LA LIBERAZIONE DELLA GRECIA NEL 1821

 

 

 

IL CONTRIBUTO Dl ALCUNI LIBERI MURATORI ITALIANI di

Stephanos Colaghis

 

La Massoneria, sin dai suoi primi passi, non ha mancato mai di far riferimento a determinate ricorrenze strettamente legate alla identità nazionale dei singoli popoli.

Esse ci fanno sempre ricordare quei momenti e quegli atti che hanno consacrato il mantenimento dei più alti e fondamentali diritti dell ‘ uomo.

La ricorrenza del giorno della celebrazione del Risorgimento ellenico è ancora vicina.

Sono passati dal 1821 ben 176 anni e molti documenti, nonostante il cammino del tempo, sono venuti alla luce. Questi documenti ci conducono sempre verso un determinato punto d’ arrivo: “La Libertà “.

Non vi è verità “più vera” di quella che afferma l’efficace e prezioso sostegno da parte della Massoneria.

Così, anche per noi, non può passare inosservata la ricorrenza del 25 marzo 1821.

In questi giorni ci viene spontanea la necessità di rievocare, ancora una volta, i nostri sentimenti di profonda gratitudine a tutti quelli che hanno contribuito con ogni mezzo, anche sacrificando la propria vita, per la liberazione del nostro paese da una schiavitù tirannica.

Si rende necessario per noi che siamo membri di questa fratellanza italiota di ricordare, in questa circostanza, i nostri Fratelli liberi muratori italiani che hanno lottato nella nostra terra, in quell’epoca, così dolorosa e cruenta.

Molti dei nostri Fratelli venuti in Grecia a combattere al fianco dei Greci, specialmente dopo lo sfortunato sollevamento del Piemonte contro gli Austriaci, nel 1815.

Essi trovarono in Grecia una nuova e accogliente patria come quella che avevano lasciato, allo stesso modo oppressa dalla tirannia.

Tutti insieme poterono lottare per rianimare la sacra fiamma della libertà.

Permettetemi di evidenziare alcuni “curriculum vitae” di alcuni, fra i tanti, Fratelli italiani, dei quali sono in possesso di informazioni documentate e di rapporti scritti che testimoniano la loro indiscutibile statura massonica.

Abbati Joseph (1780-1850)

Nato a Bonifacio di Corsica ha combattuto nel Piemonte insieme a Santarosa. E’ stato uno dei più eccellenti massoni stranieri.

Il generale Charles Nicolas Fabrier o Faviero, il noto colonnello greco, lo stimava e molto lo apprezzava. La sua partecipazione attiva da militare combattente copre tutto il periodo della rivoluzione greca. Sottotenente della compagnia del genio del corpo ordinario di Tarela nel 1822, combatté eroicamente nella battaglia di Pétta, ove conquistò la bandiera turca. Si salvò miracolosamente durante l’assedio della fortezza di Palamidi a Nafplio.

Già “capitano” nel 1823, come risulta dall’Archivio Generale Hellenico, venne promosso col grado di “maggiore” dell’esercito ordinario di Faviero. Il generale Faviero, dovendo partire per Atene allo scopo di preparare la spedizione di Evia, lo lasciò al comando del 2 0 Battaglione dell’esercito ordinario, a Nafplio, e nello stesso tempo anche capo della guarnigione.

Il 30 novembre 1826, insieme a Faviero e ad altri 530 ordinari riuscì ad entrare nell’assediata Acropoli di Atene, portando munizioni militari.

Il 1827 venne elevato al grado di luogotenente colonnello e, dopo una lunga sosta, promosso al grado di colonnello.

Il 1850 muore ad Atene all’età di 70 anni.

Nell’archivio Generale Hellenico si trovano molti dei suoi scritti e ordini che portano la sua firma con la distinzione di tre punti e le curve massoniche.

Bassano Antonio e Bassano Pasquale

I fratelli Antonio e Pasquale Bassano erano, come Abbati, combattenti piemontesi di origine corsicana.

Per Pasquale non abbiamo molte informazioni. Prese parte alle battaglie del Peloponneso e cadde a Tre Tori-Koliàs ‘Acra (l’odierna Faliron), il 24 aprile 1827.

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Il suo nome è scritto sulla colonna monumentale dei caduti filo-elleni di Ilar Touret a Nafplio.

Di Antonio Bassano, invece, sappiamo che ha vissuto una vita piena di peripezie. Il 1821 lasciò la corte di Alì Passas di Jannina, ove si trovava, per passare dalla parte dei rivoluzionari greci rendendo alla causa grandi servigi. Nel 1822 a capo di due navi fu di grande aiuto con le spedizioni di Mavrokordatos a Peta e Suli.

I Turchi, dalla Fortezza di Prevesa, riuscirono a colpire ed affondare le sue navi e la barca su cui aveva trovato scampo. Venne così catturato dai turchi. Omer Vrionis riusci a fargli evitare l’esecuzione capitale. La moglie, in seguito, riuscì a liberarlo dietro pagamento di 60.000 grossia.

Nel 1824 scrisse da Ancona a Mavrokordatos comunicando il suo rientro in Grecia tornando a prestare i suoi servigi nella marina greca.

Nel settembre del 1828 Antonio Bassano venne nominato dal Governatore Ioannis Kapodistrias “capo della flottiglia” di Amvrakikos, costituita dalle navi a vapore “Karteria” e “Epichirissis”, con lo scopo di aiutare dal mare il Generalissimo Tzourts che combatteva nella Grecia occidentale.

Antonio Bassano morì in Grecia nel 1836.

Gallina Vincenzo

Liberale e giurista di grande fama, Vincenzo Gallina trovò in Grecia una seconda patria.

Partecipò a molte commissioni costituzionali e legali nonché alla compilazione dello Statuto Costituzionale Ellenico di Epidavros, che in sostanza è tutto opera sua.

Il “Corpo dei Deputati di Gracia”, riconoscendo i suoi preziosi servizi, gli conferì la medaglia di partecipazione all’Assemblea Nazionale con la seguente dedica: “11 Corpo dei Deputati onora la virtù dell’uomo’ .

Poco più tardi, il Corpo dei Deputati gli conferì la cittadinanza greca come poi fece anche con altri filo-elleni (Mayer, Rainer, ecc.). Nel 1873 Vincenzo Gallina venne inviato in Russia.

Nell’Archivio Generale Hellenico venne ritrovata una sua lettera scritta dalla città di Kaffa, in Crimea, datata 6 agosto 1823 e indirizzata a Mavrokordatos contenente speciali informazioni sui rapporti esistenti tra Russia e Turchia, nonché altre notizie riservate di vari paesi europei.

De Gubernati

De Gubernati era di origini piemontesi. Nato nel 1780, aveva prestato il servizio militare col grado di capitano, nella Guardia Italiana di Napoleone.

Nell’estate del 1821, venuto nel Peloponneso col grado di “maggiore sotto-comandante”, ebbe l’incarico di addestrare i soldati del corpo militare di Balest, sostenuto economicamente da Demetrio Ypsilantis.

Nel dicembre del 1821 prese parte allo sfortunato attacco di Nafplio e nel 1822 nominato “luogotenente-colonnello” e sottocomandante del Corpo Militare Ordinario del comandante Tarella. Ammalatosi a Pétta, prese parte, ciò nonostante, alla omonima battaglia, salvandosi per miracolo. Subentrato a Tarella, assunse il comando del Corpo Ordinario Militare col grado di colonnello e combatté a Etoliko, Agrinio, Sàlona, Gravia, Athene, Dervenia, Epidavros e Nafplio.

Grande fu il suo contributo per la presa della Fortezza di Palamidi, il 30 novembre 1822.

Dopo molte pressioni e tanti sforzi presso il Consiglio Nazionale di Grecia, riuscì ad ottenere da esso il sovvenzionamento del suo Corpo Militare e la sua riorganizzazione.

Venne sostituito nel 1824 dal comando di questo Corpo, denominato “Reggimento della Fanteria” e addolorato partì per l’Egitto entrando a far parte dell’esercito di Mohamet Alì come ufficiale ma con l’assicurazione che non avrebbe combattuto contro la Grecia.

Visantios, Anninos, Kokkinos e Barth, esaltarono il contributo offerto da De Gubernati nella guerra della Grecia contro la Turchia.

Chiappe Giuseppe

Giuseppe Chiappe, dottore in legislatura, si era specializzato a Parigi. Studioso e conoscitore della lingua greca, liberale e bonapartico, lasciò Parigi dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo e rimase a Livorno fino al 1820. Prese parte ai moti del Piemonte e di Napoli nel 1820, passando poi alle isole dello Ionio e nel giugno del 1821 nel Peloponneso e poi ancora nell’isola di Ydra ove collaborò con Kunduriotis e Tsamados, distinguendosi nella lotta dei Greci contro i Turchi.

Quando nel 1823 il Colonnello Stanhop portò a Ydra le macchine tipografiche, acquistate dall’Associazione Filellenica di Londra, Giuseppe Chiappe curò l’edizione giornalistica “Amico della Legge” (1824-1827). Questo giornale, oltre al notiziario ufficiale del Consiglio Nazionale Hellenico,

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comprendeva anche articoli che si riferivano alla libertà giornalistica, all’ordine costituzionale, alla giustizia sociale, all’istruzione ecc. Pubblicò in lingua francese, inoltre, il periodico “Ape hellenica’ mediante il quale rese note in Europa le motivazioni della lotta tra greci e turchi.

Chiappe prestò servizio come segretario sulla nave da guerra “Agamemnon ” di A. Tsamados e scrisse un diario edito il 1866 ad Athene da N. D. Patras, intitolato “Diari storici dei combattimenti navali del 1821 ”

Ottenuta la cittadinanza greca, rimase ad Athene fino alla sua morte nel 1841. Lasciò figli e nipoti che combatterono anch ‘essi contro i turchi, nelle guerre balcaniche e in Asia Minore.

Suoi discendenti vivono tuttora in Athene. Un suo bisnipote, mio collega di professione, laureatosi in medicina veterinaria presso l’Università di Milano, ha diretto, fino alla sua morte avvenuta il 2 novembre 1980, una Clinica in Via Filellinon, ad Athene, nei pressi della Chiesa Anglicana di San Paolo.

Lo storico Kokkinos e l’Archivio Generale Hellenico fanno spesso specifici riferimenti al prezioso contributo di Giuseppe Chiappe dato alla lotta per la liberazione della Grecia.          (continua)

 

 

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LA CERTOSA FIORENTNA

La Certosa fiorentina:

la sua testimonianza artLLA CERTOSA FIORENTINA la sua testimonianza artistica, culturale e spirituale

di

Daniele Mucci

Premessa

È’ evidente che uno studio completo e dettagliato sulla Certosa del Galluzzo non può essere esaustivo in un saggio da svolgere nel tempo concesso al relatore delegato a presentare, principalmente, un “abstract” che può essere in seguito, al massimo, assunto come percorso da seguire per una ricerca a livello storico, architettonico, religioso e anche sociale, più ampia e determinante.

La bibliografia esistente sul complesso monumentale è però così vasta che, da sola, prova l’importanza e il valore culturale della struttura e questo può essere di valido supporto se l’argomento, come è auspicabile, interesserà analisi più impegnative e specifiche.

Introduzione

L’intenzione di fondare nei pressi della propria città natale un monastero dell’Ordine della Certosa fu espressa pubblicamente per la prima volta da Niccolò Acciaiuoli nel 1328 a Napoli, dove ormai da sette anni dimorava per curare gli interessi della propria famiglia e dove aveva già iniziato la sua ascesa sulla scena politica del regno angioino. Nella città partenopea egli aveva potuto constatare il grande impegno che il re Roberto e l’intera corte ponevano nell’edificazione della Certosa di San Martino, fondata nel 1325 dal primogenito del re, Carlo, duca di Calabria, morto ancor giovane. Gli Angioini, strettamente legati alla Francia e ad Avignone, favorirono pienamente l’Ordine certosino e nella costruzione di quel grande monastero, che con i suoi edifici dominava la città, l’Angiò vedeva sicuramente un motivo di prestigio per il suo regno. Niccolò, già attratto dagli onori e dalla gloria, non poteva non rimanere colpito da quell’evento e lui stesso, anni più tardi, vorrà parteciparvi faAlessandro Cecchini: Veduta della Certosa di Firenze (circa 1700) cendo costruire quattro

cappelle nella chiesa della Certosa napoletana.

ale Emulazione ed ambizione dunque, desiderio di grandezza e di fama imperitura sono alla base della fondazione della Certosa di Firenze; ma anche un primordiale amore per la religione in quell’istintivo desiderio di salvare l’anima, che era l’unico che l’Acciaiuoli, nel suo spirito, impulsivo ed irrequieto, poteva comprendere. Ottenute le debite licenze dal Generale dell’Ordine e dal vescovo di Firenze, durante un lungo soggiorno nella città natale quale ambasciatore del re Roberto d’Angiò — in un momento delicato della vita politica fiorentina che vide di lì a pochi mesi il governo tirannico del duca d’Atene, Gualtieri di Brienne — Niccolò Acciaiuoli, 1’8 febbraio 1342, poté realizzare il trasferimento all’Ordine certosino delle terre e dei beni necessari per l’istituzione e la costruzione del nuovo monastero. Fu del prescelto a tal fine il colle detto “Monte Acuto”, alla confluenza dei torrenti on- Greve ed Ema, presso il Galluzzo, lungo l’importante strada per Siena e per che Roma. L’atto di donazione delle terre e dei beni all’Ordine certosino è molper to preciso nelle disposizioni relative all’edificazione del monastero, che si più delinea in tutta chiarezza “secundum laudabilia dicti ordinis instituta et consuetudinem approbatam”: cioè un complesso, dedicato a San Lorenzo, sta per dodici monaci e un priore, con una chiesa, un oratorio, capitolo, sagrestia, cappelle, tredici celle e tutti gli altri edifici necessari a condurvi una vita conventuale nell’osservanza della regola.

Si poté dunque dare inizio all’erezione del nuovo insediamento nella primavera del 1342; e quando, nel settembre dello stesso anno, fu perfezionato il totale possesso da parte dei certosini del poggio di Monte Acuto con l’acquisto di altre estensioni di terreno dal pievano di Sant’Alessandro a Ita Giogoli, intervenne già nella stipulazione dei relativi atti il primo priore di San Lorenzo a Montesanto, don Roberto da San Miniato.

Dopo la nomina a Gran Siniscalco del regno angioino e dopo l’acquisto di grandi feudi in Grecia e nell’Italia meridionale che resero Niccolò Acciaiuoli uno degli uomini più ricchi del suo tempo si iniziò ad erigere, a 25 fianco del monastero, quel “palatium magnum” che ancor oggi si impone e, alla vista di chi sale alla Certosa, quale magnifica dimora personale di a, Niccolò, con ampie sale e annessi giardini e “con altro adornamento que axtimare si potesse dovere essere suficente ale persone d’ogni inlustriximo et sereniximo principe, non ecieptuandone papa né imperatore”.

In una lettera del 3 aprile 1336 viene indicato il nome del principale architetto responsabile del complesso trecentesco e precisamente fra Jacopo e Passavanti, il priore di Santa Maria Novella, che si avvalse dell’opera di Jacopo Talenti, nome certo di non secondo piano nell’ambiente artistico fiorentino. i L’architettura essenziale e solenne in cui gli elementi decorativi sono ridotti al minimo induce a ragionevolmente sostenere che — come afferma il Vasari — la Certosa fu opera di “valentuomini” vissuti al tempo dell’Orcagna.

Nella costruzione della Certosa si incontrarono e perfettamente si fusero due tradizioni architettoniche diverse. Da una parte gli schemi tipici dei i monasteri certosini e dall’altra gli elementi morfologici e la tecnica edificatoria che risalgono direttamente ai modi dell’architettura fiorentina  attuati dalle maestranze locali e che si possono riscontrare in altri edifici coevi di Firenze e del suo contado. Contemporaneamente alle grandi cure che nel 1336 egli prestava alla fabbrica del proprio palazzo, Niccolò continuò ad interessarsi con sollecitudine degli edifici monastici, mostrandosi in ciò rispettoso delle iniziative dei monaci. Non solo tali lavori non furono trascurati ma si iniziò anche una nuova fase di essi. In una lettera al priore della Certosa, del 1 0 luglio 1336, egli manifesta il proposito di far “duplicare” il monastero, di passarlo cioè al rango di Certosa doppia con la costruzione di altre dodici celle per i monaci. Questa intenzione sarà riformulata in termini analoghi nel testamento del 1359, nel quale si specifica che le nuove celle dovranno costruirsi “juxtaformam aliarum cellarum”. Col che veniamo a sapere che un primo chiostro con le relative celle già esisteva in Certosa a quell’epoca. La Certosa fiorentina probabilmente non giunse mai ad essere una vera e propria Certosa doppia, ma neppure rimase una Certosa semplice per soli dodici monaci ed un priore. Dopo il totale rifacimento del chiostro grande ai primi del Cinquecento, vi si potevano contare diciannove o venti celle regolari, e bisogna pure tenere presente che la cella del procuratore, come già appare in un documento della seconda metà del Quattrocento, si trovava “extra claustrum”.

