In parecchie Nazioni esiste una tendenza
a considerare la Massoneria soltanto da un punto di vista filantropico, di
associazione che si occupa di soccorrere i poveri, i malati, gli afflitti e
questo è senz’ altro una delle cose più belle che la nostra Istituzione possa
fare.
Ma dobbiamo riportarci alle nostre
antiche tradizioni che si riallacciano alle Corporazioni dei Liberi Muratori
costruttori dei templi di pietra. Ad esse sono subentrate le Logge speculative
nelle quali i Massoni operano per la costruzione del Tempio ideale in cui
l’iniziato si purifica e, giorno dopo giorno, raggiunge sempre più elevati
gradi di perfezione e di conoscenza.
E proprio in virtù di questa particolare conoscenza
noi siamo in grado di operare realmente al servizio dell’Umanità. Questa – e in
particolare i giovani – ha oggi più che mai bisogno dei nostri Ideali.
Veniamo dalle spaventose esperienze di
due guerre mondiali, di conflitti atomici, di deportazioni, genocidi,
esperimenti scientifici sconvolgenti, stragi, conflitti etnici e religiosi che
hanno pressoché annientato l’ altruismo, la generosità, lo spirito di
solidarietà.
Viviamo dunque in un mondo
caratterizzato dall’ edonismo, dal consumismo, dalla ricerca dell’ effimero e
dalla sete sfrenata di dominio, non solo politico, ma soprattutto delle
coscienze e delle scelte economico-sociali dei popoli.
La libertà e la dignità dell ‘uomo
vengono disinvoltamente calpestate e la mancanza di cultura rende intere
popolazioni facile preda di furbi manipolatori dell’ opinione pubblica e dell ‘
andamento dei mercati.
Noi Massoni, che fin dalla prima
esperienza dell ‘ Apprendista abbiamo imparato a distinguere attraverso l’
insegnamento del Maestro Venerabile quale sia la vera Luce, sappiamo che questa
significa conoscenza e quindi cultura.
E la cultura è ricerca continua della
propria interiorità.
Ma tale ricerca può essere compiuta
soltanto se si possiede la libertà.
Ma la libertà non può dissociarsi dalla dignità che si fonda sul
rispetto profondo di se stessi e degli altri e su un convinto spirito di
tolleranza.
Sono dunque queste conquiste straordinarie che un uomo può
raggiungere nella sua vita e sono quelle che lo pongono in una posizione
superiore e distaccata da cui egli può osservare con estrema obiettività tutte
le problematiche del mondo che lo circonda individuandone gli aspetti negativi
e le possibilità di soluzione.
Questa nostra caratteristica peculiare ci carica di una
responsabilità verso l’ Umanità perché quell’ altruismo al quale ci ha esortato
il Maestro Venerabile al momento della nostra Iniziazione deve spronarci a
mettere a disposizione, non solo degli altri Fratelli, ma dell ‘ intero mondo
profano, il patrimonio di conoscenze sublimi acquisito e di indicare con
l’autorevolezza della straordinaria forza morale conquistata, la via del
miglioramento e della salvezza degli uomini.
E questo compito deve essere sentito da ciascuno di noi in tutti
gli aggregati sociali di cui facciamo parte apportando in essi il nostro
equilibrio, la nostra preparazione, il nostro senso dello Stato. Ma in ogni
nostra azione dobbiamo evitare di coinvolgere la nostra Istituzione come tale.
La Massoneria infatti non deve essere mai coinvolta in questioni
di politica partitica o istituzionale, né in dispute religiose o teologiche
perché essa deve rappresentare il centro di aggregazione di tutti gli uomini
liberi e dediti al bene e al progresso dell’ Umanità.
In questo senso appare sempre valido il principio elaborato da
Anderson che vieta le discussioni di politica e di religione nelle Logge.
Tuttavia, poiché viviamo nel cosiddetto VILLAGGIO GLOBALE dove aspirazioni, bisogni,
regole di convivenza sono ormai comuni a una moltitudine di uomini, i Massoni
puri, che si riconoscono nella pratica e nella credenza degli stessi ideali,
hanno il dovere di scambiarsi notizie, opinioni, suggerimenti per aiutarsi a
vicenda nella ricerca delle soluzioni più idonee a beneficio di tutti.
Queste riflessioni, che già
esprimemmo al II Convegno nazionale dei Gran Maestri tenutosi a Lisbona nel
settembre 1996, sono oggi alla base del Simposio che il Grande Oriente d’Italia
ha organizzato a Roma per i giorni 14, 15 e 16 novembre 1977.
In preparazione del III Congresso che avrà luogo a New York nel
maggio 1998, abbiamo ritenuto molto importante che il Simposio di Roma dibatta
principalmente il tema della “Libertà e Massoneria nella società in
evoluzione” perché la libertà è connaturata al modo di essere del Massone
ed è il bene ineludibile sul quale si fonda da sempre ogni società.
Poiché però il mondo del Terzo Millennio sembra avviato verso
traguardi che non consentono l’ eguale realizzazione, con pari dignità, delle
legittime e pure aspirazioni degli individui e dei popoli verso un mondo
migliore e qualificato da vera fraternità, è indispensabile ed urgente che i
Massoni riflettano sulla necessità che il valore essenziale della libertà venga
difeso e fatto entrare nella coscienza di tutti a difesa del reale progresso
dell ‘umanità.
Siamo certi che ognuno dei partecipanti al
Simposio porterà il contributo della propria esperienza e dei propri saggi
suggerimenti affinché la Massoneria possa essere sempre più apprezzata come
apportatrice di pace, amore e unione nell’uguaglianza.
Arrivederci dunque a Roma a
novembre. Fraternamente e sinceramente,
Essere stato alla guida del Grande Oriente d’Italia di
Palazzo Giustiniani è stata per me un’esperienza alta, tensa e gratificante, che
serberò con grande orgoglio e gratitudine per sempre in un angolo importante
del mio cuore. Sono passati dieci anni da quel 6 aprile del 2014, quando alla
Gran Loggia di Rimini, indossai la collana di Gran Maestro e mi fu consegnato
il supremo maglietto, altro importante simbolo di una tradizione che si
perpetua nel nostro amato Ordine.
Stavolta è toccato a me insediare il
nuovo Gran Maestro, il carissimo fratello Antonio Seminario, cui spetterà l’onore e l’onere insieme agli altri membri
della nuova Giunta, di governare la Comunione e continuare e migliorare I’Opera,
Sono certo che sapranno farlo con la loro esperienza, con le loro energie e le
loro capacità; sapranno svolgere il loro ruolo con Saggezza, Bellezza e Forza.
Sono certo perché in questi anni sono stati accanto a me ed io accanto a loro.
Siamo stati una squadra: mano con mano,
piede con piede, ginocchio con ginocchio, petto con petto, spalla con spalla.
Abbiamo sorriso e abbiamo pianto, Sì perché il decennio e stato tumultuoso
romantico, complicato, entusiasmante. Fra i più difficili ricorderò sempre la perquisizione
della Guardia di Finanza al Vascello su mandato della Commissione parlamentare
Antimafia presieduta da Rosy Bindi per il sequestro degli elenchi degli
iscritti di Sicilia e Calabria. Ma anche il periodo della Pandemia che tutti
insieme abbiamo
“A tutti dico solo Grazie…”
superato alla grande sostenendo i fratelli più bisognosi con
l’iniziativa dei Mattoni della Fratellanza.
Fra le tante cose belle anche il ripristino del conoscimento al Grande Oriente
d’Italia da parte della Gran Loggia Unita d’Inghilterra ed anche l’aver
riaperto con buone chances di successo la vecchia e mai affrontata questione di
Palazzo Giustiniani col Senato della Repubblica.
Come non ricordare poi con fierezza il fatto che la Gran
Loggia e il Vascello sono stati straordinari luoghi d’incontro e di dialogo con
uomini e donne molto apprezzati nel Paese, Hanno conosciuto da vicino i massoni
e ci hanno onorato con parole di stima. Tante cose belle sono state fatte e
tante altre si potevano fare, magari anche meglio. Anche peggio. Noi abbiamo
operato sempre mettendoci tanto pegno, Abbiamo consentito al
Vascello degli uomini liberi, forti e coraggiosi di solcare acque tranquille
anche quando il mare era tempestoso.
Ora che la rotta del futuro è ben tracciata e il mio mandato
si è concluso spesso mi guardo indietro in un intreccio di emozioni che porterò
sempre vive in me.
Come mi torna
sempre in mente il primo giorno, quello della mia iniziazione. Sono passati 41
anni e mezzo dal 24 settembre dell’82 quando salii le scale di quel palazzo
austero ed elegante di via Montanini 1 01 per essere iniziato nella loggia
Montaperti numero 722 aL l’Oriente di Siena.
Come Rudyard Kipling, splendido esempio di fratellanza, di
cosmopolitismo, di tolleranza, di cui prendo a prestito quella magnifica poesia
dal titolo la loggia madre, rivedo anch’io con la memoria le facce di coloro
che mi accolsero. Cerano Marco il venerabile, Romano l’oratore, e tra le
colonne Guido e Roberto i giornalisti, Nilo il bancario, Carlo e Graziano i
dentisti, Franco e Cesare i medici condotti, Beppe il cardiochirurgo, Pierguido il filatelico, Mario l’informatore
farmaceutico, Luigi il geometra e Dino il pensionato del distretto militare,
È la mia loggia madre ed è la loggia alla quale tuttora appartengo
e nella quale tornerò a vorare con gioia ed impegno.
Con la Bellezza di chi ha svolto il suo compito con coscienza, responsabilità e
forza e con l’amore che mi lega a tutti i fratelli del Grande Oriente d’Italia,
vero bene supremo della più antica Obbedienza massonica del nostro Paese. A
tutti dico solo Grazie,
Stefano Bisi
Ex Gran Maestro del Grande Oriente
d’Italia Palazzo Giustiniani
Carissirni Fratelli
Essere stato alla guida del Grande Oriente d’Italia di
Palazzo Giustiniani è stata per me un’esperienza alta, tensa e gratificante, che
serberò con grande orgoglio e gratitudine per sempre in un angolo importante
del mio cuore. Sono passati dieci anni da quel 6 aprile del 2014, quando alla
Gran Loggia di Rimini, indossai la collana di Gran Maestro e mi fu consegnato
il supremo maglietto, altro importante simbolo di una tradizione che si
perpetua nel nostro amato Ordine.
Stavolta è toccato a me insediare il
nuovo Gran Maestro, il carissimo fratello Antonio Seminario, cui spetterà l’onore e l’onere insieme agli altri membri
della nuova Giunta, di governare la Comunione e continuare e migliorare I’Opera,
Sono certo che sapranno farlo con la loro esperienza, con le loro energie e le
loro capacità; sapranno svolgere il loro ruolo con Saggezza, Bellezza e Forza.
Sono certo perché in questi anni sono stati accanto a me ed io accanto a loro.
Siamo stati una squadra: mano con mano,
piede con piede, ginocchio con ginocchio, petto con petto, spalla con spalla.
Abbiamo sorriso e abbiamo pianto, Sì perché il decennio e stato tumultuoso
romantico, complicato, entusiasmante. Fra i più difficili ricorderò sempre la perquisizione
della Guardia di Finanza al Vascello su mandato della Commissione parlamentare
Antimafia presieduta da Rosy Bindi per il sequestro degli elenchi degli
iscritti di Sicilia e Calabria. Ma anche il periodo della Pandemia che tutti
insieme abbiamo
“A tutti dico solo Grazie…”
superato alla grande sostenendo i fratelli più bisognosi con
l’iniziativa dei Mattoni della Fratellanza.
Fra le tante cose belle anche il ripristino del conoscimento al Grande Oriente
d’Italia da parte della Gran Loggia Unita d’Inghilterra ed anche l’aver
riaperto con buone chances di successo la vecchia e mai affrontata questione di
Palazzo Giustiniani col Senato della Repubblica.
Come non ricordare poi con fierezza il fatto che la Gran
Loggia e il Vascello sono stati straordinari luoghi d’incontro e di dialogo con
uomini e donne molto apprezzati nel Paese, Hanno conosciuto da vicino i massoni
e ci hanno onorato con parole di stima. Tante cose belle sono state fatte e
tante altre si potevano fare, magari anche meglio. Anche peggio. Noi abbiamo
operato sempre mettendoci tanto pegno, Abbiamo consentito al
Vascello degli uomini liberi, forti e coraggiosi di solcare acque tranquille
anche quando il mare era tempestoso.
Ora che la rotta del futuro è ben tracciata e il mio mandato
si è concluso spesso mi guardo indietro in un intreccio di emozioni che porterò
sempre vive in me.
Come mi torna
sempre in mente il primo giorno, quello della mia iniziazione. Sono passati 41
anni e mezzo dal 24 settembre dell’82 quando salii le scale di quel palazzo
austero ed elegante di via Montanini 1 01 per essere iniziato nella loggia
Montaperti numero 722 aL l’Oriente di Siena.
Come Rudyard Kipling, splendido esempio di fratellanza, di
cosmopolitismo, di tolleranza, di cui prendo a prestito quella magnifica poesia
dal titolo la loggia madre, rivedo anch’io con la memoria le facce di coloro
che mi accolsero. Cerano Marco il venerabile, Romano l’oratore, e tra le
colonne Guido e Roberto i giornalisti, Nilo il bancario, Carlo e Graziano i
dentisti, Franco e Cesare i medici condotti, Beppe il cardiochirurgo, Pierguido il filatelico, Mario l’informatore
farmaceutico, Luigi il geometra e Dino il pensionato del distretto militare,
È la mia loggia madre ed è la loggia alla quale tuttora appartengo
e nella quale tornerò a vorare con gioia ed impegno.
