CENSURE IMMAGINARIE

CENSURE IMMAGINARIE

Il vittimismo selettivo nell’epoca in cui le parole non hanno alcun peso

Le contestazioni a Cecchettin, Ceccarelli, Massini e Siti viste al Salone di Torino non sono poi così diverse da quelle alla ministra Roccella. Ma ci piace indignarci solo per chi ci sta simpatico (o è nella nostra chat)

Unsplash

 

L’altro giorno una tizia solidamente di sinistra mi ha chiesto conto del successo di Vannacci. Poiché sopravvaluto sempre l’umanità, pensavo che volesse sapere com’era accaduto che uno sconosciuto fosse a un certo punto stato l’autore più venduto d’Italia, e quindi mi sono prodigata in spiegazioni tecniche.

 

La tempesta perfetta, la classifica Amazon per essere primi nella quale bastano trecento copie, il giornalista di Repubblica che se ne accorge, il nome che arriva a chi non l’avrebbe mai notato, la polarizzazione, l’appartenenza, la rava, la fava. La tizia era annoiatissima.

 

Mi ha obiettato: ma è un libro così banale, secondo me è per questo che i libri non vendono, perché devo comprare un libro se quel che ci trovo dentro è lo stesso che otterrei facendo una domanda a ChatGPT?

 

Ho cercato di spiegarle che veramente è il contrario, che è l’epoca dei tutorial, del giornalismo di Google, delle dieci righe di Wikipedia come massimo orizzonte d’approfondimento, solo le cose semplificate funzionano, quasi solo la letteratura per analfabeti ha un mercato.

 

A un certo punto, senza sapere niente di questa tizia che vedevo per la prima volta ma di cui non era difficile intuire il posizionamento sociale e culturale, ho detto: anche la Murgia scriveva cose semplici, non è che perché lei ti è affine e Vannacci no allora il successo della semplificazione di lui è inspiegabile. La tizia ha avuto degli spasmi alla muscolatura facciale, mi ha detto che la Murgia era la sua scrittrice preferita, ha chiesto se questo le facesse perdere punti ai miei occhi, e io ho pensato – per la trecentesima volta quest’anno – che la Meloni vincerà le prossime trecento elezioni.

 

Perché quelli che dovrebbero essere intelligenti sono i più fessi di tutti. Perché gli adulti si preoccupano del punteggio agli occhi degli interlocutori quando esprimono un loro gusto. Perché, soprattutto, non siamo in grado di avere criteri oggettivi, ma solo simpatie.

 

Quando la settimana scorsa Eugenia Roccella è stata contestata a un convegno, tutto è andato come previsto. Lei che si definisce censurata, che fa la vittima, mentre chi ha impostato sul vittimismo interi fatturati improvvisamente lo stigmatizza; e l’opinionismo di sinistra che per giorni ci fa venire l’orchite ripetendo a memoria la lezioncina sulla differenza tra censura dall’alto e contestazione dal basso.

 

In questi casi – era già successo coi giovani invasati che invece di urlare alla Roccella tiravano la vernice sulle opere d’arte, e i presunti intellettuali che ci spiegavano che era «vernice lavabile», non avendo evidentemente mai ritinteggiato le camerette dei figli e non sapendo quindi cosa significhi «vernice lavabile» – mi chiedo sempre da dove arrivi la frase che ripetono tutti.

 

La dice uno per primo e gli altri si convincono sia efficacissima e non valga la pena pensarne una propria? O c’è proprio una circolare, la cosa giusta da dire è vernice lavabile, la cosa giusta da dire è contestazione dal basso? Dove arriva, la circolare: nella chat di Giannini?

 

Breve divagazione, a proposito di censure immaginarie. Al Salone del libro di Torino – intitolato con un manifesto di mitomania, e cioè “Vita immaginaria” – a un certo punto Massimo Finzi Giannini parlava della chat che per qualche giorno ci ha fatto tanto divertire, ed è arrivata Serena Bortone.

 

Nel video – pubblicato sul TikTok di Robinson, quello che aveva già pubblicato la Schlein secondo cui l’equazione è che i lettori siano di sinistra: chiunque curi quell’account è evidentemente determinato a devastare la reputazione della sinistra dall’interno – Giannini dice a Bortone che lei si merita la standing ovation che le stanno facendo, e inquadrano la platea che è tutta compattamente seduta. È uno spot di vita immaginaria di rara efficacia. Fine della divagazione.

 

Insomma tutti si mettono lì a spiegare che non è censura ma contestazione, perché pensano le parole abbiano ancora un peso e «censura» significhi qualcosa, beati illusi, e si debba dire che no, noi la censura no, noi la censura mai.

 

La distinzione tra censura e contestazione mi ha fatto pensare che, se fossimo in anni di brigatisti, forse ci spiegherebbero che se un politico fa ammazzare un cittadino è dittatura, ma se un cittadino ammazza un politico è dialettica democratica. Non riesco a ricordarmi chi mi avesse detto che i partecipanti alla chat di Giannini verranno ricordati come coloro che firmavano appelli contro il commissario Calabresi, ma chiunque tu sia sappi che, sebbene in ritardo, sto ridendo rumorosamente.

 

Censura, contestazione: nessuno dice la cosa ovvia. Le reazioni all’essere molestate dal pubblico mentre si sta parlando possono variare: l’inglese, che ha parole per tutto, chiama heckler il tizio che urla cose dalla platea interrompendo un comico, e i comici che dal palco zittiscono gli heckler sono un genere a sé. Le reazioni possono essere più o meno efficaci, ma chi va a rompere i coglioni a qualcuno che sta parlando è comunque disturbato, comunque infelice, comunque esibizionista, comunque un caso umano (o una persona giovane, stato passeggero che racchiude tutti questi e molti altri limiti).

 

Sempre nel Salone dei libri immaginari – che Annalena Benini ha giustamente trasformato nel festival culturale adatto a un secolo di non lettori, non lettori che certo non vanno lì per i libri ma perché ci sono Gianni Morandi o Paolo Sorrentino, e comprano costosissime custodie di stoffa per libri, custodie in cui infileranno un tablet o magari un libro di ricette – c’è stata, l’avreste vista giacché era su tutti i siti, la contestazione di Elena Cecchettin.

 

Quel che non avete visto, e che invece mi pare il dettaglio migliore, è che la stessa tizia che ha disturbato la Cecchettin è andata, col costo d’un solo biglietto d’ingresso, a urlare in faccia anche a Filippo Ceccarelli che ha osato scrivere un libro su Berlusconi – «I morti li dovete lasciar stare!», gli ha ingiunto – e a Walter Siti, il cui “I figli sono finiti” le ha offerto agevole spunto per strepitare che i figli sono finiti perché li ammazziamo, noi assassini di bambini (Siti temo ne abbia ammazzati pochini: signora, le faccio sapere quando presento qualcosa, almeno ha degli aborti da rinfacciare).

 

Della contestazione a Siti e Ceccarelli non è stata data notizia per distrazione o per far sembrare più speciale quella alla Cecchettin? C’è differenza tra la contestatrice di scrittori e le contestatrici di ministra? È quella differenza tra il dal basso e il dall’alto che amano ripetere gli opinionisti da talk-show? O non è piuttosto quella del piano terapeutico necessario alla signora del Salone che mi descrivono come adulta, ma magari non alle liceali cui poi la giovinezza passa senza medicinali?

 

O è la stessa questione di Vannacci, e ha a che vedere con quanto sposiamo le idee di qualcuno? Se uno spostato, invece che la manica di Stefano Massini, avesse strattonato quella di Vannacci, ci saremmo turbati meno perché Vannacci non è nelle nostre stesse chat, o perché allo strattonatore di Massini possiamo dare del fascista e invece quello eventuale di Vannacci non sappiamo come chiamarlo (forse «staffetta partigiana»)? La signora che rompe i coglioni a Siti ci sembra una pazza perché, ohibò, è contro l’aborto; le liceali che rompono i coglioni alla Roccella ci sembrano sensate perché, in versione acerba, hanno le stesse nostre idee.

 

Ci piace tanto stigmatizzare il vittimismo di chi non ci piace: René Girard ormai lo citano pure sui bigliettini dei Baci Perugina; e, se “Critica della vittima” avesse venduto tante copie quanta è la gente che lo cita, Daniele Giglioli avrebbe accumulato più royalties di Umberto Eco. Ma nel profondo dei nostri cuoricini non ci dispiacciono né il vittimismo né la semplificazione: anzi; li consideriamo così preziosi da volerli riservare a chi ci sta simpatico, e ci infastidisce che se ne appropri l’avversario.

Condividi:

 

Fai clic qui per condividere su Twitter (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Facebook (Si apre in una nuova finestra)Fai clic qui per condividere su LinkedIn (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su Telegram (Si apre in una nuova finestra)Fai clic per condividere su WhatsApp (Si apre in una nuova finestra)

 

centrosinistra

salone del libro

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

ANIMA

ANIMA

 

Le testimonianze relative a situazioni nelle quali il paziente, clinicamente considerato morto, è poi sopravvissuto e ha raccontato di essersi trovato in un mondo di luce, sono molte (migliaia) e sono state rese note anche in testi editi in varie lingue, compreso l’italiano.

Singolare è invece l’esperimento condotto da alcuni scienziati russi.

(da “La Stampa”, in data 20 maggio 1995 – pag.6), – di Giulietto Chiesa.

” Indagine sull’aldilà” – San Pietroburgo (Russia)

Il cadavere è di una donna di 44 anni. L’hanno trovata impiccata undici ore prima. Ha ancora indosso un paio di mutandine rosa e una maglietta di colore stinto. Il cartellino al pollice del piede, con i pochi dati essenziali, una larga ecchimosi attorno al collo. Un tanfo orrendo ci circonda, emanante dalla centinaia e centinaia di cadaveri che aspettano l’autopsia, ammucchiati nei corridoi semibui di questo sconfinato obitorio che raccoglie i morti “per accidente”.

Il professor Kostantin Korotkov apre la sua valigetta nera. Sembra una ventiquattrore, in realtà è un apparecchio portatile di rilevazione con tante luci rosse. Attacca la spina, lega un elettrodo al polso sinistro della morta, distende le dita rattrappite della mano destra, che crocchiano e resistono ai suoi tentativi, finché riesce a disporre la mano, ormai allargata, su una tavoletta metallica, l’altro elettrodo, che contiene una lastra impressionabile, collegata all’apparecchio.

Il ronzio elettrico segnala che l’esperimento è cominciato. Attorno alle dita della morta, nella penombra, si scorge nettamente un alone azzurro-viola piuttosto intenso, vibrante. È l’elettricità che lo produce ? Cos’è ? Korotkov si affaccenda con mosse calme attorno all’apparecchio.

“Tutto viene registrato qui dentro. Insieme ai dati ricavati dalle lastre impressionate, commenta, verrà inserito nei nostri computer per l’analisi statistica. Anche su questo cadavere effettueremo rilevazioni ogni 2 ore, per 5 giorni, poi dovremo restituirlo. Oltre non possiamo andare, per adesso. L’ostacolo è giuridico-legale”.

Tutto quello che vediamo ha l’apparenza, e la sostanza, di un normale esperimento di laboratorio.

Eppure qui, a San Pietroburgo, i ricercatori dell’Università Tecnica stanno cercando di rispondere a una domanda antica come l’umanità: resta qualcosa di noi dopo la morte ? “Le religioni , in tutti i tempi, hanno sempre risposto di sì – dice Korotkov -. È logico.

Esse esistono proprio perché l’uomo ha sempre penato o sperato, di essere in qualche modo immortale. La scienza si è dovuta fermare al limitare dell’ultimo respiro, semplicemente perché non c’era modo di andare oltre con prove sperimentali. I nostri esperimenti dicono che, invece, si può andare oltre. Ci troviamo sulla spiaggia di una terra inesplorata, che si delinea sterminata, e dove un giorno troveremo risposte che potrebbero mutare l’intera nostra percezione del mondo

Esse esistono proprio perché l’uomo ha sempre penato o sperato, di essere in qualche modo immortale. La scienza si è dovuta fermare al limitare dell’ultimo respiro, semplicemente perché non c’era modo di andare oltre con prove sperimentali. I nostri esperimenti dicono che, invece, si può andare oltre. Ci troviamo sulla spiaggia di una terra inesplorata, che si delinea sterminata, e dove un giorno troveremo risposte che potrebbero mutare l’intera nostra percezione del mondo”.

Le labbra screpolate del cadavere sono semiaperte, immobili come un attimo fa. Gli occhi, segnati da una riga di trucco ormai disfatta, restano chiusi.

Eppure questo corpo incontestabilmente senza vita “emette” ancora qualcosa. “Si, insiste Korotkov, possiamo affermare, dopo due anni di ricerche, di aver ottenuto l’evidenza sperimentale dell’attività del corpo umano almeno per alcuni giorni dopo la morte. È qualcosa che sembra contraddire tutto quanto si sapeva sino ad oggi, e cioè che tutte le attività fisiologiche dell’organismo si spengono rapidamente dopo la morte clinica e vanno a zero in un determinato, breve, periodo di tempo”.

Le domande si affollano, la tentazione di sconfinare dal solido terreno sperimentale nella sterminata serie di ipotesi, estrapolazioni, teorie, si fa irresistibile. “Qui il confine tra scienza e esoterismo diventa sottile, ma dobbiamo resistere alla tentazione, che io stesso provo, di lanciarsi

nell’ignoto”.

Chi commenta così è Ghennadij Nikolaevic Dulnev, il direttore del “Centro di Tecnologia enegetico-informativa” di cui il programma di Korotkov è soltanto una parte.

Il centro di Dulnev si occupa della registrazione obbiettiva, della verifica, reperibilità, utilizzazione pratica di una larga serie di fenomeni “paranormali”, come telepatia e telecinesi.

Si era partiti dalla ricerca diagnostica. Si suppone da tempo che il corpo umano “emetta” un campo, (CEI) per ora sconosciuto, contenente una vasta quantità d’informazioni sullo stato dell’individuo, sulle sue caratteristiche biologiche, psichiche, ereditarie, e quindi anche sul suo stato di salute.

Attraverso l’uso sistematico dello “effetto Kirlian” sui pazienti, si è scoperto che il campo emesso dall’individuo contiene effettivamente dati che possono aiutare a comporre un ritratto completo, per

esempio, dello stato degli organi interni.

Già, ma che c’entra il cadavere ?

Korotkov e il suo gruppo, due anni fa, pensarono di provare a vedere cosa succedeva sottoponendo un cadavere alla stessa analisi. Lo scopo era piuttosto semplice: “Volevamo osservare – spiega Korotkov, che è un fisico e non un medico – in quali tempi si affievolisce e scompare, dopo la morte, il campo energetico-informativo che circonda l’individuo”. E qui è arrivata la sorpresa.

Una sorpresa sconvolgente. Il “campo” non scompare. Non solo, a quanto sembra l’ “emissione”, tra l’altro, ha un rapporto con le “modalità della morte”. Per esempio: i defunti per vecchiaia fanno registrare un graduale indebolimento del “segnale” nelle prime 48 ore dopo il decesso.