Già alla morte di Niccolò Acciaiuoli la Certosa di Firenze era sostanzialmente compiuta, proprio negli anni prossimi a quella data, soprattutto tra il 1362 e il 1370, vengono registrati nei libri di memorie del monastero grandi acquisti di terre e beni immobili, mentre non si accenna mai a spese per completamento o l’ampliamento delle fabbriche. Certamente la chiesa e tutte le strutture del complesso monastico erano perfettamente agibili prima del 1380, altrimenti non si potrebbero spiegare gli avvenimenti di cui la Certosa di Firenze fu teatro negli anni compresi fra il 1380 ed il 1390, e che le fecero assumere una posizione particolarmente importante in seno all’Ordine. Il 30 maggio 1380 vi si tenne infatti un Capitolo speciale di una parte dell’Ordine che ribadì la sua fedeltà al papa di Roma, Urbano VI, mentre il Capitolo Generale della “Grande Chartreuse” fu costretto a parteggiare per l’antipapa avignonese, Clemente VII.

Nel 1383 la Certosa di Firenze fu scelta quale sede generalizia dei certosini all’obbedienza romana e il suo nuovo priore, don Giovanni da Bari, assunse il titolo di “Prior Cartusiae Maioris”. Fu qui che si tennero i Capitoli generali dei certosini fedeli a Roma negli anni 1385, 1388 e 1389. Ma la guerra tra Firenze e Milano, apertasi proprio in quest’ultimo anno, costrinse il Capitolo generale del 1391, tenuto a Montello (Treviso), a decidere il trasferimento della Sede generalizia da Firenze alla Certosa austriaca di Seitz, la più antica per fondazione (1160) tra quelle delle Province dell’Ordine fedeli a Roma.

Al chiudersi del secolo la Certosa si mostrava perfetta e grandiosa a coronamento del Monte Acuto. I suoi edifici, le celle, le fortificazioni, la chiara sagoma della chiesa, si stagliavano contro il cielo sollevando la meraviglia dei viandanti, come poteva tranquillamente annotare, nel 1440, Matteo Palmieri nella sua opera “Vita Nicolai Acciaiuoli”. La sua costruzione fu un fatto notevole per gli eventi dell’architettura fiorentina del Trecento e la chiesa monastica in particolare rappresentò un fatto nuovo: con la semplice, unica navata coperta da ampie volte a crociera, essa rispecchiava pienamente i modi dell’architettura certosina, mentre non rispondeva affatto alla tradizione stabilitasi in Firenze fin dall’epoca romanica e protrattasi in periodo gotico. Secondo quest’ultima infatti le chiese a sala, cioè a unica navata, erano coperte sempre con tetto ligneo a capriate in vista.

Ed è alla Certosa stessa che allo schiudersi del nuovo secolo troviamo in costruzione un altro sacro edificio ancora una volta ispirato ai modi dell’architettura certosina: la Cappella di Santa Maria, alla quale si lavorava nel 1404. La chiesa di Certosa, col suo spazio interno unitario e chiaramente definito, con la sobria decorazione pittorica che, nei limiti imposti dagli statuti, probabilmente ornava le pareti e le volte, il ritmo ampio e lento dello svolgersi di queste ultime, deve aver, certamente, sensibilizzato gli architetti fiorentini a nuove e diverse ricerche dello spazio architettonico che verranno accolte ed elaborate, ormai in pieno Quattrocento, soprattutto da Michelozzo e dagli artisti più legati al suo ambiente.

 

             
             
             
             
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     

a- singoli ambienti, seguite immediatamente dalle attività degli artisti impegnati nell’arredo. I maggiori interventi furono patrocinati da personalità interessate all’evoluzione della Certosa fra le quali, oltre al fondatore e altri ù membri della sua famiglia, si annoverano alcuni priori illuminati che favorirono un incremento delle cosiddette “arti minori”, come l’oreficeria e l’arte libraria. I monaci certosini, pur nel chiuso delle loro celle, trovavano in li realtà all’interno del monastero molti incentivi atti a mantenerli in stretto contatto con i contemporanei movimenti culturali. Il Vasari attesta la presenza, che non può oltrepassare la metà del XIV secolo, di Buffalmacco, che avrebbe eseguito due tavole a tempera, delle quali “l’una è dove stanno per il coro i libri da cantare, e l’altra di sotto nelle cappelle vecchie”. Ancora il Vasari informa che Antonio Veneziano dipinse per l’altar maggiore una tavola andata distrutta, poco prima della metà del Cinquecento, in un incendio sviluppatosi per inavvertenza del sagrestano che aveva lasciato un turibolo acceso.

In questo periodo la Certosa doveva già presentarsi degna di accogliere inestimabili tesori, ma è difficile ricostruire con precisione come fosse veramente strutturata nel Trecento, dal momento che per la parte più antica, cancellata anche da interventi successivi, sussiste una forte carenza di documenti. Lo stesso Vasari, fonte di preziose notizie, costituisce una testimonianza ormai tarda preceduta da troppe vicende intervenute a trasformare il volto del monastero, fra cui la più penosa fu certamente l’assedio di Firenze del 1530, che vide il convento ridotto a quartier generale delle truppe imperiali, sebbene molto più significative sarebbero state le ristrutturazioni condotte dall’ultimo quarto del XV secolo alla metà del XVI.

Tuttavia la Certosa del Trecento ci ha tramandato il complesso scultoreo più splendido di tutto il monastero, composto dai più eccezionali capolavori dell’arte del tempo. Esso comprende il monumento funebre di Niccolò Acciaiuoli e le tre lastre terragne di Acciaiuolo, Lorenzo e Lapa da attribuirsi, senza alcun dubbio, a uno o più scultori attivi nell’ambito dell’Orcagna e la cui realizzazione risale al 1385. Questo periodo, compreso tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento è caratterizzato da un notevole incremento artistico che coincise con l’edificazione della Cappella di Santa Maria, unica opera promossa — dopo quelle del fondatore — da un membro della famiglia Acciaiuoli. I grandi interventi successivi saranno diretti esclusivamente dai priori del monastero. L’edificazione della Cappella costituisce un momento importante per l’evoluzione architettonica e artistica della Certosa. La pianta si presenta a croce greca, pur trattandosi di una navata divisa in tre campate e la struttura architettonica con le volte a crociera costolonata impostate su archi a sesto acuto, come pure le finestre a ogiva, rivelano un linguaggio gotico, ma si avverte una più decisa definizione dello spazio — nel rigore quasi geometrico dell’impostazione dei pilastri e nell’identica altezza delle volte che frena lo slancio ascensionale gotico che prelude allo spirito del primo Rinascimento.

È un’architettura questa dalla quale Michelozzo potrebbe aver tratto molti suggerimenti e ciò non solo in relazione alla concezione spaziale e  agli elementi morfologici dell’interno, ma anche dalla studiata volumetria del corpo esterno, dove è presente, come elemento decorativo, un cornicione in cotto situato immediatamente sotto la gronda, costituito da mattoni disposti a dente di lupo, motivo che diverrà tipico delle architetture michelozziane.

Terminati i lavori alla Cappella di Santa Maria, le attività in Certosa sono caratterizzate da un lungo periodo di stasi che si protrae fino alle soglie dell’ultimo quarto del XV secolo e investe tutti i campi della vita culturale.

 

Nuovo colloquio ideale tra il monaco e Dio. Momento essenziale della formazione del monaco-eremita è la “scuola” della cella, tra le cui mura egli, durante quasi l’intero arco della giornata, si dedica alla “lectio divina”, alla “meditatio” e al lavoro manuale, secondo un costume che deriva dalle più antiche forme eremitiche del cristianesimo orientale. Ciò che caratterizza però in modo nuovo l’istituzione certosina è il fatto che l’eremita non è lasciato solo a se stesso nel suo difficile cammino verso Dio, poiché egli viene a far parte di una vera comunità che trova il suo momento di coesione in determinate pratiche di vita cenobitica, proprie anche alla tradizione benedettina, quali la corale recita di alcune parti dell’ufficio divino e, a seconda dei giorni e delle circostanze, la refezione comune, la riunione capitolare dell’intera comunità, l’assoluta obbedienza che in ogni istante è dovuta al priore del monastero.

In ogni Certosa la comunità monastica è rigorosamente distinta in due categorie di religiosi: i monaci eremiti da una parte, che vivono in pieno il “propositum cartusiense” ed ai quali è demandato il governo della collettività stessa e i fratelli laici o conversi dall’altra, che sotto la direzione del priore e del procuratore, pur non tralasciando affatto la preghiera, si interessano in primo luogo delle esigenze materiali della comunità e dell’amministrazione dei possedimenti del monastero. Nei primi due secoli di vita dell’Ordine queste due categorie di religiosi formarono quasi due distinte strutture, che oltretutto risiedevano in complessi monasteriali diversi, posti ad alcune miglia di distanza l’uno dall’altro: i monaci nella “domus superior” o “casa alta” — la Certosa vera e propria — e i fratelli conversi nella “domus inferior” o “casa bassa”, una specie di grangia, ma più sviluppata di questa, con celle ed oratorio, ove si svolgevano tutti i servizi manuali a favore della confraternita. La domenica e nelle altre feste le due congregazioni si riunivano però nella “domus superior”.

Il riunirsi delle due comunità in un unico complesso monasteriale determinò la definitiva formazione della tipologia del monastero certosino. In realtà la pianta di una Certosa può variare profondamente da una casa all’altra e non si riscontra mai l’adozione normativa di uno schema-tipo, come avviene invece per le abbazie cistercensi del XII-XIII secolo. In questa varietà vengono però sempre rispettati, nel corso dei secoli, certi rapporti di vicinanza e di collegamento tra i vari ambienti e certe loro caratteristiche fondamentali.

Pur accogliendo la tradizionale tipologia monasteriale certosina, le Certose trecentesche non solo regolarizzarono gli schemi distributivi e le strutture delle costruzioni, ma nell’espressione delle loro architetture tendevano ormai a realizzare una maggiore armonia e perfezione, talvolta anche di una grandiosità di forme, che non rifuggivano da valutazioni d’ordine essenzialmente estetico. In questo senso la volontà dei fondatori si faceva sempre più preponderante, volendo essi dar vita a monumenti che per i loro pregi artistici ricordassero ai posteri la loro magnificenza e liberalità verso la Chiesa. Esempio emblematico di questa tendenza sarà, alla fine del Trecento (1393), la Certosa di Pavia, costruita in forme ricche e fastose, devianti da qualsiasi tradizione dell’Ordine, per volontà del duca di Milano Gian Galeazzo Visconti, che invano i certosini tentarono di contrastare. Ciò accadde anche per la Certosa di Firenze.

Sviluppo e vita della Certosa fiorentina dalla fondazione alla soppressione

La vita del monastero è inscindibile dall’evoluzione artistica e architettonica oltre agli sviluppi, successivi, relativi alle trasformazioni dei

 

A parte alcuni interventi alla cella del priore, iniziati nel 1466, è solo negli ultimi anni del Cinquecento che si manifesta una precisa volontà di rinnovamento edilizio, il quale ben presto coinvolge anche la pittura e la scultura, mentre già dai primi anni dell’ottavo decennio assistiamo ad un intensificarsi delle commissioni per opere di oreficeria e miniatura, tutte andate perdute e che rivivono soltanto attraverso i documenti.

Sotto il priore don Gregorio d’Alemagna, nel biennio 1484-1485 veniva edificato il chiostrino dei conversi alle cui celle si lavorava già da un anno e che è il primo ambiente in Certosa edificato in forme rinascimentali, pur essendo impostato sulle strutture di una preesistente corte trecentesca. Esso è costituito da un doppio ordine di loggiati: quello inferiore è coperto a volte a crociera sostenute da colonne con capitelli a palmette, quello superiore da volte a vela poggianti su colonne sormontate da capitelli in stile ionico.

Quest’ultimo è certamente dovuto a un rifacimento settecentesco ma, in origine e rispettando la tradizione quattrocentesca era, senza alcun dubbio, coperto da una loggia trabeata. Il fervore edilizio di quegli anni culmina nel 1491 con la decisione di ricostruire completamente il chiostro dei monaci. Esso venne ampliato sul lato occidentale dalla parte del bosco, fatto che determinò la scomparsa degli orti dei monaci, sostituiti da questo lato da loggette.

Non appena conclusasi la costruzione del chiostro, i lunettoni angolari del loggiato divennero il supporto per gli affreschi eseguiti dal Pontormo tra il 1524 e il 1527. Essi segnano un momento fondamentale nell’arte del primo manierismo toscano per l’abbandono, da parte del Pontormo, dei modelli classici per trarre ispirazione, nel soggetto come nello stile, dal Dürer. Di fondamentale importanza è pure, in Certosa, la presenza di Andrea Della Robbia, Benedetto da Maiano e del Bronzino giovane, autore delle due lunette ad affresco il “San Lorenzo” e la “Pietà” e allievo del Pontormo.

Alla seconda metà del Cinquecento erano già iniziati i lavori di rinnovamento della chiesa e fino al 1580 assistiamo alla completa ristrutturazione della zona anteriore al monastero, consistente nell’ampliamento della chiesa e della foresteria nuova, nel completamento del palazzo Acciaiuoli ed infine, a completamento di questi lavori, nell’edificazione del grande piazzale antistante la chiesa sul quale si prospettano i tre edifici. L’abbattimento dell’antico tramezzo che divideva i monaci dai conversi, fu uno degli ultimi interventi murari, al quale seguì, all’inizio del terzo decennio della seconda metà del XVI secolo, la costruzione del coro ligneo.

Nel 1556, dopo un’interruzione di due anni, nel corso dei quali i certosini furono impegnati al ripristino dell’ospizio da loro acquistato in via San Gallo a Firenze, vennero intrapresi i lavori al nuovo coro dei conversi e, dal 1557 al 1559, si ricostruiva in forme rinascimentali anche il chiostrino dei monaci il cui lato, addossato alla chiesa, era occupato dal “Colloquio” che fu arricchito da otto vetrate decorate, due delle quali rimaste però incomplete. L’ultimo decennio del XVI secolo è monopolizzato dai lavori alla zona presbiteriale che coincidono all’arrivo in Certosa del Poccetti il quale, nel 1590 0 1591, iniziò la decorazione della “Cappella della chiesa” completandola nel 1593. Con il completamento del piazzale si concludeva ogni tipo d’intervento architettonico teso a modificare le strutture fondamentali del monastero. Questo significa che la Certosa ha ormai raggiunto un assetto monumentale dove gli ambienti sono ben definiti e attendono soltanto di venire valorizzati mediante l’arredo. Altra constatazione importante è frutto di un esame di documenti, dai quali si rileva lo stretto legame, intensificatosi con la seconda metà del Cinquecento, che unisce la Certosa ad altri monasteri dell’Ordine presenti nelle città di Bologna, Genova, Pisa e Siena, fra i quali si verifica un vero e proprio scambio di artisti.

pere di rinnovamento dell’intera zona presbiteriale della chiesa monastica, già si era dato inizio al completo rifacimento della “Cappella delle Reliquie”, preludio a quel generale riassetto di tutte le cappelle, nello sforzo di adeguare, agli indirizzi suggeriti o prescritti dalla Controriforma, quegli ambienti dove, con la celebrazione della messa individuale, il monaco viveva il momento più alto della sua quotidiana preghiera.

Nei primi anni del Seicento si ricostruì, almeno per un lungo tratto, la “clausura”, quel lungo muro di cinta, proprio ad ogni Certosa, che anche qui a Firenze comprendeva al suo interno i terreni posti immediatamente intorno al monastero e di sua stretta pertinenza, cioè in definitiva tutto il Monte Acuto, dalle sue falde lungo la Greve e l’Ema, fino alla Strada Romana.

Già nei primi anni del Settecento si attendeva a opere di elevato impegno ed interesse. Dal 1714 si lavorò alla nuova libreria e si iniziò la revisione dell’archivio con il restauro e la rilegatura dei libri di alto valore artistico, storico e culturale. Nel 1752 fu redatto un nuovo inventario dell’archivio, conservatosi per lungo tempo in Certosa anche dopo le soppressioni. Nel 1794 si dava inizio all’ultimo intervento che in Certosa modificò in maniera sostanziale gli ambienti interessati: il completo riassetto delle quattro cappelle, l’una di seguito all’altra, adiacenti alla chiesa. Pareva che i monaci non si dessero cura degli eventi politici rivoluzionari, che in quegli anni si profilavano ormai, non più soltanto all’orizzonte.

Il 9 gennaio 1801, essendo giunti e installati in Certosa centocinquanta soldati francesi, i monaci fuggirono al Castellare rientrando solo dopo alcuni mesi. Ma con il decreto del 13 settembre 1810 di Napoleone, Imperatore dei Francesi, il monastero della Certosa era soppresso e i monaci furono costretti ad abbandonarlo, definitivamente l’il ottobre dello stesso anno.

