IL RELITTO DI BARATTI

Il relitto di Baratti

 

 

L’amore per il vino: a proposito delle anfore vinarie ritrovate sul relitto

 

Per i Romani della tarda età repubblicana e dell’Impero, il vino era divenu­to ormai un elemento fondamenta­le dell’alimentazione. Negli agglo­merati urbani e nelle campagne le classi abbienti potevano permet­tersi il lusso di acquistare vini pre­giati provenienti da ogni parte dell’Italia e della Grecia, che fino al 146 a.C., momento in cui divenne provincia romana, deteneva il pri­mato per i vini di qualità. I soldati bevevano normalmente una be­vanda chiamata posca, formata da una miscela di acqua e aceto, men­tre gli schiavi che lavoravano nelle ­campagne utilizzavano in sostitu­zione del vino una bevanda chia­mata lora, che si otteneva facendo filtrare acqua sui sedimenti rimasti dopo la spremitura. Si sa dagli autori che vi erano numerose qua­lità di vino.

Naturalmente i vini invecchiati, non quelli di annata, erano i più pregiati. A questo proposito è inte­ressante notare come siano atte­stati alcuni casi di anfore, in cui le iscrizioni segnalano non solo la data della vendemmia ma anche quella in cui il vino era stato messo nell’anfora, dopo un periodo di invecchiamento, che poteva durare anche 5 anni.

Esisteva un preciso legame tra la gerarchia sociale e quella dei vini. Emblematico a que­sto riguardo è il caso, narrato da Plutarco, di Marco Antonio che, durante le persecuzioni effettuate da Mario, si era rifugiato a casa di un amico, coraggioso ma plebeo. Quest’ultimo, non rassegnandosi a fargli bere il vino d’annata – con­siderato troppo popolare per un personaggio di quel livello – nell’adoperarsi per procurare del buon vino, alla fine fa scoprire il rifugio di Marco Antonio .

Le anfore di terracotta, rivestite all’interno con uno strato di pece bollente, erano considerate di nor­ma i contenitori più adatti al tra­sporto del vino ed impermeabili all’aria più delle botti di legno. Come chiusura erano provviste di un tappo di terracotta oppure di sughero, a volte rivestito di pozzo­lana. Le anfore rinvenute nel cari­co del relitto B o del Pozzino nel Golfo di Baratti appartengono al tipo IA della tipologia elaborata per questo tipo di contenitori da Dres­sel. Queste anfore sono oggi consi­derate in genere i primi contenitori da trasporto che possono essere definiti più propriamente romani.

Esse sostituiscono, infatti, tra il 145 e il 135 a.C. le anfore del tipo detto «greco-italico», che avevano dominato i mercati del Mediterra­neo dalla fine del IV° sec. a.C. in poi. È probabile che questa sostitu­zione debba essere messa in rela­zione anche con le nuove esigenze di trasporto e di commercio, non­ché con la diversa natura dei desti­natari dei vini.

Il grande sviluppo delle espor­tazioni di vino italico, riscontrato fino dalla seconda metà del I sec. a.C., è stato infatti, messo in rap­porto con le straordinarie possibili­tà offerte dal mercato della Gallia. Ricerche recenti sottolineano la ne­cessità di approfondire anche gli aspetti metrologici (misure lineari, peso, capacità) di queste anfore, di fondamentale importanza per gli antichi nell’ adozione o meno di un determinato tipo .

La Dressel IA doveva rappre­sentare un contenitore pesante e molto robusto – che senza dubbio Plinio avrebbe classificato, lodan­dolo, sotto l’etichetta della firmitas contrapponendolo alla tenuitas – ­particolarmente adatto per affron­tare non solo i viaggi marittimi, ma anche i più accidentati percorsi ter­restri. I luoghi di produzione delle anfore Dressel I A sono stati indivi­duati lungo tutta la costa tirrenica dell’ Italia centrale e forse anche in parte di quella meridionale.

Alla fine dell’Ottocento Dres­sel, studiando alcuni frammenti di anfore di questo tipo che recavano iscrizioni dipinte, riconobbe i nomi dei vini di Fondi, del Cecubo, del Falerno e probabilmente anche di quello di Formia e di Reggio, vini famosi menzionati anche nelle fon­ti antiche. Studi recenti hanno lo­calizzato alcune delle produzioni di questo tipo di anfore anche nell’E­truria settentrionale, a Cosa e ad Albinia, oltre che in Campania, ad esempio, a Mondragone. Per il mo­mento, in attesa di ricerche più approfondite e dei risultati delle analisi, è possibile in via di ipotesi attribuire – sulla scorta di un primo esame delle argille ed anche in considerazione degli stretti legami che univano Populonia alla Campania, e a Pozzuoli in particolare – alla Campania le anfore di questo tipo, rinvenute nel relitto del Pozzino .

Tra il materiale del carico della nave sono stati recuperati anche un ‘anfora intera e due frammenti di anse, con bolli impressi a rilievo, pertinenti ad un’anfora dello stes­so tipo, sicuramente prodotte nel­l’ isola di Rodi, oltre ad alcune lagy­noi ascrivibili anch’esse alla pro­duzione rodia o più genericamente greco-orientale. Tra i vini greci i migliori erano, secondo la testimo­nianza di Plinio, quelli prodotti nel­le isole di Chio, di Lesbo e di Taso, mentre quelli di Rodi e di Cos, pur costituendo qualità eccellenti, era­no pur sempre considerati vini non ordinari.

Plinio nella sua Naturalis Histo­ria, classificava i vini in tre catego­rie: vina generosa, vina generosa transmarina e vini salsi genera. Il vino di Rodi rientrava in quest’ulti­ma categoria poiché, come sappia­mo da alcuni autori antichi, esso veniva prodotto con un ‘ aggiunta di acqua di mare prima della fer­mentazione.

 

 

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LA PAROLA MASSONICA SEMESTRALE E ANNUALE

LA PAROLA MASSONICA SEMESTRALE E ANNUALE

di

Giuseppe Schiavone

1. Genesi, struttura, senso

Nell ‘ Ordine dei Liberi Muratori, vige la consuetudine che, a intervalli regolari, e precisamente ogni sei mesi, il Gran Maestro emani la cosiddetta ”parola semestrale”, che racchiude l’ intimo senso del programma di ricerca e di azione dell ‘intera Comunione massonica. Tale parola consiste in due verbi aventi normalmente la medesima lettera iniziale (tranne qualche rara eccezione). E’ un comando, incitante all ‘azione, articolato in due concetti semplici e forti, che vengono rinnovati e comunicati a tutti i Fratelli, nelle Logge, per il tramite del Maestro Venerabile, in occasione del Solstizio d’inverno e del Solstizio d’ estate. Mentre la “parola annuale”, consistente pure in un verbo, viene trasmessa al solo Maestro Venerabile nel Solstizio d’ estate (art. 32 delle Costituzioni massoniche del Grande Oriente d’ Italia di Palazzo Giustiniani).

Le due parole semestrali da bocca a orecchio dal Maestro Venerabile ai Fratelli nel corso d’una Catena d’unione fraterna. Di esse, la prima circola da destra verso sinistra, la seconda da sinistra verso destra. Dopo aver attraversato l’una la parte destra del cervello, l’altra la parte sinistra, si ricongiungono, ritornando al Capo-catena “giuste e perfette” così come sono state originariamente pronunciate; in caso contrario l’intera operazione dev’essere ripetuta, sino alla perfezione. Le parole così comunicate non possono essere annotate per iscritto, né fatte conoscere agli assenti, e neppure ritrasmesse a quanti le hanno dimenticate. Compete solo al Maestro Venerabile il potere e la discrezionalità di comunicarle a coloro che per giustificati motivi non erano presenti.

2. Creazione e trasmissione

Una volta formulati mentalmente dal Gran Maestro, i due verbi della “parola semestrale”, benché espressi grammaticalmente all’infinito, vengono esplicitati come due imperativi ad agire secondo una precisa modalità operativa: secondo due idee-forza che devono fortemente

La sollecitazione operativa, comune alle parole semestrali ed annuali, è intrinseca al loro intimo logos, nel quale convergono: a) le forze individuali dei singoli massoni componenti la Catena; b) la forza collettiva che via via si va costituendo, accumulando le energie risultanti dalle Catene che di volta in volta s’ attivano. Il risultato è il determinarsi di un’ unica ispirazione iniziatica e di un’ unica volontà operativa, nel reciproco intento di realizzare I ‘ obiettivo programmato che, nel suo fine mediato, porta a risvegliare e sviluppare quella potenzialità spirituale capace della trasmutazione del soggetto.

Nel suo complesso la parola massonica è magica, sia perché viene emanata, nell ‘ ordine, da coloro che sono i custodi della tradizione iniziatica: Gran Maestro, Maestri Venerabili; sia perché è trasmessa in Catena, dove si carica -come s’è detto- di potenza energetica. La parola, quindi, s’ arricchisce di contenuti semantici e d’ efficacia operativa; per cui diventa un medium pieno di energia che si diffonde universalmente per onde concentriche. Pertanto, complessivamente, è suono (vibrazione armonica), messaggio, simbolo, forza, carica polarizzante, stimolo all’ azione coerente.

In sintesi, quindi, la parola è un supporto (del tipo auditivo) in ordine alla proiezione (o flusso) delle energie dei componenti di un gruppo iniziatico; e al ritorno (o riflusso) in ciascuno di essi dell’energia proveniente dalla somma delle singole energie proiettate (o fluite). In quest’ ambito, la duplicità della “parola semestrale”è funzionale alla raccolta ed accumulo delle energie dei componenti in entrambi i sensi rotatori (antiorario ed orario) del circolo formato dalla Catena. Proiettate ed accumulate, le energie si coagulano nel punto di partenza e di arrivo (Capo-catena) in un ‘unica energia che, così potenziata, ritorna (o rifluisce) in ciascun componente durante la pausa prima dello scioglimento della Catena.

3. La scienza del tatto

Il processo di creazione, trasmissione e diffusione della parola richiede, innanzitutto, una fondamentale opera propedeutica: l’approntamento, nell’interiorità del soggetto propulsore, del ‘luogo’ idoneo in cui deve prodursi l’impulso che dà origine all’intera fenomenologia del fatto. Tale ‘luogo’ viene raggiunto e predisposto ali’ opera con un atto di concentrazione dentro di sé, sino a raggiungere il centro di coscienza. Qui si deve realizzare un perfetto silenzio interiore, in modo da permettere I ‘ ingravidazione della mente da parte degli archetipi che costì si manifestano trasportati dalla Luce che, emergendo dal profondo, si rivela. La Luce che viene alla coscienza è il Verbum, ovvero la Parola.

Su questo sfondo sgorga limpida la libertà (libero arbitrio) del soggetto medesimo. sulla base della quale la volontà compie una scelta (che è una determinazione spirituale), elaborando un’idea (che è una decisione creativa archetipizzata). Quest’ idea, completa nella sua formulazione ed orientata verso la sua propria realizzazione nella temporalità, viene storicizzata nella forma di “parola semestrale” o “annuale”.

Sulla lunghezza d’onda di questo complesso processo mentale s’innestano le omogenee volontà dei fratelli espresse in Catena, che accettano I ‘ idea, la fanno propria, contribuendo a creare un unico pensiero collettivo polarizzato, per un verso, sull’idea originaria, per altro verso, sulla sua finalità qualitativa ed operativa. Questo potenziale volitivo e im(mag)inativo, proteso sulla sua realizzazione (sul suo fine), determina una tensione (che sta tra due poli: la causa e il fine); la quale produce il movimento di un’energia vibratoria, che a sua volta attiva intorno a sé un campo energetico analogo a quello elettro-magnetico. Chi si trova all ‘ intemo di questo campo fruisce naturalmente d’un apporto energetico e, di conseguenza. potenzia le sue capacità psico-fisico-spirituali, ed inoltre riequilibra la globalità del suo essere.

L’energia di cui qui si parla consiste nella fluidificazione o trasformazione della volontà tesa al fine: la realizzazione dell’ idea contenuta nella “parola semestrale” o “annuale”. Detta energia è una materia sottile in movimento, costituita da una quantità di particelle di qualità omogenea. A queste, per attrazione simpatica, s’ aggregano altre, prodotte dai componenti delle varie catene che si formano nelle Logge.

ln tal modo l’originaria luce dell’idea si trasforma in forza dell’idea, ovvero si ha il passaggio da un’ idea-luce ad un’ idea-forza che alimenta e protegge quanti partecipano alla sua realizzazione. Si ha un’ attivazione ordinata di forze tese ad un unico ‘progetto’ : l’ Utopia ermetica. L’ordine che regola l’ intero corpo iniziatico, a livello centrale e locale, riceve qui esplicitazione programmatica finalizzata allo sviluppo dell’Istituzione. della Catena e d’ ogni soggetto che vi partecipa, per il bene dell’umanità e alla gloria del Grande Architetto dell ‘ universo.

Siffatto campo o flusso particellare, inoltre, dà vita ad un Egregoro; anzi, è esso stesso un Egregoro. E’ una forza globale oggettivata; quindi è una realtà oggettiva (con linguaggio rituale chiamata Nume) che insieme alla pluralità delle volontà causanti – spinge a sua volta verso la realizzazione del fine indicato nella “parola semestrale” e “annuale”

Siccome, però, come s’è detto, è una forza compattamente omogenea, identificata in un preciso segno qualitativo (quello impresso dalla parola). essa respinge ed espelle ogni altra forza che le sia eterogenea; distrugge tutte quelle microforze che non siano in conformità col disegno tracciato nella tornata in cui s’è lavorato per definire qualitativamente la forza. Questo Egregoro, fortemente e ineluttabilmente teso alla realizzazione del suo proprio fine, non può che annientare ogni elemento che gli si contrappone. La trasgressione determina immediatamente un ‘ onda d ‘urto, che si ripercuote in misura notevolmente diversa su ambedue le parti in conflitto, sull’Egregoro e sul trasgressore: a) sull’Egregoro, inficiandone parzialmente sia il potere di catalizzazione dei processi di realizzazione, sia il potere di protezione (questa alterazione dell’Egregoro può essere riassorbita soltanto restaurando I ‘ ordine complessivo); b) sul trasgressore, abbattendosi con tutta la sua potenza e determinandone la distruzione secondo un grado proporzionato all ‘entità della sua colpa.

4. Gli effetti

L’ insieme di questo processo, che s’ inquadra nel fenomeno di Catena d’ unione, quindi in una coerente operatività personale c di gruppo, sortisce effetti:

  • sul piano psico-somatico, potenziando le facoltà d’ ogni soggetto e riequilibrando la globalità del suo essere;
  • sul piano gnoseologico, stimolando la progressione della conoscenza attraverso nuove intuizioni illuminative (illuminazioni) o rammemorative, evocative (reminiscenze);
  • sul piano etico, determinando stati di coscienza progressivamente più alti ;
  • sul piano iniziatico, contribuendo all ‘ accelerazione della generale trasmutazione spirituale del soggetto, agevolando il passaggio dallo spesso al sottile;
  • – infine, sul piano programmatico, producendo effetti positivi nel particolare (nei Fratelli e nelle Logge) come nel generale (nell’Istituzione, nell’umanità, nel cosmo), in quanto dà luogo alla formazione d’un ‘mattone’ , ovvero d’un “pacchetto di energie sublimate” che potenziano l’ Egregoro universale: il grande lavoro che mira alla costruzione del Tempio interno ed esterno, il Tempio dell’Ideale attuato.