Ma esso si stabilizza e permane, seppure debole, anche oltre. Altro esempio: i decessi per incidente o per cause improvvise. In questo caso si registra un brusco aumento del “segnale” nelle prime venti ore, seguito da un’altrettanta brusca caduta, fino a un livello stabile e debole. Il terzo esempio è il più inquietante. Riguarda i decessi in condizioni di acuta sofferenza, in seguito ad assassinio, violenze fisiche. Qui l’emissione post mortem ha un andamento irregolare che si prolunga per l’intero periodo di osservazione (finora per i cinque giorni successivi alla morte) e non registra alcuna stabilizzazione (esplosioni d’intensità cui fanno seguito cadute improvvise).

In particolare i suicidi mostrano un andamento delle emissioni talmente convulso da poter essere distinto da tutte le altre cause di morte.

“La criminalistica, dice Korotkov, può usare questi risultati per stabilire senza margine di errore se il defunto è stato ucciso o si è ucciso”. Ma questo è un semplice dettaglio pratico. Balza agli occhi una serie di immediate conseguenze. Il corpo del defunto “trasmette” informazioni che “ricordano” gli ultimi istanti della vita. Come è possibile ? e questa informazione persiste indipendentemente

dall’allontanarsi dal momento della morte. Ma perché le osservazioni si sono fermate al quinto giorno ? “Per ragioni legali, risponde Korotkov, i corpi che ci vengono dati in osservazione debbono essere restituiti all’autorità giudiziaria. Certo vorremmo andare oltre, fino al nono o la quarantesimo, per vedere cosa succede”. E perché questi due intervalli ? “Perché siamo convinti che le credenze religiose di molti popoli abbiano a che fare con quel che stiamo studiando”.

Siamo vicini alla scoperta di qualcosa di simile all’ “anima” ? Ciascuno la chiami come vuole.

“Il nostro linguaggio risente della nostra cultura attuale e delle nostre tradizioni, commenta Dulnev, ma io penso che dobbiamo cominciare a pensare che il nostro mondo è molto più complesso di quanto crediamo. Noi viviamo oggi nello spazio-tempo-materia. Non basta per spiegare fenomeni come quelli di cui stiamo parlando. Bisogna supporre l’esistenza di un’altra dimensione, di un campo informativo, dove le trasmissioni avvengono a velocità superiore a quella della luce.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

L’IMPERO ROMANO FU MINATO DAL PIOMBO ?

Gli archeologi e gli sto­rici hanno probabil­mente amplificato l’effettiva importanza di questi fatti, soprat­tutto in relazione al ruolo svolto dall’in­tossicazione da piom­bo «saturnismo» nel mondo classico. Fra le cause di esposizio­ne prolungata a dosi di piombo sufficienti a produrre la malattia conclamata, solo poche po­tevano essere presenti nell’ antichità classica, nessuna in epoche preceden­ti. L’ingestione di bevande o di cibi inquinati è la principale di esse.

In effetti, il piombo è stato largamen­te impiegato nella costruzione degli acquedotti urbani già nel mondo ro­mano. Tuttavia vi sono motivi di per­plessità al riguardo, in quanto all’in­terno di tubazioni del genere si forma­no rapidamente patine di sali di piom­bo assai poco solubili in acqua, cosic­ché la quantità di piombo che poteva effettivamente passare ad inquinare le acque potabili era scarsa.

Resta aperta la questione dell’even­tuale contenuto di piombo nel vino romano. È probabile l’impiego in epoche classiche di recipienti di piom­bo, o internamente rivestiti da una pellicola di piombo, per la fermenta­zione del vino; inoltre sali di piombo venivano forse aggiunti al vino già fermentato, probabilmente per addol­cirne il sapore. In alcune regioni eu­ropee è tutt’oggi in uso la pratica di immergere frammenti di piombo me­tallico nel vino, al fine di evitarne la rifermentazione.

Tutto ciò rendeva potenzialmente molto elevato il con­tenuto plumbeo del vino romano. Esistono, ovviamente, anche confer­me sperimentali a questo modo di ve­dere. Ad esempio, l’analisi dei vini prodotti in Inghilterra fra il 1770 ed il 1805 d.C. ha dimostrato l’esistenza di contenuti di piombo a livelli ampia­menti tossici. In un classico esperimento eseguito nel 1883, Hoffmann produsse dei vini fermentati seguen­do fedelmente le descrizioni che vari scrittori latini ci hanno lasciato a pro­posito della vinificazione delle uve. La susseguente analisi dei vini così otte­nuti dimostrò un contenuto di piom­bo variabile fra 380 e 781 milligram­mi per litro di vino, a seconda delle metodiche di preparazione delle be­vande: questi livelli di inquinamento sono largamente tossici.

È certo che l’inquinamento alimen­tare da piombo interferisce con la corretta funzionalità del rene, in quanto esiste una interferenza con il metabolismo dell’ acido urico e degli urati, cosicche è nota una «got­ta saturnina», o «gotta secondaria». Sappiamo che nell’Inghilterra geor­giana (XVIII-XIX secolo d.C.) dila­gava questo genere di gotta, legata al grande consumo di bevande alcoliche fermentate.

D’altra parte, studi accu­rati degli scritti di Paolo Egineta ci consentono di ammettere che una got­ta del genere in quasi tutta l’Europa produsse delle «epidemie» anche at­torno al VII secolo d.C. Abbiamo ele­menti per credere che la situazione non sia stata granché diversa in epo­ca romana.

Fortunatamente, il piombo è dosabi­le nelle ossa. Due ricercatori inglesi (Waldron e Wells) hanno recentemen­te esaminato il contenuto di piombo in ben 759 scheletri provenienti da 15 differenti siti ed appartenenti a sog­getti vissuti nell’arco di tempo com­preso fra il 1600 a.C. ed il Medioevo. I livelli più bassi sono stati dimostra­ti nelle ossa più antiche ed è stato os­servato un generale incremento tem­porale del contenuto osseo di piom­bo.

Tuttavia, le ossa dei campioni di popolazioni vissute durante i periodi romano-bretone ed anglo-sassone hanno mostrato un contenuto di piombo anormalmente elevato. Cer­tamente, questi dati concordano con l’idea dell’inquinamento dietetico da piombo legato al vino ed alle acque potabili urbane.

Un ulteriore elemento ambientale, pe­rò, potrebbe avere avuto un ruolo: l’impiego di stoviglie di peltro o di al­tre leghe metalliche contenenti piom­bo. Che un fattore del genere potesse contribuire a determinare livelli tos­sici di piombo alimentare sembra or­mai dimostrato: in un cimitero colo­niale americano le inumazioni dei ric­chi proprietari erano separate da quel­le degli schiavi impiegati nelle pianta­gioni; nelle ossa della classe padronale è stato trovato molto più piombo che in quelle degli schiavi. Ciò potrebbe essere una coincidenza, ma è più ve­rosimilmente da mettere in relazione con l’uso quotidiano di stoviglie di peltro, che solo i ricchi potevano permettersi.

Da questo complesso di indizi non ha mancato di emergere l’ opinione che il diffondersi del saturnismo nelle clas­si dirigenti, più agiate, dell’antica Ro­ma abbia contribuito al declino dell’Impero.

Ma vi sono ancora molte perplessità che avvolgono l’intera questione ed esistono dubbi metodologici rispetto all’interpretazione del contenuto plumbeo delle ossa di scavo. Ad esem­pio, è stato dimostrato che il piombo ambientale (quello contenuto nel ter­reno di inumazione) tende ad accumu­larsi nella parte superficiale delle os­sa sepolte.

Ancora, la quantità di piombo sche­letrico è in funzione diretta della lunghezza dell’esposizione, cioè della du­rata della vita.

Questa ed altre circostanze non sono state tenute in conto da tutti i ricer­catori e costituiscono oggi un motivo di perplessità interpretativa. Ciò non­dimeno, vi sono pochi dubbi riguar­do alla validità di un dato sperimen­tale, tanto importante quanto preoc­cupante: le ossa dei Peruviani del 1600 d.C. contengono una quantità di piombo che è mediamente 1/1000 di quella contenuta nelle ossa degli Ame­ricani e degli Inglesi attuali.

Non vi è alcun dubbio che ciò è collegato an­che all’enorme incremento del piom­bo atmosferico, causato dall’inquina­mento industriale e dalla combustio­ne delle benzine.

 

 

 

 

 

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

CIVILTA’ DA SCOPRIRE – GLI ETRUSCHI A TAVOLA

da “Civiltà da scoprire”: “Gli Etruschi a tavola”

di Umberto Nerucci

 

 

Plinio il Giovane ci ha lasciato una bella descrizione della campagna etrusca: “Prata inde campique, campi quos non nisi ingentes boves et fortissima ara­tra perfrigunt. Perata florida et gemmea trifolium aliasque herbas teneras semper et molles et quasi no­vas alunt” 10). TutDi là i prati e le pianure, pianure che solo buoi enormi e aratri fortissimi arano. Si nutrono del trifoglio fiorito e germogliato e di altre erbe sempre tenere e morbide e come seto questo si era realizzato a seguito delle continue opere di bonifica e di irriga­zione attuate dagli aquilices che intervennero effi­cacemente su terreni dalle più varie caratteristiche geologiche. Infatti nella pianura maremmana fu pra­ticato un controllo particolare delle risorse idriche mediante la creazione nei pressi delle case coloni­che di laghi artificiali, questi, dopo essere stati resi impermeabili con un impasto di argilla e calce spenta potevano raccogliere e trattenere le acque piovane dell’inverno che poi venivano fatte defluire nei cam­pi, durante i mesi caldi, con un sistema di canali di coccio, mentre nelle zone collinari della stessa area era stato approntato un sistema diverso di irrigazio­ne simile a quello americano del dry farming.

L ‘a­gricoltura nella Federazione seguì un costante pro­gresso garantitole da moderni modelli dì sviluppo i quali furono una vera novità nel mondo antico e portarono benessere e ricchezza in quella regione tanto che Varrone definì la Dodecapoli: “Terra pin­gue, di campi ubertosi e di assidua coltura, nonché di altissimi alberi e il tutto senza muffa”, mentre Diodoro Siculo scrisse che: “Gli Etruschi abitava­no una regione incredibilmente fertile la quale op­portunamente coltivata forniva non solo il necessa­rio, ma anche il superfluo per i piaceri e il lusso”.

I prodotti principali di quelle campagne erano le gra­naglie e fra queste ricordiamo il Triticum Spelta, il T. Vulgare, il T. Turgidum, il T. Sphaerococcum, il T. Dicoccum e l’orzo. Queste semente rendevano dalle dieci alle quindici volte, come asserisce Colu­mella, mentre il reddito usuale nel resto dell’Italia era di appena quattro. Il T. Spelta costituiva il cereale più diffuso nella nostra penisola durante il pe­riodo protostorico, si coltivava facilmente anche in terreni umidi, e da esso derivava il Farro, la zona di Chiusi ne produceva una qualità molto apprezzata (Columella II, 6) detta, appunto, far clusinum che pesava ventisei libbre al moggio, contro le normali venticinque, però non era adatto alla panificazio­ne, dava un macinato con cui si preparava un polenta che, con il nome di puls, rappresentò per tre­cento anni il cibo dei Romani, i quali di solito la consumavano in stoviglie di fattura etrusca: “Po­nebant igitur tusco farrata catino” , (Giovenale XI).

La gente di Rasna in seguito cominciò a tostare il farro, pestandolo, in un secondo tempo, dentro un particolare mortaio il cui inventore, un certo “Pilumno”, fu perfino divinizzato, con questa lavorazione si otteneva una farina panificabile con la quale venivano preparate delle focacce che erano facilmen­te digeribili per la parziale destrinizzazione dell’amido contenuto nel T. Spelta causata dal processo di torrefazione. Plinio (XVIII, l0) ci ha tramanda­to le fasi di quell’operazione: “Pistura non omnis facilis quippe et Etruria spicam farris tosti pinsente pilo praeferrato, fistula serrata et stella intus denticulata ut nisi intenti pinsant, coincidantur grana ferroque frangantur” . Nel territorio di Pisa cresceva un’ ottima qualità di T.Spelta e la siligo bianca di questa zona assieme a quella della Campania dava il miglior pane d’Italia. Il basso Val d’Arno era famoso per la segale, l’Etruria circumpadana per il miglio, quella settentrionale per le biade.

Gli uomini di Rasna in seguito sostituirono i cereali più rozzi con il grano vero, mentre i Romani continuarono a mangiare puls fino alle guerre puniche tanto era rimasta arretrata la loro agricoltura. Anche se questa si era sviluppata nella nazione dei Lucumoni grazie al contributo delle tecniche degli ingegneri idrau­lici e al lavoro degli agronomi, le genti della cam­pagna restarono sempre legate alle tradizioni, infatti prima di seminare, come ci tramanda Varrone, nel De Re rustica (I, 40), seguivano scrupolosamente i consigli degli aruspici. Una caratteristica dei conta­dini della Dodecapoli era quella di piantare in mo­do tale che il Circio, vento di NO, sfiorasse le colture solo in obliquo in quanto un eventuale im­patto frontale avrebbe compromesso l’intero raccolto.

Gli Etruschi per molto tempo riuscirono a bilan­ciare saggiamente, all’interno del loro sistema eco­nomico, l’agricoltura con l’industria e così furono evitati squilibri a livello delle classi medie che era­no la struttura portante delle poleis. La terra veni­va lavorata da manodopera libera, gli schiavi suben­trarono come bracciantato intorno al III sec. a.C. con il sopraggiungere della malaria, sempre in quel periodo la borghesia campagnola abbandonò le terre a basso reddito e le subentrò il latifondo con la sua economia agricola estremamente antiquata.

 

Uno dei prodotti più celebrati della Duodecim Populi era il vino, Plinio (Hist. Nat. XIV, IV) dice che “…..nes­sun’altra terra più dell’Etruria gode della vite:..” (Etruria nulla magis vite gaudet). Le migliori quali­tà provenivano dall’alto Fiora, dal Chianti, da Or­vieto, da Statonia e Luni (Plinio op. ct. XIV, 24) da Todi e da Firenze (XIV, 36). Pisa era famosa per la Pharia, ad Arezzo cresceva la Talpana che dava con la sua qualità nera un mosto chiaro per cui gli agricoltori etruschi conoscevano la vinificazione in bianco. Un vitigno molto noto era la Tuderna che nella lingua locale si chiamava Florentia (Plinio op. ct. XIV, IV, 3)! Molto apprezzata era la rotondità della dolce Apiana e dei moscatelli in generale, que­sto gusto filtrò anche nelle abitudini degli austeri cit­tadini dell’Urbe per i quali, come ci tramanda Mar­ziale (XIII 10), la puls accompagnata da del vino  amabile costituiva una vera leccornia: “Imbue ple­beias Clusinis pultibus ollas ut satur in vacuis dul­cia musta bibas”.

 

L ‘olivo per molto tempo restò una coltura scono­sciuta sia nella nostra penisola che in altre aree del Mediterraneo occidentale, in uno scritto di Fenestel­la risalente ai tempi di Augusto, citato da Plinio (XV, 1 ), si legge che in Italia durante il regno di Tar­quinio Prisco (183° anno di Roma, 571 a.C.) non esistevano oliveti, per cui gli Etruschi importavano l’olio direttamente dalla Grecia; infatti un vaso di epoca arcaica con scritto “aska mi eleivana” (tr. “io sono un orcio per l’olio”) ci ricorda la dipendenza della Dodecapoli dall’Ellade per ciò che concerne­va questo prezioso prodotto che veniva saggiamen­te risparmiato alternandolo con l’estratto di semi di lino e di lentisco, mentre per l’illuminazione erano adoperati la cera, la resina e il sego. In seguito, pe­rò, questa coltura attecchì anche nella Federazione divenendo uno degli elementi che maggiormente ca­ratterizzarono quelle campagne.

