Archeo-appunti per gli amici

Archeo-appunti per gli amici

 

“balnea, vina, venus, corrumpunt

corpora nostra, sed vitam faciunt”

 

 

Tutto quanto riportato in queste pagine è stato ricavato da testi o riviste specializzate ed estrapolato da un contesto di argomenti diversi. Fanno eccezione, perché riportati integralmente, il capitolo su “L’arte del bere nell’antichità” di E. Ricotti, e quello su “Le anfore”, scritto da Mario Lari, pubblicato dal mensile “Scienza e Vita” del Maggio 1991 e successivamente dalla rivista “Geos” di Luglio/Agosto 1994.

 

Questi appunti vogliono essere un contributo per conoscere  meglio qualcosa che veniva ricercato fin dai tempi antichissimi: l’olio e il vino. Quanto riportato può servire anche a capire qualcosa dei commerci, dei trasporti e, soprattutto, le tante analogie con il mondo di oggi.

La materia resta comunque piuttosto complessa e, sebbene il tutto sia stato ricavato dalle fonti di autori antichi e supportato da studi archeologici, sono ancora molte le cose da chiarire, prova ne è che alcune volte (poche, per la verità) assistiamo a punti di vista diversi tra i vari autori degli articoli riportati. Credo però che, proprio per questo, quanto trattato possa dimostrarsi affascinante.

 

E’ sicuro che il vino di oggi sia qualcosa di completamente diverso da quello di 2000 anni fa, credo tuttavia che non dovremmo deridere i nostri lontani antenati i quali, magari allungavano il vino con acqua di mare, ma è comunque grazie a loro che oggi possiamo disporre di viti che danno grappoli bellissimi, discendenti da quelle antiche piante selvatiche che l’uomo nel corso dei millenni ha saputo addomesticare, proprio come fece con il cavallo, il bue o la pecora.

Si tratta quindi di qualcosa che ha attinenza unicamente con la storia o l’archeologia e, per gustare meglio queste note, suggerisco di dimenticarsi completamente delle tecniche di coltivazione, di quelle di vinificazione e, soprattutto, del modo di bere il vino oggi.

 

In conclusione, anche se i nostri predecessori non avevano i liquori, che apparvero soltanto dopo che gli Arabi inventarono la distillazione, ebbero a disposizione molte bevande, alcoliche e non. Tutto sommato, non si potevano lamentare.

Noi, vivendo in un mondo nel quale non si sente parlar d’altro che di acque inquinate, vini sofisticati e latte radioattivo, dobbiamo riconoscere che in molte cose essi stavano meglio di noi.

Le loro sorgenti erano fresche e pure; il latte delle greggi allevate in pascoli buoni ed abbondanti era ottimo; c’era la birra per accontentare chi non poteva pagarsi il vino e infine c’era il vino vero e proprio che, per aver tanto entusiasmato i poeti

dell’ epoca, doveva essere buono, nonostante tutto quello che qualche valente sommelier di oggi potrebbe pensare.

 

 

Mario Lari

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I FIGLI DELLA VEDOVA

Alcune considerazioni generali

I massoni, rifacendosi alla leggenda di Osiride,  usano chiamarsi, per tradizione, “i figli della vedova”,   in questa stesura,che si propone di analizzare i gruppi massonici ed i ” massonismi “che affollano il panorama italiano,  abbiamo inteso sottoliniarli con provocatoria ironia al plurale, essendo essi diventati oramai una settantina, tutto ciò nella  speranza  che, granu salis,   cessi tale ridicola autolesionistica farsa.

L’elencazione di cotanti  gruppi é motivata  da  desiderio di chiarezza oltreché di studio, entrambi  mirati  a fornire elementi di discernimento e di scelta a tutti coloro, che, in buona fede, desiderosi di partecipare alla  più grande conquista dell”uomo, l’Illuminismo, cioé la Massoneria Speculativa Moderna, rischierebbero, con un salto nel buio,  di finire probabile preda di  cacciatori di quattrini, che innescano i loro ami  con abuso di aggetivi  “massonici”.

Solo dopo anni queste  persone riescono a capire il proprio errore. Poiché nessuna  legge  protegge contro chi si spaccia per massone, mentre avviene  contro  chi si spaccia per prete, per medico ed altro, l’unica  difesa resta:  la corretta conoscenza.

 

 

Il movimento e pluribus una,  favorendo una più ampia e completa informazione, sottolinia, per contro, coloro  che non  rispecchiano  correttamente l’istituzione massonica, ed é pronto altresì, coram populo a confutare ogni  loro pretestuosa argomentazione.

L’esplosione  dei gruppi massonici  é un fenomeno post bellico; le truppe alleate nel loro commino liberatorio verso il nord  ne procrearono parecchi , un pò come i ” figli della liberazione” , salvo poi lasciare, anche questi, orfani e dimenticati da anni in ragione di scelte, successive, più opportunistiche. Il separatismo siciliano, per esempio, legato alla mafia ed allo sbarco in Sicilia, fu levatrice di alcuni di essi, ma, reso inutile e scomodo dalla  conferenza di Yalta e dalla definitiva strutturazione di uno  stato italiano centralista e satellite, esso fu abbandonato assieme a quei  gruppi che aveva contribuito a  far nascere.

A questi orfani, ancora oggi tristemente in fila per il visto, si sono aggiunti, secondo la logica  tutta italiana  della “proporzionale spartitocratica”,   altri;  da ultimo si sono aggregati gli ultimi prodotti di questo fine-secolo squallido,  i casiddetti “moneysuckers”  piovuti dai “paradisi fiscali ” e frutto della deregulation che li ispira,  sono gli accaparratori di quattrini degli stolti che riescono ad associare. Quest’ultima categoria  non é frutto della guerra, ma  di fessacchiotti che  adorano pavoneggiarsi  con adorni grembiuli e compiacersi con onori di stagnole multicolori.

 

 

Per tutti costoro resta attuale  il famoso rapporto di P.S  da me ripreso dal Mola e citato a pag. 55 del libro  “Massoneria oggi. . .  e domani ?”  Ed. Atanor  Roma e relativo agli eventi immediatamente postbellici:

(. . . ) il capo della Gran Loggia Madre di Washington é colui che ha in mano i destini della Massoneria italiana, é l’uomo al quale si rivolgono tutti gli appelli dei vari gruppi tendenti a sopraffarsi l’un l’altro nel tentativo del  raggiungimento dell’agognata meta: il riconoscimento (. . . ).

La stessa cosa vale naturalmente anche per il riconoscimento  inglese!

 

 

Quelli che non  possono vantare  riconoscimenti  ufficiali, ne ostentano  di autarchici, mentre altri  si comportano come la volpe con l’uva.

In questo  melting pot tutto italiano, di opportunisti a vario titolo e sono tanti!  di veri massoni, ve ne sono ben pochi!  forse, di realmente  legati al  credo filosofico se  ne potrebbero trovare  di più tra coloro che se ne sono andati.

 

Prima  di addentrarci  nell’esame delle troppe famiglie massoniche italiane é opportuno   cercare di mettere a fuoco il problema dell’associazionismo, in modo che il visitatore possa comprendere anche  la confusione che vi regna,  ciò é conseguenza del fatto che nel nostro paese l’associazionismo non é mai stato  volutamente regolamentato.

 

Gli: art.17 commi 1 e 2 – art. 18 commi 1 e 2 – art. 49   della Costituzione e gli articoli 36 e 38 del Codice civile,  il Testo Unico delle Leggi di P.S.  Regio Decreto N 773 del 18 Giugno 1931 e la  legge 17/82 che ne ha abrogati alcuni  formano un coacervo contraddittorio giustizialista di difficile lettura ed alla mercé delle interpretazioni che  ha detta di molte personalità sarebbero la leva  per gestire, in questo sfortunato paese, problemi di amici e nemici.

Allo stato dei fatti, esistono le “Associazioni riconosciute”, come ad esempio gli invalidi,  i mutilati, i reduci, la croce rossa ecc, ecc, presiedute tutte  da  politici o parenti e amici loro; mentre tutte le altre vanno sotto la generica dizione di  “Associazioni non riconosciute” come quelle sportive, i sindacati, i partiti politici, le associazioni culturali, le massonerie ecc. ecc.

La voluta assenza di una regolamentazione chiara é frutto, mi sembra ovvio,  di una scelta politica di potere, uno dei motivi dell’esistenza di tale limbo potrebbe essere il fatto che tali associazioni non hanno bilanci  ” controllati “,  ciò consente, come si può ben comprendere, una grande libertà di gestione  che fa comodo a tutti, in primis  a chi diversamente, pur potendo,  non desidera regolamentare.

Nel prossimo futuro, a mio modesto avviso, la situazione é destinata a deventare più ingarbugliata, incontrollata ed incontrollabile che mai essendo stato  “scoperto” l’eldorado delle associazioni, il “no-profit”.

Tali associazioni, che hanno sull’opinione pubblica un impatto positivo perché, a detta,  non “farebbero profitti”,  in realtà “possono far campare” nel senso che su tali  carri  possono salire molti costi e persone senza alcun controllo di gestione, o controllo sull’opportunità di “certe” spese.

Generano quattrini! Ma non fanno profitti  proprio perché si mangiano tutto in spese di gestione opportunamente stabilite. Si muovono nelle nebbie  del volontariato, della solidarietà, dell’urgenza, delle calamità, delle guerre e gestiscono  cospicui fondi senza controlli. Sotto la bandiera  del “privato é meglio”  si celano ufficiose realtà economiche.

Un settimanale francese, alcuni anni fa,  fece una ricerca e scoprì  che nelle  associazioni, solo il 20 %  del ricavato andrebbe a beneficio  dei destinatari indicati nei retorici scopi e statuti; il resto verrebbe “ingurgitato  da spese correnti” come ad es.: costosi affitti di rapprentanza nelle capitali,(romani), usati come uffici de facto per altri scopi, stipendi, viaggi,  personale, segreterie, segretarie, auto, appartamenti di “servizio”, nella realtà  tali associazioni “fanno campare”, tutti gli addetti, tranne i beneficiandi.

Al presidente di  una nota associazione per l’infanzia, che  martellava la mia buca delle lettere, così come penso le vostre, risposi   che avrei devoluto un anno del mio stipendio da dirigente “privato” quale allora ero,  se avesse reso pubblico il bilancio delle spese! . . . . Non mi hanno più scritto!!

Poiché tali associazioni sono grandi collettori di voti, il gioco è fatto ed a norma di legge!  Si potrebbero aggirare cosi  eventuali leggi  e/o referendum contro il finanziamento ai partiti. In questo paese, si sa, i politici le pensano la notte! Ma negli ultimi trentanni anche il giorno!

 

Per quanto ci  riguarda trattando noi di  associazioni massoniche,  riporteremo strettamente quanto da esse dettato in aggiunta alle notizie spontaneamente fornite dalle associazioni stesse ed i nostri commenti saranno  di natura storica, filologica, filosofica, antroposofica, antropologica  ecc. rifacendoci agli studiosi noti ed ai testi pubblicati.

 

 

Altro momento dialettico di conoscenza  é anche quello di riportare in apposito richiamo  le antiche Costituzioni, gli Statuti e Regolamenti    su cui poggia, cosi come legittimamente voluto dai fondatori, tutto l’edificio della morale massonica, in modo che tutte le aggiunte e le ipostatizzazioni pretestuose risultino una volta per tutte chiare ed  emendabili per il viaggiatore attento.

Marcello SCIPI

 

 

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IL RUOLO DELLA MASSONERIA NEL XXI SECOLO

 

V Conferenza Mondiale delle Grandi Logge

Madrid 24-27 maggio 2001

 

Il ruolo della Massoneria nel XXI secolo: tradizione, etica e nuovi valori

 

Sin dalle sue origini la Massoneria ha contribuito in modo sostanziale al bene dell’uomo con le sue idee e le sue azioni che sono state recepite e poste a fondamento delle società democratiche.

Il lavoro muratorio, svolto nelle Logge, ha infatti permesso nel passato ai fratelli di elevare la propria conoscenza e coscienza e li ha così forgiati per costruire un’umanità migliore.

La Massoneria, ancora oggi, è indubbiamente il solo luogo in cui uomini, legati dal vincolo di fratellanza, possono accrescere la loro spiritualità, affinare la loro conoscenza esoterica, rinsaldare la loro morale e prepararsi a vivere socialmente in forza di quei valori massonici che costituiscono per ogni persona le linee guida per poter essere liberi ed esprimere le proprie potenzialità nel pieno rispetto delle diversità.

Nel loro percorso storico i massoni si sono sempre posti come punto di riferimento per gli uomini che avvertono l’urgenza di un proprio perfezionamento e si pongono come obiettivo di essere liberi e di cooperare al miglioramento della condizione umana. Anche oggi la Massoneria può fornire un contributo essenziale all’umanità mettendo in campo nuovi valori e storicizzando quelli tradizionali e perenni, cioè applicandoli in modo originale alle condizioni attuali dell’umanità. Nell’epoca del villaggio globale e della globalizzazione insorgono problematiche che non possono essere superate solo in base a mere soluzioni economico-finanziarie, ma facendo sempre riferimento ai valori che guidano l’umanità.

In questo contesto la Massoneria può svolgere un ruolo primario e centrale perché propugna i valori fondamentali della dignità, della libertà e del rispetto del singolo nella diversità, che sono a fondamento della convivenza civile e democratica che deve ruotare intorno alla centralità dell’Uomo, con esclusione di ogni forma di intolleranza e discriminazione.

È fondamentale a questo punto sottolineare un aspetto peculiare della Massoneria: essa non ha interessi materiali da difendere, né posizioni di potere e di privilegio, di qualsiasi natura esse siano, per questo è l’unica istituzione di uomini che si può adoperare liberamente e spassionatamente per la felicità dell’uomo.

Con riferimento in particolare alla globalizzazione è necessario svolgere un’attenta riflessione. È indubbio che questo fenomeno può dare luogo a risultati positivi per l’uomo, ma non può essere considerato come un processo indipendente dalle condizioni di vita dell’uomo nella sua duplice dimensione materiale e spirituale.

Al contrario, noi massoni riteniamo che anch’esso debba essere guidato e reso compatibile con i valori, in modo che possa essere uno strumento di benessere e di elevazione e non solo una macchina che mira a soddisfare gli interessi di una parte privilegiata e minoritaria dell’umanità a scapito di altre. Nonostante i grandi risultati riferiti alla qualità della vita che si sono raggiunti nel mondo occidentale, non possiamo sottacere che sia in esso che nel resto dell’umanità sono presenti squilibri che preoccupano l’animo umano verso i quali non v’è né sufficiente attenzione, né un’adeguata volontà di porre rimedio.

Al fine di superare queste condizioni è necessario collocarsi in un’ottica diversa che non sia ristretta e legata ad interessi di parte, ma abbia un orizzonte più vasto che pone al centro l’Uomo e che sia in grado di cogliere i trends globali senza mai dimenticare le condizioni specifiche dei singoli, anche nelle forme associate, delle collettività e degli Stati. Questa apertura d’orizzonte, peculiare dei massoni, ci deve portare a considerare tutte le problematiche attuali in riferimento al bene concreto dell’umanità piuttosto che a quello di una sola parte: in ciò consiste la nostra universalità fondata sul valore della fratellanza fra tutti gli uomini. Purtroppo lo scenario mondiale suscita diverse inquietudini. La violenza esplosa in diverse parti del pianeta, le pulizie etniche, i genocidi nei continenti africano ed asiatico, il terrorismo dei fondamentalismi religiosi e l’ossessione nazionalista denotano un malessere profondo che deriva da squilibri sociali, provocati anche dal tramonto delle ideologie, e che viene avvertito sia dagli individui, sia dalle collettività.