5. Le condizioni

Condizioni indispensabili per la buona riuscita della trasmissione della “parola semestrale” ed “annuale” in Catena d’unione sono:

  1. l) Concentrazione serena, imperturbata, distaccata, fredda (per togliere il desiderio, per spegnere il fuoco delle passioni), attivando intensamente la volontà sull’oggetto indicato dal Capo-catena. 2) Purezza d’intenti, così precisata:
  2. Ognuno (che in quest’occasione reagisce analogicamente come una pila) deve garantire dentro di sé la presenza degli elementi necessari all’ operazione: l’idea e la tensione volitivo-realizzativa di essa, non altro; la Catena funziona (anch’essa analogicamente) come una batteria solare, trasformando un flusso luminoso (l’ idea-luce: tradotta in idea-forza e in “parola semestrale” o “annuale”) in energia elettrica e, quindi, magnetica: carica energetica vibratoria.
  3. Conseguentemente, dev’ esserci assenza di elementi inquinanti o eterogenei al processo, in ogni fase.
  4. Equilibrio personale. sul piano fisico, animico, spirituale.

3) Fiducia incondizionata nel buon esito dell’operazione che si compie. 4) Fusione (amorosa) tra i fratelli.

6. Conclusioni

Una conferma veritativa del processo in cui la parola è soggetto creativamente e fattivamente attivo sembra essere indicata tanto in uno dei Frammenti di Eraclito, quanto nel Vangelo di Giovanni.

In Eraclito il Logos, o Parola, è la legge comune della realtà; la legge in forza della quale accadono tutte le cose; “è la legge del mondo”; è l’ “unica legge divina”. Ma gli uomini non la intendono, “discordano dalla verità, dalla legge del mondo ad essi in ogni momento presente, e le cose in cui si imbattono ogni giorno sembran loro estranee”. “Non sanno né ascoltare né parlare”. “Non capiscono, anche se ascoltano, simili ai sordi; di loro testimonia il proverbio: “son presenti, ma assenti” (Frammenti, 1, 7, 8, 9, i presocratici. Frammenti e testimonianze, tr. it., a cura di A. Pasquinelli, Torino, Einaudi, 1958, pp. 176-177).

Una certa concordanza con questi testi si riscontra in Giovanni, nel “Prologo”, laddove è detto: “Il Verbo era in principio […l: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste”; ‘eppure il mondo non lo riconobbe”. Nel Verbo “era la vita e la vita era la luce”. “11 Verbo si fece carne e venne ad abitare in noi; e noi vedemmo la sua gloria […], pieno di grazie e di verità” (Giovan-

La parola, quindi, qui appare come lo strumento divino attraverso il quale s’origina e si compie la creazione. La parola che diventa “carne”, cioè fatto (storico), è la prova più alta della correttezza metodologica – almeno in linea di principio – d’ una dinamica che in Massoneria viene ripetuta per imitazione. però dopo essere stato svelato e conosciuto il suo mistero. Dalla volontà di Dio, espressa attraverso il Verbo, s’ attiva un’energia vitalizzante che si concretizza in una creazione dinamicamente continua (la C.d. “Creazione continua”), così come appare nella pluralità delle cose esistenti e perennemente divenienti.

L’uomo, fatto “a immagine di Dio” (Genesi. l, 27), ha – per ciò stesso – la possibilità virtuale di ripercorrere i sentieri del Signore. Ha in sé la capacità di trasformare la sua potenzialità in attuosità. L’uomo creato simile a Dio per mezzo del Verbo, che è il Cristo (la Parola mandata sulla terra per rivelarvi i segreti della volontà divina), vuol significare che – attraverso un particolare processo ascensivo, ch’è patrimonio della sapienza massonica – può giungere al Padre, alla sua onniscienza e potenza, gradualmente assimilandole. Ha ricevuto “l’ intelligenza per conoscere il vero Dio” (l Giovanni, 5, 20). Ha la possibilità di farlo, sia perché è costituito di sostanza divina (lo Spirito), sia perché al centro del suo essere arde il Fuoco (la Luce, il Logos), anche se poi questo è stato oscurato e oppresso dalla materia incosciente. Il percorso della “parola semestrale” ed “annuale” è analogo a quello del Verbo; attiva dei processi. La  parola massonica opera a somiglianza di quella di Dio. Tenta il grande azzardo secondo una scienza ed un ‘operatività ben conosciute e custodite nello ‘scrigno’ della Tradizione. Sta ai Massoni non smarrire la Parola (divina) e non perdersi nei labirinti delle parole (profane) provenienti dall’ incoscienza. •

 

Il Maestro disse: “Se il popolo è regolato dalle leggi ed uniformato attraverso le punizioni, esso cercherà di evitarle ma non sentirà alcun senso di vergogna. Se esso è invece guidato dalla virtù e uniformato attraverso le norme di buon comportamento e attraverso i riti, il popolo coltiverà il senso di vergogna, e quindi progredirà”.

Confucio

Agorà novembre – dicembre 1997

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LO STATO ITALIANO E’ UNO STATO DI DIRITTO

Lo Stato d’Italia è uno “stato di diritto” da quando, nel 1861, il Regno fece proprio lo Statuto albertino del 4 marzo 1848 il cui articolo 24 recita: “Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono uguali dinnanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili e militari, salvo le eccezioni determinate dalle leggi”. La confessione religiosa cessò di essere discriminante. Col tempo la libertà di coscienza garantita dallo Statuto divenne costume condiviso, grazie a uno stuolo di spiriti universali. Non accadde altrettanto in regimi teocratici, che subordinano i diritti dei cittadini a una confessione religiosa. Lo spiegò Garibaldi nei suoi romanzi, scritti “per il popolo”.

La scimitarra sull’Europa…

Nei suoi ultimi anni Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807-Caprera 2 giugno 1882) affinò il proprio pensiero politico. Nel 1860, messa a segno l’impresa dei Mille, senza la quale l’unità d’Italia non sarebbe mai nata, vaticinò gli Stati Uniti d’Europa. Dal 1870, dopo la guerra franco-germanica, in cui combatté a fianco dei francesi contro il militarismo prussiano, e la “Commune” del 1871 (da lui deprecata), invocò la “debellatio” dell’impero turco che opprimeva l’Europa orientale. Unì motivi religiosi e culturali a ragionamenti politici tuttora attuali. Se ancor oggi Costantinopoli è Istanbul lo si deve alla “diplomazia” di Londra e Parigi: è la pesante eredità della Guerra dei Trent’anni (1914-1945), quando i vincitori, pur in presenza dello sfascio dell’impero ottomano, lasciarono ad Ankara la cosiddetta “Turchia europea” per interdire alla Russia l’accesso dal Mar Nero al Mediterraneo attraverso gli Stretti. La miopia si paga nei secoli. Se la cosiddetta Unione Europea (irrilevante sotto il profilo politico e quindi militare) volesse per Costantinopoli una sorte migliore, dovrebbe accogliere la Turchia che ha cancellato la memoria di Ataturk e aspira a restaurare il Califfato islamico.

Garibaldi aveva idee chiare sulla Sublime Porta…

C’è un Garibaldi quasi sconosciuto. Molto oltre il corsaro, il guerrigliero, il generale, vi è il politico: alfiere della fratellanza universale e, proprio perciò, strenuo fautore della lotta per sottrarre l’Europa alla dominazione dei turchi e all’invadenza dell’Islam. Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio, il meno studiato e pressoché sconosciuto. Così la sua lotta contro il dominio ottomano su qualunque lembo d’Europa e contro la propagazione dell’islamismo (ideato sei secoli dopo il cristianesimo e che non ha mai fatto i conti con la Rivoluzione francese) rischia di rimanere ignorata. È un Garibaldi scomodo. Perciò vi sono buone ragioni per parlarne. Il Generale mostrò senno politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto. Il suo anticlericalismo radicale, solitamente ritenuto circoscritto alla chiesa cattolica, investì ogni forma di intrusione delle religioni nella vita civile e nella libertà delle persone. La sua lotta per la liberazione dello spazio euro-mediterraneo dai “turchi” andò però molto oltre l’ambito religioso. Fu lotta politica, legata alla valutazione positiva dell’espansione degli europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale (programma condiviso da Mazzini) da parte della “civiltà occidentale”, razionale, fondata sull’intreccio di scienze, produzione, mercato, progresso civile. Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli: per lui era patrimonio universale. Considerava sua missione propugnarlo ovunque. A quel modo fu “eroe dei due mondi”, etichetta altrimenti futile.

Nelle Memorie Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina avvolta nel mistero. I biografi la saltano a pie’ pari. Ammalatosi in uno dei tanti viaggi in Oriente (di quale morbo?), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette: «La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’impero turco, detto Sublime Porta, NdA) contribuì a prolungare il mio soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’ di greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni.» I maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione. Garibaldi ci tornò con una pennellata quando, molti decenni dopo. In una pagina di appunti fustigò “Il prete”: «Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo, Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza degli uomini e dei popoli. Io ho percorso la superficie del globo. In Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne, perché i preti dicevan loro ch’io era un maledetto! In Cina mi successe lo stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città Chinesi, non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine suscitata dai preti.»

… e sull’islamismo

L’avversione di Garibaldi nei confronti dell’islamismo non è una cappella laterale della sua vastissima basilica anticlericale. Non è dottrinale, teologica. È propriamente politica. Dall’infanzia aveva appreso, e non solo per racconti popolani ma per esperienze vissute, il pericolo dei “pirati”. Nizza, la sua città, ricordava devastanti incursioni delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro romano impero di Carlo V e la Spagna di Filippo II: un gioco diplomatico continuato con Luigi XIV sino a Napoleone III (alleato con Londra, Parigi e l’impero turco contro la Russia di Nicola I: la “guerra di Crimea” decantata dalla storiografia italocentrica per l’intervento del regno di Sardegna a fianco del Sultano). Sulla fine degli Anni Venti dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva così minacciosa e dannosa da indurre la Francia di Carlo X, il Piemonte di Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone a una spedizione navale comune. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo.

Nel 1827, ricorda il dotto garibaldologo e confratello Maurice Mauviel, il “Cortese”, brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da corsari. Il comandante, Semeria, ordinò agli uomini di non opporre resistenza per non avere la peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due altri assalti pirateschi, mortificanti e umilianti. Gli rimasero fissi nella memoria. Ne scrisse in Manlioromanzo contemporaneo, al quale lavorò sino all’ultimo giorno. Vi descrisse i Riffegni (abitanti del Riff, sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel 1849) e l’Assalto di pirati alla nave “Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della repubblica Romana, recava “Manlio”, di soli cinque anni, verso lo stretto di Gibilterra alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla di “arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: «Come il leone, il Riffegno è bello e forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea. Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano, eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti furono gli equipaggi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti dalle calme presso coteste coste inospitali.»

   Manlio non è un romanzetto qualunque. È il “testamento politico” di Garibaldi. Un suo capitolo è un susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto liberopensatrice: «MarsalaMarsala

rispondeva un garibaldino all’Allah Urrah degli Ottomani e si lanciava seguito dai suoi alla riscossa dei difensori della prora.» La battaglia navale vi viene infine risolta da “Vero”, che, precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido «All’armi…Qui non si tratta di bende ma della pelle (sic!) Avanti fratelli!».  “Vero” (nel quale Garibaldi si identifica) a colpi di revolver e di «un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la propria conservazione».

Estirpare il fondamentalismo dall’Europa…

Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra impero turco e civiltà europea a mero riflesso di vicissitudini personali. Esso esprime una visione geopolitica di ampio orizzonte, nell’ambito della guerra secolare tra diritti dell’uomo e del cittadino civili e islam.

Prosatore esondante, Garibaldi sapeva controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno centellinati e capiti, più e meglio di quanto sinora sia stato fatto. Il 5 maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della lega per la protezione degli animali: «Mentre l’Europa progredisce che fa l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia, prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti, Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna…». Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la “gran piaga della miseria”, rifiuto del programma dell’Internazionale (confisca della proprietà privata e dei diritti ereditari…) e condanna della scioperomania che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro.

Non parlava per sé. “Agricoltore” (come si classificò alla Camera), Garibaldi era una “filosofia politica in azione”, campione di una guerra di liberazione culturale e politica, come osservò Aldo G. Ricci in “Obbedisco. Un eroe per scelta e per destino” (Ed. Palombo). Per lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto di civiltà. Lo scrisse il 4 marzo 1876 a Ferdinando Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù slava: «La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato l’anatema contro i seguaci della croce. Ed i settari del palo, dopo d’aver lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli schiavi che preferirono la morte al servaggio. E voi, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni discendenti di Maometto. Il turco deve passare il Bosforo e solo alcuni ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi. Invalido, io invio un saluto del cuore ai fieri campioni della libertà orientale.» Non nutriva dunque alcuna ostilità nei confronti della popolazione turca ma ne aveva contro il regine teocratico che la opprimeva.

Il Solitario contro l’oscurantismo

Contro la “pax” immobilistica dettata dal Congresso di Vienna nel 1815, ribadita da quello di Parigi del 1856 e dal concerto europeo che di conflitto in conflitto riportava il Vecchio Continente ai confini e alle logiche della Restaurazione, Garibaldi pose il problema delle “nazioni senza stato”, dei popoli inchiodati alle tavole di spartizione delle grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, lo spirito che aveva fatto nascere l’Italia a Stato indipendente, unica nazione emersa per somma di fortune dalla Restaurazione del 1814-15 e dalla repressione della primavera dei popoli (1848-1849).

Agli occhi di Garibaldi la presenza della Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene. Non per motivi etnici, ma perché bastione del fondamentalismo oscurantista. L’occasione sembrò profilarsi dal 1875 con le rivolte antiturche, dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta grazie al sostegno della Gran Bretagna, sospinta dai suoi soliti calcoli geopolitici e da interessi finanziari. Il 17 luglio 1877 Garibaldi scrisse al marchese Filippo Villani: «Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra.» Ma bisognava vincere gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: «In questi ultimi tempi, massime per la questione orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio, sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo [lord Disraeli, NdA] lasciarsi condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili. No! Ed io raccapriccio pensandovi! […] E i preti? Peste dell’umana famiglia, hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti.»

Nel Manlio Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero a quelle specifiche contro «il Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne, bambini!!!».

Sospinto dall’orrore, il “Solitario” (come Garibaldi si autodefinì in Clelia) sognò una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a cominciare dall’isola di Creta: «Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea, v’incontrò la turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…» Non erano sfoghi letterari ma ragionamenti politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: «Dunque dopo tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile, converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero.»

Garibaldi sperava in un Congresso che esercitasse l’arbitrato internazionale, la ricerca di una soluzione pattizia dei conflitti nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con sé la libera navigazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli Stretti.