Inoltre gli uomini di Rasna facevano largo uso di ortaggi soprattutto di carciofi, di rape, di aglio, di cipolla, di asparagi, di sedano, apprezzavano gli aromi della menta e del timo che chiamavano «nepeta» e «mutuca». Dal lat­te di pecora veniva preparato il formaggio, il più fa­moso era quello di Luni che poteva pesare fino a trecentoventisette chilogrammi ed era in grado di sfamare, come ci dice Marziale (XIII, 31), quasi un migliaio di persone: “Caseus Etruscae signatur ima­gine Lunae praestabit pueris prandia mille tuis”.

In quella campagna oltre agli ovini erano allevati anche i maiali che venivano fatti ingrassare d’au­tunno nei querceti in quanto le ghiande rendevano più saporite le carni. Anche la selvaggina ora mol­to richiesta in particolar modo il cinghiale nero: “Cur tuscus aper generosior quam umbro” (Stazio Silv. IV, 6).

Nelle acque del Tirreno si pescavano anche i tonni il cui passaggio era avvistato da delle poste fisse si­te nei pressi di Porto Ercole e di Populonia. (Stra­bone V, 2). Nel Tevere, il “tuscus amnis” secondo Virgilio (Georg. I, 499-Aen. VIII, 473) viveva il pre­libato “lupus tiberinus”, il luccio.

La religione che fu l’elemento di più intima coesione della nazione dei Lucumoni, interveniva attraverso precise prescri­zioni anche nelle abitudini alimentari di quel popo­lo, infatti era vietato mangiare i frutti dei cosiddetti arbores infelices, cioè di quelle piante che per la Etrusca Disciplina costituivano la rappresentazio­ne terrena delle entità degli inferi. Secondo una li­sta tramandataci da Macrobio, derivata da un’ope­ra dall’aruspice Tarquizio (I sec. a.C.), erano proi­biti i fichi scuri, le pere selvatiche, le more e i lam­poni. La mensa della gente di Rasna, oltre a godere dei prodotti di una campagna particolarmente ric­ca e generosa, era caratterizzata da una gastrono­mia estremamente raffinata. I cuochi preparavano le vivande mentre citaredi e suonatori di subulo, il flauto, intonavano le loro musiche, in quanto la gioia di vivere di quel popolo era così intensa da trasparire perfino dalle più comuni attività quotidiane. La tavola veniva imbandita due volte al giorno con grande sfarzo di stoviglie e varietà di cibi. Api­cio nel “De re coquinaria” (VIII 8,1) ci tramanda una delle ricette più famose: “Per preparare un sugo per la lepre, tritare pepe, ligustro, semi di seda­no, intestini di pesce del Tirreno, silfio, il tutto in abbondante aggiunta di vino e olio, lasciarvi mace­rare la lepre, indi bollirla a lungo nell’intingolo do­po averla fatta convenientemente rosolare. Un al­tro piatto tipico di questa cucina erano le tagliatelle la cui preparazione, come vediamo nella tomba dei rilievi di Cerveteri, era identica a quella dei nostri giorni.

Nell’Urbe si faceva un solo vero pasto al giorno, il pranzo restò sempre una colazione molto frugale che veniva consumata, fredda, in piedi: ” Sine men­sa prandium post quod non sunt lavandae manus” (Seneca, ep. 83,6) e questa abitudine sarebbe rima­sta anche in epoca imperiale allorché la gastrono­mia si fece più raffinata con l’introduzione di piatti ricercati come lo spezzatino con albicocche, il pe­sce con purea di mele cotogne e le varie salse di garum e di muria. Per i Romani le abitudini alimen­tari degli uomini della Dodecapoli erano sinonimo di mollezza e assimilarono l’ etrusco ad una sorta di grassone dedito solo ai piaceri della tavola.

L’obe­sus etruscus di Catullo (Carmina XXXIX, II) e il pinguis tyrrenus di Virgilio (Georgiche II, 193) so­no immagini falsate dell’uomo di Rasna, create per porre in maggior risalto i pregi della romanità che tanto aveva, invece, attinto dalla civiltà dei Lucu­moni e ci risulta davvero difficile pensare che l’uni­co erede di Romolo in sovrappeso, come certe fon­ti vorrebbero farci credere, sia stato Nerone il qua­le per dimagrire si sottopose ad una ferrea dieta a base di feci di cinghiale stemperate in acqua tiepi­da. Inoltre le caratteristiche dell’obesus etruscus, se­condo una valutazione antropologica coincidereb­bero con quelle di un’etnia euro-asiatica che in epo­che remote si era sovrapposta alle popolazioni locali.

Questo ventre grosso dell’uomo della Duode­cim Populi potrebbe essere la conseguenza di un’e­patosplenomegalia causata dalla malaria e scambiata erroneamente per adipe in quanto l’associazione del­la malattia con l’addome voluminoso fu un dato ac­quisito soltanto in epoca più tarda con Galeno.

Co­munque agli Etruschi spetta il merito di aver concepito l’agricoltura in termini straordinariamente moderni mediante selezioni botaniche, opere di bo­nifica e di irrigazione, questo fece sì che i prodotti della  Dodecapoli venissero esportati molto lontano già nel VI sec. a.C. , tanto che le strutture della na­zione dei Lucumoni si configurarono presto con quelle di una economia in piena espansione la qua­le si era consolidata anche per il lavoro svolto nei campi da intere generazioni di agricoltori che ave­vano reso quelle terre non solo ricche, ma addirit­tura più suggestive dal punto di vista paesaggistico tanto che Plinio il Giovane, adoprando delle imma­gini tipiche della filosofia platonica, le identificò in una rappresentazione ideale del bello: “Neque enim terras tibi sed formam aliquam ad eximiam pulchri­tudinem pictam videberis cernere; ea varietate, ea descriptione quoqumque inciderint oculi reficientur” .

 

 da A. V. N° 1 1988. A tavola con gli Etruschi.

 

I prodotti della terra, come è ovvio, hanno avuto certamente una parte notevolissima    nell’alimentazione degli Etruschi: cereali, legumi, ortaggi, dovevano costituire il piatto forte, almeno sulla tavola delle classi meno agiate. Gli Etruschi conoscevano già l’aratro.

Oltre alle coltivazioni di cereali quali orzo, avena, grano, farro, dall’inizio del VII secolo, iniziò in Etruria la coltivazione intensiva della vite e non molto tempo dopo anche l’olivocultura. Pur essendo in queste zone già noti in forme selvatiche sia la vite sia l’olivo fin dal II millennio a.C., è soltanto ora che la coltivazione si è estesa su larga scala per la produzione di vino e olio, destinati ad essere esportati nel Tirreno via mare in anfore da trasporto, prodotte soprattutto nell’area Vulcente e ceretana.

Durante il banchetto i servitori preparavano il vino in grandi contenitori dove veniva mescolato con altri ingredienti aromatici; filtrato con colini, veniva poi versato con mestoli nelle brocche e portato in tavola.

TAVOLA DEL FR.’.  M.  L.

 

 

 

 

 

 

 

da: Cibi e bevande nell’antica Roma

di: Eugenia Salza Prinia Ricotti

 

 

Allestimenti spettacolari: animali guarniti come figure mitologiche, dolci come statue. Il vino dei padroni del mondo.

 

Nella presentazione del vassoio che si trova nel Satyricon, il trionfo cen­trale, circondato da polla­stre ed altre delicatezze, era costituito da una lepre guarnita di ali in modo da rappresentare Pegaso, il mitologico cavallo alato. Attorno a questa parte centrale vi era poi una ca­naletta, nella quale erano stati collocati pesci che sembrava nuotassero nella salsa. Una presentazione barocca, fantastica, ma affascinante, probabilmente simile a quella che nella realtà veniva disposta nel vassoio di Oplontis.

Altri allestimenti spettacolari con­sistevano nel portare a tavola animali cucinati interi: grossi pesci, cinghiali, maiali e persino vitelli. Dato che la gente mangiava con le dita e non ave­va posate, essi andavano tagliati a pez­zi di dimensioni possibili. Per questo esistevano gli scalchi, servitori che se­guivano speciali scuole, come quella tenuta alla Suburra da un tal Trifero. Era da lui che essi venivano addestrati su come tagliare in modo perfetto e ra­pido qualsiasi arrosto. Travestiti a vol­te da personaggi mitologici, venivano al seguito del vassoio e si scagliavano sull’animale da affettare come se fosse un pericoloso nemico, facendo dell’o­perazione di dividerlo in pezzi uno spettacolo di varietà.

Ormai qualsiasi portata veniva pre­sentata con molta ricercatezza. Anche i pasticceri ricorrevano a presentazioni spettacolari per i loro dolci. Nel ban­chetto di Trimalcione il dessert è addi­rittura una statua di pasta dolce, rap­presentante Priapo mentre sorregge nel grembo della veste ogni genere di frutta: un tipo questo molto frequente nella statuaria. Tutto ciò naturalmente non era limitato al banchetto di Tri­malcione. Anche se in esso tutto è for­zato e caricaturato per poter far ridere il lettore, il tipo di presentazione dei cibi doveva comunque esser simile a quello descritto da Petronio, e queste portate dovevano far parte di molti banchetti compreso quello imperiale.

Ormai in tutte le case, quando si offri­va una cena, si seguiva il tipico sche­ma del banchetto romano che partiva dalle uova sode, passava attraverso gli antipasti più complicati, gli arrosti più saporiti ed approdava infine ai dolci, alla frutta ai fiori ed ai profumi distri­buiti durante il simposio.

Questo speciale tipo di dopocena ha sempre fatto parte di tutti i banchet­ti dell’antichità. Con diverse forme, naturalmente. A Roma era molto più morigerato di quello dell’epoca d’oro greca.

Ma questo era da prevedersi, in quanto ai banchetti romani, a diffe­renza di quelli greci, partecipavano spesso mogli e figlie dei convitati e quindi bisognava comportarsi bene. Lo spettacolo più spinto che poteva a­ver luogo nella riunione romana era quello che veniva offerto dalle balle­rine gaditane, graziose fanciulle spa­gnole che danzavano agitando i fian­chi a suon di nacchere, mentre attor­no a loro tutti battevano ritmicamen­te le mani, più o meno come si fa an­cor oggi in Andalusia. Anche se ogni tanto qualche poeta le criticava, trovandole troppo spinte, non sembra che le povere figliole offrissero ragio­ne di scandalo e, infatti, pare che molti mariti vi assistessero con a fianco le proprie spose.

Per il resto si chiacchierava e si be­veva secondo uno speciale cerimonia­le. I vini che venivano serviti erano ormai squisiti. I Romani potevano permetterselo, perché erano senza di­scussione i padroni del mondo. I mi­gliori erano sempre quelli che si im­portavano dalla Grecia, ma anche in Italia se ne producevano di eccellenti. Li elencano i poeti, quando descrivo­no i lunghi dopocena romani. Anche a Roma, come ad Atene, si eleggeva uno dei convitati che dirigesse il sim­posio: in latino egli veniva chiamato magister bibendi, ossia «direttore del bere», e dava disposizioni sul come si dovesse preparare la mistura di vino ed acqua decidendo poi a chi biso­gnasse brindare.

Ciò voleva anche dire che egli fi­niva con lo stabilire quanto si doves­se bere: infatti, quando i Romani brindavano alla salute di qualcuno, tracannavano tante coppette quante e­rano le lettere che componevano il nome del festeggiato; ed i nomi ro­mani erano particolarmente lunghi. Grazie al cielo, il vino era solitamen­te molto diluito: si usava mettere tre parti di acqua per una di vino.

D’in­verno, come abbiamo visto, si ag­giungeva acqua bollente e a volte, per averla sempre pronta, si usavano inte­ressanti bollitori, che funzionavano con lo stesso sistema dei samovar russi: uno molto bello si trova nel­l’Antiquarium di Pompei. D’estate il vino veniva invece allungato con la neve, raccolta d’inverno sulle cime dei monti ed immagazzinata in depositi sotterranei dove, coperta di paglia, si conservava per tutta l’estate.

I più belli fra tali depositi sono quelli principeschi di Villa Adriana, che, scavati nel tufo, sono costituiti da una serie di gallerie poste ai lati di un canale di servizio. Questo ha un fondo a sezione concava ed un’inclinazione verso settentrione necessaria per il de­flusso dell’acqua di fusione. La neve, una volta immagazzinata e ben stivata nei bracci laterali, veniva sigillata con paglia e fieno. Dato che si intaccava un braccio per volta, gli altri lasciati chiusi ed intatti potevano durare mol­tissimo, soprattutto perché l’intonaco, che rivestiva questi speciali depositi, era leggerissimo, e formava una sorta di enorme thermos nel quale la neve si conservava bene.

Nell’antica Roma se ne usava mol­ta: essa serviva per preparare speciali piatti ghiacciati; per confezionare sor­betti e, quando d’estate il sole faceva riscaldare l’acqua nelle piscine delle terme, era sempre con la neve che la si faceva freddare. Ma l’uso più diffuso era, come sempre, quello di far gelare le bibite durante il periodo caldo. In quella stagione non c’era triclinio e ce­na elegante che ne facessero a meno e con vino ghiacciato si chiudeva il ban­chetto estivo. Era quasi sempre buio quando i convitati, sazi e leggermente brilli, sa­lutavano il loro ospite. Quasi sempre la cena prendeva fine al tramonto; ma quando ci si avviava al tetto domestico si aveva spesso bisogno di torce o di lanterne e, quando non si era ricchi ed accompagnati da forti ed atletici schia­vi, bisognava pregare tutti gli dei di esser salvati dai cattivi incontri: le strade erano piene di banditi e di risso­si ubriaconi. Era fortunato colui che riusciva ad arrivare sano e salvo al proprio letto. A volte però era proprio a casa che iniziava la battaglia. Qui, ad attendere l’amato compagno, vi era spesso una moglie od un’amante: co­munque una donna amareggiata, che si sentiva offesa e che pensava di esser stata abbandonata e trascurata.

I bellissimi versi di Properzio, che rientrando dopo una cena vede la sua bella ancora addormentata mentre giace sul letto illuminata dalla luce della lu­na, inondano di poesia la fine del suo banchetto. E la scena che scoppia subi­to dopo il risveglio della dolce creatura non riesce a sciogliere l’incantesimo: l’amata è troppo bella e l’ira contribui­sce soltanto a renderla più desiderabile. Ma questa scena ci dice pure che, anche se le grandi dame e le imperatrici romane partecipavano con gli uomini ai banchetti e si sdraiavano sui letti tricli­niari, non a tutte era consentito di segui­re il loro esempio. Anche in epoca impe­riale il romano medio preferiva, come Properzio, lasciare a casa la sua donna e limitava la disturbatrice presenza fem­minile alle riunioni con gente seria e per bene. Parenti stretti possibilmente, cene di tutto riposo: insomma, quelle nelle quali non si beveva troppo e si era sicuri di non dover fare a pugni per difendere l’onore della propria consorte.

