeno nettamente parapsicologico quale l’ipnosi viene correntemente

utilizzato e studiato in molte Facoltà di Medicina di tutto il mondo.

A lato di questi studi disinteressati si hanno poi ricerche sovvenzionate dai governi delle grandi

potenze mondiali per fini di natura politica, sulle quali non è però dato conoscere molto, essendo esse

spesso coperte da segreto militare.

Accanto alla accettazione ufficiale, ormai avvenuta, anche se in modo parziale, e che, almeno nel

primo caso, è da qualificarsi senz’altro come positiva, vi è però da considerare l’atteggiamento

generalmente assunto verso la parapsicologia. Questo è spesso, anche in persone di notevole livello

intellettuale, irragionevolmente scettico; irragionevolmente, in quanto lo scetticismo e in genere solo il

frutto di una cattiva informazione, quando non è, con una certa malafede rifiuto di informazione, tanto

da portare ad un atteggiamento pregiudizialmente negativo.

Può essere interessante osservare che alla formazione di questo atteggiamento hanno fortemente

contribuito fattori di diversa origine, quali il dogmatismo filosofico di orientamento positivista e

neopositivista, derivato soprattutto dall’Illuminismo e quindi dai “trionfi” della scienza del secolo

scorso (quando sembrava che i “meccanismi” che muovono l’Universo fossero tutti stati sviscerati),

come pure il dogmatismo religioso volto a difendere lo “status quo” del potere temporale della Chiesa

Cattolica, fondato sulla superstizione e portato avanti dall’Inquisizione con la “caccia alle streghe”. E’

stata in particolare quest’ultima che ha creato in Europa un clima nettamente avverso ai fenomeni p.p.

ed alle relative ricerche, portando a ritenerli “accettabili” solo sotto forma di miracoli attribuibili a

qualche Santo o all’intervento diretto di Dio.

In ogni caso, che li si voglia riconoscere.; oppure no, il fatto è che i fenomeni p.p. esistono (non

vi e praticamente nessuno che, spesso nell’ambito della propria famiglia, non sia. qualche volta venuto

 

 

a con-tatto almeno. con fenomeni di telepatia e chiaroveggenza). E’ di conseguenza del tutto

inconsistente la tecnica dello struzzo dell’ignorarli. o, peggio ancora, del semplicemente negarli;

peraltro essi non debbono costituire il pretesto per cercare, come spesso succede, di fermare i progressi

della scienza, cosa del resto molto difficile. Essi dovrebbero invece, come ci si sforzerà di mostrare nel

seguito, portare avanti un quadro generale di sintesi della conoscenza umana, come tante tessere dei

mosaico che e l’Universo in cui viviamo (o almeno quella parte di cui possiamo vere esperienza).

Parapsicologia e metodo scientifico

La p.p. può venire suddivisa in due campi, non nettamente delimitati, che secondo l’uso

anglosassone vengono indicati con le sigle PK ed ESP; la prima deriva dai termini “mente” e “moto”, e

comprende tutti quei fenomeni che comportano azioni sulla materia o sull’energia (spostamenti, o

creazione, o disintegrazione di oggetti, aumenti o diminuzioni di temperatura, ecc.) la seconda, invece,

da “extra sensorial perception” e riguarda principalmente l’acquisizione di conoscenze per canali

diversi da quelli consueti dei sensi.

Il secondo campo potrebbe considerarsi come caso particolare del primo, qualora si volessero

ridurre le percezioni a semplici (almeno in linea di principio) trasmissioni di “quanti” fisici di

informazione.

L’opinione di chi scrive, soggettiva e personale, quindi discutibile, è che le cose non siano affatto

così semplici; senza scendere in particolari, si può pensare che la conoscenza relativa a fatti fisici sia

questione tanto di particelle materiali ed onde elettromagnetiche, quanto soprattutto di “cose” non

appartenenti al mondo fisico, quali le strutture astratte, sia logiche, che non. Tale punto di vista esula,

però, da questo contesto e meriterebbe di essere discusso a parte.

Vi sono pure due modi sostanzialmente distinti di studiare i fenomeni p.p. dal punto di vista

scientifico. Il primo, iniziato alla scuola del dott. RHINE (Duke University) è quello di provocare in

laboratorio i fenomeni (ad esempio tramite carte o dadi) su cui si applicano i consueti mezzi statistici e

matematici delle scienze empiriche (metodo sperimentale di GALILEO); il secondo e invece quello di

raccogliere una casistica di fenomeni spontanei, accertati fuori da ogni possibilità di dubbio, e da

questi cercare (per induzione) di trarre deduzioni di validità generale.