La pace di Santo Stefano e il congresso di Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’impadronì di Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora rimane: un equivoco irrisolto nel Mediterraneo orientale. E il gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio inestricabile, letto di procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area balcanica.

Il Solitario aveva intravveduto e suggerito la soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue Carducci in versi staffilanti. La grande guerra si concluse sul versante orientale con la pace di Sèvres, che lasciò gli Stretti ad Ataturk (massone, sì, ma, come tanti altri “fratelli”, solo sino a quando gli fece comodo) in cambio dell’adozione dell’alfabeto latino e di una parvenza di “laicizzazione”. La seconda guerra mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze delle diplomazie, oggi incombenti sull’Unione Europea, a sua volta incapace di politica estera di vasto respiro.

Aveva ragione il Solitario di Caprera. Il cui pensiero perciò venne ignorato: troppo scomodo, sempre attualissimo.

Aldo A. Mola

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SAN VALENTINO

Una tradizione antica: SAN VALENTINO

 

Carissimi Fratelli,

forse, sono in molti a non sapere che tutte le usanze, in verità molto antiche, legate a questo giorno, nulla hanno a che spartire con i due martiri cristiani, che si chiamavano entrambi “Valentino”.

Le remote tradizioni legate a questo giorno derivano, quasi certamente, da una festa dell’ antica Roma, chiamata appunto “Lupercalia” che cadeva a metà marzo ed era dedicata a Giunone.

Per certi aspetti, la divinità romana “Luperco” era molto simile al dio greco “Pan”, il dio della natura, tanto che la celebrazione a lui dedicata coincideva con una grande festa dedicata ai giovani. Nel corso dei festeggiamenti, venivano effettuati gli abbinamenti dei giovanotti e delle fanciulle, i cui nomi, in precedenza trascritti su foglietti di carta, erano stati inseriti in una urna.

I prescelti erano soliti, per dimostrare il reciproco compiacimento, scambiarsi doni e gentilezze: questi incontri, poi, non di rado si consolidavano in felici unioni matrimoniali.

Con l’ avvento del cristianesimo, la Chiesa volle dare, anche a questa ricorrenza, un significato religioso tanto che papa Gelasio, nell ‘anno 496, spostò le festività dei “Lupercali”, al 14 febbraio, facendole coincidere con il giorno dedicato al santo di nome Valentino.

Ma chi era san Valentino?

Gli storici sono discordi sulla identità del santo degli innamorati.

Era presumibilmente l’anno 270 ed a Roma regnava l’imperatore Claudio II. Valentino, era un umile prete che predicava la parola di Cristo. Condotto in carcere, venne barbaramente ucciso, sul colle Palatino, proprio nel luogo dove era stato eretta l’ara in onore di Giunone.

Le cronache dell’epoca raccontano, in verità, di un altro Valentino, vescovo di Terni, che nel 273 dopo Cristo, venne ucciso per aver tentato di convertire alla cristianità, una famiglia patrizia di Roma.

Particolarmente curiosa era la credenza diffusa tra i celti. Essi ritenevano che nei giorni tra il 12 e il 14 febbraio, avveniva l’accoppiamento degli uccelli e la natura, in coincidenza di ciò, si svegliava dopo il lungo letargo invernale.

In questo periodo, in una zona boscosa a ridosso del fiume Po, giovani e fanciulle, in età da matrimonio, erano soliti accendere grandi fuochi e dare il via a festose danze.

Si sorteggiavano i nomi dei componenti le coppie che, una volta formatesi, davano il via al vicendevole scambio di fiori profumati e dolci fragranti, lasciandosi successivamente andare, in un crescendo di effusioni amorose…

Dovunque, così come in Inghilterra e Francia, in Lorena e Scozia, l’abbinamento di giovani felici, desiderosi d’amore, coincideva sempre con il risveglio della natura e con essa, il desiderio di tutti gli esseri viventi di eternare, con la procreazione, la specie.

II nome Valentino, dal latino “valens, valentis”, vuol dire vigore, salute florida, gioventù, mentre nell ‘ antico linguaggio celtico, invece, le parole “vales, valez, valet”, volevano significare giovane uomo in età puberale, non legato ancora ad alcuna donna.

Nella “Histoire ecclesiastique”, viene espressamente indicato nel capo della setta degli Gnostici, conosciuta anche con il nome di Valentiniani, l’eresiarca di nome Valentino Egizio. Essi, continua il racconto, erano soliti iniziare i neofiti, ai misteri Valentiniani, dopo aver predisposto il tempio, a camera nuziale: recitando un misterioso formulario, celebravano ritualmente il suggestivo matrimonio spirituale, tra i candidati e le Entità spirituali, gli Eoni.

In alcuni paesi scandinavi, la festa dei fidanzati è quasi sempre legata alla giovane reginetta della luce: santa Lucia. E’ durante questa festività che è consentito ai giovani di adocchiare la fanciulla a cui essi si dichiareranno, poi, con la promessa d’amore, il giorno di san Valentino.

Inevitabile, nel riscoprire l’ origine pagana di una festività come quella di Valentino, percorrere, con gli occhi della mente, verdi prati fioriti, boschi rigogliosi, laghi incontaminati e rive di fiumi argentati.

Dovunque, nell’agreste scenario… giovanetti festosi, sorridenti, che danzano al dolce suono del flauto di Pan, impegnati in carezzevoli lanci di fiori profumati, preludio di gentili corteggiamenti d’amore.

Serene, immagini bucoliche appartenenti ad un passato, purtroppo, tanto, ma tanto lontano da noi.

Se quelle giovani creature, ahimè, per una malaugurata coincidente apertura del diaframma spazio4           Agorà gennaio – marzo 1997 temporale, venissero proiettati improvvisamente nel nostro secolo, sono certo rimarrebbero, irrimediabilmente, traumatizzati dallo scenario totalmente mutato. Qualche centinaio d’anni… e la cosiddetta civiltà del XX secolo avrebbe cancellato radicalmente, e per sempre, quel paesaggio paradisiaco, del passato!

Difficile, ritengo, immaginare, sia pure per un istante, lo stato d’ angoscia in cui si verrebbero a trovare i nostri giovani viaggiatori del passato e, cosa da non poco, il loro disperato desiderio di fuggire lontano, nel tentativo di allontanarsi dall’attuale scenario di morte.

Come sarebbe possibile, altrimenti, danzare sulle rive di laghi putrescenti, privi del verde riflesso dei boschi, sradicati, purtroppo, per produrre parquets e legna da ardere?

Che dire, poi, delle torbide acque giallastre di fiumi senza più vita, a causa dei rifiuti, delle città e delle industrie, e…, dappertutto, nell ‘ aria, l’ appestante odore degli scarichi delle auto… !

Attenti! Fate attenzione, giovani fanciulli del passato, che fuggite lontano, terrorizzati da tanto scempio! Attenti a non fare brutti incontri !

Potreste essere inevitabilmente oggetto di qualche lancio di pietre, o strattonati violentemente, con conseguenze gravi, da uno spregiudicato scippatore di passaggio, a caccia di prede, oppure, peggio ancora, adescati da uno dei tanti lerci figuri dediti alla pedofilia, perversione molto comune, oggi, da noi.

Come poter spiegare loro che viviamo, nostro malgrado, in una società dove bimbi, cagnolini e spazzatura, senza alcun distinguo, vengono gettati nei cassonetti, impietosamente… ?

Quale ragione addurre per giustificare, tentando una sia pur piccola difesa d’ufficio, il “barbaro nostro contemporaneo” che si divertiva a spegnere cicche di sigarette sul dorso di un inerme, fedele cane…? E poi, dei nostri ragazzi, giovani fanciulli anch’essi, alla mercé di branchi di spacciatori, all’uscita delle scuole… ?

Avrete certamente notato, giovani e fanciulle di un passato più giusto, in perfetta simbiosi con la natura, quanto difficile sia vivere, oggigiorno, nel XX secolo.

Capisco. Vorreste fuggire… lontano, verso chissà dove!

Per noi, purtroppo, della civiltà del consumismo, non vi è ormai più scampo. Nessuno può sfuggire, ahimé, all’agghiacciante e diffuso vuoto esistenziale che la stupida follia dell’uomo ha determinato, con il sovvertimento dell ‘ordine naturale delle cose…

Silvio Nascimben

Presidente del Collegio Circoscrizionale della Puglia

“Per cercare Dio non è necessario andare in pellegrinaggio o accendere lampade e bruciare incenso davanti all’immagine della divinità o aspergerla d’olio o dipingerla di rosso cinabro. Egli risiede nël nostro cuore. Se potessimo cancellare completamente in noi la consapevolezza del nostro corpo fisico, lo vedremmo faccia a faccia.

Gandhi

Agorà gennaio – marzo 1997                                                                                                            5

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DA DOVE VENIAMO, DOVE DI TROVAMO, DOVE ANDIAMO

Da dove veniamo? Dove ci troviamo? Dove andiamo?

Questi sono i punti che mi propongo di trattare nel mio discorso. Comincio con il primo.

Da dove veniamo?

Se l’uomo sente una forte inclinazione per il meraviglioso, non meno forte è ciò che prova verso tutto ciò che è misterioso: supponendo che questi due sentimenti non provengano dalla stessa fonte e che, alla loro radice, non siano identici. Nello stesso tempo, sembra che questi due sentimenti abbiano a che fare con un bisogno dal quale l’uomo è continuamente tormentato, il bisogno di strappare il velo che lo circonda, per penetrare fino al santuario della verità e portare le sue conoscenze al di là del limite che è assegnato dalla natura alla sua intelligenza. Questo bisogno indeterminato lo predispone a sottrarsi dal mondo, per potersi dedicare con maggiore indipendenza all’esercizio delle sue facoltà morali, all’espressione dei sentimenti che riempiono il suo cuore, alla pratica di quelle dottrine che soddisfino il suo spirito e la sua immaginazione. Da ciò provengono le assemblee segrete.

Ne sono esistite fin dai tempi più antichi e storicamente conosciuti. Ne percepiamo le prime tracce nell’antico Egitto. Quelle assemblee avevano luogo nei sotterranei del tempio di Iside. I misteri intorno a quella dea ne furono la causa prima, ovvero il seguito e l’effetto.

I Greci, come altri popoli, attinsero da quella fonte feconda le alte conoscenze della filosofia e le costituirono il culto consacrato nelle feste che si celebravano ad Eleusi, in onore di Cerere.

Gli Ebrei, anch’essi, fecero grande esperienza di quelle pratiche. E tutto porta a credere che sia attraverso l’intermediazione di qualcuna delle loro sette che quelle pratiche siano giunte fino ai nostri tempi moderni. Tra le diverse prove che potrebbero essere portate, vi sia quella del rimarcare come tutte le parole sacramentali che la tradizione ci ha trasmesse, siano ebraiche.

Dopo la caduta dell’antica civiltà, severa presso gli Egiziani, è vero, ma imbelle in Grecia a causa del prestigio più seducente dell’immaginazione, possiamo vedere nascere anche nel Nord, nel mezzo stesso dei secoli della barbarie, delle assemblee segrete; ma invece di somigliare a quelle degli antichi popoli dell’Oriente, esse furono improntate da un carattere che risentiva del clima e dello stato imperfetto della società umana, in epoche difficili per la specie umana stessa.

La più rimarchevole di tali istituzioni del tempo è l’organizzazione del tutto misteriosa dei Druidi, la cui ambizione teneva sulla testa dei nostri antenati Galli lo scettro insanguinato di una teocrazia dispotica.

Il famoso tribunale segreto, la cui esistenza comincia a farsi notare nella Germania del XIII secolo, aveva qualche somiglianza con l’istituzione della quale io ho parlato, pur senza avere lo stesso fine.

E alcuni dotti personaggi ritengono che un governo celebre per l’antichità della sua fondazione, che va talmente indietro che non sarebbe facile assegnarle una data corrispondente nella nostra cronologia, parlo della Cina, questo governo, ritengono questi dotti personaggi, è organizzato su un sistema che, nei suoi principi fondamentali, partecipa della natura delle società politico-misteriche.

Infine, avvicinandosi a noi, si sarebbe tentati di associare alla stessa tipologia di società, l’esistenza di una società famosa, in particolare per il sapere ed il grande talento dei suoi membri: il fatto che pare autorizzare questa associazione è che, come sembra, le sue costituzioni, che sono tenute ben nascoste, stabiliscono una organizzazione interna che è divisa in diverse parti, delle quali i membri non acquisiscono la conoscenza che progressivamente e in misura di quanto ne siano ritenuti degni di fiducia da parte dei capi, unici depositari dei grandi segreti dell’ordine: segreti che si pretende siano quelli di dirigere i governi, impadronendosi dello spirito e della confidenza dei Sovrani e degli uomini di stato. E’ evidente che sto parlando dei Gesuiti.

Per ciò che mi riguarda, mi guardo bene dal far derivare la nostra istituzione da quelle che il Nord ha visto comparire, delle quali io non ho parlato che incidentalmente, e che sembrano aver lasciato qualche radice e con le quali, per fortuna, noi non abbiamo alcuna somiglianza. La loro influenza si estendeva sugli affari pubblici; al contrario, i nostri precetti ce ne tengono lontani il più possibile.

Fino ad ora, non ho detto nulla delle assemblee che si tenevano negli ordini della Cavalleria, rientrati dalla Palestina a seguito delle Crociate. Tutto ci annuncia che sono queste corporazioni ad averci apportato gli elementi della istituzione che noi pratichiamo oggi, sotto il nome di Libera Muratoria. Non comincerò qui a tracciare la storia di questa trasmissione; oratori molto più esperti l’hanno esposta da questo posto.

Così, secondo l’opinione dei Muratori più istruiti, noi veniamo dalla buona e saggia antichità, e siamo passati attraverso le intermediazioni che ho indicato.

Dove siamo?

E’ fuori di dubbio il fatto che, a seconda dei tempi, dei luoghi, delle circostanze politiche, dello spirito che ha diretto le diverse nazioni, la Libera Muratoria abbia ricevuto colori differenti, dipendenti dal significato specifico che punti vista particolari abbiano avuto interesse ad attribuirle. Si è cercato, non vi sono dubbi, di farne talvolta un velo per coprire intenzioni nascoste. Talaltra, la Libera Muratoria è servita come mezzo di riunione e di riconoscimento in ordini di grande importanza, soprattutto per le loro immense ricchezze, dei quali si è preteso che avessero il disegno di imporsi ai Re, facendo temere la loro potenza. Più tardi, la si è utilizzata per conservare il ricordo di un crimine politico, compiuto all’inizio del XIV secolo ai danni di un gran numero di personalità notevoli. In altri tempi, e in un paese a noi vicino, se ne fece anche il mezzo per commemorare un altro evento dello stesso genere accaduto nel 1649, ma in un uno spirito del tutto all’opposto.

Forse vi sono ancora altri significati che non conosco, come la Scienza Ermetica, o i Martinismo. Dirò solo una cosa: questi significati sono diametralmente opposti alla nostra istituzione.

Questo spirito è solo e completamente pacifico, fraterno, eminentemente morale!