Ecco, quindi, quel magnifico spettacolo che fu la cena romana con tutti i lussi più raffinati che i Romani avevano importato dalla Grecia, dall’Egitto e dall’Oriente; e tutte le usanze ed i costumi che ave­vano assorbiti ed elaborati: un tipo di banchetto che con essi si diffuse poi fino agli estremi confini del loro impero.

Certamente, come si diceva al principio, l’estendersi del potere centrale avrà anche potuto togliere varietà alla vita conviviale del mon­do dell’epoca; ma chi se ne poteva lamentare? Con i Romani la cena, questa parte così fondamentale del­l’antica vita sociale, aveva preso un carattere speciale, estremamente in­teressante ed importante; ed essa re­stò in uso con pochi cambiamenti fi­no alla fine dell’impero. Forse durò addirittura fino a quando, con l’arri­vo del medioevo e la scomparsa dei letti tricliniari, la gente si sedette at­torno a lunghe tavole ed iniziarono i digiuni e le penitenze. Con la fine di Roma, anche il mondo brillante ed edonistico dell’antichità era, almeno apparentemente, finito.

 

 

 

 

 

 

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

IL TEMPIO DI FIRENZE

Mitologia e Massoneria, il Tempio Lando Conti di Firenze nel Palazzo Altoviti-Valori

 

Breve storia del palazzo

 

Il palazzo si trova sul Decumano Maximo (direzione Est-Ovest) dell’antica colonia romana di Florentia e fu costruito nel XVI secolo. Al suo posto c’erano una serie di case appartenenti a Rinaldo Di Maso degli Albizi al quale fu confiscato l’intero patrimonio immobiliare perché si era schierato contro Cosimo il Vecchio de’ Medici. Il tutto fu poi riacquistato dal suo parente Lucantonio di Niccolò degli Albizi che lo tenne fino al 1536. Verso la fine del XVI secolo, Baccio Valori, nuovo proprietario, decise un radicale restauro del grande palazzo. La famiglia dei Valori ne conservò la proprietà fino alla morte dell’ultimo erede della dinastia che si estinse nel 1687. Passò quindi nelle mani di Luigi Guicciardini, che a sua volta ristrutturò il palazzo per adeguarlo al suo gusto personale e a quello della nobiltà del tempo. Nel 1707, alla morte di Luigi Guicciardini, sua figlia Virginia, unica erede del patrimonio, portò il palazzo in dote al marito Giovan Battista Altoviti.

Le 15 erme poste all’esterno sono “I Visacci”, strane figure in marmo, omaggi alla memoria di celebri personaggi toscani. Tra questi si trovano i ritratti di Dante, Boccaccio, Petrarca, Alberti, Guicciardini, Vespucci. Il popolino, non sapendo chi rappresentassero queste figure e giudicandole alquanto brutte, chiamò questo palazzo “Dei Visacci”.

Dopo avere varcata la porta del primo piano, ci troviamo davanti alla galleria, dove gli affreschi raccontano l’apoteosi della famiglia Guicciardini con una chiara allusione al faticoso percorso seguito dalla stessa famiglia prima di raggiungere quella virtù a coronamento della propria esistenza terrena, come indicato nel cartiglio: “Hoc Virtutis Opus” – cioè “Questa è l’opera della virtù” – e il cammino verso la virtù è rappresentato nei cartigli proprio come il percorso che noi massoni intraprendiamo fin dalla cerimonia iniziatica. Comincia con il motto “la virtù è fuggire il vizio” per proseguire con: “le lusinghe del vizio resistendo devi fuggire”. Il percorso allegorico continua con una frase ermetica: “viaggio irrealizzabile per raggiungere la virtù”. Quindi: “getta le fondamenta della vera felicità”, perché: “alla fine delle fatiche l’inizio della felicità”, vale a dire: è soltanto alla fine che tu “sarai in grado di conoscere la virtù”.

E adesso arriviamo al Tempio in cui siamo, dedicato al nostro compianto Fratello Lando Conti, sindaco di Firenze e barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse. Questo Tempio massonico è considerato tra i più belli e significativi dell’Oriente Toscano, dove le figure mitologiche affrescate, quelle scolpite, gli altri simboli e le stesse insegne massoniche, sembrano dialogare con uno stesso linguaggio. L’affresco della volta è di Matteo Bonechi ed è stato dipinto nel 1715.

Personalmente mi sono reso conto che, quando siamo dentro questo Tempio, la concentrazione che assumiamo e che diventa necessaria per il proseguo dei nostri Lavori rituali, spesso non ci permette di osservare adeguatamente le opere d’arte che ci circondano. Per questo mi sono permesso di fare qualche accenno e di dare alcune tracce, che hanno molto in comune con il nostro esoterismo massonico e fare sì che ognuno di noi possa sentirsi come parte di un tutto, di questa bellezza, nella certezza di far nascere in noi quella curiosità che, anche lei, fa parte del nostro essere massoni.

Mitologia e Massoneria

 

Diceva il nostro Fratello scrittore Denis Roman che “La Massoneria è l’arca vivente dei simboli”, ma, aggiungo io, che lo è anche per quanto riguarda la mitologia.

 

 

La mitologia greca è piena di dei ed eroi appartenenti alla cultura religiosa del loro tempo che incarnavano qualità e vizi comuni a tutti gli esseri umani. Ma era proprio attraverso questi miti che i greci spiegavano i comportamenti degli uomini e le caratteristiche del mondo che li circondava. Questi racconti avevano sempre, alla fine, una morale e spesso raccontavano la lotta tra il bene e il male. Per quanto ci riguarda da vicino, quante volte ci siamo detti che la leggenda – o per meglio dire il mito – di Hiram ci insegna valori etici immortali attraverso esempi o personaggi. Noi sappiamo bene che, ancora oggi, quei valori devono essere seguiti, se vogliamo diventare migliori o essere di esempio per il mondo esterno.

Poi ci fu l’avvento del Cristianesimo che soppresse e addirittura cancellò in brevissimo tempo l’intera mitologia greco-romana abbattendo i templi pagani ed edificando al loro posto le chiese cristiane.

Quando, dopo il Medio Evo, la civiltà occidentale iniziò a risorgere e a ristrutturarsi, lo fece principalmente attraverso la riscoperta delle civiltà classiche e, nel secolo dell’Illuminismo, ovvero dell’esaltazione della ragione e della scienza come unici strumenti che potevano liberare l’uomo dall’ignoranza e dal giogo della Chiesa, il Neoclassicismo ripropose la scoperta del bello, nella ricerca dell’armonia, delle proporzioni, degli equilibri guardando all’arte antica dei greci e dei romani.

Il cristianesimo, questa volta, non riuscì ad ostacolare la popolarità dei miti e, con la riscoperta delle antichità classiche avvenuta nel Rinascimento, queste divennero una delle fonti di ispirazione principale per poeti, pittori e artisti. A partire dai primi anni di questa epoca personaggi come Leonardo da Vinci, Michelangelo e Raffaello ritrassero scene pagane tratte dalla mitologia greca insieme ai più convenzionali temi cristiani. I miti greci influenzarono anche poeti come il PetrarcaDante e Boccaccio.

Addirittura all’inizio del secolo di cui stiamo parlando, l’avvento del Romanticismo segnò uno scoppio di entusiasmo e di attenzione per tutto ciò che era greco inclusa, ovviamente, la mitologia.

Arriviamo quindi ai nostri giorni ed al luogo in cui ci troviamo che, appunto, è il risultato di quella complessa trasformazione che ho raccontato prima.

 

 

L’affresco della volta

 

Devo subito dire che, per ragioni di tempo e di spazio, bisogna prescindere dai criteri architettonici e di prospettiva usati dall’eccellente pittore, nonché dai complessi restauri, concentrandoci solo sui significati allegorici e mitologici delle rappresentazioni pittoriche e degli stucchi che non possono essere subito interpretabili dagli occhi di un profano (parlando in questo caso, di qualcuno che non conosce la materia). Si nota subito che tutte le figure dell’affresco sono come immerse in un mondo magico, quasi incantato, dove esse convivono con animali feroci e animali da pascolo, mentre le tante nuvole contribuiscono a farci sembrare sotto una volta celeste, come fosse un cielo aperto.

 

 

Non scenderò volutamente nella storia dei singoli miti, sul come si sono formati o sulle loro molteplici variazioni, sarebbe oltremodo lungo, mi limiterò a evidenziare nel soffitto i personaggi componenti questo splendido giardino incantato, questa casa spirituale, questo sacro Olimpo. Tutti e sottolineo tutti, hanno il loro significato nascosto, esoterico che spesso si sposa con quello della Massoneria. Cominciamo a evidenziare sul soffitto le divinità delle quali la Massoneria ha fatto i suoi più importanti Simboli: Eracle, Afrodite e Athena.

 

Eracle, l’Ercole dei romani, simbolo della forza:

 

La figura di questo personaggio è raffigurata nel soffitto del nostro Tempio in un modo molto particolare, direi anche piuttosto raro nelle rappresentazioni mitologiche. Eracle è quel fanciullo neonato che sta succhiando il latte dal seno di Era, la moglie di Zeus. La cosa potrebbe sembrare molto strana, dal momento che Eracle era il figlio illegittimo che Zeus aveva concepito con l’inganno insieme alla bella e virtuosa Alcmena. Fatto è che Era non sapeva chi fosse il bambino che lei stessa aveva raccolto abbandonato in un prato (con la complicità di Zeus e Athena), quindi lei, la dea delle partorienti, lo avvicinò al suo seno, ma questi gli si attaccò con una forza tale, che la stessa Era, dal dolore, lo strappò via da sé. In quel modo uno spruzzo del latte uscì dal suo seno andando a formare in cielo la Via Lattea. Questo ci fa capire quale era il modo di spiegare le cose per chi viveva 2/3000 anni fa e come si cercasse di dare una spiegazione ai fenomeni naturali senza poterne conoscere il vero significato che si è scoperto scientificamente solo molti secoli dopo.

Fu proprio per la vendetta della stessa Era, tradita dal marito, che il nostro mitico eroe dovette affrontare tutte le 12 fatiche, che, prese singolarmente, hanno un profondo significato esoterico. Ma nonostante tutto quello che aveva passato al termine dei suoi sforzi, la moglie di Zeus non aveva ancora colmato il suo odio e fece in modo che, inconsapevolmente, Eracle infilasse una camicia che, appena indossata, cominciò a dilaniare le sue membra, rendendolo pazzo di dolore. Non sopportando più gli atroci tormenti sul suo corpo, costruì con le sue mani una catasta di legna e, salendoci sopra, vi fece appiccare il fuoco. In mezzo alle fiamme rimbombarono tuoni e fulmini, e una nuvola coprì il corpo dell’eroe, che fu raccolto dal carro di Athena e portato sull’Olimpo dove, la stessa Era finalmente, lo accolse tra gli immortali.

Alle sovrumane imprese di Eracle, spesso compiute come sfida alla morte, si può quindi attribuire un significato morale che supera quello immediato di semplice narrazione di gesta eroiche. La storia di questo antico figlio del sommo Zeus è la metafora delle prove del Sentiero Iniziatico. Ercole è chiunque lotti con i problemi della vita, affrontando con coraggio i compiti del proprio destino, sopportando pene e tribolazioni, ma ci fa anche pensare che alla fine ci sia sempre la speranza di una ricompensa. La sua vita finisce nel tormento, il suo corpo brucia, ma il suo spirito, la sua anima vanno in cielo e Zeus lo fa diventare immortale.

Le interpretazioni allegoriche del mito abbondano e, con l’avvento del Cristianesimo, questo subisce una straordinaria metamorfosi: quella che vede Ercole come figura di Cristo che lotta contro il demonio e muore soffrendo per poi risorgere. E’ questo il motivo per cui ritroviamo l’eroe nei dipinti delle catacombe, oppure scolpito sulle porte di bronzo della Basilica di San Pietro a Roma o in quelle di San Marco a Venezia

Ercole raffigura l’Uomo, quello di ieri, di oggi ed anche del domani. E’ questa la vera, unica, importante forza dei miti e dei simboli: l’Immortalità.

 

 

 

 

Afrodire, la Venere dei romani dei romani, simbolo della bellezza

 

Nella mitologia greca il Caos è la personificazione dello stato primordiale di vuoto, buio, anteriore alla creazione, quel luogo primigenio della materia informe e rozza, come ci racconta lo scrittore Esiodo. Ma, in questo “nulla”:

“Ad un certo punto la luce avanzò gradatamente dall’oriente e nella spessa coltre delle nubi si notava un cielo più chiaro e cominciava a stagliarsi, ancora informe, la massa montuosa dell’isola di Cipro e nel mare, fin allora invisibile, si avvertiva il rumore delle onde con qualche vago luccichio. Ma la luce ben presto avanzò a fiotti, la­cerò le nubi, si precipitò attraverso gli squarci ad invadere terra e mare, a restituire i colori e le forme alle cose. Un miracolo si compiva infine: in mezzo ad essi, ritta in una conchiglia di madreperla, amman­tata da un’onda di capelli d’oro e da una nube di morbidi veli, emerse la bellissima Afrodite, dagli occhi azzurri, dalla dolce voce e dal sorriso pieno d’incanto”.

E’ questo il racconto mirabile che ci fa Esiodo – il maggior autore latino della mitologia- talmente entusiasmante che ci fa pensare inevitabilmente alla luce che squarcia le tenebre, il bene che vince sul male, il bianco sul nero, la notte sulle tenebre, l’ordine sul caos. Il suo influsso aiuta a sviluppare nell’individuo la percezione della propria bellezza interiore e il senso dell’armonia.

Afrodite pur essendo la sposa di Efesto, ebbe diversi amanti, soprattutto il dio Ares, dal quale ebbe numerosi figli e tra questi ci furono Armonia e Eros il figlio alato che vediamo emergere dalla nuvola bianca.

 

Athena, la Minerva dei romani, simbolo della Sapienza

 

Platone spiega la parola Athena come “mente di dio”. Cioè Athena è un modo di pensare e di vivere, una guida interiore.

Tutta la mitologia ed il significato esoterico di questa divinità ruota intorno alla sua nascita. Narra il mito che, agli inizi, Zeus non aveva in sé la saggezza che si addice ad un re, ma ogni volta che doveva decidere qual­che cosa, si rivol­geva alla dea Metis, la quale era, al contrario, tutta saggezza e prudenza e gli dava preziosi consigli. Così avvenne che Zeus s’innamorò della sua consigliera e volle farla sua sposa, ma il Fato aveva stabilito che, se da Metis fosse nato un figlio di sesso maschile, questo sarebbe stato il re di tutti gli dei, così come era già accaduto per Urano prima e Crono dopo. Allora Zeus, temendo di essere spodestato, come seppe che la moglie attendeva un bambino, per impedire la temuta profezia e nello stesso tempo per tenere sempre con sé la sua preziosa consigliera, la ingoiò, dopo averla trasformata in una goccia d’acqua. In questo modo Metis continuò, dall’interno del suo sposo e re, a consigliarlo, indicandogli il bene e il male.

Ma l’espediente di Zeus non valse ad arrestare la gesta­zione di Metis e, quando il tempo fu trascorso, venne l’ora del parto. Non era però Metis che soffriva all’avvicinarsi dell’even­to, bensì Zeus e fu Metis stessa che, dall’interno del corpo del suo signore, gli suggerì il da farsi. Subito Zeus invocò a gran voce Efesto, il dio dei metalli e delle officine.