Dei due metodi il primo è certamente più accettabile scientificamente, ma comporta dei notevoli

rischi in quanto i fenomeni p.p. sono essenzialmente fenomeni isolati e sporadici (anche quando

presentano un relativo carattere di regolarità) ed inoltre sono legati in un modo notevole al soggetto

che sperimenta, il quale, in generale, “soffre” della atmosfera innaturale di un laboratorio.

I risultati ottenuti in presenza di questi “blocchi inibitori” finiscono spesso con l’essere, anche

quando ce ne sono, notevolmente artificiosi; ciononostante, essi sono già in grado di fornire notevole

campo di meditazione.

Il secondo metodo permette, invece, di tenere conto di una grande quantità di fenomeni

estremamente variati; spesso ci si deve basare su delle testimonianze, a volte rare e molto dilazionate

nel tempo, quindi poco affidabili scientificamente; segue che sono abbastanza rari i fenomeni spontanei

in grado di superare le barriere di controllo, spesso assurdamente pignole.

Vi è poi il fatto che chi tende ad assumere il secondo atteggiamento tende anche, con il tempo, a

formulare teorie generali che spiegano i fenomeni stessi in modo molto rigido (addirittura quasi

dogmatico), mentre i casi a disposizione sono molto limitati, ed inoltre non è nemmeno detto che

esistano leggi generali, del tipo di quelle della fisica, alle quali i fenomeni p.p. obbediscono.

La mia opinione su questo punto e che non esistano leggi di questo tipo; prima di tutto perché

nemmeno la fisica o la chimica pretendono di formulare leggi universalmente valide, ma soltanto

relazioni funzionali tra le varie variabili fisiche, aventi un forte valore di probabilità, nel senso

che non si asserisce affatto che un sasso lanciato per aria deve necessariamente cadere a terra, ma solo

che e estremamente probabile che avvenga così; per di più, le leggi fisiche sono ritenute valide soltanto,

per così dire, sulla “misura umana”, ossia ne per il microcosmo (particelle elementari), né per il

macrocosmo, come provano le osservazioni e le più avanzate ipotesi dei moderni fisici teorici.

Inoltre, proprio per la natura statistica delle leggi fisiche, è evidente che i fenomeni p.p. possono

venire considerati (quando si vuole fare un discorso di carattere scientifico, e non iniziatico) come

anomalie delle leggi note. Tale punto di vista comporta come conseguenza la eliminazione delle

contraddizioni con le teorie razionali della scienza, pure evidenti ad uno sguardo superficiale (un caso

molto esplicito è forse il fenomeno degli apporti medianici in relazione alla legge di conservazione

dell’energia).

Vi è però da osservare che la “ipotesi statistica” ha a sua volta un punto abbastanza debole: se i

fenomeni p.p. debbono essere considerati anomalie statistiche in un universo di “regolarità”, allora è

molto difficile dare ragione della loro frequenza altissima: esistono infatti persone, o intere epoche, o

luoghi molto vasti (e non pochi, per ognuno dei tre) per i quali i fenomeni p.p. sono esperienza

quotidiana e comunemente accettata. Al riguardo, è noto il caso di un’isola della Polinesia in cui le

comunicazioni tra gli abitanti avvenivano normalmente tramite telepatia (il “rito” seguito era quello di

rivolgersi ad un qualunque albero, e pregarne lo spirito di portare il messaggio alla persona voluta).

Tale consuetudine è caduta con l’avvento delle moderne comunicazioni di tipo occidentale, e gli

abitanti dell’isola, richiesti sul perché non usano più del vecchio mezzo, rispondono ad esempio che

non è più necessario, oppure che non è più il caso di disturbare lo spirito degli alberi, o altre

argomentazioni analoghe.

Un altro esempio, ancora più illuminante, è il seguente, riportato da alcuni ricercatori della

Society for Psychical Research. In alcune regioni del Galles, tradizionalmente i fenomeni p.p. erano

all’ordine del giorno. Negli ultimi tempi essi si sono fatti molto più rari, e gli abitanti del posto,

interrogati al riguardo, sono restii a parlare della cosa, ed asseriscono che si tratta di “cose

sconvenienti”, “cose non buone”, “cose che possono provocare dei fastidi” e così via. E’ evidente

l’impulso inibitorio che ha fatto rientrare nella “normalità” una situazione la cui normalità era ben altra.

Per inciso, ciò getta luce anche sulla “delicatezza” dei fenomeni di cui ci stiamo occupando, nello

stesso senso in cui, in precedenza, si è detto che i soggetti “soffrono” l’atmosfera dei laboratori. Ebbene,

fatti del genere di quelli sopra. riportati non portano sicuramente acqua al mulino della “ipotesi

statistica”.