Dopo la soppressione

Dopo la partenza dei monaci la Certosa fu occupata da varie famiglie che presero a pigione le celle e le stanze. Furono allora rimosse dal monastero numerose opere d’arte, molte delle quali andarono subito disperse, mentre altre vennero trasportate all’Accademia di Belle Arti. Dopo la restaurazione del Granducato la Certosa parve riprendere il suo antico tradizionale aspetto, legato alla sua funzione di centro di vita religiosa.

Quelli della prima metà dell’Ottocento furono gli anni più difficili per la comunità certosina e, date le ristrettezze economiche, non era sempre possibile nemmeno l’osservanza della Regola. Nel 1844 i monaci chiesero addirittura alla Santa Sede il permesso di vendere alcuni quadri.

Nel 1862 corse la voce che taluni oggetti fossero stati alienati e il governo italiano inviò sul luogo l’ispettore Carlo Pini al quale si deve la compilazione del primo inventario degli “Oggetti d’Arte della Chiesa e Convento della Certosa di Firenze”.

La soppressione degli ordini religiosi decretata dal governo italiano nel 1866 avrebbe potuto portare nuovi turbamenti nelle vicende della Certosa fiorentina, ma questa volta furono gli stessi monaci che tempestivamente intervennero con una supplica al re d’Italia e al ministro Bettino Ricasoli, supplica con la quale si invocava un’eccezione per cui la comunità certosina potesse mantenersi nel monastero. Così di fatto avvenne e i monaci rimasero custodi della Certosa, dichiarata monumento nazionale, e delle opere d’arte in essa contenute.

Ma il destino della Certosa era ormai segnato. Anche se rimarrà per un verso un autentico monastero, essa diventerà sempre più meta “turistica” per chi nei giorni di festa, vorrà allontanarsi dalla città, fuori Porta Romana. Nel 1869 Giuseppe Alinari otteneva il permesso di riprodurre in fotografia

 

alcuni monumenti della Certosa: fatto di grande importanza che consentirà una conoscenza a più vasto raggio, di innumerevoli opere d’arte. Ciò permetterà a restituire al monastero quel ruolo di “luogo” sempre più familiare e apprezzato dai conoscitori e amanti della storia dell’arte.

È tuttavia il complesso della Certosa nel suo insieme che richiama ancor oggi i cultori e gli studiosi della storia dell’arte. Dal 1958 i monaci cistercensi hanno sostituito i certosini nella custodia del monumento e la maggior apertura al “mondo” della loro regola monastica ha permesso un più adeguato inserimento della Certosa stessa nel vasto panorama culturale della città di Firenze. La Soprintendenza ai Beni Architettonici e Ambientali per le province di Firenze e Pistoia ha intrapreso con attento interesse e alta specializzazione il restauro generale dell’intero complesso, restauro che ha ormai toccato praticamente tutti gli ambienti principali e che si auspica proseguirà, insieme a un più attento ordinamento delle opere d’arte, nei prossimi anni.

Appendice storica: La famiglia Acciaiuoli

L’illustre famiglia guelfa fiorentina era originaria di Bergamo. Alla fine del XIII secolo Leone di Riccomanno fondò una compagnia mercantile che salì presto a grande ricchezza e potenza, finanziò sovrani ed ebbe succursali nei principali centri di Europa e del Mediterraneo. Pure nella vita pubblica di Firenze gli Acciaiuoli ebbero parte notevole sia all’epoca del libero Comune sia durante la Signoria dei Medici, di cui furono fautori. Un membro della famiglia di nome Acciaiuolo costruì una immensa fortuna nel regno di Napoli, donde gli Acciaiuoli passarono in Grecia divenendo con un Raineri, parte per eredità e parte per conquista duchi di Atene. Un Angelo Acciaiuoli (1349-1408) fu Cardinale e Arcivescovo di Firenze, tutore di Ladislao re di Napoli, governatore del regno e pacificatore tra il papa Bonifacio IX e la famiglia Orsini. Un Donato Acciaiuoli (1429-1478) fu un dotto umanista, membro dell’Accademia Fiorentina, gonfaloniere di giustizia, oratore efficace e fautore della filosofia di Aristotele:

Infine Niccolò Acciaiuoli (1310-1365), figlio di Acciaiuolo salì a grandi onori nel regno di Napoli ove diresse gli affari del principato di Taranto, conquistò per il principe Roberto il principato di Acaia, divenne il più influente consigliere dei sovrani angioini e raggiunse l’altissima carica di Gran Siniscalco del regno. A lui si deve la costruzione della Certosa di Firenze e resta, quale testimonianza, una celebre lettera autobiografica.

Firenze: dal libero Comune alla Signoria

Fin dalle sue origini (secolo XII) il Comune aveva visto continui, sanguinosi contrasti tra guelfi e ghibellini. Nel 1266 però i guelfi ebbero il sopravvento, con l’appoggio della ricca borghesia, che si affrettò a rafforzarsi del proprio potere, affiancando al Capitano del Popolo e al Podestà alcuni magistrati detti Priori, scelti tra gli iscritti alle Arti maggiori. A consolidare il nuovo governo contribuirono gli “Ordinamenti di Giustizia” di Giano della Bella (1293), che escludevano dalla vita politica non solo i nobili, ma anche il popolo minuto e la plebe. Con tutto ciò la ricca borghesia, che si raggruppava nello schieramento guelfo, non ebbe vita facile e ad un certo momento si spezzò in due gruppi: i “Bianchi” e i “Neri”. Si aprì un lungo periodo di discordie, del quale approfittò il papa Bonifacio VIII per appoggiare i Neri, che non si mostravano contrari ad un suo intervento nella affari della città. A lui si deve se, nel 1301, i Bianchi furono cacciati da Firenze con l’aiuto di Carlo di Valois, fratello del re di Francia. Fra gli esuli bianchi vi fu anche Dante Alighieri che morì a Ravenna senza poter rivedere Firenze.

Le lotte continue segnarono però anche per Firenze la fine dei liberi ordinamenti comunali. Infatti i fiorentini, stanchi per i continui disordini, chiamarono dei “Signori” ai quali affidarono temporaneamente il potere. Uno di questi, Gualtieri di Brienne, duca di Atene, abusò scandalosamente della sua autorità e venne cacciato a furore di popolo dopo in solo anno di governo (1343). Le lotte tuttavia continuarono, prima fra i nobili e il popolo grasso, poi fra il popolo grasso e il popolo minuto, appoggiato dalla plebe.

Il contrasto giunse alla sua manifestazione più clamorosa nel 1378, quando i “Ciompi” — i salariati dell’industria della lana — mal pagati, mal nutriti e costretti a vivere in misere condizioni, insorsero e si impadronirono del Palazzo della Signoria. La rivolta ebbe, in un primo, momento successo, ma spaventò i borghesi, spingendo Arti maggiori e Arti minori ad unirsi per soffocare il movimento. Alla fine però il potere rimase alle Arti maggiori, cioè alla ricca borghesia, sotto il cui governo Firenze ebbe alcuni anni di stabilità che le permisero d’ingrandire il suo territorio e di raggiungere il mare a Pisa e a Livorno. E per l’appunto in questo periodo che alcune importanti famiglie si avviano a controllare completamente il governo della città: La più fortunata, in questa corsa al potere, la famiglia “dei Medici”, la quale, se pur di modeste origini, era divenuta potente per le ricchezze accumulate con l’esercizio del commercio e per i rapporti di affari stabiliti con sovrani e finanzieri di tutta l’Europa.

Si affermò così una “Signoria” appoggiata dal popolo minuto, che non nascondeva al Medici la propria simpatia per la generosità da essi più volte dimostrata. Fondatore della dinastia medicea fu Cosimo il Vecchio che, dopo avere ereditato un patrimonio tra i più solidi e consistenti della Toscana, era riuscito ad aumentarlo in modo considerevole sfruttando una serie di fortunate operazioni bancarie ma traendo anche profitto dalla lavorazione della lane e della seta. Cosimo riuscì a rimanere arbitro della vita politica fiorentina e, quel che più stupisce, seppe ottenere tutto ciò senza assumere nessun titolo e senza modificare l’ordinamento politico cittadino.

La potenza dei Medici raggiunse, in questo periodo, il suo culmine con i due nipoti di Cosimo: Giuliano e Lorenzo, quest’ultimo chiamato dai

 

posteri “11 Magnifico”.•

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L’OMBRA DELLA RAGIONE

di

Vittorio Vanni

Il nostro tempo ci fa assistere, con amaro sgomento, allo straripare della moda “occultistica” e a conseguenti pratiche pseudo-stregoniche, che, in soggetti psichicamente deboli, che sono le vittime designate di ciarlatani e prevaricatori, possano favorire l’insorgere di turbe mentali o, comunque, di stati di angoscia e di plagio.

Se è ben vero che fra ingannato ed ingannatore vi è sempre una sorta di complicità perversa, che è difficile superare, vi è, fra i doveri tradizionali dei Massoni, quello di intervenire, qualora sia possibile, contro la corrente del male.

I soggetti di questa antica e oggi rinnovata forma di malvagia stregoneria, sono una genia piena di cinismo, di egoismo dispregiante qualsiasi benevolenza e compassione umana, tanto più nella considerazione che i loro soggetti sono espressione piena della dolente e debole umanità dei nostri giorni.

La difficoltà di quest’opera non è certamente I ‘ azione contro questa razza di pseudo-maghi, considerando la naturale e conseguente vigliaccheria della loro mentalità, e considerando soprattutto che nonostante la mala fede ed il cinismo questi figuri sono più superstiziosi dei loro stessi clienti e qualsiasi elementare procedimento psichico li può terrorizzare, quanto la sostituzione del supporto che rappresentavano comunque per le loro vittime.

Colui che si rivolge al ciarlatano nel tentativo di risolvere le proprie difficoltà purtroppo ha quasi sempre affinità psicologiche (anche se inverse) con il ciarlatano stesso e la paura che nutre nei suoi confronti non gli impedisce nel contempo una torbida ed a volte insormontabile fiducia.

Questo fa sì, in genere, che il ciarlatano ha più successo ed è più efficace quanto più sia rozzo e volgare. Con questi soggetti intervenire è spesso inutile, anche se un tentativo è comunque doveroso. Nei rari casi in cui la personalità dei soggetti è recuperabile, l’intervento crea una pericolosa forma di transfert nei confronti dell ‘ operatore, per cui è necessaria un ‘infinita pazienza per convincere che nessuno può risolvere i problemi di vita, sia pratici che psicologici, di un’altra persona, senza perlomeno un’attiva e tenace collaborazione.

E’ sconsigliabile qualsiasi tentativo di operare con procedimenti magico-rituali alla presenza del soggetto, in quanto da un punto di vista sottile le sue componenti astrali sono certamente fragili ed alterabili come quelle psicologiche e qualsiasi tipo di intervento potrebbe essere negativo.

L’unica modalità è la costanza della presenza morale e psicologica, lo smantellare gradualmente, attraverso la logica ed il ragionamento razionale le incredibili superstizioni che in genere questi soggetti hanno appreso dai ciarlatani, il ricostruire una personalità sulle basi della libertà interiore, della volontà attiva e dell’ accettazione responsabile delle proprie difficoltà esteriori ed interiori come ineluttabili componenti della condizione umana.

Più grave ed irrimediabile è il caso di personalità più forti ed intelligenti, ma interiormente mal equilibrate o degenerate, che, partendo dalla volgare stregoneria ciarlatanesca, credono di evolversi in più sofisticate avventure intellettuali ed operative esponendosi all’influsso di psichismi deteriori, da cui non si sottrae se non attraverso una costante armonia interiore e l’equilibrio spirituale.

Il primo passo di queste personalità è l’ accesso ai circoli spiritici, nei quali si ha una candida (quando non interessata) fiducia nelle pretese rivelazioni ed insegnamenti di entità degnantesi di mostrare le verità nascoste.

Ma non vi è verità per l’uomo, se non quella personalmente sofferta, meditata ed infine guadagnata con il dominio e I ‘ equilibrio di se, lo studio e I ‘ ascesi intellettuale. Ciò che queste pretese entità possono donare apparentemente, prendendo in cambio i preziosi succhi fisici, animici e spirituali dei partecipanti, è di gran lunga inferiore a ciò che si può apprendere da un libricino in un angolino, anche se in ciò è richiesto un minimo sforzo mentale.

Un ulteriore passo di queste personalità a volte brillanti, ma nel contempo mediocri, consiste nella loro velleità di bussare con insistenza alla porta dei pochi Ordini Iniziatici sopravvissuti alla nostra età, e che dovrebbe rimanere eternamente chiusa di fronte alla profanità dilagante.

Purtroppo qualche volta questa porta viene aperta dai profani che sono dentro e che dovrebbero esser respinti con forza là dove è il loro posto, perché è oggi sempre più urgente e doveroso prendere le distanze da coloro che nel loro gracchiare superstizioso perché ignorante, si vestono delle bianche piume dell ‘ iniziazione, e delimitare a segni sempre più chiari l’essenza e la portata delle metodologie iniziatiche. Nella ritualità massonica, come nel suo insegnamento esoterico, oggi tanto più importante quanto più, a volte, dimenticato, non vi è niente di ” occultistico “, ma solo, secondo la terminologia di un antico Maestro, l’ esistenza di una “Chose”, ineffabile quiddità che non è possibile rivelare attraverso la parola, e che viene trasmessa con un metodo che permette I ‘ affinarsi progressivo di quella sensività intuitiva il cui grado e qualità sono eminentemente personali ed interiori.

La riservatezza di questi metodi di realizzazione deriva da una secolare esperienza di incomprensioni e persecuzioni e dalla necessità di esposizione graduale e selettiva di una dottrina che non si basa su affermazioni dogmatiche ma su allusioni ed analogie. Fondamentale è il concetto dell’unità dell ‘uomo con la natura ed il piano divino, unità che l’uomo può realizzare in se lottando con l’ illusione della separazione e con ciò che è effettivamente negativo e separativo. Questa via non è percorribile attraverso il gusto del fenomenico o delle pratiche magiche egoiche, che esaltano e gonfiano la personalità dell’operatore fino all’ossessione psichica, al plagio dei propri simili più deboli, all’evocazione dei mostri del subconscio senza risalita all’Io cosciente e volitivo ed alla corrente del bene.

Se la meta dell’iniziazione sono il risveglio e la conoscenza, questi non potranno essere raggiunti ne attraverso la scimmiottatura rituale di gruppuscoli occultistici nati dalla decomposizione di un corpo sociale decadente ne dalle pseudo-rivelazioni di pseudo entità sublunari.

Ogni rito, ogni forma, ogni cerimonia è il necessario girello con cui trasciniamo il nostro spirito ancora infantile, attraverso la difficile e faticosa ricerca della maturità e del completamento, fino a che la nostra volontà imparerà a camminare con le sue proprie gambe.

Vera magia è quella dell ‘ arte che segue ed anticipa il cammino della natura, l’ alchimia infinita dell ‘uomo che trasmuta se stesso in se stesso; ancor più quell’amore tanto più invocato quanto meno sentito, fuoco che sa bruciare la brama dell’ego separante l’uomo dall’uomo e dalla natura.

Con chi si avvicina alle grandi correnti iniziatiche per l’avventura della ricerca del se, in buona fede ed interiore umiltà, abbiamo il dovere di condividere il nostro duro pane spirituale.

A questi vogliamo dire che se abbiamo scelto la via massonica è perché l’ abbiamo sentita congeniale ed affine a noi stessi, ma che non crediamo che sia unica, indispensabile e perfetta, così come non sono stati e non sono perfetti coloro che nel passato e nel presente l’hanno perseguita e tramandata.

Ma vi è comunque un’ incredibile abbondanza di bellezza, sapienza e verità in questa via, che difenderemo ancora più aspramente contro la superficialità e la profanità dei tempi, perché non vogliamo rappresentare lo specchio in cui si riflettano i drammi, le frustrazioni, le insufficienze, le illusioni, le brame di una società che ha perso la fede nel razionale, ma non ha ancora imparato ad avvicinarsi allo spirito se non attraverso la superstizione, l’ ignoranza e la stupidità.

Ma poiché crediamo nella reintegrazione universale quando i tempi dello spirito ritorneranno, questa difesa sarà benevolente ed anche fraterna verso coloro che non sanno quello che fanno.

Ma a coloro, invece, che ben sanno quello che fanno, agli emissari dell ‘ombra e della contro–iniziazione, sapremo ben indicare quel sole invitto che dissolve la putredine nel fulgore di fuoco della sua luce.

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BENVENUTI A CASA VOSTRA

BENVENUTI A CASA VOSTRA

 

Benvenuti a casa vostra, benvenuti nella Bellezza. Il Vascello è la Bellezza. Ma oggi i nostri labari sono abbrunati. I massoni del Grande Oriente d’Italia di palazzo Giustiniani partecipano alla commozione del Paese per la scomparsa del presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, il presidente che nel 2010 volle onorare il XX settembre 1870 con la deposizione di una corona di alloro alla Breccia di Porta Pia. Noi, anche per questo, lo onoriamo.