Con la Bellezza di chi ha svolto il suo compito con coscienza, responsabilità e
forza e con l’amore che mi lega a tutti i fratelli del Grande Oriente d’Italia,
vero bene supremo della più antica Obbedienza massonica del nostro Paese. A
tutti dico solo Grazie,
Stefano Bisi
Ex Gran Maestro del Grande Oriente
d’Italia Palazzo Giustiniani
IL RUOLO
DELLA SCIENZA E DELLA CULTURA NEL MONDO DI DOMANI
di
Baldo Conti
Introduzione
Il presente contributo, sul futuro ruolo della
scienza e della cultura, non sarà certo dei più facili, almeno se si vuole
“rimanere” con i piedi in terra, senza sconfinare nella retorica e
nel “già detto”, ma cercherà comunque – nei limiti del possibile – di
essere un concreto ed originale aiuto per la soluzione dei nostri travagli
esistenziali, non certo “gratuiti” e fittizi, come un esclusivo fatto
culturale, ma effettivi. Contemporaneamente il nostro impegno sarà anche quello
di non far stancare e distrarre i lettori più del necessario, considerata anche
la presunta astrusità dell’argomento non da tutti facilmente
“digeribile”
Come sempre, in qualsiasi contesto ci troviamo,
occorre definire fin dall’inizio e mettersi d’accordo sul significato che si
intende dare alle nostre parole. In questo caso è d’ obbligo chiarire cosa si
intende per “scienza” e cosa per “cultura”. Spesso
riteniamo di conoscere sufficientemente bene il significato delle parole che
usiamo, ma in frequenti occasioni siamo costretti a registrare la nostra
“ignoranza”, in altri contesti riteniamo che il significato che noi
diamo ad un termine sia lo stesso dei nostri interlocutori, ma non sempre è
così e molte delle incomprensioni e delle discussioni derivano anche da una
differente interpretazione dei significati di parole e concetti. Per
“scienza” (dal latino “sapere”) dobbiamo intendere il
risultato di operazioni del pensiero come oggetto di codificazione su piani
teorici ed applicativi in ambito pratico; conoscenza esatta e ragionata
acquisita grazie allo studio ed all’esperienza; insieme di discipline
essenzialmente fondate su calcoli ed osservazioni; complesso organico e
sistematico di conoscenze di cui si dispone intorno ad un determinato ordine di
fenomeni. In sintesi, possiamo definire la scienza quell’insieme di cognizioni
che abbiamo la possibilità di acquisire in base allo studio, all ‘osservazione
ed all’esperienza diretta e risultanti da precisi calcoli e deduzioni su
fenomeni di varia natura posti anche su molteplici livelli.
Per “cultura” (sempre dal latino,
“culto”, “cultura”) dobbiamo intendere invece il complesso
armonico delle cognizioni di una persona, formato dalla propria sensibilità,
dalla propria esperienza, da tradizioni, procedimenti tecnici e tipi di
comportamento; tutto ciò che concorre alla formazione individuale sul piano
intellettuale e morale ed all’acquisizione della consapevolezza del ruolo
assunto nella società; “patrimonio” di conoscenze. In sintesi, la
cultura è il nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandatoci, è il substrato
indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è l’origine ed il
punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro
patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche l’unica nostra
“vera” proprietà che nessuno ci potrà mai usurpare, e tutto questo
sia a livello
personale sia come popolo sia come etnia.
Stabilito il significato da dare a
“scienza” e “cultura” – e su questo almeno, c’è da
ritenere, dovremmo concordare tutti, perché le definizioni sono un fatto di
lingua e non sono un’opinione ed in ogni caso è questo il significato
attribuito in questo nostro contesto a questi due termini – addentriamoci un
po’ più profondamente nell’esame del problema posto, non perdendo mai di vista
il fatto che siamo massoni, ma anche “italiani”, con tutti i nostri
pregi ed i nostri, e non sono pochi, difetti. Di conseguenza nel corso del
nostro esame dovremmo dimostrare, più che altro a noi stessi, anche di essere
uomini liberi e di buoni costumi, aperti alle novità e proiettati nel futuro,
non troppo ancorati e schiavi del passato e delle tradizioni che spesso sono un
substrato insostituibile ma anche un peso dal quale è difficile liberarsi, non
afflitti da pregiudizi e da preconcetti, lontani da integralismi e da dottrine
dogmatiche di qualsiasi tipo, ma sempre animati invece da quell’indistruttibile
senso di civiltà e di miglioramento individuale e collettivo che dovrebbe
distinguerci, disposti sempre fraternamente verso il prossimo che,
ricordiamolo, non è composto solo dall’uomo ma da tutto ciò che ci circonda e
che comprende animali, piante e tutta la natura, “inanimata”
compresa.
Come in ogni ricerca seria che si rispetti,
prenderemo prima in considerazione il ruolo della scienza e poi quello della
cultura, secondo l’ordine della loro apparsa nel titolo, accennando per forza
anche un po’ al nostro passato ed al nostro presente, e successivamente trarremo
le nostre conclusioni se riusciremo ad individuarne qualcuna, con l’augurio di
poter stilare una bozza di comportamento da utilizzare in un eventuale futuro
anche se, di questo prossimo terzo millennio, i più fortunati di noi
riusciranno ad intravederne solo l’inizio. Ma come già affermato in altre
occasioni ciò che conta è stabilire la nostra “buona rotta” e
proseguire nella direzione che riteniamo giusta senza preoccuparci troppo di
quanta strada riusciremo a poter percorrere.
La
scienza
Abbiamo accennato in precedenza che possiamo
definire la scienza come quell’insieme di cognizioni che abbiamo la possibilità
di acquisire in base allo studio, all’osservazione e all’esperienza diretta e
risultanti da precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura posti
anche su molteplici livelli. E vediamo il perché. Fin dagli albori della storia
umana che conosciamo, ma sicuramente anche molto prima dell’epoca
“storica”, I ‘uomo si è sempre confrontato con la ricerca e la
scienza e si presume, spesso, anche senza rendersene conto. La
“scoperta” della ruota e del fuoco, la fusione dei metalli,
l’utilizzazione della forza di gravità, la selezione delle razze animali per
allevamento – ma potremmo fare un elenco molto lungo – sono stati un approccio
empirico al mondo scientifico del quale l’uomo primitivo ne ignorava
presumibilmente anche I ‘esistenza come già detto.
Le varie “discipline” furono ancora
indagate ed approfondite, ma potremo dire sempre in maniera per noi oggi
“superficiale” ed approssimativa e non certo sistematica, fino ad
arrivare a Galileo Galilei (1564-1642) che – con i suoi studi di geometria,
astronomia e fisica – può senz’altro essere considerato il primo ed effettivo
scienziato “moderno”. Con lui ebbe inizio infatti l’attuale metodo
sperimentale che ancor oggi è di base a qualsiasi tipo di ricerca scientifica e
che sicuramente lo rimarrà per molto, molto tempo ancora. Partendo da Galileo e
dalla sua teoria del “sistema eliocentrico” si è avuta una vera e
propria esplosione nella ricerca e nella sperimentazione in tutti i campi e,
con l’aiuto della tecnica a disposizione, sono state raggiunte mete
impensabili, specialmente in questi ultimi anni, nella chimica, nella medicina,
nella fisica, nelle conquiste spaziali e nelle discipline scientifiche in
generale.
La visione galileiana della natura ci ha aperto le
porte verso un mondo nuovo, immenso nei confini e nelle esperienze, senza
limiti nel tempo e nello spazio e quindi senza limite in tutte le direzioni.
L’uomo in breve tempo si è riscattato dalla fatica, in parte dalla
“paura” ed ha raggiunto una posizione di supremazia nei confronti di
tutto il resto del creato. Anche se il sogno di poter “dominare” la
natura rimane fortunatamente ancora un sogno, l’uomo si trova comunque davanti
un futuro fitto di incognite, di interrogativi e di nuovi tipi di paure. Il
timore di non poter disporre pienamente dei “giocattoli” che si è
costruito, che qualcosa possa sfuggirgli di mano, che non riesca a conoscere
fino in fondo ciò a cosa potrà andare incontro con le sue “scoperte”,
lo rendono parzialmente dubbioso, interdetto ed impaurito.
Per questa ragione ampi dibattiti si sono aperti
sull’opportunità di proseguire alcuni tipi di ricerca ed in questa
controversia, a torto o a ragione, si sono inserite forze politiche,
industriali e religiose. Ma forse qui, qualcosa non è stata veramente afferrata
nel senso giusto: il principio di scienza e ricerca cosiddetta “pura”
in contrapposizione all ‘utilizzazione pratica dei loro risultati. Vediamo
perché. Innanzi tutto c’è una distinzione doverosa da fare ed è quella di
dividere la ricerca “pura” appunto da quella “applicata”.
Per pura si intende la ricerca “fine a se stessa”, per esempio: il
matematico che risolve un problema astratto di formule e che si era posto il problema
“gratuitamente” senza alcuna “necessità” (anche se in
seguito la soluzione potrà avere un ‘applicazione pratica), lo studio di
Galileo sulle oscillazioni di un pendolo, perché incrociando una gallina bianca
ed un gallo nero abbiamo dei pulcini bianchi, altri neri, ed altri ancora
bianchi e neri (o grigi) in numero costante e sufficientemente prevedibile. Per
applicata si intende invece quella ricerca che viene appositamente finanziata
con uno scopo preciso ed al fine di ottenere dei risultati che diano un
utilizzo immediato e remunerativo come la produzione di un antiparassitario
utile ad un certo tipo di pianta, la possibilità di mettere in commercio un
antibiotico specifico per un certo tipo di malattia, la costruzione di un razzo
e di un satellite per I ‘utilizzazione nelle telecomunicazioni. Ed in genere,
come già accennato, questo tipo di ricerca è sempre sostenuto finanziariamente
perché dia risultati immediati, attesi ed utili, altrimenti l’appoggio ed il
finanziamento decadono.
Quasi sempre – specialmente per coloro che non sono
“addetti ai lavori” – c’è una grande confusione di idee in proposito.
In genere non si riesce mai a distinguere le differenze esistenti tra i due
“sistemi” che pure appaiono macroscopiche, ma si ritiene invece,
erroneamente, che siano la stessa cosa, che la scienza e la ricerca scientifica
siano di un unico tipo. Ma non è così.
La ricerca pura
dovrebbe essere “intoccabile” in quanto porta sicuramente avanti
l’umanità nel suo processo evolutivo, tende esclusivamente ad appurare le
ragioni di alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili, soddisfa fino “a prova
contraria” con il supporto di teorie ed ipotesi e, diciamolo pure, anche
con la filosofia, tutte le curiosità ed i problemi che l’uomo si pone sia in
ambito materiale sia spirituale.
La scienza o ricerca applicata è ben altra cosa. E’ l’utilizzazione
parziale di alcuni risultati della ricerca pura, è finanziata e finalizzata
esclusivamente per scopi precisi quasi sempre commerciali, spesso intacca certi
tipi di “morale” in quanto produce qualcosa che “disturba”
(specialmente da un punto di vista economico) alcune classi o “caste”
di cittadini, cerca esclusivamente un utile non essendo altro che un tipo di
“investimento” a carattere finanziario.
E’ evidente che, esclusi per ragioni ovvie, coloro
che sono interessati direttamente in imprese di ricerca finalizzata in senso
applicativo, l’unica “scienza” che noi, come massoni, dobbiamo
prendere in seria considerazione è solo quella pura che è a noi amne e risponde
più ai nostri ideali ed alla nostra ricerca interiore. L’altra, l’applicativa,
potrà coinvolgerci solo marginalmente ed in ambito profano (è più un qualcosa
che riguarda professionalmente i tecnici, i medici, l’industria) e solo nel
caso in cui provochi effettivamente dei traumi sociali e non ci costringa a
fare un calcolo di spese e ricavi.
Ma ricordiamola sempre questa distinzione. La
scienza “pura” – come dice appunto il termine – è pura, è composta di
idee, di “buone” intenzioni, di progresso conoscitivo, di filosofia,
di intuito, è un processo creativo e di conseguenza anche artistico, quindi non
“criticabile” come principio e come “servizio” che rende a
tutta l’umanità.
La cultura
Come indicato nell ‘Introduzione la cultura è il
nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandato che sia, è il substrato
indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è I ‘origine ed il
punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro
patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche I ‘unica
proprietà – come già detto – che nessuno ci potrà mai portare via, e tutto
questo sia a livello personale sia come popolo e come etnia. Ed anche qui
vediamo perché. Innanzi tutto dobbiamo accennare al fatto che secondo alcuni
studiosi è possibile distinguere la “cultura” umana (e quindi
animale) sotto molteplici modalità, ma almeno tre sono gli aspetti principali:
(l) cultura di origine “genetica”, cioè ereditata insieme al nostro
corredo cromosomico ed a tante altre cose utili, dove non è concesso ad alcuno
di poter intervenire (salvo forse oggi a seguito di operazioni di ingegneria
genetica o di mutazioni imprevedibili); (2) cultura tramandataci dal nostro
“gruppo” e dalla nostra famiglia; e (3) cultura appresa per esperienza
diretta.
La cultura trasmessaci geneticamente potremmo
considerarla anche come qualcosa a livello di istinto ed è tutto ciò che noi
utilizziamo appena nati e – come già accennato è comune anche a tutti gli
animali. Rientrano in questo ambito, per esempio, la ricerca da parte del
piccolo del seno materno, il pianto – sempre del piccolo – come
“avviso” di qualcosa che non funziona, il carattere che ci
ritroviamo, la predisposizione al sorriso o al broncio, e così via, che sono
tutti atteggiamenti e comportamenti selezionati nel
tempo, nei millenni, e
“scelti” dalla natura per essere tramandati nel tempo proprio perché
vantaggiosi alla nostra specie (come si usa dire in ambito etologico).
La cultura tramandaci dal “gruppo” e dalla
famiglia in genere, è senza dubbio più efficace secondo alcuni, meno secondo
altri (la discussione su questa controversia è senza fine ed è già stata
affrontata in Tavole ed articoli) ed è da considerare sicuramente come
“cultura di seconda mano”. La ragione è semplice. Come è stato
appurato in ambito scientifico il corredo cromosomico di un individuo è un
qualcosa di unico ed irripetibile e personale come lo sono, per esempio, le
impronte digitali. Ed è inoltre da considerare proprio di seconda mano perché
ci è stata “tramandata”, in un certo senso ci è stata proprio
“imposta” dagli altri: dalla nostra etnia (intesa come razza, area
geografica), dal nostro “gruppo” (nazione, discendenza regionale),
dalla nostra famiglia (amici e conoscenti stretti compresi), sotto forma. di
usi, costumi, abitudini, tabù, sensi di peccato e di paura, e così via.
La cultura appresa per esperienza diretta che è quella
che dovrebbe essere effettivamente poi la nostra, quella personale, quella che
in qualche maniera noi abbiamo scelto ed adottato perché rispondente alle
nostre personali necessità. E’ la cultura che abbiamo selezionato nel corso
della nostra vita e che ci è costata molta fatica, con grandi o piccole
vittorie e grandi o piccole delusioni. E sono proprio le esperienze le più
tragiche, le più dolorose e catastrofiche che risulteranno sempre le più utili,
indelebili e rimarranno impresse molto bene nel nostro patrimonio culturale,
nella nostra memoria, e saranno quindi sempre presenti nell’approccio ad altre
esperienze successive.
Tutti e tre questi tipi di cultura formeranno, è
ovvio, il nostro cosiddetto “bagaglio” culturale
parte ereditato ed in parte costruito – che ci portiamo dietro
da sempre, modificabile e modificato tutti giorni, anche se forse non siamo in
grado di rendercene conto in modo così evidente. Solo in rare occasi01 ed a
certi tipi di “scadenze” (in caso di malattie, di traumi improvvisi,
di “sconvolgimenti” di varia origine noi realizziamo che la nostra
cultura e noi stessi ci siamo modificati (evoluti) rispetto al passato.