Gli ostacoli al metodo scientifico

Accenniamo ancora ad alcuni elementi, che rendono abbastanza ardua l’applicazione dei metodi

scientifici tradizionali alle ricerche p.p.; abbiamo già visto sopra come le necessità “asettiche” del

metodo possono nuocere alle condizioni necessarie (per quanto riguarda il soggetto) affinché il

fenomeno avvenga. Vediamo ora altri due punti di una certa importanza.

  1. AFFIDABILITÀ DELLE TESTIMONIANZE.- Questo e un problema abbastanza delicato, anche

per la stessa Psicologia: è infatti ben noto come sia difficile ottenere testimonianze veramente

attendibili anche su fatti comuni della vita quotidiana, quali ad esempio gli incidenti stradali, o cose più

banali ancora. Entrando nel campo della p.p., se si tiene conto delle enormi. possibilità della

suggestione (auto, o eteroindotta, facendo generalmente leva su convinzioni non coscienti e “desiderio

di credere”), la quale fa pure parte, imparentata con l’ipnosi, della p.p. , ed inoltre del fatto che molte

persone possiedono notevoli, doti p.p. di cui non sono coscienti, e che vengono sistematicamente

soppresse per adeguarsi alle necessità della vita sociale, e chiaro che ogni discorso sulle testimonianze

personali è destinato a perdere qualunque validità, nel senso che ogni volta che si voglia invalidare una

testimonianza non sarà difficile trovare delle argomentazioni che permettano di farlo, qualunque essa

sia. Vi e poi un discorso a parte sulle testimonianze di origine “oggettiva”, cioè elettrica o meccanica,

quali fotografie, registrazioni, ecc.; disgraziatamente, tutta quella classe di fenomeni p.p. che va sotto la

sigla PK getta un forte dubbio anche su di esse. Persino i rotocalchi si sono, infatti, occupati di un

uomo che negli Stati Uniti riesce ad impressionare delle lastre fotografiche solo pensandolo.

  1. INFLUENZA DEGLI SPERIMENTATORI.- Questa questione potrebbe farsi rientrare nella

precedente, ma merita di essere trattata a parte. Si tratta principalmente del fatto che, nell’affrontare i

fenomeni p.p. la mente di uno sperimentatore difficilmente è in uno stato da definirsi “vergine” egli ha

sempre, infatti, pregiudizi (positivi o negativi) e teorie preliminari di cui, in generale, non è nemmeno

cosciente. Ebbene, i risultati degli esperimenti tendono fortemente (cioè al di là di una discriminazione,

anche non cosciente, dei risultati) a confermare tali pregiudizi e teorie. Un esempio notevole è il

seguente: N. CRANFORD, uno studioso di fisica e di meccanica, interessato ai fenomeni p.p. , pensava

che la telecinesi e la levitazione (spostamento o sollevamento di oggetti) ottenute dai “medium” fossero

dovuti alla formazione di leve fisiche, costruite con la sostanza ectoplasmica che fuoriesce dal loro

corpo; il risultato ottenuto è stato che tutte le sue esperienze (cfr. SUDRE, “Trattato di Parapsicologia”

Ubaldini, pag. 237) confermavano fortemente questa ipotesi, ed il fatto si produceva effettivamente, nel

senso che le leve potevano venire toccate e fotografate mediante filtri speciali. Il problema è, però, che

studiosi di diversa formazione, che avevano formulato teorie completamente diverse, le vedevano

altrettanto puntualmente confermate. Come commenta SUDRE al proposito delle “leve psichiche”,

“…è chiaro che, ancora una volta, c’è adattamento dello strumento creato dalla personalità seconda

del soggetto al fine da raggiungere… “Notiamo, per inciso, che la cosa più importante da osservare in

questi esperimenti è la grande quantità di osservazioni sulla natura dello ectoplasma, sostanza capace di

effetti materiali, ma apparentemente dotata di qualità fisico-chimiche molto diverse da quelle della

materia (e dell’energia) normali . Queste considerazioni sugli esperimenti condotti con metodi

scientifici (si noti che ciò ha il senso di: “al fine di formulare delle teorie di tipo generale”) dovrebbero

mettere in luce che non è possibile prescindere dall’influenza che eventuali facoltà p.p. degli

sperimentatori (ed eventualmente anche dei semplici spettatori) hanno sugli esperimenti stessi.

Per concludere, osserviamo che le ultime considerazioni aprono il campo a riflessioni di carattere

molto più generale, rispetto alla semplice casistica p.p., sul significato, soprattutto, dei termini “reale”

ed “illusorio”. Ciò conduce, però, a discorsi di carattere metafisico, e non scientifico, che potrebbero

essere un punto di partenza indispensabile per chi volesse affrontare questi argomenti da un punto di

vista – iniziatico -, cioè chiedendosi quale sia il compito svolto da tutti questi fatti nella evoluzione (in

qualunque senso tale termine voglia intendersi) dell’Uomo.