Come questo giunse sulla vetta dell’Olimpo, il re degli dei gli ordinò di fendergli il cra­nio con la scure, ed ecco che dalla fenditura balzò fuori una figura alta, solenne, armata di scudo, elmo e lancia, bellis­sima nel corpo e nel volto, con occhi grandi e dallo sguardo severo ed insieme sereno. Dal cervello di Zeus era nata Athena.

Il frutto dell’olivo, che Athena dona alla città di Atene quale simbolo di pace dopo la competizione con Poseidone, alimenta le lampade, quindi illumina il buio. Ma, dal simbolo della luce fisica, si può passare alla riflessione della luce interiore. Era una dea molto riflessiva, cauta e per noi è l’equivalente di chi ha dei dubbi, che sono poi i fondamenti di ogni Conoscenza.

 

Ci sono molte altre figure divine che sono state affrescate sulla volta del Tempio, fra queste vorrei farvi osservare:

 

Zeus, (purtroppo è la figura meno visibile) il signore degli dei olimpici e di tutto il genere umano. Qui si vede poco perché l’affresco è danneggiato proprio al centro della volta;

Demetra-Cerere, la seminatrice, colei che aveva iniziato la Grecia il culto dei Misteri Eleusini, qui tiene in mano le spighe di grano simbolo di fertilità e di rinascita;

Apollo, il dio della medicina, ma anche del sole, protettore della musica e della poesia simbolo a sua volta della bellezza e della gioventù.

Efesto-Vulcano, colui che, per ordine di Zeus, modellò l’argilla per plasmare la donna, creatura bellissima ma che fu foriera di non pochi problemi agli uomini. E’ lo sposo legittimo di Afrodite, dio del fuoco e dei metalli.

Pan, il signore dei boschi e dei campi, la personificazione della natura selvaggia; protettore degli armenti ma anche colui che poteva incutere la paura (panico).

Ganimede, qui insieme ad Ebe, il fanciullo amato e quindi rapito da Zeus, coppiere degli dei, raffigurato nell’atto di versare il nettare o ambrosia;

Dioniso-Bacco, che nacque due volte. La divinità meno aristocratica e più vicina al popolo, Dio del vino e dell’ebrezza, il dio più misterioso e originale, irrazionale e istintivo del mondo antico, ma anche un dio iniziatico, dal momento che, chi era partecipe ai suoi misteri, poteva sperare in una eterna beatitudine. Era lo fece catturare dai Titani che lo fecero a pezzi. Dal suo sangue nacque l’albero del melograno, la cui simbologia è per noi molto cara.

Il piccolo Ermes-Mercurio: il messaggero degli dei, con il caduceo, simbolo di pace e di amicizia, ma anche di armonia e di equilibrio. Dio dei commercianti, dei viaggiatori, ma anche dei ladri.

Era-Giunone, dea protettrice dei matrimoni e delle nascite, nonché la sposa “ufficiale” di Zeus, è la divinità più positiva dell’Olimpo. Qui, come già detto, la dea allatta Eracle il cui nome significa appunto “La gloria di Era”.

Tutte le 9 Muse, tra le quali si riconosce Euterpe, “colei che rallegra” musa della musica, mentre tiene in mano il suo doppio flauto (Aulos) e anche Erato musa del canto che ha in mano i due Crotali;

Ares-Marte dio della guerra, con elmo e scudo, che si diceva fosse il padre di Romolo e quindi trasmetteva alla città di Roma, un’aurea di divinità.

 

 

 

Gli stucchi

 

 

Gli stucchi sono di Giovanni Martino Portogalli e sono del 1717, lo stesso anno della fondazione della prima Loggia Inglese, mentre sappiamo che, tra le prime Logge costituite in Italia, ci fu quella di Firenze nel 1731.

“Eros che svela a Diana l’amore di Atteone”

Questo stucco mi ha incuriosito non poco dopo che ne avevo appreso il significato. Ho sempre saputo che il mito greco dei personaggi qui rappresentati racconta che un giorno Atteone, famoso cacciatore, vagando per i boschi si fosse imbattuto, per puro caso, nel luogo dove Diana (Artemide) stava facendo il bagno nuda. Vedendosi osservata, la dea fu presa da una rabbia estrema e trasformò Atteone in un cervo. Praticamente il cacciatore fu trasformato in preda e subito i suoi stessi cani gli saltarono addosso e lo sbranarono. Questo racconta il mito greco classico e per me la storia contrastava con la scultura che noi possiamo vedere, cioè una dea che si mostra tutt’altro che crudele, anzi, felice, sorridente, ritratta con una sfumatura sensuale alla notizia portata da Eros. Poi, facendo un po’ di ricerche, ho elaborato un’altra supposizione: in età rinascimentale, come ho già detto, un po’ tutti i miti greci vennero attualizzati, in pratica riscritti e adattati alle circostanze e ai gusti del committente dell’opera. In questo stucco Diana, la dea che disdegnava l’amore e voleva rimanere per sempre vergine, si trasforma nel suo esatto opposto e la dea della caccia diviene un’allegoria del desiderio sessuale.

Evidentemente questo stucco doveva avere un preciso significato (che non scopriremo mai) per la famiglia che lo aveva commissionato.

 “Il tempo che scopre la verità”

Il significato di questa rappresentazione è: “Per quanti sforzi si faccia per celarla, presto o tardi una menzogna viene sempre smascherata, portando alla luce la verità”. Era un modo di dire molto antico, già diffuso tra gli antichi romani. “Il tempo scopre la verità”, scrive per esempio lo stesso Lucio Anneo Seneca. Insomma, la verità viene sempre a galla e le bugie, come usiamo dire anche oggi, “hanno le gambe corte”.

Anche in questo caso si capisce che questo stucco, come il precedente, deve aver avuto un interesse molto particolare riferito alla committenza.

 

 

Alcune riflessioni

 

 

Noi, in quanto iniziati e ancora di più perché appartenenti al RSAA, non possiamo e non dobbiamo dimenticarci del nostro passato e questo significa anche conoscere e saper interpretare i miti greci, che sono la base della nostra cultura, le nostre radici lontane, quelle che ci hanno permesso di formulare il nostro pensiero collettivo.

D’altra parte, come dicevo all’inizio, sappiamo anche che tutta la Massoneria fa riferimento ad una leggenda mitologica: quella di Hiram, che ci accompagna dal grado di Apprendista fino al XXXIII grado del R.S.A.A. ed anche oltre.

Sappiamo poi che, nel XXXII grado ci vengono ricordati i “Maestri Grandi Iniziati del Passato” e il rituale ci dice che sono tutti discepoli di un’Unica Ricerca Universale, quella della Verità. Si tratta di 12 personaggi, alcuni esistiti realmente (Confucio, Pitagora, Platone, Gesù, Maometto), altri sono figure mitologiche nate dalla fantasia popolare (Rama, Krishna, Budda, Orfeo). Anche gli dei olimpici, quasi tutti rappresentati sulla nostra volta, erano 12 ed anche loro, per chi sapeva interpretarli, potevano e possono aiutare nella ricerca della Verità

Le tornate che si susseguono all’interno di questo tempio, sia dell’Ordine, ma ancor più del R.S.A.A., come ben conosciamo, sono ricche di significati allegorici riferiti alla costruzione del nostro Tempio interiore e, volgendo lo sguardo verso l’alto, sembra proprio che tutte le figure mitologiche, vogliano assistere e condividere con noi i nostri Lavori e il nostro modo di operare. Con il loro sorriso, la loro evidente serenità, il senso di armonia, pare che ci stiano aspettando, custodi silenziosi di quel Real Segreto che noi, Sublimi Principi, stiamo cercando di completare dentro di noi.

 

M.’.    L.’.  XXXIII   Maggio 2023

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LO STEMMA ITALIANO HA 75 ANNI

 

 

 

LO STEMMA ITALIANO HA 75 ANNI

 

Lo stemma italiano ha 75 anni

a realizzarlo fu il valdese e massone Paolo Paschetto

Il 5 maggio 1948 l’Italia repubblicana, al termine di un lungo percorso durato ventiquattro mesi, due pubblici concorsi e un totale di 800 bozzetti, presentati da circa 500 cittadini, fra artisti e dilettanti, si dotava del suo stemma così ufficialmente descritto: composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale “Repubblica Italiana”.

 

L’autore del bozzetto che venne selezionato e poi sottoposto all’approvazione dell’Assemblea Costituente era Paolo Paschetto, massone e valdese. Nato il 12 febbraio 1885 a Torre Pellice (TO), Paschetto, che ha vissuto per un lungo periodo a Roma (sue sono le vetrate della chiesa valdese di Piazza Cavour e della chiesa metodista di via XX Settembre), è stato attivo nel campo della decorazione d’interni e delle arti applicate, dell’illustrazione e della grafica editoriale, dell’incisione e della pittura di paesaggio. Il Comune di Roma gli ha intitolato il viale sito all’interno di Villa Torlonia dove gli era stata dedicata nel 2016 anche una mostra e dove, presso la Casa delle civette, sono conservate alcune sue opere e bozzetti.

7 Maggio 2023 – dal sito web del GOI

Segnalazioni e annunci

CONFERENZA: 1) “MASSONERIA E ISTITUZIONI” dialogo tra corpi intermedi della società – 2) Presentazione del libro del GM Stefano Bisi “L’INGIUSTIZIA DI PALAZZO GIUSTINIANI”.

1 Maggio 2023 Dario Seglie

 

Segnalazioni e annunci

L’allocuzione2023 del Gran Maestro Stefano Bisi: fieri dei nostri Antichi Doveri ed Eterni Valori

17 Aprile 2023 Dario Seglie

L’allocuzione 2023 del Gran Maestro Stefano Bisi: fieri dei nostri Antichi Doveri ed Eterni Valori

Gentili signore e signori ospiti, fratelli carissimi del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani

 

Buonasera e Grazie di essere qui in questo Tempio per noi sacro allestito all’interno del Palacongressi di Rimini dove i liberi muratori si riuniscono una volta l’anno per lavorare tutti insieme e quest’anno siamo  davvero tanti. Molti fratelli vengono da lontano, da molto lontano. E per arrivare fin qui avete fatto sacrifici, avete lasciato il lavoro, le famiglie, vi auguro che la vostra partecipazione sia ripagata da giorni laboriosamente sereni. Mentre era in partenza per venire qui in Gran Loggia un malore ha colpito il fratello Pino maestro venerabile della Logoteta di Reggio Calabria che lascia due figlie e fratelli molto legati a lui per il suo equilibrio e generositá. Ci siamo trovati anche nel periodo peggiore e drammatico della pandemia che ha lasciato strascichi pesanti sul piano morale ed economico. Riunendoci qui per due volte nella fase più complessa dell’umanità abbiamo dato prova della nostra capacità di saper coniugare le regole iniziatiche con quelle dettate dall’emergenza sanitaria.

 

Ci ritroviamo  da oltre trecento anni in tutte le parti del globo, seguendo precise e auree regole che si tramandano dal 1723 e che si chiamano Antichi Doveri, norme sottoscritte dal reverendo Anderson ed in seguito rielaborate da altri nobili padri massoni.

Queste regole sono le fondamenta della Massoneria, sono quelle che sorreggono la nostra grande casa universale. Esse ci impegnano innanzitutto moralmente ad osservare dei precisi comportamenti all’altezza della grande Istituzione di cui facciamo orgogliosamente parte. Sono i nostri eterni, luminosi e insostituibili valori come recita il titolo scelto per questa Gran Loggia di Rimini.

 

Non vi farò la storia degli antichi dovere ma vi parleró del motivo perché essi sono colonne vive, pulsanti come il battito del cuore, e più che mai attuali e necessari in questa fase piuttosto buia e preoccupante della Storia Umana contrassegnata da una guerra che purtroppo insanguina l’Europa e da tensioni sociali e problemi economici che mettono a rischio l’uomo e la dignità di avere un lavoro.

 

Sapete come si chiamano i nostri eterni valori?  Ve li sintetizzo:

Libertà

Uguaglianza

Fratellanza

Tolleranza

Solidarietà

Unione

Dialogo

Rispetto

Merito

Etica

Cultura

Pace

e Amore vers

 

E non sono soltanto titoli. Accanto ad ognuna di queste parole possiamo mettere la descrizione di cose fatte, che abbiamo fatto, che facciamo. Libertá. La nostra più grande Libertà è quella di pensare e di essere liberi di farlo. Quella che affonda le radici nel profondo della coscienza individuale. Che ci spinge alla ricerca costante della Verità. Ma ricordo ancora una volta che libertá vuol dire responsabilitá. E quindi è necessario un uso responsabile delle parole.

 

L’Uguaglianza per noi significa che ciascun essere umano  sia posto nella condizione di parità per vivere la propria vita; vuol dire che ad ogni individuo siano concesse pari condizioni di sviluppo, fino al momento in cui il suo valore individuale lo differenzi dai suoi simili. A tutti deve essere consentita un’infanzia serena, a tutti l’istruzione, a tutti un lavoro. A tutti senza pregiudizi e senza discriminazioni legate al colore della pelle o alla nazionalità.

 

La Fratellanza, che rappresenta il terzo elemento costitutivo del trinomio massonico, l’essenza stessa della Libera Muratoria.

 

Siamo tutti formati dalla stessa materia terrena, siamo figli della nostra grande madre terra.

 

Di conseguenza tutti gli uomini, e in primo luogo i Massoni, debbono sentirsi fratelli. Li abbiamo chiamati Mattoni della Fratellanza i sostegni dati ai nostri fratelli e luci della speranza i riflettori per il campo sportivo di Norcia  e le borse di studio per i ragazzi che conseguirono la maturitá tra una scossa di terremoto e l’altro.

 

La Tolleranza per noi costituisce un valore impareggiabile. La Tolleranza nel rispetto delle regole condivise. La solidarietá invece per noi è e deve essere sempre un dovere gradito da compiere verso tutti.

 

Siamo uomini di Dialogo e lo siamo da sempre. Ecco perché non devono mai mancare il rispetto verso gli altri, l’etica nel comportamento e il riconoscere i meriti della persona. Ne abbiamo parlato in questi anni con tante persone esterne al Grande Oriente d’Italia, anche in questa Gran Loggia.

 

Ecco libertá, uguaglianza, fratellanza e cosí via. Capite bene l’importanza di questi principi, che se ci guardiamo attorno, trovano sempre meno riscontro nel mondo in cui siamo immersi, mentre per noi continuano ad essere un’eterna bussola e un faro che illumina notte e giorno il nostro cammino. Sono i pilastri della nostra scuola, che non è una universitá del sapere saputo ma una scuola  dove si forgiano uomini capaci di ben dire, ben fare, ben operare ben agire rispettando per primi i magnifici valori della Costituzione repubblicana che ha appena compiuto 75 anni e che vogliamo celebrare anche in questa Gran Loggia anche inviando un caloroso e deferente messaggio di saluto al nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella, simbolo e garante dell’unitá nazionale. Raccogliamo il suo invito a “mettersi alla stanga”. La stanga è quella del carro trainato dai buoi. “Mettersi alla stanga” vuol dire mettersi a lavoro. Noi ci siamo illustre presidente, “ci mettiamo alla stanga” e “stiamo nel solco”, cioè rispettiamo la Costituzione e le leggi. E per questo chiediamo rispetto a chi non sempre lo porta ai massoni, che pure questa patria hanno contribuito a costruire nel Risorgimento e nella Guerra  di Liberazione.

