I 12 PUNTI DI UN ANTICO RITO DI INIZIAZIONE MASSONICA

I DODICI PUNTI Dl UN ANTICO RITO Dl INIZIAZIONE MASSONICA di

Ronald Holder

(Primo Diacono della Leila Scott Lodge n.289 all’Or.: di Memphis-Tennesse)

In Massoneria, secondo gli antichi testi, esistono dodici punti originali che costituiscono le basi d ‘insieme e comprendono l’intera cerimonia dell’iniziazione. Senza l’esistenza di questi punti, nessun uomo mai era né può essere legalmente ed essenzialmente accolto nell’ordine. Ogni persona che sia fatta Massone deve attraversare tutti questi passaggi rituali, non solo nel primo grado ma anche nei seguenti. Considerando questi punti della più alta importanza nelle cerimonie dell ‘ ordine, la nostra antica Fratellanza esercitò grande ingegnosità nel dar loro simboliche spiegazioni e paragonò le dodici parti della cerimonia d’ iniziazione alle dodici tribù d’Israele. Nonostante il valore e l’importanza che la nostra antica Fratellanza assegnò a questi punti, la Gran Loggia d’Inghilterra pensò di depennarli dai suoi rituali e sostituire tre nuovi punti. Nessuno di questi sistemi è stato mai praticato in questo Paese; i quattro punti perfetti costituiscono un’ adeguata sostituzione per ognuno. Il simbolismo abbracciato nella spiegazione non può essere privo di interesse e non accetto al lettore.

  1. L’apertura della Loggia era simbolizzata dalla tribù di Reuben, perché questi era il primogenito di Giacobbe, che lo chiamò l’inizio della sua forza, la porta, come quella attraverso cui i bambini di Israele entrano nel mondo. Egli veniva, quindi, appropriatamente assunto come l’emblema di quella cerimonia che è essenzialmente l’inizio di ogni iniziazione.
  2. La preparazione del candidato veniva simbolizzata dalla tribù di Simeone perché questi preparò gli strumenti per la strage degli Scechemiti, che scatenò enorme sofferenza in suo padre, e quindi per perpetuare l’orrore della sua crudeltà, i candidati all’iniziazione erano privati di tutte le armi, sia quelle offensive che quelle difensive. Ricordato dalle scritture, Sechem violò la castità della sorella di Simeone, Dinah, per cui Simeone con suo fratello Levi, uccise gli Scecheniti durante il terzo giorno di convalescenza della loro circoncisione. Questo, infatti, è il periodo in cui l’organo maschile è maggiormente sensibile quando si viene circoncisi da adulto.
  • Il segno del Primo Diacono si riferisce alla tribù di Levi, in commemorazione del segno che Levi si ritenesse avesse fornito a suo fratello Simeone quando assalirono gli uomini di Sechem nel momento in cui erano incapaci di difendersi, passandoli tutti a fil di spada per l’affronto subito da Dinah, loro sorella, da Sechem, figlio di Hamor.
  • L’ ingresso del candidato nella loggia veniva simbolizzato dalla tribù di Giuda, poiché erano i primi ad attraversare il fiume Giordano e ad entrare nella terra promessa di latte e miele venendo dall’oscurità e dalla schiavitù, come pure dal deserto, attraverso pericolosi e faticosi tragitti, nella luce e nella libertà di Canaan.
  • L’ orazione era simbolizzata da Zebulum perché la benedizione e la preghiera di Giacobbe era diretta a Zebulum preferendolo a suo fratello Isachar.
  • La circumdeambulazione si riferiva alla tribù di Isachar perché, parsimoniosa ed indolente, invocava un leader per elevarla al pari delle altre tribù.
  • L’avanzamento all’ altare era simbolizzato dalla tribù di Dan, dal momento che il candidato potrebbe essere istruito dalle difficoltà ad avanzare nella via della verità e della santità, così come rapidamente questa tribù avanzò verso I’ idolatria. Perciò era tra la tribù di Dan che il serpente si innalzò per primo per essere adorato. 8) Il giuramento si riferiva alla tribù di Gad, in allusione al solenne giuramento che fu fatto da Japhtah, giudice di Israele, che era di quella tribù.
  • La rivelazione dei misteri al candidato era simbolizzata dalla tribù di Asher perché veniva messo in contatto con i ricchi frutti della conoscenza massonica così come Asher si diceva fosse l’erede della speranza e dei poteri regali.
  • L’ investitura del grembiule di pelle d’ agnello, attraverso cui il candidato è dichiarato libero muratore si riferiva ala tribù di Naphtali, che fu investito da Mosè di una peculiare libertà quando disse: ” O Naphtali, pienamente soddisfatto con la benedizione del Signore, possederai l’Occidente ed il Sud “.

11 ) La cerimonia dell ‘angolo nord-est della loggia si riferisce a Giuseppe, perché come questa cerimonia ci richiama la parte più superficiale della Massoneria, così le due metà tribù di Efrem e Manasse, di cui la tribù di Giuseppe era composta, erano considerate essere le più superficiali del resto, in quanto erano i discendenti solo dei nipoti di Giuda.

12) La chiusura della loggia era simbolizzata dalla tribù di Beniamino, che era il più giovane dei figli di Giacobbe e quindi circoscriveva la forza di suo padre.•

1 DODICI PUNTI Dl UN ANTICO RITO Dl INIZIAZIONE MASSONICA di

Ronald Holder

(Primo Diacono della Leila Scott Lodge n.289 all’Or.: di Memphis-Tennesse)

In Massoneria, secondo gli antichi testi, esistono dodici punti originali che costituiscono le basi d ‘insieme e comprendono l’intera cerimonia dell’iniziazione. Senza l’esistenza di questi punti, nessun uomo mai era né può essere legalmente ed essenzialmente accolto nell’ordine. Ogni persona che sia fatta Massone deve attraversare tutti questi passaggi rituali, non solo nel primo grado ma anche nei seguenti. Considerando questi punti della più alta importanza nelle cerimonie dell ‘ ordine, la nostra antica Fratellanza esercitò grande ingegnosità nel dar loro simboliche spiegazioni e paragonò le dodici parti della cerimonia d’ iniziazione alle dodici tribù d’Israele. Nonostante il valore e l’importanza che la nostra antica Fratellanza assegnò a questi punti, la Gran Loggia d’Inghilterra pensò di depennarli dai suoi rituali e sostituire tre nuovi punti. Nessuno di questi sistemi è stato mai praticato in questo Paese; i quattro punti perfetti costituiscono un’ adeguata sostituzione per ognuno. Il simbolismo abbracciato nella spiegazione non può essere privo di interesse e non accetto al lettore.

  1. L’apertura della Loggia era simbolizzata dalla tribù di Reuben, perché questi era il primogenito di Giacobbe, che lo chiamò l’inizio della sua forza, la porta, come quella attraverso cui i bambini di Israele entrano nel mondo. Egli veniva, quindi, appropriatamente assunto come l’emblema di quella cerimonia che è essenzialmente l’inizio di ogni iniziazione.
  2. La preparazione del candidato veniva simbolizzata dalla tribù di Simeone perché questi preparò gli strumenti per la strage degli Scechemiti, che scatenò enorme sofferenza in suo padre, e quindi per perpetuare l’orrore della sua crudeltà, i candidati all’iniziazione erano privati di tutte le armi, sia quelle offensive che quelle difensive. Ricordato dalle scritture, Sechem violò la castità della sorella di Simeone, Dinah, per cui Simeone con suo fratello Levi, uccise gli Scecheniti durante il terzo giorno di convalescenza della loro circoncisione. Questo, infatti, è il periodo in cui l’organo maschile è maggiormente sensibile quando si viene circoncisi da adulto.
  • Il segno del Primo Diacono si riferisce alla tribù di Levi, in commemorazione del segno che Levi si ritenesse avesse fornito a suo fratello Simeone quando assalirono gli uomini di Sechem nel momento in cui erano incapaci di difendersi, passandoli tutti a fil di spada per l’affronto subito da Dinah, loro sorella, da Sechem, figlio di Hamor.
  • L’ ingresso del candidato nella loggia veniva simbolizzato dalla tribù di Giuda, poiché erano i primi ad attraversare il fiume Giordano e ad entrare nella terra promessa di latte e miele venendo dall’oscurità e dalla schiavitù, come pure dal deserto, attraverso pericolosi e faticosi tragitti, nella luce e nella libertà di Canaan.
  • L’ orazione era simbolizzata da Zebulum perché la benedizione e la preghiera di Giacobbe era diretta a Zebulum preferendolo a suo fratello Isachar.
  • La circumdeambulazione si riferiva alla tribù di Isachar perché, parsimoniosa ed indolente, invocava un leader per elevarla al pari delle altre tribù.
  • L’avanzamento all’ altare era simbolizzato dalla tribù di Dan, dal momento che il candidato potrebbe essere istruito dalle difficoltà ad avanzare nella via della verità e della santità, così come rapidamente questa tribù avanzò verso I’ idolatria. Perciò era tra la tribù di Dan che il serpente si innalzò per primo per essere adorato. 8) Il giuramento si riferiva alla tribù di Gad, in allusione al solenne giuramento che fu fatto da Japhtah, giudice di Israele, che era di quella tribù.
  • La rivelazione dei misteri al candidato era simbolizzata dalla tribù di Asher perché veniva messo in contatto con i ricchi frutti della conoscenza massonica così come Asher si diceva fosse l’erede della speranza e dei poteri regali.
  • L’ investitura del grembiule di pelle d’ agnello, attraverso cui il candidato è dichiarato libero muratore si riferiva ala tribù di Naphtali, che fu investito da Mosè di una peculiare libertà quando disse: ” O Naphtali, pienamente soddisfatto con la benedizione del Signore, possederai l’Occidente ed il Sud “.

11 ) La cerimonia dell ‘angolo nord-est della loggia si riferisce a Giuseppe, perché come questa cerimonia ci richiama la parte più superficiale della Massoneria, così le due metà tribù di Efrem e Manasse, di cui la tribù di Giuseppe era composta, erano considerate essere le più superficiali del resto, in quanto erano i discendenti solo dei nipoti di Giuda.

12) La chiusura della loggia era simbolizzata dalla tribù di Beniamino, che era il più giovane dei figli di Giacobbe e quindi circoscriveva la forza di suo padre.•

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APPUNTI PER UNATEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MASSONICAdi

                              

APPUNTI PER UNA

TEORIA ED ETICA DELLA CONOSCENZA MASSONICA

di

Giuseppe Schiavone

La conoscenza, il suo senso

La conoscenza, unitamente alla conazione e all’affezione , è uno dei tre aspetti o funzioni fondamentali della vita dell’uomo. La conoscenza intellettiva — raccogliendo ed elaborando i dati provenienti dall’attività materiale dei sensi — consiste nell’appercezione di essi, nella loro complessa catalogazione e rielaborazione mentale; quindi nella loro trasformazione in concetti e nel definitivo

possesso cosciente dei concetti medesimi; infine nell’archiviazione mnemonica degli stessi, per essere poi utilizzati al momento del bisogno. Pertanto, il concetto coscientemente posseduto dalla mente può dirsi essere il verbum mentis : la formazione specifica di un’idea nel corso del processo conoscitivo  dell’uomo.

La conoscenza è la facoltà attraverso la quale la realtà esterna al soggetto viene assimilata o, meglio, ri-assimilata e ricreata in simboli mentali (le idee), quindi posseduta dal soggetto medesimo, costituendo un patrimonio interiore disponibile per ogni utilizzo, sempre, perennemente (anche nell’arco di tutte le vite possibili). Quanto più ampio è siffatto patrimonio, tanto più ampia è la possibilità del soggetto di dare risposte adeguate ai problemi che l’esperienza quotidiana gli pone.

Individuiamo, quindi, innanzi tutto, nel processo conoscitivo: 1) un’attività di apprensione, dall’esterno all’interno, attraverso l’utilizzo dei sensi e della mente (e di tutti gli strumenti che cultura e scienza mettono a disposizione); 2) ed un’attività evocatoria, dall’interno all’esterno, che attinge all’intimo patrimonio di conoscenze personali accumulato nel corso del tempo.