Non intendo entrare, in questo contesto, nell’argomento. Vorrei invece limitarmi a riportare una

considerazione che ebbi occasione di fare leggendo sul precitato testo di SUDRE di diverse ipotesi di

natura più o meno fisica formulate per spiegare la trasmissione di conoscenze per via telepatica tra un

agente ed un percipiente, le quali tutte considerano i due come completamente separati e distinti.

E perché non fare invece una “ipotesi di mezzo”, di una interazione tra agente e percipiente (più

in generale si potrebbe dire tra soggetto e sperimentatore) che è allo stesso tempo attiva e passiva; mi

pare abbastanza plausibile pensare che ciò possa verificarsi, vale a dire che vi sia, almeno

temporaneamente, una parziale fusione tra i due in un’unica entità psichica, e ciò con innumerevoli

gradazioni diverse.

Da questo punto di vista, che può essere esteso dai fenomeni che riguardano due persone, o più,

come quelli di telepatia, ai fenomeni che riguardano una singola persona e la natura, come quelli di

telecinesi, o anche semplicemente di visione a distanza, o più complicato ancora, quelli concernenti il

tempo, quali la precognizione, ogni fatto p.p. potrebbe venire pensato come un fatto a sé, con leggi sue

particolari, create in quel momento, valide in quel momento e non ripetibili, esattamente come

ogni esperienza vissuta con coscienza effettiva.

Ne deriverebbe che tutto può succedere, senza limitazione di alcun tipo, ed in particolare di

spazio, tempo, materia, energia. Si comprende subito come in questa impostazione i termini “reale ed

“illusorio”, già abbastanza sfumati nella loro accezione comune, finiscono col perdere del tutto

significato.

 

A∴G∴D∴G∴A∴D∴U∴

 

G

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PER ESSERE FELICI

PER ESSERE FELICI

carissimi,

Nei fascicoli 1 e 5 del c.a. di Erasmo Notizie, si parla di “Diritto alla Felicità”.

L’argomento è stato programmato dal G.O.I. in occasione del tradizionale appuntamento

annuale svoltosi, come è noto, a Rimini nei giorni 4/6 aprile scorso. Non tengo alcun conto di

quanto programmato e discusso dal G.O.I. nelle giornate riminesi in quanto quello che espongo è

solo frutto dei miei pensieri.

Da parte mia il diritto alla felicità è il tema di oggi, permettetemi di cambiare un termine

dell’argomento e cioè io parlerei di “dovere” alla felicità, ciò in virtù di quella dicotomia che non

vede un diritto senza un dovere, e ora spiegherò perché vorrei parlare di “dovere” alla felicità.

A differenza di quanto sostenuto dagli antichi filosofi, i moderni parlano di felicità non come

di sentimento appartenente all’uomo nella sua singolarità, ma all’uomo in quanto è membro di un

mondo sociale. Per gli antichi la felicità è un concetto umano e mondano dove felice è “colui che ha

un corpo sano, buona fortuna ed un’ anima ben educata” (Plotino); la felicità è anche connessa con

il piacere perché esso è desiderato di per sé stesso e quindi è il fine in sé; la felicità è anche possesso

della giustizia e della temperanza (Platone), la felicità, in fine, per Aristotele è “una certa attività

dell’anima svolta conformemente a virtù” che include la soddisfazione dei bisogni e delle

aspirazioni mondane.

Dagli umanisti in poi la nozione di felicità comincia ad essere legata, come per gli epicurei, a

quella del piacere, poi però comincia ad acquisire un significato sociale, la felicità diventa quasi un

piacere “diffusionale”, il piacere di un numero sempre maggiore. Infine, nasce la consapevolezza

che la felicità dipende da condizioni e da circostanze non legate alla nostra volontà ed è anche

dipendente dall’atteggiamento che ciascuno di noi può assumersi di fronte ai fatti della vita: essa,

quindi, appartiene all’uomo in quanto membro di una società. S’instaura quindi il concetto della

massima felicità come base del liberalismo moderno; non dimentichiamo che T. Jefferson nello

stilare la costituzione americana ha incluso fra i diritti inalienabili dell’uomo “la ricerca della

felicità”.

