SOTTO IL SEGNO DELLA COMETA…

SOTTO IL SEGNO DELLA COMETA…

Carissimi Fratelli,

il Cosmo, che non ha struttura, assomiglia a un guazzabuglio di eventi straordinari, casuali e disordinati, in cui la Vita costruisce strutture, estraendole da un disordine senza struttura.

Il concetto basilare, che meglio definisce una struttura, scaturisce dalla consapevolezza che vi è la possibilità di ricordare la stessa, ovvero di paragonarla a un ‘altra struttura. In considerazione di ciò e per il concetto di casualità, che ci ricorda l’impossibilità di ricordare il caos o paragonarlo a un altro caos, in quanto privi di struttura, le forze cosmiche si ripropongono in strutture cicliche, e la Vita, adeguandosi, impara a bioritmare fornendo le adeguate risposte.

Nell’immenso crogiolo primordiale, l’azione della luce del sole, agendo sulle molecole semplici, diede l’avvio alla Vita. Oggi, alla luce della biochimica, pur immaginando condizioni ideali tali in cui la vita possa aver inizio senza luce, nessuno potrebbe assicurare la sua sopravvivenza, considerato che le radiazioni elettromagnetiche abbracciano un campo piuttosto ampio di frequenze e, di questo spettro, la luce solare e la vita occupano una minuscola sezione di esso tanto da rendere veramente difficile una conclusione che l’una non dipenda direttamente dall’altra. Questo significa che le forme viventi sono coinvolte tutte in un continuo dialogo aperto, ed un intenso scambio di informazioni ed influssi astrali, con l’universo.

Carissimi Fratelli, non dobbiamo aver dubbi! Una stella se osservata in una notte buia e senza luna, nel silenzio di un deserto, non può passare inosservata, anche se attorniata da altre luci, perchè risplende di luce propria. Ed eccola l’ Umanità tutta, con i buoni ed i cattivi, i ricchi e i meno abbienti, bianchi e neri, rossi e gialli, coloro che dicono di .sapere e gli ignoranti, tutti con il naso all’insù, con gli occhi fissi a cercare la cometa, arcana messaggera di silenziosi ed inquietanti messaggi, che qualcuno, tentando il recupero di un prestigio perduto, definisce apportatrice di sventure e maledizioni divine.

Noi, quaggiù, con i nostri affanni e con l’acre sudore dell’impegno riposto nella conquista delle futili ed effimere profanità, con il cipiglio di chi, ahimè, accumula i metalli illudendosi di conquistare così l’immortalità della materia, restiamo in attesa della “buona novella”

Carissimi Fratelli, è lo spirito che sopravvive, l’unico e solo aspetto, della triplice struttura dell’Uomo, non costretto a sottostare alle leggi della Natura dove tutto si trasforma e nulla si crea.

Volgiamo, allora, le nostre menti, i nostri pensieri, le nostre intenzioni… le nostre speranze, lassù in alto, verso il cielo infinito, solcato dalla “cometa” che con la sua immensa coda di luce, in silenzio, passa su di noi quasi a ricordarci che sarebbe, forse, molto meglio se l’ Umanità guardasse più diritto, davanti a sé, e si occupasse più fattivamente dei mille e mille problemi che soffocano, senza tregua, coloro che hanno bisogno, che soffrono per le prepotenze e le cattiverie dei propri simili, degli oppressi che lottano senza speranza per la libertà che forse… non avranno mai.

L’invito del Ven.mo Gran Maestro, Fr. Virgilio Gaito, a contrapporre al costante e progressivo degrado della cultura nel nostro paese, ad opera del consumismo e dell ‘effimero, non deve lasciarci indifferenti. L’impegno riposto da ciascuno di noi, nei Lavori Esoterici, deve essere tale da provocare veramente quella trasformazione necessaria affinché le parole e le intenzioni non appaghino soltanto la sfera meditativa, ma operino concretamente nel sociale determinando quella ascesa verso l’alto, che è l’unica e sola a dare un vero significato alla esistenza umana, e che consente di guardare, con distacco, le miserie della vita di tutti i giorni, dall’alto, come la “cometa “…lassù nel cielo…

Il Presidente del Collegio dei MM.•.VV.•. di Puglia

Silvio Nascimben

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IL TRCOLORE 200 ANNI , 1797 —1997

 

 

Il Tricolore: 200 anni, 1797 —1997

di

Blasco Mucci

Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo, ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle Alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la Patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che divina l’anima nella costanza dei savi; il verde la perpetua rifioritura a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione e il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch ‘ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà: ond’è che ella, come là dice la scritta, “piena di fati mosse alla gloria del  Campidoglio “…

(Giosue Carducci, commemorazione a Reggio Emilia, il 7 gennaio

1897, del Primo Centenario del Tricolore)

Premessa

Parigi: quattordici luglio 1789. Il vecchio castello medievale della Bastiglia, utilizzato come prigione politica, viene assalito e espugnato dagli insorti guidati da Camillo Desmoulins, da Georges Danton, da Antonio Giuseppe Santerre e da altri capi rivoluzionari. Crollano con esso le fosche leggende che per secoli ne avevano puntellato l’immagine, ma crolla soprattutto il simbolo di quell’ assolutismo che aveva, per secoli, dominato tirannicamente il popolo. Così afferma Adolfo Omodeo: “Dal momentaneo entusiasmo provocato dall’avvenimento, nacque il tricolore francese, per la fusione della bianca bandiera della monarchia con i colori di Parigi: il rosso e il turchino. ” (“L’età del Risorgimento italiano”; Messina-Milano, 1930, pag. 94). Da questo momento la bandiera quale simbolo del potere di un principe scompare, nasce la bandiera espressione della nazionalità. Il tricolore francese, “figlio del popolo “, apre la strada.

Le notizie degli straordinari avvenimenti francesi scuotono l’Europa. Gli ambienti culturali italiani, influenzati dalle illuministiche pagine dell’Enciclopédie e avvezzi da decenni a polemizzare sui numerosi giornali letterari nazionali e d’ oltralpe, cercano sulle Gazzette le informazioni più aggiornate ed esaurienti.

Le notizie dell ‘ appena iniziata e già vittoriosa Rivoluzione giungendo in Italia, accrescono le speranze dei novatori, ansiosi di ripetere anche nella nostra Penisola le esperienze europee. Giacobini e Fratelli massoni — esistevano da tempo in tutti gli Stati italiani attivissime Logge massoniche — si organizzano in “club” clandestini per prepararsi al “grande giorno”. Emissari francesi li favoriscono e li consigliano. Portano da Parigi i tesü del Ça ira, del Reveil du peuple souverain e della Marseillaise, i canti fatidici che, insieme al tricolore, guidano il nuovo esercito rivoluzionario. Paü•ioti e principi sono in attesa: i primi impazienti, i secondi preoccupati.

Nel 1790 Pietro Verri scrive: “I princìpj sociali sono sviluppati nel centro d’Europa; la luce dilatasi rapidamente; il popolo milanese sarà fra pochi anni illuminato E rivolgendosi negli stessi giorni ai suoi concittadini, che in qualità di decurioni governano la capitale lombarda, li incita a leggere i giornali che parlano degli avvenimenti francesi: “Svegliatevi! Non è più tempo di arrogarvi soli la rappresentanza della città. Ogni cittadino al paro di voi ha diritto di eleggere e di essere scelto in servigio della patria (…). Se vi accontentate di essere schiavi purché abbiate dei schiavi sottoposti a voi, sarete voi i nemici della patria. Se scegliete questo partito, vi annunzio in breve la vostra rovina “.

Particolarmente sensibili ai princìpi rivoluzionari laici d ‘oltralpe sono i borghesi ma anche i contadini e i braccianti di Reggio Emilia, i quali — costretti a subire le prepotenze. di un patriziato locale esausto e sprovvisto ormai di valori intellettuali ed economici — covano secolari risentimenti contro la dinastia degli Estensi che governa il loro territorio. Pertanto, tra il 30 aprile e il 2 maggio 1791 , in occasione della prevista             41

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RELITTI DI STORIA

dal libro: “Relitti di Storia”

Archeologia Subacquea in Maremma

A cura del Ministero per i beni culturali e ambientali

 

 

  1. 2. Rotte, commerci e porti lungo le coste maremmane

 

2.1. Importazione ed esportazione di prodotti alimentari: i contenitori.

 

Con il termine anfora (latino amphora) si indicava anticamente sia una misura di capacità corrispondente a circa 26 litri, sia un tipo di contenitore di terracotta usato per il trasporto di merci liquide o semiliquide (vino, olio, conserve di pesce e forse di frutta). Non vi fu una sola regione del Mediterraneo, affacciata sul mare o prossima ad esso, che non produsse anfore per commercializ­zare i propri prodotti. L’anfora fu uno dei simboli dell’economia locale o regionale che l’avevano espressa.

La diversificazione geografica, e quindi culturale, delle aree di produzione influì sulla forma dei vasi che tuttavia conservarono per secoli caratteristiche determinate in primo luogo dalla funzionalità: un collo fatto in modo da poter essere sigillato con un tappo, una spalla più o meno ampia sopra un ventre di forma per lo più cilindrica, un fondo a puntale (per adagiare il vaso in uno strato di terra o di sabbia) oppure piatto, e infine le anse, generalmente due, di forme spesso molto differenti.

Poiché le anfore trasportavano prodotti alimentari è evidente che esse consentono di verificare il potenziale di una economia agricola e le sue capacità di commercializzazione. Non ci si accontenterà di sapere che un’anfora conteneva olio o vino ma si vorrà sapere chi produceva quell’olio e quel vino, in quale tipo di azienda agricola, con quale tipo di organizzazione della produzione, quale era lo status sociale del proprietario dell’azienda, dell’armatore navale, se queste due figure s’identificavano in una stessa persona. Tante possono essere le domande suscitate da un semplice vaso utilitario.

L’oggetto “anfora” finisce per diventare un fossile-guida indispensabile per comprendere la storia economica antica. Ed è dalle diversificazioni in termini di economia verificatesi nelle regioni italiane e nel Mediterraneo che dobbiamo partire per un esame delle merci alimentari e dei contenitori con cui queste venivano trasportate in età romana.

 

2.1.1. Le merci: il vino.

 

Il versante tirrenico dell’Italia aveva conosciuto uno sviluppo nel settore delle colture arbustive pregiate molto tempo prima della romanizzazione: le anfore etrusche, e vulcenti in modo particolare, sono state rinvenute sui fondali di molte isole dell’Arcipelago Toscano, della Corsica e, in Francia, sul litorale della Provenza e nell’interno. Queste esportazioni non si erano virtualmente mai interrotte, ma avevano avuto una drammatica flessione nel corso del V secolo.

Ripresero su vasta scala solo a partire dal IV° secolo, quando le anfore etrusche erano ormai state sostituite da anfore di un tipo completamente diverso: le anfore dette “greco-italiche” (FIG. 20, n. lA). Malgrado questa denominazione sia sostanzialmente inesatta, una lontana parentela fra le greco-italiche ed alcuni tipi di anfore delle isole greche è possibile ravvisarla. Quel che interessa, tuttavia, è che le anfore greco-italiche furono prodotte in tutto il versante tirrenico a partire dalla metà del IV° secolo e probabilmente anche in Sicilia. Il relitto di Montecristo illustra assai bene la realtà del tempo: nave etrusca o nave romana?

A giudicare dalle coppe a vernice nera che accompagnavano le anfore non sussistono dubbi: la nave, ammettendo che avesse caricato le anfore vinarie in un porto campano, imbarcò le ceramiche di accompagno nel Lazio o nell’agro ceretano. Non abbiamo dati che ci consentano di apprezzare quantitativamente il carico. A giudicare dalle dimensioni dell’ancora in ferro che armava la nave, non doveva comunque trattarsi di un piccolo natante per il cabotaggio costiero.

La storia delle anfore greco-italiche più antiche (IV°- III° secolo a.C.) si lega indissolubilmente alla romanizzazione della penisola: esse trasportarono il vino di proprietari terrieri che andavano migliorando la rendita delle loro piccole proprietà, pur mantenendosi lontani dal conseguire standard produttivi sufficienti ad una commercializzazione su vasta scala.

Con la conquista della Magna Grecia e della Sicilia, in seguito alla prima guerra punica, i Romani giunsero in contatto con realtà economiche per loro completamente nuove: non campagne popolate da piccoli agricoltori proprietari di appezzamenti a conduzione unifamiliare, che producevano quanto bastava per il consumo interno, ma paesaggi costellati di edifici complessi, circondati da colture di pregio, cioè vigneti ed oliveti (di cui parla Diodoro Siculo). La realtà agricola della Sicilia nel III° secolo a.C. doveva apparire nettamente più avanzata dal punto di vista delle tecniche e della conduzione di quella contemporanea del Lazio.