Al contempo, le diversità della qualità della vita e delle condizioni economiche tra Nord e Sud non può che suscitare preoccupazione per il benessere dell’umana famiglia, nonché per le possibili conseguenze anche conflittuali che possono derivare. Anche nel mondo occidentale, ricco ed opulento, nonostante una diffusa ed alta qualità della vita, non sono assenti contraddizioni che minacciano l’armonia e la stabilità sociale; ingiustizie economiche e sociali, discriminazioni di diversa natura, le povertà nuove e vecchie, il degrado ambientale, i disagi psicologici ed esistenziali, nonché conflitti interetnici appaiono come un male dell’Occidente a cui si deve prestare un’ampia attenzione che sia fondata sui valori che proclamano la dignità della persona.

 

27 Maggio 2001

 

Il Grande Oriente d’Italia è membro della Confederazione Massonica Interamericana (Cmi) fondata il14 aprile 1947, un’organizzazione che riunisce 84 Grandi Potenze Massoniche, ammesse come membri e distribuite in 26paesi del Sud, Centro e Nord America, Caraibi ed Europa. Il CMI promuove un modello istituzionale innovativo attraverso l’integrazione della Massoneria Iberoamericana e, per estensione, della Massoneria Universale, con l’obiettivo di sviluppare tutte le potenzialità esistenti in un’organizzazione che conta quasi 400.000 membri che, attraverso lo scambio di idee, attività, principi, preoccupazioni ed esperienze, cioè il loro modo di vedere e comprendere il mondo, cercano di arricchire il pensiero dell’umanità e delle sue culture.

 

 

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LONTANI DALLA RUSSIA


 

Il mito dell’espansione della Nato e la forza

democratica dei popoli

Kaspar Sõukand

La retorica delle sfere di influenza appartiene all’epoca dei due blocchi. Continuare a usarla significa violare il diritto alla sovranità dei Paesi dell’est Europa, che consapevolmente e democraticamente hanno aderito (o desiderano aderire) alle organizzazioni sovranazionali e internazionali occidentali.

Durante l’autunno del 1990 ebbe luogo uno storico incontro tra i leader degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Quel vertice che avrebbe dovuto segnare un nuovo decennio di relazioni tra America e Russia è apparentemente diventato tossico e viene usato dal Cremlino per giustificare l’invasione della Georgia e dell’Ucraina. Secondo questa teoria, la Nato non avrebbe mantenuto la promessa di non espandersi nell’Est Europa, costituendo così una minaccia per Mosca.

Il primo a portare avanti questa tesi fu nel 1993 l’allora presidente russo Boris Yeltsin, il quale ha trovato sostenitori anche all’estero. Molti esperti, infatti, hanno ribadito che l’ostilità russa nei confronti dell’Occidente, e dunque la guerra in Ucraina e Georgia, sia conseguenza diretta dell’espansione della Nato. Tuttavia, questi esperti trascurano il fatto che la Russia non ha mai rinunciato alle sue pretese sui Paesi dell’ex sfera di influenza sovietica durante la Guerra Fredda, a dispetto della volontà dei popoli. Già nel 1993, la Russia era coinvolta in conflitti di questo tipo in Cecenia, Georgia, Moldova e Tagikistan.

 

Questo dimostra che nella mente dei russi non è mai esistito il diritto di sovranità dei Paesi dell’est Europa, e se le promesse della Nato possono essere oggetto di dibattito, siamo tutti d’accordo che per i russi una concezione democratica di indipendenza da Mosca non è mai esistita. Se gli Stati Uniti avessero promesso di non allargare la Nato, non si tratterebbe di un tradimento nei confronti della Russia, ma nei confronti della volontà di sovranità di questi Paesi.

 

Questo tipo di mentalità è un ricordo della Guerra fredda, un’era nella quale sia le potenze occidentali sia l’Urss hanno fatto cose imperdonabili in altri Paesi, con la pretesa di avere un mandato su altre nazioni.

 

Dividere il mondo in due sfere di influenza senza la volontà dei popoli non dovrebbe essere accettato come normale, specialmente da Paesi orgogliosi della propria integrità politica. Il fatto che esistano questi dibattiti su qualche promessa passata serve solo ad alimentare la propaganda russa riguardo la sfera di influenza di Mosca, come dimostra il fatto che molti in Occidente pensano che la Nato si sia allargata aggressivamente verso la Russia.

 

L’ingresso dell’est Europa nella Nato non è e non può essere una decisione degli Stati Uniti, ma una decisione dei popoli di Estonia, Lettonia, Lituania, e di tutti gli altri. Allontanarsi dalla Russia è stata una decisione unicamente loro.

 

A differenza del Patto di Varsavia, un’alleanza imposta con la forza sull’Europa orientale, l’adesione alla Nato è stata attivamente richiesta da quei Paesi, per paura dell’espansione russa.

 

Allo stesso modo, il possibile accesso nella Nato o nell’Unione europea dell’Ucraina, della Georgia o di qualsiasi altro Paese non può essere visto come pedina di scambio. Qualsiasi pace con la Russia non deve essere fatta a tavolino, dividendo i territori come nel 1944, altrimenti il futuro dell’Europa sarà danneggiato per sempre.

 

Democrazia e sfere di influenza possono coesistere in Europa, ma se il controllo sulle altre nazioni diventasse una prassi, come è successo dopo la Seconda guerra mondiale, prima o poi la violenza diventerebbe il modo per fermare la democrazia. Da parte russa abbiamo visto in Ucraina e Georgia, come in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968, ma anche l’Occidente non si è risparmiato, come è stato evidente in molti Stati del Sud America o dell’Asia.

 

Se vogliamo che la Nato sia un’alleanza di eguali e che l’Occidente superi la retorica della Guerra fredda usata dalla Russia per conquistare impunemente parti d’Europa, non dobbiamo più usare il concetto di sfere di influenza come strumento di negoziato. Dobbiamo dare maggiore importanza alla sovranità e alle scelte democratiche delle nazioni, anche di fronte a manovre geopolitiche sempre più complesse.

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TAVOLA  SEGNALATA DAL FR.’. A  F.

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ATTUALITÀ DEL PENSIERO ROSACROCIANO

ATTUALITÀ DEL PENSIERO ROSACROCIANO
di
Riccardo Gandolfi
Premessa
Il pericolo maggiore che, oggi, corre colui che vuole parlare dei Rosa+Croce è quello di ripetere alcuni dei tanti luoghi comuni che circolano sulla Confraternita.
Per cercare di evitare questo rischio, non mi dilungherò nell’ analisi storica, né sulle tante interpretazioni tentate sui pochi scritti disponibili, né cercherò di dimostrarne la veridicità storica. Il punto di partenza di questa breve disamina, sarà, invece, il ruolo che va riconosciuto alla confraternita nell’ evoluzione dell’ istituzione massonica, partendo da una domanda: “Perché l’ istituzione massonica sentì la necessità di richiamarsi ad una tradizione sotterranea, poco conosciuta, contrastata come quella dei Rosa+Croce?”
Cerchiamo di ricordare quale fu il clima culturale nel quale maturò l’ideale massonico e, più tardi, quali furono le correnti filosofiche che incisero profondamente sia nell’ evoluzione delle società occidentali che dell ‘ istituzione massonica.
A partire dal diciottesimo secolo si andarono affermando, sempre di più, tendenze culturali che esaltavano la ragione, intesa come facoltà intellettiva superiore ad ogni altra, tendendo, quindi, a valutare negativamente le altre manifestazioni dell ‘ intelletto umano, soprattutto di carattere sentimentale ed istintivo.
Alla luce di queste tendenze, si tendeva a spiegare tutto alla luce della ragione, persino l’ esistenza di Dio, non essendo più sufficiente il semplice atto di fede, inteso, al contrario, come manifestazione di bigotta superstizione.

Questo fideismo cieco nelle capacità razionali dell ‘uomo arrivò al paradosso di inventarsi un dio laico, la Dea Ragione, che, nell’intenzione dei rivoluzionari francesi, avrebbe dovuto sostituire il culto divino, rappresentando un mezzo per l’ affermazione di un ateismo del tutto anomalo, dato che non si spingeva ad affermare la negazione di Dio, ma semplicemente la sua sostituzione con un altro ente astratto ed artificiale.
In conseguenza di questo culto della ragione, si esaltò la capacità tecnica dell ‘ uomo, delineando scenari di sviluppo inarrestabile.
L’uomo laico, finalmente, poteva riaffermare la propria capacità di pensiero, utilizzare l’intelletto in maniera libera, senza doversi confrontare con gli scritti aristotelici e con i dettati della Chiesa.
Le scoperte scientifiche si andavano coniugando alle fantasie di fervidi scrittori come Verne, creando il mito della scienza e della tecnica, intese come uniche attività intellettuali degne di essere esplorate dalle menti dei filosofi.
In quest’ ambito culturale si sviluppò prima l’Illuminismo ed in seguito la filosofia positivista che, in poco tempo, divenne un vero e proprio metodo d’ approccio ai maggiori temi culturali e sociali.
La metafisica, che apparteneva alla speculazione filosofica fin dalla sua nascita, era accantonata, cedendo il passo allo studio delle metodologie scientifiche. Mentre tutto questo accadeva, i migliori intelletti dell ‘epoca si ritrovavano fra le colonne dei templi massonici.
Scienziati, filosofi, ma anche uomini d’azione, militanti rivoluzionari, si ritrovavano a rispettare rituali ricchi di simbolismi arcaici, aprendo sull’ara la Sacra Bibbia e deponendo su di essa la squadra ed il compasso.
Uomini che affermavano la superiorità della ragione, che studiavano i processi chimici e fisici, che progettavano rivoluzioni ed intrighi, al coperto della volta celeste della loggia ritrovavano un linguaggio perduto.
Proprio queste persone contribuivano allo sviluppo del rituale massonico, all ‘introduzione dei gradi superiori, quelli del Rito Scozzese, nello stesso momento in cui si impegnavano per poter realizzare la più grande impresa culturale fino ad allora tentata, la scrittura dell ‘Enciclopedia universale, ovverosia un libro, seppur composto da vari volumi, all’interno del quale poter ritrovare il compendio di tutti i libri fino ad allora esistiti.
Ricordiamo, a proposito di quest’ avvenimento, che ancora oggi è comunemente riconosciuto come evento rivoluzionario per la sua vasta portata, le parole che ritroviamo in uno dei testi principali prodotti dalla Confraternita dei Rosa+Croce, la Confessio Fraternitatis.
Non sarebbe forse un’ ottima cosa poter leggere tutto in un unico libro e leggendolo ricordare e capire ciò che è stato, che è e che sarà appreso e scoperto in tutti gli altri libri conosciuti e pubblicati finora ed in quelli che si pubblicheranno in futuro?
Certo, chi lo avesse letto con l’occhio dell’uomo del 1600, avrebbe interpretato le parole in maniera letterale, sicuramente le avrebbe derise, ritenendole frutto di fantasia; ma così non era.
Cosa rappresentavano, dunque, le opere dei Rosa+Croce da suscitare l’interesse di uomini così tesi alla ricerca di riscontri razionali, legati al mito della tecnica e del progresso inarrestabile illuminato dalla Dea Ragione? Secondo alcune interpretazioni, gli alti gadi della massoneria, l’introduzione dei miti Templare e Rosacrociano all’ interno della gerarchia massonica, coincisero con I ‘ ingresso di borghesi in cerca di promozione sociale.
In pratica, si dice da parte di qualcuno, la borghesia desiderava sostituirsi in tutto alla nobiltà, non solo nella gestione del potere, ma anche nella considerazione sociale; il poter esibire, seppur solo nel chiuso delle logge, i gradi di Principe o di cavaliere, soddisfaceva questo desiderio, gratificando I ‘ infantilismo di questi personaggi.
Sinceramente, appare difficile pensare ad un Voltaire che si sente gratificato per così poco, certo non sembra credibile che persone come Proudhon, Bakunin, Malatesta, Costa, Pisacane e Garibaldi, rivoluzionari e demolitori di idee e di regimi, ricercassero, fra un carcere e l’altro, una lotta civile e l’altra, la magra consolazione di un ‘ insegna artificiale.
Appare in tutta evidenza che, nella scelta di introdurre il mito templare e rosacrociano all’ interno dei templi massonici, agirono motivazioni e ragioni ben più profonde, tanto da costituire, ancora oggi, la ragione d’ essere e d’ esistere dell ‘ Istituzione massonica.
A questo punto, l’unico modo per cercare di comprendere la causa di questo stretto legame nonché le ragioni della persistenza e del vigore del mito rosacrociano, è cercare di individuare alcune idee guida fra le tante che si trovano disseminate negli scritti ufficiali della Confraternita.
L’Umanesimo e la religiosità — Templari e rosacroce
Nei loro scritti, i Rosacroce si riferiscono, in molte occasioni, all’Ordine del tempio, in particolare, nella Fama si legge che la filosofia della Confraternita è
: l’ornamento della Chiesa e l’onore del Tempio
Nelle Nozze chimiche, Christian Rosenkreuz, prima di iniziare il proprio viaggio iniziatico, indossa il suo:
Bianco abito di lino
e si cinse i fianchi
di una fascia vermiglia che s’incrociava dietro le spalle
e, più avanti, il settimo giorno del suo viaggio, nel ricordare l’onore che gli fu tributato, ricorda che a lui venne permesso di cavalcare accanto al re e, scrive:
ciascuno di noi portava uno stendardo bianco come la neve, con sopra una croce rossa.
Non possono esistere dubbi sul fatto che la Confraternita dei rosacroce intendesse operare seguendo il solco tracciato dai Templari, considerazione peraltro rafforzata dalla descrizione della vita e delle opere dei primi confratelli, monaci e costruttori, come riportato dalla Fama, di un:
Edificio dedicato allo Spirito Santo
Per quale motivo i fratelli rosacroce decisero di ricercare un legame con il Tempio e, ancora, perché mai i massoni dell ‘ illuminismo e del positivismo continuarono a ricercare questo legame, senza mai rinnegarlo come ciarpame irrazionale?
Intanto, come ricorda René Guénon, la tradizione esoterica ha un fine ultimo, uno scopo preciso, quello di completare la Grande Opera.
Simbolicamente, essa è rappresentata dal tempio di Salomone e, altrettanto simbolicamente, per poterla completare occorre trovare un numero sufficiente di pietre levigate e squadrate