Infine, per la cultura, anche se più difficile forse
da individuare, possiamo distinguere – come per I scienza – due tipi di
sistemi: quello della cultura “pura” e quello applicativo. Più
difficile l’individuazione del suo duplice aspetto proprio perché più labile ed
indeciso il confine di separazione anche se, I commercializzazione della
cultura assurta a fini industriali dovrebbe essere qualcosa di più evidente
tangibile e quindi più facilmente individuabile.
Abbiamo già in precedenza acquisito il principio di
cultura nel suo senso “puro” e possiamo dire che la sua parte
applicativa è già stata sufficientemente sviscerata quando abbiamo affrontato
in passato il problema della “informazione”. L’informazione infatti
possiamo identificarla con la cultura “applicata” il quanto non
risulta essere altro che cultura “manipolata” a fini socio-politici e
quindi commerciali e industriali, ed inversamente, la cultura applicata non è
altro che informazione mirata a scopi “profani” ber precisi. E non è
quindi il caso di soffermarcisi oltre, anche perché è augurabile che a suo
tempo sia stato ben compreso il suo meccanismo.
L’editoria, i film, la TV e tutti le fonti informative
sono il supporto necessario a questa cultura. informazione applicativa che non
è detto debba per forza essere un qualcosa di negativo, di anti- cultura, di
dannoso: sarebbe un pregiudizio pericoloso. Possiamo però fare un identico
parallelo come abbiamo già fatto per la scienza.
Conclusione
Dopo tutto quanto esposto, cerchiamo di trarre delle conclusioni
adeguate ed utili sia come massoni all’interno dei nostri Templi, sia come
uomini comuni proiettati nella nostra società civile e nel futuro e se non
altro per l’impegno costante nello studio, nella ricerca interiore e
nell’introspezione; ancor più poi, certamente, da quella di cittadino qualsiasi
nella nostra società più o meno laica e civile. Innanzi tutto, non sembra
proprio che il concetto di scienza e di cultura dovrebbe cambiare nel mondo di
domani e forse anche nei millenni successivi. Certo, potranno cambiare i
dettagli e le tecniche di acquisizione della cultura e del sapere scientifico,
ma i principi essenziali e I ‘esigenza di queste due “discipline”
saranno necessariamente immutate. Non vedo come potremmo pensare una cultura ed
una scienza differenti da come noi la intendiamo oggi, diversamente la cultura
non sarebbe più cultura e la scienza non più scienza, ma sarebbero due cose con
significati differenti dagli attuali e quindi presumibilmente anche con
definizioni e lemmi differenti.
Quindi, è presumibile, che la funzione della scienza e
della cultura continuerà ad essere identica a quella avuta nei millenni
precedenti, precedenti anche alla nascita di Cristo, sicuramente. Queste due
“intuizioni” umane, c’è da ritenere, rimarranno in vita fino a quando
l’uomo rimarrà quello che è, e visto che i suoi cambiamenti
“strutturali” e “psicologici” si verificano molto
lentamente e nel corso di migliaia se non milioni di anni, la vita dell’uomo
dovrebbe proseguire anche nel prossimo millennio “tranquillamente
frenetica” ed “angosciata” come si è sviluppata fino ad oggi.
Come abbiamo avuto la possibilità di intuire da quanto
affermato in precedenza, due sono i concetti che dobbiamo tenere ben distinti e
nettamente separati e non quelli di scienza e di cultura, ma di scienza-cultura
“pura” e scienza-cultura “applicata”. I due significati
“puri” possono senz’altro essere condivisibili sia dalla nostra
Istituzione sia dai Fratelli massoni perché ci portano a considerare ed
assumere la storia dell ‘uomo fino ad oggi e sono le premesse per un domani che
tutti noi ci auguriamo certamente migliore.
Meno condivisibili e sicuramente meno interessanti da
tutti i punti di vista – in antitesi – la scienza-cultura
“applicata”, almeno come base di esame e di studio da sviluppare all
‘interno dei nostri Templi. Le vicende umane di vita giornaliera in ambito
“profano”, sono molteplici, complesse ed imprevedibili, spesso anche
spiritualmente poco interessanti; condotte, finanziate, vendute ed utilizzate nelle
maniere più disparate nelle varie società del sistema umano e come già
osservato in precedenza, da prendere in veloce considerazione solo in caso di
gravi “attacchi” alla integrità della natura e dell’esistenza della
vita stessa, oppure solo nel caso nel quale il nostro interesse in ambito
profano, ma solo profano, fosse indirizzato verso il sistema applicativo. Ed in
questi casi le soluzioni dovrebbero essere tutte ovvie e facili da prendere.
L’umanità affronterà questo nostro nuovo terzo
millennio e c’è da credere in maniera non molto differente dai precedenti. Da
un punto di vista “economico”, avrà debellato tante malattie ma altre
sono già pronte in agguato per sostituirle ed entrare in azione, avrà allungato
sì la vita dell ‘ individuo ma a “spese” – come sembra – dei più
giovani, si sarà liberato quasi completamente dalla fatica ma dovrà sudare
ugualmente nelle palestre, avrà una vita più comoda ma sarà prevedibilmente
“disturbata” dalla noia e forse come ci dicono alcune discutibili ma
pur preoccupanti statistiche – dall’aumento dei suicidi, si sarà inoltrato
ancor più nello spazio su satelliti e pianeti ma forse senza aver compreso
ancora la sua posizione effettiva nell’universo e senza aver trovato risposta
ai tanti “perché”.
Infine, dal punto di vista definibile “puro” l’uomo, con
l’aiuto della scienza, della cultura e di tutte le altre discipline che si è
“inventato” – grazie a quelle sue grandi ed uniche doti nel mondo
“animale”, che sono la fantasia e la capacità di astrazione – ci
auguriamo che possa raggiungere quella “felicità” alla quale ha
sempre aspirato e che non è altro poi che il raggiungimento del suo equilibrio
interiore, nonostante gli “applicativi” sostengano esattamente il
contrario. Il raggiungimento di questo equilibrio è sicuramente un processo che
possiamo ritenere individuale, probabilmente già raggiunto da tanti grandi
uomini in passato, e comunque raggiungibile solo con la effettiva
consapevolezza della propria entità e posizione nel mondo e nell’universo che
ci circonda. •
Francesco Maria Arouet detto
Voltaire apre il suo “Dizionario filosofico”, documento di importanza
fondamentale per la storia politica e morale universale, con “Abramo”
(Abraham) e certamente non perché la lettera “A” è la prima
dell’alfabeto ma per le ragioni che si affretta ad esporre immediatamente dopo.
Testualmente: “Abramo è uno dei personaggi più celebri in Asia minore e in
Arabia, come Thotfra gli egiziani, Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo
in Tracia, Odino presso i popoli del settentrione e tanti altri assai noti per
le loro vicende storiche. Parlo, s ‘intende, della storia profana
Proprio il lato storico profano è
opportuno esaminare e analizzare, distinguendolo dal contesto religioso e
dogmatico e separandolo dalla leggenda, ampiamente divulgata ed enfatizzata,
che tutta la vita e le opere di Abramo siano state stabilite e dirette da una
volontà trascendente. Sfugge la ragione che per realizzare i disegni dell
‘Onnipotente sia stato prescelto un “arameo errante”, obbediente sino
a rendersi esecutore di azioni crudeli e irrazionali, privo di una personale
capacità di giudizio e che assurge a capostipite di due popoli che si vantano
di discendere dai suoi “virili lombi’
A giudicare le cose solo in base agli esempi della nostra
storia moderna, risulterebbe molto difficile stabilire che Abramo sia stato il
progenitore di due nazioni così differenti. L’unica caratteristica che accomuna
gli ebrei e gli arabi, i primi discendenti da Giacobbe, nipote di Abramo, e i
secondi da Ismaele, figlio di Abramo, è che entrambe le razze sono state razze
di predoni. Ma i predoni arabi sono stati molto superiori ai predoni ebrei.
Infatti, mentre i discendenti di Israele non hanno conquistato che un piccolo
paese, che poi hanno perduto e non ancora oggi stabilmente riconquistato, i
discendenti di Ismaele, cacciando gli ebrei dalle loro spelonche che essi
chiamavano la “Terra promessa”, hanno ancora oggi saldamente
possesso, in gran parte dell’Asia dell’Europa e dell’Africa, di un impero più
vasto di quello che fu quello romano.
La storia
Un tempo era
opinione generale che Abramo discendesse direttamente da un popolo nomade, un
popolo che viveva di pastorizia, lontano dalle grandi città e dalle regioni
densamente popolate. Tuttavia se egli nacque, come indica la Bibbia ad Ur dei Caldei,
allora crebbe in una delle più grandi, progredite e importanti città del mondo
antico. Ur era infatti un fiorente centro commerciale e politico molto prima
che Abramo nascesse, e tale restò a lungo anche dopo la sua morte. Gli studiosi
hanno creduto per molto tempo che Ur si trovasse, in quel periodo, assai più
vicina alle rive del Golfo Persico, ma ricerche recenti hanno dimostrato che la
linea costiera era quasi identica a quella di oggi. La città si trovava sulla
riva dell’Eufrate, in cima ad una altura artificiale e, racchiusa da mura
enormi, pullulava di oltre duecentocinquantamila abitanti. Essa giaceva su
un’isola delimitata dal fiume e da un canale che, grazie a una rete di altri
canaletti, forniva acqua a una vastissima pianura irrigata. Questa pianura
comprendeva campi coltivati a cereali, orti e palme da dattero, giacché le
bocche da sfamare, nella città sovraffollata che si trovava al centro, erano
molte. Per tutta quella zona agricola erano disseminate fattorie, borghi e
villaggi.
Entro le sue robuste mura, Ur era un enorme e
intricatissimo labirinto di stradine anguste, la maggior parte delle quali non
superavano i due metri e mezzo di larghezza. Lungo tali vicoli si allineavano,
sui due lati, senza interruzione, file di case quasi tutte prive di finestre.
Si trattava quasi sempre di costruzioni cubiche, a due piani, col tetto piatto,
erette attorno ad un cortile centrale, su cui le stanze si aprivano per
ricevere aria e luce.
Al piano terreno erano disposti i locali destinati ad
uso pubblico, e talvolta adoperati per tesservi, per lavorarvi metalli o
compiervi altri mestieri. Le camere da letto si trovavano al primo piano e la
vita familiare si svolgeva in gran parte sul tetto, riparato da tende.
Così suonano ai nostri orecchi, da oltre tremila anni,
le parole della Bibbia: “Tareh adunque prese Abramo suo figlio, e Lot
figlio del figlio suo Aran, e Sarai sua nuora moglie del figlio suo Abramo, e
li condusse fuori da Urdella Caldea “. (Genesi, I l, 31).
Tareh, padre di Abramo, apparteneva presumibilmente
alla classe media, cioè a quella dei mercanti, e la sua doveva essere una bella
casa, se si pensa che contava dalle dieci alle venti spaziose stanze.
Probabilmente suo figlio frequentò una scuola pubblica, dove imparò a leggere,
scrivere e fare di conto e non è da escludere che imparasse anche un mestiere.
Abramo raggiunse la maggiore età in uno dei centri più civili e progrediti del
tempo. Perché mai allora suo padre raccolse le proprie cose e, con un viaggio
di quasi mille chilometri, si trasferì a Haran, nell ‘estremo nord della valle
dell’Eufrate? Il quesito non ha risposta sicura, ma l’archeologo Leonard
Woolley, che rinvenne molte cose interessanti nei resti della città di Ur,
ritiene di averne scoperta una valida nelle cappelle di famiglia, incorporate
in tutte abitazioni salvo le più povere, in cui si venerava un “dio della
famiglia” Tale culto era nuovo al tempo di Abramo, e il fatto che per gli
abitanti di Ur questo dio familiare divenisse più importante del dio Luna — il
cui culto si accentrava nello ziqqurat, l’immenso tempio turrito dominante la
città potrebbe avere indotto Tareh e la sua famiglia
a trasferirsi a Harran, altro centro del dio Luna. Naturalmente, però, non è da
escludere che questa migrazione fosse causata da semplici ragioni di interesse,
o magari che fosse decisa in seguito alla morte di uno dei due figli. In ogni
modo resta il fatto che la migrazione avvenne qualunque ne sia stato il motivo.
Ma quando ebbe luogo questo
drammatico episodio? L’epoca patriarcale della Bibbia corrisponde alla media
Età del Bronzo, cioè agli anni 2000-1500 a.C. ma sinora non si è stabilito con
esattezza quando visse Abramo. I moderni studiosi della Bibbia fanno risalire
la migrazione da Ur ad Harran al ventesimo o al diciannovesimo secolo a.C. e
pertanto la data tradizionale — 1926 a.C.
che si
riscontra in alcune edizioni critiche della Bibbia, potrebbe essere vicina alla
verità.
Nella regione nord-occidentale
della Mesopotamia si trova una zona ricca di praterie, chiamata Paddan Aram o
Pianura di Aram. Nella sua zona centrale giaceva Harran, importante punto
d’incontro di piste carovaniere. Sebbene tale città fosse ben lontana da Ur per
distanza, grandezza e importanza, tuttavia non era, come si è reputato per lungo
tempo, un semplice villaggio per le carovane, lontanissimo dai confini con la
civiltà. In realtà, al tempo in cui i patriarchi vi fissarono la loro dimora,
Harran doveva essere una città fiorente, e il fatto che il suo nome si trovi
citato spesso nelle tavolette cuneiformi del diciannovesimo secolo a.C.
avvalora l’ipotesi che si trattasse di un importante nodo commerciale
Harran giaceva sulle rive del Balikh, un centinaio di
chilometri a nord della confluenza di tale fiume con l’Eufrate. A un centinaio
di chilometri a est di Harran si trovava la famosa Guzan oggi Tell Halaf — ove sono
state portate alla luce alcune tra le prime testimonianze del superamento della
vita primitiva da parte dell ‘uomo e del suo passaggio dall’età della pietra a
quella dei metalli. Pure qui venne rinvenuta la prima traccia di un veicolo
munito di ruote.
A circa trecentosettanta
chilometri da Harran, scendendo giù per il Balikh e l’Eufrate, sorgeva la città
di Mari, a lungo dimenticata e gradualmente scoperta a partire dal 1933. Mari
fu la sede del castello forse più grande dell’antichità, un edificio con più di
duecento stanze, ma d’importanza ben maggiore sono le ventimila tavolette
rinvenute negli archivi del palazzo. Occorreranno molti anni per tradurle
tutte, tuttavia, quelle decifrate finora, hanno contribuito concretamente a far
luce su tutto quel territorio governato, al tempo di Abramo dai pacifici re di
Mari.