Così questa società che andava mutando profondamente ed era affamata di nuove superfici arabili non meno che di nuove tecnologie, grazie alle quali compiere quel salto di qualità ma anche “di quantità” verso una dimensione mercantile, dovette assimilare rapidamente l’esperienza siciliana. Indice delle tumultuose trasformazioni non fu soltanto la lex Claudia del 218 a.C. o il sorgere di insediamenti rurali via via più complessi nel Lazio, ma anche il nascere di un nuovo tipo di anfora greco-italica (FIG. 20, n. 1B): a partire dalla fine del III secolo la forma di questo tipo di contenitore si allunga e finisce per differenziarsi sostanzialmente dal tipo da cui derivava.

Si è certi dell’area di produzione, che interessava molti dei territori costieri della Campania, del Lazio e dell’Etruria. Nell’agro di Cosa vennero costruite fornaci presso il Portus Cosanus e ad Albinia. Queste produzioni vanno collegate alla nascita di case coloniche come quella di Giardino Vecchio (Capalbio) che, se non possono essere considerate certamente delle ville, tuttavia non si limitavano all’autoconsumo ma producevano anche piccole quantità da vendere sul mercato locale o a mercatores che le commercializzavano oltremare. Anfore greco-italiche del tipo più recente costituivano gran parte del carico del relitto più antico del Grand Congloue. Gli indici di presenza di questo contenitore nelle stratigrafie dei villaggi fortificati della Francia meridionale aumentano progressivamente nel tempo.

Dal 125 a.C. si registra un nuovo e ancor più sensibile aumento delle anfore italiche in Gallia: l’anfora greco-italica è sostituita dall’anfora detta “Dressel 1 ” (FIG. 20, nn. 2A e 2B), che ne riprende la morfologia generale.

È questo il periodo in cui si affermano le grandi ville nelle campagne, edifici confortevoli e col tempo sempre più lussuosi, ma anche aziende al centro di ricche piantagioni. I probabili proprietari della villa di Settefinestre, i Sestii, si erano grandemente arricchiti con il vino delle loro proprietà cosane nel corso della prima metà del I secolo a.C. Le anfore Dressel 1 recanti sull’orlo il loro marchio di fabbrica (SES) sono state rinvenute sia presso il portocosano, dove si trovava presumibilmente una fornace, sia in quantità nei relitti affondati presso la costa provenzale (relitto del Grand Congloue più recente, 100- 70 a.C.), nelle valli del Rodano e del Reno.

La Dressel 1 è l’anfora che rappresenta il dilagare del vino italico sui mercati transmarini dell’Occidente. L ‘espansione di questo colossale mercato, che da un punto quantitativo non sarà poi più eguagliato fino al sorgere dei traffici con le Americhe nel XVI° secolo, andò di pari passo con il diffondersi delle ville nelle regioni dell’Italia centrale tirrenica. I profitti della mercatura venivano investiti nelle campagne e i profitti ricavati dai vigneti servivano a promuovere ancora nuove azioni commerciali. Il volume dei commerci fra l’età dei Gracchi e quella di Augusto fu impressionante.

Con gli inizi dell’Impero e forse già qualche anno prima anche le province più ricche, come la Spagna, cominciarono ad esportare i loro prodotti: in particolare il vino e le conserve di pesce, che da allora divennero uno dei pilastri dell’economia iberica. In un deposito di anfore rinvenuto a La Longarina (Ostia), databile all’età augustea avanzata (10 d.C.) si rileva la presenza di contenitori vinari e oleari provenienti da varie località dell’Italia settentrionale, della Spagna e dell’Africa, oltre che contenitori con vini pregiati delle isole greche. I vini spagnoli provvedevano ormai al fabbisogno delle popolazioni galliche, che fino a pochi anni prima acquistavano esclusivamente il vino italico contenuto nelle Dressel 1. Nella prima metà del I secolo d.C. anche i territori della Gallia meridionale svilupperanno un proprio contenitore per vino, destinato ad invadere l’Italia nel secolo successivo. L ‘abolizione del divieto di coltivare vigneti in Gallia e la diffusione delle tecniche mettono le province sempre più in grado di competere con l’Italia. Già il contesto de La Longarina ci dice che le produzioni italiche, per quanto ancora nettamente prevalenti, non sono più le sole protagoniste del mercato.

Alla Dressel l si affianca, verso la metà del I secolo a.C., l’anfora detta Dressel 2/4 (FIG. 20, n. 3): gli indici quantitativi di quest’ultima in Gallia sono nettamente inferiori a quelli raggiunti dalla Dressel 1. Il panorama della circolazione delle anfore nel I secolo d.C. appare sostanzialmente equilibrato e livellato. Non vi sono più protezionismi a favore dei vini italici, non più monopoli, ma una forte tendenza alla concorrenza fra le varie aree produttrici.

Ciò vale, oltre che per il più vasto ambito mediterraneo, anche all’interno dell’Italia, considerando che nella villa di Settefine­stre sono stati rinvenuti frammenti di anfore Dressel 2/4 sia cosane sia provenienti da altri comprensori dell’Etruria, del Lazio, della Campania, della Spagna Tarraconese e Betica.

Questo deve far riflettere: nel secolo precedente, sempre a Settefinestre, le anfore Dressel l erano tutte di produzione cosana, cioè locali. La circolazione dei vari tipi di contenitori si fa più variegata, più varia e più capillare, con una maggiore ripartizione delle provenienze fra l’Italia e, al momento, soprattutto la Spagna. Siamo comunque in un momento in cui un qualunque genere di merce può giungere dappertutto: è così che le anfore Dressel 2/4 giungeranno fino in India, mentre i vasi aretini giungeranno fino all’imperatore della Cina.

Le merci italiche attraverseranno fasi alterne nel corso del I secolo d.C. Ma sul finire del secolo la crisi è ormai alle porte. Ad Ostia, in età traianea, il 53,5% delle anfore vinarie risulta importato dalla Gallia, mentre soltanto il 15,7 % proviene dalle aree vinicole della costa tirrenica e 18% dalla valle del Tevere. La scomparsa della Dressel 2/4, nei primi anni del II secolo d.C. indica spietatamente che la commercializzazione dei vini tirrenici si è interrotta. Del resto, proprio in questi anni, molti dei torchi vinari delle ville vengono smantellati.

La tradizione vitivinicola delle regioni a più spiccata vocazione sopravvisse, come dimostrano le anforette a fondo piatto circolanti fra l’Etruria, la valle del Tevere e il Piceno nel II secolo d.C. (FIG. 22, n. 16). Era l’Italia che non aveva più uno spessore produttivo sufficiente a competere con le province. Produrre un vino che non esce dai limiti di un territorio è un sintomo di debolezza. Il mercato chiedeva principalmente grandi quantità di vini di media qualità. I paesaggi agrari dell’Italia medio-imperiale non avevano spazi né risorse per questo scopo (il che non vieta che producessero vini eccellenti in piccole quantità) ed era questo un chiaro sintomo di fragilità produttiva.

Per questo motivo, dal II secolo d.C. in poi, i territori della costa maremmana rappresentano una sorta di osservatorio privilegiato: tutte le merci dell’Impero raggiungevano i porti di Cosa, di Albinia, di Talamone, di Salebro, dell’Ombrone e del Giglio. Ma questo non era un segno di prosperità. Al contrario, la schiacciante preponderanza delle merci provinciali indicava che ormai la Maremma, come tante altre regioni d’Italia, era costretta a comprare fuori quello che non riusciva più a produrre a costi accettabili (come se oggi a Scansano o nel Chianti risultasse più conveniente comprare il vino della California).

Una notevole quantità di anfore ispaniche documenta il flusso di vini della Tarraconese (Dressel 2/4: FIG. 20, n. 4) e della Betica (Haltem 70: FIG. 21, n. 5) verso l’Italia a partire dall’età augustea. Il vino più conveniente, da acquistare in grandi quantità, divenne fra il I e il III secolo d.C. quello della Gallia (anfore Gauloise 4: FIG. 22, n. 15).

Fra i vini più ricercati vi erano quelli prodotti nelle isole egee: vini salati e passiti in modo particolare. Quasi a voler mantenere uno stretto legame con le tradizione passate, questi vini erano esportati in anfore che per la loro forma richiamano alla memoria alcuni dei contenitori greci di età ellenistica. Rodi e Cos, in particolare, ebbero anche nella prima età imperiale loro propri contenitori: l’anfora Camulodunum 184 (FIG. 22, n. 13) e l’anfora detta “di Cos” (FIG. 22, n. 12), ispirata allo stesso prototipo da cui era nata la Dressel 2/4 italica.

Nella tarda antichità vini vennero infine importati anche dall’Oriente (Palestina, Egitto).

 

2.1.2. Le merci: l’olio

 

I territori apuli esportarono olio nel II° – I° secolo a.C. utilizzando le anfore dette “di Brindisi” come contenitori. Ben presto, tuttavia, l’olio fu per la penisola un alimento da importare. Nel I secolo d.C. discrete quantità provenivano dalla Tripolitania (anfore Tripolitana I, II e III: FIG. 22, n. 14) . Contemporaneamente l’olio spagnolo arrivava dalla Betica nelle anfore Dressel 20 (FIG. 22, n. II) in quantità destinate ad aumentare nel II° secolo.

Nel corso del II giunsero in Italia anfore olearie tunisine: i loro indici quantitativi saliranno poi sensibilmente nei decenni centrali del secolo (anfora Africana I: FIG. 23, n. 18). Nella media e nella tarda età imperiale il fabbisogno di olio dell’Italia sarà ancora soddisfatto dalla Spagna, dalla Tripolitania e dalla Tunisia.

 

 

 

 

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UN “OMPHALOS” DA SALVARE E DA USARE

UN “OMPHALOS” DA SALVARE E DA USARE di

Francesco De Nicolo

Dalle favole egizie e greche ai miti d tOriente ed Occidente, dalle Sacre Scritture ai racconti nordici, s’è conservata, come in uno scrigno, quel che rimaneva d’una Saggezza e d’una Conoscenza non di questo mondo, di questo “Eone”.

Questo scrigno è un piccolo luogo, a nord di Bari, e può raccontare storie molto antiche. E’ uno di quei rari punti geografici in cui forze telluriche, magnetiche, geoelettriche, lasciano nella loro maglia un’anomalia: anomalia individuata e scelta già dal paleolitico inferiore quale ” luogo per l’incontro” tra Uomo, Madre-Terra e Padre-Cosmo.

Il neolitico vide questo sito meta di “sacerdoti” che, da un villaggio oggi chiamato Pulo (Molfetta) sito vicino al mare, risalendo un fiume sacro nato da polle sorgive, si dirigevano dalla foce verso l’ansa più calma -ad Oriente – per raggiungere un luogo di culto, il “Luogo Sacro” dove la polla formava un lago d’acqua fresca e dolce.

Nel 111 0 e 11 0 millennio a.C., popoli venuti da molto lontano – dalle isole Cicladi, Cipro, Creta – cercarono ” il Posto”, che forse conquistarono dopo aspre battaglie e che abitarono per un certo periodo di tempo.

Ogni opera costruita andò perduta, tranne le tombe, come il grande agglomerato di Dolmen, formato da una trentina di camere – anche se in parte distrutte dai contadini del luogo – che rappresentano la testimonianza più evidente risalente all’età del Bronzo (18 0 – 12 0 sec. a. C).

Poi, un periodo di abbandono, dalla nascita della vicina Ruvo (Magna-Grecia) al crollo dell’impero romano.

Una leggenda narra che per un certo periodo in questo luogo venne tenuto nascosto il Santo Graal, a lungo cercato invano dai Bizantini, e ritrovato ed “usato” dai Templari, stabilitisi quì per “caricarsi di energie”.

Il luogo, utilizzato nel periodo Angioino come zona di riferimento di scambi commerciali di Puglia e Lucania, di per se insignificante agli occhi del visitatore distratto e poco competente, si trova a Km.3 circa a sud-est di Terlizzi (Bari). La stratificazione inclinata del suolo passa da 5 0 a 15 gradi in direzione sud e degna di nota è la declinazione magnetica di questo sito è 0 0 00′ (oggi è di + 00 03).