Durante la costruzione, il Tempio appare senza difese, perché le mura non sono ancora costruite e per difenderlo occorre, dunque, che vi siano uomini in armi, uomini che ne comprendano l’importanza e che per esso siano disposti a sacrificare la propria vita.
I Templari fecero questo, difendendo in Palestina le vie d’accesso alla Terra Santa, ricercando, al tempo stesso, di far proseguire il camrnino della Grande Opera, acquisendo le necessarie nozioni spirituali e tecniche per cosüuire la rappresentazione terrena dell’ impegno sovrannaturale, ovverosia le grandi Cattedrali gotiche.
Dunque, richiamarsi all ‘ esempio ed alla tradizione templare significa, prima di tutto, ricordare il compito dell’uomo, la sua funzione, la sua missione.
L’uomo deve progredire verso una spiritualità profonda, deve liberarsi dalle incrostazioni della materia ilica, deve levigare e squadrare la propria anima per renderla sempre più simile all’ essenza di Dio, per poter contribuire alla costruzione del Tempio interiore.
Templari e Rosacroce, dunque, rappresentano un esempio che deve essere seguito da tutti coloro che credono nel vero progresso umano e che comprendono che il fine ultimo di questo non è la sostituzione di Dio, quanto il ricongiungimento dell ‘Uomo con Esso.
Da quest’ impegno discendono il precetto massonico di rifiuto dell’ ateismo, il voto monastico dei templari, l’ affermazione di fede da parte dei rosacroce, ma, soprattutto, la necessità di riportare l’ impegno spirituale sul piano pratico.
Quest’ultima necessità è dimosfrata dalla critica che, nella Fama, è rivolta a Paracelso, del quale, si dice:
Perse il suo tempo con una vita troppo autonoma ed incurante della società, lasciando il mondo ai suoi sciocchi piaceri.
D’ altra parte, a Paracelso viene riconosciuto un grande merito, quello di aver dato:
Maggior valore al cielo ed ai suoi cittadini, cioè agli uomini, che non ad una qualsiasi altra gloria.
L’intenzione di concorrere allo sviluppo dell’umanità traspare ancora più decisa dalla lettura della Riforma universale e generale dell ‘ intero mondo, nella quale si presenta, sotto forma di allegoria paradossale, l’ impossibilità di procedere ad una riforma vera senza partire dalla riforma delle coscienze individuali.
Insomma, esattamente lo scopo che si prefigge la massoneria, quello di elevare l’ individuo per renderlo capace di influenzare lo sviluppo ordinato, democratico e libertario della società.
I limiti della scienza
Uno dei punti cardine della filosofia rosacrociana è rappresentato dalla necessità di mantenere I ‘ unione inseparabile che deve esistere fra progresso scientifico e conoscenza della natura.
Nella Confessio Fraternitatis si legge, infatti, nel capitolo undicesimo, che, spesso:
Si opera la trasmutazione dei metalli senza abbinarla ad un’ adeguata conoscenza della natura, mentre è proprio questa ultima che, non solo ci può svelare la scienza della medicina, ma anche molti altri segreti e meraviglie. Perciò — scrivono — è meglio che coloro che possiedono ingenia, prima di occuparsi della tintura dei metalli, si esercitino ad approfondire lo studio della natura.
Nella Conf essio si invitano gli uomini di ingegno a rifuggire dai falsi alchimisti, da coloro, cioè, che, dietro pagamento, si offrono per far svelare i segreti dell’ arte sacra.
Di contro, si invitano tutti gli studiosi, gli scienziati, i sapienti, ad abbandonare la propria superbia ed ambizione, imitando I’ esempio di arabi ed africani, che usavano incontrarsi per discutere sui temi della conoscenza.
Essi auspicano la nascita di una società che si impegni ad educare i governanti ad apprendere ciò che Dio ha concesso all’uomo di conoscere e, dunque, si rivolgono ai sapienti affinché:
Con umiltà ed amore essi ci aiuteranno ad alleggerire le pene di questo mondo invece di continuare ad essere ciechi di fronte alle meravigliose opere di Dio.
Soffiatori ed Alchimisti — L’anima e la procreazione — manipolazione genetica
Il significato del messaggio rosacrociano appare ancora più chiaro solo che si rifletta sulla conclusione delle Nozze Chimiche alle quali partecipa Rosenkreutz.
Solo Lui, insieme ad altri tre, riesce ad assistere alla nascita, prodotta attraverso un procedimento chimico, della giovane coppia regale che, come si direbbe oggi è nata dalla clonazione dei vecchi re. Gli altri, non puri e non degni, sono rimasti al piano inferiore, cercando, inutilmente, di riprodurre la vita senza comprendere che, senza l’intervento divino, non è possibile il congiungimento della materia con l’ anima, elemento essenziale per la nascita della vita.
Mi riservo di approfondire in altra occasi one il significato simbolico e scientifico delle nozze chimiche, qui mi preme solo sottolineare una cosa: sicuramente ai lettori delle Nozze chimiche del seicento ma, presumibilmente, anche del primo novecento, tutta la descrizione del procedimento di riproduzione della vita sarà sembrata il frutto di una fervida fantasia. A noi, lettori di fine millennio, tutto appare molto meno favoloso di quanto possa sembrare, avendo presente i progressi della scienza genetica e biologica di questi ultimi anni.
Proprio le scoperte scientifiche di questi anni ci inducono a riflettere meglio sul significato profondo di questo scritto, soprattutto sul ruolo che, all’interno di questo, riveste il sangue e l’essenza genetica che da questo viene tratta nel lungo procedimento alchemico.
Con questo non voglio dire che i rosacroce conoscessero i segreti che oggi permettono la manipolazione genetica e la clonazione, però appare chiaro che essi ritenevano possibile creare in maniera artificiale la vita.
Ma proprio perché ritenevano questo possibile, si preoccupavano di mettere in guardia gli scienziati dal farlo, riservando, metaforicamente, solo agli eletti la possibilità di sapere, possibilmente per non fare, se non in casi eccezionali. Sicuramente, mai nessun rosacrociano, consapevole del valore della vita, della dignità umana e della pietas, componente essenziale dell’essenza umana avrebbe creato migliaia embrioni per poi procede, scientificamente e sistematicamente, con poche gocce di alcool, alla loro distruzione.
La scienza deve assecondare la natura, non sostituirsi ad essa. Questo il loro messaggio. Tant’è che, ricorda Rosenkreutz, fra le regole da rispettare, egli ed i suoi compagni di viaggio, onorati del titolo di Cavalieri della Pietra D’ oro, ce n’ era una che ritenevano quasi uno scherzo, dato che recitava: Non desidererete vivere più a lungo di quanto vi abbia concesso la volontà di Dio
Cosa che viene richiamata nella Fama, quando viene scritto che:
Sebbene i loro corpi fossero immuni da ogni malattia e dolore, tuttavia le loro anime non potevano oltrepassare i termini stabiliti ad esse dalla morte.
Ecco dunque che per i massoni, uomini razionali, studiosi, scienziati, l’esempio rosacrociano appare Come un simbolo necessario per rafforzare, nello stesso tempo, la fiducia nelle capacità di conoscenza dell’uomo e la fede nella trascendenza.
Senza fede, senza la consapevolezza dell ‘umana precarietà, la scienza non produrrà progresso, ma solo ricerca dell ‘ oro e soddisfazione della vanità personale.
Come scrivono i fratelli rosacroce:
Per i veri filosofi la fabbricazione dell’oro è cosa di scarso valore, e che oltre ad essa si possono fare mille cose migliori.
La Lingua ed il simbolo
Nel loro impegno per la diffusione della conoscenza e nel loro appello per la nascita di rapporti stretti, di collaborazione, fra sapienti di tutto il mondo, più volte i fratelli rosacroce trattano il tema della lingua, intesa come veicolo di dialogo e di fratellanza. Nel capitolo nono della Confessio, essi scrivono che:
Abbiamo creato un nuovo linguaggio, tramite il quale è possibile esprimere ed interpretare la natura delle cose.
A proposito delle lingue parlate, essi dichiarano di non essere in grado di esprimersi chiaramente attraverso di esse, perché, scrivono:
Queste lingue non possono venir paragonate a quella di Enoch e di Adamo, nostro padre originario, perché esse furono completamente contraffatte quando avvenne la confusione delle lingue babilonese.
Nei manifesti affissi a Parigi nel 1623, essi affermano di poter rivelare come parlare le lingue dei paesi dove vogliamo essere. E’ di tutta evidenza che per poter diffondere la conoscenza è necessario che, per prima cosa, sapienti e discenti si comprendano.
Il rito come metalingua internazionale
La massoneria, universale per scelta e necessità, ha cercato di tradurre in realtà l’insegnamento rosacrociano attraverso il rito. Attraverso la ritualità simbolica, il significato del simbolo, essa ha realizzato una metalingua, che può essere compresa ad ogni latitudine e longitudine e che consente a chiunque la conosca, di poter seguire i lavori rituali, in qualsiasi parte del mondo esso si trovi e qualunque lingua egli parli.
Oggi abbiamo Garcia Marquez che invita, paradossalmente e provocatoriamente, ad abbandonare la grammatica, per cercare un modo più immediato di comunicazione. E’ dvvio che questa affermazione è priva di valore, se non valesse come testimonianza di un sintomo reale di inadeguatezza dei linguaggi, non del tutto idonei ad assolvere alle funzioni a cui sono chiamati.
Non è, però, rinunciando alla grammatica che si può ovviare al problema, quanto diffondendo la conoscenza ricercando una lingua comune.
Conclusione
Al termine di questa breve e mi auguro non troppo noiosa disamina, ritengo opportuno sintetizzare quelli che ritengo essere i principi cardini del pensiero rosacrociano che, attraverso la ritualità e la tradizione, sono stati inglobati dal pensiero massonico e che, ancora oggi, mostrano una notevole vitalità.
Per rispondere alla domanda che ci siamo posti all’inizio, ovverosia quali motivi potrebbero aver indotto uomini legati al pensiero illuminista e positivista a rifarsi al mito rosacrociano, possiamo affermare che il simbolismo rosacrociano risponde ad impegni che trovano una corispondenza nel pensiero e nell’ azione massonica.
Questi impegni possono essere sintetizzati come segue:
— Impegno individuale
— Impegno sociale
— Impegno culturale e linguistico Impegno scientifico
— Impegno religioso
Per prima cosa, dunque, vi era, sia per i rosacroce che per i massoni, la necessità di difendere ed espandere i principi umanistici, ponendo l’attenzione allo sviluppo dell’individuo e della sua personalità, difendendolo da ogni tentativo culturale teso a subordinarlo a principi sovraindividuali, propri di culture totalitarie e totalizzanti.
Quindi, tutelare il progresso scientifico e culturale da ogni tentativo di compressione da parte del potere costituito, sia esso di carattere politico o religioso, pur riconoscendo che un limite deve essere imposto dalla coscienza stessa dei sapienti, consapevoli del fatto che non deve essere turbato il rapporto fra microcosmo e del macrocosmo e che ogni progresso deve essere in armonia con la natura.
Da questi principi discende la consapevolezza che l’uomo non può mai sostituirsi a Dio, che non deve arrogarsi il ruolo di demiurgo e che, soprattutto, non può alterare il ciclo della vita, cercando di ritardare la morte oltre ogni limite accettabile o generando la vita al di là delle naturali possibilità.
In definitiva, l’uomo rosacrociano e massonico ricerca l’equilibrio, la propria e l’ altrui perfezione per essere in sintonia con un universo del quale fa parte ed al quale appartiene.
Per assolvere a questo impegno, per contribuire alla realizzazione della Grande Opera, egli non può, però, limitarsi a curare il proprio perfezionamento, perché altrimenti potrebbe essere oggetto di critiche come Paracelso.
Egli deve operare come i Templari, agendo sul piano anche terreno, cercando di condizionare la realtà che lo circonda, al fine di renderla pronta per accogliere il completamento della Grande Opera.
Dunque, deve cercare di coinvolgere i sapienti e gli studiosi in un grande impegno culturale universale, ricercando una lingua comune, seguendo, in questo, l’esempio del fratello Zamenhoff, il doctor Esperanto.
Se questo sapremo comprendere, avremo compreso molti dei motivi che indussero i migliori uomini del secolo scorso ad adottare la simbolica discendenza della massoneria dai rosacroce e, soprattutto, avremo adempiuto al nostro principale dovere, quello di contribuire al progresso ed allo sviluppo dell’umanità ed al rafforzamento della spiritualità laica e massonica.
Fra questi compiti, vi è anche quello di difendere la libertà di studiare la storia, il rivendicare il diritto dei giovani e dei meno giovani di conoscere culture e racconti storici oggi esclusi dall’ufficialità
Mi riferisco proprio allo studio della cultura templare, rosacrociana e massonica, oggi esclusa dallo studio, non figurando alcun accenno nei libri di filosofia, storia, letteratura, quasi la loro influenza non fosse stata determinante per la formazione culturale di persone come Dante Alighieri, Giuseppe Garibaldi, Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti, Einstein e tanti altri.
Se tutti avremo ben compreso il vero insegnamento, sapremo sicuramente come comportarci.’

 

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Il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi ORIGINAE

Il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi
“Il Cantico delle Creature”, conosciuto anche come “Il cantico di Frate sole e Sorella Luna” è la prima poesia scritta in italiano. Il suo autore è Francesco d’Assisi che l’ha composta nel 1226.
La poesia è una lode a Dio, alla vita e alla natura che viene vista in tutta la sua bellezza e complessità.

Testo tradotto in italiano:

Altissimo, onnipotente, buon Signore
tue sono le lodi, la gloria e l’onore
ed ogni benedizione.
A te solo, Altissimo, si confanno,
e nessun uomo è degno di te.
Laudato sii, o mio Signore,
per tutte le creature,
specialmente per messer Frate Sole,
il quale porta il giorno che ci illumina
ed esso è bello e raggiante con grande splendore:
di te, Altissimo, porta significazione.
Laudato sii, o mio Signore,
per sora Luna e le Stelle:
in cielo le hai formate
limpide, belle e preziose.
Laudato sii, o mio Signore, per frate Vento e
per l’Aria, le Nuvole, il Cielo sereno ed ogni tempo
per il quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato sii, o mio Signore, per sora Acqua,
la quale è molto utile, umile, preziosa e casta.
Laudato sii, o mio Signore, per frate Fuoco,
con il quale ci illumini la notte:
ed esso è robusto, bello, forte e giocondo.
Laudato sii, o mio Signore, per nostra Madre Terra,
la quale ci sostenta e governa e
produce diversi frutti con coloriti fiori ed erba.
Laudato sii, o mio Signore,
per quelli che perdonano per amor tuo
e sopportano malattia e sofferenza.
Beati quelli che le sopporteranno in pace
perchè da te saranno incoronati.
Laudato sii, o mio Signore,
per nostra sora Morte corporale,
dalla quale nessun uomo vivente può scampare.
Guai a quelli che morranno nel peccato mortale.
Beati quelli che si troveranno nella tua volontà
poichè loro la morte non farà alcun male.
Laudate e benedite il Signore e ringraziatelo
e servitelo con grande umiltate.

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NCONTRO CON VITTORIO GNOCCHINI NEO DIRETTORE DELL’ARCHIVIO STORICO

INCONTRO CON VITTORIO GNOCCHINI NEO DIRETTORE DELL’ARCHIVIO STORICO DEL GRANDE ORIENTE D’ITALIA

Note biografiche

Vittorio Gnocchini è nato a Terni il 28 luglio 1942; sposato con tre figli, risiede da 25 anni in provincia di Arezzo. Dirigente di aziende industriali, attualmente è uno degli amministratori e direttore di una società commerciale.

Da circa trent’anni studia il Risorgimento del nostro Paese. Passando attraverso la storia militare e delle armi dell’ottocento italiano, Garibaldi e le formazioni garibaldine, su cui ha scritto dei brevi saggi, si è avvicinato, dopo la sua Iniziazione Massonica, fatalmente allo studio della storia della Massoneria.

Iniziato Libero Muratore il 5 maggio 1969, nel 1971 risolleva le Colonne della Massoneria Ternana, fondando la Loggia Tacito no 740, all’Oriente di Terni.

Nel 1994 da alle stampe “Almanacco Massonico – Fatti di cronaca italiana – 1725/1994” con la presentazione del Ven.•.mo Gran Maestro, avv. Virgilio Gaito, nei tipi dell’Editore Pontecorboli di Firenze. Ha scritto, in collaborazione con il prof. Telesforo Nanni, la storia della Massoneria a Terni. A breve è prevista la pubblicazione della prima delle tre parti.

Di prossima pubblicazione sarà “11 Grande Atlante delle Logge Italiane dal 1731 al 1931 un’opera poderosa alla quale sta lavorando da oltre dieci anni.

Collabora alle Riviste “Agorà”, a cura del Collegio Circoscrizionale dei MM.•. VV.’. della Puglia, e “11 Laboratorio” a cura del Collegio Circoscrizionale dei MM.•. VV.•. della Toscana.

Organizza e presenta i convegni di studio di Sansepolcro, che si tengono ogni anno presso la Sala Consiliare del Comune, sotto gli auspici della R.•.L.•. Alberto Mario no 121, alla quale appartiene come membro effettivo.

Ha tenuto conferenze a studenti e docenti di liceo su Risorgimento e Massoneria.

A quale esigenza risponde l’istituzione di un archivio?

Un archivio raccoglie, per definizione, atti e documenti pubblici o privati di un ente amministrativo, un’azienda, un istituto culturale o di singole famiglie. Deve quindi assolvere l’esigenza della consultazione a storici e studiosi.

Puoi descriverci la consistenza attuale dell’Archivio?