Da Palmira Abramo si sarebbe diretto, percorrendo altri
duecentoquaranta chilometri, verso la bella Damasco la quale, se era primavera
quando vi giunse, dovette apparirgli piena di colori con le sue coltivazioni di
albicocchi e di mandorli in fiore. La città è probabilmente la più antica del
mondo che sia stata abitata fino ad oggi senza interruzione. Poche città si
trovano in una regione così bella, col Monte Hermon a ovest e il deserto che si
distende nelle altre direzioni. Damasco è circondata da una verzura e da alberi
che si levano dal terreno irrigato, reso ricco e lussureggiante dalle acque del
fiume Abana, l’attuale Barada. Per quanto tempo Abramo restò in questa città,
considerata dagli arabi un Paradiso in terra? Certo almeno il tempo necessario per
acquistarvi un fedele domestico, Eliezer, divenuto poi suo prezioso
collaboratore e presunto erede (Genesi, 15, 2).
A sud di Damasco Abramo poteva scegliere tre strade. La prima
costeggiava i piedi del Monte Hermon, attraversava il Giordano vicino alla sorgente
e scendeva poi lungo la riva occidentale del fiume fino al punto in cui esso si
gettava nel Mar di Galilea, allora chiamato Lago di Gennesaret. La strada più
breve, e probabilmente la più battuta, portava direttamente a sud-ovest, per
attraversare il Giordano una diecina di chilometri dalla sua foce, e lì
congiungersi con la prima. La terza cominciava lungo la via più antica — più
tardi conosciuta come Via Reale — piegava quindi verso la costa meridionale
della Galilea e attraversava il Giordano nel punto in cui esso lasciava il
lago. Dopo aver costeggiato per un breve tratto la sponda occidentale, la
strada voltava bruscamente nella gola della Piana di Jezrael verso la
fortificata città di Betshan.
Non si sa con certezza quale di questi tre
itinerari Abramo scelse, giacché quattromila anni or sono erano tutti molto
battuti. Sappiamo comunque che il primo accampamento di cui si abbia traccia,
egli lo stabilì nell’ampia vallata antistante l’antica Shekem, città posta
sulle alture quaranta chilometri a sud di Betshan e difesa dalle montagne
gemelle di Ebal e Garizim, alte circa mille metri. La famiglia di Abramo,
composta dalla moglie, la sterile Sarai, in seguito chiamata Sara, dal padre
Tareh e dai servitori o schiavi, doveva costituire, anche per quei tempi, un
gruppo più che numeroso. Probabilmente si trattava di parecchie centinaia di
persone, con folti greggi e mandrie. Tuttavia la famiglia e il bestiame di
Abramo non costituivano tutta la schiera di uomini e animali che scese senza
fretta attraverso le regioni settentrionali di Canaan, cercando pascoli sulle
alture centrali. Con Abramo era il nipote Lot, il quale possedeva una famiglia,
delle mandrie, dei greggi e dei pastori suoi, probabilmente ereditati dal padre.
E l’insieme di questi due gruppi dovette apparire una tremenda minaccia agli
abitanti di Canaan, il cui territorio era soggetto a frequenti incursioni da
parte di nomadi che, infiltrandosi dal deserto, predavano e saccheggiavano, per
poi scomparire di nuovo nelle terre aride. Perciò Abramo e Lot, probabilmente,
furono guardati con vero timore mentre alzavano le loro tende nere di pelo di
cammello nell ‘ampia vallata antistante Shekem.
Ma anche le popolazioni dei dintorni di Betel,
una trentina di chilometri a sud lungo la pista, dovettero provare le stesse
apprensioni quando, riprendendo il cammino, quell’orda discese nella zona,
benché lungo le carovaniere si fosse certamente parlato dei modi pacifici di
Abramo. La città di Betel era sì circondata da mura, ma non era una fortezza. E
vi è ragione di credere che la vicina località chiamata Ai fosse stata ridotta
da
poco tempo a un mucchio di rovine in seguito ad un attacco di nomadi.
Imperversava anche la siccità, l’acqua scarseggiava e i pascoli erano già
completamente sfruttati. Perciò gli abitanti di Betel dovettero provare
certamente un senso di sollievo quando i loro ospiti non invitati
s’incamminarono di nuovo verso sud.
A causa della siccità i pascoli di Canaan non
potevano dare sostentamento al bestiame di Abramo e di Lot. Così come molti
altri nomadi di quel tempo, Abramo e il nipote dovettero cercare rifugio nella
terra irrigata dal Nilo. Quale fu il loro nuovo itinerario? Molto probabilmente
essi proseguirono lungo la pista solcante la regione montuosa che più tardi
doveva chiamarsi Giudea. Se così fecero dovettero attraversare la piccola ma
forte Jebus, la città cinta di mura destinata a diventare sempre più vasta e
importante e ad assumere, infine, il nome di Gerusalemme. Sempre avanzando
verso sud, oltre villaggi e accampamenti, la carovana di Abramo presumibilmente
scese dalle montagne fino all’incrocio di piste situato accanto ai pozzi di
Bersabea. Lì ebbe inizio una marcia forzata di trecento chilometri attraverso
il deserto di Sur. Fu, con tutta probabilità, un cammino lento e difficile, con
le bestie affamate che si contendevano il magro foraggio, e c’è dunque da
credere che Abramo e Lot fossero animati da sentimenti assai contrastanti
quando giunsero ad una delle solide fortezze che costituivano le Mura
dei Principi, messe a baluardo dei confini dell’Egitto. Oltre le mura
esistevano buoni pascoli, ma gli emigranti avrebbero ottenuto il permesso di
varcarle? Le varcarono. E pare che Abramo fosse un personaggio abbastanza
importante se indusse il Faraone a stringere con lui una alleanza che fil però
anche causa di uno sgradevole incidente. Avendo dichiarato Abramo che Sara,
donna molto bella, era la sua sorella e non sua moglie, il Faraone la prese con
sé nel palazzo come concubina. Ma quella notte stessa il Faraone fu avvertito
dell ‘inganno e bandì Abramo con tutta la sua gente dall’Egitto. In Egitto era
sorta da molti secoli ed era venuta sviluppandosi una grande civiltà.
Nell’arrivare e nel ripartire dal palazzo del Faraone a Menfi, nte le piramidi,
le città e altri aspetti interessanti di quel paese che rivaleggiava con la
terra lontana ove era nato. Abramo e il nipote Lot iniziarono il viaggio di
ritorno verso nord e ritornarono sulle alture riarse di Canaan. Ancora una volta,
però, si trovarono di fronte alla scarsezza dei pascoli e decisero di
dividersi. Lot fatta la sua scelta si decise in favore della terra caldissima e
lussureggiante, ma abitata estremamente malvagia, che si stendeva nella
valle del Giordano inferiore attorno alle città di Sodoma e Gomorra. Lì egli e
la sua famiglia conobbero ben presto l’ avversità in quanto furono fatti
prigionieri da quattro re scesi dalla Mesopotamia
per riscuotere i tributi di altri cinque re che governavano la regione. Forse è
appunto il ricordo di questi nove re che la Via Reale venne così chiamata. Si è
ritenuto per molto tempo che la valle del Giordano fosse praticamente
inabitabile fuorché nelle vicinanze del lago di Galilea e nell ‘oasi attorno a
Gerico, ma oggi possiamo ritenere che quattromila anni fa era invece densamente
popolata e ricchissima se riuscì ad ingolosire quei re giunti dalle lontane
regioni dell’est per depredarla.
Abramo saputo ciò che era accaduto al
nipote, armò i propri servi e si mise all’inseguimento dei predoni riuscendo a
salvare Lot e la sua famiglia e a recuperare tutte le spoglie depredate. Nel
viaggio di ritorno incontrò Melchisedech, re di Salem e sacerdote del Dio
altissimo, con il quale strinse un patto di alleanza, cedendogli la decima
parte del bottino e celebrando insieme un sacrificio in onore del Signore. Più
tardi, tuttavia, Lot conobbe la sua rovina allorché Geova rovesciò fuoco e
fiamme sulle città di Sodoma e Gomorra e la moglie di Lot fu tramutata in una
statua di sale.
Quanto ad Abramo, egli e il suo
popolo, benché circondati da stranieri e così lontani dalla terra di origine,
si accrebbero e prosperarono. Fu in questa regione che Dio apparve ancora ad
Abramo, come molto tempo prima gli era apparso ad Harran, e gli confermò la
promessa che sarebbe diventato il fondatore di molti popoli e lui e la sua
progenie avrebbero ereditato in eterno la terra di Canaan. E sempre in Canaan
Agar, la schiava di Sara, gli partorì un figlio di nome Ismaele, destinato a
diventare il capostipite del popolo arabo. Là pure la vecchia sterile Sara alla
fine, per compimento della promessa di Dio, gli partorì un figlio che fu
chiamato Isacco. Sempre in Caanan l’Angelo del Signore fermò la mano di Abramo
quando questi, nella assoluta obbedienza alla volontà divina, stava per
sacrificare l’amato figlio. Nonostante tutte queste benedizioni divine che
ricevette in Caanan, Abramo considerava quella terra un luogo pagano. Egli
tumulò Sara nella grotta di Macpela vicino ad Hebron ma più tardi, piuttosto
che imparentarsi con i Cananei, inviò il suo fedele servitore Eliezer nella
Pianura di Aran affinché scegliesse una moglie per Isacco tra le figlie dei
suoi parenti che abitavano tuttora in quella regione. Eliezer s’imbatté in
Rebecca figlia di uno stretto congiunto di Abramo e la condusse in Caanan ove
divenne consorte di Isacco. Isacco e Rebecca si amarono profondamente e, anche
dopo la morte di Abramo, restarono in Caanan, la Terra Promessa, ai margini del
deserto che si stendeva verso l’interno, dalle città dei Filistei sulle pianure
della costa, attorno ai pozzi di Bersabea e nelle valli superiori attorno ad
Hebron.
L’ideale ebraico
Dopo la morte di Abramo suo figlio
Isacco dimostra una leale sollecitudine per la solidarietà tribale quando,
anche lui come suo padre, insiste perché il suo figlio minore, Giacobbe, si
sposi con donne del parentado per non spezzare i vincoli familiari. I gemelli
d’Isacco, Giacobbe — o Israele — e Esaù, sono presentati in termini di
conflitti personali ed economici. Esaù divenne un esperto cacciatore e
uomo della campagna… mentre Giacobbe ” .. fu uomo pacifico che se ne
stava sotto le tende.. e preferito al primogenito dalla madre Rebecca. Dalle
mogli di Giacobbe, Rachele e Lia, e dalle loro rispettive ancelle, Bilha e
Zilpa, nascono dodici figli: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zabulon,
Dan, Neftali, Gad, Asher, Giuseppe e Beniamino. I loro discendenti costituirono
le “tribù di Israele” e i “figli di Israele” ovvero gli
israeliti. La loro identità è ora nettamente definita. Essi evitavano le unioni
matrimoniali al di fuori del loro gruppo, e vedono in Canaan la loro terra e il
loro retaggio. Quando la carestia li spinge in Egitto si considerano come
“forestien” o “ospiti di passaggio” in temporaneo esilio
dalla loro patria. La loro individualità è sempre riferita alla loro concezione
di un Dio monoteistico che presiede agli eventi naturali e al destino umano, in
contrasto con il caotico politeismo del pensiero mesopotamico ed egizio. Per
spiegare la migrazione di Abramo e l’intensa coesione e solidarietà dei suoi
discendenti vengono addotte delle ragioni spirituali, e in realtà non esiste
nessuna altra motivazione convincente. Noi dobbiamo ricordare che la Mesopotamia,
dove nacque Abramo, era il centro e il vertice della civiltà di quei tempi.
Essa superò di gran lunga Caanan per la complessità e la raffinatezza delle sue
arti. La legge e il commercio conferirono alla sua organizzazione sociale una
stabilità che non possiamo riscontrare altrove. Possiamo solo concludere, in
accordo con la storia della Genesi, che la migrazione di Abramo fu ispirata da
motivi di protesta e di affermazione. Protesta contro l’incoerenza della vita e
del pensiero mesopotamici, e affermazione di una nuova e soddisfacente risposta
all ‘enigma del pensiero umano.
La storia dei patriarchi è narrata
nella Genesi immediatamente dopo quella della Creazione e del Diluvio. Questa
narrazione è ricca di particolari vicini alla tradizione babilonese. Allo
stesso modo, nell’episodio di Giuseppe confluiscono molti nomi e leggende di
origine egiziana. Ma ciò che separa i patriarchi dal loro contesto
contemporaneo è più decisivo di ciò che li collega alla vita e ai costumi dei
loro tempi. La storia di Israele emerge dalla notte dei tempi in un
atteggiamento non di continuità ma di rivolta. C’è una nuova intuizione circa
l’uomo e la natura, e un fiero ripudio delle mitologie contemporanee con i loro
pantheon pluralistici delle deità in guerra tra loro. L’unità e la trascendenza
di Dio sono idee nuove e dirompenti che trasformano ogni aspetto
dell’esperienza e creano nuove categorie di pensiero. La partenza di Abramo
dalla sua terra natale simboleggia una secessione radicale dalle idee pagane.
Al loro posto la religione israelita postula la legge universale di una unica
intelligenza con una sua finalità: un Dio che agisce con uno scopo morale e con
la bontà come attributo fondamentale.
Una nazione scrive la sua storia nell’immagine del suo
ideale. La storia dei patriarchi, dalla migrazione di Abramo a Caanan fino al
soggiorno di Israele e dei suoi figli in Egitto, ha agito con singolare potenza
nel pensiero e nell’ideale ebraico. Non si tratta di una leggenda di guerrieri
remoti e sovrumani. Non assomiglia alla visione di un fulgido mondo eroico che
per i greci e gli altri popoli antichi rappresentava il loro stato originario.
Le storie di Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe sono permeate di un senso di
predestinazione divina. Ma esse contengono anche una gran quantità di elementi
semplici e terreni, che riflettono un riconoscibile sistema di vita umana in
cui la lotta e l’astuzia sono mitigate dagli affetti più gentili e delicati. In
seguito, nella letteratura e nel ricordo, la nazione ebraica rivide il suo capostipite
come il prototipo di due virtù: bontà e calore nei rapporti umani e una
assoluta rassegnazione, che andava al di là della mera umiltà, al volere divino. Tanto la
tradizione cristiana quanto quella musulmana accettano l’autenticità storica di
Abramo e lo ammettono come loro progenitore spirituale. Ma per gli ebrei egli è
il primo e l’unico patriarca, il modello della perfezione ebraica. Ispirati dal
suo patto e uniti saldamente fra loro dal ricordo di tre generazioni discese
dai suoi lombi, i figli di Israele, precariamente stanziati in Egitto, entrano
nella storia documentata nella seconda metà del secondo millennio a.C.
Conclusione
Il racconto biblico si fa più vivido e movimentato nel
descrivere la comunità israelitica che si evolve come nazione su suolo
straniero. Esso narra come la componente tribale fondata da Abramo e dai suoi
discendenti sia lacerata da antagonismi personali. Giuseppe, a causa della
gelosia dei suoi fratelli maggiori, finisce in Egitto. I suoi fratelli a loro
volta vengono sospinti a sud da una carestia che infierisce in Caanan. A quel
tempo Giuseppe, a loro insaputa, si è conquistato una posizione di prestigio al
servizio del Faraone d’Egitto.