A Sovereto, questo il nome del villaggio, meta di villeggiature estive ed abitato d’inverno soltanto da tre famiglie, vi è una chiesetta che racchiude l’Omphalos: l’ombelico, o meglio il “corridoio” che collega l’uomo al “transfinito”.

Misteriose ed inspiegabili, anche se in apparenza, coincidenze hanno fatto si che Bitonto e Ruvo, due importanti centri dell’antichità, venissero edificate (casualmente?) alla stessa distanza da Sovereto, e cioè a 8 Km. , mentre la via Appia- Traiana, importantissima arteria per i traffici commerciali tra Roma e l’Oriente, consente di percorrere una carrareccia che dopo Km. 1.620 (l .618 numero aureo) si collega a Sovereto.

Una strana pace, una intensa serenità, meglio, un silenzio interiore pervade il visitatore attento tanto da lasciarlo a volte turbato.

Vi era nel passato un allineamento di Menhir che oggi non è più rilevabile con continuità, rimane sul suolo solo una parte della vetusta figura geometrica denotante quelle linee di Hartmann che i Sacerdoti più sensitivi avevano tracciato per comprendere e controllare le anomalie geomagnetiche del “Luogo dell’incontro”.

Ritornando alla chiesetta, ricca di indizi templari, notiamo che custodisce nel suo ventre una grotta nella quale, si dice, sia stata trovata una lampada eterna ed una effige della Madonna. Dalla porta murata della grotta si dovrebbe accedere in un regno sotterraneo, luogo di meditazione, in cui sono celati segreti e strabilianti rivelazioni. Più in là, nella chiesetta, nascosto sotto le panche, una serie di tre quadrati concentrici, che simbolicamente stavano ad indicare I’OMPHALOS, così come vuole la Tradizione, cioè il centro del Mondo, nel quale ha avuto inizio la Tradizione.

Questo arcano punto di riferimento spazio-temporale, che appartiene al misteriosofico mondo spirituale dell’uomo, potrebbe, in un immediato prossimo futuro, essere oggetto di una speculazione edilizia da parte di una Società Immobiliare fortemente interessata all’acquisto globale dell’intera località.

Sorge fortemente un dubbio: possibile che un luogo così fortemente caratterizzato da caratteristiche Templari, possa essere degradato ad un volgare e banale insediamento edilizio? Sovereto, luogo tanto caro ai ricercatori delle antiche leggende ad esso legate, situato nella antica Peucetia, non deve essere distrutto ma restituito a coloro che Iniziati agli Antichi Misteri, ne hanno il pieno diritto d’uso.•

 

Bello e gradevole, o fratelli, è vivere e restare uniti è sostenere con ardore le fatiche comuni, fedeli al nostro legame.

Prezioso è l’amore fraterno.

Come il profumo dei fiori…

…con la loro fragranza pervadono l’aria.

Restiamo liberi dalla contaminazione della colunnia, dal respiro velenoso della malignità, sempre pronunziando parole gentili di verità e di luce.

Se un fratello si perde o cade, tendiamogli la nostra mano soccorritrice: così miglioreremo sempre, così uniti rimarremo.

(Testo di Samuli Savio)

 

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LE ANFORE

LE   ANFORE

Servizio di Lari Mario pubblicato dalle riviste “Scienza e vita” e “Geos”

 

 

La navigazione ha avuto seLE m­pre una grande importanza fin dall’antichità. In particolare, il trasporto delle merci sull’acqua era notevolmente facilitato rispetto a quello via terra, effettuato con carri trainati da animali e quindi più lento e costoso. Ma le navi che trasporta­vano anfore, dette navi onerarie (one­rarius, che porta peso), a causa de­gli insufficienti strumenti di navigazione, della scarsa manovrabi­lità e dell’assenza di carte nautiche, potevano affondare durante una tem­pesta nei punti più pericolosi, pun­teggiando il Mare Nostrum di innu­merevoli relitti.

L’archeologia subacquea, scienza relativamente nuova, esiste da quando si è potuti andare sotto le acque con strumenti abbastanza af­fidabili ed ha permesso di aprire al­cuni di questi scrigni giacenti sul fondo del Mediterraneo per ammi­rarne i tesori: Conoscere il passato ha da sempre esercitato un notevole fascino sull’uomo e capire le anfore, saperne distinguere le forme, valu­tarne le caratteristiche e le diffe­renze, significa capire un po’ l’epoca storica in cui furono prodotte e usate. Spesso da uno di questi oggetti si riesce a risalire al contenuto traspor­tato, alla rotta che la nave stava per­correndo, al luogo da cui essa veniva ed anche al luogo dove sarebbe andata.

 

Con l’anfora si poteva trasportare di tutto, o meglio tutto ciò che po­teva passare dal suo collo. Si hanno notizie certe che viaggiavano dentro le anfore: salse, olive, pesci, orzo, grano, lumache, miele, formaggio e monete. Ma per.secoli le navi solca­rono i mari portando soprattutto due preziosi liquidi: il vino e l’olio. Quelle eleganti, che servivano per il trasporto del vino, sono state ritro­vate in numerosi relitti sparsi lungo le coste del Mediterraneo. Attra­verso la mappa di questi ritrova­menti e aiutati dai bolli impressi so­pra le anfore, è stato possibile stabilire che il commercio del vino in epoca imperiale univa il Lazio alle coste. della Francia, dove sono state ritrovate anfore identiche con iden­tici bolli, e all’Inghilterra, dove il vino arrivava dopo un viaggio lungo i fiumi francesi.

Un traffico di enormi dimensioni, che si può spiegare solo pensando alla legge del Senato ro­mano che nel II secolo a.C. proibiva agli abitanti della Gallia di coltivare la vite e di produrre il vino: la guerra del vino tra Italia e Francia era già cominciata per colpa dell’imperiali­smo economico romano che voleva proteggere i suoi ottimi vini, quali il Cecubo e il Falerno.

L’olio consumato dagli abitanti di Roma in età imperiale proveniva in gran parte dalla Spagna, dove nella Betica se ne produceva una qualità pregiatissima. Esso veniva inviato a Roma in anfore costruite sul posto: con la loro presenza in fondo al mare, hanno tracciato la rotta delle navi che le trasportavano. Verso il III° se­colo d.C., a seguito delle invasioni barbariche in Spagna, si registrò una crisi di rifornimenti di olio a Roma, che preferì approvvigionarsi dalle co­ste africane.

L’olio giungeva così den­tro un nuovo tipo di anfora, co­struita con la tipica argilla rossiccia, e chiamata appunto africana grande, con pareti sottili e piuttosto. fragile, ma con un rapporto peso-contenuto estremamente vantaggioso.

Non si sa ancora perché le anfore avessero certe forme: per esempio è difficile comprendere perché il vino fosse contenuto in anfore alte e affu­solate, mentre l’olio veniva messo in quelle basse e sferiche. È stata data invece una spiegazione certa alla forma del fondo, che finiva sempre a punta: serviva per infilare il primo strato di anfore nella sabbia della zavorra della nave perché stessero diritte, ma era anche necessario per consentire il trasporto dell’anfora du­rante le operazioni di carico e sca­rico.

Una sola persona poteva infatti afferrare l’anfora con una mano sull’ansa e con l’altra sul puntale senza fare grossi sforzi. Dopo aver formato il primo strato, le anfore venivano incastrate nello spazio libero tra una e 1’altra, con le anse posizionate a 90 gradi rispetto a quelle precedenti. Era comunque fondamentale, come del resto lo è anche oggi, che il carico non avesse possibilità di movimento e che il tutto costituisse una massa compatta, che in presenza di avverse condizioni del mare non desse problemi.

I viaggi erano infatti molto pericolosi e le navi non potevano reggere il mare grosso, ma nel caso di un naufragio, non sempre tutto era perduto. Si hanno infatti notizie sicure di recu­peri organizzati dagli urinatores: un vero e proprio corpo di sommozza­tori che ricevevano un compenso pro­porzionale alla profondità dell’im­mersione. Sappiamo anche che di questo corpo fece parte perfino una donna: il suo nome era Aurelia Nais.

Le anfore erano costruite in ar­gilla (il materiale anticamente più reperibile e meno costoso) ed erano formate da sei parti distinte: l’orlo, due anse, il collo, il corpo, il piede. Queste parti venivano preparate se­paratamente al tornio e assemblate prima della cottura in forno. Se l’an­fora era fatta per contenere liquidi, doveva essere impermeabilizzata con resine o bitumi spalmati a caldo. il vino contenuto in queste anfore as­sumeva un gusto particolare e spesso  ricercato, come nel caso di quello contenuto nelle anfore spalmate di bitume di Giudea, che dava al vino un sapore forte e dolciastro.

Una volta riempita, l’anfora ve­niva chiusa ermeticamente con un tappo che, grazie alla forma a imbuto del collo, non poteva cadere all’interno. Avevano diverse fogge ed erano costruiti in materiali diversi; in terracotta, avvitati nella scanala­tura del collo (sopra i tappi di questo tipo spesso venivano fatti segni che indicavano il contenuto dell’anfora o il nome del proprietario del vino), in sughero, in legno. A volte veni­vano usati come tappi delle pigne. Sopra il tappo veniva poi spalmata cera liquida o pece; per questo è stato possibile ritrovare anfore per­fettamente sigillate, ancora con il vino dentro.

Una volta arrivate a destinazione e svuotate del loro contenuto, le an­fore spesso non venivano riutilizzate, dato che la loro pulizia interna sarebbe stata problematica ed era più economico distruggerle. A Roma, a poca distanza dall’antico porto fluviale, c’è una collina artifi­ciale formata da cocci di anfore, vuoti a perdere trasportati in quel luogo dagli antichi netturbini romani e da­gli scaricatori delle navi.

Nel tempo si è formato così il Monte Testaccio; alto circa 50 metri, con un perime­tro di circa 800 e formato da non meno di 40 milioni . di pezzi di an­fora. Le prime file di cocci alla base sono sistemate così accuratamente che non c’è spazio tra l’una e l’altra, tanto che un noto ristorante della zona ha potuto ricavare molti anni fa la sua grande cantina all’interno del monte, senza problemi di stabi­lità delle pareti. Andando verso l’ alto si nota in­vece che i cocci non sono disposti precisi come prima, ma sono stati evidentemente gettati alla rinfusa (siamo nel II°-III° secolo d.C., quando Roma contava 1 ,5 milioni di abi­tanti).

Per la grande maggioranza si tratta di cocci di anfore spagnole che avevano contenuto olio. Il Mons Te­staceus, o monte dei cocci, può es­sere considerato un immenso archi­vio storico all’aperto dei commerci romani, tanto che nel 1873 Enrico Dressel iniziò lo studio sistematico di questi cocci (che a molti sembra­vano tutti eguali) e di quelli prove­nienti dallo scavo del Castro Preto­rio.

Dressel riuscì negli anni a fare la catalogazione completa di 45 tipi di­versi di anfore, distinguendone le va­rie forme e completando una precisa tabella (che porta il suo nome), usata ancora oggi dagli studiosi. La ste­sura della tabella fu resa possibile attraverso lo studio e la interpreta­zione dei bolli impressi sul collo o sulle anse delle anfore. Anche se an­cora non si è ben capita l’effettiva funzione del bollo, resta assodato che servisse a pubblicizzare la bottega o l’artigiano che produceva l’oggetto, a meno che il produttore del conte­nuto non desiderasse imprimere il suo stesso nome. Lo studio approfondito dei bolli consente anche di capire meglio l’ organizzazione eco­nomica delle aziende.

Esamineremo adesso alcuni dei tipi più importanti e diffusi di anfore, procedendo per ordine cronologico e descrivendo le loro principali ca­ratteristiche in modo che il visitato­rie di un museo o di un antiquarium possa riconoscerle e capire meglio il loro contesto storico.

– Le anfore greco-italiche, piuttosto piccole, sono caratteristiche perché contengono le forme delle antiche anfore greche ma con il restringi­mento e allungamento del collo. Sono generalmente attribuite a pro­duzioni della Magna Grecia o sici­liane, vanno dalla seconda metà del IV secolo al II secolo a.C. Erano adibite al trasporto del vino desti­nato alle province galliche e ispani­che. Testimoniano l’espansionismo politico-economico romano.

– Le Dressel 1, diffusissime, furono impiegate dalla fine del II secolo a.C. alla fine del I secolo a.C. Avevano l’ altezza di circa un metro e la capa­cità di 20-26 litri. Stanno a indicare l’assoluta egemonia del vino italiano sui mercati del tempo, dalle coste mediterranee agli accampamenti mi­litari che presidiavano la frontiera germanica.