L’esperienza umana non si disperde (come invece accade negli animali), proprio perché, secondo quanto s’è già detto, è rielaborata e conservata per mezzo del processo d’apprendimento e d’acculturamento, costituendo così una memoria storica che non si disperde mai, radicandosi organicamente nell’essere d’uomo. In tal modo si struttura una memoria profonda (al di là di quella riguardante il passato prossimo, al di là della mneme: la semplice ricordanza) che si colloca permanentemente alla radice della vita. Dagli antichi greci fu personificata in Mnemòsine: la Memoria dei tempi che furono e delle opere degli Dei e degli uomini, colei che è il principio del ricordo, che contiene e custodisce l’intero passato; dalla quale, per impulso di Zeus, che giacque con lei per nove notti, sono nate le Muse ispiratrici di tutte le arti. Per cui, la radice della memoria ci porta alla radice dell’umanità (e viceversa) e dell’intenzionalità originaria. La memoria primigenia, così, si pone come archetipo e come fondazione storica della razionalità e del processo conoscitivo, dal quale è comunque alimentata e sollecitata, interagendo in un rapporto dialettico.

Globalmente, tale processo evolve continuamente e stimola, com’è evidente, la crescita storicoculturale dell’uomo, cioè la sua trasformazione (o trasmutazione) attraverso l’ampliamento progressivo dei suoi poteri conoscitivi e, quindi, operativi. Per il tramite del processo conoscitivo la ragione tappropria “idealmente” della cosa conosciuta, delle sue qualità e dei suoi poteri. Sussumendo  intellettivamente la cosa, acquisisce (se non totalmente, almeno in parte) la capacità di riprodurla, di ricrearla. L’idea della cosa complessivamente conosciuta si fissa in mente hominis; e così la mente può, con un atto di volontà produttiva (poiesis) dispiegato nella prassi (praxis), attuarla in concreto, riprovocarla.

La ragione, nell’atto conoscitivo, non è mera ricezione passiva dell’oggetto che sta conoscendo; essa esplica un comprendere, cioè un afferrare e penetrare intelligendo. Conosce e capisce, da cui la scienza e la coscienza.

Le proprietà della cosa, acquisite conoscitivamente, diventano proprietà della mente, perciò del soggetto conoscente. Il conosciuto arricchisce il conoscente, gli conferisce poteri. Quando ciò non avviene è perché la cosa non è ancora adeguatamente conosciuta, in quanto qualcosa ancora si nasconde al conoscente, poiché evidentemente permane un deficit di conoscenza che dev’essere colmato. In ogni caso la mente è capace di contenere l’archetipo della res (della cosa).

In linguaggio iniziatico, potremmo dire che il soggetto (cioè l’adepto) è in grado di possedere l’Arte o Scienza reale (cioè l’Arte o Scienza della cosa). La mente assume in sé, attraverso la conoscenza, le proprietà dell’oggetto conosciuto, ampliandosi progressivamente. La mens è l’ente-ragione-uomo: è la potenzialità divina nell’uomo, l’espressione della sua intrinseca spiritualità. Nel processo totalmente dispiegato è la Ragione-Dio. E la ragione totalmente dispiegata (o anche sino al livello storico in cui è

 

dispiegata) non è più solo ricerca e conoscenza, ma è conoscenza e potere, potere ri-creativo.

Emerge qui, dunque, il concetto della mente come facoltà umana che riflette più d’ogni altra la «somiglianza» divina indicata in Genesi (1, 26-27; 5, 1)5 . Per cui, sulla base di queste premesse, l’uomo — come insegna il metodo iniziatico — sviluppando il processo conoscitivo, integrato da una contestuale rigorosa purificazione fisica ed etica, può pervenire alla divinità, può diventare come Cristo, procedendo per gradi, esperienza dopo esperienza, stato di coscienza dopo stato di coscienza, vita dopo vita, sino alla “perfezione”; che certamente non si conquista in modo “improvviso”, ma in un lungo divenire, in cui si sperimenta la perfettibilità umana.

Secondo il principio metodologico della conoscenza libero-muratoria, non basta l’intelligenza per comprendere concettualmente, ma occorre in modo previo un livello coscienziale (cioè morale) adeguato. E necessaria, propedeuticamente, una maturazione etico-spirituale che consenta lo sviluppo della capacità cognitiva. Il Verbum, o Logos, si disvela per gradi ai buoni. E così progressivamente s’ incarna, diventa storia, parola universale, messaggio che s’ annunzia (che può annunziarsi) a tutti gli uomini. Diventa conoscenza e coscienza, quindi cultura e norma etica.

Il nascondimento della Ragione nella natura inconscia è il mysterium magnum (per usare l’espressione di Bôhme) che dev’essere svelato dall’uomo medesimo; cioè da quell’essere che ha in sé la capacità di riscattare la materia portandola allo stato di coscienza .

La conoscenza, quindi, passando attraverso l’intellezione dei fenomeni di natura (con l’ausilio della ragione scientifica e dell’illuminazione intuitiva), costituisce un’esperienza di compenetrazione, parziale ma progressiva, nella divinità, che avvolge e pervade intimamente tutte le forme dell’esistente, visibile ed invisibile, come in basso così in alto. Pertanto, è nel contempo indagine scientifico-sperimentale, indagine teologica e indagine iniziatico-misterosofica. In questa prospettiva l’esperienza globale (estesa anche alle forme di vita precedenti del soggetto), razionalmente e coscientemente vissuta, è la conoscenza autentica del vero secondo il grado di maturità etica e cognitiva raggiunto dalla creatura.

La scienza dell’evoluzione umana (che passa, come già detto, attraverso lo sviluppo della conoscenza e della coscienza) conferisce all’uomo la chiave della propria essenza e l’arché del mondo, sino alla comprensione di Dio, il Grande Architetto dell’Universo, la Ragione di tutto. Perciò, essendo Egli in modo così pieno in ognuno, ogni singolo lo può conoscere per “via interiore” e per “via esterna”, combinando insieme le due vie e assumendo l’una come prova dell’altra, e viceversa. La via interiore consiste nell’analisi del proprio io profondo, esplorandone le radici, sino alla Luce ch’è alla base dell’essere; mentre la via esterna, partendo dal presupposto che il G.A.D.U. — come s’è visto — è pure in tutte le cose di natura, oltre che nell’uomo, consiste nella possibilità di conoscerlo anche indagando “sulle” e “nelle” cose stesse, con metodo scientifico-sperimentale.

In questa complementarità, il termine unificante, il G.A.D.U., dalla Massoneria è significativamente pensato come Ragione di tutto l’universo: Ragione immanente e, nel contempo, trascendente. Ed essa, proprio perché Ragione, è decodificabile dalla scienza, come strumento per penetrare nella sua intima luce. E attingibile, perciò, attraverso il suo analogo, la ragione dell’uomo. Inoltre, può essere sviluppata da parte dell’iniziato (ma anche da parte d’ogni individuo) in un processo di progressiva attuazione della propria genetica «somiglianza» a Dio . Un processo non simbolico, non virtuale, ma che realmente trasforma il corpo e lo spirito del singolo, rendendo possibile ad ognuno di nascere due volte, ovvero di ri-nascere, cioè di trasformarsi radicalmente come Cristo e d’essere pienamente figlio di Dio .

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ALFREDO Dl PRINZI – A tu per tu con….l’uomo dei talismani:

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.ALFREDO Dl PRINZI ..l’uomo dei talismani: ALFREDO Dl PRINZIO

di

Francesca Licordari

L’ arte si unisce alla conoscenza tradizionale nell ‘ opera di uno degli ultimi creatori moderni di immagini simbolo.

A Roma, al numero 35 di via de’ Lucchesi (a due passi da Piazza di Trevi), ci si può immergere in un ‘ atmosfera particolarmente densa di messaggi esoterici. Si tratta della “bottega d’ arte” di Alfredo Di Prinzio, un artista italo-argentino che realizza pitture. disegni, incisioni, bassorilievi, medaglie, sigilli, gioielli, tutti legati a significati simbolici che imprimono loro un fascino arcano.

Le scelte artistiche sono dettate dai suoi interessi nel campo dell ‘esoterismo, che attirano nel suo laboratorio vari gruppi iniziatici romani e dell’ America Latina. Egli è in effetti per molti un “maestro spirituale” e, anche a chi non crede a tutto ciò che può apparire magico e irrazionale, riesce a trasmettere la sua serena saggezza, che affonda le radici nella conoscenza di antiche dottrine.

I suoi talismani, realizzati per lo più in materiale povero (bronzo, argento), ma che si possono richiedere anche in oro, sono creazioni che ci attirano non solo per la carica simbolica, ma anche per la bellezza dell ‘ incisione; lo stesso vale per i sassi di fiume che vengono trasformati con un paziente lavoro a rilievo in piccoli capolavori.

  • Signor Di Prinzio, come fa a realizzare i suoi talismani, voglio dire a trasformare del materiale inerte in un oggetto carico di valore simbolico?

Prima di tutto sono uno studioso di queste cose e, poi, forse, sono stato autorizzato a farle. Non è importante come si realizzano, ma è importante l’energia che si chiama. Ogni simbolo corrisponde a un archetipo, a una figura-base del nostro psichismo profondo, a partire dal punto, alla riga ecc.; dopo ci sono delle combinazioni di diversi archetipi che formano delle figure geometriche che corrispondono a una somma di archetipi o di energie combinate che vanno a determinare un certo equilibrio, un ‘energia particolare, che serve a dare alle persone che ne hanno bisogno un po’ di tranquillità, di armonia, di pace interiore. Chi fa talismani dovrebbe essere un “sacerdote “, ma non nel senso di prete: deve avere una certa “conoscenza “. Deve conoscere, oltre al simbolo, la persona.

Noi sappiamo che il simbolo è un linguaggio dell’anima, è il linguaggio spirituale per eccellenza, perché è un linguaggio oggettivo. Noi non lo capiamo e gli diamo diverse interpretazioni a seconda del nostro stato di coscienza, ma in realtà il simbolo porta un messaggio oggettivo, come vedere un punto, un triangolo, un cerchio. Il cerchio, per esempio, da sempre rappresenta il sole. Il triangolo rappresenta invece il fuoco. Se una persona ha necessità di fuoco io potrei fargli un talismano a forma di triangolo.

  • Come ha avuto questa particolare conoscenza che le permette di fare dei talismani?
  • Questo non si può spiegare. E’ come spiegare il sapore dell’arancia a chi non ha mai mangiato un ‘arancia. Sono dei sentimenti, delle cose che tua hai dentro, che non te le toglie nessuno e nessuno te le ha insegnate. Questa conoscenza è un patrimonio tuo, personale, che deriva dalle esperienze personali. Io credo di avere queste cose nel mio patrimonio, perché me le sono guadagnate.
  • Lei pensa che accostarsi a un diverso tipo di conoscenza possa aiutarci a risolvere i nostri problemi esistenziali?
  • Si, le scuole iniziatiche sono esistite sempre, sono scuole che appartengono all ‘umanità e servono a creare l’ Uomo. Noi prima di tutto dobbiamo diventare uomini, che è la cosa più difficile che esista. Come puoi conoscere le altre persone se non conosci te stesso? E come puoi amare un altro, se non ami te stesso? Queste scuole servono a risvegliare in te questa conoscenza, quest’amore, perché passando per te stesso puoi espandere questo amore a tutto l’universo. E così riesci ad accettare il bene e il male. E a superare i tuoi problemi.

CHI E’ ALFREDO Dl PRINZIO?

Alfredo Di Prinzio è nato nel 1939 a Buenos Aires, Argentina, da genitori italiani, e dal 1969 vive e lavora a Roma. Ha studiato disegno e pittura nella Scuola Professionale d’arte della città di Hurlingam (Buenos Aires). A Roma si è specializzato presso la Scuola d’Arte della Medaglia della Zecca.

Ha pubblicato 12 lamine simboliche ed ermetiche sotto il titolo “Mutus Liber Muratoriae”. Ha realizzato un’opera di vasto sapore sapienzale e artistico – 49 tavole a colori sul tema dell’Apocalisse di S.Giovanni – nonché l’elaborazione delle 33 tavole simboliche dei 33 gradi del R.S.A.A. Per lo scrittore Pierre Pascal ha illustrato un libro di Edgar Allan Poe, in edizione francese.

Pianeti, glife luminose, tracciati magici, labirinti incantati, mandala, stelle: sono questi i temi di fondo del linguaggio pittorico di Alfredo Di Prinzio. E fra questi simboli cari alle tradizioni solari di ogni tempo e paese campeggia sempre l’Uomo, la sua azione divinizzata, la sua ansia di conoscenza, la sua speranza di elevazione spirituale.