Egli ha immagazzinato il raccolto eccedente di sette anni di
abbondanza in previsione di sette anni di carestia che seguiranno. All’indomani
di un drammatico incontro coi suoi fratelli, Giuseppe li rimanda a Caanan dopo
essersi fatto promettere che torneranno con il loro vecchio padre Giacobbe. I
suoi fratelli si stabiliscono a Goshen, a oriente del delta nilotico,
Passeranno dei secoli prima che i loro discendenti possano rivedere la terra
dei padri e l’eredità loro promessa. All’inizio del loro soggiorno in Egitto
sono uomini liberi, che conducono una sicura e tranquilla vita contadina in una
zona ricca di acque, lontano dall’incubo della siccità sempre presente a
Caanan. Alla fine di questa esperienza egiziana sono schiavi oppressi che
fuggono per sottrarsi alla tirannia e alla persecuzione.
Gli israeliti si adattarono facilmente in Egitto alle
istituzioni politiche prevalenti, ma la loro vita sociale e culturale a Goshen
fu, senza dubbio, appartata e soggetta a una e vera e propria segregazione. La
rigidità ritualistica degli egiziani non si lasciò minimamente smuovere e la
separazione tra ebrei e egiziani fu ratificata da una sorta di patto reciproco
e dalla creazione di una barriera religiosa e sociale che stimolò le tribù
israelitiche a conservare vivo nella memoria il paese di Caanan e a coltivare i
loro rapporti con i parenti ebrei rimasti al nord.
Con il crollo della dinastia degli Hyksos, agli inizi
del sedicesimo secolo a.C. il nazionalismo egiziano si riconsolidò, caratterizzato
dalla intolleranza e dall’esclusivismo. Gli ebrei che vivevano a Goshen furono
privati della loro libertà, ridotti in schiavitù e al lavoro forzato e
impiegati nella costruzione di nuove città. Quando toccarono il fondo dell
‘umiliazione e delle sofferenze sorse in mezzo a loro un capo, Mosè, che
divenne il vero fondatore sia della nazione d’Israele che della sua religione.
Egli dette alla parola ebraica Iahvé un carattere distintivo e sublime nella
coscienza dei suoi compatrioti. Organizzò le sbandate tribù seminomadi e le
chiamò alla rivolta. Fece appello al debole ma ininterrotto ricordo della
libera vita pastorale che il suo popolo aveva conosciuto nella “Terra
Promessa” e, nella definitiva affermazione della sua funzione di guida
politica e spirituale, fece uscire gli ebrei dall’Egitto e li condusse,
moltitudine querula, turbolenta, scettica e di “collo duro”, oltre il
Mar Rosso, attraverso il deserto, fino alle soglie di Caanan, dove essi
avrebbero costituito una nazione e offerto una imperitura testimonianza della
loro fede.
La nascita di questa fede è stata
giustamente descritta come una “rivoluzione nella visione umana nel
mondo”. Tutte le religioni precedenti e contemporanee considerano il
destino umano soggetto alle leggi della natura. Così come i cicli naturali
ritornano al loro punto di origine senza pretese di progresso, la vita umana
era concepita come un interminabile e ordinato processo che passava attraverso
la nascita e la morte per ritornare ad un punto di partenza sprofondato nelle
tenebre e nel caos. Anche gli dei erano soggetti alle passioni, agli istinti e
ai desideri umani. Erano associati a manifestazioni naturali, come il sole e la
pioggia. Dato che le forze naturali sono diverse e numerose, il concetto pagano
di divinità era pluralistico fino ad arrivare alla confusione.
Abramo respinse l’elemento
idolatrico del paganesimo. Si rifiutò di adorare tronchi e sassi. Però il suo
Dio non era unico, onnipresente e del tutto trascendente. Era la divinità della
famiglia di Abramo, non di altre famiglie, e ancor meno di tutta l’umanità.
Quando le cose
andavano male Egli manifestava il suo potere rimettendo tutto a posto. La
concezione mosaica della divinità è meno familiare e ingenua, più austera, ma
molto più elevata. Mosè sa compiere un esercizio di astrazione senza precedenti
e riesce a concepire un Dio posto al disopra della natura, immune dalle
passioni umane e dagli eventi naturali. Il concetto pagano della storia,
inesorabilmente legato alla ruota della ripetizione, permea la maggior parte
del pensiero antico di una profonda tristezza. Il suo malinconico tema ricorre
molto più tardi, nella storia, nel grido disperato del filosofo e imperatore
romano Marco Aurelio: “Su e giù,
avanti e indietro, torno torno. Così è il monotono e insensato ritmo dell
‘universo
In contrasto col caratteristico
fatalismo della civiltà pagana, il pensiero ebraico, da Mosè in poi, concepisce
Dio come il creatore delle forze naturali, esente dal loro ritmo ciclico. I
piani divini si compiono non nella natura ma nella storia umana. Il progresso,
non la ripetizione, è la legge della vita. Nella tradizione mosaica Dio applica
a se stesso un nuovo epiteto: “Io sono colui che sono “, l’unico a
cui nessuna definizione può bastare, l’onnipotente protettore del popolo “che è afflitto da tutte le sue afflizioni e
lo redime con il Suo amore e la Sua misericordia
Una volta che il destino umano è separato dal ciclo della natura, si
libera dalla fatalistica catena dei ricorsi. L’uomo ha pertanto la capacità di
respingere il male e scegliere il bene e viene investito di una dignità unica e
attiva, fuori della portata di ogni elemento della natura.•
E’
inutile andare a cercare maestri fuori di noi: il vero maestro è quello
interiore. Non è sbagliato avere desideri, voler vivere fino in fondo la
propria esistenza: è invece sbagliato avere desideri troppo limitati, troppo
piccoli.
“Non
è sbagliato il desiderio ma la sua piccolezza”.
E’
giusto voler accrescere la propria esperienza, la propria conoscenza, ma
bisogna avere l’intelligenza e il coraggio di andare oltre, fino all’ origine
dei desideri, dove si potrà capire quale sia la nostra più profonda e autentica
esigenza.
Il
mondo è una proiezione della nostra mente: dobbiamo convincercene per essere
liberi. Ciò che vediamo e percepiamo è come la pellicola di un film realizzato
da noi stessi. Dobbiamo fermare questo film, rompere l’incantesimo (“vedi
il film non sei il film”), scoprire al di là delle apparenze, della
fantasmagoria delle immagini, quel puro essere-coscienza-beatitudine che è
sempre stato lì, immobile come roccia, in paziente attesa che la finissimo con
i nostri giochi di illusionismo.
“Ciò
che la mente ha fatto la mente deve disfare”.
Il
realizzato non ha paura di nulla e vive imperturbabile, perché è già morto in
vita, ovvero è sempre stato vivo. “Nella mia terra nessuno è stato e
nessuno muore”. Qualunque cosa accada sul palcoscenico dell’esistenza,
egli è consapevole che si tratta di una rappresentazione esteriore. L’osserva
con distacco, felice di essere al di là dell’esperienza, felice di essere un te
amo sotto anestesia?
Dunque
la consapevolezza non è costante, può esserci o non esserci; è intermittente e
può mancare del tutto. Ma quando è assente, come facciamo a mantenere il senso
dell’ego? “Da che cosa dipende questo senso di identità se non da qualcosa
che è al di là della coscienza”, qualcosa che persiste anche nelle lacune,
negli intervalli, in cui l’io non è presente?
Chi
ci sveglia al mattino? Basterebbe approfondire questi interrogativi per
renderci conto che il senso dell’identità non ci viene né dal corpo, né dalla
mente e che, se ci liberiamo da queste identificazioni, scopriamo un ‘ altra
identità.
“La
liberazione non è mai della persona, è dalla persona”.
Nascita
e morte non sono solo idee della mente; per l’atman esse non esistono, come non
esiste il concetto di Dio trascendente nato chiaramente dalla paura. Il Sé non
prova paura verso la morte e accetta con distacco quest’ esistenza. “Tu
sei il Dio del tuo mondo, e siete entrambi stupidi e crudeli”. In qualche
momento della nostra storia, non si sa come, ci siamo dimenticati della nostra
vera identità; così ha avuto origine la sofferenza, da cui cerchiamo di
liberarci inseguendo il piacere, senza capire che l’ autentica beatitudine non
può che trovarsi al di là del dolore e del piacere, in un luogo appartato e
inattaccabile. Ma la mente non può stare ferma, la mente deve produrre
concetti, idee, definizioni, separazioni, desideri, inizi e fini, in una parola
I ‘ intera gamma dell’ esperienza, convinta che I ‘ esistenza e la coscienza
siano tutt’uno. Solo I ‘ illuminato sa che non è così, che non c’è una
consapevolezza al di là della coscienza fenomenica e della vita-morte. Però
egli ha osservato, ha indagato, è andato a fondo, si è posto delle domande
senza illudersi che le risposte venissero dalle parole.
Viviamo
perché abbiamo desiderato, in un certo momento, di venire al mondo, e questo
significa che dobbiamo portare sulle nostre spalle un karma. E’ stato lui, il
desiderio del passato, il karma, a plasmare il nostro destino, imprigionandoci
tuttavia in “una condizione insostenibile e dolorosa”. Non sappiamo
di essere intrinsecamente liberi, ignoriamo di poter uscire di scena, di
poterci mettere a guardare noi stessi come in uno spettacolo, di poterci
servire del mondo per scavalcarlo e andare oltre. Eppure niente ci impedisce di
essere consapevoli qui e ora: basta assumere un atteggiamento di pura
testimonianza, di osservazione senza partecipazione.
Nessuno
può aiutarci in questo compito. Non esistono maestri esterni, “amare e
adorare Dio è ancora ignoranza”, ognuno deve risvegliare il maestro che ha
in sé, perché ognuno è il creatore del proprio mondo. Anche i grandi illuminati
del passato, i grandi Salvatori hanno fatto ben poco per noi. “Sono venuti
e sono andati: e il mondo arranca”. Non ci rimane che procedere soli, con
coraggio e pazienza: “nessuno fallisce sempre”. La guida migliore è
dentro di noi. Non c’è bisogno di seguire né la via della rinuncia (quella
della yogi), né la via dell’ adorazione (quella del bhogi, del bhakta); ogni
forma di esperienza comporta un dualismo. Non dobbiamo cercare qualcosa di
separato e contrario.
“Non
hai bisogno di esperienza, ma di libertà da tutte le esperienze”. La
realtà non è uno sperimentare qualcosa, ma un essere, perché noi siamo già
reali. Come dice la Chàndogya-upanisad, “ogni cosa è animata da un’essenza
sottile, da un’unica realtà, che l’atman. E quello che sei tu” (tat tvam
asi).
L’uomo
ha un fine preciso: la liberazione della sofferenza, dalla stato di
limitazione, della vita fenomenica, il che può avvenire solo attraverso un’espansione
della coscienza.
“Per
essere libero nel mondo, dovrai essere libero dal mondo”
Tutto
ciò che si oppone a questa liberazione-espansione contrasta inutilmente le
direttive dell’evoluzione cosmica e, prima o poi, né sarà schiacciato. Chi
invece si armonizza con questa linea evolutiva, svilupperà una serenità senza
sforzo, raccogliendone i frutti. Ma dobbiamo essere seri nella nostra
determinazione; la serietà è la “chiave d’ oro” di ogni
realizzazione. Visto che abbiamo messo tanta energia nel diventare schiavi,
mettiamone altrettanta per demolire la prigione. Ci siamo alienati dalla realtà
alimentando un gran numero di illusioni, ora dobbiamo smettere di nutrirle.
“I vecchi solchi del cervello devono essere cancellati”. Non dobbiamo
ripetere sempre le stesse esperienze senza imparare nulla, senza procedere di
un passo, così finiremo per morire con il desiderio di vivere ancora. L’unica
vera tecnica di meditazione è l’ approfondimento e l’ allargamento dell’
autoconsapevolezza. Non si tratta di fare qualcosa, ma soltanto di essere. La
via non è graduale: si arriva alla meta di colpo, con un ex-cessus mentis.
Arrestiamo
l’ immaginazione, il ricordo, la conoscenza, il desiderio, e scopriremo che
siano sempre stati noi stessi, anche senza saperlo. Potremo utilizzare la
ripetizione di un mantra del nome di Dio, potremo adottare una respirazione
quieta e profonda che renderà la nostra mente “pura, stabile e adatta alla
meditazione”, ma è inutile impegnarsi in pratiche acetiche, in rinunce, in
ritiri solitari in cui si resta in preda alle “chiacchiere senza fine
della mente”, si può tranquillamente vivere tra la gente; lavorare, amare,
piangere, ridere. ma dall’ alto del proprio Sé distaccato e intangibile,
ricordando senza posa che si è.
Soltanto
a questo punto l’ inconscio può fluire nel conscio, la persona si fonde con il
testimone, questi con la consapevolezza, che a sua volta s’ immerge nel puro
essere, senza perdita dell’identità ma solo delle sue limitatezze.
Quanti di noi, al mattino, tirandoci giù dal letto, ci
guardiamo allo specchio avendo l’impressione, a volte, di essere prossimi a
vivere una giornata meravigliosa, anche se piove a dirotto e l’ auto è dal
carrozziere, mentre in altre, malgrado il sole splenda radioso lassù nel cielo,
avvertiamo, pressante, la voglia di mandare tutto e tutti al diavolo ed il
caffè che stiamo sorseggiando non è stato mai, più cattivo di così. Non
dobbiamo addebitare questi differenti atteggiamenti a bagordi, alla cena mal
digerita ovvero allo stato di malessere generale che precede la classica
influenza stagionale: non sono questi i motivi determinanti che ci inducono a
vedere il mondo circostante, più bello o più brutto.
Si fa strada, a questo punto, l’ ipotesi che il corso della
nostra vita, legato all’ alternanza di momenti in cui tutto gira alla
perfezione ed altri in cui perdiamo fatalmente il passo, è legato ad
avvenimenti che accadono nell’intero “cosmo” e niente si verifica a
caso.
Cos’è, in effetti, il “bioritmo”, questa misteriosa
e stupefacente intuizione che potrebbe consentirci una più ampia esplorazione
scientifica, in altri termini, un uso più ragionato del nostro vivere?
La teoria del bioritmo, che letteralmente significa ritmo
della vita, si basa sul rapporto corrente tra la esistenza umana e gli
accadimenti, di ben più ampia portata, che avvengono nell’intero cosmo. Esiste,
quindi, una precisa sintonia tra il nostro “vivere quotidiano” e
l’universo, tanto da indurci ad approfondire le nostre conoscenze sull’
andamento degli influssi celesti, per meglio affrontare anche i banali problemi
quotidiani.