– Le Dressel 2/4, che intorno al I secolo a.C. avevano del tutto sostituito le Dressel 1 fino al II secolo d.C. Si possono riconoscere facilmente perché sono le uniche ad avere le anse bifidi, cioè a doppio bastone. Con esse sfuma un po’ il predominio della produzione italica di anfore nel I secolo d.C. Si diffondono numerosi altri tipi di anfore costruite all’ e­stero, dato che Roma inizia l’impor­tazione di vino dalle province.

– Le Dressel 20 con corpo a globo, collo corto, anse a grosso bastone, sono l’esempio di anfore straniere. Erano prodotte in Spagna, nella Be­tica, servivano per l’ esportazione dell’olio. Sono quelle che hanno contri­buito in gran parte alla formazione del Monte Testaccio a Roma.

– Le africane, che iniziarono ad ar­rivare verso il II secolo d.C. dall’ A­frica del Nord, contenevano soprat­tutto olio e salsa di pesce. Raggiunsero la massima espansione verso il III° secolo d.C., per termi­nare con la decadenza dell’Impero Romano e l’invasione araba dell’ A­frica settentrionale. Rappresenta­rono una vera e propria evoluzione tecnica del modo di costruire le an­fore, dato l’esiguo spessore delle pa­reti e la forma quasi cilindrica. Pesa­vano soltanto 17-18 chili e avevano un favorevole rapporto di peso tra vuoto e contenuto, vicino a 3,5.

Vicino al Monte Testaccio, c’era l’antico porto fluviale di Roma Au­gustea, con i magazzini: i famosi Hor­rea Galbana e Sulpicia. Lì vicino, proprio dove oggi esiste il mercato di Porta Portese, vivevano duemila anni fa numerosi artigiani con le loro botteghe, pescivendoli, scaricatori di porto, commercianti in cerca di af­fari, ladruncoli, curiosi e operai, in catapecchie sempre minacciate dalle alluvioni. C’erano poi i cantieri na­vali, i magazzini delle merci e gli arsenali delle navi.

Queste, se molto grosse, non po­tevano arrivare a Roma lungo il Te­vere e il loro carico veniva trasbor­dato su chiatte (le caudicariae) che risalivano il fiume trainate dalla riva sinistra da buoi. La più grande nave oneraria mai scoperta è la nave ro­mana di Albenga, che rappresenta anche il primo esempio di studio e di recupero di un relitto importante.

Questa oneraria (meglio definita come myriophoroi) affondò davanti alle coste liguri nel I secolo a.C. men­tre trasportava anfore vinarie Dressel 1. Con le anfore ven­nero in superficie piatti e ceramiche a vernice nera, prodotti nelle stesse zone del vino trasportato, oltre a 7 elmi in bronzo che servivano proba­bilmente a difendere la nave da even­tuali attacchi di pirati. La nave di Albenga, uno dei relitti più interes­santi del Mediterraneo, era lunga 40 metri ed era rivestita esternamente da una lamina di piombo per difen­dere il legno dalla tremenda Teredo navalis: un mollusco che scava gal­lerie nel legno delle navi.

Un’altra scoperta importante per l’ archeologia subacquea è stata la nave ritrovata davanti alle coste li­guri di Diano Marina. Naufragata nel I secolo d.C., aveva a bordo po­chissime anfore, ma trasportava 14 grossi orci di terracotta: i dolia. No­tevolmente diversi da tutti i reci­pienti sino allora conosciuti, erano enormi contenitori stivati nella parte centrale della nave: possono essere paragonati ai moderni containers per la loro capacità, che poteva arrivare fino a 3.000 litri. Probabilmente erano destinati a contenere vino nuovo o mosto e seguivano anche loro la via della Gallia. I dolia, a differenza delle anfore, venivano co­struiti con impasti poco depurati per poter ottenere una buona resistenza e, vista la loro grandezza, non pote­vano essere costruiti al tornio, ma venivano fabbricati a mano un po’ per volta in ambienti caldi.

Uno degli ultimi relitti scoperti lungo le coste italiane è quello esplo­rato recentemente all’Isola del Gi­glio, grazie ai soldi raccolti attra­verso una sottoscrizione pubblica ( e la cosa meriterebbe attente rifles­sioni anche per altre iniziative ana­loghe). La nave, risalente al I secolo d.C., conteneva anfore africane alte un metro e venti centimetri usate per il trasporto dell’olio dalle coste tunisine e nord-africane. Quelle del Giglio presentavano però all’ interno un rivestimento di pece, segno che avevano contenuto una merce più rinomata e pregiata, anch’essa pro­veniente dall’ Africa: il garum. Era un prodotto basilare per molte ri­cette romane, costituito da salsa di interiora di pesce lasciate a mace­rare ne! sale e nell’olio: un po’ come oggi si preparano le acciughe, ma allora era incredibilmente ricercato e costoso (per le ricette antiche fatte a base di garum, vedi il numero del novembre 1989 di Scienza & Vita).

       Oggi, con i moderni sistemi, è ab­bastanza facile immergersi a note­voli profondità e non è impossibile imbattersi in un relitto di nave one­raria. È però opportuno fare una semplice considerazione: quando si asporta un’anfora da un relitto, ma­gari per abbellire la casa, non ci si rende conto che si recidono dei le­garni che la univano al contesto nel quale essa aveva un ruolo e un signi­ficato. Non può più averli, ridotta a un semplice oggetto ornamentale. che non ha più niente da dire. Mentre lo scavo e il commercio clandestino ta­gliano i ponti con la storia, lo studio delle anfore contribuisce a rico­struire semplici attimi del nostro pas­sato per il futuro dell’uomo.

 

 

 

 

 

 

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BOLSCEVISMO E COSMISMO: SCIENZA, MAGIA E RIVOLUZIONE

 

Walter Catalano

 

“Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo”

 

(Karl Marx – Manifesto del partito comunista)

 

 

 

Nicholas Roerich – Sophia, la Sapienza Onnipotente 106.8 x 152.3 cm – Tempera su tela (1932) – Roerich Museum di New York

 

 

 

“Phrushevsky ! I successi più alti della scienza renderanno questa capace di far risorgere i corpi decomposti degli uomini ?”

 

“No” – disse Prushevsky.

 

“Stai mentendo” – obbiettò Zhachev….”Il marxismo può fare tutto. Perché credi che Lenin giaccia a Mosca perfettamente intatto ? Attende la scienza, vuole risorgere dai morti.” (1)

 

Questo passo significativo tratto da Kotlovan, un romanzo dell’ingegnere e scrittore cosmista Andrei Platonov (1899/1951), rivela in modo preciso ed efficace uno dei nuclei programmatici principali del cosmismo: l’abolizione della morte. Un progetto piuttosto ambizioso ma, tutto sommato, perfettamente coerente con le ossessioni escatologiche del credo leninista che aveva incontrovertibilmente sentenziato: “La dottrina di Marx è onnipotente perché è vera”. (2)

 

Il termine Cosmismo russo come caratterizzazione di una tradizione nazionale di pensiero affine per molti versi al New Age americano, compare nei primi anni ’70, ma espressioni più generiche come “pensiero cosmico”, “coscienza cosmica”, “storia cosmica”, “filosofia cosmica”, risalgono al misticismo e all’occultismo russo del diciannovesimo secolo. (3)

 

 

Eppure definire questa dottrina, che il filosofo sovietico Vladimir Filatov descrisse come un esempio di “scienza alternativa”, (4) occultismo sarebbe un’esagerazione. Il cosmismo sottolinea piuttosto la fede nell’onnipotenza della scienza e della tecnologia, radicata nell’idea del potere magico della conoscenza (occulta). Non troppo lontane dalla tradizione gnostica sono poi altre concezioni cosmiste, quali quelle dell’autoperfezionamento e dell’ autodeificazione, della realizzazione dell’immortalità e della resurrezione dei morti. La fede e la pratica della scienza come mezzo per rivelare tutto ciò che è nascosto, governando le onnipotenti energie psichiche, nervose e cosmiche, rappresenta per il cosmista una sorta di gnosi secolarizzata, sintesi del positivismo evoluzionista e del messianismo escatologico occultista: una visione olistica e antropocentrica dell’universo che vede l’uomo come fattore decisivo nell’evoluzione del cosmo. L’uomo per i cosmisti è autoconsapevolezza cosmica collettiva che deve favorire la transizione del mondo dalla “biosfera” (la sfera della materia vivente) alla “noosfera” (la sfera della ragione), sconfiggendo malattia e morte e dando origine finalmente ad una razza umana immortale.

 

 

Come sostiene Alexandr Dugin – ideologo dell’estrema destra russa e preteso metafisico e cospirologo, nel suo saggio Le Complot idéologique du Cosmisme Russe (5)- la prima apparizione delle dottrine cosmiste risale alla seconda metà del diciannovesimo secolo, quando lo spiritismo e le dottrine neo-spiritualiste venute dai paesi anglosassoni si diffusero presso l’intellighentsia russa influenzando soprattutto i pensatori positivisti.

 

Il vero e proprio padre del Cosmismo è però Nikolai Fedorovic Fedorov (1828/1903), autore che influenzò profondamente la filosofia sottesa alle grandi opere di Dostoevsky, Tolstoi, Soloviev ed a quelle meno grandi dello scrittore “proletario” Gorky. Pensatore enigmatico, come lo definì Sergei Bulgakov, Fedorov lavorò nella biblioteca di un importante museo moscovita, dove la sua eccentricità e la sua erudizione erano leggendarie. Viveva asceticamente in una cameretta grande come una cella, dormendo su una panca, indossando gli stessi abiti in inverno e in estate, mangiando pochissimo, rifiutando le promozioni e donando il suo magro salario ai poveri. Venne soprannominato “il Socrate di Mosca” perché non aveva voluto pubblicare quasi niente, in vita, preferendo la diffusione orale delle sue idee presso ristrette ma devote cerchie di seguaci. I tratti generali della dottrina di Fedorov si possono ricavare dalla sua opera principale La filosofia della Causa Comune, pubblicata dopo la sua morte da due discepoli e distribuita gratuitamente a chiunque ne facesse richiesta. I punti principali sono i seguenti:

 

 

 

La Morte è il Male Assoluto. Essa deve essere vinta per l’evoluzione generale dell’umanità.

 

 

 

La resurrezione sarà operata non da Dio ma dall’Uomo: l’ “Uomo Nuovo” teurgico.

 

 

 

La resurrezione sarà compiuta per mezzo di processi scientifici e psichici. Tutta l’Umanità dovrà partecipare a questo Atto Supremo.

 

 

 

L’Uomo Nuovo dovrà acquisire potere assoluto sulla Natura, controllando anche i fenomeni atmosferici.

 

 

 

Il Tempio come spazio del Sacro per eccellenza dovrà trasformarsi in Museo (ove Sacro e Scienza saranno alleati).

 

 

 

L’evoluzione dell’Umanità ha raggiunto il suo acme. Gli uomini dovranno iniziare l’opera di resurrezione dei propri antenati qui e ora.

 

 

 

La Cristianità dovrà allearsi con l’Arianità degli antenati per creare una Umanità Nuova, unita, teurgica, comunitaria.

 

La Causa Comune è la lotta scientifica, sociale, economica, culturale, psicologica, spirituale, industriale, cosmica contro la Morte e per la Vita Assoluta e Infinita. Fedorov chiama la strategia di questa lotta Il Progetto e se ne considera il profeta (ne avrebbe ricevuto l’Illuminazione nel 1851).

 

Dal suo posto di bibliotecario presso una delle istituzioni culturali più importanti della Russia, Fedorov intrattenne contatti con tutti i maggiori intellettuali del suo tempo: i socialdemocratici, i socialisti rivoluzionari e infine i bolscevichi videro nel Progetto, il sinonimo della Rivoluzione Mondiale. La forte tendenza dualistica che Fedorov riprese dallo zoroastrismo – l’antica religione iranica da lui considerata l’anticipatrice del cristianesimo ed ammirata per la netta contrapposizione fra bene e male, luce e tenebra, enfatizzando l’idea di immortalità e risurrezione – ben si sposava con la dialettica marxista tra proletariato e borghesia.