Sono, però, titubante nell’accogliere tutte queste nozioni, felicità per me è “lo star bene”,

prima di tutto con me stesso e poi con gli altri. Con me stesso, nella certezza di aver agito nella mia

vita in moda da raggiungere una certa tranquillità e la serenità che nasce dall’aver fatto il proprio

dovere e dall’aver dato a tutti ciò che potevo; con gli altri nella certezza di aver saputo offrire

amicizia ed aiuto a chi ne aveva bisogno, di aver aperto il mio animo a chi sentivo poteva

comprendermi, di aver agito come cittadino e membro della comunità in modo da contribuire ad

accrescere il bene comune.

Oggi, però, se mi guardo intorno, mi rendo conto che la parola felicità è spesso un contenitore

vuoto: si è felici se vengono soddisfatte certe esigenze (avere un figlio, avere una parte in un film,

avere una moglie, etc. ) o se si ottengono determinate cose. In questo caso è da ricordare che molti

“bisogni” sono indotti o fittizi o, comunque generati dalle esigenze di vendere determinati prodotti.

Queste “felicità”, quindi, appaiono assolutamente effimere e, certamente, non soddisfano, se non

momentaneamente il desiderio dell’uomo di essere felice. A volta qualche persona dice che è felice

quando non lavora, quando non ha obblighi o, come diceva mia moglie, quando il dolore n on si fa

sentire: la felicità è quindi una negazione, un’assenza ?

Non credo. Personalmente ritengo che la felicità sia prima uno stato d’animo e poi una realtà

vissuta. Ovviamente sto dando alla felicità una dimensione limitata e personale, una dimensione in

“divenire” quasi progettuale: per essere felice progetto la mia vita, la proietto nel futuro e poi cerco

di costruirla. Non so, però, fino a che punto posso raggiungere la felicità; quanto incidono, infatti,

gli errori? Quante volte sono costretto a dire: “ho sbagliato”. Oppure : “non avrei dovuto fare così”.

Nonostante gli errori, però, ritengo che, nell’aver costruito qualcosa di mio, nel aver realizzato il

mio progetto di vita, ci sia felicità.

Vi è però anche un altro elemento che contribuisce alla felicità che, per l’appunto è costituita

da vari fattori. Questo elemento è più difficile da determinare; il progresso e lo sviluppo industriale

hanno eliminato uno dei cardini della società del passato: la famiglia patriarcale che costituiva il

microcosmo all’interno del quale l’individuo si muoveva.

Alla famiglia patriarcale erano demandate funzioni sociali indispensabili: allevava gli orfani,

assisteva gli anziani, provvedeva al sostentamento dei più deboli.

Oggi si parla di famiglia nucleare e di “single” sempre più supportati dalla società dei

consumi che si adopera per risolvere facilmente eventuali problemi inerenti il quotidiano. Orbene:

costoro sono soli; questa solitudine può essere frutto di una scelta, ma per lo più è una sorta di

obbligo dettato da vari fattori; di qui la necessità per costoro di ricercare il sociale: cioè ricercare il

vivere con gli altri. Questo implica che con gli altri si debba vivere, se non bene, almeno

serenamente: ciò spiega tutte le iniziative che hanno successo e cioè quelle in cui gli individui si

incontrano, festeggiano, ascoltano musica o mangiano insieme. C’è anche un altro “sociale” e

quello implica, da parte di tutti, il provvedere a chi è meno fortunato; è, insomma, il concetto del

“Welfare State”: la necessità di dare a tutti un minimo di benessere chiedendo a chi più ha di aiutare

chi è meno fortunato.

È felicità condividere con gli altri l’eccitazione di una festa di paese, una ricorrenza o la vista

dei fuochi d’artificio sul Po? È felicità sapere che chi è più bisognoso può ricevere aiuto? Secondo

me, si: è felicità perché condivido, cioè: divido con gli altri ciò che ho, compresa la mia solitudine.

È difficile, per me, a questo punto tornare all’inizio della mia riflessione e cioè a quella famosa

voce della Costituzione Americana: il diritto alla ricerca della felicità…

Secondo me però, è questo il punto: se c’è un diritto, deve esserci anche un dovere; ciò

significa bandire l’egocentrismo e proiettarsi sulle cose e sul mondo, significa agire nel mondo e

impegnarsi nel rapporto con gli altri: quale maggior gioia e soddisfazione di quella che deriva dal

aver dato il proprio appoggio, l’amore, l’interesse ad un altro ed aver contribuito a renderlo più

sereno o più soddisfatto e felice?

Felicità, quindi, lontana dalla autosufficienza e dalla solitudine, lontana dalla frustrazione e

dalla insoddisfazione, lontana anche dal masochismo imperante di certe correnti che si ispirano al

dolore ed alla infelicità; quale felicità, dunque, possiamo aspettarci? Quella derivante da due

possibili fattori: interni ed esterni: la famiglia, gli amici, il lavoro, gli altri; tutto ciò, è vero, può

essere anche fonte di tristezza e dolori, ma è solo lì che potremo attingere alle gioie della vita.