Grazie alla padronanza del colore, del disegno della tecnica mista, Di Prinzio riesce a lumeggiare le “chiavi” dei “figli dell’Arte”, ad alludere senza svelare ai vari passaggi dei cammini iniziatici, ad intuire e a comunicare ciò che con il linguaggio non si può esprimere. La sua opera è sempre ricca di “segnature” magiche e sacre al tempo stesso e assume valenze catartiche, spesso “religiose” nel senso di favorire il riaccostamento, la jerogamia tra ‘terra e cielo” ermeticamente intesi.

Di Prinzio inoltre scolpisce sassi, inventa gioielli, anelli, medaglie nei quali fissa l’attimo magico, la qualità rara ed arcana della forza, della bellezza, dell’armonia universale. Su questi oggetti preziosi la ricerca formale si unisce alla esperienza sul valore dei nomi delle cose, delle virtù più segrete in un’immediatezza di comunicazione che è Arte e Poesia e Vita.

F. Indraccolo – ANSA

Alfredo Di Prinzio ha partecipato in Italia e all’estero a premi e rassegne, ottenendo numerosi riconoscimenti. Si interessa di scenografia ed è presente in diverse edizioni con illustrazioni.

Hanno parlato di lui i giornali: La Naciòn, E/ Clarin, Analisi, 2001 Buenos Aires, A.B.C. de Madrid, Domenica del Corriere, Vita, Corriere della Regione, Italia Stampa, Il Globo, Momento Sera, Il Giornale di Roma, L’Osservatore Romano, Il Progresso Italo-Americano, Roma Notte, La Gazzetta d’Abruzzo, Paese Sera, l/ Tempo, Il Messaggero ecc.

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LA LUCE SPLENDE NELLE TENEBRE, MA LE TENEBRE NON L’HANNO ACCOLTA

LA LUCE SPLENDE NELLE TENEBRE, MA LE TENEBRE NON L’HANNO ACCOLTA

                                                                      di Lorenzo Ferrante

Dal prologo del Vangelo secondo Giovanni leggiamo questo potente quinto versetto che ha sempre destato altissimo fascino. Al tempo stesso, spulciando le varie speculazione sulle molteplici interpretazioni inerenti all’ultimo verbo della frase, risulta naturale la voglia di ricerca su altrettanti passi della Bibbia.

In altre versioni, infatti il versetto viene trascritto come:

la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno “vinta”

Ci si chiede quindi se le tenebre abbiano mai accolto o sono state vinte dalla luce.

L’eterno conflitto tra le due antagoniste sembra ricadere dunque sulla scelta dell’uomo, perché Giovanni si rivolge proprio all’uomo e lo esorta a fare una scelta, redarguendolo e informandolo.

Pertanto, la frase in questione potrebbe significare che coloro i quali hanno ripudiato la Grazia che ci è stata offerta da Dio, non hanno potuto neppure capirla, non la potranno accogliere, e non riusciranno neanche vincerla.

Occorre lasciare spazio a delle personalissime riflessioni in quanto Iniziati. Tutto rimanda al concetto di luce e ombra, di chiaro e scuro, di bene e male e si possono trovare nel tempo, nel tempio, nel rituale e nei ripetuti confronti coi fratelli svariate riposte: dal tappeto alle luci, dal binomio sole-luna alla penombra che tutto amplifica.

Ma cosa rende magico ed evidenzia tutta questa aurea esoterica? Cosa si nasconde tra le fughe del bianco e del nero? Cosa sfuma tra la luce e le tenebre?

La risposta, per chi ha camminato sotto il cielo stellato calpestando i tasselli del nostro pavimento, è stata sempre lì a portata di sguardo e appare in maniera quasi impercettibile nel concetto di “ombra”.

L’eterno scambio tra la luce e il buio, il loro alternarsi e il mescolarsi crea le ombre che ammorbidiscono le fonti luminose e che attanagliano le tenebre.

Da questa speculazione partorita da mille domande il passo verso la ricerca di una delle più alte espressioni artistiche pittoriche è breve: le opere del Merisi.

Caravaggio, pseudonimo di Michelangelo Merisi è stato un pittore italiano vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento ed è considerato uno dei più grandi artisti della storia dell’arte occidentale. Il suo stile pittorico, segnato da un forte realismo e da un travolgente impiego della luce, sovvertì il panorama artistico e andò ad influenzare tutta la successiva arte barocca.

Caravaggio descrive nelle sue opere un mondo pieno di vita ma anche di morte, di forme di realtà, dove non vi è una netta divisione tra ciò che è vivente ed è in moto e ciò che è immobile e appare privo di vita.

Questa visione per così dire “naturale” ha le sue radici alla fine del Cinquecento, con la scoperta della ricerca materiale e con la nuova visione della magia, non come semplice dominio dell’esistente, ma come manifestazione panteistica del divino, come materia del movimento e di quelle forze apparentemente immutabili che vibrano energie e

suoni, per nulla oscure a chi, come trasmette Pitagora, predispone la mente a carpire il sovra-sensibile.

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Caravaggio, ‘la cui vita tormentata riproduce al massimo l’espressione palpitante della forza del vivere, sintetizza ed esprime al meglio questa ricerca, radicando nella sua epoca con l’essenza del suo vissuto, un rovesciamento in ambito ermetico/alchemico che raramente viene colta dai profani e spesso è sottaciuta e scarsamente valorizzata anche dagli studiosi.

Per capire chi è stato e cosa ha voluto trasmettere il Merisi si deve fare un excursus della sua vita unitamente ad alcune sue opere osservando il tutto con lo sguardo di un Iniziato.

Nella sua rocambolesca vita tra Roma, Napoli e infine Siracusa il Merisi ha conosciuto personaggi illustri, uno su tutti il cardinale Francesco Maria del Monte, che l’ha Iniziato all’arte alchemica aiutandolo alla comprensione dei simboli attraverso la decodificazione dei messaggi per mezzo delle conoscenze criptiche e Iniziatiche proprie dell’ermetismo e dell’alchimia, intese nella pienezza del loro significato magico e immaginifico.

I suoi viaggi artistici e i periodi che marcano le sue opere, scandiscono e definiscono questa visione rinnovatrice. Le esperienze a Roma segnano il modo di esporre temi mitologici, contenendo le conoscenze alchemiche legate al periodo idealista: i due “Bacco”, la “Medusa”, e l’opera “Il Ragazzo morso dal ramarro”, esprimono ampliamente la potenzialità conoscitiva dell’ermetismo delle dottrine ad esso connesso.

Il dipinto venne realizzato su tela tra il 1595 ed il 1596 ed è oggi conservato presso la Fondazione Longhi a Firenze. Ritrae un giovanissimo ragazzo, soggetto privilegiato dal Merisi che, nell’atto di cogliere della frutta, viene morso al dito della mano da un ramarro. Caravaggio fissa il momento di una scenetta di genere trasformando il morbido efebico che si libera del simbolo infestante della natura fertile, in un giovane che diviene vittima di quello stesso simbolo: la piccola muraiola si ribella e morde il suo oppressore.

Il ramarro e la lucertola, nella pittura antica, simbolicamente, hanno la funzione di risvegliare gli uomini dal torpore del vizio quindi dai metalli della vita profana, riportandoli sulla strada della piena coscienza e della virtù. Questo minuscolo rettile, “sacro” per chi si accosta all’arte alchemica, ha la funzione e il compito di risvegliare e difendere l’iniziato dal grande serpente del male, ponendolo nelle condizioni di superare anche la difficoltà, ricordando e rievocando il simbolo potente dello zolfo e il fenomeno della “trasformazione” per mezzo del fuoco.

Questo quadro esprime al meglio il momento dell’attimo in cui il tempo, quinto elemento alchemico collegato alla scelta, modifica per sempre la scena unitamente al dipinto della Medusa.

Cogliere quell’attimo significa cogliere l’elemento più misterioso e presente insito nella trasformazione in cui tutto diviene e muta e tutto questo viene realizzato grazie all’uso magistrale dei colori e delle ombre.

Anche questo dipinto venne realizzato circa nel 1598 ed è oggi conservato presso la Galleria degli Uffizi di Firenze.

Il dipinto sullo scudo rappresenta uno stimabile saggio delle sue capacità prospettiche riuscendo ad azzerare gli effetti della convessità del supporto. La luce, proveniente dall’alto, proietta l’ombra della testa sul fondo verde dello scudo. Chi la osserva ha quindi l’impressione che l’ombra venga proiettata su di un fondo concavo e dunque che la testa di sopra vi fluttui. Il volto di Medusa è raffigurato nell’attimo dell’urlo, come un punto all’interno di un cerchio, scaturito dall’improvviso taglio della testa, dalla quale sgorga un fiotto di sangue. Gli occhi dilatati ed allucinati, la tensione nel corrugamento della fronte, la bocca spalancata che mostra i denti con il fondo oscuro dell’interno, sono esaltati anche in questo dipinto dalla luce calda e improvvisa. La luce evidenzia perfino l’orrore prodotto dalla capigliatura di serpi.

Simbolo dello scorrere vitale, Medusa, spinge a non opporre resistenza ai cambiamenti. Come una bestia che si addentra nel profondo degli abissi, invita a perlustrare la parte più profonda dell’Essere. Mostra l’importanza di abbandonarsi al fluire della vita.

Medusa nei poemi omerici viene infatti individuata tra le Ombre dell’Ade nell’Odissea.

Ritornando al concetto iniziale da cui siamo partiti ovvero l’ombra, bisogna aggiungere che per Caravaggio e, ancor più per lo sguardo attento di un Iniziato, non è meramente fisica, ma la stessa ha una valenza allegorico-simbolica: la sua funzione incentrata su scambio di luce e buio, è quella di evidenziare il sacro e il profano come non aveva mai fatto nessun altro pittore; dà modo quindi al Merisi di sperimentare il processo stesso della Illuminazione.

L’ombra, e di conseguenza la luce e le tenebre, mettono a fuoco una tematica che prima di allora avevano ricevuto scarsa attenzione, confinate al solo ornamento estetico e simbolo di profusione/privazione: la novella pittura conferisce alla natura morta il segno della vita che fugge lasciando dietro di sé il ricordo del nuovo e del bello, ma che a sua volta diviene nutrizione di quello che ancora ha da essere.

Nel rituale Emulation durante la lettura della seconda esortazione dell’elevazione a MM, il MV istruisce il candidato recitando: “Permettete ora che io vi faccia osservare che la luce di un MM è l’oscurità visibile, che serve soltanto per esprimere quell’ombra che avvolge le prospettive del futuro. Essa è quel velo misterioso che l’occhio della umana ragione non può penetrare, senza l’aiuto di quella Luce che proviene dall’alto. Tuttavia, anche solo con questo barlume di Luce, potete percepire di essere proprio sul bordo di una bara, nella quale voi siete appena ora simbolicamente disceso e che, quando questa vita transitoria sarà giunta al suo termine, nuovamente vi accoglierà nel suo freddo grembo”

In ogni sua tela Caravaggio coglie l’istante come fusione trasfigurata, come le ombre accompagnano la mediazione, di vita e di morte, l’attimo esatto dove i due contrari si incontrano per trasformarsi in altro, per divenire, in costante metamorfosi della condizione di diversità e passaggio.

Il Tempio per noi massoni, alla stregua della visione di quinto elemento per Caravaggio, diviene il tutto in eterna trasformazione nella sua totale presenza, permanente e stabile, sebbene il passaggio dalla Colonna di Settentrione a quella di Meridione per l’iniziato, non deve e non può significare un punto di arrivo, piuttosto qualcosa di affine ma estremamente differente: un punto di non ritorno. Aver trovato la Luce nell’oscurità significa aver preso coscienza di Sé, ma la lotta con il proprio Io durerà per l’intera vita in un eterno viaggio.