 

Roerich 1925-1926. Tempera su tela, 73.6 x 117 cm

Bolling Collection, Miami, Florida

 

 

 

Dugin segnala anche una singolare analogia fra il Cosmismo Russo di Fedorov e le concezioni di tipo cosmista in Occidente: seguendo René Guénon, nota che il termine “dottrina cosmica” viene usato in Occidente dalla Hermetic Brotherhood of Luxor – gruppo esoterico che sta alla base di tutti i movimenti spiritualisti moderni, dalla Società Teosofica fino ai seguaci di Aurobindo (6) –  e rileva notevoli affinità filosofiche – come il panteismo, l’evoluzionismo, lo sperimentalismo scientista, l’attenzione per i livelli “psichici” e “atmosferici” del mondo sottile, ecc. – tra le due concezioni. Esisterebbe inoltre attualmente un luogo geografico di incontro tra le tendenze occultistiche di scuola occidentale e quelle cosmiste: la città di Kaluga, contemporaneamente centro storico di diffusione della Società Teosofica in Russia e capitale del pensiero cosmista.

 

L’influenza di Fedorov segna profondamente ideologi importanti del bolscevismo come Aleksandr Bogdanov (1873/1928) e Anatoly Lunacharsky (1875/1933). Soprattutto Bogdanov – considerato da Lenin il “cervello numero uno” del Partito Bolscevico; fondatore, già prima della Rivoluzione di Ottobre, del Proletkult (Cultura Proletaria), organizzazione esterna al partito volta alla liberazione culturale e spirituale del proletariato, e membro del movimento intellettuale bolscevico dei bogostroitely o costruttori di dio  (7) – identifica nella società comunista quella Vita Cosmica Assoluta che avrebbe segnato la vittoria sociale sulla morte.

 

Il comunismo utopico, teurgico e magico di Bogdanov esalta la sostanza vitale (e Lenin lo accusò di “approccio borghese e idealista”). Bogdanov è convinto che la nuova scienza proletaria vincerà la morte poco dopo la realizzazione della Rivoluzione Bolscevica, glorifica spesso Satana come “dio del proletariato” e scrive vari romanzi fantascientifici. Il più noto s’intitola La Stella Rossa: vi si descrive l’instaurazione del comunismo su Marte – pianeta che cabalisti e gnostici hanno identificato con Samael, figura analoga a Satana  (8) –  e la ripartizione e condivisione in porzioni uguali fra tutti gli abitanti, del sangue di tutta l’umanità, bene comune e sostanza della vita, essenza materiale dell’essere. Per mezzo di questa continua comunione attraverso il sangue, i “marziani” hanno sconfitto la morte “la più grande nemica del comunismo”. Il racconto ricorda le storie di vampiri e quelle di Lovecraft. Lo stesso Bogdanov, ossessionato dall’idea che il sangue potesse produrre la resurrezione dei morti, fondò e diresse a Mosca un Istituto per la trasfusione del sangue e morì in seguito ad un esperimento di trasfusione sanguigna.

 

Un altro cosmista bolscevico fu il già citato Andrei Platonov che, sviluppando le idee di Fedorov sul controllo assoluto dell’uomo sulla Natura, proponeva di fare esplodere le montagne del Pamir per fare strada ai venti del sud in modo che potessero sciogliere i ghiacci eterni della tundra del nord trasformando quel territorio immenso in una terra fertile. Calcolò precisamente la quantità di dinamite necessaria per realizzare l’opera, inoltre teorizzò la possibilità di una colonizzazione comunista del sottosuolo terrestre e, non contento, elaborò una dottrina mistica del “vuoto dell’anima proletaria” affine al sunnyata buddhista. (9)

 

In realtà i tentativi pratici dei cosmisti per realizzare le loro teorie non furono molto soddisfacenti: l’ambizioso progetto della resurrezione dei morti (se si deve prestare fede ad alcuni resoconti) non andò mai oltre la rianimazione di pesci e anfibi congelati ma l’ottimismo era ancora abbastanza forte da motivare l’imbalsamazione del corpo di Lenin per preservarlo in vista di un futuro ritorno. (10) Secondo i Biocosmisti: “La coscienza dei lavoratori e degli oppressi di tutto il mondo non si riconcilierà mai con il fatto della morte di Lenin” (11). Fu lo stesso Stalin a proporre la conservazione del corpo: Trotsky, Bukharin e Kamenev si opposero sostenendo che “trasformare le spoglie di Lenin in reliquia rappresenterebbe un insulto alla sua memoria” (12). Ma non si trattava di creare solo un culto di stato: anche Stalin e poi Dimitrov – capo del Partito Comunista Bulgaro, Gottwald – capo del Partito Comunista Ceco, ed in tempi più recenti, Ho Chi Minh e perfino Neto, capo della Repubblica Popolare d’Angola, furono tutti mummificati nel Mausoleo Lenin.

 

Secondo le teorie di Nikolai Setnitsky (1888/1937) bisognava abbandonare la pratica moderna della cremazione o della sepoltura fuori città e tornare a forme più tradizionali che preservassero il cadavere in attesa della resurrezione. Setnitsky proponeva la creazione di un “cimitero mondiale” (mirovoi nekropol) situato nelle regioni gelate dell’estremo nord. Ci si accontentò del solo Mausoleo Lenin, presso il Kremlino, riservato alla nomenklatura del partito.

 

Una famosa immagine di Gorky

 

 

Furono i Biocosmisti-Immortalisti di Pietrogrado, sotto il motto di “Immortalismo e Interplanetarianismo”, a proclamare l’immediata abolizione dei limiti di tempo e spazio: ora che si era ottenuta la rivoluzione sociale, era venuto il momento di inserire nell’agenda l’immortalità fisica per tutto il genere umano, la resurrezione dei morti e la colonizzazione dello spazio. I fatti erano strettamente collegati fra loro: le moltitudini di risuscitati e di immortali avrebbero popolato i pianeti dell’universo. Lo studio scientifico della mummificazione, della tanatologia e della cosmonautica dovevano procedere in parallelo.

 

Non a caso i maggiori scienziati cosmisti furono K. Ziolkovsky, padre dell’aereonautica e della cosmonautica russe, e Vladimir Vernadsky, celebre geo-chimico. Ziolkovsky sfiorò i temi dell’ufologia e tentò di elaborare apparecchi per comunicare con creature extraterresti; fondò l’ “hylosoismo” – una disciplina che intendeva rivelare l’intelligenza innata della materia – e partecipò attivamente al movimento spiritico, avendo visioni incessanti di “entità di mondi paralleli”. Molte sue idee insolite e soprattutto quella che concepiva tutta la materia come vivente – concezione rigettata dalla scienza sovietica ufficiale staliniana negli anni ’30 – si radicarono profondamente fra gli studiosi che si occupavano di aereonautica e fra gli stessi cosmonauti. Perfino Yuri Gagarin – il primo uomo lanciato nello spazio – nel corso del suo volo intorno alla terra, trasmise, con grande scandalo, un saluto simbolico a Nikolai Kostantinovic Rerikh, pittore e occultista russo, le cui opere erano strettamente proibite al pubblico sovietico e che risiedeva all’epoca presso l’Hymalaya. Rerikh era teosofo e membro dell’A.M.O.R.C. (un’organizzazione neorosicruciana), studioso di yoga e vicino alla sensibilità cosmista. E’ assai improbabile, conoscendo le dinamiche del sistema totalitario sovietico, che Gagarin avesse compiuto quel gesto di omaggio di sua iniziativa: i suoi superiori, gli scienziati che si occupavano della cosmonautica russa, erano ben coscienti della loro missione “cosmista”, escatologica e mistica. Ancor oggi, nella città nativa di Gagarin, circola la voce che egli non sia mai morto e molti aspettano il suo ritorno (da una prigione segreta o da un manicomio dove lo hanno rinchiuso i “nemici”): la figura dell’astronauta è entrata a pieno titolo nel mito cosmista.

 

Il geo-chimico Vernadsky infine, è considerato il più grande scienziato sovietico: le sue idee hanno influenzato la chimica, l’ingegneria, la filosofia e soprattutto la fisica atomica; il suo concetto di “noosfera” è passato fra le nozioni degli ecologisti contemporanei oltre che nel pensiero di importanti filosofi occidentali come il discepolo di Henri Bergson, Edouard Le Roy e soprattutto il gesuita “eretico” Theillard de Chardin. Anche Vernadsky condivise i miraggi di Fedorov sul Progetto e sulla Causa Comune, fantasticò dei prossimi contatti con entità cosmiche extraterrestri nella futura epoca “noosferica” e, come molti altri cosmisti, morì pazzo.

 

Nell’apparente sistema ateo e materialista della Russia sovietica, il cosmismo è stato l’ideologia semi-segreta della scienza comunista: (13) la più o meno occulta dimestichezza con discipline eterodosse come la parapsicologia, la radioestesia, l’ipnosi, l’ufologia, ecc. ha caratterizzato sempre le ricerche di un gran numero di studiosi e intellettuali inseriti nelle strutture di partito e spesso in precario equilibrio fra allucinazione e raziocinio. Dagli anni della Rivoluzione fino al periodo staliniano e poi, in modo sempre meno sotterraneo, dall’epoca del disgelo kruscioviano fino alla perestroika di Gorbaciov, il cosmismo ha accompagnato indissolubilmente il pensiero sovietico (14) .  Oggi che l’URSS è tornata Russia e che il comunismo sembra decisamente morto, il cosmismo, fratellastro nascosto, continua invece a godere di sempre miglior salute.

 

 

 

(1)  Citato in AA.VV., The Occult in Russian and Soviet Culture, a cura di Bernice Glatzer Rosenthal, New York, Cornell University Press, 1997, pag. 189.

 

(2)  Citato in AA.VV., The Occult in Russian and Soviet Culture, cit. , pag. 189.

 

(3)  Già con le riforme dello zar Pietro I, vengono introdotti, con l’Illuminismo, nuovi modelli filosofici e culturali di matrice occidentale. Fra le nuove suggestioni importate da Ovest, si radica in Russia anche la Frammassoneria e, all’interno di questa, si propagano le molte logge di frangia che praticano e diffondono l’occultismo. A questi elementi esogeni si intreccia sempre più strettamente un’altra antica tradizione già presente sul territorio, quella della Kabbala ebraica che va a sostenere e rafforzare l’ideale cristiano ortodosso della sobornost, la molteplicità nell’unità e l’unione fra Micro e Macrocosmo.

 

Soprattutto dal regno di Caterina la Grande in poi, la tradizione massonica si rafforza e si espande: l’aristocrazia e l’intellighentsia russe vengono permeate largamente da dottrine come il Rosicrucianesimo e il Martinismo. Massone sarà anche Aleksandr Pushkin, il poeta nazionale romantico russo.

 

Dal 1850, dopo il boom nei paesi anglosassoni, anche lo spiritismo si diffonde rapidamente nell’Impero dello zar. Da prima limitato a piccoli gruppi legati al salotto del conte Kushelev-Bezborodko – amico personale del medium Daniel Dunglas Home (1833/1886), che in seguito avrebbe sposato la cognata dell’aristocratico (il matrimonio si celebrò a Pietroburgo, testimone del medium era il celeberrimo scrittore francese Alexandre Dumas) – ebbe un’immensa fortuna presso la corte imperiale coinvolgendo anche molti membri della famiglia dello zar Alessandro II. Lo spiritismo interessò anche i fratelli Tolstoi e il teologo e filosofo Vladimir Soloviev (1853-1900).

 

E proprio ispirandosi alle speculazioni di Soloviev, oltre che a innumerevoli altre influenze come il buddismo, il neoplatonismo, le teorie di Boehme o di Swedemborg, l’eccentrica espatriata russa Helena Petrovna Blavatsky (1831/1891) fondò la Società Teosofica, uno dei più importanti movimenti occulti del mondo moderno. La Teosofia non ebbe una sede ufficiale in Russia fino al 1908 (a Pietroburgo), ma era ben nota e operante nel paese fino dal 1880, nonostante la forte opposizione della Chiesa. Teosofi, almeno per un certo periodo della loro vita, furono, fra i molti, gli scrittori e filosofi P. D. Ouspensky (1878/1947) – in seguito portavoce di un altro grande ierofante russo di origine greco-armena G. I. Gurdjieff (1866 – 1949) – e Nicolai Berdiaev, seguace neognostico della Sophia; il compositore Alexandr Scriabin e il pittore Vasily Kandinsky che, con il suo basilare testo Lo Spirituale nell’Arte, ribadì l’innegabile relazione fra avanguardie artistiche e congreghe esoteriche.