Non dimentichiamo, inoltre, che sono le piccole cose a dare felicità: nella mia lunga vita io ne

ho avute alcune e sono quelle che mi hanno aiutato nell’ora del dolore e delle delusioni, infatti ci è

stato dato un grande dono: il dolore, con il trascorrere del tempo, illanguidisce e si consuma, la

felicità invece, nel ricordo, si alimenta e continua ad operare i suoi benefici effetti.

Permettete un’ultima osservazione, anzi un augurio: vorrei che tutti potessimo più volte dire,

come il Faust di Goethe: “attimo, arrestati: sei bello”.

 

 

 

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PURUN BHAGAT

Purun Bhagat

Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni dignità e grado carissimi,
nella tornata del 26 settembre scorso, un Fratello Maestro ha parlato di un problema attuale,
che riveste particolare importanza anche per me. Ero assente in tale tornata, ed ho conosciuto solo
in tempi successivi il contenuto della tavola.
All’argomento trattato con chiarezza e completezza dal predetto Fratello, desidero aggiungere
qualcosa. Come molti sanno, in uno dei suoi racconti, Kipling narra il “Miracolo di Purun Dass”.
Purun Dass che era stato primo ministro del regno, amato e stimato da viceré e da missionari,
membro di molte società scientifiche e storiche, aveva vissuto 20 anni di giovinezza, 20 di battaglie
e 20 di governo; ed ora si apprestava a vivere la parte migliore della sua vita: quella contemplativa.
In 3 giorni Purun Dass diventa Purun Bhagat; un mendico vagabondo, senza né tetto né pane, volto
solo a trovare la pace e la serenità. Cito questo racconto del Fratello Kipling, non solo per
appoggiare la tesi della tavola del Fratello menzionato, ma per sostenere anche la necessità, nella
vita dell’uomo, di una ricerca.
Sarebbe impossibile, di certo, riportare nella nostra società una ricerca come quella di Purun
Bhagat; essa è lontana dai nostri schemi di vita, ed esula troppo dal nostro contesto culturale;
eppure mi sembra mettere in luce quello che per tutti gli uomini è l’unico e vero fine da realizzare;
la ricerca della Conoscenza, che è Pace e Serenità.
Lungi dal chiedermi cosa in realtà esse siano, ed in che cosa si realizzino, oso affermare che
pace e serenità si ottengono in un solo caso; con l’arrivare alla Verità.
È pur certo, la vita convulsa d’oggi non riserva alcuno spazio ai vecchi, agli anziani, ma
intendiamoci: quali vecchi, quali anziani?
In fondo, la società moderna non è che lo specchio di giovani-vecchi, giovani che, con le ali
tarpate, non sanno e non vogliono vedere nulla al di fuori di un rigido e disperato materialismo
pseudo-realistico, che li porta ad alienare la miglior parte di sé; ed altri giovani che sentono,
confusamente ma violentemente, l’assurdità di una società che non offre loro che un consumismo
frenetico, una scala di valori basata sulle possessioni materiali, e la prospettiva di una vita sboccante
in una vecchiaia emarginata; e contestano, rifiutano codesta società.
Si è persa la cosa più semplice, la cosa più facile: il “giusto mezzo”, che non è il
compromesso, ma l’equilibrio dell’animo, della mente e dell’anima, che solo consente di indagare
intorno a se stessi, intorno ai misteri della vita e della morte, che solo ci consente un giudizio equo
nelle vicende della vita, e che porta, soprattutto, al giusto rispetto per gli altri.
Tra un vecchio che apre il suo spirito alla Ricerca ed un giovane incapace di reagire ai mass
media non ho dubbi; scelgo di sentirmi un vecchio, perché so che a me è dato qualcosa di
infinitamente superiore: la sete della Verità.
L’ideale sarebbe che in tutta la vita l’uomo fosse sostenuto da un ideale superiore, unico bene
personale ed inalienabile. In realtà non è così: pochi infatti, troppo pochi sono gli interlocutori in un
dialogo che voglia essere insieme filosofico ed essenziale. Invece, man mano che l’uomo si eleva
dal campo del puro pragmatismo o dalla semplice estrinsecazione di una certa Weltanschaung, alla
riflessione più fenomenologica ed all’analisi più filosofica, aumenta sempre di più le proprie
possibilità di comunicazione e, con esse, di una ricerca che non è più solo un fatto personale.
Ma come può un giovane accettare un simile dialogo? Come può centrare la sua vita su di una
ricerca morale se è sempre distratto, direi sempre più distratto, dai modelli di vita che la società
consumistica continua a proporre ed imporre?
In fondo, ciò che condanna il giovane è l’abitudine, che è sia assuefazione, che lo avvezza alla
ricezione di determinati stimoli, sia addestramento, cioè quel processo con il quale si assorbono
determinati principi che prima non si avevano.