L’Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia ospita i documenti ufficiali dai primi anni del 1800 al 1925, ovvero dalla massoneria napoleonica all ‘autoscioglimento delle Logge del Gran Maestro Domizio Torrigiani. Custodisce inoltre una serie di fondi che, oltre ad aver aumentato quantitativamente la portata dell’Archivio, in parte riescono a sopperire i vuoti causati dalle vicissitudini nel tempo subite nel nostro

Paese dal Grande Oriente d’Italia. Tali fondi provengono da donazioni e acquisizione effettuate dal G. • in tempi diversi. A tutto ciò si aggiunga una consistente raccolta di giornali dal 1864 al 1925.

Ho ritenuto opportuno far richiesta al Ven. •.mo Gran Maestro di spostare il termine ultimo di competenza dell’Archivio dal 1925 al 1960, in quanto nel periodo del dopoguerra, che va dal 1944 al 1960, la Massoneria Italiana ritrova una sua pressoché definitiva stabilità. Inoltre , in tal modo, sarà possibile inserire nell’Archivio anche il Fondo Piazza del Gesù, che contiene documenti dal 1944 al 1973, anno in cui venne firmato il Protocollo di Riunificazione Salvini – Bellantonio.

Hai seguito un tuo programma di riorganizzazione o hai continuato a seguire le precedenti impostazioni?

Era stato iniziato dai miei Predecessori un primo riordino dei documenti e in parte l’inventario. Se avessi dovuto iniziare “ex novo”, probabilmente avrei dato un’impostazione diversa. Allo stato attuale sarebbe stato ingiusto e fuori luogo vanificare gli sforzi e l’impegno profuso da .chi, prima di me, si è occupato dell’Archivio. Pur continuando, in linea di massima, su quella falsariga, ho voluto però sfruttare i mezzi che la tecnologia oggi ci mette a disposizione: abbiamo approntato infatti un programma di database per la registrazione computerizzata di tutti i documenti, al fine di reperire con immediatezza I ‘ubicazione di tutte le “carte” relative ad ogni ricerca. Inoltre stiamo valutando l’opportunità di affidare ad istituti specializzati il restauro di molti documenti, prima ancora di essere catalogati e ubicati, per salvarli dall’incuria del tempo e degli uomini.

E’ possibile un raccordo sinergico con gli archivi di altre Famiglie massoniche italiane e di altre Potenze Estere per scambi documentali, o più in generale, per scambi culturali?

Innanzi tutto dobbiamo renderci conto che quello del Grande Oriente d’Italia è I ‘Archivio Storico della Massoneria Italiana. In esso troviamo testimonianze, più o meno rilevanti, anche di altre Obbedienze che in due secoli si sono affacciate sul territorio nazionale. Tuttavia, ciò non significa che dobbiamo chiuderci in una torre d’avorio. Al contrario, ritengo importante tenere contatti sempre più stretti con altre Famiglie massoniche. Personalmente da anni, ormai, ho rapporti con eminenti studiosi della Serenissima Gran Loggia, meglio conosciuta come Piazza del Gesù, con i quali esiste un serio e sincero rapporto di scambio di informazioni e documentazioni. Spesso siamo citati nella loro bella Rivista “Officinae”. Per quanto riguarda i rapporti con Potenze Massoniche Estere, li ritengo egualmente importanti. Ricordiamoci che molto della nostra storia settecentesca è depositata negli archivi massonici europei: in Francia, Olanda, Belgio, ecc. Dovremmo iniziare, quanto prima, una collaborazione di interscambio con tali Comunioni, tenuto anche conto che già alcuni nostri Fratelli hanno iniziato a prendere contatti con i responsabili degli Archivi di quei Paesi.

Esiste una sensibilità da parte del Governo dell’Ordine per la soluzione dei problemi che potresti incontrare nello svolgimento del tuo lavoro e per il recupero di  carteggj  presso qualche erede di Massoni?

Devo affermare che da parte del Ven. •.mo Gran Maestro e del Suo Delegato per la Cultura il Ven. •.mo Gran Maestro Aggiunto, Fr.•. Mario Rigato, ho trovato la massima disponibilità e collaborazione nel risolvere i problemi più urgenti e far si che I ‘Archivio non diventi un ammasso di carte, ma uno strumento vivo e vitale, utile a studiosi e ricercatori di due secoli di storia italiana, perché di questo si tratta; la storia della Massoneria corre sulla stessa strada della storia d’Italia e di essa è parte integrante e imprescindibile.

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, posso affermare che sono stati presi già contatti con gli eredi e attuali proprietari perché vengano acquisiti Archivi privati e carteggi di Massoni illustri purtroppo passati all’Oriente Eterno. Pur non potendo ancora rendere noti i nomi, per ovvii motivi di opportunità e riservatezza, ritengo che a breve possa essere data per certa la conclusione in modo positivo.

Quanto e come I ‘Archivio Storico può essere un mezzo per far conoscere nel mondo profano la nostra Istituzione?

Purtroppo una irresponsabile informazione dei mass-media ha determinato nell ‘ opinione pubblica considerazioni che poco hanno a che fare con la nostra Istituzione. Ritengo che la Massoneria possa e debba uscire allo scoperto con programmi sempre più intensi, rivolti a manifestazioni culturali e I ‘Archivio Storico, anche in tal senso, può essere un valido aiuto. Da tempo registriamo che non solo il Grande Oriente d’Italia, ma anche Collegi Circoscrizionali dei Maestri Venerabili, e singole Logge, organizzano sempre con maggior frequenza e incisività, convegni di studio di eccellente livello culturale, i cui i relatori, massoni e profani, si rivolgono a platee sempre più vaste, allo scopo di far cadere una volta per tutte preconcetti e preclusioni di ordine ideologico, politico e religioso sulla nostra Istituzione.

La tua opinione sulla storiografia massonica attuale. E’ più affidabile, sotto il profilo dell’obiettività e della completezza una ricerca di uno storico-profano ovvero di un massone appassionato di storia delle radici della propria identità?

E’ un falso problema. Cominciamo col dare una definizione, la mia definizione: lo storico ha la funzione di riferirci, documentandoli, i fatti supportato dalla propria “scienza e coscienza”, ma descrive uno scenario dal suo punto di vista, frutto di considerazioni personali che non sempre possono collimare con altri, ugualmente coscienziosi. Su questa base l’affidabilità è sicuramente totale, sia che venga data un’aggettivazione che l’altra al sostantivo “storico”. Altra cosa è invece parlare di conoscenza della Massoneria, nella sua essenza, nei suoi canoni mai scritti ma osservati e tramandati fino a noi; allora per comprenderla è necessario farne parte e apprendere con un lungo lavoro di ricerca introspettiva quei “segreti” che nessuno mai ha potuto rivelare, anche volendolo. • effegi

 

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LA CERTOSA DI FIRENZE, LA SUA TESTIMONIANZA ARTISTICA, CULTURALE E SPIRITUALE

 

Daniele Mucci

Premessa

È’ evidente che uno studio completo e dettagliato sulla Certosa del Galluzzo non può essere esaustivo in un saggio da svolgere nel tempo concesso al relatore delegato a presentare, principalmente, un “abstract” che può essere in seguito, al massimo, assunto come percorso da seguire per una ricerca a livello storico, architettonico, religioso e anche sociale, più ampia e determinante.

La bibliografia esistente sul complesso monumentale è però così vasta che, da sola, prova l’importanza e il valore culturale della struttura e questo può essere di valido supporto se l’argomento, come è auspicabile, interesserà analisi più impegnative e specifiche.

Introduzione

L’intenzione di fondare nei pressi della propria città natale un monastero dell’Ordine della Certosa fu espressa pubblicamente per la prima volta da Niccolò Acciaiuoli nel 1328 a Napoli, dove ormai da sette anni dimorava per curare gli interessi della propria famiglia e dove aveva già iniziato la sua ascesa sulla scena politica del regno angioino. Nella città partenopea egli aveva potuto constatare il grande impegno che il re Roberto e l’intera corte ponevano nell’edificazione della Certosa di San Martino, fondata nel 1325 dal primogenito del re, Carlo, duca di Calabria, morto ancor giovane. Gli Angioini, strettamente legati alla Francia e ad Avignone, favorirono pienamente l’Ordine certosino e nella costruzione di quel grande monastero, che con i suoi edifici dominava la città, l’Angiò vedeva sicuramente un motivo di prestigio per il suo regno. Niccolò, già attratto dagli onori e dalla gloria, non poteva non rimanere colpito da quell’evento e lui stesso, anni più tardi, vorrà parteciparvi faAlessandro Cecchini: Veduta della Certosa di Firenze (circa 1700) cendo costruire quattro

cappelle nella chiesa della Certosa napoletana.

ale Emulazione ed ambizione dunque, desiderio di grandezza e di fama imperitura sono alla base della fondazione della Certosa di Firenze; ma anche un primordiale amore per la religione in quell’istintivo desiderio di salvare l’anima, che era l’unico che l’Acciaiuoli, nel suo spirito, impulsivo ed irrequieto, poteva comprendere. Ottenute le debite licenze dal Generale dell’Ordine e dal vescovo di Firenze, durante un lungo soggiorno nella città natale quale ambasciatore del re Roberto d’Angiò — in un momento delicato della vita politica fiorentina che vide di lì a pochi mesi il governo tirannico del duca d’Atene, Gualtieri di Brienne — Niccolò Acciaiuoli, 1’8 febbraio 1342, poté realizzare il trasferimento all’Ordine certosino delle terre e dei beni necessari per l’istituzione e la costruzione del nuovo monastero. Fu del prescelto a tal fine il colle detto “Monte Acuto”, alla confluenza dei torrenti on- Greve ed Ema, presso il Galluzzo, lungo l’importante strada per Siena e per che Roma. L’atto di donazione delle terre e dei beni all’Ordine certosino è molper to preciso nelle disposizioni relative all’edificazione del monastero, che si più delinea in tutta chiarezza “secundum laudabilia dicti ordinis instituta et consuetudinem approbatam”: cioè un complesso, dedicato a San Lorenzo, sta per dodici monaci e un priore, con una chiesa, un oratorio, capitolo, sagrestia, cappelle, tredici celle e tutti gli altri edifici necessari a condurvi una vita conventuale nell’osservanza della regola.

Si poté dunque dare inizio all’erezione del nuovo insediamento nella primavera del 1342; e quando, nel settembre dello stesso anno, fu perfezionato il totale possesso da parte dei certosini del poggio di Monte Acuto con l’acquisto di altre estensioni di terreno dal pievano di Sant’Alessandro a Ita Giogoli, intervenne già nella stipulazione dei relativi atti il primo priore di San Lorenzo a Montesanto, don Roberto da San Miniato.

Dopo la nomina a Gran Siniscalco del regno angioino e dopo l’acquisto di grandi feudi in Grecia e nell’Italia meridionale che resero Niccolò Acciaiuoli uno degli uomini più ricchi del suo tempo si iniziò ad erigere, a 25 fianco del monastero, quel “palatium magnum” che ancor oggi si impone e, alla vista di chi sale alla Certosa, quale magnifica dimora personale di a, Niccolò, con ampie sale e annessi giardini e “con altro adornamento que axtimare si potesse dovere essere suficente ale persone d’ogni inlustriximo et sereniximo principe, non ecieptuandone papa né imperatore”.

In una lettera del 3 aprile 1336 viene indicato il nome del principale architetto responsabile del complesso trecentesco e precisamente fra Jacopo e Passavanti, il priore di Santa Maria Novella, che si avvalse dell’opera di Jacopo Talenti, nome certo di non secondo piano nell’ambiente artistico fiorentino. i L’architettura essenziale e solenne in cui gli elementi decorativi sono ridotti al minimo induce a ragionevolmente sostenere che — come afferma il Vasari — la Certosa fu opera di “valentuomini” vissuti al tempo dell’Orcagna.

Nella costruzione della Certosa si incontrarono e perfettamente si fusero due tradizioni architettoniche diverse. Da una parte gli schemi tipici dei i monasteri certosini e dall’altra gli elementi morfologici e la tecnica edificatoria che risalgono direttamente ai modi dell’architettura fiorentina  attuati dalle maestranze locali e che si possono riscontrare in altri edifici coevi di Firenze e del suo contado. Contemporaneamente alle grandi cure che nel 1336 egli prestava alla fabbrica del proprio palazzo, Niccolò continuò ad interessarsi con sollecitudine degli edifici monastici, mostrandosi in ciò rispettoso delle iniziative dei monaci. Non solo tali lavori non furono trascurati ma si iniziò anche una nuova fase di essi. In una lettera al priore della Certosa, del 1 0 luglio 1336, egli manifesta il proposito di far “duplicare” il monastero, di passarlo cioè al rango di Certosa doppia con la costruzione di altre dodici celle per i monaci. Questa intenzione sarà riformulata in termini analoghi nel testamento del 1359, nel quale si specifica che le nuove celle dovranno costruirsi “juxtaformam aliarum cellarum”. Col che veniamo a sapere che un primo chiostro con le relative celle già esisteva in Certosa a quell’epoca. La Certosa fiorentina probabilmente non giunse mai ad essere una vera e propria Certosa doppia, ma neppure rimase una Certosa semplice per soli dodici monaci ed un priore. Dopo il totale rifacimento del chiostro grande ai primi del Cinquecento, vi si potevano contare diciannove o venti celle regolari, e bisogna pure tenere presente che la cella del procuratore, come già appare in un documento della seconda metà del Quattrocento, si trovava “extra claustrum”.

Già alla morte di Niccolò Acciaiuoli la Certosa di Firenze era sostanzialmente compiuta, proprio negli anni prossimi a quella data, soprattutto tra il 1362 e il 1370, vengono registrati nei libri di memorie del monastero grandi acquisti di terre e beni immobili, mentre non si accenna mai a spese per completamento o l’ampliamento delle fabbriche. Certamente la chiesa e tutte le strutture del complesso monastico erano perfettamente agibili prima del 1380, altrimenti non si potrebbero spiegare gli avvenimenti di cui la Certosa di Firenze fu teatro negli anni compresi fra il 1380 ed il 1390, e che le fecero assumere una posizione particolarmente importante in seno all’Ordine. Il 30 maggio 1380 vi si tenne infatti un Capitolo speciale di una parte dell’Ordine che ribadì la sua fedeltà al papa di Roma, Urbano VI, mentre il Capitolo Generale della “Grande Chartreuse” fu costretto a parteggiare per l’antipapa avignonese, Clemente VII.

Nel 1383 la Certosa di Firenze fu scelta quale sede generalizia dei certosini all’obbedienza romana e il suo nuovo priore, don Giovanni da Bari, assunse il titolo di “Prior Cartusiae Maioris”. Fu qui che si tennero i Capitoli generali dei certosini fedeli a Roma negli anni 1385, 1388 e 1389. Ma la guerra tra Firenze e Milano, apertasi proprio in quest’ultimo anno, costrinse il Capitolo generale del 1391, tenuto a Montello (Treviso), a decidere il trasferimento della Sede generalizia da Firenze alla Certosa austriaca di Seitz, la più antica per fondazione (1160) tra quelle delle Province dell’Ordine fedeli a Roma.

Al chiudersi del secolo la Certosa si mostrava perfetta e grandiosa a coronamento del Monte Acuto. I suoi edifici, le celle, le fortificazioni, la chiara sagoma della chiesa, si stagliavano contro il cielo sollevando la meraviglia dei viandanti, come poteva tranquillamente annotare, nel 1440, Matteo Palmieri nella sua opera “Vita Nicolai Acciaiuoli”. La sua costruzione fu un fatto notevole per gli eventi dell’architettura fiorentina del Trecento e la chiesa monastica in particolare rappresentò un fatto nuovo: con la semplice, unica navata coperta da ampie volte a crociera, essa rispecchiava pienamente i modi dell’architettura certosina, mentre non rispondeva affatto alla tradizione stabilitasi in Firenze fin dall’epoca romanica e protrattasi in periodo gotico. Secondo quest’ultima infatti le chiese a sala, cioè a unica navata, erano coperte sempre con tetto ligneo a capriate in vista.