 

Lo onoriamo da questo luogo che è un inno alla Bellezza, la Bellezza che si pensa, che si realizza, che si consolida. E costa fatica, tanta fatica. Le idee, il progetto, le autorizzazioni, il lavoro curato nei minimi particolari, le preoccupazioni per i tempi di realizzazione, la fatica e il sudore degli operai, autentici costruttori. Come gli scalpellini medievali che curavano il visibile e l’invisibile, qui, hanno lavorato nella Bellezza e per la Bellezza. Un lungo percorso insieme a tanti compagni di viaggio, ai membri di questa giunta che hanno navigato e navigano in un mare talvolta calmo, talvolta tempestoso, ma su un Vascello che sappiamo dove portare.

 

Chiamo sul palco il gran maestro aggiunto Antonio Seminario, il gran maestro aggiunto Giorgio Mondina, il primo gran sorvegliante Sergio Monticone, il secondo gran sorvegliante Marco Vignoni, il grande oratore  Michele Pietrangeli, il gran tesoriere Giuseppe Trumbatore, il presidente dei grandi architetti revisori Fabio Federico, il gran segretario Emanuele Melani, i consiglieri dell’ordine in giunta Adriano Tuderti e Antonio Mattace Raso.

 

E sul palco meriterebbe di salire, ma non c’entriamo, chi ha lavorato, con pioggia e sole, tanto sole, e tanto caldo, per rendere questo luogo, questo Vascello dei coraggiosi, ancora più bello. A loro va il mio grazie e il grazie di tutti noi. E’ grazie a loro se oggi siamo qui per portare la storia nel futuro. Qui, in questo fazzoletto di terra si combattè per la Repubblica Romana, qui venne ferito Goffredo Mameli, qui morì. Qui il Grande Oriente d’Italia è arrivato dopo la cacciata da Palazzo Giustiniani, per ora non risarcita come invece era stato stabilito.

 

A noi spetta il compito di portare la storia nel futuro: conservare, consolidare, sviluppare, migliorare. Per consegnare un luogo e una comunione migliori di come li abbiamo trovati.

 

Ci guardiamo intorno e vediamo le luci, la bellezza, gli alberi, i colori, la nostra presenza, oggi e domani. Ci saremo, la nostra comunione c’è e ci sarà perchè si avverte forte il desiderio di incontro, di confronto, di ascolto, di affetto, di fratellanza, di lealtà, di sincerità. Si avverte il desiderio di un abbraccio fraterno.

 

E’ per questo che esistiamo ed esisteremo.

 

E tocca a noi dare gambe al futuro, a noi che abbiamo la storia dentro, ce la siamo tatuata nel corpo. Tocca a noi perchè siamo stati capaci di attraversare pandemia e guerra e aggressioni di ogni tipo.

 

La pandemia ce la siamo lasciata alle spalle. Forse. Dico forse perchè i contagi aumentano e si rivedono le persone con la mascherina. Ma la scienza e il buon senso ci fanno sembrare un ricordo quegli anni del covid. Pensiamo, però, al senso di insicurezza e precarietà che  ha portato nella vita di ognuno, a livello personale e nella dimensione collettiva. Siamo vissuti nell’incertezza e questo ha generato paura, ansia. Abbiamo vissuto giorno per giorno, potevamo perdere la capacità di pensare con pensieri lunghi, rivolti a progetti che non si esauriscano nell’immediato. Poteva succedere e non è successo.

 

Siamo già la storia nel futuro. E questa storia dobbiamo consolidarla e svilupparla.

 

Perchè? Mi è venuto in mente quello che mi ha detto un fratello a proposito di questi anni rocamboleschi, avventurosi e pieni di insidie, affascinanti e pericolosi, però ispirati dal coraggio e dalla lealtà. Mi ha detto: “Ma voi della giunta vi rendete conto di quello che avete fatto?” Ho risposto: “No”. Ho deluso quel fratello, tanto più che sa che ho buona memoria. Ma la sua domanda mi ha stimolato a ricordare. E mi ha fatto tante domande. Le ho ascoltate e provo a rispondere ad ognuna.

 

Ma vi rendete conto che sono state fatte due Gran logge con la mascherina e il distanziamento?

 

Fratelli ordinati, rispettosi delle regole, costretti ad abbracciarsi con lo sguardo senza neppure sfiorarsi. Ma tutti in fila, composti, nel tempio e nelle presentazioni dei libri e nei convegni. Tutto in sicurezza. Per ben due gran logge mentre nel mondo si aggirava un virus dalle mille vite e forme nuove, e come le onde di un mare oscuro ora si ritira in una bassa marea, ora rimonta, rubandoci il desiderio di stare assieme e spesso anche la vita.

 

E l’impossibilità di riunirci nei templi ma desiderosi di vederci, curiosi e spaventati, attraverso lo schermo di un pc. Io vi ho visto in quei lunghi mesi, la sera, alcuni collegati da casa, con i rumori della cucina in sottofondo, altri collegati dagli ospedali per lavoro o perchè ricoverati, mentre giungevano le notizie di fratelli ammalati o passati all’oriente eterno. Ma i fratelli sono rimasti. Nelle logge si è votato. I fratelli, in maniera ordinata, sono andati nei templi e hanno fatto il loro dovere. Hanno eletto i maestri venerabili perchè nel nostro Ordine si fa così, una volta all’anno, non si prendono scorciatoie o non si concede il diritto di voto a élite di presunti illuminati o non si vota addirittura.

 

E’ stato possibile perchè siamo un’orchestra dove ognuno, più o meno bene, suona uno strumento che sempre dà due note: fa e re. Fare, ideare, pensare, costruire. E’ stato possibile attraversare la pandemia perchè siamo una squadra che sa difendersi e che sa attaccare.

 

Uno dei più grandi allenatori di basket di tutti i tempi, Dan Peterson, diceva: “Una grande difesa è un balletto, una grande coreografia degna della Scala di Milano. Idem in attacco. Per quell’ultimo tiro, quella della vittoria, dicevo ai miei: “Giocate in cinque. Fate un gioco corale. Coinvolgete tutti. Se lo fate, qualcuno sarà libero per tirare bene. Non so chi sarà libero ma sarà uno. Perchè avete giocato come una squadra e non uno contro cinque”. Ecco, il valore della squadra. Il valore della nostra squadra che si chiama Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani.

 

Ma vi rendete conto che nella gran loggia del 2022, in piena guerra, russi e ucraini si sono confrontati, il gran maestro Bogdanov in presenza e il gran maestro Anatoly dall’Ucraina?

 

Il sonno della ragione ha destato un antico demone, ed è la guerra, che Tolstoj considerava un “evento contrario alla ragione e alla natura umana”. Le generazioni future ci giudicheranno su quanto saremo stati capaci di costruire e non ameranno le nostre distruzioni, perché dietro ad ogni palazzo, ad ogni strada, ad ogni pianta, ad ogni luogo c’è la forza, la passione, il coraggio, la creatività, il lavoro di tanti anni e di tante volontà che non devono sparire con la materia, ma continuano a vivere. Auspicavo, in quella gran loggia, che le trincee da dove sparano i soldati venissero coperte di fiori, di alberi che danno poi frutti da condividere sui tavoli. Tutti assieme. Ancora non è possibile. Invochiamo, anche noi, una pace giusta.

 

Ma vi rendete conto che avete sopportato due audizioni in Commissione Antimafia?

 

Sì, ricordo bene. Faceva caldo a Roma quel 3 agosto del 2016 alle 14.30. I turisti, accaldati e sudati, invadono la città eterna e ammirano il Pantheon mentre mi dirigo a palazzo San Macuto, dove c’era l’Inquisizione e ora la commissione parlamentare antimafia presieduta a quel tempo dall’onorevole Rosy Bindi. Cerco di mettere insieme cuore e ragione per rispondere alle domande. Penso a Domizio Torrigiani, il gran maestro perseguitato, morto cieco, e prendo forza, mi rincuoro pensando che almeno per ora al confino non mi hanno mandato. Vedo un ambiente ostile, come minimo sospettoso: cinquanta, tra deputati e senatori, che vogliono i nomi, i nostri nomi, i nomi dei massoni italiani. Tutti davanti a me e so che fuori, nelle loro case, nei loro uffici, i fratelli sono dalla mia parte, ma lì ci sono io. Vogliono gli elenchi di tutti perchè sospettano infiltrazioni malavitose nelle logge. Resisto, mi convocano di nuovo, come testimone, il 18 gennaio del 2017. Non si accontentano delle mie risposte e il primo marzo del 2017 tredici finanzieri setacciano per tredici ore il Vascello e sequestrano gli elenchi dei fratelli delle logge di Calabria e Sicilia che, ad oggi, non sono usciti dalla cassaforte di palazzo San Macuto. E ricordiamo che la Corte europea per i diritti dell’uomo nelle settimane scorse ha invitato il Grande Oriente d’Italia e il governo italiano a trovare un accordo dopo che ci siamo rivolti all’Europa per protestare contro un atto persecutorio e discriminatorio.

 

Ma vi rendete conto che un tribunale della Repubblica vi ha dato ragione di fronte alla querela per diffamazione presentata da Di Bernardo che si era sentito offeso perchè avevamo detto che le sue dichiarazioni erano a scoppio ritardato dopo la fuga del ‘93?

 

E ora ci aspetta un procedimento civile, una causa civile fatta da noi contro colui che scappò e proprio il 20 settembre è iniziato il processo nei confronti di chi oggi vorrebbe ri-guadagnarsi una verginità che perse anche per l’ignavia di alcuni membri della sua giunta che si accontentavano di accompagnarlo in qualche tour all’estero.

 

Ma vi rendete conto che il tribunale civile vi ha assolto nel processo per diffamazione che ci ha fatto il magistrato Agostino Cordova perchè avevamo detto che la sua inchiesta del ‘92-93 che sconvolse il Grande Oriente d’Italia era stata un buco nell’acqua?

 

E come non ricordare che quei faldoni dell’inchiesta, sequestrati, sono ritornati al Vascello e mostrati durante la gran loggia. Quegli scatoloni che entrano al palacongressi tra due colonne stracolme di fratelli in piedi e che applaudono. Tornavano a casa, tornavano qui da dove erano stati presi durante lunghissimi giorni di perquisizioni.

 

Ma vi rendete conto che l’allora presidente della commissione antimafia Nicola Morra portato di fronte alla mediazione civile per interventi improvvidi sul Grande Oriente d’Italia ha fatto una dichiarazione pubblica di scuse?

 

Ma vi rendete conto che l’onorevole Bindi e i giornali che ci hanno attaccato, offeso e denigrato ora devono rispondere di fronte al tribunale civile dove li avete portati per difendere la dignità del Grande Oriente d’Italia?

 

Hanno provato, e provano, a ferire. Provano a colpirci in ogni modo, con ogni mezzo, lecito e illecito. Però Sant’Agostino pregava: “Oh Dio, grazie di inviarmi il dolore come maestro”. I dolori ci rendono più forti, ci riportano ai valori essenziali, ci uniscono di più tra noi. Ci ha unito la pandemia, ci hanno unito i sequestri e le perquisizioni. Il linguaggio universale della fratellanza ci dice ancora che la vita è tutta dinanzi a noi, per un tempo infinito. Guardiamo questo tiglio secolare. Quante ne ha viste. Quante ne ha subite. Eppure è ancora lì.

 

Ma vi rendete conto che avete resistito alle aggressioni di ogni tipo?

 

La partenza fu tosta. Penso alla trasmissione Otto e mezzo all’inizio di aprile del 2014, quando mi ero appena insediato e dovetti sottostare al martellamento di una volpe del giornalismo, Lilli Gruber, e di un simpatico e spregiudicato cacciatore di scoop, Roberto D’Agostino detto Dagospia. E arrivato a Roma altre tegole, altri problemi, Casa Nathan inaugurata ma con tante cose da mettere a posto, molte carte bollate, molti viaggi in tribunale per dirimere questioni, ora finalmente superate anche con vittorie giudiziarie e risarcimenti a nostro favore.

 

E l’emblema del Grande Oriente d’Italia? Lo abbiamo depositato e registrato. Non era stato fatto.

 

E poi, recente, la vicenda dell’arresto del superlatitante Messina Denaro e i tentativi di coinvolgere il Grande Oriente d’Italia perchè un nostro fratello medico è accusato di aver favorito la latitanza. Tentativi di coinvolgerci con la complicità di un calunniatore seriale che addirittura viene invitato per comparsate in televisione da cosiddetti giornalisti d’inchiesta. Dopo settimane e settimane di aggressioni mediatiche con tentativi di coinvolgere la massoneria nella copertura nella latitanza c’è voluta la procura di Palermo, il procuratore capo e l’aggiunto, per smentire il coinvolgimento della nostra comunione. Lo hanno detto a chiare note alla Commissione parlamentare antimafia. I grandi giornali, le tv, i cacciatori di scoop hanno fatto finta di nulla. Come se i magistrati che hanno avuto il merito di catturare l’ex super latitante non avessero parlato.

 

Ma il Grande Oriente d’Italia è come un’aquila, con una sola testa; quando c’è tempesta non si nasconde negli anfratti, vola sopra pioggia e vento. E così abbiamo volato sull’Italia per celebrare i 70 anni della Repubblica. Un viaggio attraverso luoghi simbolo, dalla sala del sinodo valdese a Torre Pellice alla moschea di Colle Val d’Elsa aperta alla città, a Terni e Piombino città del lavoro che manca e alle prese con una crisi che non si ferma, a Reggio Emilia città del tricolore, e Lipari, dove vennero inviati con la forza i combattenti per la libertà, tra cui il nostro gran maestro Domizio Torrigiani. E con la soddisfazione di vedere l’emblema di quei viaggi in giro per l’Italia copiato dal ministero degli Interni. Di fronte alla mia telefonata il funzionario cortese disse: “Ma non siete contenti? Vuol dire che è piaciuto”. Se fosse successo il contrario sarebbe arrivato di tutto, carabinieri, finanzieri, poliziotti e forse anche la forestale.

 

L’aquila ha volato ed ecco arrivare la Carta di Matera. I rappresentanti delle confessioni religiose si ritrovano nella città lucana, si confrontano, dialogano sotto lo stesso tetto. Ne esce un libro, un messaggio per la reciproca conoscenza e un segnale di pace tra tutti gli uomini. Anche quelli che appaiono più distanti. Ad Arezzo il vescovo viene a fare gli auguri per il compleanno di una loggia; a Terni il vescovo inaugura la casa massonica insieme al prefetto, al sindaco e al parlamentare della città. Tagliamo insieme il nastro. In fondo siamo tutti fratelli. Lo afferma in un articolo il cardinale Gianfranco Ravasi. Gli ambienti più talebani della chiesa cattolica attaccano i vescovi e il cardinale. Ma il dialogo, la riflessione c’è e continua: il teologo Vito Mancuso viene in gran loggia, a Trento, a San Galgano e Ancona.

 

E ancora il nostro fratello che fa le domande.

 

Ma vi rendete conto che in occasione del terremoto del centro Italia avete realizzato l’impianto di illuminazione del campo sportivo di Norcia? Purtroppo una delle pochissime opere concluse in tempi brevi e senza avvisi di garanzia. Fieri di aver dato luce ai ragazzi di quella città devastata dal terremoto.

 

E consegnammo decine di borse di studio a quei giovani meritevoli che ottennero la maturità con il massimo dei voti pur studiando tra una scossa e l’altra.

 

E il sostegno concreto e cospicuo alle associazioni della solidarietà e alla benemerita “Sergio Mammini” che accompagna negli studi gli orfani dei nostri fratelli.

 

Ma vi rendete conto che con i Mattoni della Fratellanza avete confortato e aiutato centinaia di fratelli in difficoltà a causa della pandemia? Per quattro anni sono stati destinati un milione e 600 mila euro all’anno.

 

E non vi siete dimenticati, nell’alluvione del maggio di quest’anno, dei coraggiosi disperati della Romagna che hanno visto case e aziende distrutte. Avete aiutato i fratelli colpiti; attraverso la Fondazione avete erogato 20 borse di studio per gli studenti delle zone alluvionate; 20 contributi per i diversamente abili. Il bene si fa e non si dice ma, in questo caso, serve dirlo affinchè i fratelli, a cui dobbiamo rendere conto, sappiano.

 

E sappiano il contenuto di una lettera che mi è arrivata qualche giorno fa. Ve la leggo:

 

“Le scrivo oggi, in una data non casuale: si tratta infatti della ricorrenza del quarto mese dell’alluvione, a Forlì, catastrofe che mi ha strappato gran parte di ciò che avevo costruito nella mia vita. Tanto personale quanto lavorativa.

 

Scrivo col cuore colmo di un’emozione che non so trasmettere a parole, né nelle parole, e di una gratitudine che non so contenere, per offrirLe -e offrire a tutta l’Obbedienza- i miei ringraziamenti più forti, decisi, sinceri, per la donazione di inizio agosto che tanto, tanto, tanto mi ha aiutato.