Oggi che i progressi dell’illuminismo hanno sviluppato il germe prezioso di una filosofia saggia e beneficente, il nostro Ordine, liberato dalla ruggine dei tempi passati, e dei pregiudizi dei quali a quel tempo non poteva essere del tutto al riparo, oggi il nostro Ordine è quello che veramente deve essere, una istituzione filantropica, che ha come obiettivo principale di rendere l’uomo felice, mettendolo in condizione di vincere le sue passioni e di esercitare la beneficenza e l’affetto verso i suoi Fratelli, ed una benevolenza senza riserve, e l’amicizia verso i Fratelli, e la benevolenza e la tolleranza verso tutti gli uomini.

In altri tempi, si faceva prestare giuramento sul Vangelo: si trattava di una contraddizione ed una scorrettezza verso il Simbolismo, che non ha alcuna analogia con i culti moderni. Il giuramento dei nostri tempi è ben più in armonia con questa base fondante dell’edificio: <lo giuro su questa spada, simbolo dell’onore>. C’è qualcosa di più indipendente, che meglio si lega a tutti i tempi, a tutti i popoli, di più libero dell’influenza di tutte le specie di religione?

La Libera Muratoria ci ha portati alla purezza dei suoi elementi veri: ecco, dove noi siamo.

Dove andiamo?

Alla perfezione! Questa affermazione potrà apparire una iperbole a degli spiriti volgari; ma le orecchie di Muratori illuminati, come quelli che compongono questa assemblea, non ne saranno per nulla sorprese; per parte mia, io sono certo di essere inteso. Ripeto perciò con sicurezza: alla perfezione.

Se sono arrivato, come volevo, a farvi capire che il momento nel quale siamo è il più bello della Libera Muratoria, quel momento nel quale la Libera Muratoria può davvero essere se stessa, e marciare verso il suo vero obiettivo, senza intoppi e senza deviazioni, senza essere trattenuta da incrostazioni che si potrebbero chiamare parassite, la mia terza proposizione è facile da spiegare.

L’esercizio della Libera Muratoria può dividersi in due parti ben distinte: la parte simbolica e quella amministrativa.

Qualunque società, qualunque associazione, ha necessità di regole organizzative che stabiliscano una gerarchia e una catena di subordinazione, in modo tale che a partire da quelle ogni membro possa indirizzare la sua condotta nei doveri e nelle funzioni che assolve. Questo è l’oggetto dei regolamenti generali dell’Ordine, e dei regolamenti privati di ogni Officina.

Quella è la parte che si potrebbe definire materiale. Ma troppo sovente, è la sola della quale ci si occupi in Loggia; troppo spesso, i dettagli della amministrazione consumano il tempo, quello che dovrebbe essere consacrato a lavori assai più elevati e infinitamente più importanti.

Se l’altra parte, invece, non è composta che da pratiche che non sono altro che perpetue ripetizioni delle stesse cose, deprivate di qualunque obiettivo, secondo il linguaggio di alcuni Muratori, anzi di troppi, questa non è che una apparenza adatta per occhi che non sono stati colpiti a sufficienza dalla luce, o per i quali non è ancora venuto il momento di aprirsi.

Questa parte abbraccia le cerimonie emblematiche che compongono i lavori simbolici, saggia e felice combinazione, che non poteva nascere che nel tempo e nei luoghi dove era presente sotto il velo della allegoria tutto ciò che tocca le relazioni tra l’uomo e il Grande Architetto dell’Universo, tra l’uomo e tutto ciò che brilla in cielo o adorna la natura, tra l’uomo e i suoi simili. La nostra arte è di comprenderle, il nostro impegno più prezioso e più degno, di renderne partecipi gli altri uomini, illuminandoli e rendendoli degni di partecipare ai nostri augusti lavori.

Si, fratelli Maestri, voi lo sapete meglio di me: queste pratiche e queste formule, che a prima vista possono apparire al alcuni così povere di senso, sono il contenitore entro il quale si trovano nascoste le regole e le massime della più sublime e pura morale, quella che vale e che è applicabile ad ogni epoca, ad ogni paese, a tutti i popoli. Queste massime avrebbero potuto alterarsi o snaturarsi con l’andare del tempo, se fossero divenute una semplice tradizione morale, sparsa senza precauzioni nella volgarità; ma stratificate, se questa espressione può essere impiegata, stratificate come sono entro pratiche ostensibili e in apparenza materiali, quelle massime sono indistruttibili e inalterabili, divenendo un solido codice, dal quale è impossibile strappare anche un solo foglio: Grazie a questo mezzo meraviglioso esse hanno attraversato i secoli giungendo intatte fino a noi, e arriveranno fino alle generazioni più lontane.

Eliopoli, Tebe, Menfi! Non esistete più che come un lungo ricordo nella memoria degli uomini. Ci sono sapienti che sfidano la fatica di lunghi viaggi, che impiegano tutto il loro zelo per ritrovare i luoghi dai quali avete orgogliosamente esercitato la vostra dominazione. A fatica, in mezzo ai rovi, trovano qualcuna delle vostre vestigia, tristi testimonianze della fragilità del potere, quando non poggia che sull’ambizione e sulle passioni! Mentre una istituzione senza fasti nuotava sopra l’oceano delle età, senza subire alterazioni importanti nella sua essenza. Il suo apparato non è abbagliante: consiste in una semplice riunione di emblemi, di pochi segni: ma questi segni e questi emblemi, ben compresi, ricordano all’uomo la sua dignità, gli rimarcano i suoi doveri, sviluppano i sentimenti più generosi e più nobili!

Mi sia consentito di dire ai giovani Muratori che non c’è nulla nei nostri usi o nelle nostre cerimonie, che non sia parte di questi emblemi e di questi simboli. Dopo il primo segno che è loro insegnato per entrare in Loggia, dopo i passi che formano la marcia del primo grado, fino alla pietra cubica, emblema dell’infinito, ogni strumento del quale ci serviamo, ogni figura che ci è presentata, ogni segno che ci è mostrato, racchiude un pensiero morale e prescrive un dovere: così diviene una cosa feconda, rivestita di un carattere indelebile. Non dirò oltre su questo argomento interessante: la trasmissione di queste comunicazioni è riservata ai Maestri dell’Ordine e non mi compete di usurpare la loro alta funzione.

Io credo tuttavia di poter ancora aggiungere che il metodo per comunicare queste importanti conoscenze, non consiste in spiegazioni orali, che non potrebbero non scivolare sulla superficie; ma nel dirigere con misura ed abilità , in una parola con una saggia riservatezza, lo spirito dei fratelli che percorrono i diversi gradi simbolici; con l’obiettivo di far loro scoprire la se stessi i significati, in modo tale che possano produrre sulla loro intelligenza una impressione più forte, imprimersi più profondamente, mettere radici nella loro anima.

I vecchi Muratori ripetono continuamente: Noi cerchiamo senza fine. In effetti, c’è sempre da ritrovare e da scoprire, anche per coloro che più sanno, in questo campo così limitato in apparenza e così vasto nella realtà.

Ogni nostra attenzione, ogni nostra preoccupazione, ogni nostra opera, devono perciò rivolgersi verso questo punto così essenziale, che racchiude i dogmi e nel quale si trova consacrata la dottrina che è anima della nostra istituzione.

Lo ripeto: in un numero troppo grande di Logge non ci si interessa che alla parte materiale: è arrivato invece il tempo di eccitare e riscaldare lo zelo dei Muratori, di far loro sentire la necessità di tagliare quella pietra alla quale non si lavora mai invano, quando lo si fa cono costanza e con il desiderio ben chiaro di cercare dei mezzi di istruzione, di perfezione e di felicità.

Ecco, miei carissimi fratelli, dove noi possiamo andare e dove noi stiamo andando, in verità.

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GLI ANTICHI DOVERI

GLI ANTICHI DOVERI

 

Gli Antichi Doveri, così come conosciuti nella formulazione, peraltro codificata e allegata alle Costituzioni del

Grande Oriente d’Italia, definiscono le regole “professionali” e comportamentali riguardanti i liberi muratori.

Regole che, a prima vista, in particolare rispetto al passato, sembrano riferite esclusivamente a disciplinare i rapporti e lo specifico contesto associativo di soggetti dediti alle costruzioni, comprese quelle di luoghi dedicati al culto, ma che a ben vedere, prevedono, fra l’altro, un requisito che può apparire anche di natura religiosa, in base al quale i massoni debbono credere in un essere supremo.

Una previsione che appare come l’unico requisito dogmatico richiesto, al di là del precetto correlato all’osservanza e il rispetto delle leggi dello Stato, al quale il massone stesso appartiene, che attiene evidentemente a piani sociologici e politici, che riguardano la civile convivenza degli appartenenti a una comunità statuale.

La necessità di credere in un essere supremo è invero talmente significativa, tanto da essere presente, anche oggi, negli Statuti/Costituzioni di quasi tutti gli ordini massonici.

Per entrare in argomento, è utile chiedersi se tale previsione è stata introdotta in quanto la formulazione degli Antichi Doveri è avvenuta nel mondo occidentale, permeato di cultura cristiano-ebraica e segnatamente perché la Massoneria, speculativa, ebbe le sue origini in ambito anglicano e protestante, peraltro in prevalenza aristocratico e borghese, ove il riferimento religioso era connaturato al contesto sociale e sinanco politico, oppure se riferita a un qualcosa di diverso, quindi non meramente religioso, nel senso comunemente inteso. ln considerazione di quanto appena cennato, è verosimile che tale requisito non attiene a una religione, ma che è da considerarsi un’allegoria, quindi un messaggio che sottintende ben altro, soprattutto se le corporazioni dei liberi muratori vengono ritenute, oltre che una sorta di associazione di categoria, un insieme transculturale ovvero multilevel, che è quindi opportuno decodificare, cosa che pertanto sottintende la possibilità di attribuire agli Antichi Doveri un portato che potremmo definire esoterico.

Ciò posto, le regole formulate e i riferimenti sociali, politici e religiosi, nel senso comune del termine, è utile ribadirlo, hanno significati che vanno oltre quello letterale, e gli stessi sono riferibili a un qualcosa di spirituale, che caratterizza ancora oggi il lavoro muratorio.

E’ quindi sostenibile che siamo di fronte a un dettato complessivo, elaborato (se vogliamo rielaborato) dopo la fondazione della massoneria speculativa, che trae spunto peraltro da precedenti codificazioni, il quale può essere considerato una sorta di matrice “dottrinale”, in altri termini un vero e proprio incipit atto a individuare e costruire un percorso finalizzato a raggiungere un obiettivo anche meta razionale, permeato di spiritualità, intesa ovviamente in senso molto aperto, che ricomprende aspetti trascendentali e soprattutto il senso del sacro e il sentire animico; obiettivo che richiede, per i più, per il suo raggiungimento, anche l’utilizzo di modalità che vengono trasmesse in un contesto iniziatico.

Gli Antichi Doveri, possono così essere considerati un punto di arrivo del “file rouge” che correla le varie codificazioni fatte in tempi più remoti, come ad esempio il Poema Regius, e nel contempo il “trait d’union” con la tradizione, anche orale (bocca orecchio), che affonda le sue radici in epoche primordiali.

Epoche, ove comunque era già vivo il sentire interiore, comune a tutti gli esseri umani, che ha sempre spinto istintivamente l’uomo a trovare momenti speciali attraverso i quali ritrovare la profondità del proprio essere.

Basti pensare ai vari ambiti sacralizzati, utilizzati a fini rituali/ sin dalla più remota antichità/ nei quali seguendo determinate modalità cerimoniali, veniva soddisfatta l’esigenza di conoscere sé stessi.

Gli Antichi Doveri, come noto, sono rappresentati da sei Titoli Generali, i quali contengono precetti che possono, direi debbono, essere letti anche in senso non letterale, per coglierne il messaggio apparentemente nascosto, il che è proprio degli scritti riguardanti un Ordine iniziatico. E’ utile sottolineare che dal punto di vista esoterico il titolo primo appare basilare, fermo restando che i titoli successivi pur contenendo indicazioni meno significative, sono comunque anch’essi rilevanti per il contenuto allegorico.

Il titolo l, concernente DIO E LA RELIGIONE statuisce, fra l’altro, che il massone non sarà un ateo stupido né un libertino irreligioso, il che presuppone, che si deve essere aperti a un sentire che va oltre il piano razionale, che va poi affinato grazie alla capacità di utilizzare lo strumentario offerto, che in questo caso è il non essere stupidi, ovvero non essere stupiti ed attoniti, come ci ricorda anche l’etimologia del termine, quindi in grado di favorire una percezione relativa al nostro interiore coscienziale, che solitamente ci viene precluso.

II titolo successivo, DEL MAGISTRATO CIVILE SUPREMO E SUBORDINATO, ove si parla del contesto sociale di appartenenza, riguardo al quale si richiede un elevato livello morale e civile, richiede che, anche qualora il massone non rispetti le specifiche regole, mantiene la sua appartenenza all’ordine, in quanto la stessa è comunque inalienabile, fattispecie che ricorda la necessità di una ammissione solenne, ovvero rituale, che per sua natura, come la tradizione insegna, è indelebile, peraltro in un consesso di soggetti precedentemente qualificati, che comporta l’inserimento e l’appartenenza a una catena iniziatica.

Il Terzo Titolo, DELLE LOGGE, nel definire quindi cosa sia una Loggia, conferma quanto sopra, in quanto la loggia è sia il luogo ove si svolgono i lavori rituali, reso preliminarmente sacro, ma anche l’insieme animico di tutti componenti, uniti  “dalle norme e dai regolamenti generali”, ovvero dal sentire di gruppo e individuale che deriva dalla ritualità stessa e dalla meditazione riguardante il previsto l’apparato simbolico, La stessa cosa viene sottolineata allorché si specifica che ‘I le persone ammesse come membri di una Loggia devono essere uomini buoni e sinceri, nati liberi e di età matura e discreta, non schiavi, non donne, non uomini immorali o scandalosi/ ma di buona reputazione.”

II quarto Titolo, DEI MAESTRI, SORVEGLIANTI, COMPAGNI E APPRENDISTI, definisce il funzionamento della catena iniziatica e implicitamente la presenza dell’eggregore, ovvero la forma pensiero, compresa la necessità di impegnarsi attivamente, atteso che si sottolinea che si apprezza il massone in base al “valore reale” e al “sul merito personale”, alludendo peraltro con il termine “Arte Reale” alla Tradizione, ovvero alla Filosofia Perennis del lontano passato, come pu re al seg reto iniziatico, statuendo, certamente non a caso, che “.È impossibile descrivere tali cose per iscritto”. La stessa previsione, riguardante quello che oggi chiameremmo percorso professionale, mostra un iter caratterizzato da gradualità, l‘Nessun Fratello può essere Sorvegliante se non ha svolto il ruolo di Compagno d’Arte, né Maestro se non ha funzionato da Sorvegliante, né Grande Sorvegliante se non è stato Maestro di una Loggia, né Gran Maestro se non è stato Compagno d’Arte prima della sua elezione” come pure essere un elemento idoneo ad essere inserito in una catena iniziatica “di nobile nascita o gentiluomo delle più elevate maniere o eminente studioso od originale architetto o altro artista”.