Questo viaggio infinito e ben noto ad ogni Iniziato è proprio il viaggio che ci ha di recente spiegato il nostro Illustrissimo e Venerabilissimo GM nella sua ultima allocuzione dove, spiegando la seconda Lezione Emulation, dice: “Il Viaggio del Libero Muratore può essere definito come l’approfondimento interiore (o riflusso del Sé finito) in direzione del suo Principio divino. E’ un ritorno interiore, alla reintegrazione del Sé individuale, finito e frammentario, nell’Infinitudine del Sé Divino. Esso è soprattutto la ricerca di una gnosi, una conoscenza che non resta mai allo stato di conoscenza teorica, e che è invece una conoscenza salvatrice, che necessita della Grazia, giacché avvia l’uomo spirituale, l’uomo interiore, sulla strada della liberazione e della salvezza. Mediante tale viaggio, la filosofia, la gnosi, è trasmutata in una saggezza divina, etimologicamente una theosophia”

Continuando con l’analisi di altre opere importanti e suggestive del Merisi non si può non citare “Amor vincit Omnia”. Uno dei quadri più apprezzati e conosciuti che ritrae l’Amore o Cupido nel suo aspetto tradizionale ovvero quello di un ragazzetto dotato di ali con in mano le frecce.

Il significato classico dell’opera vuole simboleggiare l’amore che vince su tutto anche sulle arti rappresentate dagli strumenti delle attività umane ossia un violino e un liuto (musica) un’armatura (guerra) una coroncina (potere) una squadra con compasso (disegno) una penna con fogli (letteratura) dei fiori e alloro (natura). Cupido sovrasta tutti questi oggetti sorridendo e si pone in movenza cruda calpestandoli quasi per esprimere il suo potere in maniera beffarda. Ma l’occhio attento di un Iniziato non può

del cupido non sono candide come quelle di un angelo ma piuttosto scure come quelle di un falco o di un’aquila e l’espressione del fanciullo, a metà tra innocenza e furbizia, lascia trapelare qualcosa di intangibile, un velo appena appoggiato sulle palpebre di coloro che sanno vedere. Anche gli oggetti presi singolarmente rapiscono l’occhio attento per la loro anomalia: al liuto e al violino mancano delle corde, l’armatura è incompleta, la piuma è sporca di inchiostro, la squadra è sovrastata da una punta del compasso e il ginocchio sinistro del cupido, appoggiato su un drappo bianco, è piegato. Nel nostro secondo grado durante la lettura al passaggio al grado di compagno di mestiere, il MV indottrina il candidato, prima ancora di mostrargli gli attrezzi da lavoro dicendo: ” …come nel Grado precedente apprendeste i principi della Verità Morale e della Virtù, ora vi è permesso di estendere le vostre ricerche ai misteri occulti della Natura e della Scienza”. Proprio come Giordano Bruno, Caravaggio vede l’universo animato e animante della forza dello spirito. Afferra le essenze che apparentemente confondono il tutto e rivela una realtà nascosta agli ignoranti e ai superficiali.

A Napoli Caravaggio entra in contatto con gli animi e gli spiriti più capaci dell’esoterismo, precisamente nella facoltà di studi scientifici presso il centro collegato a San Marcellino, chè diventa il suo punto di connessione con persone di grande livello tra cui Alessandro di Sangro, principe di San Severo, che porrà in quella zona, conoscendone le energie e il passato, la cappella di famiglia oggi sappiamo essere stato un vero e proprio tempio massonico. Questa è la nuova condizione cui ricorre il Merisi: ripropone      il percorso   alchemico       del colore sfumato nelle        ombre come processo di elevazione coscienziale dentro le sue raffigurazioni basso un unicum con la vita stessa.

L’ultima tela di Caravaggio che assume ed esprime al massimo questi concetti è la morte di Santa Lucia a Siracusa.

Il Seppellimento di Santa Lucia è un dipinto olio su tela esposto sull’altare del Santuario di Santa Lucia al Sepolcro a Siracusa.

Realizzato più tardi dell’ottobre del 1608, dopo l’avventurosa evasione dal carcere di Malta dove era rinchiuso per l’omicidio di un cavaliere dell’ordine, arrivò a Siracusa dove grazie all’amico pittore siracusano Mario Minniti, ottenne di poter dipingere per il Senato siracusano.

Il seppellimento di Santa Lucia ritrae appunto Lucia, la luminosa, la Luce, che viene raffigurata apparentemente morta, ma in realtà sta svolgendo la sua funzione del tutto alchemica e trasforma intorno a sé tutti coloro che in quest’attimo di eternità sfuggente e ferma, evolvono alla ricerca della luce, mutando dentro e fuori di sé e per sempre, l’attimo di eternità in esperienza esistenziale. Lucia, che per sua natura è duplice, nasconde sia la pudicizia ma anche la lussuria, perché protettrice di coloro che hanno perduto la retta via e possiede tutti gli attributi cari ad Iside, la divina, madre e vergine allo stesso tempo. E’ perciò colei che svela e vela contemporaneamente, quindi rivela.

Ecco perché Santa Lucia ha la grandezza di donare la vista e viene rappresentata nel quadro con i propri occhi posti ben in vista. Caravaggio fonde la via dell’ambivalen

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UNA PIETRA MILIARE PER LA COSTRUZIONE STORIOGRAFICA DELLA MASSONERIA ITALIANA

UNA PIETRA MILIARE PER LA COSTRUZIONE STORIOGRAFICA DELLA MASSONERIA ITALIANA

Mancava finora nel panorama storiografico massonico un’opera esaustiva che trattasse compiutamente il periodo del primo decennio post-unitario 1859-1869. Le scarse pubblicazioni risultano frammentarie, incomplete, costituite per lo più di collages ed elaborazioni personali di scritti altrui. Oggi è stata colmata la lacuna attraverso il lavoro certosino, pignolo e pertinacemente obbiettivo di Luigi Polo Friz: “La Massoneria Italiana nel decennio post-unitario. Lodovico Frapolli”, pubblicato in questi giorni per i tipi della Franco Angeli editore

Luigi Polo Friz è nato ad Aviano (Pordenone) l’ 8 Dicembre 1930. Laureato in Chimica Industriale, si è occupato di ricerca fino al 1970. In questo periodo ha dato alle stampe 40 fra pubblicazioni e brevetti. Successivamente è stato direttore tecnico e consigliere di amministrazione di società farmaceutiche. Vissuto per due anni in America Latina, ha redatto su quei Paesi scritti di carattere macro-economico per la rivista Mondo Economico. Giornalista pubblicista, ha collaborato alle pagine culturali, economiche e scientifiche di Corriere di Novara, Giornale Nuovo, Il Timone, Sole 24 Ore, Spazio, Stampa, Sapere, ecc..

Cultore da un trentennio di studi sul Risorgimento Italiano, negli ultimi dodici anni si è dedicato a questa attività a tempo pieno. Si occupa in particolare di Lodovico Frapolli, Gran Maestro della prima Massoneria italiana, un personaggio del secolo passato che sta rendendo noto al mondo storico-scientifico sia con saggi pubblicati in riviste di storia, sia partecipando con i suoi contributi a Convegni nazionali ed internazionali. Ha tenuto lezioni all’Università Statale di Milano sugli argomenti oggetto dei suoi studi. Ha collaborato a molti periodici, redigendo articoli divulgativi. E’ Presidente da vent’anni del Comitato di Novara dell’Istituto per la storia del Risorgimento Italiano. In questo ruolo ha organizzato una serie di Convegni e ne ha curato la stampa degli Atti.

Alcuni scritti di Luigi Polo Friz: Lodovico Frapolli e Giuseppe Mazzini, Bollettino Domus Mazziniana, 1979; L’ingresso in Loggia di Lodovico Frapolli, Hiram, 1980; Garibaldi e l’armata fantasma, Esopo, 1982; I primi vent’ anni di Giuseppe Garibaldi in Massoneria ( 1844-1864), Nuova Antologia, 1982; Ausonio Franchi e la Massoneria: Il Rito Simbolico di Milano, Il Risorgimento, 1984; Michele Bakunin e la Massoneria italiana, Rassegna Storica del Risorgimento, 1989; Lodovico Frapolli: un Gran Maestro nei rapporti con esuli ungheresi e polacchi, in La liberazione d’Italia nell ‘opera della Massoneria, Foggia, Bastogi, 1990; Albert A. Goodall: un enviado especial del Supremo Consejo de Boston al Mundo masònico sudamericano y europeo en la segunda mitad del siglo XIX, in Mas6neria Espafiola y America, Zaragoza, Centro de Estudios Historicos de la Mas6neria Espafiola, 1993; Lodovico Frapolli, Dizionario Biografico degli Italiani, in corso di pubblicazione.

Secondo l’Autore “quanto si è scritto fino ad oggi su questo periodo è incompleto ed approssimato per carenza di fonti originali; è oltretutto frutto di una letteratura di parte, massonica ed antimassonica.

Qual è, pertanto, il pregio di quest’opera che si distingue tra le altre? La copiosità delle fonti documentali, derivata innanzitutto dall’Archivio Frapolli, e quindi dalle varie peregrinazioni in archivi italiani e stranieri.

L’opera si compone di XXI capitoli per un totale di 300 pagine. Vengono ampiamente trattati argomenti quali le granmaestranze di Costantino Nigra, di Filippo Cordova, di Francesco de Luca, di Ludovico Frapolli, logge quali l’Ausonia, la Dante Alighieri, personaggi quali Livio Zambeccari, Felice Govean, Carlo Michele Buscalioni, G. Garibaldi, Ausonio Franchi, Domenico Angherà, Albert Goodall, analisi sull’Assemblea di Torino del 1863, l’Assemblea Costituente del 1864, il Supremo Consiglio di Torino, per citare i maggiori.

Una ricerca bibliografica di ben 10 pagine fornisce un’ idea della ricchezza delle fonti di questo lavoro. •

effegi

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EPICURO

EPICURO

Massime e aforismi

Epicuro, figlio di Neocle e di Cherestrata, nacque ad Atene nel terzo anno della centonovesima olimpiade, sotto I ‘ arcontato di Sosigene, nel settimo giorno del mese di Gamelione, sette anni dopo la morte di Platone. Allevato a Samo, tornò ad Atene diciottenne. Frequentò l’ Accademia di Senocrate e quella di Aristotele nella Calcide.

Apollodoro, nel primo libro della vita di Epicuro, racconta che il maestro si accostò alla filosofia ancora quattordicenne perché, come egli stesso ebbe più volte a dire, venutigli in spregio i grammatici perché non avevano saputo spiegare le questioni riguardanti i versi di Esiodo sul caos. Ermippo afferma che egli stesso fu maestro di scuola ma poi, avendo letto i libri di Democrito, si applicò con avidità agli studi filosofici.

Molti furono i calunniatori di Epicuro. Imone scrisse di lui: “Il peggiore e il più svergognato dei fisici venne da Samo, maestro di bambini, il più asino tra i viventi. Diotimo, lo stoico, gli fu ostile e lo calunniò rendendo pubbliche cinquanta lettere vergognose attribuite ad Epicuro. Posidonio e i suoi seguaci, Nicolao e Sozione nel dodicesimo libro delle Argomentazioni dioclee, Dionigi di Alicarnasso andavano dicendo che Epicuro andava nelle case dei poveri a recitare carmi lustrali (formule espiatorie), faceva il maestro di scuola per quattro soldi e che prostituì un fratello. Tutti costoro dicevano il falso.

In effetti, la bontà d’ animo di Epicuro verso chiunque era cosa nota a tutti e la stessa patria lo onorò con statue di bronzo e con onori. Gli amici, e tutti coloro che lo frequentarono non poterono sottrarsi al fascino della sua parola, dei suoi insegnamenti e dalla sua dottrina tanto che le manifestazioni di gratitudine dei genitori dei suoi allievi, dei discepoli, di tutti quelli che ebbero a godere della sua benevolenza non si contarono più. Se si astenne dal partecipare alla vita politica lo fece solo per l’eccessiva modestia che lo contraddistingueva. Epicuro non riteneva che si dovessero mettere in comune i beni, contro l’opinione di Pitagora, il quale riteneva che fra gli amici ogni cosa debba essere comune, Epicuro diceva infatti che tale comportamento è tipico di chi ha sfiducia, e senza fiducia non può esistere l’amicizia. Egli esercitava i suoi discepoli a imparare a memoria i suoi scritti. Fu uno scrittore chiarissimo e anche nell ‘opera sulla retorica non pretende altro che chiarezza. Nelle sue lettere usa le formule “sii felice” e “vivi nobilmente” invece della comune espressione “salute”. Scrisse moltissimo e superò tutti per numero di volumi. Di lui restano trecento rotoli. Tra le sue opere più importanti: Della Natura (37 libri); Degli atomi e del vuoto; Dell’ Amore; Degli Dei; Della religione; Dell ‘ angolo; Dell ‘ atomo; Della musica; Dei doni e della riconoscenza; Del retto operare; Su ciò che è da scegliere e ciò che è da sfuggire; ecc. ecc.