 

Con l’assassinio in un attentato dello zar Alessandro II nel 1881 e con la diffusione dell’ideologia rivoluzionaria dei nichilisti, si estese sempre più anche una notevole fascinazione per il demoniaco che ben si inserì nel fiorente contesto del Simbolismo e del Decadentismo russo. Importando i modelli maledetti dei Decadenti francesi – dai Fiori del Male di Baudelaire a Una stagione all’Inferno di Rimbaud, dalle Diaboliche di Barbey d’Aurevilly al Là-bas di Huysmans – ed aggiungendovi le copiose letture dei testi magici ed occultistici di Eliphas Levi, di Papus o di de Guaita, i Simbolisti russi produssero una letteratura densa di suggestioni arcane e di motivi faustiani.

 

Fra i molti autori interessanti ricorderemo: Dmitry Merezhkovsky (1865/1941) che compose una trilogia Cristo e Anticristo, piena di riferimenti ai sistemi occulti e alla magia nera e pervasa dall’ossessione dell’ambiguità della scelta fra bene e male; Aleksandr Blok (1880/1921) che usava il diabolismo come segno di rivolta all’ordine sociale; Andrei Bely (1880/1934) che amava scandalizzare i borghesi con ostentazioni estreme di satanismo e pornografia; Vasily Rozanov (1856/1919) affascinato dall’Egitto e dalla magia sessuale; Viacheslav Ivanov (1866/1949) sostenitore dell’ardita tesi che “senza opposizione alla Divinità” non può esistere alcuna vita mistica; e soprattutto Valery Briusov (1873/1924) autore dello splendido L’Angelo di Fuoco grande romanzo sulla magia e la stregoneria, ambientato nella Germania del ‘500, che nel tempestoso e tragico amore fra il Lanzichenecco Ruprecht, reduce dal Sacco di Roma, e la strega Renata, adombra il menage a trois condotto dallo scrittore con la poetessa diciannovenne Nina Petrovskaia (1884/1928) e con il già citato Andrei Bely, relazione fatta di rituali magici, fissazioni ossessive, dedizione alla morfina e patti suicidi. La Petrovskaia dopo sette anni lascerà Briusov fuggendo a Parigi, dove si convertirà al cattolicesimo prendendo, guarda caso, il nome di Renata e infine si suiciderà.

 

Il fascino sulfureo dell’Angelo Nero si estenderà dalla letteratura alla musica ispirando La notte sul Monte Calvo di Musorgsky; L’Angelo di Fuoco (dall’omonimo romanzo di Briusov) di Prokofiev o la Sonata n. 9 (detta “La Messa Nera”) di Scriabin.

 

L’attuazione non estetica ma operativa del diabolismo è rappresentata però da Maria de Naglowska (1883/1936), aristocratica pietroburghese, cresciuta in quell’ambiente culturale decadente e “satanico”, che dopo aver avuto contatti con la setta dei khlisty (gruppo mistico messianico che praticava riti sessuali orgiastici), avrebbe portato con sé nel suo esilio occidentale (prima a Roma, dove frequentò Julius Evola, poi a Parigi) una curiosa forma di “luciferismo” basato sulla magia sessuale.

 

Anche la corte dello zar in quegli anni subirà forti influssi da parte di personaggi legati al mondo dell’occulto. Maitre Philippe de Lyon (1849/1905) prima e Gerard Encausse in arte Papus (1865/1916) poi, si stabilirono a Pietroburgo fondandovi logge martiniste e ottenendo grande considerazione da parte di Nicola II e della zarina; aprirono la strada a colui che sarebbe divenuto per molti anni il vero e proprio consigliere della famiglia reale, lo staretz (santone, monaco errante) siberiano Grigorij Efimovic Rasputin (cioè “crapulone”) (1871/1916). Il “Monaco Nero” è stato grandemente diffamato: l’eccezionale influenza sull’isterica zarina e sull’irresoluto zar, gli derivava dalla riconoscenza che i due regnanti gli serbavano per le effettive facoltà taumaturgiche esercitate per curare le crisi di emofilia dello Zarevich Alessio. Se Rasputin non fosse stato assassinato (con estrema difficoltà vista la sua resistenza quasi sovrannaturale a veleni e revolverate) da un gruppo di aristocratici invidiosi – questa è l’ardita ma non impossibile teoria di alcuni storici attendibili – avrebbe probabilmente ottenuto il ritiro della Russia dall’impegno bellico a fianco delle Potenze Alleate (esisteva un preciso progetto in proposito), evitando così le condizioni per lo scoppio della Rivoluzione del 1917 e risparmiando ai Romanov il loro tragico destino.

 

Anche dopo la Rivoluzione Bolscevica la Russia Sovietica non viene meno alle sue tradizioni esoteriche e spiritualistiche. Il preteso materialismo storico e dialettico del marxismo ed il dichiarato ateismo dei nuovi governanti non impedisce la prosecuzione sotto altro nome di quelle stesse dottrine che avevano caratterizzato il precedente periodo. Molti uomini di cultura, artisti ed intellettuali esteriormente bolscevichi nascondono in realtà altri interessi: il grande regista Sergei Eisenstein (1898/1948) era profondamente e attivamente coinvolto nello studio dell’alchimia e della tradizione rosicruciana e gnostica; lo scrittore Vsevolod Ivanov (1895/1963), cantore della Guerra Civile in Siberia, sosteneva di preferire alle sue opere militanti il suo romanzo semiautobiografico Avventure di un Fakiro, infarcito di magia, ipnosi, misticismo orientale e sistemi di pensiero esoterici; il grande Michail Bulgakov (1891/1940), che ne La Guardia Bianca si era permesso di guardare con affetto e nostalgia agli uomini del vecchio regime, percorreva temi faustiani e demonologici nel suo capolavoro Il Maestro e Margherita e ne La Diavoleide, oltre a inserire in tutte le sue opere enigmatici riferimenti ai codici numerologici e alla gematria cabalistica; perfino il Realismo Socialista di Maxim Gorky (1868/1936), era debitore per molti aspetti di una sorta di occultismo positivista basato sugli studi moderni sul trasferimento del pensiero, sulla suggestione ipnotica, sulla teoria delle emanazioni energetiche psicofisiche e sulla parapsicologia.

 

(4)  Citato in AA.VV. The Occult in Russian and Soviet Culture, cit. , pag. 187.

 

(5)  Il saggio è scaricabile, in traduzione francese, su internet al sito Arktogaia di Dugin e accoliti. Ampi stralci ne sono comunque riportati in: Giorgio Galli, La politica e i maghi, Milano, Rizzoli, 1995, pagg. 183-189. Anche noi seguiremo i punti principali del testo parafrasandolo.

 

(6)  Per uno studio obbiettivo della H. B. of Luxor, superando le opinioni preconcette e talvolta erronee di Guénon, si può leggere: Joscelyn Godwin, Christian Chanel, John P. Deveney, The Hermetic Brotherhood of Luxor: Initiatic and Historical Documents of an Order of Practical Occultism, York Beach, Samuel Weiser, 1995. Su uno dei probabili fondatori e ispiratori dell’Ordine, in particolare, è assai interessante: John Patrick Deveney, Paschal Beverly Randolph: A Nineteenth-Century Black American Spiritualist, Rosicrucian, and Sex Magician, Albany, State University of New York Press, 1997. Più in generale anche: Joscelyn Godwin, The Theosophical Enlightenment, Albany, State University of New York Press, 1994, pagg. 199-200; 282-283; 291-292; 346-350; 358-359.

 

(7)  Bogdanov, Lunacharsky e Gorky, influenzati dalla Teosofia, praticavano un surrogato di religione marxista basato su un’interpretazione para-occultista dell’empiriocriticismo e dell’energetismo. I ‘costruttori di dio’ credevano nell’umanità collettivizzata, considerata un dio vivente; il loro energetismo, derivato da una singolare interpretazione del dionisismo nietzschiano, attribuiva alle masse la capacità di canalizzare energia e passione. Questa energia comune delle masse assicurava un’immortalità collettiva piuttosto che personale, giustificando l’auto-sacrificio per il bene della Rivoluzione.

 

(8)  Insospettabili interessi astrologici non sono estranei a Lev Trotsky che in Materialismo dialettico e scienza (1925), traccia un’ellittica analisi oroscopica della nascita del marxismo e delle rivoluzioni del 1848, collegandole entrambe alla scoperta di Nettuno sull’orbita di Urano. Urano è il pianeta della rivoluzione e Nettuno è associato con gli ideali e le ispirazioni nate dall’inconscio.

 

(9)  La mistura di retorica comunista e immaginazione religiosa operata da Platonov è evidente in questo passo citato in AA.VV. The Occult in Russian and Soviet Culture, cit. , pag. 209: “Compagni e cittadini, non sprecate fiato seguendo il corso impoverito della noia universale. Il potere della scienza si staglia come una torre e la Babilonia degli antichi con le sue lucertole e siccità sarà distrutta dalla mano esperta dell’uomo. Non siamo stati noi ad aver creato l’infelice mondo di Dio, ma noi finiremo di costruirlo…La ragione del comunista non dorme e nessuno disimpegnerà la propria mano. Al contrario egli soggiogherà tutt’intera la terra all’influsso della scienza”.

 

(10)  “La tomba di Lenin ebbe forma di cubo piuttosto che di piramide perché il cubo significava la quarta dimensione della vita, che, secondo i teosofi, sopravviveva alla disintegrazione del corpo. Kazimir Malevich, l’artista che propose la forma cubica, riteneva che la quarta dimensione permettesse di sfuggire alla morte. Lenin, dichiarò, era stato risuscitato dalla materia soggetta al tempo e si trovava ora nel mondo dell’arte e della religione vere, il ‘regno super-materiale dello spirito ideale’. Perciò Lenin doveva essere deposto in un cubo, il simbolo dell’eternità. Per Malevich, il cubo, significando la metamorfosi, significava non solo l’immortalità di Lenin ma una cultura interamente nuova. Davvero il cubo avrebbe creato questa cultura muovendo attraverso lo spazio, perché possedeva proprietà teurgiche. Il cubo, possiamo aggiungere, esprimeva il prometeismo e l’orientamento verso il futuro dei bolscevichi molto meglio della piramide, che rimandava alla remota antichità ed era stata costruita grazie al lavoro di schiavi…La formula triadica di Majakovskij ‘Lenin è vissuto ! Lenin vive ! Lenin vivrà !’ divenne un mantra del culto”. In AA.VV. The Occult in Russian and Soviet Culture, cit. , pag. 406.

 

(11)  Citato in AA.VV. The Occult in Russian and Soviet Culture, cit. , pagg. 195-196.

 

(12)  La citazione e le notizie sono riprese da: Il’ja Zbarskij, Samuel Hutchinson, All’ombra del mausoleo: La storia dell’uomo che imbalsamò Lenin, Milano, Bompiani, 1999.

 

(13)  I rapporti intercorsi in Svizzera tra Lenin e Trotsky e la colonia utopista e progressista di “socialisti vegetariani” fondata nel 1899 sul Monte Verità ad Ascona, che raccoglieva, fra gli altri, personaggi come l’anarchico Kropotkin, lo scrittore Hermann Hesse, gli artisti dadaisti Hugo Ball e Hans Arp, il pittore Paul Klee, il poeta Stefan George, la ballerina Isadora Duncan ed il filosofo Martin Buber, potrebbero costituire un ulteriore fattore di prossimità fra pensiero occultista ed utopia rivoluzionaria. A questo proposito Cfr. James Webb, Il sistema occulto, Milano, Sugarco, 1989, pag. 49. Altri spunti utili possono trovarsi in: Nicola Fumagalli, Cultura politica e cultura esoterica nella Sinistra russa 1880-1917, Milano, Società Editrice Barbarossa, 1997.

 

(14) “Nell’attualizzare l’antico mito di Prometeo, Marx non è forse stato l’officiante di un mito saturo ? Sebbene possa suonare stonato per i propugnatori del disincantamento del mondo ammettere che la peculiarità di una dottrina risieda essenzialmente nel suo potenziale simbolico, può avere qualche interesse domandarsi come mai l’edificio teorico marxiano abbia potuto, con qualche sorta di irrazionalità, motivare le masse moltiplicando a profusione le pratiche parareligiose indotte dalla teoria: pellegrinaggio a Mosca, culto della personalità di Stalin, riferimento incessante alle sacre scritture di Marx, Engels, Lenin, e alle esegesi dei padri conciliari (Plechanov, Bucharin, Riazanov, ecc.), sfilate grandiose, consegne di decorazioni, battesimi di città e di fabbriche, protocollo ieratico dei grandi capi del Cremlino… Può sembrare a prima vista contraddittorio, ma tutto sommato evidente, il fatto che una politica antireligiosa abbia potuto produrre un culto del partito…L’entrata nel Partito suppone l’adozione di una visione del mondo totalizzante con una speranza escatologica di trionfo del proletariato”. In: Claude Rivière, Liturgie politiche, Como, Red Edizioni, 1998, pagg. 80-81.