Il quinto Titolo, DELLA CONDOTTA DELL’ARTE NEL LAVORO, sottolinea la necessità dell’armonia collettiva, al fine di raggiungere l’obiettivo di gruppo, dal quale deriva una accresciuta consapevolezza, non solo razionale, il “giusto salario” e l’agire in totale armonia e rispetto delle regole tradizionali in quanto i massoni debbono essere “fedeli al committente”. Come pure viene, altresì, ulteriormente sottolineato che si deve essere assolutamente conformi ai dettati tradizionale e regolamentari, allorché nel titolo viene peraltro esplicitato che “Nessun lavorante deve essere adibito a lavori propri della Muratoria, né i Liberi Muratori potranno mai lavorare con coloro che sono non liberi, senza una urgente necessità; né essi possono insegnare ai lavoranti e ai Muratori non accettati, come devono insegnare a un Fratello o Compagno”. Il sesto Titolo, DEL COMPORTAMENTO, caratterizzato dai titoli”, contiene anch’esso indicazioni allegoriche di natura esoterica.

Nella Loggia allorché costituita, si ricorda l’importanza del rispetto dell’andamento rituale dei lavori, allorchè viene indicato di astenersi dall’occuparsi ‘Idi cose ridicole o scherzose”.

Il Comportamento quando la Loggia è chiusa ed i Fratelli non sono usciti, rammenta l’universalità dell’insegnamento massonico che implicitamente invita a non contrapporsi riguardo tematiche relative, come ciò che concerne la ‘Iquestione inerente la Religione o le Nazioni o la politica dello Stato noi essendo soltanto, come Muratori, della summenzionata Religione Universale” spiegandone, altresì, in modo esplicito il portato tradizionale, allorché viene specificato che “noi siamo inoltre di tutte le Nazioni, Lingue, Discendenze e Idiomi”.

Il Comportamento quando i Fratelli si incontrano senza estranei ma non in una Loggia costituita, mette in risalto la catena e l’armonia che unisce i fratelli, i quali si devono “salutare l’un l’altro in modo cortese, come siete stati istruiti, chiamandovi Fratello l’un l’altro, liberamente fornendovi scambievoli istruzioni che possano essere utili, senza essere visti o uditi, e senza prevalere l’un sull’altro o venendo meno al rispetto dovuto ad ogni Fratello”.

 

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ANFORE ANTICHE

dal libro “Anfore antiche”

di Alessandra Caratale – Isabella Toffoletti

antique terracotta amphoras dated from fifth century common era

Il contenuto delle  anfore:  vino e  olio

 

Vino

 

Il vino era la bevanda principale nella dieta mediterranea. La sua produzione risale ad epoca molto antica e si diffuse in numerose regioni del Mediterraneo. I Greci amavano particolarmente questa bevanda che veniva consumata in quantità notevole ed anche ampia­mente esportata. La qualità pregiata del vino greco fece sì che esso continuasse ad essere richiesto anche quando si diffusero i prodotti italici e delle regioni occidentali.

Dopo la vendemmia, che in Grecia avveniva nel mese di settembre, i cesti di uva erano portati sul luogo della pigiatura; il pavimento sul quale si svolgeva questa operazione era leggermente sollevato dal suolo e inclinato in modo che il liquido defluisse per essere raccolto in recipienti appositi. Il mosto così prodotto rimaneva sano a lungo ed era di buona qualità.

Una seconda spremitura avveniva con l’uso di torchi e pro­duceva un vino di qualità inferiore. Il mosto era immagazzinato nelle cantine per la fermentazione entro grandi vasi di terracotta detti pithoi. La fermentazione durava sei mesi durante i quali il liquido ve­niva costantemente schiumato. Nella primavera successiva il vino era travasato in altri recipienti, come le anfore, in modo da essere trasportato e venduto.

La maggiore difficoltà per il commercio era rappresentata dall’instabilità dei vini: la consumazione generalmente avveniva entro tre o al massimo quattro anni. Un problema connesso con quello del­la conservazione era quello dell’acidità, che si tentava di correggere trattando il prodotto con acqua di mare, pece, resina, gesso o erbe aromatiche.

In Italia, nonostante il suolo fosse adatto alla cultura della vite, la produzione del vino ebbe inizio, in maniera intensiva, solo dal III secolo a.C., anche grazie alla politica statale che favorì le attività agricole. In questo periodo, infatti, si formarono impianti industriali sempre più articolati all’ interno di grandi latifondi, proprietà di aristocratici.

I vini italici divennero in breve tempo tra i più apprezzati ed esportati in tutte le regioni del Mediterraneo. La circolazione di queste qualità era ingente ed è testimoniata dal rinvenimento di anfore da vino italiche in scavi e relitti di tutte le regioni costiere e dell’Eu­ropa interna.

Il fabbisogno di vino continuò a crescere soprattutto per sod­disfare le necessità della capitale Roma, dove in epoca imperiale la distribuzione gratuita del prodotto alla plebe divenne una consuetu­dine e un aspetto importante della politica degli imperatori.

In epoca augustea sappiamo dalle fonti letterarie che Roma consumava un mi­lione e mezzo di ettolitri di vino l’anno. Per soddisfare gli enormi fabbisogni divenne necessario ricorrere all’importazione del vino spa­gnolo, in particolare della Tarraconese (regione centro-settentrionale della Spagna), prodotto di media qualità, adatto al consumo quotidiano.

Le tecniche di produzione erano analoghe a quelle del mondo greco. I Romani curavano in modo particolare la fermentazione, che spesso avveniva in recipienti lasciati all’aria aperta. Una volta termi­nata questa fase si procedeva al travaso nelle anfore. Per evitare un ‘ul­teriore fermentazione durante l’immagazzinamento, il vino poteva essere filtrato e poi riscaldato. L’ effetto di quest’ultimo trattamento era quello di affrettare la fine della fermentazione e di sterilizzare il vino, con una specie di pastorizzazione.

Un trattamento particolare era praticato sul vino gallico: generalmente esso era lasciato invec­chiare in contenitori disposti su soppalchi al di sopra di fuochi di legna. Pare che questa operazione ne affrettasse l’ invecchiamento e conferisse alla bevanda un sapore affumicato, piuttosto gradito.

In antico esistevano, ovviamente, numerose qualità di vino.

I più pregiati, oltre ai vini greci erano quelli italici e gallici. Molto noto era l’Albano, del quale esistevano due varietà, una dolce e una aspra. Il Cecubo, prodotto nella zona di Fondi, era un vino molto forte e invecchiato. Il Falerno, invecchiato più di dieci anni, era un vino bianco secco o abboccato, il cui pregio aumentava con il tempo. Tra i vini dolci si ricorda il passum, prodotto da uve moscato, molto buono e profumato. Un vino particolare era l’ adsinthium, accostabile al nostro vermuth.

Un trattamento particolare riservato all’interno delle anfore vinarie era la resinatura, che permetteva una maggiore impermeabilità dell’argilla e garantiva una migliore conservazione dei liquidi. Il proce­dimento “consisteva nel riscaldare all’interno del recipiente della resi­na di larice o di abete, sino a portarla allo stato liquido; a questo punto si muoveva l’ anfora sino a che ogni parte interna fosse coperta dal rivestimento e in ultimo si faceva solidificare”. Questo procedimento doveva certamente dare al vino un forte aroma di resina e un sapore particolare, ancora oggi caratteristico del vino “resinato” greco.

 

Olio

 

L’olio rappresentava uno dei cardini dell’alimentazione sia dei ceti meno abbienti (contadini, militari, ecc.), sia di quelli più ricchi. Il suo consumo risale ad età antichissima, così come il suo commer­cio; veniva usato anche per l’illuminazione – le lucerne, infatti, fun­zionavano ad olio – nella cosmesi, per unguenti e balsami, e nella medicina.

La diffusione dell’ olivo in Italia è dovuta alle città della Magna Grecia che avevano impiantato estese coltivazioni nelle zone costie­re. Con il tempo la cultura si diffuse verso il nord, lungo il versante adriatico e anche l’olio italico divenne famoso e apprezzato ovun­que: quello migliore era prodotto nel territorio di Venafro nel Sannio, ai confini con la Campania.

Anche il consumo dell’ olio era ingente a Roma: è stato calco­lato che in età imperiale la città consumava circa 25.000 tonnellate annue anche grazie alle distribuzioni gratuite alla plebe. Il trasporto veniva curato da negotiatores o mercatores oleari che lavoravano per conto dello Stato.

Generalmente dopo la raccolta le olive venivano lasciate ri­posare per alcuni giorni; la spremitura avveniva poi in un trapetum, un tipo speciale di mola costruita in modo che la distanza tra la pietra superiore e quella inferiore fosse regolabile. Il succo colava in un contenitore di ceramica e in questa fase si verificava la separazione tra olio e amurca. Il liquido era poi passato in un torchio simile a quello per il vino e il succo risultante veniva lasciato sedimentare per qualche tempo.

I diversi tipi di olio sono descritti dalle fonti antiche: quello vergine di prima qualità era detto olei flos e derivava dalla prima spremitura delle olive, con una pressione leggera; il prodotto della seconda spremitura, di qualità inferiore, era detto oleum sequens;  l’ olio, di qualità ordinaria, che proveniva dalle residue spremiture era l’ oleum cibarium. Gli autori antichi parlano anche di prezzi: le tre varietà indicate costavano rispettivamente 40, 24 e 12 denari il sestario (misura di capacità corrispondente a circa 0,545 litri). L’olio poteva essere “acerbo”, ossia prodotto in ottobre con le olive bianche ancora non mature, oppure “verde” prodotto alla fine del mese di ottobre, con le olive già scure.

Per la sua produzione esistevano ovviamente officine specia­lizzate, alcune delle quali per la loro importanza e notorietà sono ri­cordate dalle fonti antiche. La regione più famosa per l’ olio era la Betica, che nei primi tre secoli dell’ Impero provvide al fabbisogno delle diverse zone del Mediterraneo occidentale. Le fonti epigrafiche menzionano a proposito di quest’ area mercatores oleari hispani, diffusores olearii ex Baetica, o negotiatores. Tali personaggi eserci­tavano le loro attività lungo le rive navigabili del Guadalquivir, stru­mento veicolare provvidenziale per l’economia, in quanto consenti­va un rapido trasporto delle merci verso le regioni del nord e verso i porti di imbarco. Il controllo del commercio fluviale era affidato a funzionari incaricati di vigilare sulle condizioni del fiume e di man­tenere la sua buona navigabilità.

Un altro olio particolarmente apprezzato era quello africano, la cui diffusione nei mercati mediterranei avvenne intorno al III se­colo d.C. Ciò è da mettere in relazione con l’ascesa al trono dell’im­peratore Settimio Severo, originario di Leptis Magna, nell’ attuale Li­bia.

Dallo studio dei bolli sulle anfore africane, infatti, si è potuto evincere che le grandi aziende produttrici erano di proprietà dell’ im­peratore o di personaggi legati alla sua famiglia. Non è un caso, poi, che proprio Settimio Severo avesse reso le distribuzioni gratuite alla plebe quotidiane e regolari ed estese a tutte le popolazioni italiche.

 

 

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“VIA ESOTEERICA, PARETCIPAZIONE SOCIALE E CONDOTTA MORALE”

 

 

Gran Loggia 2001

 

Gran Loggia 2001

“Via Esoterica, Partecipazione Sociale e Condotta Morale”

Allocuzione del Gran Maestro Gustavo Raffi

 

Carissimi Fratelli delle Delegazioni Estere, del Grande Oriente d’Italia e dei Corpi Rituali,

 

mi preme, innanzitutto, rilevare le ottime relazioni fraterne che intercorrono tra il Grande Oriente d’Italia e le altre obbedienze massoniche regolari di tutto il mondo, com’è testimoniato dalla numerosa e qualificata presenza delle delegazioni estere.

L’azione da Noi svolta per ripristinare i rapporti fraterni interrotti, anche a cagione di un’annosa inchiesta giudiziaria conclusasi con l’esclusione di qualsivoglia illiceità da parte dei membri della nostra Istituzione, ha ottenuto e continua ad ottenere grandi risultati.

In quest’ottica, ci siamo anche adoperati per permettere a quei fratelli che in questi anni in buona fede hanno perso la via di rientrare nella casa del padre e così riprendere serenamente il loro percorso massonico.

Anche i rapporti con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra si sono, di fatto, ristabiliti in un clima di reciproca e sincera fratellanza anche con la comune partecipazione a lavori rituali in occasione di consessi massonici internazionali.

Ci adopereremo, pertanto, per ristabilire. anche sul piano del diritto, le fraterne relazioni con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra convinti, come siamo, che, di là delle sofferte incomprensioni, essa rappresenti per tutti i massoni regolari del mondo un punto di riferimento saldo per il ruolo storico che ha svolto e per il suo attuale impegno massonico.

Nell’anno che è trascorso abbiamo dedicato molta attenzione al mondo profano e ne abbiamo dibattuto le grandi problematiche sociali, culturali ed esistenziali in convegni d’alto livello scientifico che hanno riscosso grande interesse e considerazione da parte dell’opinione pubblica e dei massmedia; abbiamo cioè espresso la nostra opinione e i valori massonici sulle grandi tematiche che coinvolgono l’intera umanità.

Ci siamo proiettati, quindi, molto verso l’esterno e questo impegno non solo è giusto, ma ha anche conseguito il risultato di capovolgere in chiave positiva la considerazione dei massoni da parte del mondo profano.

Tuttavia, questa nostra opera non ci può portare a dimenticare la natura ultima della nostra Istituzione che è quella di essere una comunità iniziatica. In effetti, la nostra presenza nel mondo deriva proprio dall’essere iniziati, dal lavorare esotericamente alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo e operare ritualmente nelle officine per il perfezionamento spirituale. Non possiamo contribuire al bene dell’umana famiglia se non eleviamo le nostre coscienze e la nostra spiritualità attraverso il lavoro esoterico, etico e culturale che connota i lavori muratori.

La Libera Muratoria non è solo un’associazione d’uomini liberi, bensì d’uomini che ricercano la conoscenza, che affinano il loro spirito, che si elevano al di sopra del mondo dei metalli. Il nostro è un lavoro continuo, se si vuol dire alchemico, di trasformazione di se stessi: è questo che ci caratterizza ed è anche il solo che consente di essere liberi e di buoni costumi, migliorare se stessi e in tal modo disporsi a fornire un contributo per il bene dell’umanità. Un’opera cui dobbiamo prestare grande attenzione, anche a costo di un sacrificio personale e un impegno per sforzarci di capire e di migliorare.

È giunto il tempo di rivolgere lo sguardo al nostro interno per rafforzare ed elevare la preparazione massonica di tutti i fratelli. Dobbiamo confrontarci in modo approfondito, critico e costruttivo, al di là di formule stereotipate, con la nostra tradizione iniziatico-esoterica ed impegnarci in modo che soddisfi il nostro mondo interiore e la nostra elevazione, ma sia anche fuoriera di un arricchimento che serva all’opera dedicata al bene dell’uomo in relazione allo spirito che muove il mondo nel quale viviamo.