3
L’abitudine, poi, genera l’inerzia – tamas -, l’immobilità che, in un’epoca come la nostra,
origina l’inquietudine del bisogno. Questa è l’inquietudine che il giovane sente e dalla quale viene
pungolato; ma spesso si tratta di un’inquietudine insana che non nasce dal desiderio di fare, ma da
quello di possedere e di godere; e che viene via via soddisfatta dai beni materiali che il mercato crea
in sempre maggior varietà e quantità, e ad un ritmo frenetico.
È questa la Verità?, È scopo supremo della nostra vita il conseguimento, dopo una rincorsa
incessante, di soddisfazioni che appena ottenute si mostrano già appassite e consunte?
In un simile contesto, che coinvolge non solo i giovani, ma purtroppo spesso anche la
generalità dei vecchi che non si rassegnano ad invecchiare, la verità diventa qualcosa di definibile
puramente in un ambito storico; diventa un fatto di contingenza.
Invece, come Kant, io ritengo che vi sia un unico appello al Tribunale dell’uomo: la Verità
che è unica, irripetibile, universale; la Verità che è patrimonio della specie umana; ad a Quella, nel
senso più pregnante della parola, ogni uomo può e deve appellarsi.
Sperare nel raggiungimento della Verità non è utopia, è certezza; è una certezza che è la sola
che possa sorreggere l’uomo e dare un senso ed uno scopo alla sua vita. Forse non è dato a tutti
raggiungerla e prenderne totale coscienza, identificarsi totalmente con Essa; non tutti siamo
preparati a ciò. È quella trasformazione che culminerebbe in una evoluzione integrale, e ben pochi
l’hanno raggiunta. Ma la cosa per tutti più importante è il cercare questa Verità; sapere che esiste e
che è raggiungibile. Questa è una certezza che è solo un bagliore di quell’Assoluto ed è ciò che può
sorreggere e dare scopo ad una vita intera.

AGDGADU

28 novembre 1974 dell’ev(1° grado)

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LONTANO DALLA RUSSIA

LONTANO DALLA RUSSIA

Il mito dell’espansione della Nato e la forza democratica dei popoli

Kaspar Sõukand

La retorica delle sfere di influenza appartiene all’epoca dei due blocchi. Continuare a usarla significa violare il diritto alla sovranità dei Paesi dell’est Europa, che consapevolmente e democraticamente hanno aderito (o desiderano aderire) alle organizzazioni sovranazionali e internazionali occidentali

AP/Lapresse

 

Durante l’autunno del 1990 ebbe luogo uno storico incontro tra i leader degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Quel vertice che avrebbe dovuto segnare un nuovo decennio di relazioni tra America e Russia è apparentemente diventato tossico e viene usato dal Cremlino per giustificare l’invasione della Georgia e dell’Ucraina. Secondo questa teoria, la Nato non avrebbe mantenuto la promessa di non espandersi nell’Est Europa, costituendo così una minaccia per Mosca.

 

Il primo a portare avanti questa tesi fu nel 1993 l’allora presidente russo Boris Yeltsin, il quale ha trovato sostenitori anche all’estero. Molti esperti, infatti, hanno ribadito che l’ostilità russa nei confronti dell’Occidente, e dunque la guerra in Ucraina e Georgia, sia conseguenza diretta dell’espansione della Nato. Tuttavia, questi esperti trascurano il fatto che la Russia non ha mai rinunciato alle sue pretese sui Paesi dell’ex sfera di influenza sovietica durante la Guerra Fredda, a dispetto della volontà dei popoli. Già nel 1993, la Russia era coinvolta in conflitti di questo tipo in Cecenia, Georgia, Moldova e Tagikistan.

 

Questo dimostra che nella mente dei russi non è mai esistito il diritto di sovranità dei Paesi dell’est Europa, e se le promesse della Nato possono essere oggetto di dibattito, siamo tutti d’accordo che per i russi una concezione democratica di indipendenza da Mosca non è mai esistita. Se gli Stati Uniti avessero promesso di non allargare la Nato, non si tratterebbe di un tradimento nei confronti della Russia, ma nei confronti della volontà di sovranità di questi Paesi.

 

Questo tipo di mentalità è un ricordo della Guerra fredda, un’era nella quale sia le potenze occidentali sia l’Urss hanno fatto cose imperdonabili in altri Paesi, con la pretesa di avere un mandato su altre nazioni.