Ed è alla Certosa stessa che allo schiudersi del nuovo secolo troviamo in costruzione un altro sacro edificio ancora una volta ispirato ai modi dell’architettura certosina: la Cappella di Santa Maria, alla quale si lavorava nel 1404. La chiesa di Certosa, col suo spazio interno unitario e chiaramente definito, con la sobria decorazione pittorica che, nei limiti imposti dagli statuti, probabilmente ornava le pareti e le volte, il ritmo ampio e lento dello svolgersi di queste ultime, deve aver, certamente, sensibilizzato gli architetti fiorentini a nuove e diverse ricerche dello spazio architettonico che verranno accolte ed elaborate, ormai in pieno Quattrocento, soprattutto da Michelozzo e dagli artisti più legati al suo ambiente.

 

a- singoli ambienti, seguite immediatamente dalle attività degli artisti impegnati nell’arredo. I maggiori interventi furono patrocinati da personalità interessate all’evoluzione della Certosa fra le quali, oltre al fondatore e altri ù membri della sua famiglia, si annoverano alcuni priori illuminati che favorirono un incremento delle cosiddette “arti minori”, come l’oreficeria e l’arte libraria. I monaci certosini, pur nel chiuso delle loro celle, trovavano in li realtà all’interno del monastero molti incentivi atti a mantenerli in stretto contatto con i contemporanei movimenti culturali. Il Vasari attesta la presenza, che non può oltrepassare la metà del XIV secolo, di Buffalmacco, che avrebbe eseguito due tavole a tempera, delle quali “l’una è dove stanno per il coro i libri da cantare, e l’altra di sotto nelle cappelle vecchie”. Ancora il Vasari informa che Antonio Veneziano dipinse per l’altar maggiore una tavola andata distrutta, poco prima della metà del Cinquecento, in un incendio sviluppatosi per inavvertenza del sagrestano che aveva lasciato un turibolo acceso.

In questo periodo la Certosa doveva già presentarsi degna di accogliere inestimabili tesori, ma è difficile ricostruire con precisione come fosse veramente strutturata nel Trecento, dal momento che per la parte più antica, cancellata anche da interventi successivi, sussiste una forte carenza di documenti. Lo stesso Vasari, fonte di preziose notizie, costituisce una testimonianza ormai tarda preceduta da troppe vicende intervenute a trasformare il volto del monastero, fra cui la più penosa fu certamente l’assedio di Firenze del 1530, che vide il convento ridotto a quartier generale delle truppe imperiali, sebbene molto più significative sarebbero state le ristrutturazioni condotte dall’ultimo quarto del XV secolo alla metà del XVI.

Tuttavia la Certosa del Trecento ci ha tramandato il complesso scultoreo più splendido di tutto il monastero, composto dai più eccezionali capolavori dell’arte del tempo. Esso comprende il monumento funebre di Niccolò Acciaiuoli e le tre lastre terragne di Acciaiuolo, Lorenzo e Lapa da attribuirsi, senza alcun dubbio, a uno o più scultori attivi nell’ambito dell’Orcagna e la cui realizzazione risale al 1385. Questo periodo, compreso tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento è caratterizzato da un notevole incremento artistico che coincise con l’edificazione della Cappella di Santa Maria, unica opera promossa — dopo quelle del fondatore — da un membro della famiglia Acciaiuoli. I grandi interventi successivi saranno diretti esclusivamente dai priori del monastero. L’edificazione della Cappella costituisce un momento importante per l’evoluzione architettonica e artistica della Certosa. La pianta si presenta a croce greca, pur trattandosi di una navata divisa in tre campate e la struttura architettonica con le volte a crociera costolonata impostate su archi a sesto acuto, come pure le finestre a ogiva, rivelano un linguaggio gotico, ma si avverte una più decisa definizione dello spazio — nel rigore quasi geometrico dell’impostazione dei pilastri e nell’identica altezza delle volte che frena lo slancio ascensionale gotico che prelude allo spirito del primo Rinascimento.

È un’architettura questa dalla quale Michelozzo potrebbe aver tratto molti suggerimenti e ciò non solo in relazione alla concezione spaziale e  agli elementi morfologici dell’interno, ma anche dalla studiata volumetria del corpo esterno, dove è presente, come elemento decorativo, un cornicione in cotto situato immediatamente sotto la gronda, costituito da mattoni disposti a dente di lupo, motivo che diverrà tipico delle architetture michelozziane.

Terminati i lavori alla Cappella di Santa Maria, le attività in Certosa sono caratterizzate da un lungo periodo di stasi che si protrae fino alle soglie dell’ultimo quarto del XV secolo e investe tutti i campi della vita culturale.

 

Nuovo colloquio ideale tra il monaco e Dio. Momento essenziale della formazione del monaco-eremita è la “scuola” della cella, tra le cui mura egli, durante quasi l’intero arco della giornata, si dedica alla “lectio divina”, alla “meditatio” e al lavoro manuale, secondo un costume che deriva dalle più antiche forme eremitiche del cristianesimo orientale. Ciò che caratterizza però in modo nuovo l’istituzione certosina è il fatto che l’eremita non è lasciato solo a se stesso nel suo difficile cammino verso Dio, poiché egli viene a far parte di una vera comunità che trova il suo momento di coesione in determinate pratiche di vita cenobitica, proprie anche alla tradizione benedettina, quali la corale recita di alcune parti dell’ufficio divino e, a seconda dei giorni e delle circostanze, la refezione comune, la riunione capitolare dell’intera comunità, l’assoluta obbedienza che in ogni istante è dovuta al priore del monastero.

In ogni Certosa la comunità monastica è rigorosamente distinta in due categorie di religiosi: i monaci eremiti da una parte, che vivono in pieno il “propositum cartusiense” ed ai quali è demandato il governo della collettività stessa e i fratelli laici o conversi dall’altra, che sotto la direzione del priore e del procuratore, pur non tralasciando affatto la preghiera, si interessano in primo luogo delle esigenze materiali della comunità e dell’amministrazione dei possedimenti del monastero. Nei primi due secoli di vita dell’Ordine queste due categorie di religiosi formarono quasi due distinte strutture, che oltretutto risiedevano in complessi monasteriali diversi, posti ad alcune miglia di distanza l’uno dall’altro: i monaci nella “domus superior” o “casa alta” — la Certosa vera e propria — e i fratelli conversi nella “domus inferior” o “casa bassa”, una specie di grangia, ma più sviluppata di questa, con celle ed oratorio, ove si svolgevano tutti i servizi manuali a favore della confraternita. La domenica e nelle altre feste le due congregazioni si riunivano però nella “domus superior”.

Il riunirsi delle due comunità in un unico complesso monasteriale determinò la definitiva formazione della tipologia del monastero certosino. In realtà la pianta di una Certosa può variare profondamente da una casa all’altra e non si riscontra mai l’adozione normativa di uno schema-tipo, come avviene invece per le abbazie cistercensi del XII-XIII secolo. In questa varietà vengono però sempre rispettati, nel corso dei secoli, certi rapporti di vicinanza e di collegamento tra i vari ambienti e certe loro caratteristiche fondamentali.

Pur accogliendo la tradizionale tipologia monasteriale certosina, le Certose trecentesche non solo regolarizzarono gli schemi distributivi e le strutture delle costruzioni, ma nell’espressione delle loro architetture tendevano ormai a realizzare una maggiore armonia e perfezione, talvolta anche di una grandiosità di forme, che non rifuggivano da valutazioni d’ordine essenzialmente estetico. In questo senso la volontà dei fondatori si faceva sempre più preponderante, volendo essi dar vita a monumenti che per i loro pregi artistici ricordassero ai posteri la loro magnificenza e liberalità verso la Chiesa. Esempio emblematico di questa tendenza sarà, alla fine del Trecento (1393), la Certosa di Pavia, costruita in forme ricche e fastose, devianti da qualsiasi tradizione dell’Ordine, per volontà del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, che invano i certosini tentarono di contrastare. Ciò accadde anche per la Certosa di Firenze.

Sviluppo e vita della Certosa fiorentina dalla fondazione alla soppressione

La vita del monastero è inscindibile dall’evoluzione artistica e architettonica oltre agli sviluppi, successivi, relativi alle trasformazioni dei

 

A parte alcuni interventi alla cella del priore, iniziati nel 1466, è solo negli ultimi anni del Cinquecento che si manifesta una precisa volontà di rinnovamento edilizio, il quale ben presto coinvolge anche la pittura e la scultura, mentre già dai primi anni dell’ottavo decennio assistiamo ad un intensificarsi delle commissioni per opere di oreficeria e miniatura, tutte andate perdute e che rivivono soltanto attraverso i documenti.

Sotto il priore don Gregorio d’Alemagna, nel biennio 1484-1485 veniva edificato il chiostrino dei conversi alle cui celle si lavorava già da un anno e che è il primo ambiente in Certosa edificato in forme rinascimentali, pur essendo impostato sulle strutture di una preesistente corte trecentesca. Esso è costituito da un doppio ordine di loggiati: quello inferiore è coperto a volte a crociera sostenute da colonne con capitelli a palmette, quello superiore da volte a vela poggianti su colonne sormontate da capitelli in stile ionico.

Quest’ultimo è certamente dovuto a un rifacimento settecentesco ma, in origine e rispettando la tradizione quattrocentesca era, senza alcun dubbio, coperto da una loggia trabeata. Il fervore edilizio di quegli anni culmina nel 1491 con la decisione di ricostruire completamente il chiostro dei monaci. Esso venne ampliato sul lato occidentale dalla parte del bosco, fatto che determinò la scomparsa degli orti dei monaci, sostituiti da questo lato da loggette.

Non appena conclusasi la costruzione del chiostro, i lunettoni angolari del loggiato divennero il supporto per gli affreschi eseguiti dal Pontormo tra il 1524 e il 1527. Essi segnano un momento fondamentale nell’arte del primo manierismo toscano per l’abbandono, da parte del Pontormo, dei modelli classici per trarre ispirazione, nel soggetto come nello stile, dal Dürer. Di fondamentale importanza è pure, in Certosa, la presenza di Andrea Della Robbia, Benedetto da Maiano e del Bronzino giovane, autore delle due lunette ad affresco il “San Lorenzo” e la “Pietà” e allievo del Pontormo.

Alla seconda metà del Cinquecento erano già iniziati i lavori di rinnovamento della chiesa e fino al 1580 assistiamo alla completa ristrutturazione della zona anteriore al monastero, consistente nell’ampliamento della chiesa e della foresteria nuova, nel completamento del palazzo Acciaiuoli ed infine, a completamento di questi lavori, nell’edificazione del grande piazzale antistante la chiesa sul quale si prospettano i tre edifici. L’abbattimento dell’antico tramezzo che divideva i monaci dai conversi, fu uno degli ultimi interventi murari, al quale seguì, all’inizio del terzo decennio della seconda metà del XVI secolo, la costruzione del coro ligneo.

Nel 1556, dopo un’interruzione di due anni, nel corso dei quali i certosini furono impegnati al ripristino dell’ospizio da loro acquistato in via San Gallo a Firenze, vennero intrapresi i lavori al nuovo coro dei conversi e, dal 1557 al 1559, si ricostruiva in forme rinascimentali anche il chiostrino dei monaci il cui lato, addossato alla chiesa, era occupato dal “Colloquio” che fu arricchito da otto vetrate decorate, due delle quali rimaste però incomplete. L’ultimo decennio del XVI secolo è monopolizzato dai lavori alla zona presbiteriale che coincidono all’arrivo in Certosa del Poccetti il quale, nel 1590 0 1591, iniziò la decorazione della “Cappella della chiesa” completandola nel 1593. Con il completamento del piazzale si concludeva ogni tipo d’intervento architettonico teso a modificare le strutture fondamentali del monastero. Questo significa che la Certosa ha ormai raggiunto un assetto monumentale dove gli ambienti sono ben definiti e attendono soltanto di venire valorizzati mediante l’arredo. Altra constatazione importante è frutto di un esame di documenti, dai quali si rileva lo stretto legame, intensificatosi con la seconda metà del Cinquecento, che unisce la Certosa ad altri monasteri dell’Ordine presenti nelle città di Bologna, Genova, Pisa e Siena, fra i quali si verifica un vero e proprio scambio di artisti.

pere di rinnovamento dell’intera zona presbiteriale della chiesa monastica, già si era dato inizio al completo rifacimento della “Cappella delle Reliquie”, preludio a quel generale riassetto di tutte le cappelle, nello sforzo di adeguare, agli indirizzi suggeriti o prescritti dalla Controriforma, quegli ambienti dove, con la celebrazione della messa individuale, il monaco viveva il momento più alto della sua quotidiana preghiera.

Nei primi anni del Seicento si ricostruì, almeno per un lungo tratto, la “clausura”, quel lungo muro di cinta, proprio ad ogni Certosa, che anche qui a Firenze comprendeva al suo interno i terreni posti immediatamente intorno al monastero e di sua stretta pertinenza, cioè in definitiva tutto il Monte Acuto, dalle sue falde lungo la Greve e l’Ema, fino alla Strada Romana.

Già nei primi anni del Settecento si attendeva a opere di elevato impegno ed interesse. Dal 1714 si lavorò alla nuova libreria e si iniziò la revisione dell’archivio con il restauro e la rilegatura dei libri di alto valore artistico, storico e culturale. Nel 1752 fu redatto un nuovo inventario dell’archivio, conservatosi per lungo tempo in Certosa anche dopo le soppressioni. Nel 1794 si dava inizio all’ultimo intervento che in Certosa modificò in maniera sostanziale gli ambienti interessati: il completo riassetto delle quattro cappelle, l’una di seguito all’altra, adiacenti alla chiesa. Pareva che i monaci non si dessero cura degli eventi politici rivoluzionari, che in quegli anni si profilavano ormai, non più soltanto all’orizzonte.

Il 9 gennaio 1801, essendo giunti e installati in Certosa centocinquanta soldati francesi, i monaci fuggirono al Castellare rientrando solo dopo alcuni mesi. Ma con il decreto del 13 settembre 1810 di Napoleone, Imperatore dei Francesi, il monastero della Certosa era soppresso e i monaci furono costretti ad abbandonarlo, definitivamente l’il ottobre dello stesso anno.

Dopo la soppressione

Dopo la partenza dei monaci la Certosa fu occupata da varie famiglie che presero a pigione le celle e le stanze. Furono allora rimosse dal monastero numerose opere d’arte, molte delle quali andarono subito disperse, mentre altre vennero trasportate all’Accademia di Belle Arti. Dopo la restaurazione del Granducato la Certosa parve riprendere il suo antico tradizionale aspetto, legato alla sua funzione di centro di vita religiosa.

Quelli della prima metà dell’Ottocento furono gli anni più difficili per la comunità certosina e, date le ristrettezze economiche, non era sempre possibile nemmeno l’osservanza della Regola. Nel 1844 i monaci chiesero addirittura alla Santa Sede il permesso di vendere alcuni quadri.

Nel 1862 corse la voce che taluni oggetti fossero stati alienati e il governo italiano inviò sul luogo l’ispettore Carlo Pini al quale si deve la compilazione del primo inventario degli “Oggetti d’Arte della Chiesa e Convento della Certosa di Firenze”.

La soppressione degli ordini religiosi decretata dal governo italiano nel 1866 avrebbe potuto portare nuovi turbamenti nelle vicende della Certosa fiorentina, ma questa volta furono gli stessi monaci che tempestivamente intervennero con una supplica al re d’Italia e al ministro Bettino Ricasoli, supplica con la quale si invocava un’eccezione per cui la comunità certosina potesse mantenersi nel monastero. Così di fatto avvenne e i monaci rimasero custodi della Certosa, dichiarata monumento nazionale, e delle opere d’arte in essa contenute.