 

Per noi questa Carta da cittadini e da massoni rappresenta il più alto dei valori da difendere perché in essa sono contenuti ineludibili principi di libertà, del pensiero, delle opinioni e della diversità politiche, religiose, della dignità, del diritto all’Istruzione, e del rispetto della persona e della solidarietà.

 

Ancora oggi la Costituzione è considerata un modello, un’opera d’arte, venuta fuori dal lavoro compiuto dall’Assemblea dei 75 guidata sapete da chi? Da un massone,  grande giurista: Meuccio Ruini. Un padre nobile di questa nostra Italia che è stato dimenticato da molti. Pochissime cittá, pensate, hanno vie intitolate a lui, a quell’uomo che una volta in un momento difficile disse: “Affronto quest’opera con la stessa fermezza con la quale con i capelli grigi andai sul Carso”>

 

Rileggere a tanti anni di distanza questo suo pensiero mette i brividi e suscita profonde riflessioni in un Momento sempre più contrassegnato da divisioni politiche. “Finora qui dentro – disse Ruini – ci siamo divisi, urtati, lacerati nella stessa discussione del testo costituzionale. Ma vi era uno sforzo per raggiungere l’accordo e l’unità. Ed ora io sono sicuro che nell’approvazione finale il consenso sarà comune ed unanime e dirò che, al di sotto di una superficie di contrasto, vi è una sola anima italiana. L’Italia avrà una Carta costituzionale che sarà sacra per tutti gli italiani”.

 

Sacra, appunto, ed emozionante quel giorno, il 22 giugno del 1947, in cui il testo costituzionale stava per essere sottoposto all’approvazione finale. “C’è una percepibile euforia nell’aria – raccontano le cronache – Meuccio Ruini, era riuscito non solo grazie alla sua indubbia capacità dialettica e sapienza giuridica, ma anche a un entusiasmo ed a una simpatia, davvero incontenibili, ad ottenere l’adesione pressoché unanime dei costituenti alle soluzioni proposte”. Ci riuscì. Il massone Meucci, riuscì a fare quella Costituzione che ci fa sentire oggi cittadini liberi ma ci ricorda che per essere liberi occorre poter esercitare i diritti che derivano dall’ osservanza dei nostri doveri. Noi liberi muratori non dimentichiamo mai di farlo.

 

E tra i nostri diritti c’è quello di riavere quel palazzo che porta il nome di Gustiniani che ci è stato tolto a forza di botte e arresti da regime fascista e che non ci è stato riconsegnato dalla Repubblica  democratica e antifascista per pretestuosi cavilli .  Non ci vorrebbero dare neppure quei 140 mq per farci un museo come ci era stato promesso attraverso una transazione firmata dal presidente del Senato Giovanni Spadolini. E’giunta l’ora che venga dato seguito a quell’atto e sono certo che l’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa vorrá essere degno del suo illustre predecessore che intendeva rendere merito alla massoneria per quanto fatto nel risorgimento italiano. Aspettiamo fiduciosi, ma la nostra non è un’attesa passiva. Tutto sará fatto affinché una palese ingiustizia venga sanata. Ci vorranno 50 anni, 30, 20, 10, un mese, ma quella pagina della nostra storia ci verrá riconsegnata e accadrá perché una istituzione statale nonpuo’ mancare a una parola data. Anzi piu’ che una parola non puo’ non rispettare un atto scritto. Anche questa è cultura, è educazione alla cultura. Cultura della legalitá. Rispettare quello che si dice e che si scrive.  E sarebbe bello e giusto che il museo che nascerá venisse intitolato a Meuccio Ruini, proprio in quel Palazzo Giustiniani dove nel 1947 venne firmata la Costituzione  della Repubblica che il nostro fratello volle e per la quale mise a disposizione tutta la sua saggezza, intelligenza, caparbia determinazione. Tutti insieme per onorare uno statista, un massone, che ha dato all’Italia la carta delle libertá di tutti. Noi siamo pronti anche con la Fondazione Grande Oriente d’Italia che ha permesso di recuperare molti documenti sequestrati dal fascismo grazie alla convenzione con l’Archivio centrale dello stato e di avviare attivitá culturali come quelle che avvengono anche in questa Gran Loggia,

 

Per noi massoni è sempre stato ed è fondamentale il ruolo della Cultura, dell’istruzione che serve a far crescere i giovani su basi solide garantendo a tutti il diritto allo studio e premiando il merito di alunni e insegnanti. Una Scuola che funziona è un dovere dello Stato e un diritto di ogni persona. Come diceva Jose Marti “Un popolo istruito sarà sempre forte e libero”. Ed è per questo che il Grande Oriente d’Italia ogni anno eroga borse di studio a ragazzi meritevoli, da nord a sud.

 

La buona scuola ha bisogno di risorse, di investimenti ma anche di insegnanti capaci di dare il meglio e di farsi amare dai ragazzi, di lasciare il segno. Vi racconto tre storie, Come quella dei due Professori che qualche mese fa hanno commosso l’Italia per le loro storie Umberto Gastaldi, 82 anni, ha lasciato un ricordo cosí positivo nei suoi ex allievi, che lo descrivono come un insegnante che li ha stimolati a ragionare e a sviluppare il loro pensiero critico. Saputo che era solo e malato lo hanno cercato e ritrovato in una casa di cura e fanno i turni per assisterlo. O come la storia di Maria Simon, l’ex professoressa dell’Istituto comprensivo Marco Polo di Prato che ha deciso di lasciare in eredità alla scuola per permettere a studenti meritevoli e bisognosi di proseguire gli studi. Una decisione che l’insegnante ha preso ispirandosi alla sua storia personale: lei stessa aveva portato a compimento gli studi, nonostante le difficoltà economiche familiari, grazie all’aiuto di sua madre e di sua zia. E poi c’è quella dei liceali della provincia di Frosinone che non sono andati in gita scolastica per festeggiare i 18 anni della loro compagna costretta in carrozzina. Tre belle storie, istruttive.

 

C’è bisogno che la scuola sia anche un modello formativo capace di aggregare anche coloro che vivono in situazioni e quartieri a forte rischio. Può salvare molti ragazzi altrimenti condannati a vite di malaffare e criminalità organizzata. Se leggete la testimonianza di malavitosi finiti in carcere vi diranno che della loro vita direbbero una sola cosa “Saremmo andati a scuola per imparare a scrivere, a parlare e soprattutto ad ascoltare”

 

Viviamo in un mondo in cui si fa un gran parlare. Si parla a volte anche troppo e si ascolta poco, pochissimo. Si aggredisce il prossimo ed il più delle volte lo si ferisce dimenticando la sacralità della parola. Imparare a parlare è più facile che imparare a stare in silenzio. Noi massoni lavoriamo in silenzio e non abbiamo alcun timore di portare avanti le nostre idee e le nostre azioni. “Dica pur chi mal dir vuole/Noi facciamo e voi direte” scrisse Lorenzo Il Magnifico. Un motto che abbiamo fatto nostro anche nei momenti più difficili.

 

Abbiamo le spalle forti e lo abbiamo dimostrato. Siamo stati capaci di superare il periodo più nero che la Massoneria abbia mai avuto in Italia dopo il Ventennio. Gli anni della P2 e quelli del Biennio Nero ’92 93 e quelli della Commissione Antimafia che nulla partorí. Ci hanno attaccato, aggredito, usato titoloni anche nelle recenti vicende legate alla cattura dell’ex superlatitante. Ci assumiano le nostre responsabilitá per ogni pagina della nostra storia, ma ognuno si assuma le proprie. Ci attaccano, ci aggrediscono.Ma noi siamo trasparenti e per la giustizia. Si, per la giustizia, crediamo che la sacralitá della giustizia risieda nel dovere di impedire che si faccia ingiusta perchè le ferite restano: gli altri dimenticano, ma chi le ha subite le ferite restano e il risarcimento della memoria è sempre una cambiale scaduta. Giustizia, una parola bellissima. “Giustizia è fatta” è un’espressione che ho utilizzato quando la Gran Loggia Unita di Inghilterra ci ha restituito il riconoscimento che ci era stato ingiustamente tolto 30 anni fa. Dedico il ripristino di quel riconoscimento a quei fratelli che nel Biennio Nero ’92 ’93 subirono pesanti umiliazioni. Penso all’allora Gran Segretario Alfredo Diomede che fronteggió i carabineri mandati da Cordova e la fuga del Gran Maestro; penso a Paolo che vidi salire su una pantera della polizia per andare in questura per essere interrogato; penso a Franco e Leonardo, Ettore, a Eraldo, ad Alberto e a Graziano. A Graziano soprattutto che nel silenzio piú rigoroso si è prodigato fino all’ultimo dei suoi giorni terreni per farci ottenere il riconoscimento della Sovrana Gran Loggia di Malta, che ha allargato la strada per il ripristino della Gran Loggia Unita di Inghilterra.  Graziano ha lasciato la sua terra, la sua famiglia, e tutti noi da poche settimane. Ha lasciato davvero un vuoto. Anche a suo nome dico: Giustizia è fatta. E di questa Giustizia fatta sono e dobbiamo essere fieri.  Ci siamo umili operai del cantiere infinito della persona che oggi si prova a governare solo con la scienza con la tecnologia. Certo che ci vuole la tecnologia ma servono scienza e anima. Noi l’anima l’abbiamo e dobbiamo elevarla sempre piu’ migliorando noi stessi e gli altri lavorando duramente la nostra pietra.

 

Guardiamo avanti, guardiamo al futuro, il futuro è davanti a noi, il futuro è qui. Il tempo c’è, dobbiamo trovarlo tenendo in mente quello che diceva Gandhi: “Voi occidentali avete l’ora ma non avete mai il tempo”. Il tempo c’è. Sapete perché il parabrezza è più grande dello specchietto retrovisore? Perché la strada davanti è più importante e piú larga di quella che si lascia alle spalle. E noi abbiamo tanta strada da percorrere insieme e la percorreremo,

 

Carissimi fratelli vi chiamo cosí davanti ai vostri familiari, e  a loro dico che devono essere orgogliosi di voi. Capire che la sera andate in loggia perché ci credete perché volete diventare uomini migliori. A nome dei miei fratelli chiedo scusa ai famigliari e amici. Chiedo scuso perché non cenate insieme a loro, perché vi sentite trascurati, perché se un fratello ci chiama per un aiuto ai limiti del lecito e del possibile ci impegniamo subito come talvolta non si fa con un congiunto. Vi chiedo scusa perché in loggia arriviamo sempre puntuali, perché ci ricordiamo all’ultimo momento di andare a prendere i figli a scuola. Vi chiedo scusa perchè se per colpa vostra i famigliari vengono discriminati sul posto di lavoro. Vi chiedo scusa, ma famigliari e amici chiedono comprensione, perché noi ci crediamo. Crediamo in quello che facciamo per diventare persone migliori. Ci crediamo e ci crederemo. Proseguiamo il nostro percorso imperterriti nel nostro cammino a testa alta, con i nostri tanti pregi e molti difetti. Innalziamo templi alla virtú. Fieri del nostro ruolo e delle nostre responsabilità, dei nostri antichi doveri ed eterni valori.

 

Viva il Grande Oriente d’Italia, viva l’Italia!

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LA FRATELLANZA E’ UN IDEALE RENAZIONALE

La fratellanza è un ideale relazionale che richiede un lungo cammino. Alla  domanda: “Sei massone?” La risposta è “i miei Fratelli mi riconoscono come tale”. Ciò presuppone che la fratellanza sia responsabile del controllo dell’appartenenza alla Massoneria. Un membro non fraterno non può essere un massone.

La fratellanza è quindi una condizione fondamentale. Diventiamo Fratelli quando riceviamo la Luce o lo diventiamo a forza di lavorare su noi stessi? Più che l’Amore dell’altro, la fratellanza è il rispetto per l’uomo, è quindi di essenza iniziatica e soprattutto metafisica; trasmette un metodo di ricerca della Verità fuori dai dogmi. È un collegamento tra gli Iniziati.

Quanti di noi nel tempo hanno dimenticato che la Massoneria non si limita alla rigorosa applicazione di un rituale, per quanto bello, una volta ogni due settimane? La nostra ricerca da costruttori si deve esprimere con tutti i nostri Fratelli e non solo quelli del nostro grado o quelli che ci servono per fare la nostra “carriera”. La fratellanza è morte: è la morte di sé stessi nella propria individualità egocentrica, in quanto la scoperta della fratellanza inizia con l’imparare a condividere. La tolleranza non inizia forse quando accogliamo l’altro con tutte queste contraddizioni? Quando finisce una relazione qualsiasi essa sia (di amicizia, di amore, di lavoro) il primo sentimento è quello naturale dello sgretolamento ma, in realtà, si comincia a costruire una nuova realtà.

Questo passaggio è doloroso perché dobbiamo rinunciare alla prima impressione che spesso diamo per scontata e che è il nostro giudizio arbitrario, soggettivo e inconscio.

La fratellanza non esercita poteri magici, offre a tutti una virtù capace di mantenerla e questa virtù è la tolleranza. A metà tra giustizia e amore c’è il rispetto e la tolleranza. Non si può tollerare senza rispettare, perché il fondamento della tolleranza è prima di tutto la comprensione dell’altro, di tutti gli altri.

La tolleranza diventa così un tributo alla verità impenetrabile di cui ogni uomo è portatore. Anche questo sforzo che ci viene chiesto di trattare l’altro come se stessi si chiama “giustizia”, perché la giustizia consiste proprio nel mettersi al posto dell’altro. Tuttavia, dobbiamo ammettere che la tolleranza ha per definizione un limite: non possiamo permettere la libertà di un lupo all’interno di un ovile; è solo all’interno di questo limite, rappresentato dalla libertà dell’altro, che la tolleranza può trasformarsi in Amore, che diventa

una comunione che va oltre quella dello spirito per giungere alla comunione dei cuori. Tale è il paradosso della fratellanza: intelligenza del cuore che trascende quella della mente.

Direi anche che chi più si agita e gesticola è quello che ostacola il rapporto da persona a persona. Si esclude dalla fratellanza.

Se la fratellanza è un dovere per il massone, non è innata. Lei stessa lavora. Bisogna essere abbastanza puri e amare noi stessi per poter fraternizzare con il nostro prossimo senza ingannare nessuno.

L’amicizia è un attaccamento, un affetto reciproco,  che ha molto in comune con la fratellanza. Ma il tipo di relazione è diverso. Scegliamo il nostro amico, ma non nostro fratello. Di conseguenza, nell’amicizia, ci sono spesso più somiglianze che differenze. La fratellanza non è l’abbandono totale e senza riserve dell’amicizia. Nella nozione di fratellanza c’è una nozione di durata nel tempo che non si pone nemmeno: siamo Fratelli per la vita. La fratellanza rimane inseparabile dall’onestà che a volte impone di dispiacere, di scioccare, di offendere. Possiamo essere in fratellanza solo              essendo onesti con i nostri Fratelli, ma l’onestà non è in sé una fratellanza che ha una portata superiore. La nostra fratellanza massonica nasce dal fatto che tutti abbiamo un’origine comune attraverso la nostra Iniziazione. Abbiamo vissuto tutti la stessa rinascita e tutti rimaniamo sulla stessa strada, quella della ricerca della Luce. Costruire non può che essere un’opera comune e quindi fraterna. Dobbiamo vivere l’altro con le sue differenze ed ispirarci ad esse, senza lusinghe, senza giudizio e senza spirito di superiorità o rivalità, ma di condivisione e ricchezza. Montaigne ha detto nei suoi Saggi: “Se sono spinto a dire perché lo amavo, sento che questo si può esprimere solo rispondendo: Perché era lui, perché ero io”.