Morì a settant’ anni, nel secondo anno della centoventesima olimpiade, sotto l’ arcontato di Pitarato, a causa di un calcolo che gli aveva bloccato le vie urinarie. Dopo quattordici giorni di sofferenza, entrò in una vasca di bronzo, piena di acqua calda e dopo aver chiesto una coppa di vino, che bevve tutta d’un fiato, ammonì gli amici a non dimenticare i suoi insegnamenti e poi morì.

La sorte ha poca importanza per il saggio, perché la ragione amministra le cose più importanti per tutto il tempo dell ‘ esistenza.

La morte non è nulla per noi. Ciò che si dissolve non ha sensibilità, e ciò non ha sensibilità non è nulla per noi.

Da ogni cosa ci si può mettere al sicuro, ma nei riguardi della morte tutti viviamo in una città senza mura.

Ogni uomo lascia la vita come se l’avesse appena iniziata.

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TUBALCAIN

TUBALCAIN

La parola di passo in 3 0 grado

di

Mercuzio

Le parole di passo nei vari gradi erano sconosciute ai rituali inglesi del 1724 e del 1730. Il rituale del 1724 contiene la parola universale Boaz, divenuta poi la parola sacra del 1 0 grado nel rituale del 1730 e contiene la parola sacra di Gerusalemme, Ghiblim, che sarà poi inserita nel 3 0 grado. L’inserimento delle parole di passo nei rituali avvenne più tardi, forse nel 1735, per una forma di premunizione nei confronti di fratelli dissidenti. La parola di passo Tubalchain fu adottata per la prima volta dalle logge francesi e del Reno, fra il 1730 ed il 1742, ed apparve nel libello “L’Ordre des Francs Maçon trahi…, Genève 1742 e nel DerNeuaufgesteckte Brennende Leucher…, Leipzig, 1746, nel periodo cioè in cui nella Massoneria apparvero i gradi ermetici, a cui il simbolismo di Tubalchain appartiene interamente. Troviamo tuttavia traccia di tale simbolismo, già allora allacciato all’ ermetismo ed alla Massoneria in un libretto inciso su lamine di piombo del XIV secolo, attribuito ipoteticamente ad un Del Nero fiorentino, le cui case sono ancora oggi, presso il cosiddetto cantone del Nero, in via del Corso a Firenze.

In questo libretto appare Tubalcain e poco prima la primitiva versione del Rebis di Basilio Valentino, portante in mano squadra e compasso. Questo libretto, a suo tempo commentato dal Reghini ci sarà importante più tardi per decifrare questo importante glifo massonico.

Ma proseguiamo per ora il percorso massonico di Tubalcain. Il Findel, nella sua “Histoire de la FrancMaçonnerie” riporta il testo di un antico manoscritto massonico conservato nel British Museum e pubblicato in primis dal FR.’. Cooke e poi dall’Encyclopedie, Londra. Questo antico manoscritto cita la fonte da cui derivano le sue cognizioni della storia, o mito, della primitiva massoneria e cioè il Polycronikon, 1492, Londra. In questa primitiva leggenda massonica, si cita Lamech, della settima generazione dopo Adamo, come padre di Jubal, inventore della geometria. Più avanti è citato Tubal-Cain, primo fabbro, che collaborò con i suoi fratelli all’ iscrizione su pietra di tutte le scienze ed arti, per salvarle dal prossimo diluvio. Da queste poche, ma significative tracce, si può quindi desumere che l’ attuale parola di passo del 3 0 grado ha un’ origine molto antica e che è stata usata esotericamente fin dal XIV secolo. Il Reghini cita l’opera “I Segreti del Massonismo svelati al pubblico, pag. 175 – Italia 1793” indicando che in tale testo si riportano le parole di passo dei primi tre gradi, secondo il rito simbolico e quello francese che lo ha ispirato. Thubalcain per il primo grado, Scibboleth per il secondo e Ghiblim per il terzo. Le logge di Rito Scozzese non avevano parola di passo, quella di 20 era Schibboleth, quella di 30 Tubalcain (Thuiler de trente-trois degrès de l’Ecossisme, 1821, Paris). Il Rito Scozzese di Palazzo Giustiniani, fino al 1929, diede anche al primo grado la parola di passo e precisamente quella del Rito Simbolico. Nel 3 0 grado inserì come parola di passo Maq-B ‘ nah. Attualmente Palazzo Giustiniani fino dal 1946, si è riconformata alle parole di passo del Rito scozzese universale.

SIGNIFICATO Dl TUBALCAIN

Tubalcain è citato dalla Bibbia (Genesi IV, 22) come il primo fabbro che abbia lavorato ferro e rame, ed è una parola composta dalle lettere TAU-VAU-BETH-LAMED, che si legge Thuval e QET-NUN, Qain. Nei primi rituali scozzesi il significato era espresso in “Orbis Possessio” il Tuiler etc. del 1821 lo spiega in questo modo: “si vede comunemente che questo nome è stato scelto per parola di passo, perché Tubalcain fu, secondo le scritture, il primo che forgiò i metalli”. Ma, se si riflette sulla significazione delle due parole ebraiche, si riconosce facilmente nel loro insieme, il fine segreto del Gerofante, del Templare, del Massone, di tutti i settari misteriosi, quello di governare il mondo per i propri principi e per le proprie leggi, scopo che si trova molto più chiaramente espresso nei gradi superiori.

Questo motto è, nel Rito Moderno, quello di “Passo dell’ Apprendista”

Questa traduzione dall’ebraico è contestata dal Reghini che, nella sua opera “Le parole sacre e di passo” afferma: Thubalqain, come Moabon è il prodotto di una corruzione fonetica. Sono due autorevoli scrittori massonici che ce lo dicono. Il Bernard nella sua Secret Discipline dice: “Per un singolare lapsus linguae, i moderni hanno sostituito Tubal-Cain nel 3 0 grado per Tymboxein, da seppellirsi. Questa, nell’ antica Chatechesis Arcani era la parola di passo, dalla rappresentazione simbolica dello stato di morte alla esistenza restaurata ed immortale.” Non meno categorico in proposito è l’Hutchinson: “11 massone che avanza a questo stato (3 0 grado) della Massoneria pronuncia la propria sentenza, che conferma l’imperfezione del secondo stadio della sua professione, e che comprova l’esaltazione del grado a cui aspira in un distico greco, che significa struo tumulum, io preparo il mio sepolcro, faccio la mia tomba nelle polluzioni della terra, sono sotto  l’ ombra della morte. Questo distico è stato volgarmente corrotto fra noi ed ha preso il suo posto una espressione scarsamente simile nel suono, ed interamente consistente colla Massoneria e senza senso in se stessa. Se la traduzione massonica è quindi impropria, e le motivazioni storico-politiche addotte dalla Massoneria ottocentesca per tale traduzione appartengono al sotto-mito sinarchico proprio di tale periodo, il significato simbolico reale della parola Tubalcain va ricercato in un superiore contesto metafisico, che il suddetto libretto di alchimia ci svela, collegandolo nel contempo con il simbolismo massonico.

TUBALCAIN E L’ERMETISMO

Un libretto d’alchimia del XIV secolo.

Non possiamo, in queste brevissime note, commentare l’intero libretto, mettendone in evidenza le palesi connessioni con il simbolismo massonico e ci contenteremo di descriverne la parte grafica, in cui è contenuto un pittoresco ritratto di Tubalcain assieme ad altri simboli che ne definiscono perfettamente il carattere ermetico.

Ci vorremmo comunque permettere una breve trasgressione al tema particolare, per affermare che al di là del riinizio storico della Massoneria in Inghilterra, è certamente dall ‘ Italia che ci pervengono le più efficaci testimonianze della trasmissione massonica attraverso i secoli. Da fiorentino e buon amante e conoscitore della mia città, mi permetto di citare alcune testimonianze che sono rimaste ben visibili da secoli di tale trasmissione, anche se tali palesi testimonianze sono rimaste stranamente inedite negli studi massonici. Per il secolo XV ci rimane la nicchia dell’ Arte dei Maestri di Pietra e di Legname dove i Quattro Coronati sono già i patroni della Massoneria, e dove i simboli dell’ Arte (squadra, compasso, regolo etc.) compaiono nella predella di tale nicchia. Per i secoli XVI e XVII Francesco e Cosimo de Medici, nel salone dei 500 in Palazzo Vecchio, ritratti nella loro Apoteosi granducale, portano in mano squadra e compasso, mentre nella fontana dell’ Ammannati il segno astrologico dei gemelli ci insegna con correttezza la presa di maestro o cinque punti della maestria.

Nei documenti rimasti all’ Accademia del Disegno, certamente protomassonica, un alfabeto massonico del Cellini, composto interamente dai simboli che decorano anche attualmente i nosfri Templi ci dona la misura atemporale della spinta metafisica dell ‘ uomo alla costruzione interiore ed esteriore attraverso l’ esoterismo.

Ma ben altre ed importanti tracce si trovano in ogni città d’Italia, chiaramente visibili ed in attesa che

l’ attenzione dei Fratelli riscopra le proprie vicinissime radici.

Ma ritorniamo a Tubalcain ed al suo significato ermetico-massonico.

La prima pagina del libretto plumbeo fiorentino ci mostra il Sole e la seconda il crescente lunare. La terza ci mostra il carro di Febo che percorre i cieli ed il cui fulgore illumina le due precedenti pagine con il motto ermetico della Tabula Smeragdina: “Pater eius est Sol: mater eius est luna”.

Si parla qui della più splendente conoscenza dell’ ermetismo, quella della materia prima.

La quarta figura è Saturno con la sua falce in mano, il tempo, che scandisce le fasi dell’opera e nel contempo è allegoria del più pesante e vile dei metalli, il piombo, quella nostra entità carnale quanto psichica che deve essere trasformata in oro. L’iscrizione reca l’ impresa “Hic est pater et Mater eius, sive lapis noster et philoSophorum”

La quinta figura è il Rebis, un’ androgine dal doppio sesso, che reca nella mano destra il compasso e nell’ altra una squadra.

Ai lati della figura vi sono quattro stelle a cinque punte con i simboli dei pianeta Venere, Marte, Giove, Saturno, e sopra la testa vi è il Sole, a sinistra, ed a destra un crescente lunare. Nel centro, un Pentalfa reca il simbolo di Mercurio, il figlio dei luminari o Materia prima seconda, filosofale e non volgare. Il motto è : “Ego sum prima materia sapientis”.

La sesta figura, finalmente, è il nostro Tubalcain che reca nella mano sinistra una tavola con un triangolo che sormonta un quadrato e nella sinistra la croce elementare sopra il globo.

L’iscrizione è : “Ego sum Tubalchaimo qui dabo tibi verissim(um) secret(um) secretissimum nost(er)”

Tubalcain è, in alcuni raffronti analogici, Cristoforo, colui che fa passare le acque, o iniziatore, o Crisophoros, colui che porta l’Oro, o la sintesi dei Re Magi, che portano al fanciullo ermetico i tre doni ermetici, Potentia, Divitia, Sapientia, ma anche il portatore della pietra cubica o Arca o tomba di Hiram, in cui la materia deve andare in putrefazione per poter resuscitare sublimata. E’, soprattutto la conoscenza dell’Athanòr e l’ Athanòr stesso senza la quale rimane inutilizzata quella della Materia Prima. Senza tale conoscenza non è possibile dire: “Conosco l’ acacia” e passare nel numero dei Maestri. Innumerevoli altri elementi di simbologia analogica potrebbero dimostrare l’ effettiva trasmissione attraverso i tempi dell’ archetipo Tubalchain come precisa, esatta, crittografia di un oggettivo insegnamento.

In terzo grado si deve pur dire che la semiologia massonica non è più, come per i precedenti gradi, un fattore soggettivo buono tutt’ al più come un supporto meditativo, ma un vero procedimento crittografico di una docetica esatta, sottoposta al senso logico e razionale dei fratelli che non abbiano occhi ed orecchi ciechi e chiusi.