Quella che chiamiamo la nostra tradizione esoterico-iniziatica, che è parallela e complementare ai nostri ideali di natura illuminista, si rifà a diverse prospettive esoteriche come l’ermetismo, la kabalà, il pitagorismo, il templarismo, i rosacroce, l’alchimia, ed altre ancora, che sono, per così dire, il fondamento esoterico che caratterizza la nostra Istituzione, la rende unica e fa sì che i Liberi Muratori possano considerarsi come iniziati, al di là di qualsiasi forma di autocertificazione.

Non abbiamo la presunzione di ritenere che i Liberi Muratori siano i soli eredi di queste tradizioni e neanche di pensare a una diretta derivazione storica da associazioni risalenti ad esse, ma è certo che tali tradizioni iniziatico-esoteriche sono il nostro punto di riferimento al quale dobbiamo guardare per dare senso alla nostra iniziazione, al nostro cammino spirituale e al nostro essere Liberi Muratori.

 

I Fratelli, perciò, devono dedicare la loro energia intellettuale allo studio dei simboli che veicolano il nostro bagaglio esoterico. La comprensione dei simboli esoterici e, in particolare, massonici permette, infatti, di capire la natura della Massoneria e il compito che deve perseguire ogni massone. I simboli del Tempio e dei nostri rituali sono diversamente interpretabili e solo un lavoro comune nelle Logge può far sì di comprenderli e renderli vivi ed attivi nel nostro spirito e non di considerarli come un mero retaggio del passato.

L’approccio alla simbologia massonica non può che essere partecipazione attiva e momento di ascesa a livelli di conoscenza superiore e non deve mai tradursi in un atteggiamento che la consideri come qualcosa di misterico, imperscrutabile e irraggiungibile. Ogni Fratello, pertanto, deve essere messo in grado nelle officine di avvicinarsi ai simboli e all’esoterismo senza mai pensare che solo qualcuno possa possedere una verità che non sia comprensibile e trasmissibile ad altri.

Nessuno dei Fratelli della Comunione, ed anche coloro che hanno dedicato maggiore attenzione all’esoterismo e alla simbologia, può sentirsi detentore di una verità che non sia accessibile e trasmissibile a tutti Fratelli. Le verità nascoste alle quali ci rivolgiamo devono così essere partecipate e rese attive nei lavori di loggia in modo che tutti i Fratelli, secondo il loro grado di comprensione e la loro disposizione, possano elevarsi in un processo conoscitivo fondato su una comunione di intenti.

Dobbiamo rivolgerci a queste culture esoteriche con sguardo attento e soprattutto con l’umiltà di essere sempre in uno stato di agnosi, di ignoranza, ma sempre pronti a muoverci verso la gnosi, la conoscenza, che fortifica il nostro spirito.

I Liberi Muratori non sono solo uomini liberi e di buoni costumi, ma soprattutto iniziati: questo è il cemento che li unisce nella fratellanza massonica universale, secondo le Regole degli Antichi Doveri; non solo operano al bene e al progresso dell’umanità con l’impegno ideale, culturale, sociale ed etico, ma sono anche uomini che coltivano le dottrine iniziatico-esoteriche come essenza del loro essere, con un lavoro mirato alla ricerca del vero declinando ogni atteggiamento di natura fideistica e dommatica.

Ogni progresso, quindi, non può essere ritenuto definitivo, ma sempre come un passo avanti che ne prepara altri. I Liberi Muratori non dovranno mai pensare di aver raggiunto la verità, ma solo di aver compreso qualcosa di più, certi che nel futuro nuovi ostacoli si frapporranno alla ricerca della conoscenza.

Il nostro atteggiamento sarà sempre quello del dubbio perché solo così la nostra mente sarà aperta e non si chiuderà mai in modo dogmatico. Dovremo, perciò, essere sempre in un rapporto dialettico con noi stessi e i fratelli, in modo fraterno ed armonioso, perché la nostra conoscenza e la nostra elevazione si possano conseguire solo con un continuo confronto costruttivo.

La nostra tradizione esoterica non è un testo sacro, ma la fonte a cui fare riferimento e abbeverarci per proseguire il nostro cammino e così storicizzare gli insegnamenti che ci sono stati tramandati.

L’esoterismo e il pensiero massonico non sono mai sorti dal nulla, ma sono stati il risultato dell’impegno di molti studiosi ed iniziati che nel corso dei secoli, dal passato sino ad oggi, non hanno pensato di fermarsi e ritenere definitive le conoscenze raggiunte e così si sono impegnati ad ampliare l’orizzonte esoterico-massonico.

Allo stesso modo deve operare ogni massone muovendo dalla conoscenza già acquisita, rendendola propria e attivandosi per farla progredire: questo è il senso del levigare la pietra grezza all’interno di una comunità di iniziati.

I grandi iniziati del passato sono quindi i nostri maestri interiori ai quali dobbiamo rivolgerci con spirito di ricerca.

Cari fratelli, dobbiamo anche chiarire, però, che la tradizione esoterica a cui facciamo riferimento non può considerarsi tale da esaurire l’esoterismo massonico.

Quest’ultimo, infatti, pur rifacendosi in modo diverso a queste tradizioni, possiede una sua peculiarità a cui dobbiamo prestare interesse. Non dobbiamo confondere l’esoterismo massonico con nessuna di queste tradizioni; in effetti, vi è una specificità dell’esoterismo massonico che si esplica nella sua simbologia, nei rituali e nelle diverse espressioni del pensiero e, in particolare, anche nelle diverse vie di ricerca che sono proprie dei Riti. Quest’ultimi devono essere delle scuole di ricerca che non sono certo indipendenti dalla cultura esoterica dell’Ordine, ma si impiantano su di essa e la sviluppano e la approfondiscono in diverse direzioni secondo la specificità di ogni Rito.

 

Ci dobbiamo allora porre una domanda fondamentale: qual è il fine dei nostri lavori esoterici? Non possiamo pensare che il lavoro esoterico sia fine a se stesso, cioè sia mirato solo al perfezionamento di ogni singolo massone; sebbene ciò sia vero ed auspicabile, la natura del nostro esoterismo, con il suo simbolismo e con le sue radici storiche, diversamente da ogni altro, risiede nel fatto che il nostro perfezionamento esoterico ha un duplice obiettivo: quello dell’elevazione individuale e, al contempo, quello del nostro impegno nel mondo.

Il perfezionamento non deve essere solo mirato al singolo massone e al suo mondo interiore, ma deve essere tale per cui la preparazione conseguita all’interno delle logge gli permetta di contribuire con la sua opera, individuale o collettiva, al bene dell’umanità.

V’è poi un altro aspetto rilevante su cui dobbiamo riflettere.

La via esoterica deve essere tutt’uno con il nostro atteggiamento morale non solo in riferimento al mondo ma, prima di tutto, verso la nostra Istituzione e tutti i Fratelli. La via della conoscenza e il perfezionamento interiore sono il fondamento per attuare un comportamento etico e virtuoso all’interno dell’Istituzione.

Non di rado nelle logge si focalizza troppo l’attenzione a rincorrere incarichi e onorificenze e a cagione di ciò possono nascere animosità e dispute tra i Fratelli. L’elezione delle cariche deve svolgersi nella più profonda armonia permettendo a tutti di esprimersi liberamente, e non secondo logiche di gruppo, al fine di scegliere i Fratelli più capaci e idonei.

Dobbiamo prestare molta attenzione alla moralità all’interno della Comunione e adoperarsi perché in essa regni l’armonia e il rispetto reciproco. A tal fine dobbiamo riflettere sul significato dei metalli. Quando siamo stati iniziati li abbiamo lasciati fuori dal Tempio per vederceli restituire solo perché necessari nel mondo profano e non certo per essere utilizzati nel Tempio. Come recitano le parole del Vangelo non possiamo servire allo stesso tempo Dio e Mammòna.

D’altra parte, come possiamo elevare il nostro spirito, prepararci per essere profondamente uomini liberi e di buoni costumi se introduciamo i metalli nel Tempio? Al momento dell’iniziazione siamo stati accettati perché uomini liberi e di buoni costumi, ma queste qualità non devono essere ritenute come assodate definitivamente; al contrario, devono essere rafforzate e testimoniate con i nostri comportamenti.

I metalli dobbiamo sempre lasciarli fuori dal Tempio a significare che il nostro sguardo e la nostra mente devono essere rivolti alla nostra ricerca interiore e al bene dell’Ordine.

I metalli, infatti, rappresentano ciò che divide e non unisce; al contrario la via esoterico-massonica è mirata all’unione e all’armonia: le sole che permettono il percorso di levigazione della pietra grezza che non si traduce in un mero esercizio intellettuale riferito alla conoscenza, ma anche in un affinamento morale che conduce a un rafforzamento della Catena d’Unione.

Via esoterica e via etica, quindi, non sono due vie separate: non vi può essere vero arricchimento iniziatico-esoterico se questo non porta a un perfezionamento morale.

L’esoterismo, infine, deve essere correlato con la nostra visione del mondo umano e sociale. I nostri valori riferiti all’uomo e alla società devono essere tutt’uno con le nostre visioni esoteriche per far sì che vi sia un’armonia tra il nostro mondo interiore e la nostra presenza nel sociale.

Seguendo il principio ermetico di corrispondenza della Tavola Smeraldina, secondo cui ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, dobbiamo far sì che il nostro microcosmo interiore corrisponda al nostro modo di essere nel macrocosmo del corpo sociale.

Lavoriamo, allora, di più nelle Logge e con maggiore sforzo per approfondire la conoscenza del simbolismo massonico: prepariamoci culturalmente ad affrontare i grandi problemi dell’umanità e miglioriamo il nostro comportamento etico perché solo in tal modo potremo costruire sulla pietra e non sulla sabbia e così progredire nel nostro cammino e aggiungere un mattone in più alla costruzione del Tempio alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo.

 

 

3 Aprile 200

Il Grande Oriente d’Italia è membro della Confederazione Massonica Interamericana(Cmi) fondata il14 aprile 1947, un’organizzazione che riunisce 84 Grandi Potenze Massoniche, ammesse come membri e distribuite in 26paesi del Sud, Centro e Nord America, Caraibi ed Europa. Il CMI promuove un modello istituzionale innovativo attraverso l’integrazione della Massoneria Iberoamericana e, per estensione, della Massoneria Universale, con l’obiettivo di sviluppare tutte le potenzialità esistenti in un’organizzazione che conta    quasi 400.000 membri che, attraverso lo scambio di idee, attività, principi, preoccupazioni ed esperienze, cioè il loro modo di vedere e comprendere il mondo, cercano di arricchire il pensiero dell’umanità e delle sue culture.

 

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LA VILLA DELLE SETTEFINESTRE A CLOSA

dal catalogo della mos tra: “La villa di Settefinestre a Cosa”

 

 

 

………………Si tratta dunque, per la Valle d’Oro, di aziende cospicue. Il para­gone con quelle dell’ America         schiavistica   è fuorviante, visto che le prime si fondano su una varietà di colture intensive, mentre le secon­de sono caratterizzate dalla «monocultura» estensiva (come i latifondi schiavistici siciliani?).

D’altra parte una completa specializzazione delle colture è concepibile solo in società i cui territori siano omoge­neamente pervasi da una rete di efficienti comunicazioni, da un «mer­cato nazionale», in cui cioè il commercio abbia condizionato integral­mente la produzione, per cui tutto può comprarsi e tutto può vender­si: ciò avviene soltanto con il capitalismo (in Italia a partire dalla fine del secolo scorso). I fondi delle ville romane – quindi anche dell’agro cosano – dovevano pertanto sempre presupporre delle coltu­re promiscue, da articolarsi fondamentalmente in due settori: a) desti­nato al consumo locale (della villa) e b) destinato al mercato mediter­raneo.

Il consiglio catoniano di vendere, ma di non comprare (2, 7) e il carattere chiuso ( da caserma), della villa, si spiegano appunto con il fatto che all’interno stesso di questa struttura produttiva si rispecchia la doppia realtà del mondo romano di quest’epoca: ora chiuso nella produzione di derrate essenziali ( cereali), cioè nell’autosufficienza, ora invece aperto alla produzione di derrate di qualità (vino), cioè verso il mercato transmarino. La villa insomma deve cercare di essere autosufficiente, proprio nella misura in cui vuole esportare i suoi pro­dotti migliori.

Nell’agro cosano la derrata scelta a diventare merce era, appunto, il vino: «vinea est prima» (Catone, I, 7). Ce lo dicono i torchi e il serbatoio vinario connesso con la cantina della villa di Settefinestre, il grande scarico delle anfore vinarie di Ses(tius) al porto marittimo di Cosa e il forno ceramico, producente anfore vinarie, al porto flu­viale dell’ Albegna.

D’altra parte l’astratta dimensione di 500 iugeri nulla ci dice, di per sé, circa la dimensione vera e propria del vigneto e quindi circa l’aspetto manifatturiero-commerciale di queste aziende schiavistiche. Quest’ultimo dato può essere ricavato soltanto sottraen­do all’intera superficie del fondo quella relativa alla coltura dei cerea­li, direttamente necessaria alla sussistenza dell’instrumentum: dagli schiavi agli animali.

Dagli agronomi romani possiamo ricavare alcuni dati di fonda­mentale importanza (che possono essere confrontati con l’esperienza, assai più dettagliata, che abbiamo dell’agricoltura italiana dell’età moderna).

a)Uno schiavo poteva coltivare fra i 2 e i 2,5 ettari di vi­gna e poco più di 6 ettari coltivati a grano.

  1. b) Occorrevano kg. 32,5 di grano per seminare un quarto di ettaro. c) Il seme rendeva di me­dia quattro volte. d) Un campo veniva seminato a grano ad anni al­terni, per la pratica del maggese o della rotazione con leguminose fer­tilizzanti. e) Ogni sei ettari ce ne volevano 0,8 destinati alla produzio­ne di legna, canne e vimini (per il sostegno delle viti). f) La resa me­dia di un vigneto era di 890 litri di vino a quarto di ettaro. g) Ventisei litri di vino avevano un valore minimo di partenza di 15 sesterzi. h) Una nave quale quella di Giens (Tchemia-Pomay-Hesnard 1978) pote­va trasportare 6500 o 8500 anfore. i) La razione annuale di grano per uno schiavo era di kg. 331, mentre per il fattore e la fattoressa era di kg. 273 ciascuno. l) La razione annuale di vino per uno schiavo era di lt. 262.

Da questa serie di dati possiamo ricostruire, attraverso una serie di calcoli che non è qui il caso di riprodurre, un modello ideale per una proprietà di circa 125 ettari di terreno arativo – quale quella di Settefinestre – finalizzata alla produzione di vino per la vendita sul mercato mediterraneo. a) Il fondo doveva essere lavorato da circa 42 schiavi (compresi il fattore e la fattoressa), 11 buoi; vi pote­vano inoltre pascolare (almeno nelle stagioni fredde) 112 pecore. b) Dei 125 ettari, 50 erano destinati a vigneto, 7,5 alla produzione di legna, canne e vimini, 66 alla coltura dei cereali, al prato, all’oliveto e infine 1,5 ai fabbricati e ad altre attività. c) Il fondo poteva produrre annualmente lt. 122.616 di vino, di cui lt. 11.004 servivano per l’auto­consumo e lt. 111.612 per la vendita, per un valore complessivo di 63.900 sesterzi.