Qui troviamo gli strumenti di lavoro della pietra grezza che serviranno per praticare la fratellanza  come un’arte. Agire come un Fratello è saper temporeggiare le passioni ed a volte è qualcosa di complicato perché potremmo essere un fiume in piena o un lago di beatitudine e il Massone non ha il diritto di perdere la calma e indulgere in atteggiamenti o comportamenti che vanno oltre la finzione.

Quindi è essenziale meritare il nostro posto in Loggia per dominare le nostre passioni ed in particolare quelle del possesso, del potere, della vanità e dell’ipocrisia. La Massoneria non ha mai voluto essere una compagnia di dirigenti in cerca di potere o di posti da bramare nella scala della nostra organizzazione. Il nostro lavoro dovrebbe avere come unica ambizione quella di poter partecipare alla costruzione comune che rifletta la nostra personalità, priva di inutili citazioni che servono solo a mostrare la nostra poca conoscenza, o mettere in risalto solo le nostre capacità nella vita profana.

Essere fraterni è anche parlare la stessa lingua. È importante che la parola circoli e che possiamo esprimerci con umiltà e fraternità verso il Fratello, o le persone a cui ci rivolgiamo. Se il nostro più caro desiderio è progredire verso la Luce, accettiamo di ricevere ciò che ci deve essere dato e diamo senza contare tutto ciò che possiamo dare.

La fratellanza è come un gioco di specchi. I Fratelli sono il nostro specchio. Se ci guardiamo allo specchio per prima cosa ci mostrerà quello che siamo: persone intrappolate nel loro ego, un nemico che vuole esistere da solo. Se sapessimo guardarci allo specchio, sapremmo vedere come viviamo, come siamo guidati, come e quando ci arrabbiamo. Solo solo così potremmo combattere il nostro nemico, applicando il famoso “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli Dei”. Lo specchio è davvero uno strumento di rivelazione. Come simbolo, lo specchio è l’oggetto di introspezione per eccellenza. Ci fa riflettere su ciò che siamo, con le nostre qualità e i nostri difetti, i nostri desideri e le nostre antipatie, il nostro modo di vedere il mondo, le persone che ci circondano e le nostre idee per migliorarle e portarle verso il bene. Ci fa pensare a cosa vorremmo essere e cosa non siamo ancora.

Ma alcune persone non sopportano di vedere la loro immagine riflessa. Alcuni, come il “Narciso” del mito, si perdono guardando la propria immagine riflessa nell’acqua. L’ambivalenza del simbolo dello specchio dipende quindi essenzialmente dall’atteggiamento della persona e dalla maturità di chi si guarda.

Ci sono molti altri specchi, quando guardiamo negli occhi il nostro prossimo. Non è forse lui il nostro specchio? Non lo biasimiamo per le nostre colpe? Non esistiamo attraverso la visione degli altri?

Lo specchio ci rende consapevoli di tutto questo.

È essenziale accogliere lo sguardo degli altri e in particolare dei nostri Fratelli perché è questo che ci insegna a conoscere i nostri limiti, a spingerli indietro per offrire il meglio di noi stessi. È attraverso questo sguardo obiettivo che gli altri devono avere su di noi che si manifesta la nozione di fratellanza. Per essere veramente praticata la fratellanza richiede che chi ne fa uso sia libero.

Libero da cosa o da chi?

Liberato da ogni giudizio che non sia suo, liberato da riflessi condizionati, liberato da qualsiasi autorità esterna, da ogni rappresentazione del potere umano che spezza la fratellanza massonica la cui sopravvivenza è assicurata andando oltre ogni dogma. Esistere attraverso le azioni e l’ interazioni provocate dai legami fraterni, suppone che le nostre catene siano spezzate. Ritengo, quindi, che l’approccio fraterno prosperi e  cancellare le aspettative individuali e le intenzioni dogmatiche.

Permette a tutti di trovare il proprio posto e di non fornire risposte, perché nessuno può sapere in  anticipo quale insegnamento possa giovargli. La prima domanda che tutti dovremmo porci durante le nostre Tegolature con un profano, dovrebbe essere se possiede un’anima che può farlo progredire e farci progredire. A volte è un interesse personale che ci spinge a far entrare un profano, a volte siamo abbagliati dal suo lato visibile che riguarda la vita profana, il lato delle apparenze. Che sia un professore di facoltà, un venditore, un poliziotto, un trasformista, un cattolico, un ebreo o un agnostico che importa?

Insomma, la vera fratellanza, è vivere l’altro con le sue differenze, senza adulazione, senza pregiudizio, senza giudizio.

Vivere in fratellanza è offrire: ciascuno fa dono delle sue forze, ma anche delle sue debolezze. Le differenze non sono rivalità ma condivisione. La fratellanza è nozione di condivisione sia intellettuale che materiale, è dare la vita per l’aiuto reciproco.

ICONOGRAFIA

Svend Svendsen, Norvegia / USA (1864-1945) –

Impronte nella neve di betulle c. 1920′

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

L’INFANZIA PERDUTA DELLA GENERAZIONE ANSIA

diBarbara Stefanelli

 

Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente alla New York University: tra i teenager e i 20enni  c’è un’epidemia di sofferenza psichica, con il raddoppio dei casi di depressione. Sono giovani non più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo

(DIRE) Roma, 14 feb. – “Ci siamo inizialmente focalizzati sulle dipendenze tecnologiche di adolescenti che hanno un uso problematico, addirittura patologico di internet, dello smartphone e dei social network: sono circa 12mila gli studenti di tutta Italia che hanno chiesto aiuto per difficoltà a ridurre l’utilizzo dei social e addirittura oltre un milione di persone nella fascia di età fino ai 35 anni che, nel nostro Paese, hanno un uso problematico dei social e di internet”. Lo racconta all’agenzia Dire il professor Alessandro Vento, psichiatra, responsabile dell’Associazione Osservatorio sulle Dipendenze e membro della Commissione sulle dipendenze dell’Ordine dei Medici di Roma, commentando quanto emerso nei giorni scorsi dall’evento dal titolo ‘Dipendenze giovanili: dimensioni del fenomeno e strategie di prevenzione’. All’incontro, ospitato presso l’Aula Magna Sante de Sanctis della Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università Sapienza di Roma, hanno preso parte numerosi docenti, insegnanti universitari, psicologi e studenti. Al filone delle dipendenze tecnologiche si affianca, purtroppo, quello delle dipendenze da sostanze, in particolare alcol e sostanze psicoattive. “Abbiamo dati allarmanti- evidenzia Vento- in particolare sull’utilizzo epidemico dell’alcol tra i ragazzi delle scuole superiori: da diversi studi, tra cui Espad Italia e Associazione Osservatorio sulle Dipendenze, oltre alle fonti ufficiali governative, emerge una fortissima ed epidemica diffusione dell’alcol tra gli studenti delle scuole superiori, addirittura l’85%, praticamente tutti”. Non va meglio se sotto la lente di ingrandimento si mettono i numeri relativi al consumo della cannabis. “Il dato più alto è quello relativo a quanti consumano cannabis occasionalmente- prosegue- dato che tocca il 30% degli studenti delle scuole superiori. Per quanto riguarda le nuove sostanze psicoattive, quelle di sintesi, di nicchia, abbiamo rilevato che in Italia ne fa uso un 5% di studenti e di giovani adulti”. Non solo: se il 25% degli studenti nella fascia d’età 15-19 ha fumato cannabis almeno una volta nell’ultimo anno, sono circa 75.000 gli studenti italiani in questa fascia d’età che fumano abitualmente cannabis (10 o più volte al mese), determinando un effettivo e importante fattore di rischio per l’insorgenza di disturbi psichiatrici. È possibile porre un freno a questi fenomeni? “Dipende dalle fasce d’età- risponde l’esponente dell’Omceo della Capitale- in quelle più giovanili stiamo andando nelle scuole a fare informazione e prevenzione primaria precoce attraverso la ‘peer education’, ovvero l’educazione tra pari, con il coinvolgimento il leader di ogni classe, il ‘peer educator’, che ha il maggiore carisma e la personalità più forte e che ha poi il compito di veicolare il messaggio a tutti i compagni. Lo stiamo facendo in numerosi istituti della Capitale e abbiamo preso accordi per cominciare a lavorare su scala nazionale. Voglio inoltre precisare che l’attività di ‘peer education’ del 2023 e quella in corso nel 2024 si realizza grazie al contributo di Fondazione Roma, erogato all’Osservatorio sulle Dipendenze”. “Nelle fasce più alte di età- informa- le strategie sono più complesse e basate maggiormente sul meccanismo della psicoeducazione. Cerchiamo infatti di dare sempre elementi educativi e informativi ma con una modalità diversa da quella che utilizziamo con i più giovani. Poi c’è una prevenzione secondaria e terziaria, ovvero quella che utilizziamo per quanto riguarda le persone che hanno già avuto esperienze con le sostanze d’abuso”. “La Commissione dell’Omceo Roma- ricorda Antonio Bolognese, professore onorario di chirurgia alla Sapienza Università di Roma e responsabile scientifico della Commissione sulle dipendenze dell’Ordine dei Medici di Roma- è fortemente impegnata nel trattare queste tematiche, perchè da quando è stata istituita, il 5 maggio del 2022, c’è una notevole richiesta di parlare di questi argomenti nelle scuole e nei centri sportivi, soprattutto da parte degli insegnanti, dei presidi e degli istruttori di sport, per una fascia di età sempre più precoce, che va dai dieci ai 15 anni”. Con l’intento di prevenire e limitare il consumo di sostanze psicoattive e con potenziale di addiction tra i giovani, con particolare riguardo alla cannabis, prevenire l’insorgenza di stili di vita disfunzionali e di comportamenti a rischio e di indirizzare persone con disagio psichico a specifici interventi di counseling, l’Osservatorio sulle Dipendenze e sui Disturbi Psichici Sotto Soglia ha dato vita a ‘In-dipendenza’: il progetto intende mettere in luce i rischi e le conseguenze dell’uso della cannabis sulla salute mentale dei giovani e di altri disordini dell’area delle dipendenze attraverso incontri nelle scuole e nei centri sportivi con genitori e ragazzi, fornendo loro un’informazione scientifica corretta e non distorta dalla ‘cattiva informazione’. “Grazie a ‘In-dipendenza’- spiega- abbiamo coinvolto cinque istituti scolastici di Roma, ovvero Bramante, Chateaubriand, Kennedy, Newton e Visconti, e 3 circoli sportivi, Canottieri Aniene, Aquaniene e T.C. Parioli. L’azione di prevenzione primaria è stata condotta su 1.615 studenti, dalle terze medie alle superiori, 90 allievi dei circoli sportivi, 323 genitori di studenti e allievi e 116 tra insegnanti e allenatori della Capitale”. “Credo sia fondamentale- conclude Bolognese- la testimonianza di quanti hanno superato delle montagne e che oggi sono diventati delle persone di prim’ordine. Su mia sollecitazione pochi giorni fa è stato siglato un Protocollo d’intesa tra l’Ordine dei Medici di Roma e il ministero della Pubblica Istruzione per poter avere la possibilità che siano le scuole a cercare noi e non viceversa. Abbiamo già fatto dei progetti e sto cercando di sensibilizzare la direttrice generale dell’Unione Scuole regione Lazio per far sì che questo possa avvenire il prima possibile”. (Fde/Dire) 13:47 14-02-24 NNNN

 

 

La GenerazioneZ, cioè i nostri figli o nipoti nati dalla metà degli anni Novanta al 2010/12, sono un prodotto dell’umanità “danneggiato da uno smottamento nella cultura dell’infanzia”? E questo smottamento è l’esito dell’incrocio tossico tra una super protezione da parte dei genitori nella vita fisica e un’assenza totale di protezione da parte di qualunque adulto nella vita digitale? E se la risposta alle prime due domande è sì, abbiamo drammaticamente bisogno di “una correzione culturale” prima che sia troppo tardi per i nostri ragazzi e il futuro della specie?

 

La questione – presentata con diagrammi, esempi e contro-obiezioni alle critiche prevedibili – è stata posta da Jonathan Haidt, psicologo sociale e docente di leadership etica alla Stern School of Business della New York University, il quale ha appena pubblicato The Anxious Generation ed è stato in passato autore di saggi premonitori sulla fragilità emotiva delle generazioni “viralizzate”. Il suo punto di partenza, non solo americano, sono i numeri. Che cosa dicono le ricerche, le statistiche, gli esperimenti accademici? Che la percentuale di giovanissimi (teenager) e giovani (ventenni) colpiti da depressione fa registrare un aumento a doppia cifra (più del 50% negli Stati Uniti). E così i tentativi di suicidio e i pensieri suicidari (in particolare nella popolazione femminile) rispetto a dati rimasti stabili fino al 2000 e non soggetti alla stessa oscillazione in altri strati della popolazione. Ci sono ulteriori lampeggianti, segnali di pericolo visibili a tutti, meno gravi e tuttavia preoccupanti per quanto si stanno rivelando comuni a società che potremmo definire “occidentali”, trasformate – se non sconvolte – dalla tecnologia: il peggioramento della performance scolastica, soprattutto in matematica; la frammentazione della capacità di attenzione; l’impoverimento delle relazioni umane; il disinteresse crescente per i rapporti sessuali; la tendenza a restare nella famiglia di origine e la ritrosia ad avviarne una propria; una diffusa avversione al rischio, a causa della rarefazione delle esperienze dirette, che tende ad abbassare l’asticella dell’ambizione rispetto ai predecessori “in casa”, Boomer (1946- 1964) e GenerazioneX (1965-1980).

 

Il libro, anticipato sul magazine The Atlantic, ha subito aperto una discussione negli Stati Uniti per la visione apocalittica dell’autore. Haidt è convinto che l’ambiente in cui i ragazzi crescono sia “ostile allo sviluppo umano” e che questa condizione stia provocando “un’epidemia” di sofferenza psichica. Causa della caduta sarebbe l’attraversamento della pubertà con in tasca uno strumento sempre acceso che ti spegne rispetto alla realtà circostante per calamitarti verso Paesi delle meraviglie e dell’eccitazione. Dove la produzione di dopamina è incessante – attivata da like, retweet, commenti – fino a provocare una dipendenza che impedisce ogni rientro in un universo senza filtri. Come succede invece alla Alice di Lewis Carroll quando ritrova le sue dimensioni e si sveglia nel giardino d’origine. Questo “collasso esistenziale” sarebbe cominciato con il passaggio dai cellulari agli smartphone e la diffusione di questi negli anni Dieci.