Perché se è vero ciò che afferma la Tabula Smeraldina che “Ciò che è in alto è simile a ciò che è in basso”, le stesse leggi che hanno vigore nel piano psichico lo hanno anche sul piano metafisico, ed è proprio la logica razionale, illuminata dalla intuitività, che può farci riscoprire quell’ insegnamento orale, la Parola, che la Massoneria ha perduto, ma che il Maestro Massone può riscoprire in sé.

Tubalcain può prenderci sulle sue robuste spalle, e farci passare quelle acque capaci di accendere il nostro fuoco interiore.•

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SIAMO UNO

SIAMO UNO

(21/03/2019)

Microcosmo in Macrocosmo

“Siamo Uno”, frase ricorrente in ambienti esoterici. Così molti ricercatori degli Arcani Misteri dell’uomo affermano con convinzione di essere “Uno con il Tutto”.

E apertamente, senza peli sulla lingua dicono: ”Siamo Uno!”.

Disgraziatamente non siamo Uno.

Al contrario, siamo legioni di “IO” che si alternano nelle nostre coscienze, con caratteristiche e gusti diversi.

Se non ci credete vi farò degli esempi, che è una maniera facile per comprendere.

Quante volte vi è capitato di comprare un vestito, un paio di scarpe o qualunque altro oggetto, perché vi piaceva e ne eravate attratti, ma, arrivando a casa, non vi è più piaciuto?!

Allora sorge una domanda: “Chi era colui che ha comprato?”.

Nel frattempo l’Io è cambiato e con lui pure i gusti e colui che gli è subentrato la pensa diversamente, così le cose comprate non vi piacciono più.

Capita pure che due persone si attraggono e si innamorano, perché quegli Io entrano i sintonia , ma quel rapporto dura poco tempo.

Perché? Semplicemente perché l’IO di turno ha finito il suo tempo e quello che gli subentra non riconosce più la persona che gli sta accanto.

Capita pure che il cambio di IO lo subisce soltanto uno dei due innamorati, mentre l’altro, sorpreso, si chiede il perché.

Capita  spesso di coppie che se non arrivano ad uccidersi, litigano, si separano e divorziano.

Oppure non riconoscono più i figli fino al punto di non ritenerli propri e vedendoli come estranei li eliminano.

Gli “agenti” Smith in “Matrix”

L’uomo che non ha coscienza di se stesso è in balia dei centinaia, se non migliaia, di “Smith”, come nel film “Matrix”, che vogliono eliminare l’Avatar, vero IO.

Moltissime volte quando un individuo è indeciso, i responsabili sono proprio quegli IO che non si mettono d’accordo.

Alcuni dicono di si, altri di no. Altri amano, altri odiano e, a volte, diventa una grande fatica metterli d’accordo su un argomento o su una decisione, cercando di trovare un vero equilibrio.

Molte persone che si trovano in galera, sono innocenti, e affermano che non comprendono che diavolo è successo.

Infatti non è stato il vero Io a commettere il crimine, ma un IO che in quel momento ha preso il sopravvento, un IO di tendenza assassina.

Essere Uno con se stesso è un lavoro personale che può durare anni di profonda osservazione e comprensione e comporta l’essere presenti a se stessi.

Allora quando si raggiunge il traguardo dell’Uno si potrà dire: “Sono Uno con me stesso!”.

Ma attenzione! Alcuni di questi IO ti faranno credere che sei arrivato, che sei unico, che sei un essere speciale in missione sulla Terra, che sei un politico, un prete, un re o un papa, invece non è così, tutto dipende dall’IO di turno che vi governa e nessuno potrà essere uguale e presente a se stesso per più di venti minuti consecutivi.

Molte volte alcuni di questi IO che abitano in noi hanno un ego così gonfio che ti fanno credere quello che non sei, arrivando a farti innamorare di te stesso.

Altri sono spiritosi e prendono in giro e per i fondelli gli incauti facendogli vivere una vita irreale e falsa, e così via.

Krishna combatte contro legioni di “IO” (Bhagavad gita)

Alcune persone sono vere moltitudini di questi IO.

La cosa importante è saperli riconoscere e tenerli sotto controllo.

Comunque, a mio avviso, è conveniente stare attenti e non abbassare mai la guardia.

Questi tempi sono duri e una marea di questi Io che non hanno avuto la fortuna di possedere un proprio corpo fisico tenta in ogni maniera di possedere il vostro, per sentirsi vivi su questo piano.

In ogni caso prestate attenzione ogni volta che dite “IO”. Perché dire “IO” equivale a dire il nome di Dio invano, tanto da togliergli valore e forza e il vostro “IO” non varrà nulla.

Al contrario, se lo risparmiate, lo potenzierete e quando con coscienza direte “Io voglio” vi sorprenderete della rapidità di realizzazione del vostro volere, perché quello sarà vero! “Io Sono!”.

di Alfredo Di Prinzio

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DIO CREÒ L’UOMO A SUA IMMAGINE

DIO CREÒ L’UOMO A SUA IMMAGINE?

Dio creò l’uomo a sua immagine?

O fu l’uomo a creare Dio a sua immagine?

Questo è il dilemma.

Quanto c’è dell’uomo nella visione di Dio che abbiamo oggi?

Quanto la religione, in ogni tradizione, ha da sempre umanizzato ciò che di umano non ha nulla?

Il problema principale di ogni credenza, di ogni religione, è sempre stato proprio questo: immaginare Dio e umanizzarlo, per renderlo reale, più simile all’uomo, trasformandolo, purtroppo, in un’entità antropomorfa, sia fisicamente, che mentalmente, che emotivamente, attribuendogli tutti i limiti che un essere umano è capace di esprimere.

Ancora oggi in un mondo sempre più laicizzato, almeno apparentemente, basta scorrere le pagine di internet o di qualsiasi social network per scoprire una gran quantità di interpretazioni su ciò che si nasconde dietro il volto divino.

C’è chi interpreta le scritture e riconosce in Dio qualità di giudizio, di vendetta, di ira; un Dio in perenne lotta con le forze del male da lui stesso create, un Dio che promette pianto e stridore di denti a chi non si piega alle sue leggi eterne.

Chi invece lo vorrebbe benevolo, tutto amore e sentimento, indulgente e misericordioso, o chi lo riconosce, in fenomeni miracolosi o in manifestazioni “energetiche” e negli stati emotivi di estasi e bellezza.

Tutti aspetti e forme di interpretazione molto valide, secondo i singoli punti di vista, ma che alla fine non riescono, in nessun modo, a penetrare quel velo d’illusione e di relatività da cui hanno origine.  

Da millenni gli uomini si rifanno a scritture, definite sacre, proprio perché, a loro parere, direttamente ispirate da Dio, per scoprire, dietro interpretazioni di vario genere, quale sia la Verità, cosa ci sia dietro al velo del Mistero attraverso cui scorgere il suo vero volto.

Ma è destinata ad essere una ricerca senza fine poiché ciò che chiamiamo Dio non è né definibile né circoscrivibile.

Sarebbe come chiedere ad un uomo di descrivere quale sia stata la propria realtà prima della propria nascita.

L’uomo non può descrivere Dio.

Non può conoscerne il pensiero, non può conoscerne la Natura.

Ciò che l’uomo può conoscere è la creazione divina, ciò che da Dio ha preso forma e che di Dio incarna le leggi e le manifesta.

Non è un caso che per le tradizioni più antiche, come per quella cabalistica-ebraica, l’uomo è separato da Dio da un Abisso insondabile.

L’Albero sephirotico della Vita

Dietro quell’Abisso, Dio non è “Yahweh”, manifestazione divina nei quattro elementi, ma “Ain Soph”, Dio prima della sua manifestazione, nella sua Potenza creativa, prima di passare all’atto, “Uno” nel suo pensiero profondo.

Oltre quell’Abisso l’uomo non può vedere perché non è nelle condizioni di farlo.

Potrà riuscire a vedere, nelle condizioni più favorevoli, solo le manifestazioni intermedie di quella realtà, filtrata dall’Abisso, attraverso i diversi gradi di materializzazione del pensiero, fino alla realtà creata.

L’uomo potrà sforzarsi in eterno di interpretare correttamente ciò che si manifesta attraverso l’Abisso, ma ne avrà sempre una risposta parziale e scorretta, in quanto non potrà mai conoscere il vero pensiero originario divino.

L’albero sephirotico descrive molto bene i passaggi attraverso le Sephiroth del Raggio Divino fino al suo consolidarsi nella piena manifestazione della materia, in Malkuth, la sephirah del Regno.

Cogliere solo uno di questi passaggi non ci permette di cogliere comunque il progetto completo che c’è dietro.

Ma cos’è che spinge l’uomo a volere, a tutti i costi, rappresentare in forma ciò che in realtà è al di là della forma?

L’uomo essendo forma di Dio, immagine di Dio, tende continuamente ad imitarlo, dando forma alle cose e dando un nome ad esse.

Ma c’è differenza tra conoscere la natura delle cose e dare il nome alla loro forma.

L’uomo non può creare, può solo generare.

È ridicolo, se non addirittura presuntuoso, pretendere di interpretare il pensiero divino.

L’uomo, nella sua condizione limitata, molto prossima alla natura animale, può soltanto contemplare ciò che è manifestazione divina.

Non è un caso che quasi tutte le tradizioni pongano, tra l’uomo e Dio, delle gerarchie, dei gradi qualitativi di Entità, ognuna delle quali filtra la Potenza dell’Altissimo, Ain Soph, fino al più piccolo minerale.

La Forza e Potenza divina, passando attraverso i gradi inferiori, perde la propria qualità originaria, come la luce lo farebbe attraversando diversi filtri.

Ma tutto ciò è necessario poiché il destinatario di tutto questo, nel nostro caso l’uomo, non sarebbe in grado di sostenere tanta Potenza e Forza e ne verrebbe altrimenti schiacciato.

Per questo, quello che noi riceviamo dalla Sorgente è sempre una forma “vaga” di ciò da cui ha origine.

È quindi un grave errore quello di voler interpretare a proprio piacimento e secondo propria disposizione ciò che viene dall’alto.

Perché è giusto non giudicare?

Perché non conosciamo e non conosceremo mai cosa c’è dietro il velo dell’Abisso: ne conosciamo solo riflessi distorti.

Le gerarchie angeliche e le sephiroth attribuite

Anche le schiere angeliche più alte, quelle che siedono accanto al trono dell’Altissimo non conoscono l’intima essenza del pensiero Divino.

Esse eseguono la sua volontà, senza giudizio.

Chi siamo noi per giudicare? Noi che siamo l’ultima ruota del carro?!

Chi giudica è solo chi non conosce.

Per questo non può esserci un Dio giudice dietro il velo dell’Abisso.

Poiché Dio è onniscienza e conosce ogni sfaccettatura del suo progetto, in tutte le sue dinamiche evolutive e involutive.

Ciò che per l’uomo potrebbe sembrare un orrore non lo è agli occhi di Dio.

Le cose vanno secondo le leggi cosmiche.

Dio è Legge, non Giudizio.

È legge in quanto ordina la sua creazione.

È legge in quanto “Noumeno”, mente cosmica, che armonizza ed equilibra ciò che da Lui emana.

La grandezza di Dio non è misurabile, in quanto l’Amore non è misurabile, non ha quantità, essendo qualità.

Non è misurabile in quanto la misura è la limitazione della stessa qualità e della stessa Unità che risiede in Dio.

Sorrido quando leggo le tesi dicotomiche di qualcuno sulla realtà, in cui viene descritta, in maniera riduttiva, la Storia della Vita Eterna, rilegata ad una battaglia tra fazioni. Tra Luce e Tenebre.

La dicotomia è in chi la teorizza!

Quello di cui si parla, non è il contenuto, ma la dinamica evolutiva che porta al contenuto.

Tutto il creato è “maschio e femmina”, tutta la creazione si basa sugli opposti, proprio perché attraverso la “contrapposizione” di questi opposti l’Origine possa manifestarsi.

Non si tratta, quindi, di una contrapposizione destinata all’annientamento di uno dei due poli, ma di una contrapposizione destinata alla ricerca continua di uno stato di equilibrio, di una modulazione che genera molteplicità di genere.

Le diverse forme create non sono altro che la conseguenza di queste continue contrapposizioni atomiche che, a seconda del prevalere di una o l’altra forza, determinano quella o l’altra forma.