Ma il destino della Certosa era ormai segnato. Anche se rimarrà per un verso un autentico monastero, essa diventerà sempre più meta “turistica” per chi nei giorni di festa, vorrà allontanarsi dalla città, fuori Porta Romana. Nel 1869 Giuseppe Alinari otteneva il permesso di riprodurre in fotografia

 

alcuni monumenti della Certosa: fatto di grande importanza che consentirà una conoscenza a più vasto raggio, di innumerevoli opere d’arte. Ciò permetterà a restituire al monastero quel ruolo di “luogo” sempre più familiare e apprezzato dai conoscitori e amanti della storia dell’arte.

È tuttavia il complesso della Certosa nel suo insieme che richiama ancor oggi i cultori e gli studiosi della storia dell’arte. Dal 1958 i monaci cistercensi hanno sostituito i certosini nella custodia del monumento e la maggior apertura al “mondo” della loro regola monastica ha permesso un più adeguato inserimento della Certosa stessa nel vasto panorama culturale della città di Firenze. La Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali per le province di Firenze e Pistoia ha intrapreso con attento interesse e alta specializzazione il restauro generale dell’intero complesso, restauro che ha ormai toccato praticamente tutti gli ambienti principali e che si auspica proseguirà, insieme a un più attento ordinamento delle opere d’arte, nei prossimi anni.

Appendice storica: La famiglia Acciaiuoli

L’illustre famiglia guelfa fiorentina era originaria di Bergamo. Alla fine del XIII secolo Leone di Riccomanno fondò una compagnia mercantile che salì presto a grande ricchezza e potenza, finanziò sovrani ed ebbe succursali nei principali centri di Europa e del Mediterraneo. Pure nella vita pubblica di Firenze gli Acciaiuoli ebbero parte notevole sia all’epoca del libero Comune sia durante la Signoria dei Medici, di cui furono fautori. Un membro della famiglia di nome Acciaiuolo costruì una immensa fortuna nel regno di Napoli, donde gli Acciaiuoli passarono in Grecia divenendo con un Raineri, parte per eredità e parte per conquista duchi di Atene. Un Angelo Acciaiuoli (1349-1408) fu Cardinale e Arcivescovo di Firenze, tutore di Ladislao re di Napoli, governatore del regno e pacificatore tra il papa Bonifacio IX e la famiglia Orsini. Un Donato Acciaiuoli (1429-1478) fu un dotto umanista, membro dell’Accademia Fiorentina, gonfaloniere di giustizia, oratore efficace e fautore della filosofia di Aristotele:

Infine Niccolò Acciaiuoli (1310-1365), figlio di Acciaiuolo salì a grandi onori nel regno di Napoli ove diresse gli affari del principato di Taranto, conquistò per il principe Roberto il principato di Acaia, divenne il più influente consigliere dei sovrani angioini e raggiunse l’altissima carica di Gran Siniscalco del regno. A lui si deve la costruzione della Certosa di Firenze e resta, quale testimonianza, una celebre lettera autobiografica.

Firenze: dal libero Comune alla Signoria

Fin dalle sue origini (secolo XII) il Comune aveva visto continui, sanguinosi contrasti tra guelfi e ghibellini. Nel 1266 però i guelfi ebbero il sopravvento, con l’appoggio della ricca borghesia, che si affrettò a rafforzarsi del proprio potere, affiancando al Capitano del Popolo e al Podestà alcuni magistrati detti Priori, scelti tra gli iscritti alle Arti maggiori. A consolidare il nuovo governo contribuirono gli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella (1293), che escludevano dalla vita politica non solo i nobili, ma anche il popolo minuto e la plebe. Con tutto ciò la ricca borghesia, che si raggruppava nello schieramento guelfo, non ebbe vita facile e ad un certo momento si spezzò in due gruppi: i “Bianchi” e i “Neri”. Si aprì un lungo periodo di discordie, del quale approfittò il papa Bonifacio VIII per appoggiare i Neri, che non si mostravano contrari ad un suo intervento nella affari della città. A lui si deve se, nel 1301, i Bianchi furono cacciati da Firenze con l’aiuto di Carlo di Valois, fratello del re di Francia. Fra gli esuli bianchi vi fu anche Dante Alighieri che morì a Ravenna senza poter rivedere Firenze.

Le lotte continue segnarono però anche per Firenze la fine dei liberi ordinamenti comunali. Infatti i fiorentini, stanchi per i continui disordini, chiamarono dei “Signori” ai quali affidarono temporaneamente il potere. Uno di questi, Gualtieri di Brienne, duca di Atene, abusò scandalosamente della sua autorità e venne cacciato a furore di popolo dopo in solo anno di governo (1343). Le lotte tuttavia continuarono, prima fra i nobili e il popolo grasso, poi fra il popolo grasso e il popolo minuto, appoggiato dalla plebe.

Il contrasto giunse alla sua manifestazione più clamorosa nel 1378, quando i “Ciompi” — i salariati dell’industria della lana — mal pagati, mal nutriti e costretti a vivere in misere condizioni, insorsero e si impadronirono del Palazzo della Signoria. La rivolta ebbe, in un primo, momento successo, ma spaventò i borghesi, spingendo Arti maggiori e Arti minori ad unirsi per soffocare il movimento. Alla fine però il potere rimase alle Arti maggiori, cioè alla ricca borghesia, sotto il cui governo Firenze ebbe alcuni anni di stabilità che le permisero d’ingrandire il suo territorio e di raggiungere il mare a Pisa e a Livorno. E per l’appunto in questo periodo che alcune importanti famiglie si avviano a controllare completamente il governo della città: La più fortunata, in questa corsa al potere, la famiglia “dei Medici”, la quale, se pur di modeste origini, era divenuta potente per le ricchezze accumulate con l’esercizio del commercio e per i rapporti di affari stabiliti con sovrani e finanzieri di tutta l’Europa.

Si affermò così una “Signoria” appoggiata dal popolo minuto, che non nascondeva al Medici la propria simpatia per la generosità da essi più volte dimostrata. Fondatore della dinastia medicea fu Cosimo il Vecchio che, dopo avere ereditato un patrimonio tra i più solidi e consistenti della Toscana, era riuscito ad aumentarlo in modo considerevole sfruttando una serie di fortunate operazioni bancarie ma traendo anche profitto dalla lavorazione della lane e della seta. Cosimo riuscì a rimanere arbitro della vita politica fiorentina e, quel che più stupisce, seppe ottenere tutto ciò senza assumere nessun titolo e senza modificare l’ordinamento politico cittadino.

La potenza dei Medici raggiunse, in questo periodo, il suo culmine con i due nipoti di Cosimo: Giuliano e Lorenzo, quest’ultimo chiamato dai

 

posteri “11 Magnifico”.•

 

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UNA LETTER4 AD AGORÀ’ SULL’INTERVISTA AL FR. FRANCO R

UNA LETTER4 AD AGORÀ’ SULL’INTERVISTA AL FR. FRANCO RASI

La lettera al Fr. Franco Rasi, che i lettori vedono qui pubblicata, mi è stata inviata accompagnata da una nota a firma del Fr. Quazza.

In essa, Egli afferma di ritenere opportuno “far pervenire una chiara e incontrovertibile risposta al Fr. Rasi”, dichiarando anche di confidare nella “mia imparzialità dettata dal massonico desiderio di ricerca della verità per una pubblicazione, con lo stesso rilievo tipografico utilizzato per l’intervista”. Qualche precisazione si impone.

AGORA’ non è disponibile ad inviare risposte ad alcuno. Tanto meno se esse vengono definite “chiare ed incontrovertibili” con toni vagamente ultimativi e minacciosi e soprattutto AGORA’ non è disponibile a ricevere lezioni sul rilievo tipografico da dare a questo o a quell’articolo o lettera o intervento.

La verità non ha niente a che fare con il rilievo tipografico.

Trovo questo modo di procedere assolutamente profano.

AGOR4′, come tutti Fratelli sanno molto bene, è una libera tribuna. Aperta a quanti hanno la volontà difar crescere la nostra amatissima Famiglia, nell’amore e nella concordia.

Silvio Nascimben

TAURINO QUAZZA

Torino, 22 luglio 1998

Caro Franco,

leggendo le lettere inviate dai Fratelli pavesi che si dichiarano tuoi sostenitori e la tua intervista ad AGORA’ mi è sorto il sospetto che il senso dell’umorismo, il buon gusto ed il senso della misura non siano tra le vostre principali caratteristiche.

Non mi pare che coloro che usano il motto “Uniti per continuare” possiedano molto senso dell’umorismo quando tu, loro punto di riferimento, elargisci a piene mani accuse a carico a carico di un Fratello che, guarda caso, è il Gran Maestro.

Non mi pare che tu in particolare possieda in elevato grado buon gusto e senso della misura. Le critiche costruttive sono, in Massoneria, un utile elemento di progresso e di crescita. Difficile è però accettare che certi appunti siano mossi da chi per anni è stato tra gli attori delle azioni criticate. Sorge il dubbio che il tuo atteggiamento sia dettato non tanto da un improvviso rinsavimento, che ti ha indotto ad indossare il saio del penitente ed a cospargerti il capo di cenere, quanto piuttosto, confidando nella smemoratezza dei Fratelli, dalla speranza di poterti dichiarare estraneo a vicende che ti hanno visto impegnato in prima persona.

Caro Franco affermi che in principio “la via che la Giunta ha scelto è stata quella di stringersi compatta ed unita, tutta impegnata su un programma di lavoro che c’eravamo dati nei diversi campi d’azione… All’inizio abbiamo lavorato bene. Gli incarichi assegnati ai vari componenti sono stati assolti con il massimo impegno”.

Allora caro Franco, almeno all’ inizio non neghi di aver partecipato a tutte le scelte effettuate dalla Giunta del G.O.I.

Hai forse dimenticato che fu proprio quello il periodo nel quale, su tua ispirazione, furono assunte dalla Giunta alcune delle decisioni più criticate?

Hai dimenticato i 500 milioni stanziati per il Centro Pavese? Hai dimenticato che nel corso di una riunione del Collegio Circoscrizionale del Piemonte e della Valle d’ Aosta ti vantasti della paternità di queste iniziative, respingendo le critiche che ti venivano unanimemente rivolte dai ÌvN.VV., giungendo ad affermare che solo la loro carenza di managerialità impediva di comprendere i vantaggi che dall ‘iniziativa sarebbero derivati all ‘Istituzione?

Hai forse dimenticato il danno procurato all ‘ immagine ed alle finanze del G.O.I. con I ‘ abortita iniziativa di pubblicare, come quotidiano, “Palazzo Giustiniani”?

Sostieni che “Le manifestazioni pubbliche, quali i convegni, non seguono alcuna programmazione che sia

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figlia di approfondimenti tematici legati alla storia od all’ attualità. E’ solo per fortuna che ci sono ancora dei Fratelli che dentro le Logge e nei Collegi Circoscrizionali organizzano ogni tanto alcune pregevoli iniziative”.

Se non ricordo male nello scorso mese di gennaio fosti, unitamente al Fratello Ruspini, responsabile di coordinare il seminario organizzato, su mandato del G.O.I. a Torino.

E’ possibile sapere quale fu, in questo caso concreto, prescindendo dalla presidenza del seminario, il tuo contributo?

Per quanto concerne le relazioni con le Comunioni estere affermi che senti “anche parlare, con una certa ironia, di turismo massonico”. Questa frase, anche se si tratta solo di un sentito dire, nel contesto in cui è collocata non appare come una ironica battuta ma come una grande malignità, quasi una diffamazione, indegna di un Massone in particolare quando riveste la dignità di secondo Gran Sorvegliante.

Per inciso ci è noto che anche tu hai tenuto rapporti con alcune Comunioni estere.

L’ ironia sul tufismc massonico, della quale senti parlare, non comprende anche i tuoi viaggi all’ estero? Se di turismo massonico si deve parlare, non comprende anche i tuoi viaggi all’estero? Se di ftlrismo massonico si deve parlare perché escludere quello effettuato in giro per I ‘Italia?

Dici che “il conferimento della Galileo Galilei al Papa… è stata un vero e proprio fulmine a ciel sereno che ci ha lasciato tutti certamente sbigottiti”. Non sei tu che a RAI tre nel corso della trasmissione “Parlato facile” affermasti che il vescovo di Piacenza era il tuo “account”? Non sei tu che raccontasti ad alcuni Fratelli di essere il responsabile del G.O.I. per i rapporti con la santa Sede?

Caro Franco dichiari che “la Chiesa si sta appropriando, senza che non sia fatto niente per impedirlo, di quelli che a ben vedere sono i nostri valori. Parlo di libertà, di tolleranza, di solidarietà”. Hai riflettuto sull ‘ enormità di quanto affermi? Non affermiamo di lavorare per il bene ed il progresso dell ‘umanità? E non è bene se un numero sempre crescente di esseri umani fa propri i valori nei quali crediamo da sempre? Non è forse questo il fine della nostra utopia, la ragione d’essere della nostra Istituzione?

Non è stato il desiderio di renderci utili all ‘umanità che ci ha indotto ad approvare all’ unanimità, nell ‘ultima Gran Loggia, una mozione enunciante un nuovo valore etico da inserire nella Dichiarazione dei Diritti dell ‘Uomo? E tale Dichiarazione, la più alta espressione di civiltà raggiunta dall’uomo non è stata forse suggerita e realizzata da Massoni?

Affermi che è necessario “riformare profondamente la struttura interna degli uffici (del G.O.I.), in senso più professionalizzato, per eliminare sprechi ed inefficienze”. Ma i bilanci che in questi anni sono stati presentati in Gran Loggia non hanno avuto la tua approvazione? Non hai tu difeso alcune centinaia di milioni di investimenti in mezzi informatici? Non hai tu difeso la ristrutturazione, effettuata all ‘inizio del mandato di questa Giunta, il cui bilancio in termini di costi e ricavi non è stato mai formalizzato?

Se rifletti sulla discrasia esistente tra i tuoi comportamenti e le tue dichiarazioni non dovresti stupirti se le “deleghe assegnate sono state ritirate”

Caro Franco, visto che i Fratelli conservano memoria del passato, è opportuno, che in futuro, tu rifletta maggiormente prima di rilasciare interviste se veramente ritieni di essere all’altezza del compito che vuoi convincere i Fratelli ad affidarti.

Con il triplice fraterno abbraccio.

Taurino Quazza

LA RISPOSTA Dl FRANCO RASI AL FR. QUAZZA

Caro Fratello Quazza,

Il Fr. Silvio Nascimben mi trasmette la lettera che hai inviato ad AGORA’ a commento dell ‘intervista che ho rilasciato, il marzo scorso, a quella rivista e mi chiede di rispondere alle tue osservazioni.

Lo faccio ben volentieri. Per prima cosa mi domando perché Tu ritenga così importante il “senso dell’umorismo”, espressione che tu riporti ben due volte in sole quattro righe: spero Tu non voglia ridicolizzare gli sforzi compiuti per superare la grave crisi, che da tinti mesi attanaglia la nostra Istituzione, da quei Fratelli che si riconoscono nel progetto “Uniti per Continuare”.

Il dubbio sorge spontaneo anche per il livore dello scritto in cui ricorrono accuse di mancanza di

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“buon gusto”, “senso della misura” e, per l’ appunto, “senso dell’umorismo”.

Cosa ci sia da ridere, francamente, non riesco a comprendere.

E’ ben strano che Tu abbia atteso di leggere altri interventi di Fratelli per deciderti ad intervenire: se non condividevi le mie dichiarazioni o se avessi voluto dare un serio contributo alla crescita della nostra Famiglia avresti dovuto far sentire subito la tua voce. Ora, la tua, sembra piuttosto una risposta… a tempo. Proverò, comunque, a fornire alcune precisazioni. Credo che Tu sia l’unico ad avermi visto “improvvisamente rinsavire” o “cospargermi il capo di cenere”.

Tranquillizzati. Niente di tutto ciò. Assumo in prima persona la responsabilità di tutte le mie scelte. Quelle consapevoli, però: non quelle subite o imposte. La differenza non è da poco. E la memoria non deve tradire nessuno.