Dall’ osservazione
dei tre diversi stati di pulsazione della vita, quello dello spirito, quello
della salute ed infine quella dell’ intelletto, scaturisce automatica l’
esistenza di tre diversi tipi di bioritmo. Ciascuno di essi, legato al proprio
stato vitale, pur con cicli diversi che si intrecciano tra loro, si mantiene in
perfetta autonomia con rispettivi ritmi ascendenti o discendenti. Le onde di
questo triplice ritmo, salute, spirito e intelletto, iniziano ad animarsi al
momento della nascita di ciascun individuo e, attraverso andamenti alterni, lo
seguiranno per tutto il corso della vita. La lunghezza delle onde, invece,
varia tra i ritmi: quello della salute fisica, dura 23 giorni e durante i primi
11 giorni e mezzo la fase è positiva, in salita, per poi cadere in discesa
libera, fino a toccare il punto più basso: il fisico deve velocemente ricaricarsi,
rifare, cioè, il pieno. Subito dopo, l’onda sale nuovamente e con essa riprende
il ciclo di 23 giorni. I dello spirito, di 28 giorni, e dell’intelletto, di 33
giorni, seguono le stesse leggi: durante la prima metà del periodo vi è la fase
ascendente che è seguita da quella discendente, subito dopo.
I giorni più “critici” sono, per l’appunto, quelli
in cui il ritmo da positivo-ascendente passa al negativo-discendente. In questi
giorni, ciò è dimostrato da numerosissimi esperimenti medici, avvengono incidenti,
accadimenti nefasti e mortali, e nessuna reazione sembra scaturire dall’essere
umano, a causa delle batterie scariche.
Tutti gli esseri viventi, coloro che appartengono ai regni
animale e vegetale, non possono sfuggire alle leggi cosmiche che regolano il
“ritmo della vita”. Qualcuno potrebbe obiettare, forse a ragione, che
l’uomo non può e non deve essere accostato a tutti gli esseri viventi e in
particolare agli animali, senza arrecare offesa a Dio: perché creati a sua
perfetta immagine e somiglianza. Con tono sommesso, non certo per timore perché
convinti di quanto andremo ad affermare, ma enormemente imbarazzati, riteniamo
che gli animali, anch’ esse creature di Dio, siano migliori dell ‘uomo perché
non conoscono la “malvagità
Un grande manifesto pubblicitario, tempo fa, recava l’
immagine di una famiglia di leoni, pigramente sdraiati sotto un secolare
albero, nella sperduta savana. Il tutto incorniciato da un rosso tramonto
africano. Il testo sottostante, recitava pressappoco cosi: ” Mangiano… solo
quando hanno fame, fanno l’amore… per avere cuccioli, rispettano la natura
e…non la contaminano. E poi… siamo proprio noi a chiamarli… animali
!”
L’Ordine Massonico in tutti i
tempi si è proiettato verso il futuro, così i suoi iniziati, ispirati agli
“Antichi Doveri”, hanno progettato soluzioni, metodi di vita,
insegnamenti che hanno guidato l’Umanità verso conquiste di ogni tipo,
liberando popoli e creando nuove nazioni.
Ora che il nuovo tempo è arrivato
e il vecchio ciclo si sta concludendo è necessario che tutti i Fratelli si
prodighino per programmare e attivare la Nuova Umanità Cosciente di se stessa
per un avvenire che si presenta pieno di insicurezze ed incertezze. tutto dovrà
essere rifatto, tutto si dovrà ridisegnare nuovamente.
Lo
sconvolgimento che si avverte in questo tempo di chiusura di secolo, per la
mancanza di armonia e di fratellanza tra le nazioni, è presente sia nel pianeta
come contenitore sia nel suo contenuto, che è l’uomo stesso. Questa disarmonia,
che è ormai prerogativa di quasi tutte le nazioni, ed il grigiore che emana,
tramutano ogni cosa in questo stato caotico e confusionale, creando
disequilibri e negatività ovunque, disagi nell ‘ambiente, nell ‘atmosfera e
soprattutto nel comportamento dell’uomo stesso.
Altre forze e menti cercano di
mettere una soluzione a questa marea che sconvolge la quotidianità dell’uomo,
ma con scarso risultato.
Allora è necessario che tutti i
Hiram risorti siano chiamati a prodigarsi e a lavorare insieme con uno stesso
obiettivo: anticiparsi ai tempi che verranno per programmare, ispirare e
proiettare nuove regole e metodi di vita per la Futura Umanità.
Così in ogni officina si dovranno
accendere gli athanor di ogni fratello, non solo per lavorare su sé stessi, ma
anche per creare dalla Coscienza Egregorica della Loggia questo nuovo Progetto
con un lavoro comune, utilizzando la Forza delle ispirazioni.
Nel presente
secolo, soltanto la negatività con tutte le sue conseguenze ha fatto notizia e
l’Umanità si è dovuta alimentare con questo pane amaro di soffereze, dolore e
soprattutto pieno di prevaricazioni! Così, interi popoli in silenzio hanno
subito questa tirannide creata da menti dementi con interessi materiali guidati
da un consumismo sfrenato.
Ora però, aiutato dagli eventi di
questo fine secolo, sta arrivando il momento del ribaltamento della squadra e
tutto quello che ferisce la dignità Umana dovrà essere tramutato in positività,
in Pace e soprattutto in Amore per la Vita.
Questo processo equivale al
passaggio di grado, dal 1 0 al 20, da Apprendista a
Compagno. Così il futuro sarà improntato alla Bellezza, all’Anima e all ‘
Amore.
Perciò
propongo alle Logge di lavorare di più in questo stupendo grado, che ci
preparerà a una lontana Maestria, perché il Compagno lavora col cuore, e quello
che è sempre mancato all’Umanità è proprio un cuore.
Date queste
circostanze, da buoni apprendisti quali siamo, dobbiamo prepararci a questo
passaggio sommando alla Forza la Bellezza dell ‘Arte che noi conosciamo e
applichiamo. Il nostro Nucleo Aureo si sta solidificando e questo comincerà ad
irradiare la sua Luce dal punto conosciuto solo da noi e questa Luce non solo
abbellirà il nostro tempio interiore, ma farà pure in modo che la Bellezza
prenda il posto della Forza e questa farà sì che tutti gli uomini entrino a far
parte del Grande Progetto dell ‘Umanità.
Ed è questo il maggiore
compromesso che noi Liberi Muratori abbiamo con noi stessi e con i nostri
padri, perché ognuno di loro ha trasmesso ai suoi figli la parte migliore di
sé, con il compito di vigilare su questi eventi come passaggi di Coscienza.
Adesso ognuno di noi in questo tempo è un figlio e questo
fa sì che la nostra responsabilità sia più grande, non soltanto per l’Umanità
presente, ma anche per tutti i fratelli che prima di noi sono passati all’Or.•.
Eterno che ci hanno preceduto e ci hanno lasciato questo legato.•
Non rampare di aquile e leoni,
non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo, ma i colori della nostra
primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle Alpi,
l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle
anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la
Patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che divina l’anima
nella costanza dei savi; il verde la perpetua rifioritura a frutto di bene
nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione e il sangue dei martiri e degli
eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch’ella era la più bella di
tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà: ond’è che ella, come là
dice la scritta, “piena di fati mosse alla gloria del Campidoglio “…
(Giosue Carducci, commemorazione a Reggio Emilia, il 7
gennaio
1897, del Primo Centenario del Tricolore)
Premessa
Parigi:
quattordici luglio 1789. Il vecchio castello medievale della Bastiglia,
utilizzato come prigione politica, viene assalito e espugnato dagli insorti
guidati da Camillo Desmoulins, da Georges Danton, da Antonio Giuseppe Santerre
e da altri capi rivoluzionari. Crollano con esso le fosche leggende che per
secoli ne avevano puntellato l’immagine, ma crolla soprattutto il simbolo di
quell’assolutismo che aveva, per secoli, dominato tirannicamente il popolo.
Così afferma Adolfo Omodeo: “Dal momentaneo entusiasmo provocato
dall’avvenimento, nacque il tricolore francese, per la fusione della bianca
bandiera della monarchia con i colori di Parigi: il rosso e il turchino. ”
(“L’età del Risorgimento italiano”; Messina-Milano, 1930, pag. 94).
Da questo momento la bandiera quale simbolo del potere di un principe scompare,
nasce la bandiera espressione della nazionalità. Il tricolore francese,
“figlio del popolo “, apre la strada.
Le notizie degli straordinari avvenimenti francesi
scuotono l’Europa. Gli ambienti culturali italiani, influenzati dalle
illuministiche pagine dell’Enciclopédie e avvezzi da decenni a polemizzare sui
numerosi giornali letterari nazionali e d’ oltralpe, cercano sulle Gazzette le
informazioni più aggiornate ed esaurienti.
Le notizie dell’ appena iniziata e già vittoriosa
Rivoluzione giungendo in Italia, accrescono le speranze dei novatori, ansiosi
di ripetere anche nella nostra Penisola le esperienze europee. Giacobini e
Fratelli massoni — esistevano da tempo in tutti gli Stati italiani attivissime
Logge massoniche — si organizzano in “club” clandestini per
prepararsi al “grande giorno”. Emissari francesi li favoriscono e li
consigliano. Portano da Parigi i testi del Ça ira, del Reveil du peuple
souverain e della Marseillaise, i canti fatidici che, insieme al tricolore,
guidano il nuovo esercito rivoluzionario. Pafrioti e principi sono in attesa: i
primi impazienti, i secondi preoccupaiü.
Nel 1790 Pietro Verri scrive: “I principi sociali sono sviluppati nel centro d’Europa;
la luce dilatarsi rapidamente; il popolo milanese sarà fra pochi anni
illuminato “. E rivolgendosi egli stessi giorni ai suoi concittadini, che
in qualità di decurioni governano la capitale lombarda, li incita a leggere i
giornali che parlano degli avvenimenti francesi: “Svegliatevi! Non è più
tempo di arrogarvi soli la rappresentanza della città. Ogni cittadino al paro
di voi ha diritto di eleggere e di essere scelto in servigio della patria
(…). Se vi accontentate di essere schiavi purché abbiate dei schiavi
sottoposti a voi, sarete voi i nemici della patria. Se scegliete questo
partito, vi annunzio in breve la vostra rovina ‘
Particolarmente sensibili ai princìpi rivoluzionari laici
d’ oltralpe sono i borghesi ma anche i contadini e i braccianti di Reggio
Emilia, i quali — costretti a subire le prepotenze di un patriziato locale
esausto e sprovvisto ormai di valori intellettuali ed economici — covano
secolari risentimenti contro la dinastia degli Estensi che governa il loro
territorio. Pertanto, tra il 30 aprile e il 2 maggio 1791 , in occasione della
prevista rappresentazione serale del dramma giocoso “La bella pescatrice
“, molti democratici armati, di ogni ceto sociale, organizzano uno dei
primi episodi insurrezionali italiani e impediscono con la forza che la
rappresentazione teatrale abbia luogo. Negli scontri verificatisi con le truppe
ducali, i rivoltosi uccidono addirittura il colonnello comandante la
guarnigione, Antonio Fabbrichi. Nel novembre del 1794 i giovani Luigi Zamboni e
Giambattista De Rolandis diffondono a Bologna un manifesto che invita i
cittadini ad insorgere contro lo Stato pontificio. Per l’ occasione preparano
alcune nappe con i tre colori, bianco, rosso e verde. Pagheranno con la vita il
loro ardimento. I due giovani appartenevano alla Libera Muratoria. Una Loggia
del Grande Oriente d’Italia, la n. 651 all ‘Oriente di Bologna, porta oggi il
loro nome.
Le corti italiane, sollecitate dall’Inghilterra, si
organizzano nella prima coalizione contro la Francia, impegnata ad esportare le
proprie idee rivoluzionarie. Ma l’alleanza è fragile e ne fa le spese, in
Italia, il Regno di Sardegna che, fra il 1792 e il 1795, vede le proprie terre,
fra le quali la Savoia e il Nizzardo, invase dalle truppe del Direttorio.
Nel marzo del 1796, alla fine di un logorante inverno, il
governo francese affida il comando dell’An•nata d’Italia ad un giovane generale
di ventisette anni: quel Napoleone Bonaparte che nel 1793, quale comandante
dell’ artiglieria, era stato il principale artefice della riconquista della
piazzaforte di Tolone occupata dagli inglesi.
L’ Armata d’Italia, nei piani elaborati da Lazzaro Carnot
ministro della Guerra del governo francese, doveva svolgere un compito
subordinato e di supporto per facilitare le operazioni dell ‘ Armata del Reno
che, agli ordini del generale Giovanni Vittorio Moreau, operava in Germania e
nelle Fiandre.
Ma ben diversamente, per il genio militare e politico di
Napoleone, si svolsero gli eventi.
La campagna d’Italia del 1796 — 1797
1796-1797
La efficienza e
la forza dell’Arrnata d’Italia è però alquanto modesta. Circa quarantamila
uomini in tutto, molti dei quali malati per i lunghi mesi trascorsi nei
bivacchi montani fra le nevi. I cannoni sono ventiquattro e i cavalli non
arrivano a quattromila. Ma il nuovo generale, Napoleone Bonaparte — … un
giovane d’ingegno smisurato e di cupidità ardentissima di dominio… ”
(Carlo Botta, 1824, Storia d’Italia dal 1789 al 1814; tomo secondo: 66) — sa
parlare come pochi alle truppe. Egli punta sul loro orgoglio rivoluzionario e
repubblicano e ottiene la loro stima e il loro consenso. Il 26 marzo 1796, da
Nizza, inizia la prima campagna d’ Italia.
Prima della partenza, dal Quartier Generale, Napoleone
indirizza ai soldati un proclama che galvanizza gli animi e restituisce
coraggio e fermezza ai soldati già depressi e sfiduciati. In sintesi gli
avvenimenti successivi: valicate le Alpi al Colle di Cadibona; sconfitto
l’esercito piemontese a Montenotte, Dego, Millesimo, Mondovì, Fossano, Alba e
costretto, il 28 aprile, il re Vittorio Amedeo III di Savoia a firmare l’
armistizio di Cherasco.
Già dal 22 aprile, il generale francese Amedée La Harpe
aveva indirizzato alle comunità di Mondovì, Alba e Acqui una esortazione con la
quale le invitava a dare prova dei loro “princìpi repubblicani ”
facendo sventolare sui campanili le bandiere tricolori e di innalzare nelle
piazze gli “alberi della libertà”. Negli stessi giorni, sollecitata
da alcuni giacobini guidati da Antonio Ranza — che vorrebbe addirittura
costituire delle “legioni rivoluzionarie italiane ” con proprie
bandiere dai colori “rosso, turchino e rancio ” — la comunità di Alba
dà vita ad una autonoma “repubblica piemontese “. In diverse località
della zona — Guarene, Magliano, Piobesi, Castellinado e Castagnito — gli
abitanti, spontaneamente, si appuntano sul petto le coccarde con i colori del
tricolore francese.