Nell’albero sephirotico della creazione il passaggio da una sephirah all’altra è lo stesso processo in cui, nella teoria hegeliana, la manifestazione della Sintesi si palesa attraverso la contrapposizione di Tesi e Antitesi.

Giudicare qualcosa con accezione di bene o male sarebbe come giudicare qualcosa con qualità maschile o femminile.

La contrapposizione e la lotta, come già espresso, sono il motore dell’Universo.

Sono aspetti motori e non morali.

Le leggi che ci governano sono forze che mantengono il Sistema in equilibrio e la loro natura sarà per noi sempre un mistero poiché ancora non ci siamo innalzati al di sopra di esse.

Finché guarderemo la realtà dal basso della nostra statura vedremo sempre tutto sul piano della nostra piccola statura.

Di fronte a questa limitata condizione cosa può fare l’uomo per connettersi a Dio e cogliere pienamente il suo raggio di emanazione senza distorcerlo?

Per prima cosa, non riflettere in Dio i limiti che lo caratterizzano.

Secondo, considerare tutto ciò che succede intorno a lui come non giudicabile, in quanto ciò che è percepito è soltanto un riflesso lontano della realtà Prima.

L’ostacolo principale che si frappone tra l’uomo e Dio è proprio la Paura.

L’uomo ha paura di ciò che non conosce tanto da rendere ciò di cui ha paura simile a lui, per esorcizzarla.

Da qui l’umanizzazione di Dio.

Da qui la creazione da parte dell’uomo di un Dio iracondo, geloso e pieno di debolezze umane.

L’uomo ha paura di Dio perché non riesce a “comprenderlo”.

Ma cosa può salvare l’uomo da questo distacco dalla vera sorgente divina? Sorgente che in forma microcosmica risiede in lui?

La Fede.

Ma non parliamo di Fede in senso religioso.

La Fede di cui parlo è la Visione “muta” e “cieca” del raggio divino, l’abbandono in ciò che è insondabile, ma nello stesso tempo presente in noi stessi come Essenza e Presenza.

La lama del Matto

È il contatto col proprio Centro Edenico che ci ricongiunge alla Sorgente, attraversando l’Abisso.

Questo stato lo ritroviamo nella lama “0” dei tarocchi: “il Matto”, dove si vede un uomo che cammina senza timore verso l’Abisso, mentre un cane svela la sua nuda Verità strappandogli con un morso un lembo dei pantaloni.

Nell’Albero sephirotico della Vita tale centro è rappresentato dalla sephirah “Daath”, la sephirah nascosta, la sephirah della Conoscenza, che una volta rivelata ci riporta a Dio.

Questa Sephira mi piace associarla al frutto “proibito” della Conoscenza, strappato dallo stesso albero, nel giardino dell’Eden, da Adamo ed Eva, e per questo invisibile, in quello sephirotico, fino a quando non sarà nuovamente riposizionato al suo posto e, quindi, “svelato”.

Tale Conoscenza non è quindi una conoscenza mentale, ma un’identità, un riconoscere nel seme divino che vive in noi la stessa natura divina della Sorgente.

In questo, l’uomo è immagine di Dio e, grazie a questo, l’uomo non ha bisogno di immaginare Dio simile a lui, ma prende coscienza di essere parte di Lui.

L’Apertura del cuore, inteso come svelamento del Daath è l’attivazione di quell’atomo divino che, per risonanza, riconosce il raggio di emanazione divina nella creazione e trasforma in Fede, sintesi di conoscenza, fiducia e consapevolezza, ciò che prima era paura e non conoscenza.

Nell’albero sephirotico, il percorso del raggio divino non termina nella materializzazione in “Malkuth”, ma, in un viaggio di andata e ritorno, si sublima nuovamente nell’Ain Soph.

Ogni cosa ritorna a Dio.

Lo stesso percorso di andata e ritorno lo ritroviamo nel processo alchemico, ma capovolto.

L’alchimista, infatti, parte dalla materia formata e la lavora riportandola allo stato spirituale per poi riportarla alla materia in forma rettificata.

In questo, l’uomo imita Dio e, simile a lui, trasforma la materia, aiutando la Natura ad evolvere.

La materia di cui parliamo è chiaramente la materia dell’uomo.

I propri difetti, che oscuravano la luce divina, vengono rettificati, lasciando spazio ad essa di manifestare la scintilla divina che, una volta attivata, connetterà la materia allo spirito. Materializzando lo Spirito e spiritualizzando la Materia.

L’azione congiunta dell’uomo con Dio, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, è l’incontro tra il creatore e la creatura attraverso la creazione.

È la sintesi tra l’azione del Padre con quella del Figlio.

Tra colui che dà la Vita e Colui che, attraverso la Morte, la rigenera nella Resurrezione, riportandola al Padre!

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La materia di cui parliamo è chiaramente la materia dell’uomo.

I propri difetti, che oscuravano la luce divina, vengono rettificati, lasciando spazio ad essa di manifestare la scintilla divina che, una volta attivata, connetterà la materia allo spirito. Materializzando lo Spirito e spiritualizzando la Materia.

L’azione congiunta dell’uomo con Dio, dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso, è l’incontro tra il creatore e la creatura attraverso la creazione.

È la sintesi tra l’azione del Padre con quella del Figlio.

Tra colui che dà la Vita e Colui che, attraverso la Morte, la rigenera nella Resurrezione, riportandola al PEleazar

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IL MASSONE GENNARO ARCUCCI…

La tradition d’édifier des tours humaines date vraisemblablement du Moyen Âge. Elle perdure en Catalogne, où elle donne lieu à de grands rassemblements festifs. Les castells, c’est-à-direles « châteaux », sont constitués d’une base compacte de participants, à partir de laquelle des équipes de quatre hommes, appelés « casteliers », grimpent pour former une tour de quatre à neuf étages.Un enfant entame ensuite l’ascension du castell jusqu’au sommet.

IL MASSONE GENNARO ARCUCCI

MARTIRE CAPRESE DELLA

REPUBBLICA PARTENOPEA DEL 1799

di

Domenico d’Alessandro

Nacque a Capri dal dottor fisico Costanzo Arcucci e da Caterina Romano di Sorrento la notte antecedente il 5 gennaio 1738, giorno in cui venne battezzato nella chiesa di S. Sofia di Anacapri. Gli furono imposti i nomi Gennaro, Ignazio, Giuseppe, Michele e nonanche Felice come compare sulla lapide commemorativa apposta nella piazza di Capri. Il padre Costanzo, figlio di Giuseppe era nipote di Tommaso Aniello, entrambi medici. Dei tre fratelli: Michele, Giuseppe e Francesco, solo il primo fu perseguitato e salvato dal comandante della nave Sea Horse che lo condusse in Africa. Per la sua gracilità il padre voleva che abbracciasse la missione del sacerdozio. A soli 20 anni, conseguì la laurea in Medicina come attesta Francesco Serao. Sottoscrisse scrivendo: “Io Gennaro Arcucci della Terra di Anacapri, Provincia di Salerno”. Il 14 Marzo prestò giuramento.

Fu compagno di studi ed intimo amico di Domenico Cirillo, al quale affidò la cura e l’educazione del fratello Michele. Ebbe la docenza di filosofia e scienze all’Università di Napoli avendo modo di frequentare gli spiriti più eletti quali Mario Pagano, Francesco Conforti, Eleonora Pimentel Fonseca, Ettore Carafa e l’ammiraglio Caracciolo, tutti personaggi che seguivano con interesse le fasi della Rivoluzione Francese ed il suo movimento rinnovatore unitamente agli illustri giuristi come Gaetano Filangieri, Giuseppe Palmieri, Giuseppe Maria Galanti, Domenico Forges Davanzati. Seguì per anni la vasta e multiforme attività intellettuale della borghesia convinto che essa, come forza economica e sociale, potesse avere un ruolo determinante per I ‘affermazione dei principi di libertà, giustizia e uguaglianza di tutte le classi sociali. Abitò a Napoli in via S. Severo dopo il matrimonio con la nobildonna signora Mastelloni. La parentela acquisita con questa famiglia arricchì i suoi contatti con illuministi anche europei che erano in contatto con Emanuele Mastelloni che fu ministro della Repubblica Napoletana. Esercitò la sua professione in molti ospedali di Napoli, principalmente in quello degli Incurabili, dispensando sempre una grande benevolenza alle vedove ed alle madri. Nei mesi estivi ritornava a Capri nella sua casa di via Fuorlovado e dove aveva diverse proprietà e vigneti a Truglio. Produceva circa sessanta botti di vino all’anno, alla maniera di Borgogna, che aveva denominato “Lacrima di Tiberio”: il primo vino doc di Capri che fu apprezzato dai buongustai e dai primi viaggiatori stranieri. Nelle vacanze capresi approfondiva le ricerche storiche sulle dodici ville augusto-tiberiane invogliato dagli scavi del 1777-78 eseguiti da Girardi e da Hadrawa nel 1786-87. Queste sue ricerche furono pubblicate a Torino nel 1820. L’opera, come molti altri suoi scritti, è andata perduta e resta solo una menzione di una nota di un libro di Cornelio Tacito, nella quale si legge: “Duodecim villarum loca detegere sategitante viginti annos Arcutius Medicus”. Riferisce il D’ Ayala di aver trovato un opuscolo titolato: “Januari Ignatii Arcutii in X lib. III Galeni caput commentarius opere elaboratus in solenni cathedrale petitione III Kalen. Octobris 1777′, ma anch’esso è sconosciuto. Sono invece conservati presso la biblioteca del Museo di S. Martino due suoi proclami: “Il Commissario Bonificatore” e “Il Miseno Trasfigurato”. Era intimo del vescovo mons.. Saverio Gamboni, malgrado questi fosse in buoni rapporti con la Corte e confessore della regina Carolina quando questa veniva a Capri. Fu anche amico di mons. Michele Natale, vescovo di Vico Equense, condannato a morte il 20 agosto del 1799. Amava intrattenersi ad Anacapri con Francesco Mazzola, anch’egli repubblicano. Dopo la restaurazione il Mazzola ebbe I ‘ indulto e si ritirò per sempre a vita privata. Nel 1827 il sovrano che era ritornato sul trono, trovandosi a Capri, pensò di fargli visita, ma il Mazzola, avutane notizia, appese alla porta un cartello con la scritta: “Impedito”. Proclamata la repubblica il 27 Gennaio 1799, Gennaro Arcucci venne inviato a Capri il 3 Febbraio nella qualità di Commissario Bonificatore. Dai concittadini non ebbe I ‘ accoglienza entusiastica che lui pensava, devoti com’erano i capresi al re Ferdinando IV che aveva scelto l’isola come suo luogo di vacanza e di caccia, ospite del baronetto inglese sir Nathalie Thorold, proprietario del Palazzo, oggi detto Canale. In Piazza venne piantato l’albero della libertà, un albero vivo, perché la libertà potesse piantare le sue radici. Era sormontato dal berretto frigio, simbolo della liberazione, e parato di fasce tricolori e della bandiera nazionale. Si recò poi nella Cattedrale di S. Stefano dove fu cantato il Te Deum e dove gli fu anche offerto un fascio di fiori alla fine della cerimonia religiosa. Il vescovo mons. Gamboni dispose che in tutte le chiese della diocesi venisse esposto il SS. Sacramento per otto giorni onde implorare la divina benedizione sulla  Repubblica; che all ‘orazione “pro-Rege” fosse sostituita quella “pro-repubblica”; che gli ecclesiastici di ogni ordine, comprese le suore dei Monasteri di S. Teresa di Capri e S. Michele di Anacapri, si fregiassero del tricolore; che tutti si recassero a porgere gli ossequi al Commissario Arcucci. Il Can. Arciprete Don Salvatore Ferraro fu incaricato di predicare a favore della Repubblica. Per questo motivo mons. Gamboni fu condannato a 15 anni di esilio ed alla confisca dei beni, mentre al can. Ferraro, che come Cancelliere della Cura Vescovile di Capri aveva controfirmato l’editto emanato dal vescovo, venne concesso I ‘indulto il 30 maggio 1800. Come primo atto commissariale, Arcucci, fece dimettere dalle loro cariche regie il Governatore, il Giudice ed il sindaco Don Carlo Arcucci. Dispose anche che fossero rimossi in tutti i luoghi gli emblemi di Sua Maestà. Si recò poi ad Anacapri ed operò lo stesso. Fece esporre il SS. Sacramento secondo l’editto del vescovo Gamboni. Dopo la benedizione intrattenne il popolo perorando la causa della democrazia. Disse che egli “lavorava da ben nove anni per la liberazione della sua patria, per riscattarla dalla schiavitù monarchica, per rivendicare le offese fatte al popolo, per affermare la ver sempre disprezzata”. Lesse la lista dei municipalisti da lui nominati. Emanò un editto ordinando che fossero dati alle fiamme i quadri dei reali e le bandiere. Fece issare sulla piazza lo stendardo tricolore, ed un altro sul diruto castello di Barbarossa. Caduta la repubblica il 13 giugno del 1799, Gennaro Arcucci fu arrestato e rinchiuso prima nel carcere di Portanova, poi in quello di S. Maria Apparente. Riferisce D’ Ayala che “pareva alla moglie poter riuscire a salvarlo, sperando veder soddisfatta la grande sollecitudine che a pro dell’Arcucci dimostrarono tutte le famiglie ragguardevoli di Napoli; e salito al trono il nuovo Papa Pio VII, pareva a tutti avessero dovuto scemare tante ire e tante vendette di sangue”. Il 14 marzo del 1800 comparve in giudizio, fu condannato a morte e trasferito nel carcere del mercato. Ricevette il confronto delle monache del Monastero di S. Giuseppe dei Rufi. Il 18 marzo prese i sacramenti con la fede di generoso figlio di Capri e con la rassegnazione del martire. I revv. Padri della Congregazione dei Bianchi lo accompagnarono al patibolo proteggendolo dagli insulti che la popolazione riservava ai condannati. Prima dell ‘esecuzione disse ai suoi carnefici: “Poco mi potete togliere di vita”. Fu sepolto nella Congregazione del Carmine Maggiore Sulla sua tomba, secondo ancora il D’Ayala, furono incise le parole: “Homo atiqua virtute ac fide”. Il suo nome figura anche nella prima tavola di marmo dei martiri del 1799 apposta sul portone di Palazzo S. Giacomo, sede del Comune di Napoli. Gli furono confiscati i beni: i poderi di Capri siti a Fontana e Fuorlovado, le case di S. Angelo a Napoli, un vitalizio sul fondo “Parate” ed il vino trovato nei cellai di Capri, fu venduto.