Tre torchi ( quali quelli della villa di Settefinestre) era­no in grado di spremere le vinacce di tale vigneto. Il vino da esporta­re poteva riempire per tre quinti o per metà una nave quale quella di Giens, o per intero una di dimensione più piccole. Tale quantità di vino poteva inoltre alimentare per un anno 426 lavoratori adulti, pari a circa 213 famiglie.

Sul terreno che serviva alla sussistenza dei 42 schiavi – 66 ettari a cereali, prato e oliveto e 4 a vigneto, per un totale .di 70 ettari – avrebbero potuto vivere 40 famiglie contadine e circa 160 individui di diversa età. La sussistenza di uno schiavo sarebbe pertanto sostanzialmente equivalente a quella di una tradizionale fa­miglia contadina………………………..

 

…………………………i Sesti erano dunque non solo produttori di vino, ma anche di contenitori (mezzi di trasporto) intesi come valori di scambio, cioè funzionali non soltanto alle proprie vigne, ma vendibili a qualsiasi al­tro produttore, come a un certo L. Titius, il cui nome appare sui tap­pi di anfore bollate SES(ti) rinvenute nel relitto navale del Grand Congloue.

E’ possibile pertanto in questo caso farci un’idea sulle seguenti questioni.

  1. l) La dimensione della produzione vinaria di un fondo (probabil­mente) della famiglia senatoria romana dei Sesti e il suo sistema di lavorazione in una villa durante un secolo circa.

2)   La strada, la laguna e il porto attraverso cui questa merce vina­ria raggiungeva i mezzi da trasporto transmarini. In particolare, la natura e la localizzazione dei contenitori anforici collegabili alla fa­miglia dei Sesti e grosso modo il numero di navi necessarie a traspor­tare la vendemmia di un anno (sappiamo che P. Sestio possedeva una ricca flotta).

3)   Le rotte commerciali e la distribuzione geografica dei centri di consumo del vino prodotto nei fondi dei Sesti.

Si tratta, come si vede, di una delle fortunate e rare occasioni in cui l’archeologia riesce a ricostruire un intero processo produttivo. Molti sono però ancora i punti interrogativi e tanto il lavoro che resta da fare.

La crisi di questa produzione vinaria si collega alla crisi dei ceti imprenditoriali e dirigenti romani, che si compie in età giulio-claudia (Syme 1958). Un bollo di Luni ci restituisce il nome di un ultimo membro della famiglia dei Sesti: P. Sextius Quirinalis, forse il figlio di L. Sestius Quirinalis, console del 23 a.C. Con questo personaggio raggiungiamo probabilmente l’età tiberiana. Non conosciamo altri se­sti dopo di lui, o altre famiglie che possano aver svolto un ruolo ana­logo a partire dalla tarda età giulio-claudia. Plinio ci ha tramandato un elenco dei vini più pregiati d’Italia (N H, 14,59- 72): fra questi quel­lo di Cosa è, non a caso, assente (Manacorda 1978, c.s. e c.s.a).

I dati delle fonti letterarie ben si accordano con quelli della cultu­ra materiale della Valle d’Oro. Nel giro di tre o quattro generazioni questo caso di sviluppo – uno dei tanti del miracolo economico roma­no – finisce, come gli altri, in un vicolo cieco. Il lavoro razionale degli schiavi scompare con la fine della vita di lusso in villa. Mutamenti di proprietà, mentalità e cultura – prima ancora che la concorrenza dei vini provinciali d’occidente – portano a quel caso irreversibile di sot­tosviluppo che si chiama latifondo (imperiale), che si chiama Marem­ma tardo-antica.

L’Italia centrale tirrenica, che aveva fornito i ceti dirigenti e im­prenditoriali dello stato romano – chiusosi in meno di quattro secoli il movimento ascendente e discendente della sua floridezza – tende or­mai a perdere il suo primato. La morte di questa radice comporterà, in un secondo tempo, la morte di tutta la pianta: la caduta dell’impe­ro romano.

Le statistiche basate sui materiali ostiensi indicano lo svolgimento storico seguente: sviluppo nel II° secolo a.C. ed ancor più nel I, quindi graduale decadenza nei primi due secoli dell’età imperiale. Muore così un ceto dirigente, un modo di lavorare schiavistico, una produzione rurale e cittadina basata sulla cooperazione forzata di molti uomini e sulla esportazione di un gran numero di merci. Entra in crisi anche la stessa produzione letteraria, figurativa e culturale dell’Italia romana.

La Penisola riacquisterà una posizione centrale nel Mediterraneo solo nel tardo medioevo. Più tardi lo stesso Mediterraneo non potrà più essere considerato come l’ombelico del mondo. Nelle campagne lo schiavo cede il passo al colono dipendente, da sorvegliare al momento del raccolto – se la rendita è in natura – ma non più durante tutto l’anno, come accadeva per gli schiavi nel costoso sistema della villa.

Il lavoro torna a fondarsi esclusivamente sulla famiglia contadina, sul piccolo lotto assegnatole, e la rendita sullo sfruttamento sempre più brutale dei poveri più che non su una manodopera schiavistica, spe­cializzata e disciplinata. I contadini vivono di nuovo sparsi nelle cam­pagne o raccolti in paesi, ma non più nelle ville-caserme. Essi regola­no la loro vita e la loro attività non più sui manuali di agricoltura bensì sulla memoria tradizionale e parcellizzata del lavoro familiare nei campi.

Le ville non servono assolutamente più. Vengono semmai usate in modo improprio o piuttosto cadono in rovina. Non si produ­ce più per mercati lontani, ma in primo luogo per la propria sopravvi­venza e per le necessità immediate di un padrone assente. Il capitale commerciale e il lusso fuggono la campagna e si ritirano nuovamente nelle mura cittadine. Il contadino si riappropria del possesso (non della proprietà) della terra su cui vive e degli strumenti che gli servo­no per coltivare e allevare. Si assiste così ad una nuova ruralizzazione di campagne un tempo fortemente urbanizzate. Proprietà e città per­dono in questo modo il ruolo imprenditoriale e produttivo di un tem­po per tornare ad essere fonti di consumo e di spreco. Ma in condi­zioni assai più degradate (Carandini 1979 a).

 

 

 

 

 

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LUIGI SETTEMBRINI

Luigi Settembrini. Un massone, patriota italiano nella storia LGBT+

 

Quando il reato di sodomia venne abolito dal codice penale francese del 1 791 , spazzato via dal vento della Rivoluzione, in verità esso appariva già da tempo un relitto di un regime ancien. I Lumi del Settecento avevano visto accendersi il dibattito intorno alla sodomia e soprattutto, intorno alla sua natura. Era il comportamento pederasticol innato o si trattava di un vizio acquisito? Il tenore delle risposte ci consente di individuare quattro passi. bili soluzioni, nonché l’affermarsi progressivo, pur nelle sostanziali differenze, di un comune sentire circa la necessità di abolire punizioni medievali e barbariche come la pena di

 

morte e ancor più il rogo per i sodomiti [1] . Una prima posizione, quella del potere costitu ito, vedeva nell’omosessualità non qualcosa di innato, ma un peccato, un vizio nefando di ispirazione diabolica, di cui impedire la diffusione. Una simile posizione in realtà non è neppure presa in considerazione dai testi illuministici. La seconda vede intervenire intellettuali del calibro di Montesquieu, Voltaire, Diderot, e i nostri Beccaria e Filangieri, i quali chiedono con fermezza l’abolizione del rogo e della pena di morte, punizioni barbare e crudeli, senza tuttavia proporre una linea chiara sul modo in cui il potere e la società in genere avrebbero dovuto porsi nei confronti degli omosessuali! «Il loro atteggiamento ambivalente è lo specchio di una mentalità consapevole della sproporzione della pena capitale, eppure indecisa sulla que stione della pericolosità sociale dell’omosessualità, in quanto convinta solitamente del suo carattere «contagioso»                                 .

Vi era poi la posizione dei libertini, tra i quali spicca la figura di De Sade, che rivendicavano il diritto alla trasgressione. Se invero si trattava di pochi a difendere tale diritto, ancora meno erano quegli omosessuali che avevano il coraggio, soprattutto durante i processi che si aprivano contro di loro, di dichiarare che i l loro stato non poteva considerarsi sbagliato e perseguibile, poiché innato e dunque, naturale. E tuttavia tali omosessuali c’erano: «Non è una posizione nuova (l’abbiamo già vista nei secoli precedenti), ma a esprimere tali idee ora sono anche semplici domestici e lavoranti a giornata, e non più intellettuali «libertini».

Nonostante l’Ottocento veda, fin dai suoi albori, un mutamento di clima in chiave reazionaria e conservatrice, i l codice penale napoleonico del 1 81 0 non faceva menzione di «pederastia» e «sodomia». Anche se va ricordato il profondo divario esistente tra la Francia, unitamente ai paesi cattolici e mediterranei, Italia compresa, e il Nord Europa, in particolare la Gran Bretagna, dove la pena di morte per sodomia rimase in vigore fino al 1 861 . L’Italia, soprattutto il Meridione, invero rappresentava per gli omosessuali dei Paesi d’Oltralpe una meta desiderata, agognata, dove poter vivere esperienze erotiche con giovani perlopiù disponibili senza correre rischi. E questo lungo l’Ottocento e buona parte del primo Novecento. Almeno fino a quando non arrivò il fascismo, Mussolini e Federzoni con il suo tronfio disegno moralizzatore, sul quale si è appuntato il salace motteggio di un Carlo Emilio Gadda. Le splendide foto dei giovani siciliani nudi, scattate a Taormina dal barone Wilhelm von Gloeden, o la via dedicata a Capri a Friedrich Alfred Krupp, dell’omonima famosa acciaieria, ci ricordano l’amore di questi uomini appartenenti a un Nord spesso bigotto e arcigno, a cavallo tra il XIX e i l XX secolo, per un Sud, terra dell’innocenza e della libertà, dalla natura lussureggiante, dai profumi inebrianti, dai giovani corpi baciati dal sole e accarezzati da caldi zefi ri.

A Napoli, dopo due anni trascorsi nel terribile carcere di Reading, condannato dall’Inghilterra vittoriana per la sua omosessualità, lo scrittore massone Oscar Wilde, nel 1 895, si trasferiva nella speranza di risollevarsi dal lungo periodo di abiezione e sofferenza, tra i capolavori di carne e marm06 ln quello stesso anno, il 1 895, poco prima della sua morte, si trovava a Napoli, a ritirare presso l’Università Federico I l una laurea honoris causat il patriota, scrittore, poeta e giurista tedesco Karl Heinrich Ulrich; anch’egli approdato in Italia, exul et pauper, com’è scritto sulla sua tomba nel cimitero de L’Aquila, esule e povero, perseguitato in Germania non solo perché aveva osato fare pubblicamente quello che viene ricordato come il primo coming out della storia, ma soprattutto perché si era presentato il 29 agosto del 1 867 a Monaco di Baviera, al Forum dell’Associazione dei Giuristi Tedeschi/ dove aveva preso la parola per rivendicare sostanzialmente da omosessuale il suo, e di tutti coloro che erano nel suo stesso stato, diritto di esistere. «Non ho scelta tra tacere e parlare – scrisse Ulrichs in Gladius furens Spada Furente, ricordando quel momento -. lo dico a me stesso: Parla, o sii giudicato! Mi piacerebbe essere meritevole di Hoessli. Neanch’io volevo trovarmi tra le mani del becchino senza aver prima apertamente rivendicato i miei diritti inalienabili oppressi, e senza aver aperto uno stretto passaggio alla libertà (“der Freiheit eine Gasse”). Con questi pensieri e con i l cuore che mi martellava dentro, salii sul podio dello speaker il 29 agosto del 1867, nella grande hall del Teatro Odeon, di fronte a più di 500 giuristi provenienti da tutta la Germania, tra i quali c’erano membri del parlamento tedesco e un principe bavarese. Salii accompagnato da Le speranze di Ulrichs si sarebbero infrante presto e il grande intellettuale avrebbe pagato con la povertà e l’esilio il suo coraggio. La nascita della Germania fu accom pagnata dall’entrata in vigore, il 15 maggio 1 871, del famigerato paragrafo 1 75, inasprito poi dal nazismo e definitivamente abrogato soltanto nel 1 994, che aveva ad oggetto la Fornicazione contro natura, «cioè tra persone di sesso maschile», equiparata alla zoofilia e punita con la reclusione, fino all’interdizione dai diritti civili.

Nello stesso anno in cui in Germania entrava in vigore il paragrafo 1 75, veniva nominato rettore dell’Università di Napoli, lo scrittore e patriota Luigi Settembrini. Già a partire dal 1 861 Settembrini aveva ottenuto l cattedra di Letteratura italiana presso l’Università partenopea, dopo essere stato per circa un anno professore all’Università di Bologna. La figura di Luigi Settembrini è complessa, difficilmente etichettabile per uno studioso che cerchi di accostarsi all’uomo, ancor prima che all’intellettuale, al patriota e al massone, rimuovendo tutti quei paludamenti che lungo il Risorgimento e poi, nell’Italia postunitaria e fino sicuramente agli anni Settanta, hanno celebrato l’eroe della patria. E tuttavia un lavoro di rimozione appare saIutare per restituire al Settembrini tutta la sua carica di uomo della contemporaneità, se non ancora oggi in grado di proiettarsi in un futuro che ha da venire.