Eliminato l’esercito piemontese, Napoleone rivolse tutte
le sue forze contro gli austriaci che sconfisse
il 10 maggio 1796
a Lodi. Questa vittoria consentì l’ immediato ingresso dei francesi a Milano,
già in mano ai giacobini locali, trionfalmente accolti dalla popolazione
esultante. Intanto si erano svolte felicemente le ulteriori imprese di guerra
nella pianura padana. Il centro della lotta fu la città di Mantova, difesa dal
generale austriaco Dagoberto Sigismondo von Würmser, alla quale i francesi
posero l’ assedio. Le operazioni di guerra successive si svolsero con rapidità
impressionante: 3 agosto 1796, battaglia e vittoria di Lonato; 5 agosto 1796,
battaglia e vittoria di Castiglione; 8 settembre 1796, battaglia e vittoria di
Bassano; 15, 16 e 17 novembre, battaglia e vittoria di Arcole; 14 gennaio 1797,
battaglia e vittoria di Rivoli; 2 febbraio 1797, battaglia e vittoria della
Favorita con la conseguente capitolazione di Mantova. Costretto, nel frattempo,
il papa Pio VI al trattato di Tolentino — con il quale lo Stato pontificio era
privato di tutte le Legazioni — e ormai sicuro di essere coperto a sud, Napoleone,
dopo aver forzato il Tagliamento, portò l’offenSiva
oltralpe, in territorio austriaco, dove avanzò fino alle alture del Semmering a
meno di ottanta chilometri da Vienna.
Iniziati, il 7 aprile 1797, i preliminari di pace a
Loeben, questa fu conclusa il 17 ottobre 1797 a Campoformio. Questo trattato
consentiva alla Francia rivoluzionaria I ‘ influenza completa su tutta la
Penisola e favoriva la creazione di repubbliche italiche indipendenti anche se,
purtroppo, vassalle della — sorella maggiore — Repubblica Francese.
Napoleone e l’Italia
Dopo l’ ingresso del Bonaparte a Milano si era
costituita, sotto il controllo dei francesi, la “Municipalità di
Milano” che, nei desideri dei patrioti milanesi, avrebbe dovuto
denominarsi successivamente “Repubblica Transpadana”.
Questo termine fu effettivamente assunto ma soltanto in
modo formale. Infatti i francesi non consentirono mai che si costituisse uno
stato indipendente, con proprie leggi, proprio governo e una effettiva
autonomia politica. Tuttavia, una mattina del settembre 1796, per le vie di
Milano si vide una lunga sfilata di popolo sventolare una bandiera bianca,
rossa e verde e cantare, sull’aria di una canzone in voga, “La Giroletta
“, il seguente ritornello nato spontaneo dalle labbra dei dimostranti:
“L’è bianca, rossa e verde e la forma i trii color’.
Chi aveva ispirato i milanesi a scegliersi quel tricolore
che mai si era visto prima di allora? Si ignora il nome dell’ideatore ma
l’ipotesi più probabile è la seguente: nelle vicende rivoluzionarie francesi
ebbero parte rilevante molte associazioni a base filosofica e intellettuale,
più o meno segrete, ma più di tutte la Massoneria.
È logico pertanto che gli avvenimenti d’ oltralpe
sollevassero l’entusiasmo dei massoni italiani e, in linea generale, di tutti
gli spiriti liberi della Penisola che allora si definivano illuminati. Questi
patrioti vollero assumere una identità nazionale scegliendo, quale simbolo, un
tricolore affine a quello francese, ma in cui l’ azzurro era sostituito dal
verde, colore massonico per eccellenza e che, simboleggiando la natura, stava
anche a rappresentare i diritti naturali degli uomini.
Un mese dopo, il 17 vendemmiaio dell ‘ anno V (8 ottobre
1796), con un decreto dell ‘ Amministrazione della Lombardia, firmato da Napoleone
Bonaparte e in nome della Repubblica Francese una ed indivisibile, viene
costituita la “Legione Lombarda” composta da 3741 uomini e suddivisa
in sette coorti di 500 uomini ciascuna e una compagnia di Cacciatori volontari
a cavallo di 120 uomini. Due articoli del sopracitato decreto così
stabiliscono:
“Art. IX — Ogni Coorte avrà il suo stendardo
tricolorato Nazionale .Lombardo distinto per numero, ed ornato degli emblemi
della libertà
“Art. X — L’abbigliamento dell’Infanteria sarà un
abito verde con paramani, e mostre scarlato, iletto verde, pantaloni verdi con gance e
galloni rossi, e bottoni coll’lscrizione — Legione Lombarda — Libertà —
Eguaglianza —. L’abbigliamento dei Cacciatori a cavallo sarà simile a quello di
quest’Arma dell’Armata francese. Le distinzioni saranno bianche, e rosse come
nell’uniforme d ‘Infanteria.
I ragazzi milanesi, che assistevano alle sfilate di
queste Ùuppe, le chiamavano burlescamente “remolazzit’ per il richiamo al
colore dei ravanelli.
Ma non sono ancora questi i vessilli destinati a
rappresentare I’ ideale nazionale. Sono bandiere militari e, come tali,
dovevano ricevere pochi giorni dopo la loro istituzione il battesimo del fuoco
alla battaglia di Arcole. Una di queste bandiere, assegnata alla Legione
Lombarda il 6 novembre 1796, è pervenuta sino a noi ed è conservata nel Museo
del Risorgimento di Milano.
Ma non trascorse molto tempo che il Tricolore, da insegna
militare, diventò simbolo nazionale, e ciò avvenne sotto i migliori auspici
La Repubblica
Cispadana
Bonaparte aveva istituito governi municipali per
amministrare in via temporanea le province occupate, ma Bologna e Ferrara si
erano già costituite in Repubblica e cominciavano a fare leve di soldati. Il
fine di Napoleone era di riunire queste due ex Legazioni pontificie agli Stati
del duca di Modena per costituire una sola Repubblica situata tutta quanta al
di qua del Po. Tutto questo nell’ eventualità che, al momento della pace con
l’Austria, si potesse impedire la restituzione al papa di Bologna e Ferrara e,
al duca di Modena, il Modenese e Reggio nell’Emilia. Contemporaneamente nasceva
nei cittadini l’aspirazione — alimentata dall’ attività politica svolta da
“club” patriottici composti prevalentemente da Fratelli massoni ma
anche da liberi pensatori, da rivoluzionari, da elementi progressisti e da
liberali — di creare uno Stato laico moderno sul modello di quello francese.
Per realizzare questo progetto Napoleone convocò, per il 16 ottobre 1796, un
congresso da tenersi a Modena ove cento deputati delle quattro province
dovevano costituire una Assemblea nazionale incaricata di proclamare la nuova
Repubblica e di elaborare una Costituzione.
Questo “Primo Congresso Cispadano”, che si
svolge a Modena nei giorni 16, 17 e 18 ottobre 1796 delibera la costituzione
della “Confederazione Cispadana” e invita gli italiani ad unirsi nel
nome della comune libertà. Per la prima volta dopo secoli di dominazione
straniera risuona nuovamente il nome “Italia”.
Contemporaneamente
il Congresso abolì la feudalità, decretò l’ eguaglianza civile, nominò un
Commissario incaricato di formare una legione di quattromila uomini e decretò
la riunione di una seconda Assemblea, a Reggio Emilia in dicembre, per
deliberare sulla Costituzione da adottarsi. Gli abitanti di Reggio
manifestarono il più grande entusiasmo. Essendo uscito il 4 di ottobre da
Mantova un corpo di circa 200 soldati austriaci, corsero alle armi, lo
accerchiarono a Montechiarugolo vicino a Correggio e lo condussero, al
completo, prigioniero a Reggio. Nello scontro caddero due cittadini reggiani
che, a giusta ragione, possono considerarsi i primi martiri della rinascita
nazionale.
Questo II Congresso Cispadano di Reggio Emilia nelle
sedute del 27 e 28 dicembre 1796 delibera all’unanimità di trasformare la
Confederazione Cispadana in “Repubblica Cispadana, una e
indivisibile”, dando vita al primo Stato unitario della storia italiana.
Il 7 gennaio 1797, nel corso dei lavori dello stesso Congresso, il deputato di
Lugo di Romagna, Giuseppe Compagnoni, propose ai convenuti che la bandiera dai
colori verde, bianco e rosso fosse adottata come vessillo ufficiale della
neonata Repubblica. Una fraterna, ma accesa, discussione avvenne sull’ adozione
del terzo colore, oltre il bianco e il rosso.
La componente filofrancese propose l’ azzurro che vedeva
in esso il colore più simile al bleu francese; i seguaci della Carboneria
proponevano il nero; dai rappresentanti filopontifici fu proposto il giallo, ma
prevalse il verde, scelto dalla componente massonica di cui il colore verde è
un simbolo, per la volontà dell ‘elevato numero dei Fratelli massoni presenti
nel Congresso. Fu altresì deciso che la banda centrale bianca fosse
“caricata” di un turcasso portante quattro frecce, circondato da due
rami di alloro, poggiante su di un tamburo disposto orizzontalmente con alla
base due affusti di cannone incrociati e le lettere R (Repubblica) e C
(Cispadana) ai lati.
Il turcasso venne scelto come simbolo
“raccoglitore” di idee e princìpi libertari nuovi; le quattro frecce
rappresentavano le quattro province unite; alcuni fori nel turcasso esprimevano
l’intento che altre città italiane accorressero sotto il vessillo, animate
dallo stesso spirito di indipendenza; l’ alloro simboleggiava la vittoria che
coronava l’ azione rivoluzionaria secondo I ‘ antico uso greco e romano; il
tamburo — strumento di richiamo a raccolta del popolo e dei soldati — e gli
affusti di cannone stavano a rappresentare la forza armata della neonata
Repubblica.
Da quel momento la bandiera tricolore “italiana”,
così approvata dal Congresso, inizia il suo cammino, alquanto avventuroso,
nella storia. Ma già il 12 febbraio 1797 la sua foggia venne modificata dalla
costituita Guardia Civica Modenese, che inalberò un vessillo — la cosiddetta ”
— privo del tamburo, degli affusti di cannone e delle quattro frecce sulla
banda centrale bianca, ma con la scritta “Libertà e Eguaglianza”
sulla banda superiore rossa e con la dicitura “Guardia Civica
Modenese” sulla banda inferiore verde. Il 19 marzo dello stesso anno anche
il turcasso scomparve e fu sostituito dal berretto frigio, già presente nel
tricolore dei Cacciatori della Legione Lombarda.
La Repubblica Cisalpina
Il | 0 giugno 1797 Napoleone decretò
l’unificazione della Repubblica Transpadana con la Repubblica Cispadana alla
quale fu assegnato il nome di “Repubblica Cisalpina” con Milano
capitale. La solenne proclamazione fu fatta il 29 giugno e, ben presto, furono
annessi alla Cisalpina i territori del Mantovano, del Bergamasco, del
Bresciano, parte del Veronese, l’ex ducato di Massa e la Valtellina. Come
bandiera venne assunto il tricolore verde, bianco e rosso, a bande uguali ma,
per la prima volta, verticali e senza alcuna iscrizione. Il bianco venne però
successivamente “caricato”, sotto I ‘ impulso dei concetti libertari
e liberali che stavano confusamente farsi strada. Nel giro di due anni
apparvero, e scomparvero, sul bianco del tricolore fasci littori sormontati dal
Leone di San Marco, aquile ad ali spiegate; pugnali di Bruto incrociati o meno
a rami di palma; fasci con asce bipenni, posti orizzontalmente, artigliati da
aquile reali ad ali spiegate e squadre con fili a piombo o squadre e compassi
intrecciati, di netta ispirazione massonica.
Nel 1799, a seguito dell’ occupazione dell ‘Italia da
parte delle truppe della II Coalizione — Napoleone era impegnato nella Campagna
d’Egitto — tutti gli ordinamenti francesi vennero aboliti, ivi compresi i
simboli delle varie Repubbliche italiche istituite in precedenza dal Bonaparte.
La bandiera della Cisalpina non era ancora stata sostituita che Napoleone,
rientrato dall’Egitto e vittorioso a Marengo il 14 giugno 1800, impose agli
Alleati della II Coalizione il ripristino, nel Nord Italia, dell’ ordinamento
politico precedente e il riconoscimento, con la pace di Luneville del 9
febbraio 1801 , della ricostituita Repubblica Cisalpina. Il tricolore cisalpino
venne di nuovo adottato ma “puro” senza cioè nessun fregio e nessuna
iscrizione, nonostante un violento intervento, in sede di ricostituzione del
Governo repubblicano, da parte del conte Francesco Melzi d’Eril, clericale e
filopapalino, che propose di sostituire il colore verde con il colore giallo.
Questo tentativo venne respinto dall’altrettanto violenta difesa di questo
colore da parte del massone generale napoleonico Jean Baptiste Guichard.
Il cammino del
Tricolore
Il 26 gennaio 1802 dalla “Consulta di Lione”
viene proclamata la “Repubblica Italiana” e ne fu acclamato Presidente
lo stesso Napoleone Bonaparte, in quel momento anche Primo Console della
Repubblica Francese.
Come insegna venne adottato uno strano tricolore
costituito da un drappo quadrato rosso ove era inserito un rombo bianco nel cui
interno, a sua volta, era posto un quadrato verde. Il tutto senza alcuna
iscrizione né fregio. Tale vessillo rimase invariato sino al 1805, anno in cui
Napoleone, divenuto Imperatore dei Francesi, trasformò la Repubblica Italiana
in Regno d’Italia acquisendone il titolo di sovrano. In questa circostanza la
bandiera, pur mantenendo gli stessi colori, venne ad assumere un aspetto ancor
più singolare: un drappo quadrato con inserito un rombo bianco, delimitato da
fronde di alloro dorato, e con le quattro bande triangolari, formatisi agli
angoli del vessillo, alternativamente di colore rosso e verde. Il rombo bianco,
talvolta, ornato di fregi e motti.
Caduto definitivamente Napoleone, il tricolore italiano
venne abolito insieme al Regno che rappresentava e, in tutta I ‘Italia, vennero
ripristinate le bandiere delle precedenti dinastie. Ma sotto il dominio
austriaco a proliferare società segrete
patriottiche che assunsero come loro simbolo unitario il tricolore verde,
bianco e rosso a bande verticali, sia pure con qualche variante a seconda del
gruppo che l’aveva adottato. La “Giovine Italia”, per esempio, creò
un tricolore con la banda verde più ampia delle altre due per significare la
preponderante componente massonica nella Associazione.