Sbaglio, o ricordo male, quando rivedo tutti i Fratelli, Maestri Venerabili e non, riuniti nella Gran Loggia, la sera di Sabato 26 novembre 1994 nel salone principale dell’Hotel Hilton di Roma, acclamare commossi con un lunghissimo applauso la consegna da parte del Gran Maestro al sindaco di S. Stefano Belbo della nostra prima, e per ora unica, parte del contributo stabilito? E tra quei Fratelli non c’eri forse anche Tu?

E queste frasi, carissimo Fratello, dove le hai già lette?

è da molto tempo che il Grande Oriente d’ Italia di Palazzo Giustiniani, la maggiore, legittima, regolare Istituzione massonica operante in Italia sin dal 1805, avverte la necessità di comunicare, al suo interno e con quanti ancora non conoscono o, peggio, conoscono poco e male la nostra Istituzione, in modo nuovo e più adatto ai tempi che stiamo vivendo. Il bisogno che tutti sentiamo è quello di favorire ed aumentare la circolazione delle idee, del nostro pensiero, delle azioni e degli atti concreti che rendono viva, operante, pulsante di attenzione e vitalità la Massoneria del Grande Oriente d’Italia. E’ una sfida che lanciamo a noi stessi. Consci come siamo della pochezza delle nostre forze ma della fermezza dei nostri sentimenti. Consci come siamo dell’assoluta necessità di lanciare forte ed alto il nostro grido disperato contro le calunnie, le infamie, le menzogne, le illiberali decisioni che vorrebbero, in Italia, spazzare via quel grande patrimonio secolare rappresentato dalla Massoneria. Consci come siamo che proprio questa Massoneria, quella del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, debba assumere sulle proprie spalle questo pesante fardello.”

Ebbene, queste frasi sono state scritte proprio dal nostro Gran Maestro nell’editoriale del numero zero di “Palazzo Giustiniani”.

Che, per quanti non lo ricordassero più, è anche intervenuto con la Sua Balaustra del 6 aprile 1995 ad illustrare a tutti i dettagli dell’iniziativa. Una rilettura di quella Balaustra, ma non solo di quella, sarebbe, per molti, molto istruttiva. Così da assegnare, per esempio, alle tue temerarie affermazioni circa il “danno procurato all’immagine e alle finanze del G.O.I.” il loro effettivo significato: a metà tra l’ignoranza e il pettegolezzo.

Ma oltre alla memoria, a te credo faccia difetto anche la capacità di distinguere tra iniziative culturali (che, confermo, non hanno seguito alcuna logica programmatica) e iniziative interne.

Caro Quazza, il seminario tenuto a Torino, eccellentemente organizzato per gli aspetti logistici dai Fratelli del Piemonte, come quello a Firenze e quello a Napoli, è stata una iniziativa di riflessione esclusivamente interna (forse sei stato informato male) che ho fortemente voluto, come sanno anche nella tua regione, e su cui mi sono personalmente molto impegnato.

Essa è nata proprio per permettere che con incontri periodici i Fratelli siano messi in condizione, dialogando tra loro, di elaborare quelle idee nuove di cui l’Umanità ha tanto bisogno e che saranno le uniche che permetteranno alla Massoneria di riprendere il fondamentale molo di guida della società civile che la Storia le assegna. Mi batterò con tutte le mie forze affinché questi approfondimenti diventino continui e costanti. Solo nel fondamentale dialogo con le Logge, con i Maestri Venerabili e con tutti i nostri Fratelli la Comunione si alimenterà dell ‘ Amore che da essi può derivare.

Nella tua lettera ironizzi su quanto si sente dire in tema di turismo massonico. E attribuisci anche a me lo stesso “vizio”.

Devi ricrederti: tutti, ma proprio tutti, i viaggi che ho compiuto all’estero visitando comunioni massoniche (in Colombia, Perù, Stati Uniti, India, Francia, Germania, .Gran Bretagna, Portogallo, Cecoslovacchia), con eccezione delle missioni in Romania e di un viaggio in Olanda effettuato col Gran Maestro, sono stati pagati di tasca mia. Missioni che, come tu ben sai, hanno ottenuto grandi risultati. Avresti dovuto controllare presso l’ amministrazione del G.O.I. prima di formulare affermazioni così gravemente azzardate. Saresti così venuto a conoscenza del fatto che anche i viaggi da me effettuati in Italia, ad eccezione di quelli legati alla funzione, sono stati, e continueranno ad essere, completamente a mio carico. Mi domandi, ancora, dov’ ero quando fu conferita la Galilei al Papa.

A casa, come tutti gli altri membri di Giunta. La decisione fu adottata in totale e perfetta solitudine dal Gran Maestro.

Ne fui informato – credo e spero – come tutti i membri di Giunta, il giorno dopo, dai giornali. Ti meravigli ancora?

Posso solo definire come pura invenzione l’ attribuirmi dichiarazioni sul Vescovo di Piacenza. Che mai ho definito mio account. La registrazione di “Parlato semplice” (non “Parlato facile” carissimo Fr. Quazza come scrivi tu: forse, lo hai dimenticato e qualcuno ti ha suggerito male) è a disposizione di quanti volessero riascoltarla. Che potrebbero riascoltare anche il tuo estemporaneo intervento ! E’ solo per dimenticanza, per mera superficialità, per un tuo difetto di valutazione o per cosa altro che ti spingi a lanciare un’ accusa, che, come Tu stesso sai, è infondata?

Da ultimo, i bilanci e gli investimenti. Carissimo Fratello io non ho “difeso” proprio niente. Ho cercato, come altri, nei limiti delle mie forze e delle mie capacità, di migliorare I ‘ esistente. Ma combattere contro i mulini a vento non è facile. Come per te, d’ altronde: quando giustamente lamenti che “il bilancio di ristrutturazione in termini di costi e ricavi non è stato mai formalizzato”. Ma sei certo che per questo Tu debba rivolgerti a me?

Per finire vorrei solo soffermarmi su una delle affermazioni che ritengo più gravi e inutilmente offensive nei miei confronti: la presunta discrasia tra i miei comportamenti e le mie dichiarazioni.

Rassicurati carissimo Fr. Quazza. Puoi stare certo che non troverai mai nei miei atti o nei miei comportamenti elementi che confermino questa tua gravissima offesa: perché libertà, coerenza e onestà sono tra quei valori fondamentali ai quali sono stato formato da un padre Massone, che per tutta la mia vita ho praticato e ai quali, evidentemente, proprio non so rinunciare.

per testimoniarlo pubblicamente anticipo in questa sede quelli che sono i punti imprescindibili del programma che alla ripresa autunnale esporrò in occasione della prossima tornata per l’elezione dei Grandi Dignitari: alcuni di questi punti sono stati da me costantemente praticati nella quotidianità della mia attività nella Giunta, altri sono la naturale espressione del mio modo di essere Massone, di intendere la Massoneria e di immaginare il ruolo del G.O.I.:

la Loggia, con il suo Maestro Venerabile, quale nucleo fondamentale del Corpus Massonico da cui partono tutte le iniziative;

i Collegi, dotati di una maggiore e più decisa autonomia patrimoniale, quali elementi propulsori dell ‘ attività della Comunione;

la solidarietà come risposta concreta alle richieste che provengono dai Fratelli e che pertanto deve veder triplicato l’impegno sin qui posto;

una politica estera che intensifichi le relazioni con le Grandi Logge Statunitensi e, in una visione europea rilanci quelle con le Massonerie continentali accelerando il dialogo con la Gran Loggia Unita d’Inghilterra;

i rapporti con le altre Comunioni italiane gestiti attraverso una Consulta che lavori con l’ obiettivo di giungere ad una dimensione confederativa, tenendo sempre presente che il G.O.I. è l’unica Fonte primigenia;

un forte impegno della Comunione sui grandi temi che agitano l’ Umanità: pace, solidarietà verso i deboli, famiglia, lavoro, ambiente, bioetica, eutanasia, aborto;

gli “immutabili principi” della Tradizione Muratoria come base per la diffusione di una direttiva universale per I ‘ Uomo del Terzo Millennio;

il recupero dell’ orgoglio di essere Massoni attraverso la riaffermazione dell’ indispensabile funzione della Massoneria;

la cultura e tutte le attività ad essa collegate, una Casa Editrice del G.O.I. per le opere dei Fratelli, il potenziamento della Biblioteca e dell’ Archivio , la realizzazione del Museo Massonico, il rafforzamento delle testate edite nelle Circoscrizioni, come momento di diffusione dei valori della Massoneria;

l’esaltazione della funzione iniziatica del Gran Maestro, la collegialità dei lavori di Giunta, la costituzione di un “Consiglio dei Saggi” e la destinazione dell’ appannaggio a beneficenza, come momento di maggiore unione nella Famiglia.

Ecco, carissimo Fratello, perché considero imprudente il tuo invito ad una maggiore riflessione prima di rilasciare interviste.

Con molti altri Fratelli, tutti intellettualmente liberi, ho riflettuto a lungo, credimi. E perciò non a comando, come tanti, troppi, fanno, forse per abitudine o per pigrizia o solo per piaggeria.

Con il triplice fraterno abbraccio

Franco Rasi

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SIMBOLI E TRADIZIONI NELLE DIVERSE CULTURE

SIMBOLI E TRADIZIONI NELLE DIVERSE CULTURE

La Croce, il Cerchio e la “Decade Pitagorica”

di

Aldo Chiarle

Nello spirito degli antichi filosofi qualcosa di divino e di misterioso si è sempre riallacciato alla forma del Cerchio che rappresenta la prima origine del concetto di Croce. Il mondo antico rappresenta la Divinità con un Cerchio.

Una fortunata combinazione mi ha fatto trovare una ventina di anni fa e forse più su una bancarella di uno dei tanti mercatini delle pulci che pullulano in Italia, dove si possono trovare, per un ricercatore attento, accanto alle cose più folli ed assurde, anche piccoli tesori, una pubblicazione che ha subito attratto il mio interesse.

Era per terra, confusa fra centinaia di romanzetti rosa e di evasione, con le pagine stracciate ed ingiallite dagli anni.

Appena ho iniziato a sfogliarla, l’ho trovata di così denso sapore iniziativo e simbolico che, acquistata, non appena a casa, l’ho letta tutto di un fiato in una sola notte. Dalla pubblicazione del titolo “LA CROCE IL CERCHIO, LA DECADE PITAGORICA” di Edoardo Tinto ho tratto una sintesi, alcune considerazioni che vado ad esporre.

La croce è uno dei più antichi simboli mistici usati dall’uomo. Ma la pretesa di considerare la Croce come segno sacro puramente cristiano è veramente strana e non risponde alla verità.

La prova è nel fatto che le vestigia della Croce si trovano nei monumenti più antichi, fino alle inesplorate profondità di epoche arcaiche.

I Re assiri, come Assurnasirpal e Saudiraman, le cui statue si conservano nel Museo Britannico, portavano un monile speciale a forma di Croce: e crociformi sono gli orecchini trovati nelle tombe puniche di Cartagine.

Il mistero che avvolge, la Croce, anziché diradarsi, si addensa sempre di più, allorché la si trova sulle statue gigantesche preistoriche dell’Isola di Pasqua. Senza parlare dell’uso preminente della Croce ansata nell’antico Egitto, della Croce a forma di Tau, di Svastica che si trova scolpita o dipinta sulla roccia, nella Scandinavia precristiana e in tante isole e terre sperdute del nostro globo esplorate solo da qualche decina di anni.

In verità, soffermandosi nello studio della filosofia religiosa degli antichi si vede che i popoli primitivi davano al simbolo e alla simbologia una importanza sovrana.

Perché la storia religiosa di tutti popoli è chiusa nelle difficilissime spire del misticismo allegorico: essa non è quasi mai espressa con parole.

I geroglifici egizi non sono trovate, ma espressioni profonde ideate dai più dotti delI ‘ antichità. Essi costituiscono la lingua misteriosa con la quale si esprimevano tutte le teologie.

I grandi sistemi filosofici arcaici conosciuti sotto il nome di Scienza Sacra possedevano una lingua universale e simbolica non solo agli Iniziati.

La cristianità rigetta queste significazioni, classificandole strane, arbitrarie ed oscure e respinge questi studi con la convinzione aprioristica che essi sono contrari alla fede e pericolosi per le coscienze.

Vogliamo iniziare questo breve studio sulla Croce affermando che questo simbolo è uno dei più antichi usati dall ‘uomo. In verità, la prima figura simbolica è stata un semplice cerchio, che significava il Divino Infinito.

Ad essa seguì il Cerchio con un punto centrale che indicava la prima differenziazione nelle manifestazioni periodiche della natura insessuale ed eterna.

In una terza fase, il punto si trasformò in un diametro del Cerchio e servì a simboleggiare la MadreNatura, divina e universale.

Ma quando, dopo questa terza fase, il diametro venne crociato da un altro trasversale, si ebbe la Croce del Mondo, segno che simboleggiò il principio della vita umana.

Molto più tardi, queste epoche arcaiche, e cioè presso gli egizi, la Croce si trasformò in emblema di vita.

Gli indiani rappresentavano la Croce come contemporanea dei Cerchio del Divino Infinito e della prima differenziazione dell’Essenza, dell’Unione, dello Spirito e della Materia. Vi è anche un rapporto tra la Croce e l’allegoria astronomica.

Mercurio che, figlio del Cielo e della Luce, mitologicamente è figlio di Giove e di Maya.

Egli è il messaggero di suo padre, il Messia del Sole. In greco il suo nome è Ermes e significa, fra l’altro, l’Interprete, la Parola, il Verbo.

I simboli di Ermes-Mercurio, che erano posti lungo le strade maestre, nei punti di intersecazione erano crociformi. Ogni sette giorni i sacerdoti ungevano di olio santo questi Termini e una volta l’anno li ornavano con ghirlande floreali.

Mercurio era rappresentato con tre teste e chiamato Triplice, come se formasse un tutt’uno col Sole e con Venere.

Ma, Mercurio era anche rappresentato sotto forma cubica, cioè, senza braccia, poiché si teneva presente che “la facoltà di parlare può predominare senza l’aiuto delle braccia e dei piedi”

Ed è questa forma cubica che riallaccia direttamente i Termini alla Croce.

In alchimia, Mercurio è il principio radicale, umido, l’acqua primitiva elementare che racchiude i semi dell ‘Universo, fecondati dal fuoco solare.

Ora, se l’Ermes cubico si riallaccia alla Croce perché il Cubo sviluppato rende appunto il Tau, esso diviene Croce nella forma egizia, alla quale i Faraoni attaccavano i Cerchi, formando così la croce ansata.

Gli egizi conoscevano la Croce da molti secoli, attraverso i loro sacerdoti e i loro Re Iniziati, e sapevano anche molto bene cosa ciò significava: porre un uomo sulla Croce significava far corrispondere con l’idea di una nuova rinascita dell’uomo, ma per una generazione soltanto spirituale, non fisica.

I candidati all’iniziazione venivano attaccati al Tau, o Croce Astronomica, in virtù di una idea più alta e più nobile di quella della origine della vita umana.

Non è dunque sulla Bibbia che dobbiamo fare le nostre ricerche per trovare l’origine della Croce, ma molto prima.

Nello spirito degli antichi filosofi qualcosa di divino e di misterioso si è sempre riallacciato alla forma del Cerchio che, come già accennato, rappresenta la prima origine del concetto di Croce.

Il mondo antico – in ciò d’ accordo con il suo simbolismo e con le sue intuizioni panteistiche – rappresenta la Divinità con un Cerchio.

Secondo la filosofia mistica questa Divinità, durante le sue notti e i suoi giorni, o cicli di riposo e di attività, costituisce l’ eterno movimento perpetuo, l’incessante divenire: così la Croce equivale al giro dell’anno.

La Croce ansata semplice figura geometrica, ma esprimeva il concetto profondo della Croce e del Cerchio uniti assieme.