 

Che mi ha aiutato a sopravvivere, anzi a vivere, e a credere di poter ripartire. Come sto faticosamente cercando di fare. E come forse, probabilmente, non avrei potuto fare, senza.

 

Voglio anzitutto scusarmi per il ritardo con cui rispondo alla Sua, per me speciale e inattesa, missiva.

 

Ritardo non dovuto a leggerezza o trascuratezza. Dovuto bensì alla difficoltà di accesso agli strumenti elettronici, ora superata, alla perdita di password e codici, ora definitivamente ripristinati.

 

È così terribile sentirsi spersonalizzati.

 

Vedere smarrita in un mare d’acqua la propria storia, i propri ricordi, la propria quotidianità.

 

E ancor più difficile è stato vedere quel poco che è rimasto… vederlo toccato, sistemato, gettato, raccolto, da mani spesso sconosciute, poche volte amiche.

 

Come sentirsi privati del proprio privato.

 

Come sentirsi spogliati, inermi, in balia dell’ignoto.

 

Ma poi, seppur a distanza di mesi, ora ho capito.

 

E ho capito anche e soprattutto grazie all’Obbedienza di cui mi onoro di far parte, e al supporto dei Fratelli: credo che tutto ciò abbia avuto il senso di ricordarmi, o meglio di tenere vivo in me, il senso dell’ Iniziazione.

 

Della perdita del superfluo, del senso iniziale di smarrimento, di paura dell’ignoto.

 

Il tutto con una finalità che, ora come allora, riesco a cogliere solo dopo qualche tempo.

 

La finalità è la scoperta dei Fratelli, dell’Obbedienza, della Grande Famiglia Massonica, del Percorso Iniziatico. Della Fratellanza.

 

Fratellanza che mai, confesso, mai avrei pensato potesse palesarsi così potente.

 

Venerabilissimo, la leggo così, oggi, dopo 4 mesi, la mia (dis)avventura.

 

La leggo come una ulteriore grande prova, che è al contempo un’occasione.

 

E, sono sincero, a partire dai giorni più tormentati di maggio, sino ancora ad oggi, non ce l’avrei mai fatta senza il supporto (materiale e -ancor più immateriale, cioè fraterno) costante, continuo, saldo e prezioso dei Fratelli tutti. Dell’Obbedienza.

 

Mi scuso se sono stato prolisso.

 

Ma ribollono in me, ora che ci avviciniamo all’Equinozio, tanti pensieri e sentimenti che, grazie al Metodo, stanno trovando un nuovo Equilibrio. Per portarmi una nuova Consapevolezza, e una nuova Forza. E di questo, sarò sempre grato all’Obbedienza. A tutti i Fratelli e a ognuno insieme.

 

E poi la Fondazione Grande Oriente d’Italia, nata due anni fa e riconosciuta dagli organi dello Stato, che ha valorizzato e reso fruibili prestigiosi immobili, da Udine a Bologna, da Cosenza a Pescara, da Taranto a Pesaro. E insieme al Fai abbiamo permesso a migliaia di cittadini di visitare il Vascello, questo luogo romantico e affascinante. E qui, nelle stanze più belle, un tempo appartamento del gran maestro, sono conservati e si possono ammirare cimeli storici come un maglietto donato a Ernesto Nathan, documenti a firma di Giuseppe Garibaldi, il testamento massonico di Giovanni Pascoli e le opere di Ettore Ferrari.

 

E senza dimenticare il sostegno al comune di Radicofani per il restauro di Bosco Isabella, il giardino di ispirazione massonica nato nell’Ottocento, un autentico gioiello che ha bisogno di manutenzione e che è meta di visitatori che transitano da quella via Cassia dove imperversava Ghino di Tacco.

 

Ma vi rendete conto quanti sforzi state facendo per la giusta rivendicazione di Palazzo Giustiniani, la sede storica del Grande Oriente d’Italia strappata con la forza dal fascismo e mai restituita dalla Repubblica?

 

Nonostante che il presidente del Senato Giovanni Spadolini avesse firmato una transazione che ci assegnava 140 metri quadrati per collocarvi il museo della massoneria italiana. I suoi successori non hanno mantenuto la parola scritta. Ma quel museo lì dobbiamo farlo, lì dove migliaia di massoni sono stati iniziati, lì dove è stato ucciso il gran maestro aggiunto Achille Ballori. E il 21 novembre la Suprema Corte di Cassazione deciderà quale giudice dovrà darci le chiavi per aprire Palazzo Giustiniani. Perchè le chiavi non possono non esserci date. E’ una questione di giustizia e di rispetto delle carte firmate.

 

Ma vi rendete conto che è stata firmata una convenzione con l’Archivio centrale dello Stato che ha consentito il recupero di documenti sequestrati dal fascismo? E ora viene data la possibilità di consultarli per conoscere passaggi della nostra storia e della storia italiana che sarebbero rimasti nella polvere e passati nel dimenticatoio.

 

E non è giusto che passi nel dimenticatoio che il Grande Oriente d’Italia ha abolito nella sua costituzione la parola Razza. La senatrice a vita Giuliana Segre ha chiesto al parlamento di abolire questa parola orribile dalla Costituzione della Repubblica italiana. Noi lo abbiamo fatto.

 

E cogliamo anche questa occasione per inviare un deferente saluto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, garante dell’unità nazionale.

 

E poi gli ospiti alla celebrazioni del XX settembre e alle gran logge.

 

I giornalisti: da Ignazio Ingrao a Mario Sechi, da Alessandro Barbano a Paolo Mieli e Maria Latella, da Nico Piro ad Arturo Diaconale e Gian Marco Chiocci, da Ferruccio De Bortoli ad Andrea Purgatori, da Giancarlo Loquenzi a Fausto Biloslavo, da Fabio Martini a Francesca Fanuele, da Marco Ventura a Federico Guiglia.

 

Gli accademici: il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick e Marcello Flores, Antonio Novelli e Massimo Carpinelli, Ernesto Galli della Loggia e Paolo Savona, Piergiorgio Odifreddi e Quirino Principe, Nino Cartabellotta e Andrea Carandini, Vittorio Emanuele Parsi e Alessandro Campi.

 

I politici: da Lucio Malan a Luciano Violante, da Ermete Realacci a Renato Soru, da Riccardo Nencini e Daniele Capezzone a Riccardo Mazzoni, da Francesco Rutelli a Vittorio Sgarbi.

 

Gli amministratori pubblici: da Nicola Alemanno, sindaco del terremoto di Norcia, all’allora presidente del consiglio regionale della Toscana Eugenio Giani, ora governatore.

 

Gli intellettuali: da Michele Mirabella a Gianrico Carofiglio, da Annalisa Chirico a Gian Maria Fara e Alessandro Giuli, da Melania Mazzucco a Umberto Galimberti, da Stefano Moriggi e Luca De Biase e Federico Cinquepalme, che abbiamo ascoltato stamani.

 

E gli uomini che hanno combattuto su campi difficili: Giorgio Benvenuto nel mondo del lavoro, Davide Tabarelli nell’energia e Paolo Nespoli, l’astronauta, il medico di Lampedusa Pietro Bartolo che qui raccontò il suo impegno nei soccorsi a coloro che arrivavano dall’Africa. Allora, quei barconi stracolmi di immigrati, sembravano un’emergenza ma ora è diventato un enorme problema strutturale, destinato a crescere per dimensioni e la cui soluzione non può essere lasciata al cuore grande dei lampedusani e neppure alla buona volontà del governo italiano.

 

E al Vascello e in gran loggia sono arrivati anche uomini di spettacolo: da Patrizio Rispo a Franco Ricordi e lo sportivo Andrea Lo Cicero. E stasera l’Orchestra italiana del cinema.

 

E chissà quanti me ne sono scordati. Mi scuso con loro. Ma ricordo bene tre giovani e giovanissimi. Ricordo molto bene le loro storie, differenti l’una dall’altra ma che sono rimaste nel mio cuore, nella mia mente e in quelle di tutti voi.

 

Valerio Catoia, un nuotatore paralimpico che ha salvato una bambina che stava annegando; nominato dal presidente Mattarella alfiere della Repubblica; poliziotto ad honorem. Lo premiammo anche noi, qui al Vascello.

 

Domenico Buccafurri: un ragazzo di Reggio Calabria; voleva giocare a calcio ma un problema fisico, improvviso, lo ha fermato; intelligente e sensibile, vincitore di una delle borse di studio promosse dal Grande Oriente d’Italia. Ci colpì la sua grande determinazione.

 

E poi Sara, la studentessa iraniana fuggita dal suo paese, ambasciatrice nel mondo dei problemi dei suoi coetanei. L’abbiamo aiutata. Ora ha vinto un’altra borsa di studio e può continuare a vivere in Europa invocando la libertà per i giovani iraniani.

 

Valerio, Domenico e Sara. Noi vi ricordiamo con grande affetto.

 

Ma il nostro fratello continua benevolmente a tormentare con le domande: ma vi rendete conto che dopo trenta lunghi anni finalmente è stata resa giustizia con il ripristino del riconoscimento della Gran loggia unita di Inghilterra, la gran loggia madre?

 

Nel ‘93 fu traumatica quella rottura, molti fratelli se ne andarono, altri restarono con tanti dubbi perchè poteva finire tutto, altri tennero alto il labaro del Grande Oriente d’Italia che continua a sventolare e non perchè il vento è favorevole ma perchè sappiamo come e dove condurre il Vascello dei coraggiosi. Giustizia è stata fatta. Dopo 30 anni ci è stato restituito quello che ci era stato ingiustamente tolto. Ci è stata resa giustizia. E ora ci riabbracciamo nei nostri templi con i fratelli della Gran loggia di Israele, che ci ha voluto restituire il riconoscimento che anche in questo caso ci era stato tolto ingiustamente. Ci abbracciamo con i fratelli della Sovrana gran loggia di Malta, del Grande Oriente del Brasile e delle gran logge del Minas Gerais e dello Stato di Bahia. Sono i riconoscimenti che ci sono stati dati negli ultimi mesi.

 

E prima ancora è arrivato l’ingresso, a lungo vanamente inseguito, nella Confederazione massonica interamericana, fondata nel 1947, un’organizzazione che riunisce 84 Potenze Massoniche distribuite in 26 paesi del Sud, Centro e Nord America, Caraibi ed Europa. Un’organizzazione che conta quasi 400mila fratelli che, attraverso lo scambio di idee, attività, principi ed esperienze, cerca di arricchire il pensiero dell’umanità e delle sue culture.

 

Ma vi rendete conto che il patrimonio di case massoniche in questi ultimi anni è raddoppiato? Non siamo una società per azioni e accrescere le risorse non è un esercizio per chi gestisce il bene comune, non è un esercizio di finanza, è molto altro, è molto altro. Conservare ed accrescere il tesoro del Grande Oriente d’Italia, che simboleggia il Tesoro di saggezza, è per noi massoni un dovere nel “governo della casa comune”, un dovere da percorrere senza sosta, con le scarpe nella polvere.

 

A questo punto viene da dire: “E questo è quanto”. E’ quello che abbiamo fatto. E’ un bilancio? No, non è un bilancio. I bilanci li fanno i commercialisti e a me non piacciono i bilanci consuntivi e per quelli preventivi non sono portato perchè il mio lavoro mi ha insegnato che le pagine di giornale che si pensano la mattina non sono mai quelle che si chiudono la sera e si mandano in tipografia per la stampa. E poi perchè mi piacciono le strambate. Ma, soprattutto, non mi piacciono i bilanci, perchè la vita continua, non c’è un prima e non c’è un dopo, c’è una strada che inizia e che non ha fine, non siamo una corsa ciclistica su pista dove suona la campana dell’ultimo chilometro. Quello che è stato fatto è la fase di un percorso che continua e continuerà. E’ quello che stiamo facendo, perchè la partita non è finita e stiamo operando coerenti con una battuta che un grande allenatore che aveva vinto tanti scudetti disse a un giornalista che gli chiedeva quale fosse stata la vittoria più bella. Risposta lapidaria: “La vittoria più bella è quella che verrà”. Sì, quella che verrà, perchè siamo affamati di giustizia. Amiamo la giustizia e sappiamo ben distinguere la disciplina interna dalla giustizia civile. Si occupano di sfere diverse: per questioni liberomuratorie ci sono gli organi disciplinari interni, dei reati si occupa la giustizia ordinaria. E la disciplina interna è addirittura più stringente perchè si occupa di esaminare ed eventualmente sanzionare infrazioni ai valori di lealtà, rispetto, tolleranza che non costituiscono irregolarità civili o penali ma inosservanza degli Antichi Doveri che per noi sono Eterni Valori.

 

E chi, emulo di quei cattivi compagni che uccisero il maestro Hiram, accecati da fanatismo, invidia e smisurata ambizione, scavalca o addirittura disconosce la disciplina interna, compie un atto moralmente eversivo che può mettere in pericolo l’esistenza del nostro ordine, al quale abbiamo dedicato e dedichiamo tanto tempo, tante energie, tanto amore.

 

Mi viene in mente, per analogia, Giordano Bruno quando scrive con chiarezza: “Gli dei non si adirano per una bestemmia o per un’offesa a loro indirizzata: gli dei si adirano quando si compiono azioni che provocano lacerazioni nella coesione sociale, indebolendo lo Stato, la Legge, la Giustizia”. Si arrabbiano, aggiungo, quando si provocano lacerazioni in un ordine che ha regole, mai in contrasto con le leggi dello Stato, e al quale abbiamo chiesto di aderire e al quale siamo stati ammessi dopo un severo esame della nostra candidatura e dopo aver superato prove iniziatiche che hanno un senso, un valore, che non sono rappresentazioni coreografiche. Gli dei si arrabbiano perchè si mina la solidità dell’impianto di una comunione, di un ordine iniziatico. Ripeto: quando si provocano lacerazioni in un ordine che ha regole precise ma non oppressive si mina l’impalcatura della comunione.

 

Lealtà fratelli, lealtà, un valore che è sopra a tutto. Addirittura superiore al trinomio che è nei nostri tempi, la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza. Rivendichiamo questo nostro pensare. Parliamo chiaro perchè parlar chiaro vuol dire pensare pulito.

 

In questi anni, insieme alla giunta, ho cercato di dire quello che volevamo fare e abbiamo cercato di fare quello che avevamo annunciato. Dire quel che si fa e fare quel che si dice. Tante cose le abbiamo nascoste, è vero, a fin di bene, soprattutto all’inizio del primo mandato. Abbiamo nascosto quello che era giusto nascondere per non impensierire la comunione, per non far preoccupare i fratelli. Abbiamo preferito metterci alla stanga stando al solco. Come buoi? Non so. Preferisco dire come ciuchi. E’ un modo di dire toscano: lavorare come ciuchi. Vuol dire faticare tanto e sudare. Senza accusare questo o quello ma dire quello che si vuol fare. E farlo.

 

L’ho detto in giro per l’Italia, in quest’Italia lunga e larga e con le isole.

 

L’ho detto a Ripalimosani, un colle in provincia di Campobasso, dove un fratello di nome Michele mi ha chiesto se poteva abbracciarmi durante la fine di una tornata rituale. Capì che in quel momento avevo bisogno di un abbraccio fraterno.

 

L’ho detto a Contessa Entellina, un castello di rara bellezza, sperduto nelle campagne di Agrigento, quasi irraggiungibile ma non per quei trecento fratelli che nella tarda primavera di quest’anno sono arrivati da tutta la Sicilia per celebrare il decennale di fondazione della loggia di Santa Margherita di Belice.

 

L’ho detto a Castiglion del Lago e Albenga.

 

L’ho detto a Scalea, dove non sono stato a luglio o ad agosto ma d’inverno, quando il mare fa paura e scendi dall’auto per andare nel tempio e le scarpe affondano nel fango ma l’affetto di fratelli ritrovati ti fa dire: “Ne valeva la pena”. In fondo per riparare le scarpe ci sono i calzolai, artigiani come noi, noi artigiani del pensiero.

 

L’ho detto a Lamezia e a Soveria Mannelli.

 

L’ho detto a San Galgano, più di una volta, in quell’abbazia senza tetto che, nel ricordo di monaci sfarfalloni e spendaccioni che furono costretti a vendere la copertura, ci rammenta che dobbiamo essere misurati, parchi. Che i soldi dei fratelli vanno ben utilizzati e ben rendicontati.

 

L’ho detto a Portoferraio e Radicofani.

 

L’ho detto a Enna, quando in una profonda notte d’inverno, insieme ad avventurosi compagni di viaggio ci siamo ritrovati in mezzo a un bosco in una strada fangosa e senza sfondo.

 

L’ho detto a Castelvetrano e Campobello di Mazara, a Licata, dove non ho avuto paura di andare perchè l’Italia è una e una sola, indivisibile.

 

L’ho detto a Olbia e Alghero.