Di fronte a tanto patriottismo ci piace ricordare quanto Vincenzo Cuoco liricamente ha scritto: “Noi abbiamo sofferto gravissimi mali, ma abbiamo dato anche grandissimi esempi di virtù. La giusta posteriorità oblierà gli errori, che come uomini hanno potuto commettere coloro, a cui la repubblica era affidata: tra essi però, si ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco, ciò forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltà. Tutti l’han guardata e con la istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino”. Il 18 marzo del 1900, centenario della morte, l’Amministrazione Comunale di Capri fece affiggere, nella Piazzetta, la lapide commemorativa che figura all ‘altezza del gran caffè.

L’attualità dei valori del 1799

Ciascuno deve ricercare la “verità” autonomamente perché è così che si forma la coscienza delI ‘uomo, dell ‘uomo non sovrano o suddito, ignorante o istruito, ma dell’uomo vero, l’unico essere capace di esaltare con la propria intelligenza le sue capacità. La ricerca inizia con la conoscenza di se stessi, delle proprie origini. E come andare alle origini di ciascuno di noi se non conosciamo, innanzitutto, il nostro ambiente di vita, la città natale e la sua storia, la cultura dei “nonni” nostri? Se è vero che “scienza senza coscienza è dannazione dell’anima”, è altrettanto vero che ciascuno deve ricercare da se il significato delle cose, la ragione vera che muove i processi della storia. Ebbene gli uomini del 1799, tra i quali il caprese Gennaro Arcucci, spesero la loro vita per la ricerca della vera ragione che muove le cose. La seconda metà del ‘700 vide il fiorire in Europa di quel fenomeno intellettuale conosciuto come “Illuminismo”, l’andare alle origini della cultura occidentale interpretando tutto secondo ragione. Ovviamente taluni esagerarono pretendendo di fare della ragione una religione vera e propria. Noi, lasciando da parte questi estremi, vediamo che i centri più importanti dell ‘Illuminismo furono Napoli e Parigi, che con Londra erano le città più popolose d’Europa e le meglio attrezzate culturalmente. Un ruolo assunto da Napoli come per vocazione naturale, non a caso è l’unica colonia della Magna Grecia ad essere divenuta metropoli, l’unica a conservare, anche nel fisico del suo “Centro Antico”, I ‘originario tracciato urbanistico ippodomeo, ispirato dal grande architetto di Mileto, allievo di Pitagora, del quale ci parla Aristotele. A Parigi Voltaire, Diderot, D’alembert, diedero vita all ‘Enciclopedia, un opera scientifica da aggiornarsi nei secoli e nelle varie nazioni in modo da costituire nel futuro la summa della cultura dell ‘umanità.

A Napoli si curò di tracciare i caratteri dello “Stato Moderno”. E’ così che nacque la “Scienza della Legislazione” di Gaetano Filangieri, un ‘opera presto conosciuta ed apprezzata in tutti i paesi del vecchio continente e nel nuovo mondo. Un grande entusiasmo vi fu nei giovani napoletani ed in quelli che dalle province del regno accorrevano a Napoli a studiare:

* come medici, tra questi l’Arcucci ed il più famoso Domenico Cirillo;

* come allievi della scuola militare della “Nunziatella”, ove tra i professori vi era I ‘insigne Pasquale Baffi, maestro di tanto uomini insigni, martire del 1799, albanese d’origine e anche questo potrebbe oggi avere un significato;

*come giuristi, sotto la guida del grande Antonio Genovesi, una cattedra la sua che fu la prima in Europa a trattare di economia politica, la prima ove le lezioni si svolgevano in italiano e non in latino.

E ciò mentre la città di Napoli viene descritta come uno sporco formicaio. “Gli abitanti erano circa 500.000, di cui 25.000 nobili, 15.000 ecclesiastici e 3.000 giureconsulti. ‘

La stessa aristocrazia lungi dall ‘essere una guida della società costituisce il peso maggiore che grava su essa. Michelangelo Schipa, da Croce definito il più rigoroso storico della Napoli di quei tempi, così la descrive: “La stessa aristocrazia fu quale era stata nel corso del vice-regno, in generale oziosa ed ignorante, pretenziosa e dissipatrice, fastosa e sguaiata, più che in ogni altra parte del mondo, indecorosamente insensibile a certi doveri che la presenza del re riuscìforse a fare meglio osservare

E’ stato detto che le rivoluzioni sono esplosioni di idee che seguono mutazioni nel corso del divenire dell ‘umanità e che ogni esplosione si verifica, naturalmente, ogni qualvolta un ostacolo si pone innanzi al moto impresso dall ‘accelerazione precedente. L’esplosione provocata dagli intellettuali francesi e napoletani fu ostacolata dall ‘ assolutismo di due Re, uomini del tutto diversi ma dalla comune vocazione alla fuga dalle responsabilità e dal popolo, da qui I ‘esplosione naturale concretizzatasi nella rivoluzione francese e nella repubblica napoletana del 1799. E’ da ricordare che:

  • Gaetano Filangieri, maestro di tanti uomini del ’99 è colui al quale si rivolgeva Franklin nel periodo dell’elaborazione delle leggi e della stessa Costituzione degli Stati Uniti d’America.
  • le leggi varate durante la repubblica x Napoletana sono ancora oggi i pilastri dell ‘ordinamento giuridico italiano;
  •  lo stesso spirito del 1799 aleggia nei deliberati del Parlamento napoletano del 1821 , il primo liberamente eletto in Italia, sorto per merito dei sopravvissuti al 1799, come Guglielmo Pepe, che assieme ai giovani patrioti riuscirono ad ottenere la “Costituzione”.

Questi passaggi non sono la democrazia modernamente intesa ma quelli attraverso i quali “naturalmente” vi si arriva.

I legislatori del 1799 si posero l’obiettivo di trasformare la plebe in popolo non solo in diritto ma anche e, principalmente, nella maturazione della coscienza civica dei cittadini. Si cercò di spiegare il significato delle nuove leggi in dialetto e dagli altari durante la messa. L’obiettivo non fu raggiunto. I napoletani, la massa, durante I ‘esecuzione delle pene capitali, applaudirono il boia e non gli insigni uomini che immolarono la vita: non v1 era stato il tempo perché si istruissero!

Eppure quel patrimonio intellettuale rimane valido tuttora. Quegli uomini sono apprezzati ancora oggi ma, purtroppo, meno del secolo scorso e di quanto oggi sarebbe necessario per realizzare in Italia il moderno stato di diritto. Si pensi, per un attimo, alla grande battaglia di Mario Pagano contro la validità della confessione estorta all’imputato quale mezzo di prova e la si raffronti al silenzio di tanti verso la moderna pratica del procedere in base alle accuse di criminali “pentiti”. Viaggiatori a Napoli furono i più grandi intellettuali del ‘700 e Goethe è solo uno fra i tanti. E non si può dire che vennero solo per le bellezze del sito perché quando Gaetano Filangieri si ritirò a Cava dei Tirreni i maggiori intellettuali europei andarono fin lassù per conoscerlo. Franco venturi, il più insigne studioso del “Settecento Riformatore” li definì “i pellegrini alla Cava”. Gli scambi culturali non avvenivano soltanto in una direzione, anche i napoletani erano viaggiatori all ‘estero per studio, valga per tutti l’esempio di Domenico Cirillo a Londra per lezioni di medicina. Quanto questi intellettuali siano avanti agli uomini del proprio tempo lo possiamo dedurre dalla diffidenza dei napoletani nei confronti della scienza medica ancora viva a fine Ottocento, quasi un secolo dopo la morte di Domenico Cirillo. Axel Munthe, il famoso medico cui dobbiamo S. Michele di Anacapri, racconta che quando apprestava una medicina ad un malato si sentiva dire: “dottòpecchè nun I ‘assaggiate primme vuie”. La maturità di un popolo cresce gradualmente e quello stesso che aveva applaudito il boia a Piazza Mercato, sessant’anni dopo, accorse a fiumana, nelle strade di Napoli, ad acclamare Garibaldi perché i valori risorgimentali del Generale erano amni a quelli degli uomini del 1799.Accorsero perché avevano capito e fatto propri quei valori e non per strappare un regno al figlio di una Regina di Casa Savoia, peraltro considerata a Napoli “regina santa”, per  offrirlo ad un re Savoia, sia pure “galantuomo”. Oggi assistiamo ad una rivisitazione della storia, si cercano le colpe dei Savoia per rivalutare i Borbone. Sono analisi storiche apprezzabili quando non scadono nell ‘agiografia, ma non bisogna dimenticare che quella tra i Savoia ed i Borbone è una diatriba tra zii e nipoti per un regno più o meno vasto, nello scontro il modo di governare e lo stesso popolo rivestono un ruolo secondario. E’ in questa logica che “nipote” di Ferdinando di Borbone diventò persino Napoleone dopo il matrimonio con Maria Luisa d’Austria, che era figlia di Teresa, la primogenita del Re di Napoli. Oggi viviamo una evoluzione convulsa. Il destino del mondo è tanto profondamente in discussione che tutto cambia, modi di credere, di vivere, di pensare, di esprimersi. Tutto è precario e sembra naufragare nelI ‘infido mare del nozionismo, del “sapere” senza “conoscenza”, nel quale la società sta naufragando. ln questa metamorfosi del mondo che segna quest’epoca di transizione dal “neolitico” allo “psicozoico” è possibile il “saltus” lungo il “philum” dell’evoluzione. Si vedono più storie camminare a velocità ineguali: la storia dei fatti cammina più rapida, quella della società e dell ‘economia più lenta, quella della coscienza e della morale sempre in ritardo con le altre, resta quasi immobile. Ecco, alla vigilia del terzo millennio, nel terzo millennio, i giovani hanno il compito di condurre a compimento quest’ennesima mutazione nel corso del divenire della storia dell ‘Umanità . E’ certo che essi saranno capaci di sollevare gli spiriti portando la storia della coscienza e della morale al passo di quelle dei fatti e dell ‘economia.•

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