Un simile lavoro lo aveva già tentato Giorgio Manganelli nella sua Nota all’inedito del Settembrini, intitolato I Neoplatonici, e pubblicato a cura di Raffaele Cantarella da Rizzoli nel 1977. Ma il Manganelli, tutto preso dal gusto di spogliare Luigi Settembrini della sua aura di austero e indefettibile eroe risorgimentale, «santino tricolore», finisce col dare dell’uomo Settembrini un’immagine altrettanto sfalsata, come di un uomo infine affetto da fantasie malsane, un pederasta, cosa che aveva portato «i nipotini» a rendere il testo un libro proibito, da non pubblicare. «Ma una ideologia non strozza solo le sue vittime – osserva Manganelli -. Nella bibliografia del Settembrini, il libretto è un caso unico; di più: il Settembrini stesso aveva abbozzato, e altri aveva accolto e innaffiato una imma

gine tutta familiare e modesta della sua vita, una vita sventurata, piena di galere e di ergastoli, consolata da affetti di sposo e padre, da una moglie «pudica e dolorosa». Mi chiedo se non venisse in mente a nessuno che il libretto poneva un problema assai più grosso delle sue poche paginette; togliere questo testo dal dossier di Settembrini significava perpetrare un falso sulla stessa immagine dello scrittore «martire», significava tenere in piedi in termini filologicamente polizieschi una certa idea dell’Italia ottocentesca, dei padri dell’Italia unita, una mitologia degli eroi che non aveva il coraggio di affrontare quelle poche pagine. È ovvio a chiunque che il Settembrini dei Neoplatonici è figura assai più drammatica e complessa di quella che ci è stata proposta: proprio perché egli è contemporaneamente l’autore delle Ricordanze. Per quanto sottile, il libro era ed è uno spiraglio su una tragedia. Ma questa tragedia venne nascosta, sussurrata tra pochi intimi, così come non si suole divulgare la voce, nelle famiglie patriarcali, che «il nonno beve». / Neoplatonici sono un breve romanzo o lungo racconto, che il Cantarella trovò nel 1937 fortuitamente, nella forma di un quadernetto di carta di poche pagine, mentre era intento a cercare un manoscritto greco finito fuori posto, presso la Biblioteca di Napoli, dove era al tempo direttore della Officina dei Papiri Ercolanesi. Uno smilzo fascicoletto che viene subito ricondotto alla mano di Luigi Settembrini, poiché posto vicino al testo autografo Ricordanze della mia vita. Settembrini aveva avuto cura di far passare il testo come opera di un certo Aristeo di Megara, neoplatonico greco, che tuttavia non è mai esistito. Era dunque un falso creato da Settembrini. Cantarella legge il testo e ne rimane fortemente imbarazzato, sia per il contenuto, la storia omosessuale di due giovani nell’antica Ellade, raccontata con un taglio chiaramente erotico, ma non volgare, sia perché non riesce a spiegarsi come mai un testo così singolare sia rimasto inedito nella Napoli di Benedetto Croce, Francesco Torraca, Fau sto Nicolini. ln realtà, il testo era già stato letto da Emidio Piermarini, che lavorava anch’egli presso la Biblioteca di Napoli, e che nell’inventariarlo lo aveva sottoposto a Benedetto Croce e.

 

Francesco Torraca, alunno del Settembrini stesso. Piermarini, in una lettera a Cantarella dell’ottobre 1953, ricorda che Croce, dal quale si era recato per parlargli del testo, lo aveva liquidato con un sorriso e un gesto di indulgenza, accompagnati da una allusione alla dimestichezza che Settembrini aveva con Luciano di Samosata, di cui aveva tradotto i dialoghi, dimestichezza alla quale sembrava attribuire l’interesse del Settembrini per l’amore greco. «Essendo stato così a lungo col greco Luciano…» si era limitato a commentare Croce. E aveva fatto capire a Piermarini che non avrebbe aggiunto altro su un uomo che per sei anni aveva condiviso la stessa cella col patriota Silvio Spaventa, il quale si sarebbe preso cura del diciassettenne Benedetto Croce quando i suoi genitori morirono a seguito del terremoto di Casamicciola del 1883. Molto probabilmente I Neoplatonici vennero scritti proprio nel carcere dell’isola di Sa nto Stefano, dove Settembrini rimase dal 1851 al 1 859, raggiunto da Silvio Spaventa nel 1852

Alle parole di Croce si aggiungeva il giudizio del Torraca, per il quale il libro appariva lubrico e malsano, un errore letterario del venerato Maestro, martire patriottico dei Borbone. Sicché era del tutto conveniente lasciarlo nell’ombra di un armadio di biblioteca, accessibile a qualche rarissimo studioso.

Eppure già il titolo dell’opera, / Neoplatonici, era massimamente emblematico di una tradizione alla quale Settembrini si ispira e nella quale ambisce a collocarsi. Anche a costo di utilizzare un anacronismo: il riferimento cioè alla scuola che nasce da Ammonio Sacca nel 2° e 3°secolo dell’era volgare e conosce in Plotino il massimo esponente. Il racconto, infatti, si svolgerebbe tra il 3° e il 2° secolo avanti l’era volgare, all’epoca in cui abbiamo quali re di Siria degli Antioco, a uno dei quali Settembrini attribuisce una spedizione contro Atene. Di nessun Antioco, in realtà, si ha notizia quale artefice di una simile spedizione. E però a noi sembra che la scelta del titolo e dell’epoca non siano casuali, né che vi sia stata

 

da parte dell’Autore una svista. Essa rispondeva a una duplice esigenza: ribadire la tradizione nella quale il racconto si colloca, quella dei neoplatonici, cu Itori dell’amore platonico, «sup posti come particolarmente dediti alla pederastia, che perciò è cosa elevata e degna: come il Settembrini leggeva nel dialogo pseudo-lucianeo Amori, cap. 51 : cfr. cap. 23» 10. E l’esigenza di collocare la vicenda narrata in epoca precristiana, in quel mondo ellenistico dominato dalla figura e dal ricordo di Alessandro Magno.

Come abbiamo evidenziato, non è soltanto il racconto a ispirarsi al neoplatonismo, ma Settembrini stesso pare volersi accreditare come continuatore di una tradizione che a Napoli/ in particolare, aveva antiche radici. Essa era rifiorita durante l’umanesimo napoletano, coltivata nelle numerose Accademie, quali quella Pontaniana, fondata nel 1 443, e la Palatina (o Reale, o anche del Duca di Medinaceli), istituita nel 1697, alimentata da autori come il calabrese Gian Vincenzo Gravina o un Paolo Brazzolo, che, non soddisfatto delle sue undici traduzioni di Omero finì con l’uccidersi. Una ellenofilia, in particolare, che diventava in taluni ellenomania, e che conosceva quale caso più significativo quello del calabrese barone Saverio Mattei, il quale diventerà il personaggio principale del Socrate immaginario dell’abate Galiani, messo in musica dal Paisiello e rappresentato per la prima volta al Teatro Nuovo di Napoli nel 1775 e poi ripreso, dal 1 780, in diversi teatri d’Europa Ma soprattutto, a dare grande impulso all’amore per la grecità fu la scoperta dei papiri greci di Ercolano, rinvenuti tra il 1 752 e il 1754, a seguito degli scavi promossi nel 1 738 da Carlo I I I di Borbone, che attireranno l’attenzione e le critiche circa le modalità con le quali venivano condotti del grande archeologo omosessuale Johann•Joach im Winckelmann. Alessio Simmaco Mazzocchi si incaricava di raccogliere il meglio della cultura classica napoletana, dando alla luce, a partire dal 1787, gli undici tomi della Herculanensium Voluminum Collectio Prior, che fece di Napoli, nota non senza orgoglio Cantarella, la patria della papirologia greca.

E non va dimenticato come questa tradizione trovi una delle sue massime espressioni, sul piano della riflessione politica, nell’illuminista, massone Gaetano Filangieri e nella sua monumentale La Scienza della Legislazione, dove alla denuncia delle ingiustizie sociali, all’appello ad un’azione riformatrice, che portasse a una rivoluzione pacifica, ad un’equa ripartizione delle proprietà terriere e a una riforma del sistema educativo e di istruzione, si ribadisce il principio di quel diritto alla felicità, che Filangieri aveva ispirato a Benjamin Franklin e che aveva trovato la sua consacrazione nella Dichiarazione d’Indipendenza e nella Costituzione americane. Su quel principio si sarebbero fondate, negli USA, tutte le rivendicazioni delle minoranze, comprese quelle delle persone LGBT+, volte all’ottenimento del diritto ad esistere e a godere di pari dignità e opportunità. Franklin aveva conosciuto le opere di Filangieri grazie a Luigi Pio, segretario dell’ambasciata del Regno di Napoli in Francia, dove aveva dimorato durante gli anni della guerra d l lndipendenza americana, e dove era entrato a far parte della loggia Les neuf saurs. Grazie a Luigi Pio, Franklin e Filangieri entrano in contatto e ne nasce un ricco carteggio che va dal 1781 al 1 788. Filangieri, nel parlare della felicità nazionale da intendersi come benessere di ogni singolo cittadino e in quanto tale, fine ultimo di ogni buon governo, sia pure influenzato da un Montesquieu e un Rousseau, in realtà raccoglieva un’antica eredità, quella appunto neoplatonica, che innervava e rendeva qualcosa per così dire di autoctono, l’illuminismo napoletano. Era stato infatti Plotino che, nelle Enneadi, operando anche in questo caso una sintesi e un perfetto equilibrio tra il Platone del Gorgia e della Repubblica e l’Aristotele dell l Etica Nicomachea, aveva delineato il principio per il quale la felicità in ultimo consiste nel vivere secondo la propria natura, essendo in ciò il vivere bene

Un principio, quello della felicità, che aveva guidato il vescovo

massone Giovanni Serrao, assassinato dai “realisti” nel 1799 a fondare, all’indomani del terremoto del 1783, la cittadina calabrese di Filadelfia, nome che significa “amore fraterno”, sul modello dell’omonima città americana, e che era fiorito nella sfortunata, quanto breve esperienza della Repubblica Napoletana del 1799. Qui un giovane Raffaele Settembrini, padre di Luigi, era stato sentinella di Domenico Cirillo, Francesco Mario Pagano e Vincenzo Russo, scontando in seguito, quando la Re. pubblica venne smantellata dai Borbone, quattordici mesi di detenzione sulla stessa isola, dove qualche decennio più tardi sarà recluso Luigi: Santo Stefano. l n verità, Napoli tra Settecento e Ottocento appare un grande laboratorio di idee, pur con tutte le contraddizioni di un sistema in massima parte ancora feudale, funestato da privilegi e diseguaglianze. Il ruolo svolto dalla Massoneria napoletana in tale fucina di visioni e spinte di rinnovamento è decisivo. Aldo Mola e John Dicke ci offrono una panoramica di quello che fu la Massoneria napoletana, «una delirante malattia», come la definisce Dicke, soprattutto durante l’impero napoleonico. Ma l’amore per la grecità e per il platonismo e neoplatonismo, in Luigi Settembrini aveva avuto modo di fiorire direttamente presso la scuola del marchese Basilio Puoti (1782-1 847)/ di cui si professò sempre devoto e grato discepolo, e dove si formò anche il De Sanctis. La scelta non solo del titolo, I Neoplatonici, ma dei nomi stessi, a partire da quello del presunto autore, Aristeo di Megara, dei protagonisti del racconto invero non appare casuale, ma nasconde a mio parere possibili rimandi e precisi significati. E così Aristeo significa l’eccellente”, mentre Megara era una città dorica della Grecia centrale, ma anche Megara lblea, sulla costa orientale della Sicilia, a nord di Siracusa. Il breve racconto ha due protagonisti principali: Callicle, che significa ‘Iglorioso per bellezza” ed è il nome di uno dei personaggi di maggior rilievo del Gorgia di Platone, una delle principali fonti, come abbiamo visto di quel diritto alla felicità di cui Plotino si fa banditore nelle Enneadi. II Callicle del Gorgia è, come sottolinea Cantarella quel superuomo che rivendica, di fronte a Socrate, la giustizia come diritto del più forte. Accanto a Callicle è Doro, il cui nome rimanda al leggendario capostipite dei Dori/ popolo del mare, le cui origini sono tra le più controverse, soprattutto dopo l’attenzione che riserverà a questo popolo il nazismo. Callicle e Doro sono inseparabili fin da bambini. Divenuti efebi, scoprono l’amore platonico, che è l’amore che unisce due uomini, come aveva mostrato Platone nel Simposio. «Noi uomini moderni – scrive Settembrini nell’introdurre il racconto – abbiamo tutti i vizi degli antichi Elleni, e forse anche più e maggiori, ma / li nascondiamo non so se per pudore o ipocrisia: quelli non nascondevano nulla, ed abbellivano con l’arte anche i vizi. Uno dei caratteri principali dell’Arte greca è questo che ella non è ipocrita, non nasconde nulla, rappresenta l’uomo nudo qual è, anche con le sue vergogne. I moralisti potranno biasimare questo racconto, gli lartisti se ne compiaceranno certamente, e diranno che l’arte fa bella ogni cosa. E da questo racconto ancora si vede come sia antica l’opinione di alcuni discreti uomini, i quali credono che l’amor platonico non sia amore purissimo e scevro di og ni sensualità, come alcuni / furbi han dato ad intendere per nascondere i loro amori maschili».

L’amore di Callicle e Doro è completo e reciproco. Non c’è asimmetria nella loro età, sono coetanei, o nel ruolo che giocano durante il rapporto sessuale: essi sono perfettamente versatili/ attivi e passivi nello stesso tempo. Settembrini appare assolutamente consapevole che il rapporto omoerotico nell’antica Grecia non era soltanto asimmetrico, tra un uomo più adulto, l’erastès, e un fanciullo, l’eròmenos, ma anche tra coetanei. Quando, in modo provvidenziale e dopo aver invocato il soccorso divino, Callicle e Doro scopriranno l’utilità dell’olio al fine di potersi penetrare a vicenda, pieni di gioia si recheranno al tempio della vergine Pallade, alla quale è sacro l’ulivo, per ringraziarla: «Un Dio mi suggerisce un espediente – dice Doro a Callicle -. E preso un vasello di purissimo olio biondo come ambra, soggiunse: Ungiamo con quest’olio la chiave e la toppa, e tentiamo, ché forse riusciremo ad aprire. Unsero bene e la chiave e la toppa, e così Doro senza molta fatica sua e senza molta noia di Callicle entrò vittorioso: a lo stesso modo entrò    sette anni e che era prossima ad abbracciare la vita claustrale. Callicle e Doro vengono iniziati al sesso con una donna dalla giovane Innide, durante le Panatenee. Doro sarà il primo e spingerà Callicle a scoprire anch’egli «la sacra porta della vita e del piacere», «la grotta di Pane ricoperta / di molto frondame lucente e morbidissimo» . Innide, il cui nome in greco è Hymnfs, è dunque la personificazione di quell’inno che celebra l’unione del fallo, dei falli, con la ctei , in un paesaggio panico, ben raffigurato dalla grotta di Pan, simbolo defla ctei, e durante le feste in onore della Pallade Atena. I due giovani verranno presto celebrati dagli ateniesi come eroi per essersi particolarmente distinti nella guerra che Atene dovette combattere contro Antioco re di Siria, guerra di cui tuttavia non si ha notizia. Infine si sposeranno con due donne. Callicle sposerà Psiche, che come nome di persona in realtà è rarissimo nell’antichità. Psiche è la personificazione dell’anima, una specie di «doppio» immateriale del corpo abbandonato dalla vita. Nelle Metamorfosi di Apuleio, Psiche è la fanciulla amata da Eros. Dunque, le nozze di Callicle sembrerebbero simboleggiare il raggiungimento da parte del giovane dell’equilibrio tra anima e corpo. Doro sposa loessa, nome altrettanto raro, che Cantarella  riconduce ai Dialoghi di Luciano e che significa “violacea”. Ma loessa è anche il nome di un’orchidea, l’Epipactis ioessa, tipica dell’Italia meridionale e la cui caratteristica è quella di essere ermafrodita. Nozze che sembrerebbero adombrare, dunque, del mondo che in esso si riflette, diventa la metafora di quella che veniva chiamata “inversione”. Ne I Neoplatonici di Settembrini non esiste un mondo riflesso allo specchio, un mondo al contrario, poiché l’autore sembra conoscere perfettamente il segreto dell’attraversamento, che consente di riunire il corpo e il suo doppio, lasciando che sbocci la ioessa, l’androgino. Nessuna tragedia, nessuna ipocrisia, ma una serena, felice accettazione, pienamente abbracciata e vissuta, della propria natura.

 

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