 

L’ho detto a Saliceto, un borgo nel verde della provincia di Cuneo, dove si sente il rumore delle foglie ma non quello delle persone perchè è quasi disabitato e si anima di fratelli una volta all’anno per una tornata rituale. L’ho detto a Foligno e a Saluzzo, a Ventimiglia e Abano, a Labro e Decollatura.

 

L’ho detto a Bolzano e Trento, a Gorizia e a Rieti. Ma queste sono quasi metropoli.

 

L’ho detto a Paterno, in Basilicata, nella terra che nell’Ottocento era ricca di logge e ora di tanta umanità e di due officine che tengono alto il labaro del Grande Oriente d’Italia.

 

L’ho detto al San Bernardo, dove da 45 anni la loggia di Aosta organizza un’agape all’insegna dell’amicizia e del buon umore.

 

Ecco, ho messo in fila alcuni luoghi, forse tra i più piccoli, dove sono stato in questi anni ma dove ci sono fratelli. E dove ci sono fratelli non esistono luoghi grandi o piccoli. Esiste la nostra fiamma, esiste il Grande Oriente d’Italia, una comunione di fratelli che sentono forte il senso di appartenenza fisica a un labaro, a un sistema di valori, a un rituale, a un tempio, che sanno di aver scelto di anteporre la forza secolare della socialità al distacco della frenesia contemporanea.

 

E in questo correre per l’Italia ho visto tanti fratelli, ho incrociato i loro sguardi, ho ascoltato i loro pensieri, le loro malinconie, le loro preoccupazioni, i loro problemi, le loro stravaganze, le loro gioie. Ho indagato la loro bellezza interiore ma non ho avuto il tempo di ammirare la bellezza dei luoghi, delle opere d’arte, delle meraviglie che la nostra nazione mette in mostra ad ogni ogni angolo. Ho visto però, e mi rincuoro così, la bellezza dei fratelli, di ciascuno di voi, nei templi ben fatti e in quelli sgretolati, in quelli con arredi di pregio e in quelli danneggiati dall’umidità e a tutti, per concludere, dedico il pensiero che mi ha trasmesso proprio uno di voi:

 

“Se ci riconosciamo figli della Luce, se ad essa tributiamo le nostre speranze, se ad essa affidiamo noi stessi per migliorare, per costruire, mattone su mattone, le nostre cattedrali, se celebriamo anno dopo anno le nostre feste di Luce, di rigenerazione e di rinascita, non facciamoci mai mancare il coraggio delle scelte, ispirate da coraggio, fierezza e responsabilità e delle nostre promesse che rinnoviamo ogni volta che solchiamo i nostri templi”.

 

Fratelli, non facciamoci mai mancare il coraggio delle scelte, ispirate da coraggio, fierezza e responsabilità e delle nostre promesse che rinnoviamo ogni volta che solchiamo i nostri templi.

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10 Dicembre 2023

 

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Il Grande Oriente d’Italia è membro della Confederazione Massonica Interamericana(Cmi) fondata il14 aprile 1947, un’organizzazione che riunisce 84 Grandi Potenze Massoniche, ammesse come membri e distribuite in 26paesi del Sud, Centro e Nord America, Caraibi ed Europa. Il CMI promuove un modello istituzionale innovativo attraverso l’integrazione della Massoneria Iberoamericana e, per estensione, della Massoneria Universale, con l’obiettivo di sviluppare tutte le potenzialità esistenti in un’organizzazione che conta quasi 400.000 membri che, attraverso lo scambio di idee, attività, principi, preoccupazioni ed esperienze, cioè il loro modo di vedere e comprendere il mondo, cercano di arricchire il pensiero dell’umanità e delle sue culture.

 

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LE INTERVISTE DI AGORA’

 

L’intervista è il risultato di un lungo colloquio telefonico con Victor lenco, un Fratello che è stato Maestro Venerabile della Loggia “John Maclennan”, presso la Base USAF di S. Vito dei Normanni. Da diversi anni rientrato negli Stati Uniti, risiede stabilmente a Sta Petersburg, in Florida. Membro attivo della Gran Loggia dell’Oklahoma, grazie alla doppia appartenenza nella St- Petersburg Lodge No. 139, Giurisdizione della Gran Loggia della Florida, è componente dello Scottish Rite of Freemasonry Southern Jurisdiction

USA e dello York Rite.

Cosa rimpiangi degli anni trascorsi in Italia?

Come posso non ricordare gli amici cari che ho lasciato, con cui ho trascorso anni meravigliosi di impegno massonico e culturale. Ricordo con nostalgia l’ amicizia affettuosa che ho trovato nei Fratelli delle logge di Bari, di Taranto e Lecce, che frequentavo più assiduamente, unitamente ad altri Fratelli americani della base USAF di Brindisi.

Oltre all’affettuoso ricordo che hai lasciato nei nostri cuori, ed in quello mio in particolare, soprattutto per le tante battaglie di solidarietà umana condotte insieme con entusiasmo, io so bene che qualcosa di tuo è rimasto in Italia…

Certo, caro Silvio. Ero un americano, nato in Florida, di origini italiane, che tanti anni fa rientrò negli USA dalla guerra di Corea, dopo essere stato ferito piuttosto seriamente in quella terra d’ Oriente. Quando mi proposero di venire in Italia, con mia moglie Tina, fui veramente entusiasta. Potei vedere il paese dove era nato mio padre, in Calabria, e vivere il meraviglioso periodo italiano, quello della ripresa economica. Tutto era bello e tutti sembravano più spensierati. Eravamo, forse, più giovani e pieni di speranza. Poi, dopo alcuni indimenticabili anni vissuti a stretto contatto con i Fratelli italiani, già assaporavo, insieme a mia moglie, il piacere di godermi, da pensionato, il giusto riposo dopo tanti anni di azione. Avevamo preso seriamente in considerazione anche l’eventualità di ritirarci stabilmente in Italia per poi, saltuariamente, andare negli States onde seguire i miei interessi economici. Ma una sera, che non dimenticherò mai, eravamo da poco rientrati a casa dal Club della Base USAF dove solitamente ci trattenevamo con le altre famiglie di militari americani, mia moglie Tina, che fino a pochi minuti prima allegramente aveva conversato con me, ebbe un capogiro e in un attimo mi morì tra le braccia.

Quei pochi anni che precedettero l’età della pensione, distrussero tutti gli anni di gioia vissuti in Italia. Mi sentii più solo che mai. Già mi vedevo vecchio e solo, in una terra amica, ma che sentivo ormai estranea. L’affetto di qualche fraterno amico, fra tutti il tuo, mi aiutò a farmi sentire meno solo. Anche per l’Istituzione Massonica le cose non andavano bene, a causa della P2 di Gelli e della continua caccia alle streghe. Ogni piccolo problema italiano, sia politico che economico, di mafia o di eversione, era sempre addebitato alla Massoneria. La triste vicenda dell ‘infame Gran Maestro Di Bernardo, fuggito vergognosamente, e la conseguente rottura con l’Inghilterra, compromisero seriamente la mia appartenenza alla Loggia d’origine americana in quanto l’ affiliazione a quella italiana veniva vista con molta apprensione dagli Organi Istituzionali delle Gran Logge americane.

Nel frattempo, la Loggia di Brindisi, con cui dividevamo il Tempio, per cattiva conduzione o per altri motivi inspiegabili, si sciolse e la nostra loggia militare americana fu costretta a riunirsi presso la base USAF. Ma, i militari americani andavano e venivano dagli States e la presenza di coloro che l’ avevano fondata, e che erano le colonne portanti, venne meno. La situazione contingente, poi, fece il resto e la loggia Maclennan venne demolita Rientrai definitivamente così nella mia Florida ed ora mentre il mio corpo fisico è in America, la mia mente, i miei ricordi, i miei anni belli sono rimasti in Italia. Così come mia moglie Tina, che riposa nel cimitero italiano.

E poi, Victor, vi è stato un seguito alle difficoltà paventate, nei rapporti con la Gran Loggia d’origine americana?

Va detto che il Gran Maestro Virgilio Gaito ha fatto un buon lavoro negli Stati Uniti e piano piano è riuscito a creare, nuovamente, un clima cordiale fugando i sospetti nei confronti del G.O.I. e risanando i guai causati dal Di Bernardo che, ancora oggi, bussa insistentemente alle Gran Logge americane per cercare una qualche credibilità, negli States.

La società americana, è noto a tutti, considera la Massoneria, da sempre, una istituzione in prima linea nella difesa della libertà e del libero pensiero. Considerazione decisamente diversa da quella italiana. La Chiesa Apostolica Romana, da sempre nemica dell’Istituzione massonica, quasi certamente per timore di perdere il potere egemonico, ha contribuito non poco a tessere un clima ostile e di sospetto intorno ad essa. Le opere meritorie di solidarietà umana, e di impegno vero, nei confronti dell’umanità, vengono sistematicamente ignorate, ovvero sottaciute. Negli USA, al contrario, i media danno ampio risalto alle innumerevoli testimonianze di solidarietà massonica. Del resto, sono a conoscenza del tuo attivo impegno nelle commissioni di solidarietà. Vuoi parlarci delle ultime opere realizzate negli U.S.A. ?

L’ impegno della Massoneria americana per la realizzazione di opere umanitarie è veramente notevole ma, ciò nonostante, è sempre poco quello che facciamo per alleviare le disgrazie altrui.

Con la nostra Organizzazione denominata “Shriners Hospitals for children”, quest’anno abbiamo inaugurato il 22 0 Ospedale massonico riservato a bambini e ragazzi fino ai 18 anni, di ogni parte del mondo e senza distinzione di religione e di colore di pelle. Il primo di questi grandi ospedali venne inaugurato a Shreveport, in Louisiana, nel 1922 ed oggi, con orgoglio, posso dire che in 22 importanti città degli USA, da Chicago a Los Angeles, da Philadelphia a Mexico City, da San Francisco a Honolulu e così via, sorgono queste importanti strutture ospedaliere. Ben 19 ospedali, sono particolarmente specializzati in ortopedia, distrofia muscolare e del midollo spinale. Ogni struttura è autosufficiente ed assicura ai piccoli pazienti cure ed assistenza amorevole fino al completo recupero. Anche gli interventi e le applicazioni di protesi artificiali sono gratuiti. In molte strutture vi sono alberghi per il soggiorno gratuito dei familiari dei pazienti.

L’ospedale di Tampa, in Florida, che seguo molto da vicino,

per esempio, venne aperto nel 1985. Da quell’ anno ad oggi,

ben 17.000 bambini hanno ricevuto cure mediche ed inter- SHRINERS

venti clinici. Le famiglie vengono ospitate in una struttura interdipendente al fine di non lasciare isolati i piccoli pazienti. Agli oltre 50 medici, che fanno parte dello staff, vanno aggiunti specialisti in chirurgia ortopedica, anestesia pediatrica, neurochirurgia ed urologia. Inoltre, il personale paramedico di 300 unità, viene supportato da altre 300 unità di volontari che prestano il loro opera gratuitamente. Il volontariato, inoltre, è particolarmente sentito negli USA, non solo dai fratelli massoni, ma anche dalle loro famiglie. Il loro impegno si concretizza con l’assistenza ai piccoli malati e, cosa importante, mediante il reperimento di fondi per il mantenimento della struttura ospedaliera dove tutto è completamente gratuito, anche i medicinali.

Ed ora, mio caro Victor, quando ci rivedremo?

Come tu sai, siamo già d’ accordo che ti attendo in Florida. Mi è, purtroppo, al momento preclusa la possibilità di prendere aerei, per l’altitudine: per via dell’intervento al cuore di un mese fa. Il mio cuore si è fermato per due minuti ed una équipe di fratelli chirurghi mi ha applicato un pacemaker . Pensa, in Ospedale sono stato soltanto un giorno e mezzo. Sono uscito con le mie gambe. Ora, il dispositivo che mi hanno applicato, e che ha una funzionalità di IO anni, è sotto controllo dei cardiologi.

Non mi resta che salutare tutti con affetto ed a te, caro Silvio, l’ abbraccio fone di un fratello che non ti dimenticherà mai.

essenne

Preghiera

Solo sogni e paure nel cuore dell’uomo e la remota immagine del Dio vivente.

Vivente in me che cerco i confini del Vero tra ricordi perduti di amori mai nati, dissolvendo l’essenza divina. E potessi, un istante soltanto, sentirmi quel Dio che io sono vivendo, vivendo davvero, l’Amore infinito

Paolo Caradonna Moscatelli

 

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BREVI CENNI STORICI SULLA MASSONERIA A TARANTO

BREVI CENNI STORICI SULLA MASSONERIA A TARANTO

di

Francesco Guida

In Puglia, secondo lo storico A. Luccarelli, la Massoneria viene introdotta negli anni 1788-89 dai Principi di San Severo di Napoli. Secondo lo storico P. Palumbo, in particolare, il primo insediamento massonico si ha in Martina Franca ad opera di due emissari di Padova e Roma.

Ed a Taranto? Secondo lo storico Tommaso Pedio, già nella seconda metà del Settecento, si segnala la prima presenza di una loggia. Allo stato delle ricerche, è possibile sapere che in questo periodo l’unico massone risulta Filippo Ceci.

La visibilità del movimento massonico si manifesta in occasione dei moti del 1799, per la repubblica partenopea, che portarono a Taranto l’ albero della libertà.

Uno dei principali artefici di quella brevissima stagione di libertà, durata appena un mese, fu il sacerdote don Giovanbattista Gagliardo, giacobino, ritenuto massone da qualche storico, unitamente alla sapiente quanto diplomatica regia dell’ arcivescovo Giuseppe Capecelatro.

Nel periodo napoleonico, inviato da Giuseppe Bonaparte, Re di Napoli, venne a Taranto il generale bresciano Giuseppe Lechi, quale comandante del Terzo Reggimento della seconda “Armata di osservazione del Mezzogiorno” e tra la fine del 1804 e gli inizi del 18()5 fondò due logge: “Della Filantropia”, loggia militare che venne trasferita nel 1805 a Lecce, e riconosciuta dall’ appena costituito Grande Oriente d’Italia, con sede a Milano.

Giuseppe Lechi dette incarico a Giuseppe La Gioia, già coinvolto nei fatti repubblicani del 1799 e successivamente tra i capi carbonari protagonisti dei moti del 1821 , in Terra d’ Otranto.

La Gioia riunì in breve tempo “sei compagni tra parroci, monaci rinomati e giovani di letteratura e soda morale”, con questi fu ricevuto dal Fratello Rossi, e quindi elevato agli alti gradi della “Della Filantropia”. Tra

i’ Fratelli fondatori è doveroso citare il sacerdote Giuseppe Ceci, anch’egli coinvolto nei fatti del 1799, noto repubblicano, che lasciò un museo di reperti storici, andato poi distrutto, ed il sacerdote Saverio Trippa, di Carosino.

Questa loggia ebbe sin dall’inizio enormi difficoltà di operare, stretta tra il timore di infiltrazioni spionistiche e le persecuzioni della polizia borbonica.

Con la costituzione del Grande Oriente d’Italia, retto dal viceré Eugenio Bonaparte, a Taranto risulta operante solo la loggia “L’ Amica dell’Uomo” rappresentata dal venerabile La Gioia. Con Gioacchino Murat, che costituisce nel 1810 il Grande Oriente di Napoli, a Taranto nasce la loggia “La Nemica dell’ Ambizione” ad opera di Nicola Libetta e don Saverio Trippa, che assume la carica di Venerabile ed anch’egli successivamente capo carbonaro.

Con il termine dell’ avventura napoleonica nel 1815, anche la Massoneria, già in una fase critica col regime francese che voleva asservirla ai propri disegni di controllo del potere, subisce una battuta d’ arresto. L’ ideale di una patria indipendente accantona l’ impegno di ricerca esoterica a favore dell’ azione politica. La massoneria che era stata finora retaggio della classe aristocratica ed alto borghese cede il passo alle sette di azione politica, che richiedevano strutture agili ed adepti di ogni condizione sociale.

E’ il momento della Carboneria, le cui radici, in parte riferibili alla Massoneria, diventa un movimento trasversale nella società del tempo.

Anche a Taranto dal 1816 al 1848 si registrò una proliferazione di sette rivoluzionarie, quali quella degli “Agricoltori del Galeso” e quella dei “Figli di Pitagora” per citare le più note e numerose. Nel 1837 si costituisce una setta della federazione della Giovine Italia, la creatura di Giuseppe Mazzini, fondata da massoni tarantini quali Nicola Mignogna, Giuseppe Carbonelli, Tommaso De Vincentis, oltre al Fratello Brindisino Cesare Braico ed al noto massone leccese Giuseppe Libertini, e organizzata a Taranto da Giuseppe e Raffaele Cimino. Nel 1848 si costituì un comitato liberale presieduto dall’ avv. Giuseppe De Cesare e composto dall’ avv. Domenico Savino, dai fratelli Raffaele ed Ignazio Lucarelli, da Pietro Acclavio, Luigi Carbonelli, Luigi Ayr, Nicola Galeota, Orazio Carducci Atenisio.