Il più curioso di questi simboli egizi della Croce e del cerchio è il simbolo la cui completa spiegazione è il significato finale derivato dai simboli della stessa Natura.

La Croce più sacra dell’Egitto che tenevano nelle mani gli Dei, i Faraoni e i Morti mummificati è l’Ank (Croce Ansata), segno di vita, il vivente… la sua sommità non è altro che il Cerchio geroglifico, messo per diritto sulla croce del Tau. Il Cerchio rappresenta l’ingresso e l’uscita. Ecco perché il Tau era il segno di

La versione purànica (il Puranà è il poema   della religione induista) degli indiani espone tutta la questione sotto un particolare aspetto.

Il nodo dell’Ank non appartiene infatti al solo Egitto. Esiste una corda che Shiva dalle quattro braccia, tiene in una mano sinistra. La corda è tenuta in modo che il primo dito e la mano formano la croce e l’anello.

Esso costruisce l’emblema di ingresso ed allude alla porta che condurrà al Regno dei Cieli.

E’ ben vero che si tratta di Croce col Cerchio, o Croce Ansata, ma è una Croce sulla quale devono essere crocefissi tutte le passioni umane, prima che lo Spirito possa trovare la porta che porterà l’uomo interiore in un cielo infinito.

Questo sacrificio con le umani passioni sulla Croce, costituisce la parte essenziale dell’iniziazione.

Il Cerchio, dal quale ha avuto origine il significato mistico della Croce, ha sempre e dovunque simbolizzato lo Spirito della vita e l’immortalità.

Il Serpente che si morde la coda rappresenta il Cerchio della Saggezza nell’infinito, precisamente come la Croce astronomica – Croce inserita in un Cerchio – è il globo alato, che diviene lo scarabeo sacro degli Egizi.

Nella filosofia primitiva degli Jerofànti (gran sacerdoti greci incaricati di presiedere ai misteri eleusini) cultori di Cerere e Proserpina e di insegnare agli Iniziati la dottrina segreta, questi cerchi invisibili erano le cause di tutti i globi terrestri che costituiscono le forme e gli involucri visibili, dei quali essi erano le anime. E’ facile comprendere quali di questi accenni, la significazione simbolica che veniva annessa al piccolo Cerchio attaccato al Tau. Pitagora prescriveva durante le ore di meditazione una profonda concentrazione e una posizione circolare. Una delle ragioni per le quali il gatto era considerato sommamente sacro in Egitto era che il suo corpo, durante il sonno, si aggomitola in forma di cerchio. L’uovo d’oro bramànico, dal seno del quale emerse Brahama, Divinità creatrice è il Cerchio con il punto centrale di Pitagora. Nella filosofia mistica, l’ Unità nascosta è simbolizzata da un cerchio o dallo zero; mentre il Dio manifestato per le sue opere è rappresentato dal diametro del Cerchio. Il Cristianesimo ha visto nella Croce soltanto lo strumento di tortura usato dai romani per i loro schiavi e sebbene quell’infame patibolo fosse sublimato dal Cristo, non ha avuto il coraggio di esporla per interi secoli.  Infatti nelle Catacombe cristiane sino al quinto secolo non è stato trovato alcun segno di Croce cristiana. E nei confini della Croce si trova la chiave maestra che apre sempre la porta di tutte le scienze tanto fisiche che spirituali. La Croce infatti simboleggia la nostra esistenza umana, perché il Cerchio della vita circoscrive le sue quattro punte che rappresentano successivamente la nascita, la vita, la morte e la sopravvivenza. E’ interessante, a questo punto accennare al rituale delle Iniziazioni e delle cerimonie mistiche in uso presso i popoli orientali in epoca molto anteriore alla venuta del Messia, che ha analogie impressionanti con il Mistero della Passione, della Morte e della Resurrezione del Cristo. L’ adepto Iniziato che aveva subito tutte le prove, veniva attaccato (non inchiodato ma solo legato) sopra ad un letto in forma di Tau ove rimaneva immerso in sonno profondo. Egli era lasciato in questo stato per tre giorni e per tre notti, periodo durante il quale il suo Io Spirituale era considerato come in comunione con la Divinità, come disceso nell’inferno e come operante opere di carità in favore di Esseri invisibili, anime umane e spiriti.

Durante questi tre giorni il suo corpo rimaneva nella Cripta d’un Tempio o in una caverna sotterranea.

In Egitto il corpo dell’iniziato veniva legato al Tau e posto nel sarcofago della Camera del Re della Piramide di Cheope; durante la notte precedente al terzo giorno era trasportato nell’ingresso della galleria, ove ad una certa ora i raggi del sole nascente illuminava la figura del candidato ancora in catalessi e lo facevano risorgere, glorioso e trionfante, dopo la prova subita, per essere iniziato da Osiride e da Thot, il Dio della saggezza. Ciò prova che la figura del Tau rappresenta l’uomo, nonché il fatto che l’Iniziato rinasceva dopo la sua crocifissione sull’ albero della vita.

Quest’ albero essendo stato, indipendentemente da ogni sua significazione mistica, usato dai romani come strumento di tortura, venne in virtù di non conoscenza dei primi cristiani, chiamato l’ albero della morte.

Va ancora notato che molto tempo prima che la Croce fosse adottata come simbolo del Cristianesimo, il suo segno era usato come riconoscimento fra gli Adepti e i Neofiti pagani, e che anche il segno della croce, che è ora l’alto distintivo cristiano, non è che lo stesso segno usato parecchi millenni prima, dagli adepti del paganesimo.

Veniamo ora a parlare della Decade Pitagorica. Questa Decade che rappresenta l’Universo e la sua evoluzione dal seno del Silenzio e degli Abissi sconosciuti dell’Anima del Mondo, si offerse agli studiosi sotto due aspetti. Innanzitutto essa si applicava al Macrocosmo; in un secondo tempo dal Macrocosmo discendeva al Microcosmo, vale a dire sino all’Uomo. Vi era poi la Scienza Intima puramente intellettuale e metafisica e la scienza superficiale che non poteva spiegare insieme all’ altra con la Decade, che le conteneva entrambe. In una parola tutte e due queste Scienze potevano essere studiate tanto con il metodo deduttivo di Platone, quanto col metodo induttivo di Aristotele.

La prima aveva per punto di partenza una comprensione divina secondo la quale la pluralità procede dall ‘unità; la seconda si basava sulla percezione dei sensi, per la quale la Decade poteva essere considerata sia come I ‘Unità che si moltiplica, sia come la materia che si differenzia.

Il suo studio era in questo secondo caso, limitato alla superficie piana, alla Croce e al Sette che precede il            Dieci, esso pure numero perfetto.

Il numero Uno significa per gli Iniziati di Alessandria, un eorpo diritto, un uomo vivente perché esso è il solo animale che gode di tale privilegio.

La duade presso i primi pitagorici ero lo studio di imperfezione, nel quale il primo essere manifestato, allorché si stacca dalla Monade.

Il ternario è la prima figura geometrica. Il triangolo è la prima figura perfetta. Il numero Tre era quindi, il numero misterioso per eccellenza.

Il Quaternario era il primo solido ed il simbolo dell’immortalità. Esso costituisce la piramide, perché la piramide poggi su una base quadrangolare.

Il numero Cinque è composto di un Binario e di un Ternario e si allaccia ai concetti sopra esposti.

Il numero Sei era considerato dagli Antichi Misteri come un emblema della natura fisica. Perché il Sei è la rappresentazione delle sei direzioni di tutti corpi, le sei direzioni che si estendono verso i quattro punti cardinali e le due direzioni in altezza e in spessore che corrispondono allo Zenit e al Nadir.

Ed eccoci al numero Sette, e di conseguenza ritorniamo ai simboli della Croce.

La Croce nella sua forma di Tau così esaltata dagli Egizi, dai Greci, e dai Giudei, si riallaccia misteriosamente alla Decade.

Il Tau è l’Alfa e l’Omega della Saggezza divina che si simboleggiava con la lettera finale di Thot (Ermes).

Thot era l’inventore dell’alfabeto egizio e la lettera Tau chiudeva anche gli alfabeti dei Giudei e dei Samaritani, i quali chiamavano questa caratteristica: termine o perfezione.

E’ interessante notare che alcuni fra i primi cristiani, probabilmente Iniziati, avessero una cognizione precisa di questa dottrina pitagorica.

Nell’ abbracciare la Religione del Nazareno essi recavano nel loro spirito, il simbolismo ermetico del Tau che esprimevano con l’Alfa e l’Omega della Saggezza.

Di conseguenza la Croce da essi venerata nei primi secoli del Cristianesimo non poteva non conservare il misticismo dell’Ermes egizio.

Questa asserzione che peraltro conferma la esistenza della Croce nelle religioni precristiane è provata da una scoperta di una Croce gemmata nel cimitero del Ponziano in Roma e dalle prime Croci che ornavano le tuniche dei primi cristiani. Come sono raffigurati in un affresco trovato nel cimitero di Domitilla su una tunica del fossore Diogene, ivi sepolto: “Diogenes Fossor in Pace Depositus“, le sue croci non sono che Svastiche. E provano senza ombra di dubbio, la conoscenza ermetica e pitagorica dei cristiani, mentre la Croce gemmata risale al principio del quinto secolo del Cristianesimo.

Forse è questa la prima Croce cristiana ed un fatto inaspettato nella storia della Passione è che si impernia sul mistero della “Passione del Cristo” che non ha avuto nessuna Croce cristiana nei primi cinquecento anni di vita e di sviluppo.

Infatti i più antichi monumenti sui quali si vede Gesù crocefisso, sono della fine del quinto secolo ed occorre attendere il settimo e l’ottavo secolo per trovare la Croce in quasi tutti i monumenti cristiani.

Evidentemente questa Croce rappresenta il trait-d’union fra il simbolismo pitagorico e il simbolismo cristiano, fra il culto di Thot (Ermes) e il culto del Nazareno, ed è la prova che il segno della Croce venerato in epoche anteriori alla nostra, non rappresenta solo un disegno ornamentale, ma costituisce un simbolo altamente significativo e profondamente sacro.

Il Tau che si simboleggia con la lettera iniziale e finale di Thot, significa per gli gnostici l’ Alfa e l’ Omega della Saggezza Divina e la croce gemmata del cimitero di Ponziana in Roma esprime questo concetto pagano nella maniera più netta, quasi voglia rendere chiaramente il pensiero originale degli Egizi, perché reca sui due bracci trasversali due catenelle, ad una delle quali è attaccata la lettera Alfa e all’altra la lettera Omega. Ciò che i pitagorici conoscevano attraverso le iniziazioni segrete, il costruttore della Croce del cimitero di Ponziano ha reso manifesto con l’applicazione delle due lettere significative: Alfa e Omega.

Ma ritornando alla Decade pitagorica, i popoli più disposti al Simbolismo avevano fatto della Croce il loro simbolo più sacro. La Scuola di Pitagora considerava il numero Sette come un composto dei numeri Tre e Quattro; sul piano del mondo spirituale, il triangolo era la prima concezione della Divinità, mentre il Quadrato, altro numero perfetto, era la Sorgente ideale di tutti i numeri e di tutte le cose sul piano fisico.

Occorre precisare che il Quaternario agli occhi degli antichi non costituiva che una perfezione secondaria, poiché non si riferiva che ai piani visibili, mentre solo il Triangolo (il Delta greco) era il “veicolo della divinità invisibile”.

I Pitagorici sostenevano inoltre che il numero Sette possiede tutta la Perfezione dell’Unità che è il numero dei numeri. Infatti il numero Sette è paragonabile all’Unità assoluta, che è increata e indivisibile; che non rappresenta alcun numero e che nessun numero può generare. Per dare un esempio dei sistemi pitagorici, basta leggere con la chiave di Pitagora, il numero dei giorni di un anno (365). Così la terra (3), animata (6) dallo spirito della vita (5). Infatti il 3 è anche il simbolo della terra, il 6 è il simbolo del principio che anima ed il 5 è la quintessenza universale che si diffonde in tutte le direzioni e forma quindi tutta la materia. Vi fu un tempo che il simbolo orientale della croce e del cerchio – la svastica – era adottato universalmente.

Per i buddisti, i cinesi, i mongoli, la croce e il cerchio o la svastica significavano “diecimila verità”, verità che essi dicevano, rivelano molti misteri dell’universo, della cosmologia primordiale e della teogonia. La Cosmogonia è la dottrina religiosa, filosofica e scientifica che spiega l’origine e la formazione del mondo, mentre la Teogonia è la scienza che tratta della discendenza degli Dei. Ed è per questo che la Svastica, al pari della Croce ansata dell’Egitto, era posta sempre sul petto dei mistici defunti. E’ provato così che le antichissime venerazioni della croce, sia nella forma di Tao sia nella forma di Croce ansata, sia nella forma di Svastica. Per i Simbolisti precristiani essa era, come abbiamo detto, il letto delle parole, durante i misteri dell’iniziazione e la Croce era collocata orizzontalmente. Nella forma di Svastica la Croce ha avuto una venerazione quasi universale. Pochi simboli usati dall’uomo, sono saturi di significazioni simboliche come le Svastiche. Una versione iniziata ai misteri della Svastica poteva rintracciare su di essa, con una precisione matematica,  l’evoluzione del Cosmo.

La Svastica rappresentò anche il rapporto fra il Visibile e l’Invisibile, nonché la prima procreazione dell’uomo e del suo genere.

Per lo studioso della saggezza arcaica orientale, la Croce, il Cerchio, l’Albero e il Tau contengono un profondo mistero nel loro passato e su questo mistero egli dirige il suo sguardo.

Continuando nella serie dei numeri, abbiamo il numero Otto, simbolo dell’eterno movimento nella spirale dei cieli che dimostra la regolare respirazione del Cosmo.

E siamo al Nove, il triplo ternario. Il Nove è il segno della circonferenza, poiché il valore della circonferenza è eguale al 3 + 6 + 0.

Il Nove, in talune condizioni è un numero infausto. Il Sei era il simbolo del nostro globo, prossimo ad esse animato da uno Spirito divino, il Nove simboleggiava la nostra Terra animata da uno spirito cattivo e maligno.

Il Dieci riporta all’unità di tutte le cifre, conclude la Decade pitagorica e rappresenta il simbolo della Divinità, dell’Universo e dell’Uomo.

Ecco la significazione filosofica della “vigorosa stretta della zampa del leone della tribù di Giuda” fra due nani, il cui numero delle dita è appunto Dieci.

In questa veloce carrellata sulla Croce, sul Cerchio e sulla Decade pitagorica abbiamo sollevato qualche velo, ma soltanto qualcuno, sul profondo mistero del passato con sufficienti prove che i simboli e il misticismo degli antichi non erano né sciocchezze né follie di esaltati, ma rispondevano ad una profonda filosofia. Abbiamo anche dimostrato che il simbolo della Croce, nella sua forma di Tau, o Ansata o di Svastica, è stato venerato molti millenni prima della Croce cristiana, e ancora alcuni – almeno cinque – dopo l’avvento del Cristianesimo.

La croce di Cristo, la sua passione, la sua morte, e la sua resurrezione, non sono che la copia tradizionale del culto e della dottrina dei popoli antichissimi per i quali l’iniziazione misteriosa si compiva precisamente con la crocifissione del Tau, letto dei sacrifici, con il seppellimento in una cripta, con la discesa spirituale all’inferno e con la resurrezione trionfale alla fine del terzo giorno.

Prima di Cristo, migliaia di iniziati sono stati crocifissi sul Tau e sepolti misticamente per tre giorni, alla fine dei quali sono poi risorti a nuova vita, gloriosi e trionfanti, dopo le prove subite.

Caso, oppure continuazione di riti antichissimi, la Croce cristiana? Ecco l’interrogativo base, e da questo interrogativo vi sono concatenazioni di altri mille interrogativi, che sarebbe interessante esaminare in seguito con la dovuta attenzione, serenità e competenza.

 

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