 

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CAOR UCRAINA

CAOS UCRAINA

 

“Nato disorientata, Kiev spalle al muro: ripartiamo dalla pace turca”

Pubblicazione: 27.05.2024 – int. Maurizio Boni

Stoltenberg chiede ai Paesi NATO di lasciare che Kiev usi le armi contro obiettivi russi. Ma l’Ucraina sarà divisa: sarebbe meglio pensare alla pace

ucraina guerra kharkiv 2 ansa1280 640×300  Dopo uno strike russo a Kharkiv, Ucraina orientale (Ansa)

 

“Siamo davanti a uno scenario complesso, di fronte al quale bisogna studiare tanto, conoscere bene le cose e abbassare i toni per fare in modo di riportare le persone alla ragione”. Maurizio Boni, generale di Corpo d’armata e opinionista di Analisi Difesa, commenta così lo scenario che si sta delineando in relazione alla guerra in Ucraina e, più ancora, quello relativo ai rapporti futuri con la Russia. L’invito del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg ai Paesi aderenti all’Alleanza perché consentano agli ucraini di usare le armi fornite dall’Occidente contro obiettivi in Russia è un segnale di smarrimento della NATO stessa. Invece di pensare alla guerra (negando però un coinvolgimento diretto), dovrebbe prendere atto che ormai l’Ucraina sarà in parte russa e cominciare a negoziare la pace, disegnando nuove relazioni con Mosca. Il problema non riguarda solo l’Europa dell’Est, che confina con il teatro attuale della guerra, ma anche il Sud del continente: i russi hanno già una base in Siria e tra poco ne avranno una in Libia, sono già nel Mediterraneo.

 

“PUTIN PRONTO A CESSATE IL FUOCO IN UCRAINA”/ Russia smentisce Reuters: “Ripartire dagli accordi di Istanbul”

Sanchez: riconoscere lo Stato di Palestina è l’unica via per la pace

 

 

Dalle colonne dell’Economist, il segretario della NATO Jens Stoltenberg ha invitato i Paesi dell’Alleanza a togliere il divieto all’utilizzo delle armi contro obiettivi in territorio russo. Se venisse assecondato, cosa cambierebbe nella guerra in Ucraina?

 

Il 4 maggio, in un’intervista alla Reuters, il ministro degli esteri inglese David Cameron aveva già affermato che l’Ucraina aveva il diritto di usare le armi fornite da Londra per colpire il territorio russo. Il 15 maggio, Blinken lo ha seguito a ruota dicendo che tocca agli ucraini decidere come sfruttarle, e ora arriva Stoltenberg. In merito alle sue dichiarazioni, c’è un problema: ha parlato con o senza il consenso dei Paesi membri? Il governo italiano ha preso subito le distanze, questo ci deve tranquillizzare perché almeno da noi qualcuno pensa alle ripercussioni che una decisione del genere potrebbe comportare.

 

Zelensky ostacolo a tregua olimpica Usa-Francia-Xi/ “Occidente teme che Russia perda”. Pace Ucraina a rischio

 

Ma questa decisione non dovrebbe essere presa dalla NATO nella sua interezza?

 

Ogni Paese della NATO può fare con i propri armamenti quello che ritiene opportuno, ma il problema delle dichiarazioni di Stoltenberg è che, come segretario generale della NATO, può parlare a nome dell’Alleanza solo se tutti i membri sono d’accordo con questi elementi di comunicazione strategica. Questo invito ai Paesi membri non può essere seguito da una serie di smentite. Bisogna fare un po’ di ordine all’interno dell’Alleanza dal punto di vista della comunicazione, ci vuole più coordinamento.

 

Ma l’uso di armi per colpire i russi a casa loro potrebbe rappresentare una svolta nella guerra?

 

UCRAINA/ Sapelli: il no di Kiev (e Usa) a Putin per non subire la pace “celeste” di Xi

 

La situazione sul campo di battaglia è estremamente critica per le forze di Kiev, bisogna prenderne atto. Non è certo estendendo le capacità di offesa ucraine nei confronti del territorio russo che si può risolvere la situazione.

 

Le dichiarazioni di Stoltenberg danno l’idea del disorientamento della NATO?

 

C’è una grave difficoltà a prendere atto del fatto che la situazione sul campo di battaglia non è affatto favorevole per Kiev. E questo è il punto di partenza per parlare di una soluzione negoziale, tema che non è ancora entrato nel dibattito pubblico europeo. Sarei molto prudente nell’accettare un’escalation di questo tipo e nel sopportare la responsabilità di conseguenze che non siamo preparati a gestire.

 

I russi potrebbero sentirsi autorizzati a colpire i Paesi da cui provengono le armi?

 

Certamente, è questo il vero problema.

 

Tra l’altro, Stoltenberg nelle stesse ore ha anche dichiarato che la NATO non invierà truppe in Ucraina né sarà coinvolta direttamente: prima sembra voler attaccare, poi fa il pompiere?

 

La comunicazione strategica in ambito NATO è una cosa molto seria, significa che in questo momento ci sono problemi di coordinamento. Un giorno ammetti che la situazione sul campo è grave e il giorno dopo chiedi di togliere ogni vincolo all’uso delle armi e inviti a intervenire in Russia con tutto ciò che è possibile usare. In questo momento bisogna abbassare i toni, occorre prendere atto della realtà e gestirla. Bisogna cominciare a parlare di qualcosa di diverso: ci sono stati centinaia di migliaia di morti, cosa dobbiamo aspettare per mettere fine al conflitto? Sul campo la situazione è quella e bisogna prenderne atto.

 

Putin è tornato a offrire un negoziato parlando di una pace possibile sulla base dell’accordo trovato in Turchia due anni fa e congelando il conflitto. Come mai insiste su questo punto: gli conviene chiudere la guerra?

 

Penso di sì. Se ripenso al conflitto coreano, che molti chiamano in causa perché la soluzione che viene spontaneo portare come riferimento è quella della divisione delle due Coree, una volta che USA e URSS si sono messe d’accordo sulla necessità di parlare, sono passati due anni e mezzo. Mentre parlavano, si combatteva. In Ucraina non so se siamo vicini al limite di rottura delle forze di Kiev, ma i russi sono in grosso vantaggio e sono in grado di partire da ciò che hanno conquistato. Ormai la divisione dell’Ucraina è inevitabile.

 

Una verità sotto gli occhi di tutti di cui però l’Occidente pare non voglia rendersi conto?

 

Ian Bremmer, commentatore influente negli USA, lo aveva già affermato a febbraio durante la conferenza di Monaco e in questi giorni lo ha ribadito. I russi capitalizzano i successi che hanno ottenuto. Credo che dovranno solo guadagnare qualcosa a sud per mettere al riparo la Crimea da problemi futuri. Riproporre il pacchetto di Ankara dal loro punto di vista è vincente.

 

Cosa si potrebbe fare riconsiderando l’accordo del 2022?

 

Le misure sono molto chiare, bisognerà capire da parte ucraina quali potrebbero essere le garanzie di sicurezza, che non sono affatto semplici da configurare. Si fa presto a dire congeliamo il conflitto: occorre indicare chi saranno i garanti del processo di pace, quali garanzie potrebbero essere offerte all’Ucraina tenendo conto che l’obiettivo della Russia è di non avere al confine un Paese ostile. Un discorso enorme che bisogna cominciare ad affrontare.

 

Lituania, Norvegia, Estonia, Finlandia e Polonia si sono accordate per creare un muro di droni che le difenda da eventuali cattive intenzioni della Russia. Se continuiamo sulla strada della guerra è questo che ci aspetta, uno scontro Europa-Russia?

 

Non generalizzerei: quei Paesi hanno dei problemi anche storici con la Russia ed è logico per loro immaginare un futuro fatto di rapporti ostili con la Russia. Ma non riguarda tutta l’Europa: la narrazione dei russi che dopo l’Ucraina arrivano a Lisbona mi sembra poco verosimile. Non ne hanno bisogno: noi i russi li abbiamo già in Libia.

 

L’Europa si preoccupa troppo poco del fronte sud?

 

Nel Mediterraneo ci sono già sette navi russe con capacità lanciamissili. In Libia i russi apriranno una base navale, replicando il modello siriano, realizzando il loro secondo sbocco su questo mare. Con il benestare di Haftar e tutti i benefici che vengono concessi dal punto di vista legale. In Siria sono riusciti a ottenere dal governo l’utilizzo sovrano della base, che è diventata territorio russo. E Haftar concederà gli stessi benefici. L’Europa, insomma, non sono solo la Polonia, la Finlandia e i Paesi baltici, dobbiamo lavorare anche sul fianco sud dell’Alleanza: è fondamentale per noi italiani, come dovrebbe esserlo per altri Paesi come Grecia e Spagna.

 

I problemi sul tappeto, insomma, sono molti di più di quelli che si pensa?

 

Siamo in una situazione molto più complessa di come la si vuole dipingere. Dovremo chiederci anche quale sarà il ruolo della Russia nel nuovo contesto di sicurezza mondiale una volta congelato il conflitto in Ucraina, quali rapporti dovremo avere da qui ai prossimi cento anni con i russi. Ma abbiamo a livello europeo una classe dirigente in grado di sostenere un dialogo e un confronto di questo genere?

 

(Paolo Rossetti)

 

 

 

 

 

 

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CASTAGNETO CARDUCCI 20 LUGLIO ORE 18,00

20 LUGLIO ALE ORE 18

 

 

Il 20 luglio alle 18 alla Bcc di Castagneto Carducci (via Rossini 2 A) a Livorno sarà presentato l’ultimo saggio del Gran Maestro Onorario Massimo Bianchi “Dall’oblio alla memoria” edito da Angelo Pontecorboli, con la prefazione di Paolo Giustini, la presentazione dell’assessore alle culture del Comune di Livorno Simone Lenzi e l’introduzione del Gran Maestro Stefano Bisi, che parteciperà all’evento, organizzato dalla loggia Adriano

Lemmi n.704, e di cui riportiamo l’introduzione al volume.

 

“La storia è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità” scrisse Marco Tullio Cicerone. E mai definizione a distanza di secoli risulta più azzeccata di questa. Grazie ad essa si tramandano fatti, avvenimenti, pensieri,  azioni e opere  di personaggi che hanno contributo a farla, a scriverla. A livello nazionale e locale. Storie di uomini e uomini con tante storie alle spalle. Storie di cittadini e nel caso di questa pregevole pubblicazione  soprattutto di massoni del Grande Oriente d’Italia.

 

L’infaticabile Massimo Bianchi, nell’ultima sua fatica letteraria,  ci delizia con questo  ennesimo libro che rende omaggio ai tantissimi liberi muratori livornesi.  Si tratta di personaggi che hanno fortemente inciso nel corso della loro esistenza sulla vita del territorio e della città labronica dando luogo a tutta una serie di iniziative e di associazioni che hanno fortemente contribuito  al miglioramento e allo sviluppo della Società proiettandosi sino ai giorni nostri grazie ai forti principi di Libertà,  Uguaglianza ,Fratellanza, Solidarietà e mutuo soccorso di cui sono stati e sono fecondi diffusori di luce.

 

E’ giusto ricordare questi fratelli fra fratelli che hanno fondato mattone su mattone e retto con passione, coraggio e saggezza le officine livornesi permettendo di tramandarne ai posteri tradizione e valori. Massimo ha raccolto con pazienza e cura i nomi dei liberi

muratori del passato setacciandone la vita e l’impegno civico e massonico per poi vergare con il cuore queste pagine e unirle con la malta fraterna dell’amore.

 

Così adesso tutti, non solo i continuatori ed eredi spirituali di oggi, ma anche chi dell’istituzione non fa parte ma ne studia i principi e capisce l’enorme valenza della Massoneria, potrà ricordare con l’orgoglio della memoria e la giusta riconoscenza i tanti massoni che fecero Livorno ed hanno partecipato a renderla grande. Tirati fuori dall’oblio del tempo per sempre”.

 

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20 LUGLIO 1969 – L’UOMO SULLA LUNA

UIG5101931 Uranus, 1 January 1986; (add.info.: Uranus, 1 January 1986. \’This computer enhancement of a Voyager 2 image, emphasises the high-level haze in Uranus\’ upper atmosphere. Clouds are obscured by the overlying atmosphere. The Jet Propulsion Laboratory manages and controls the Voyager project for NASA\’s Office of Space Science, Washington, DC.\’ ©SSPL/NASA); SSPL/UIG.