Faceva parte di una delle due sette (qualcuno afferma “logge” postulandone l’esistenza) operanti a Taranto, con sede in palazzo Carducci, mentre l’ altra era Sita a palazzo Buffoluti (l’ odierno Palazzo Galeota).

Anche l’impresa dei Mille a Marsala vide la partecipazione dei patrioti tarantini, tra i quali i noti massoni Nicola Mignogna e Vincenzo Carbonelli, che mandarono una delegazione di 44 volontari al massone Garibaldi.

La cronaca ci tramanda i nomi di alcuni di essi: il padre cappuccino Aurelio Perrone da Massafra, l’ architetto Gaetano Piccione, Francesco Valente, l’ avv. Egidio Pignatelli, Antonio Petruzzi, i fratelli de Gennaro, Francesco Jurlaro, Nicola Galeandro, Tommaso Catapano, Riccardo Agostinelli.

Agorà settembre – ottobre 1997 43 Esaurita la sua spinta rivoluzionaria con l’ Unità d’Italia l’ambiente patriottico diventa l’humus ove ritrova vigore la Massoneria. A seguito della costituzione del Grande Oriente d’ Italia nel 1859, la Massoneria si ramifica organicamente in tutto il regno.

La prima loggia nel periodo post-unitario fu fondata l’ 1.8.1865 col titolo di “Archita” da Giuseppe Libertini, leccese, segretario di Mazzini, alto esponente della massoneria e deputato al Parlamento. Retta dal patriota Pietro Acclavio, con l’ ausilio dell ‘ avv. Domenico Savino, riunì nel suo ambito la nuova generazione dei notabili tarantini, quali l’ avv. Carlo Primicery, Luigi Carbonelli, i fratelli Nicola e Francesco Portacci, Francesco Paolo Carelli, Francesco De Bellis.

Anche a Taranto si avvertì nella società civile l’ influsso di massoni che operarono per il miglioramento delle condizioni di vita ad ogni livello. Parlamentari massoni contribuirono alla istituzione dell’ Arsenale e della Ferrovia. Grande attenzione è stata indirizzata verso il progresso attraverso la cultura e la lotta all ‘ignoranza, vedendo in prima linea massoni come il preside del Regio Liceo “Archita” Edoardo De Vincentiis, 33 del R.S.A.A. e membro della Giunta dell’Ordine nel 1912 sotto la Maestranza di Ettore Ferrari, il preside dell’Istituto “Pitagora” Emidio Ursoleo, il docente di storia Pasquale Ridola, il docente di scienze Luigi Ferrajolo, il prof. Attilio Cemlti, il massimo poeta tarantino contemporaneo Emilio Consiglio. Massoni sono stati promotori e fondatori della sezione della Società “Dante Alighieri”, della sezione della Croce Rossa Italiana, della Umanitaria Croce Verde, dell ‘Università Popolare “Nazario Sauro”, del Comitato di Assistenza e Beneficenza, per citare le maggiori e più longeve, insieme a molteplici iniziative minori, come la prestazione professionale a favore dei poveri (ad esempio si cita l’opera del dott. Matteo Fago, che riservava due giorni alla settimana per visitare gratuitamente i poveri), oltre che di varie società di mutuo soccorso tra lavoratori.

A cavallo del nuovo secolo la Massoneria assunse la fisionomia di movimento transpartitico, consentendo l’ adesione dei propri esponenti in ogni schieramento politico. E’ un periodo di profonda trasformazione della società italiana, rappresentato anche dalla proliferazione dei partiti.

A Taranto i massoni furono tra i fondatori ed i promotori di quasi tutti i partiti tranne quello clericale: I ‘ avv. Aurelio Marchi per i radicali, Guglielmo Baldari per gli anarchici, Luigi Ferrajolo e Pompeo Lorea per i socialisti, Cesare Mormile per i nazionalisti, l’ avv. Pasquale Imperatrice per il primo Fascio da combattimento.

Massoni furono deputati al Parlamento, sindaci, consiglieri comunali anche di schieramenti differenti, che nella diversità di idee politiche si ritrovavano la sera nell ‘unità iniziatica della comune ricerca esoterica nel tempio massonico.

Dopo la loggia Archita, che sciolta dopo qualche anno di operatività, ricostituita nel 1874 e poi ancora sciolta nel 1880, sorse nel 1882 la loggia Archimede, da questa nacque nel 1907 la loggia Giulio Cesare Vanini, che nel 1911 gemmò la loggia Prometeo, nel 1913 la ricostituita loggia Archita. Per ultima, nel 1921 sorse la loggia Nazario Sauro.

La crisi della Massoneria esplose con il periodo giolittiano, da allora iniziò un’ agonia che il regime fascista non fece altro che accelerare spegnendo la fiaccola delle libertà.

Il 14 settembre 1924 alle ore 14,30 una squadraccia fascista devastò la casa massonica Sita al primo piano di palazzo Marturano in via Giovinazzi angolo via Pitagora, distruggendo mobili, suppellettili e documenti.

Ma, come il mitico uccello della Fenice che risorge dal fuoco così la Massoneria riaccese la fiaccola dopo il lungo sonno fascista e la tragedia della seconda guerra mondiale.

Il grave danno prodotto dal lungo oblio consistette soprattutto nella confusione sulla identità e sulla legittimità massonica. La Massoneria italiana aveva vissuto nel 1908 una dolorosa scissione, dando vita ad un’ altra Obbedienza, la Serenissima Gran Loggia d’Italia, detta di Piazza del Gesù, dal toponimo della sua sede per distinguersi dall’ altra, detta di Palazzo Giustiniani.

Con la ripresa del dopoguerra la famiglia giustinianea tenne sostanzialmente salda la propria identità ed organizzazione mentre quella di Piazza del Gesù si frantumò in mille rivoli, ciascuno dei quali rivendicava legittimità di unica depositaria della tradizione muratoria. Anche a Taranto, accanto alle due logge giustinianee, “Prometeo”, che riprese i lavori nel 1944, e “Vanini” nel 1947, oltre alla loggia “Archita”, che nata dalla scissione del Fera nel 1908 fu ricostituita nel 1946 sotto l’obbedienza di Raoul Palermi, e successivamente si sciolse per dar vita alla loggia “Raoul Palermi”.

D’altro canto sorsero altre cinque logge di cui un’altra Obbedienza di discendenza di Piazza del Gesù, via della Mercede n. 12. Prima fra queste logge fu la “Garibaldi” fondata dal Fr. Giuseppe Vozza, 33 del R.S.A.A. cui seguì la “Fiume” nell’aprile del 1946, la “Nazario Sauro” e la “Battisti” nello stesso anno, la “Mazzini” nel 1947.

Le vicende delle logge tarantine sono un’alternanza di dissoluzioni e ricostituzioni, di fusioni e di scissioni. Le cinque suddette logge passarono nel 1950 all’Obbedienza di Palazzo Giustiniani, ma la convivenza non fu tra le più serene considerando anche che avevano sedi differenti per le riunioni (le giustinianee il tempio di via Leonida e le altre quello di via Gorizia).

Nei primi anni 60 lo scenario massonico vide fra i protagonisti più attivi il Prof. Terenzio Lo Martire, direttore didattico di scuola elementare, iniziato durante il fascismo nella clandestinità, affiliato nel dopoguerra alla loggia Battisti, prima all ‘Obbedienza di Piazza del Gesù poi in Palazzo Giustiniani. Lasciata quest’ultima fondò una propria Obbedienza, la Gran Loggia Madre degli Illuminati di Puglia e Lucania “Stella d’ Oriente” alla Valle dell’ Ofanto, riconosciuta dalla Federazione Massonica Europea di R.S.A.A., con sede in Genova e retta dal duca Attilio Armandi di Levissano. Deluso anche da questa famiglia, fonda nel 1960 la Serenissima Gran Loggia Madre degli Illuminati di Puglia, Lucania e Calabria, aderendo all’Associazione Federativa Massonica europea con sede in Ginevra, per il riconoscimento internazionale, oltre da alcune Grandi Logge Statunitensi, e dal Movimento Italiano per la Riunificazione Massonica, a livello nazionale. Fu altresì fondatore di una rivista massonica a diffusione interregionale che fu pubblicata dal 1958 al 1963.

Con la riunificazione delle due maggiori Obbedienze nel 1972, a Taranto, alla famiglia di Palazzo Giustiniani si aggiunse la loggia “Giuseppe Vozza”, l’unica di provenienza da Piazza del Gesù.

A seguito della nuova scissione del 1974, a livello nazionale, non si verificarono particolari sconvolgimenti dell’ assetto massonico. Infatti, a Taranto la situazione rimase immutata.

Col tempo, comunque, venne ricostituita ed è tuttora operante una loggia della discendenza di Piazza del Gesù, un gruppo capeggiato dal generale Ghinazzi, distaccatosi nel 1961 dall’originario ceppo, retto poi dal commercialista Renzo Canova ed attualmente dal dott. Franco Franchi. Il cosiddetto scandalo P2 non provocò nelle logge tarantine alcun serio sconvolgimento oltre alla naturale e consueta necessità dialettica, in quanto fedeli all ‘ impegno di perfezionamento iniziatico e di miglioramento dell ‘umanità.

Con la crisi del 1991 , dovuta all’ abbandono della Comunione di Palazzo Giustiniani da parte del Gran Maestro Giuliano Di Bernardo, la massoneria tarantina visse un momento di particolare sofferenza per il tradimento del suo massimo vertice.

Divenne, però, salutare occasione che, seppur dolente nel vedere una decina di Fratelli allontanarsi (per costituirsi non in loggia, ma in un gruppo trasfertista fedele al transfuga, e che ogni mese doveva raggiungere a proprie spese una città centro-meridionale per partecipare ai lavori rituali) rinsaldò I ‘ Oriente di Taranto nell ‘ impegno e nei fini della più pura Tradizione Muratoria. Con comprensibile soddisfazione e con serena conferma della giustezza della propria scelta di coerenza l’ Oriente di Taranto ha constatato il rientro di un fratello e l’ iniziazione di un profano proveniente dalla Gran Loggia Regolare d’Italia, a fronte di altre attenzioni di pari delusi.

Nella Famiglia di Palazzo Giustiniani sono sorte dagli anni 70 la loggia “Pitagora”, la “Enea Crucioli” (sciolta nel 1995), la “Fenice” (sorta nel 1995) e per ultima, la ricostituita “Archita” (1997).

 

 

 

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LA VERA STORIA DEL FINTO SBARCO SULLA LUNA

SALE IN ZUCCA

La vera storia del finto sbarco sulla Luna

di Giancarlo Mazzuca

(Reuters)
(Reuters)

3′ di lettura

Cinquant’anni fa, il 21 luglio del 1969, gli astronauti Neil Armstrong ed Edwin Buzz Aldrin misero piede sulla Luna: furono i primi, dopo i precedenti spaziali russi (Laika e Gagarin), ad aprire orizzonti inesplorati all’umanità intera. E, a distanza di mezzo secolo, quell’avvenimento viene celebrato ovunque in grande stile.

Ma c’è un’ombra che persiste a distanza di tanto tempo: è la strana teoria del complotto secondo la quale i due americani non sono in realtà mai sbarcati sul suolo del nostro satellite. Ho cercato di approfondire l’argomento in un libro (“Quel giorno sulla Luna”, Minerva) che ho pubblicato in questi giorni assieme al giornalista Luca Liguori, il protagonista della storica radiocronaca in diretta dello sbarco dai microfoni Rai di Houston.

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Chi meglio di Liguori può illuminarci sul complotto e fugare tutti i dubbi? Ho quindi girato la domanda direttamente a lui. Mi ha spiegato che dal 1969 ci sono stati effettivamente diversi libri, film ed inchieste tv che hanno cercato di avvalorare la tesi dello sbarco finto. Per fortuna si trattava solo di “ballons d’essai”. Bastava avere pazienza perché, alla lunga, l’ipotesi di una passeggiata “artificiale” sulla Luna non avrebbe retto per il semplice motivo che, in quella storica operazione, erano state direttamente impiegate 18 mila persone: se davvero lo sbarco fosse stato pura fantascienza, qualcuno, prima o poi, avrebbe parlato.

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E allora? La verità è molto più semplice: nell’eventualità di un fallimento dell’allunaggio, Richard Nixon (il presidente Usa era molto ferrato nei complotti tanto che fu poi costretto a dimettersi per il caso Watergate) aveva davvero predisposto una specie di “jolly” da mettere sul tavolo in caso di necessità. Mai come in quel momento, infatti, la Casa Bianca aveva bisogno di distogliere l’attenzione del mondo dalla guerra nel Vietnam che si combatteva, ormai, da 9 anni. Nixon si era, quindi, rivolto alla Nasa per accelerare i tempi dello sbarco lunare ma Houston non sembrava ancora del tutto pronta alla grande impresa. Ecco, allora, la soluzione di ripiego suggerita da Donald Rumsfeld, stretto collaboratore del presidente e futuro segretario alla Difesa di George W. Bush: Armstrong, Aldrin e il terzo astronauta dell’Apollo 11, Collins, che non mise il piede sulla Luna, avrebbero in ogni caso orbitato attorno alla Terra mentre, da un set cinematografico, sarebbe stato trasmesso un allunaggio “ricostruito”.

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Il film del finto sbarco venne effettivamente girato dalla Metro Goldwin Meyer negli “studios” di Londra sotto la regia di Stanley Kubrick che in materia era davvero il “numero uno” perché aveva appena concluso la produzione di “Odissea nello spazio”: i protagonisti della soluzione-bis furono tre agenti della Cia che poi finirono in Vietnam così come della Cia erano tutti i componenti della troupe messa in piedi in riva al Tamigi. Ma fortunatamente non ci fu alcun bisogno di ricorrere al falso d’autore e di quel film di Kubrick non sapemmo più nulla. Non è restata neppure l’impronta di un piede umano sulla finta superficie lunare degli “studios” londinesi.

PS: ecco un chiarimento dell’autore rispetto ad alcuni commenti

Tutto mi si può dire, ma non certo il fatto di appartenere a coloro che hanno sostenuto che lo sbarco sulla Luna non ci sia mai stato. Non è un caso che, per celebrare quello storico avvenimento cinquant’anni dopo, proprio in questi giorni sia stato pubblicato un mio libro “Quel giorno sulla Luna” (Minerva) scritto assieme a Luca Liguori che fece la radiocronaca in diretta di quell’allunaggio. Quello sbarco è stata una grandissima conquista per l’umanità e anche per questo, mezzo secolo dopo, la conquista spaziale è ricordata oggi con tanta enfasi. Nell’articolo mi sono limitato a riportare i “rumors” di allora. Come mi ha confermato lo stesso Liguori, Kubrik si sarebbe limitato a girare solo la scena (e non un film) di un allunaggio utilizzando tre agenti della Cia. Di quella scena non si seppe più nulla.
Giancarlo Mazzuca

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ANNIVERSARI. NEL SEGNO DI SIMON BOLIVAR, IL LIBERTADOR

 

io 1783 nasceva a Caracas, in Venezuela, una delle figure più influenti nella storia dell’America Latina: Simon Bolivar, il Libertador, l’uomo che nel XIX secolo guidó la lotta per l’indipendenza dei paesi  sudamericani contro il dominio coloniale spagnolo nel XIX secolo. Aveva 20 anni quando nel 1803 venne iniziato alla  Massoneria, nella loggia Lautaro a Cadice, in Spagna, dove conobbe due protagonisti della Rivoluzione bolivariana, José de San Martín e Mariano Moreno, anche loro liberi muratori. Nel maggio 1806, a Parigi divenne anche Gran Maestro della Loggia Madre di San Alessandro di Scozia.  Bolivar proveniva da una famiglia benestante e aristocratica che lo mandó a  studiare in Europa, dove ebbe l’opportunità di entrare in contatto con la cultura e la filosofia illuminista che alimentavano il fuoco della ribellione che bruciava dentro di lui, fuoco che una volta tornato in patria lo trasformò in un vero eroe della storia. La morsa del dominio coloniale spagnolo stringeva la regione e fu Bolivar a guidare la rivoluzione venezuelana, lottando per liberare il suo paese dall’oppressione straniera. La sua abilità militare si manifestò nella famosa “Campagna Admirable” (1813) una serie di audaci manovre militari che resero indipendente gran parte del Venezuela e gli fecero guadagnare il titolo di El Libertador. Il 6 agosto 1825 l’Alto Perù divenne un nuovo Stato con il nome di “Repubblica di Bolívar”, successivamente cambiato in Bolivia; il progetto d’indipendenza del Sudamerica dalla Spagna, a cui Bolívar aveva dedicato la sua intera vita, era finalmente completo. Ma il suo spirito appassionato lo portó oltre i confini del Venezuela. Bolivar attraversó le frontiere per liberare i paesi vicini dall’oppressione spagnola. Combatté in Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, cercando di creare un’unione di nazioni libere e sovrane che chiamò la “Grande Colombia”. La sua aspirazione era quella di creare una federazione di stati sudamericani, uniti dai valori di libertà, indipendenza, uguaglianza e fratellanza. Un sogno improntato ai principi della Libera Muratoria che grande influenza esercitarono su di lui, sulla sua visione del futuro, durante tutto il corso della sua vita.