Nel 1848 Carlo Alberto, all ‘ alba delle guerre d’
Indipendenza, adottò per le sue truppe un inedito tricolore a bande verticali
uguali, con disposizione bianco, rosso e verde a partire dall ‘ asta
“caricato”, sulla banda centrale rossa, di una croce bianca così da
ottenere l’insegna savoiarda. Ma già nel luglio dello stesso anno tale vessillo
fu sostituito da quello “risorgimentale” ove il tricolore verde,
bianco e rosso — a bande verticali a partire dall ‘ asta — era
“caricato” sul bianco con lo stemma savoiardo rosso con croce bianca,
inscritto in uno scudo sannitico di colore azzurro.
La Repubblica Romana, nata il 9 febbraio 1849, retta dai
triunviri Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini, Aurelio Saffi e difesa da Giuseppe
Garibaldi, adottò, con decreto del 12 febbraio 1849, quale bandiera della
neonata Repubblica il tricolore italiano con I ‘ aquila romana sull ‘ asta.
Il tricolore italiano, con al centro lo scudo sabaudo,
rimarrà anche dopo “la fatal Novara” la bandiera del Regno di
Sardegna e dopo la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo 1861
, sarà il vessillo nazionale sino al 1946. Nel 1936, dopo la conquista
dell’Abissinia e l’assunzione del titolo di Imperatore di Etiopia da parte di
Vittorio Emanuele III, lo scudo savoiardo sul bianco venne sormontato da una
corona imperiale. Nel 1943, durante la guerra civile, la Repubblica Sociale
Italiana mantenne come vessillo il tricolore con l’asta della bandiera
cuspidata da un fascio repubblicano e “caricando” il bianco,
eliminando lo scudo sabaudo, di un fascio con l’ ascia bipenne posto orizzontalmente
e artigliato da un’ aquila ad ali spiegate.
Con l’avvento, nel 1946, della seconda “Repubblica
Italiana”, il Tricolore riassunse l’aspetto “puro” del vessillo
della Repubblica Cisalpina, a bande verticali uguali verde, bianco e rosso,
senza iscrizioni o fregi di sorta.
Nel bianco possono essere “caricati”, ma
soltanto sulle bandiere in dotazione alla Marina, mercantile e militare, gli
stemmi delle quattro Repubbliche marinare — Venezia, Genova, Pisa e Amalfi —
racchiusi in uno scudo sannitico.
Sulla bandiera della Marina militare l’emblema è
sormontato dalla corona turrita e rostrata e, nello stemma di Venezia, il Leone
di San Marco impugna la spada. Sulla bandiera della Marina mercantile I ‘
emblema non è sormontato dalla corona turrita e rostrata e, nello stemma di
Venezia, il Leone di San Marco regge un libro anziché impugnare la spada.
I tre colori, bianco, rosso e verde sono stati adottati
anche per il sigillo della Repubblica Italiana. Il decreto legislativo del
Presidente della Repubblica così testualmente recita: “L’emblema dello Stato approvato
dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto da
una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di
una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un
nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale: Repubblica
Italiana“.
Conclusione
Terminando questa
breve storia del Tricolore, non possiamo fare a meno di rilevare come esso si
sia trasformato nel tempo secondo le presunte necessità di coloro che hanno
ritenuto di doverlo utilizzare. Bande orizzontali, verticali, larghe, strette,
scudi, fasci, stemmi ed una grande quantità di fregi si sono alternati nella
nostra bandiera secondo anche la fantasia di chi ci ha preceduto. Qualcosa però
è rimasto immutato: i colori e il simbolo. Il verde, caro a noi massoni, ci
ricorda un glorioso passato di battaglie per l’ Unità d’Italia alla quale tanti
nostri Fratelli hanno dato la propria vita. Il simbolo, anch’ esso rimasto
immutato nei secoli, è quel qualcosa che tiene uniti eticamente tutti coloro
che sono nati in terra italica. E quel sentimento che ci lega e ci accomuna,
nel bene e nel male, nelle manifestazioni di solidarietà e in un altruismo
operante.
Il nostro Tricolore dovrebbe ancor più farci
“ricordare” il nostro avvenire, il futuro dei nostri figli e quindi
la necessità ed il dovere, da parte di ogni cittadino, di costruire una società
migliore e più civile, meglio se laica, democratica ed effettivamente basata
sulla libertà e il rispetto per l’ altro, qualunque esso sia.•
Dagli
Atti del Congresso di Reggio Emilia aperto il 26 Vendemmiatore dell’anno V (17
Ottobre 1796)
Nelle ore tre pomeridiane del 28 dicembre 1796 il
suono delle trombe ha annunziato al popolo l’inizio delle sedute del Congresso.
In un momento le tribune della sala elegantemente disposte sono ripiene di
cittadini. Montato alla tribuna, il cittadino Fava di Bologna manifestò il
desiderio di vedere ivi radunati non solo i rappresentanti della Nazione
Cispadana e del Popolo di Reggio, ma anche popoli tutti d’Italia.
Lesse
quindi decreti fatti nelle diverse città ed invito i rappresentanti a rinnovare
l’atto solenne che dichiara l’•unità e l’indivisibilità della Repubblica. Un
moto simultaneo fece ergere in piedi tutti i presenti e, i cappelli sollevati
•in aria approvarono con l’unanimità dei sentimenti’
Il
7 gennaio 1797 il deputato di Lugo di Romagna Giuseppe Compagnoni propose ed
ottenne l’adozione della bandiera verde bianco rossa quale vessillo della
neonata Repubblica, affine a quella francese ma nel quale l’azzurro era
sostituito dal verde, colore massonico per eccellenza e che, simboleggiando la
natura, rappresentava anche i diritti naturali degli uomini.
il Cosmo, che non ha struttura,
assomiglia a un guazzabuglio di eventi straordinari, casuali e disordinati, in
cui la Vita costruisce strutture, estraendole da un disordine senza struttura.
Il concetto basilare, che meglio
definisce una struttura, scaturisce dalla consapevolezza che vi è la
possibilità di ricordare la stessa, ovvero di paragonarla a un ‘ altra
struttura. In considerazione di ciò e per il concetto di casualità, che ci
ricorda l’impossibilità di ricordare il caos o paragonarlo a un altro caos, in
quanto privi di struttura, le forze cosmiche si ripropongono in strutture
cicliche, e la Vita, adeguandosi, impara a bioritmare fornendo le adeguate
risposte.
Nell’immenso crogiolo primordiale,
l’azione della luce del sole, agendo sulle molecole semplici, diede l’avvio
alla Vita. Oggi, alla luce della biochimica, pur immaginando condizioni ideali
tali in cui la vita possa aver inizio senza luce, nessuno potrebbe assicurare
la sua sopravvivenza, considerato che le radiazioni elettromagnetiche
abbracciano un campo piuttosto ampio di frequenze e, di questo spettro, la luce
solare e la vita occupano una minuscola sezione di esso tanto da rendere
veramente difficile una conclusione che l’una non dipenda direttamente
dall’altra. Questo significa che le forme viventi sono coinvolte tutte in un
continuo dialogo aperto, ed un intenso scambio di informazioni ed influssi
astrali, con l’universo.
Carissimi Fratelli, non dobbiamo
aver dubbi! Una stella se osservata in una notte buia e senza luna, nel
silenzio di un deserto, non può passare inosservata, anche se attorniata da
altre luci, perchè risplende di luce propria. Ed eccola l’ Umanità tutta, con i
buoni ed i cattivi, i ricchi e i meno abbienti, bianchi e neri, rossi e gialli,
coloro che dicono di sapere e gli ignoranti, tutti con il naso all’ insù, con
gli occhi fissi a cercare la cometa, arcana messaggera di silenziosi ed
inquietanti messaggi, che qualcuno, tentando il recupero di un prestigio perduto,
definisce apportatrice di sventure e maledizioni divine.
Noi,
quaggiù, con i nostri affanni e con l’acre sudore dell’impegno riposto nella
conquista delle futili ed effimere profanità, con il cipiglio di chi, ahimè,
accumula i metalli illudendosi di conquistare così l’immortalità della materia,
restiamo in attesa della “buona novella”.
Carissimi Fratelli, è lo spirito
che sopravvive, l’unico e solo aspetto, della triplice struttura dell’Uomo, non
costretto a sottostare alle leggi della Natura dove tutto si trasforma e nulla
si crea.
Volgiamo, allora, le nostre
menti, i nostri pensieri, le nostre intenzioni… le nostre speranze, lassù in
alto, verso il cielo infinito, solcato dalla “cometa” che con la sua
immensa coda di luce, in silenzio, passa su di noi quasi a ricordarci che
sarebbe, forse, molto meglio se l’ Umanità guardasse più diritto, davanti a sé,
e si occupasse più fattivamente dei mille e mille problemi che soffocano, senza
tregua, coloro che hanno bisogno, che soffrono per le prepotenze e le
cattiverie dei propri simili, degli oppressi che lottano senza speranza per la
libertà che forse… non avranno mai.
L’ invito del Ven.mo Gran Maestro, Fr. Virgilio
Gaito, a contrapporre al costante e progressivo degrado della cultura nel
nostro paese, ad opera del consumismo e dell’effimero, non deve lasciarci
indifferenti. L’impegno riposto da ciascuno di noi, nei Lavori Esoterici, deve
essere tale da provocare veramente quella trasformazione necessaria affinché le
parole e le intenzioni non appaghino soltanto la sfera meditativa, ma operino
concretamente nel sociale determinando quella ascesa verso l’alto, che è
l’unica e sola a dare un vero significato alla esistenza umana, e che consente
di guardare, con distacco, le miserie della vita di tutti i giorni, dall’alto,
come la “cometa “…lassù nel cielo…
Il Presidente del Collegio dei MM.•.VV.•.
di Puglia
passato e futuro
potrebbero influenzarsi reciprocamente…
ln un mondo cristallizzato in cui non vi fosse alcun
cenno di mutamento, il tempo di certo non esisterebbe. Per avere una pallida
idea di quel che si intende per “realtà del tempo”, bisognerebbe,
innanzi tutto, chiarire il significato di “realtà del divenire”.
Per alcune filosofie, le orientali in particolare, I
‘unica realtà assoluta è quella dell ‘Essere: tutto ciò che è fuori di essa,
non è altro che un’illusione. Tutto ciò che appartiene al divenire, quindi, non
può essere considerato reale, in quanto opposto dell ‘essere e,
conseguentemente, appartenente al mondo dell ‘illusorio.
Nel mondo dei viventi, il ritmo temporale è talmente
rapido che il passaggio dalla nascita alla morte avviene in uno spazio che va
dal fuggente attimo, ai giorni e agli anni, attraverso il susseguirsi di ritmi
molto vari e talmente fugaci, che neanche la velocità del pensiero – il cui
moto è pressoché immediato riesce a cogliere. Non è difficile rendersi conto,
che la successione temporale non può essere analizzabile. Tutti noi ci
muoviamo, e ci realizziamo, in funzione di un obiettivo prefissato non
rendendoci conto, guarda caso, che lo stimolo primario del nostro operato non
scaturisce dal presente, bensì dal futuro. Lo spazio e il tempo potrebbero
essere, pertanto, immaginati come due immensi percorsi autostradali dove il
presente, il passato e il futuro, magicamente fusi, costituiscono il misterioso
e sconcertante scenario. La psiche umana, mistero dei misteri, è la sola che
riesce a compiere in lungo e in largo i percorsi del presente e del passato.
Quella del sensitivo, poi, è la sola a spingersi anche nel futuro.
Il tempo, considerato da sempre un impietoso tiranno, nel
suo incessante procedere, impone a tutti gli esseri umani la legge
irreversibile del suo fluire, che non consente a nessuno di risalirlo
“controcorrente”, anzi: riesce a far apparire come assurdi ed
inaccettabili i fenomeni paranormali, decisamente in contrasto con esso.
Considerando il “tempo” come un semplice
prodotto del continuo mutamento della materia, il filosofo C. D. Broad
sottolinea, molto argutamente, che se non esistessero “enti fisici”
soggetti al divenire, esso non esisterebbe per
l’impossibilità indiscussa di distinguere un “prima” e un
“dopo”. In un universo in cui tutto è immobile, dove non accade nulla
– come cristallizzato – in assenza di mutamenti, non esisterebbe alcuna
differenza tra il passato, il presente e futuro, in quanto identici. Non
sarebbe piu possibile avvertire la successione di istanti diversi, del
trascorrere delle ore, dei giorni, dei secoli, a causa del tempo
“pietrificato”.
E’ indiscusso, quindi, che la vita dell’uomo è dominata
dal fattore tempo e da luoghi comuni come, domani, ieri, lo scorso anno, e da
eventi che sono scanditi dall ‘incessante ritmo dell ‘orologio. Ci illudiamo,
pertanto, che le informazioni relative al mondo del “presente” ci
pervengano dai cinque sensi; nessuno, però, s’accorge che percepiamo, in
verità, sempre e soltanto il “passato”. Quando ci lasciamo rapire
dalla magia di un rosso tramonto, ad esempio, molti non sanno che il disco
solare, giù all ‘orizzonte, è già calato da oltre otto minuti: è, infatti, il
tempo che impiega il suo segnale di luce per coprire la distanza che lo separa
dalla terra. Anche di notte, specie s’è serena, quando il nostro sguardo
contempla il luccichio della volta celeste, ignoriamo, purtroppo, che gran
parte di quelle stelle che brillano lassù, più non esistono: sono morte, e la
luce che giunge a noi, proviene pertanto dal passato.
Appare evidente che vi è sempre un ritardo, anche se
piccolo, tra il verificarsi dell ‘evento e il momento in cui il nostro essere
prende coscienza dell ‘accaduto. Tutto ciò potrebbe spiegarsi con la diversa
velocità con cui viaggiano le informazioni, sia nel nostro sistema nervoso che
fuori di esso.
A questo punto, le svariate possibili sollecitazioni di
mirate visioni retrocognitive, se il passato venisse percepito
contemporaneamente al presente, e con nitidezza di immagini senza pari,
potrebbero determinare nell ‘essere umano uno stato confusionale tale da far
rasentare la follia: stati allucinatori, più conosciuti come psicometria da
ambiente, dovuti proprio alla coesistenza delle due “irreali” realtà.
La realtà del divenire, non si attua in un astratto
succedersi di passato, presente e futuro, ma nella loro sintesi che potremmo
definire generata dal cosmico orgasmo di un organismo in cui coesistono il
mondo animale-umano, minerale e vegetale, uniti indissolubilmente, per I
‘eternità. Potremmo a questo punto,
concludere che I ‘esistenza umana prende forma, si muove e si realizza, in un
mondo popolato di strane presenze: i fantasmi di un passato che col loro
spontaneo, ed a volte provocato, manifestarsi, tendono a condizionare il
futuro.
Si, dev’essere proprio così. Nonostante la consapevolezza
delle esperienze vissute, e le immagini del futuro che il presente a volte
lascia intravedere, l’uomo continua stoicamente il suo cammino…
Chissà perché mai questa tenacia… ? E’ forse questo, I
‘arcano significato del tempo: sfidare Dio, Grande Architetto dell ‘Universo,
per affermare, di conseguenza, il principio del libero arbitrio..