 

Per Judith Warner, che ne ha scritto sul Washington Post ed è a sua volta autrice di studi sulla stessa generazione (tra cui E poi smisero di parlarmi: come dare senso alla scuola media), il nesso di causa-effetto dovrebbe essere spostato nel campo della correlazione. I ragazzi e le ragazze della Generazione online, secondo lei, andrebbero visti come il sintomo di una patologia mentale generale, allargata a un’intera società che non è più in grado di elaborare traumi, personali e collettivi, stratificati nel tempo. Siamo – adulti e bambini – esposti a una vulnerabilità che minaccia il nostro benessere quotidiano e ci induce a una fuga scomposta davanti alla complessità.

 

Il bivio è profondo ma, nell’incertezza, alcune soluzioni proposte da Haidt sembrano di buonsenso. Tenere gli smartphone rinchiusi in un armadietto durante le lezioni a scuola. Non regalare ai nostri figli e nipoti telefoni in grado di collegarsi alla rete fino alle scuole superiori. Alzare da 13 a 16 anni l’età ammessa per aver accesso ai social network (con verifiche plausibili del rispetto della norma). Non basterà, è un gradino in una scalata, ma una riconversione andrebbe studiata. Siamo andati allo sbaraglio, li abbiamo gettati in mare senza salvagente e lezioni di stile libero.

 

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

C L I M A

 

 

La fine di El Niño è arrivata. Ci darà un’estate meno calda? Se non succede abbiamo un problema

di Giacomo Talignani

Un’inondazione in Russia

Un’inondazione in Russia (reuters)

Secondo il fisico Pasini se l’esaurirsi del fenomeno non porterà ad un abbassamento delle temperature “dovremmo davvero preoccuparci. Credo e spero di non essere arrivati a una fase in cui il riscaldamento accelera a tal punto da non poter tornare indietro. Altrimenti saranno guai”

16 Aprile 2024

 

 

 

El Niño sta finendo. Anzi, per l’ufficio meteorologico australiano è “già finito”, mentre per il Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration) statunitense “si sta indebolendo”. Come sappiamo dai dati appena pubblicati da Copernicus climaticamente parlando gli ultimi dieci mesi – i più caldi di sempre e consecutivi, in grado di battere tutti i record precedenti – sono stati un vero e proprio incubo per il Pianeta. Il motivo principale dell’innalzamento delle temperature, con conseguenze drammatiche a livello di fenomeni meteo intensi, è da ricercarsi nella combinazione fra la crisi climatica innescata dall’uomo e il fenomeno naturale di El Niño .

METEO

Meteo, è stato il mese di marzo più caldo mai registrato: superato il record del 2016

09 Aprile 2024

 

Questo fenomeno, anche noto come ENSO, è periodico e provoca in generale un forte riscaldamento delle acque superficiali del Pacifico centro meridionale innescando un cambiamento della circolazione e una serie di condizioni, dalle ondate di calore alla siccità, dalle inondazioni sino all’aumento delle temperature, che impattano profondamente sulla vita della Terra. Dopo alcuni anni del suo fenomeno opposto, La Niña – che tende al raffreddamento (a seconda delle zone) – la scorsa estate gli scienziati avevano annunciato il ritorno di El Niño prevedendo la durata di circa un anno. Un anno in cui il fenomeno ha contribuito a pesantissime siccità (dall’America all’Africa passando per l’Europa) e record di calore superati uno dietro l’altro.

 

L’intervista

“L’Europa tra 50 anni sarà bollente e ancora più fragile, dobbiamo adattarci”

di Matteo Marini

08 Settembre 2023

 

Ora però la maggior parte degli scienziati concorda su una netta fase di indebolimento, dopo il picco raggiunto a dicembre e gennaio, e nelle prossime settimane si entrerà in una fase neutra. Poi, a partire da agosto circa, dovrebbe subentrare La Niña e ci si attende un generale abbassamento delle temperature, anche se non è affatto per scontato dato che negli anni precedenti a El Niño, quando c’era appunto il suo opposto, non c’è stato quel contenimento termico che ci si poteva aspettare.

 

“Il fatto che stia finendo è noto – commenta Antonello Pasini, fisico del clima del Cnr – e da agosto dovrebbe, dopo una fase neutrale, iniziare La Niña, anche se per esempio gli australiani sono ancora dubbiosi e indicano un possibile perdurare della fase neutrale”. L’ufficio meteorologico dell’emisfero sud sostiene a suo dire che non ci siano certezze sulla formazione de La Niña entro fine anno o prima, come previsto invece per esempio dal Noaa.

 

Crisi climatica

El Niño, gli effetti che preoccupano gli scienziati: eventi meteorologici estremi e temperature record

di Matteo Marini

15 Giugno 2023

 

Per l’Australia i segnali forniti dalla superficie del mare e altri indicatori oceanici mostrano che “ENSO resterà neutrale sino a luglio 2024” e non è chiaro quando subentrerà La Niña mentre per gli statunitensi c’è “una probabilità dell’85% che El Niño finisca e che il Pacifico tropicale passi a condizioni neutre entro il periodo aprile-giugno. C’è  poi una probabilità del 60% che La Niña si sviluppi entro giugno-agosto. Continuiamo ad aspettarci La Niña per l’autunno e l’inizio dell’inverno nell’emisfero settentrionale (circa l’85% di probabilità)” scrivono gli americani.

 

L’alternarsi delle due fasi è estremamente importante per le vite, l’economia e l’agricoltura globale, sebbene in Europa gli effetti di questo passaggio siano meno diretti. Con El Niño, ricorda Pasini, “si verificano siccità, ondate di calore in Australia e precipitazioni intense per esempio in America meridionale. Con La Niña ci si aspetta maggiore umidità e alluvioni in Australia o in certe zone dell’Asia. In generale a livello globale il passaggio a La Niña dovrebbe portare a un abbassamento delle temperature nel mondo. Il dovrebbe è d’obbligo però perché negli ultimi anni, fra i più caldi di sempre, La Niña c’è stata (in precedenza per oltre due anni, ndr) ma le temperature sono risultate comunque elevate. Quello in arrivo sarà dunque un banco di prova, anche perché attualmente ci sono molte cose che non tornano e che dobbiamo capire”.

 

Il riferimento è agli ultimi dieci mesi risultati estremamente bollenti a livello globale, con un trend del riscaldamento che sembra addirittura accelerato rispetto alle previsioni. “Quello che sappiamo di certo come scienziati è che il surriscaldamento globale di origine antropica e El Niño insieme hanno contribuito a questi nuovi record, ma ci sono anche altri aspetti ancora molto dibattuti nella comunità scientifica. Per esempio ci sono fattori come il surriscaldamento in Europa che potrebbe essere dovuto anche alla sottostima degli effetti di alcune leggi ambientali passate, come quelle che hanno portato a dire addio e a combattere le polveri raffreddanti, come i solfati e quei combustibili pieni di zolfo. Queste leggi attuate anni fa, che hanno tutelato in maniera importante la salute degli europei, potrebbero nel tempo aver favorito il brightening, cioè il fatto che la luce solare – senza più strati inquinanti – penetri più profondamente arrivando tutta sino al suolo che si riscalda di più riscaldando a sua volta l’atmosfera. Prima questo stato di inquinanti, nei bassi strati, in qualche modo la rifletteva all’indietro non permettendo che tutta arrivasse. Ora però le cose potrebbero essere cambiate”. Un altro fattore potrebbe essere legato all’eruzione dell’Hunga Tonga nel 2022: “Studi indicano la possibilità che il vulcano, avendo emesso molto vapore acqueo, che di fatto è un gas serra, possa aver influito”.

 

 

Secondo Pasini, se uniamo tutti questi fattori, dagli impatti di El Niño alla crisi climatica in corso sino potenzialmente agli effetti del vulcano o delle leggi, allora “in parte è comprensibile l’eccezionalità del riscaldamento degli ultimi 10 mesi, anche se secondo me potrebbero esserci altri aspetti, sfuggiti, da capire. Sicuramente, con l’arrivo de La Niña, sarà importante osservare i cambiamenti: se le temperature non dovessero abbassarsi, sarebbe un bel problema” spiega.

 

In attesa di comprendere come e se la formazione de La Niña potrà cambiare gli equilibri globali, il ricercatore del Cnr spiega che negli ultimi mesi un aspetto preoccupante è il fatto che “i mari si siano riscaldati molto, in particolare l’oceano Atlantico a livello tropicale. Gli oceani hanno una capacità termica alta, fanno fatica a riscaldarsi velocemente, e allora perché si è verificato tutto questo riscaldamento marino? Abbiamo innescato qualche feedback finora non considerato? Credo sia molto importante indagare: se il surriscaldamento assurdo degli ultimi dieci mesi dovesse in qualche modo stopparsi un po’ con l’addio a El Niño, allora molto probabilmente le cause sono da ricercarsi proprio in quel fenomeno iniziato un anno fa. Ma se non dovessero iniziare ad abbassarsi le temperature allora dovremmo davvero preoccuparci. Personalmente, credo e spero di non essere arrivati a un tipping point, una sorta di soglia in cui il surriscaldamento accelera a tal punto da essere estremamente complesso poter tornare indietro. Altrimenti sarebbero guai.

TAVOLA INVIATA DAL FR.’.  A.  F

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

CURIOSITA’ MISTERIOSE

CURIOSITA’ MISTERIOSE

ELIODORO – Nella piazza del Duomo di Catania vi è un elefante realizzato con pietra lavica, chiamato familiarmente dai catanesi “Liodru” perché, si dice servisse da cavalcatura al mago Eliodoro.

Con i suoi sortilegi e giochi di prestigio, Eliodoro si inimicò Costantino al punto che quest’ultimo inviò un gruppo di soldati per arrestarlo, e tradurlo a Costantinopoli per giustiziarlo.

Catturato, Eliodoro convinse i soldati, prima di imbarcarsi per Costantinopoli, di fare un bagno tutti insieme. Ad un suo gesto, i soldati si ritrovarono, in un battito di ciglia, nella piscina privata di Costantino. Venne nuovamente arrestato e condotto a Costantinopoli, condannato al patibolo. In procinto di subire la condanna a morte, giunto alla soglia della forca, chiese di bere da un recipiente colmo d’acqua. Immerse la testa e disparve in un baleno e fu rivisto a Catania, poco dopo.

Di Eliodoro non se ne seppe più nulla dopo che San Leone lo costrinse a passare dentro una fornace da cui il santo uscì illeso.

FERRO DI CAVALLO – E’ fra tutti gli amuleti portafortuna, uno tra i più diffusi. Perché abbia veramente un potere, inutile è comprarlo, deve essere trovato per caso.

L’usanza di tenere il ferro di cavallo appeso dietro l’uscio ha radici molto remote. Il ritrovamento di un ferro di cavallo, nel 191 3, in una tomba nella necropoli di Locri ha seriamente messo in discussione l’attribuzione di questo amuleto, ad un giapponese del XVI secolo.

IL SERPARO – A Foggia, e nella provincia in particolare, è estremamente interessante l’attenzione che viene dedicata al serparo, che, necessariamente, deve essere ultimo di sette fratelli. Appena in giovane età, viene condotto al santuario di S.Paolo presso Foggia, ricevendo l’invulnerabilità ed il potere di comandare i serpenti. Ciò avviene mediante la interposizione di un sacerdote presente al rito. Il giovanetto introduce il braccio in una cavità piena di rettili che lo azzannano a sangue; poi riceve dal sacerdote la pietra del veleno che ha potenti poteri taumaturgici per il morso dei serpenti e apprende, dallo stesso, le quattordici parole misteriose e magiche che accompagnano l’operazione di disintossicazione dal morso.

Successivamente il serparo viene ceramato, in altri termini investito dei suoi poteri”

Ritroviamo la coesistenza di religione e magia anche negli scongiuri e nelle preghiere che il popolo recita e canta, in determinate occasioni del giorno e della sera, che spesso si accompagnano a preghiere cristiane, nell’atto di fare il pane, nel fare gli scongiuri contro il malocchio, prima di andare a letto ovvero prima di addormentarsi.

IL CALVARIO – Il rito del Calvario, si rifà a riti e tradizioni antichissime, della zona di Altamura, e si praticava durante la settimana di passione. Nelle piazza principale, veniva eretto con pietre, rami e terra, un monte Calvario sormontato da tre croci. Faceva da sfondo un grande panno nero sul quale si evidenziava, con caratteri argentati, la scritta: Passio Domini Nostri Jesus Christi.

Ritto ai piedi del monte, un prete invitava gli astanti alla fustigazione, in segno di pentimento, producendo un tale coinvolgimento che sfociava in una partecipazione collettiva che oggi definiremmo molto simile alla possessione ovvero ad un rito voo-doo.

CARONTE -Infernale battelliere che traghetta le anime dei trapassati. La sua leggenda ha origine nella città di Menfi. Nato dall’unione di Erebo e della Notte, adempie al suo compito di traghettatore sul fiumi Acheronte e Cocito. Il suo compito si limita a trasportare solo le anime che hanno ricevuto sepoltura e che sono nelle condizioni di pagargli il pedaggio.

BELINUNZIA – Dal succo di questa erba i Galli estraevano il veleno per le punte delle loro frecce. A questa erba veniva attribuito il potere della pioggia e particolarmente suggestiva era la cerimonia che si effettuava, in periodi di siccità, per raccoglierla.

 

Le mogli dei druidi sceglievano una vergine tra le più belle e, dopo averla completamente denudata, la invitavano a guidare uno stuolo di compagne per cercare la magica erba. Trovatala, la sradicava con il mignolo della mano destra, e successivamente si recava al più vicino corso d’acqua, seguita dalle compagne che intanto avevano tagliato rami d’ albero che agitavano ritmicamente. Una volta giunti al ruscello, l’erba ed i rami venivano immersi nell’acqua e successivamente scossi sul volto e sul corpo della vergine creando così una piccola pioggia artificiale. Questo era, infatti, il simbolo propiziatorio che doveva rompere il sortilegio della siccità. Tutti poi facevano ritorno e la vergine doveva ripercorrere tutto il cammino marciando all’indietro al fine di mantenere intatto il filo propiziatorio dall’acqua al villaggio.

DRIFF – E’ il nome con cui veniva indicata la pietra di Buttler, pietra alla quale venivano attribuite qualità miracolose. Si diceva che fosse formata da un impasto magico di strani ingredienti tra cui muffa formatasi sulla testa di un morto, vetriolo ramato impastato con colla di pesce e sale marino. Lo straordinario potere che si attribuiva a questa pietra, oltre alla proprietà di neutralizzare qualsiasi veleno, garantiva la guarigione completa, da ogni terribile male, a chi la toccava con la punta della lingua.

ABRACADABRA – In Persia e Siria, con questa parola si costruiva una figura di magia alla quale si attribuivano qualità terapeutiche, fra le quali quella di guarire la febbre. Bastava appendersi al collo un amuleto fatto a triangolo e così composto.

Sapersiforte e sembrare debole, tale è la base (della vita sociale); chi la possiede non devia mai dalla Virtù e tornerà… alla semplicità della fanciullezza.

Sapersi illuminato o sembrare oscuro, tale è la base (della vita sociale); chi la possiede non decade mai dalla Virtù e tornerà… all’apice.

Sapersi grande e mostrarsi piccolo, tale è la base (della vita sociale); chi la possiede progredisce sempre nella Virtù allo stato dell’ingenuità: l’ingenuità. è il velo della perfezione.

Il Perfetto, a ciò conformandosi, diviene capo, diviene forte e dolce signore.

Lao Tse

 

Pubblicato in Varie | Lascia un commento