 

 

30 Luglio 2023  –  (dal sito web del GOI)

Segnalazioni e annunci

EQUINOZIO D’AUTUNNO – XX SETTEMBRE. APPUNTAMENTO AL VASCELLO IL 23 SETTEMBRE 2023

26 Luglio 2023 Dario Seglie

EQUINOZIO D’AUTUNNO

XX SETTEMBRE

APPUNTAMENTO AL VASCELLO

IL 23 SETTEMBRE 2023

 

Appuntamento al Vascello per le tradizionali celebrazioni del XX Settembre e dell’Equinozio d’Autunno. Sono in agenda invece per mercoledí 20 le cerimonie al Gianicolo davanti al monumento di Garibaldi e di Anita e a Porta Pia.

 

Nel pomeriggio seguiranno le presentazioni di due volumi: “Il fuoriuscito. Storia di Formiggini, l’editore suicida contro le leggi razziali di Mussolini” di Marco Ventura, edito da Piemme; “Garibaldi ‘el libertador”. Vita e leggenda di un italiano che ha fatto la storia. I suoi sette anni in Uruguay (1841 1848)” di Federico Guiglia (Parco Esposizioni Novegro). Sabato 23 avranno luogo le premiazioni dei vincitori delle Borse di studio Treves e Mondina.

22 Luglio 2023  (dal sito web del GOI)

Segnalazioni e annunci

IL 20 LUGLIO 2023 A LIVORNO LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO “DALL’OBLIO ALLA MEMORIA”, L’ULTIMO SAGGIO DI MASSIMO BIANCHI, GMO

18 Luglio 2023 Dario Seglie

Il 20 Luglio 2023 a Livorno la presentazione del libro “Dall’oblio alla memoria”, l’ultimo saggio di Massimo Bianchi, GMO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 20 luglio alle 18 alla Bcc di Castagneto Carducci (via Rossini 2 A) a Livorno sará presentato l’ultimo saggio del Gran Maestro Onorario Massimo Bianchi “Dall’oblio alla memoria”  edito da Angelo Pontecorboli, con la prefazione di Paolo Giustini, la presentazione dell’assessore alle culture del Comune di Livorno Simone Lenzi e l’introduzione del Gran Maestro Stefano Bisi, che parteciperá all’evento, organizzato dalla loggia Adriano

Lemmi n.704, e di cui riportiamo l’introduzione al volume.

 

“La storia è testimone dei tempi,luce della verità,vita della memoria,maestra della vita,nunzia dell’antichità”scrisse Marco Tullio Cicerone. E mai definizione a distanza di secoli risulta più azzeccata di questa. Grazie ad essa si tramandano fatti,avvenimenti ,pensieri,azioni e opere  di personaggi che hanno contributo a farla,a scriverla .A livello  nazionale e locale. Storie di uomini  e uomini con tante storie alle spalle. Storie di cittadini e nel caso di questa pregevole pubblicazione  soprattutto di massoni del Grande Oriente d’Italia.

 

L’infaticabile Massimo Bianchi, nell’ultima sua fatica letteraria ,ci delizia con questo  ennesimo libro che rende omaggio ai tantissimi liberi muratori livornesi.Si tratta di personaggi che hanno fortemente inciso nel corso della loro esistenza sulla vita del territorio e della città labronica dando luogo a tutta una serie di iniziative e di associazioni che hanno fortemente contribuito  al miglioramento e allo sviluppo della Società proiettandosi sino ai giorni nostri grazie ai forti principi di Libertà,Uguaglianza ,Fratellanza,Solidarietà e mutuo soccorso di cui sono stati e sono fecondi diffusori di luce.

 

E’ giusto ricordare questi fratelli fra fratelli che hanno  fondato mattone su mattone e retto con passione,coraggio e saggezza le officine livornesi permettendo di tramandarne ai posteri tradizione e valori. Massimo ha raccolto con pazienza e cura i nomi dei liberi muratori del passato setacciandone la vita e l’impegno civico e massonico per poi vergare con il cuore queste pagine e unirle con la malta fraterna dell’amore.

 

Così adesso tutti,non solo i continuatori ed eredi spirituali di oggi,ma anche chi dell’istituzione non fa parte ma ne studia i principi e capisce l’enorme valenza della Massoneria,potrà ricordare con l’orgoglio della memoria e la giusta riconoscenza i tanti massoni che fecero Livorno ed hanno partecipato a renderla grande. Tirati fuori dall’oblio del tempo per sempre”.

 

 

14 Luglio 2023      (dal sito web del GOI)

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RIFLESSIONI

Cariss ime Sorelle e Cariss imi Fratelli,

Nel mensile di agosto ho svolto alcune riflessioni   sul dovere dei Massoni di fronte ad un grave lutto dei Fratelli. Da Nord a Sud le cronache estive ci hanno messo davanti a tragici  eventi come il crollo del ponte “Morandi” a Genova, la tragedia del parco del Pollino in Calabria e molti altri a cui è stato dato meno rilievo sui notiziari. Da Nord a Sud la morte ha devastato molte famiglie. Non è mio compito svolgere considerazioni politiche o tecniche sulla fatalità o prevedibilità di questi eventi, ma vorrei condividere con il lettore un pensiero sull’Oriente Eterno cui tutti, volenti o nolenti, siamo diretti. La “morte” è una costante nel simbolismo massonico. Già il nostro deambulare in Tempio da Nord a Sud, con incedere costante, ci indica la strada che stiamo percorrendo e la sua meta. Il simbolismo massonico ci viene sempre in aiuto

quando ci troviamo di fronte alle grandi domande

sulla vita.

Il 21 settembre celebriamo l’Equinozio d’Autunno,

in coincidenza dell’entrata del Sole in Bilancia.

Riprendendo i nostri Lavori in Loggia, rinnoviamo

l’impegno assunto con noi stessi di trasformare la

pietra grezza in pietra cubica, ricercando la Verità

nell’incontro con la nostra Interiorità.

Il segno della Bilancia è associato alla morte. Qui

comincia nello zodiaco il ciclo involutivo, in cui

la vegetazione sembra morire, per poi rigenerarsi

in altre forme e sostanze. Questa legge di natura

riguarda anche l’uomo. Come il frutto si separa

dall’albero, il seme si separa dal frutto e dal seme

macerato nella terra nascerà una nuova pianta,

così il corpo deve separarsi dalla sua anima perché

questa possa rinascere a nuova vita.

È in autunno che avviene quella separazione di

cui parla Ermete Trismegisto quando afferma: «Tu

separerai il sottile dal denso con grande abilità»,

intendendo che dobbiamo separare lo spirituale dal

materiale, attività che noi Massoni siamo esortati a

fare prima di entrare in Tempio lasciando fuori i nostri

metalli. Ma quali sono questi metalli che dobbiamo

“lasciare” fuori dallo Spazio Sacro?

Ho assistito di recente ad un battibecco ove si sosteneva

che le donne non possono entrare in Tempio

con i monili (orecchini e collane) perché sono metalli.

Purtroppo la scena (del crimine) è stata ancora

una volta un social network (“Facebook”) che non

ha tradito la mia aspettativa di assistere, inerme,

a considerazioni di asseriti massoni che di dottrina

massonica, pur nella loro saccenza, hanno dimostra-

to di sapere poco o nulla.

Non ho la presunzione di essere depositaria della verità

perché come voi sono alla sua ricerca, ma l’osservazione

mi ha fatto sorridere non tanto per il suo

contenuto, perché se al suo autore non è stata data

una buona istruzione, c’è poco da scandalizzarsi,

quanto il tono sprezzante utilizzato affatto disposto

ad accettare l’opposta opinione secondo cui i metalli,

cui i rituali massonici si riferiscono, sono quelli

interiori e non esteriori (lo stesso Rituale adottato

anche dal nostro Ordine prevede, infatti, la restituzione

al neofita dei metalli di cui è stato spogliato in

Tempio). Ma cos’hanno i metalli a che vedere con la

morte? Tutto.

La morte simbolica che subiamo più volte, deve portarci

a rinascere sempre più scevri di quelle scorie

che impediscono alla Luce di penetrare all’interno

della nostra mente e queste scorie sono rappresentate

dai metalli.

Ogni volta che moriamo non abbiamo terminato

la nostra fatica di spoliazione perché la ricompensa

continua ad essere la Morte, fino a quando non

ci saremo liberati di tutti quegli involucri di cui è

costituita la nostra personalità e che rappresentano i

legami che tengono prigioniero il nostro Spirito alla

Materia.

Se dal punto di vista simbolico riusciamo a dare un

significato alla Morte, da massoni come affrontiamo

quella Fisica?

La dottrina massonica non offre alcuna risposta e

non può farlo, ognuno di noi è un Microcosmo a sé

ed ha il suo approccio.

La Libera Muratoria, tuttavia, ci mette a disposizione

gli strumenti per ragionare sull’estremo passo verso

l’Oriente Eterno, tra cui l’indirizzo adogmatico,

l’utilizzo della Ragione ed un’ampia visione cosmologica.

Siamo, infatti, consapevoli di non essere il

Centro dell’Universo né che questo sia stato costruito

per noi; ne facciamo intimamente parte secondo

un’architettura che non lascia nulla al caso. Tutto si

evolve verso uno Scopo Supremo.

Sta a noi, con il lavoro interiore ed il sapiente uso

degli attrezzi che abbiamo a disposizione, cercare di

trovare questo Scopo Supremo nelle risposte che più

si allineano al nostro sentire, alla nostra formazione

e soprattutto che ci aiutino ad affrontare con serenità

l’ultimo passaggio da questa Terra, senza alcuna

presunzione di avere la risposta giusta per tutti.

Torniamo quindi nei nostri Templi ad affinare con il

Lavoro cui siamo chiamati, l’uso di questi attrezzi

senza mai dimenticare che non lavoriamo solo per

noi stessi ma anche per il bene del nostro prossimo.

Buon Equinozio d’Autunno

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ALFREDO Dl PRINZIO di

 

A tu per tu con…

…l’uomo dei talismani: ALFREDO Dl PRINZIO

di

Francesca Licordari

L’ arte si unisce alla conoscenza tradizionale nell ‘ opera di uno degli ultimi creatori moderni di immagini simbolo.

A Roma, al numero 35 di via de’ Lucchesi (a due passi da Piazza di Trevi), ci si può immergere in un ‘ atmosfera particolarmente densa di messaggi esoterici. Si tratta della “bottega d’ arte” di Alfredo Di Prinzio, un artista italo-argentino che realizza pitture. disegni, incisioni, bassorilievi, medaglie, sigilli, gioielli, tutti legati a significati simbolici che imprimono loro un fascino arcano.

Le scelte artistiche sono dettate dai suoi interessi nel campo dell ‘esoterismo, che attirano nel suo laboratorio vari gruppi iniziatici romani e dell’ America Latina. Egli è in effetti per molti un “maestro spirituale” e, anche a chi non crede a tutto ciò che può apparire magico e irrazionale, riesce a trasmettere la sua serena saggezza, che affonda le radici nella conoscenza di antiche dottrine.

I suoi talismani, realizzati per lo più in materiale povero (bronzo, argento), ma che si possono richiedere anche in oro, sono creazioni che ci attirano non solo per la carica simbolica, ma anche per la bellezza dell ‘ incisione; lo stesso vale per i sassi di fiume che vengono trasformati con un paziente lavoro a rilievo in piccoli capolavori.

  • Signor Di Prinzio, come fa a realizzare i suoi talismani, voglio dire a trasformare del materiale inerte in un oggetto carico di valore simbolico?
  • Prima di tutto sono uno studioso di queste cose e, poi, forse, sono stato autorizzato a farle. Non è importante come si realizzano, ma è importante l’energia che si chiama. Ogni simbolo corrisponde a un archetipo, a una figura-base del nostro psichismo profondo, a partire dal punto, alla riga ecc.; dopo ci sono delle combinazioni di diversi archetipi che formano delle figure geometriche che corrispondono a una somma di archetipi o di energie combinate che vanno a determinare un certo equilibrio, un ‘energia particolare, che serve a dare alle persone che ne hanno bisogno un po’ di tranquillità, di armonia, di pace interiore. Chi fa talismani dovrebbe essere un “sacerdote “, ma non nel senso di prete: deve avere una certa “conoscenza “. Deve conoscere, oltre al simbolo, la persona.

Noi sappiamo che il simbolo è un linguaggio dell’anima, è il linguaggio spirituale per eccellenza, perché è un linguaggio oggettivo. Noi non lo capiamo e gli diamo diverse interpretazioni a seconda del nostro stato di coscienza, ma in realtà il simbolo porta un messaggio oggettivo, come vedere un punto, un triangolo, un cerchio. Il cerchio, per esempio, da sempre rappresenta il sole. Il triangolo rappresenta invece il fuoco. Se una persona ha necessità di fuoco io potrei fargli un talismano a forma di triangolo.

  • Come ha avuto questa particolare conoscenza che le permette di fare dei talismani?
  • Questo non si può spiegare. E’ come spiegare il sapore dell’arancia a chi non ha mai mangiato un ‘arancia. Sono dei sentimenti, delle cose che tua hai dentro, che non te le toglie nessuno e nessuno te le ha insegnate. Questa conoscenza è un patrimonio tuo, personale, che deriva dalle esperienze personali. Io credo di avere queste cose nel mio patrimonio, perché me le sono guadagnate.
  • Lei pensa che accostarsi a un diverso tipo di conoscenza possa aiutarci a risolvere i nostri problemi esistenziali?
  • Si, le scuole iniziatiche sono esistite sempre, sono scuole che appartengono all ‘umanità e servono a creare l’ Uomo. Noi prima di tutto dobbiamo diventare uomlni, che è la cosa più difficile che esista. Come puoi conoscere le altre persone se non conosci te stesso? E come puoi amare un altro, se non ami te stesso? Queste scuole servono a risvegliare in te questa conoscenza, quest’amore, perché passando per te stesso puoi espandere questo amore a tutto l’universo. E così riesci ad accettare il bene e il male. E a superare i tuoi problemi.

CHI E’ ALFREDO Dl PRINZIO?

Alfredo Di Prinzio è nato nel 1939 a Buenos Aires, Argentina, da genitori italiani, e dal 1969 vive e lavora a Roma. Ha studiato disegno e pittura nella Scuola Professionale d’arte della città di Hurlingam (Buenos Aires). A Roma si è specializzato presso la Scuola d’Arte della Medaglia della Zecca.

Ha pubblicato 12 lamine simboliche ed ermetiche sotto il titolo “Mutus Liber Muratoriae”. Ha realizzato un’opera di vasto sapore sapienzale e artistico – 49 tavole a colori sul tema dell’Apocalisse di S.Giovanni – nonché l’elaborazione delle 33 tavole simboliche dei 33 gradi del R.S.A.A. Per lo scrittore Pierre Pascal ha illustrato un libro di Edgar Allan Poe, in edizione francese.

Pianeti, glife luminose, tracciati magici, labirinti incantati, mandala, stelle: sono questi i temi di fondo del linguaggio pittorico di Alfredo Di Prinzio. E fra questi simboli cari alle tradizioni solari di ogni tempo e paese campeggia sempre l’Uomo, la sua azione divinizzata, la sua ansia di conoscenza, la sua speranza di elevazione spirituale.

Grazie alla padronanza del colore, del disegno della tecnica mista, Di Prinzio riesce a lumeggiare le “chiavi” dei “figli dell’Arte”, ad alludere senza svelare ai vari passaggi dei cammini iniziatici, ad intuire e a comunicare ciò che con il linguaggio non si può esprimere. La sua opera è sempre ricca di “segnature” magiche e sacre al tempo stesso e assume valenze catartiche, spesso “religiose” nel senso di favorire il riaccostamento, la jerogamia tra ‘terra e cielo” ermeticamente intesi.

Di Prinzio inoltre scolpisce sassi, inventa gioielli, anelli, medaglie nei quali fissa l’attimo magico, la qualità rara ed arcana della forza, della bellezza, dell’armonia universale. Su questi oggetti preziosi la ricerca formale si unisce alla esperienza sul valore dei nomi delle cose, delle virtù più segrete in un’immediatezza di comunicazione che è Arte e Poesia e Vita.

  1. Indraccolo – ANSA

Alfredo Di Prinzio ha partecipato in Italia e all’estero a premi e rassegne, ottenendo numerosi riconoscimenti. Si interessa di scenografia ed è presente in diverse edizioni con illustrazioni.

Hanno parlato di lui i giornali: La Naciòn, E/ Clarin, Analisi, 2001 Buenos Aires, A.B.C. de Madrid, Domenica del Corriere, Vita, Corriere della Regione, Italia Stampa, Il Globo, Momento Sera, Il Giornale di Roma, L’Osservatore Romano, Il Progresso Italo-Americano, Roma Notte, La Gazzetta d’Abruzzo, Paese Sera, l/ Tempo, Il Messaggero ecc.

 

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