20 LUGLIO 1969 – L’UOMO SULLA LUNA.

21 Luglio 2022 Dario Seglie

 

 

IL FRATELLO BUZZ ALDRIN – Primo Massone che ha camminato sulla superficie della Luna, 1969.

 

The Supreme Council, 33, Giurisdizione Madre del Mondo del RSAA – Conquista della Luna, 1969. Il Fratello Buzz Aldrin, 33, astronauta sulla Luna.

 

 

 

Buzz Aldrin, pseudonimo di Edwin Eugene Aldrin, Jr (Montclair, 20 gennaio 1930), è un astronauta, aviatore e ingegnere statunitense, noto soprattutto per essere stato il secondo uomo ad aver calpestato il suolo lunare, nell’ambito della missione Apollo 11, insieme al comandante Neil Armstrong.

Aldrin si laureò presso la United States Military Academy nel 1951 in ingegneria meccanica. Venne arruolato nell’aeronautica militare statunitense e prestò servizio come pilota di jet da combattimento durante la guerra di Corea. Partecipò a 66 missioni di combattimento e abbatté due velivoli MiG-15.

Dopo aver conseguito un dottorato in astronautica presso il Massachusetts Institute of Technology, Aldrin venne selezionato come membro del terzo gruppo di astronauti della NASA, divenendo il primo astronauta con un dottorato. La sua tesi di dottorato, Line-of-Sight Guidance Techniques for Manned Orbital Rendezvous, gli procurò il soprannome di “Dr. Rendezvous” da parte degli altri astronauti. Il suo primo volo spaziale fu nel 1966 nella missione Gemini 12 durante il quale trascorse più di cinque ore in attività extraveicolare. Tre anni dopo, Aldrin mise piede sulla Luna, alle 03:15:16 del 21 luglio 1969 (UTC), 19 minuti dopo che Armstrong aveva toccato la superficie, mentre il pilota del Modulo di Comando Michael  Collins rimaneva in orbita lunare.

Dopo aver lasciato la NASA nel 1971, divenne comandante della U.S. Air Force Test Pilot School. L’anno seguente si ritirò dall’Aeronautica militare, dopo 21 anni di servizio. Le sue autobiografie Return to Earth, (1973) e Magnificent Desolation (2009), raccontano le sue battaglie con la depressione clinica e l’alcolismo negli anni dopo aver lasciato la NASA. In seguito continuò a sostenere l’esplorazione spaziale, in particolare una missione umana su Marte e sviluppò il Cycler Aldrin, una speciale traiettoria per le navette spaziali che rendeva possibile raggiungere il pianeta rosso utilizzando meno tempo e meno propellente. Nella sua carriera ricevette numerosi riconoscimenti, tra cui la Presidential Medal of Freedom nel 1969 ed è elencato in diverse Hall of Fame.

Bro. Buzz Aldrin

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LA FRATELLANZA E’ UN IDEALE RAZINALE

LA FRATELLANZA E’ UN IDEALE RAZINALE

 

La fratellanza è un ideale relazionale che richiede un lungo cammino. Alla  domanda: “Sei massone?” La risposta è “i miei Fratelli mi riconoscono come tale”. Ciò presuppone che la fratellanza sia responsabile del controllo dell’appartenenza alla Massoneria. Un membro non fraterno non può essere un massone.

La fratellanza è quindi una condizione fondamentale. Diventiamo Fratelli quando riceviamo la Luce o lo diventiamo a forza di lavorare su noi stessi? Più che l’Amore dell’altro, la fratellanza è il rispetto per l’uomo, è quindi di essenza iniziatica e soprattutto metafisica; trasmette un metodo di ricerca della Verità fuori dai dogmi. È un collegamento tra gli Iniziati.

Quanti di noi nel tempo hanno dimenticato che la Massoneria non si limita alla rigorosaapplicazione di un rituale, per quanto bello, una volta ogni due settimane? La nostra ricerca da costruttori si deve esprimere con tutti i nostri Fratelli e non solo quelli del nostro grado o quelli che ci servono per fare la nostra “carriera”. La fratellanza è morte: è la morte di sé stessi nella propria individualità egocentrica, in quanto la scoperta della fratellanza inizia con l’imparare a condividere. La tolleranza non inizia forse quando accogliamo l’altro con tutte queste contraddizioni? Quando finisce una relazione qualsiasi essa sia (diamicizia, di amore, di lavoro) il primo sentimento è quello naturale dello sgretolamento ma, in realtà, si comincia a costruire una nuova realtà.

Questo passaggio è doloroso perché dobbiamo rinunciare alla prima impressione che spesso diamo per scontata e che è il nostro giudizio arbitrario, soggettivo e inconscio.

La fratellanza non esercita poteri magici, offre a tutti una virtù capace di mantenerla e questa virtù è la tolleranza. A metà tra giustizia e amore c’è il rispetto e la tolleranza. Non si può tollerare senza rispettare, perché il fondamento della tolleranza è prima di tutto la comprensione dell’altro, di tutti gli altri.

La tolleranza diventa così un tributo alla verità impenetrabile di cui ogni uomo è portatore. Anche questo sforzo che ci viene chiesto di trattare l’altro come se stessi si chiama “giustizia”, perché la giustizia consiste proprio nel mettersi al posto dell’altro. Tuttavia, dobbiamo ammettere che la tolleranza ha per definizione un limite: non possiamo permettere la libertà di un lupo all’interno di un ovile; è solo all’interno di questo limite, rappresentato dalla libertà dell’altro, che la tolleranza può trasformarsi in Amore, che diventa

una comunione che va oltre quella dello spirito per giungere alla comunione dei cuori. Tale è il paradosso della fratellanza: intelligenza del cuore che trascende quella della mente.

Direi anche che chi più si agita e gesticola è quello che ostacola il rapporto da persona a persona. Si esclude dalla fratellanza.

Se la fratellanza è un dovere per il massone, non è innata. Lei stessa lavora. Bisogna essere abbastanza puri e amare noi stessi per poter fraternizzare con il nostro prossimo senza ingannare nessuno.

L’amicizia è un attaccamento, un affetto reciproco,  che ha molto in comune con la fratellanza. Ma il tipo di relazione è diverso. Scegliamo il nostro amico, ma non nostro fratello. Di conseguenza, nell’amicizia, ci sono spesso più somiglianze che differenze. La fratellanza non è l’abbandono totale e senza riserve dell’amicizia. Nella nozione di fratellanza c’è una nozione di durata nel tempo che non si pone nemmeno: siamo Fratelli per la vita. La fratellanza rimane inseparabile dall’onestà che a volte impone di dispiacere, di scioccare, di offendere. Possiamo essere in fratellanza soloessendo onesti con i nostri Fratelli, ma l’onestà non è in sé una fratellanza che ha una portata superiore. La nostra fratellanza massonica nasce dal fatto che tutti abbiamo un’origine comune attraverso la nostra Iniziazione. Abbiamo vissuto tutti la stessa rinascita e tutti rimaniamo sulla stessa strada, quella della ricerca della Luce. Costruire non può che essere un’opera comune e quindi fraterna. Dobbiamo vivere l’altro con le sue differenze ed ispirarci ad esse, senza lusinghe, senza giudizio e senza spirito di superiorità o rivalità, ma di condivisione e ricchezza. Montaigne ha detto nei suoi Saggi: “Se sono spinto a dire perché lo amavo, sento che questo si può esprimere solo rispondendo: Perché era lui, perché ero io”.

Qui troviamo gli strumenti di lavoro della pietra grezza che serviranno per praticare la fratellanza  come un’arte. Agire come un Fratello è saper temporeggiare le passioni ed a volte è qualcosa di complicato perché potremmo essere un fiume in piena o un lago di beatitudine e il Massone non ha il diritto di perdere la calma e indulgere in atteggiamenti o comportamenti che vanno oltre la finzione.

Quindi è essenziale meritare il nostro posto in Loggia per dominare le nostre passioni ed in particolare quelle del possesso, del potere, della vanità e dell’ipocrisia. La Massoneria non ha mai voluto essere una compagnia di dirigenti in cerca di potere o di posti da bramare nella scala della nostra organizzazione. Il nostro lavoro dovrebbe avere come unica ambizione quella di poter partecipare alla costruzione comune che rifletta la nostra personalità, priva di inutili citazioni che servono solo a mostrare la nostra poca conoscenza, o mettere in risalto solo le nostre capacità nella vita profana.

Essere fraterni è anche parlare la stessa lingua. È importante che la parola circoli e che possiamo esprimerci con umiltà e fraternità verso il Fratello, o le persone a cui ci rivolgiamo. Se il nostro più caro desiderio è progredire verso la Luce, accettiamo di ricevere ciò che ci deve essere dato e diamo senza contare tutto ciò che possiamo dare.

La fratellanza è come un gioco di specchi. I Fratelli sono il nostro specchio. Se ci guardiamo allo specchio per prima cosa ci mostrerà quello che siamo: persone intrappolate nel loro ego, un nemico che vuole esistere da solo. Se sapessimo guardarci allo specchio, sapremmo vedere come viviamo, come siamo guidati, come e quando ci arrabbiamo. Solo solo così potremmo combattere il nostro nemico, applicando il famoso “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli Dei”. Lo specchio è davvero uno strumento di rivelazione. Come simbolo, lo specchio è l’oggetto di introspezione per eccellenza. Ci fa riflettere su ciò che siamo, con le nostre qualità e i nostri difetti, i nostri desideri e le nostre antipatie, il nostro modo di vedere il mondo, le persone che ci circondano e le nostre idee per migliorarle e portarle verso il bene. Ci fa pensare a cosa vorremmo essere e cosa non siamo ancora.

Ma alcune persone non sopportano di vedere la loro immagine riflessa. Alcuni, come il “Narciso” del mito, si perdono guardando la propria immagine riflessa nell’acqua. L’ambivalenza del simbolo dello specchio dipende quindi essenzialmente dall’atteggiamento della persona e dalla maturità di chi si guarda.

Ci sono molti altri specchi, quando guardiamo negli occhi il nostro prossimo. Non è forse lui il nostro specchio? Non lo biasimiamo per le nostre colpe? Non esistiamo attraverso la visione degli altri?

Lo specchio ci rende consapevoli di tutto questo.

È essenziale accogliere lo sguardo degli altri e in particolare dei nostri Fratelli perché è questo che ci insegna a conoscere i nostri limiti, a spingerli indietro per offrire il meglio di noi stessi. È attraverso questo sguardo obiettivo che gli altri devono avere su di noi che si manifesta la nozione di fratellanza. Per essere veramente praticata la fratellanza richiede che chi ne fa uso sia libero.

Libero da cosa o da chi?

Liberato da ogni giudizio che non sia suo, liberato da riflessi condizionati, liberato da qualsiasi autorità esterna, da ogni rappresentazione del potere umano che spezza la fratellanza massonica la cui sopravvivenza è assicurata andando oltre ogni dogma. Esistere attraverso le azioni e l’ interazioni provocate dai legami fraterni, suppone che le nostre catene siano spezzate. Ritengo, quindi, che l’approccio fraterno prosperi e  cancellare le aspettative individuali e le intenzioni dogmatiche.

Permette a tutti di trovare il proprio posto e di non fornire risposte, perché nessuno può sapere in  anticipo quale insegnamento possa giovargli. La prima domanda che tutti dovremmo porci durante le nostre Tegolature con un profano, dovrebbe essere se possiede un’anima che può farlo progredire e farci progredire. A volte è un interesse personale che ci spinge a far entrare un profano, a volte siamo abbagliati dal suo lato visibile che riguarda la vita profana, il lato delle apparenze. Che sia un professore di facoltà, un venditore, un poliziotto, un trasformista, un cattolico, un ebreo o un agnostico che importa?

Insomma, la vera fratellanza, è vivere l’altro con le sue differenze, senza adulazione, senza pregiudizio, senza giudizio.

Vivere in fratellanza è offrire: ciascuno fa dono delle sue forze, ma anche delle sue debolezze. Le differenze non sono rivalità ma condivisione. La fratellanza è nozione di condivisione sia intellettuale che materiale, è dare la vita per l’aiuto reciproco.

ICONOGRAFIA

Svend Svendsen, Norvegia / USA (1864-1945) –

Impronte nella neve di betulle c. 1920′

 

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