 

Dividere il mondo in due sfere di influenza senza la volontà dei popoli non dovrebbe essere accettato come normale, specialmente da Paesi orgogliosi della propria integrità politica. Il fatto che esistano questi dibattiti su qualche promessa passata serve solo ad alimentare la propaganda russa riguardo la sfera di influenza di Mosca, come dimostra il fatto che molti in Occidente pensano che la Nato si sia allargata aggressivamente verso la Russia.

 

L’ingresso dell’est Europa nella Nato non è e non può essere una decisione degli Stati Uniti, ma una decisione dei popoli di Estonia, Lettonia, Lituania, e di tutti gli altri. Allontanarsi dalla Russia è stata una decisione unicamente loro.

 

A differenza del Patto di Varsavia, un’alleanza imposta con la forza sull’Europa orientale, l’adesione alla Nato è stata attivamente richiesta da quei Paesi, per paura dell’espansione russa.

 

Allo stesso modo, il possibile accesso nella Nato o nell’Unione europea dell’Ucraina, della Georgia o di qualsiasi altro Paese non può essere visto come pedina di scambio. Qualsiasi pace con la Russia non deve essere fatta a tavolino, dividendo i territori come nel 1944, altrimenti il futuro dell’Europa sarà danneggiato per sempre.

 

Democrazia e sfere di influenza possono coesistere in Europa, ma se il controllo sulle altre nazioni diventasse una prassi, come è successo dopo la Seconda guerra mondiale, prima o poi la violenza diventerebbe il modo per fermare la democrazia. Da parte russa abbiamo visto in Ucraina e Georgia, come in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968, ma anche l’Occidente non si è risparmiato, come è stato evidente in molti Stati del Sud America o dell’Asia.

 

Se vogliamo che la Nato sia un’alleanza di eguali e che l’Occidente superi la retorica della Guerra fredda usata dalla Russia per conquistare impunemente parti d’Europa, non dobbiamo più usare il concetto di sfere di influenza come strumento di negoziato. Dobbiamo dare maggiore importanza alla sovranità e alle scelte democratiche delle nazioni, anche di fronte a manovre geopolitiche sempre più complesse.

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“IL 2 GIUGNO E’ UNA DATA SIMBOLO DELLA DEMOCRAZIA

“Il 2 giugno è una data simbolo della Democrazia, della Libertà, del libero pensiero e della tutela dell’associazionismo””

I liberi muratori del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Gjustiniani indirizzano il loro deferente saluto al Capo dello Stato, onorevole, professor Sergio Mattarella, e si apprestano a celebrare con grande gioia, partecipazione e alto senso di responsabilità la Festa della Repubblica.

Il protrarsi dell’emergenza Pandemia, per il secondo anno consecutivo, ci impedirà di realizzare in presenza un evento particolare ma per l’occasione il Vascello si mostrerà in tutta la sua bellezza e splendore con una bellissima illuminazione notturna in cui si vedranno sventolare sulle facciate della Villa – sede nazionale dell’Ordine – i colori verde, bianco e rosso della bandiera italiana.

Per noi massoni quella del 2 giugno è una data piena di valori e rappresenta il simbolo della Democrazia e della Libertà per l’affermazione delle quali tanti massoni hanno contribuito a sacrificio della vita. In questo giorno di festa per tutti i cittadini italiani, vogliamo ribadire la nostra imperitura difesa del libero pensiero, e dell’associazionismo in genere sancito dalla Carta Costituzionale della Repubblica Italiana, quell’articolo 18 che, insieme a tanti altri, garantisce a tutti la possibilità di associarsi liberamente per fini che non siano in contrasto con la legge penale. È innegabile la assoluta valenza e necessità dell’esistenza di una norma così straordinaria a garanzia e tutela della pluralità e della libertà assoluta d’espressione in tutti i campi e in tutti i corpi intermedi fra Società e Istituzioni dello Stato.

In questa settantacinquesima Festa della Repubblica il nostro pensiero va a tutti coloro, fra i quali tanti nostri fratelli, che non ci sono più a causa della Pandemia, e agli  uomini e donne cadute per servire la Patria o che hanno perso la vita sui posti di lavoro.

Nella speranza  che la crisi epidemiologica sia presto un brutto ricordo, che l’Italia si avvii verso un necessario e urgente rilancio economico e che tutti concorrano senza ostracismi e divisioni al Bene comune, noi massoni del Grande Oriente d’Italia, continueremo a vigilare perché il pensiero e i diritti di tutti vengano rispettati e possano affermarsi quei valori di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza che da secoli propugniamo.

 

Il Gran Maestro

Stefano Bisi

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