LIBERTÀ E MASSONERIA NELLA SOCIETÀ IN EVOLUZIONE

LIBERTÀ E MASSONERIA NELLA SOCIETÀ IN EVOLUZIONE

MESSAGGIO Dl PRESENTAZIONE

DEL GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D’ITALIA

VEN. FR. VIRGILIO GAITO

Carissimi Fratelli,

In parecchie Nazioni esiste una tendenza a considerare la Massoneria soltanto da un punto di vista filantropico, di associazione che si occupa di soccorrere i poveri, i malati, gli afflitti e questo è senz’ altro una delle cose più belle che la nostra Istituzione possa fare.

Ma dobbiamo riportarci alle nostre antiche tradizioni che si riallacciano alle Corporazioni dei Liberi Muratori costruttori dei templi di pietra. Ad esse sono subentrate le Logge speculative nelle quali i Massoni operano per la costruzione del Tempio ideale in cui l’iniziato si purifica e, giorno dopo giorno, raggiunge sempre più elevati gradi di perfezione e di conoscenza.

E proprio in virtù di questa particolare conoscenza noi siamo in grado di operare realmente al servizio dell’Umanità. Questa – e in particolare i giovani – ha oggi più che mai bisogno dei nostri Ideali.

Veniamo dalle spaventose esperienze di due guerre mondiali, di conflitti  atomici, di deportazioni, genocidi, esperimenti scientifici sconvolgenti, stragi, conflitti etnici e religiosi che hanno pressoché annientato l’ altruismo, la generosità, lo spirito di solidarietà.

Viviamo dunque in un mondo caratterizzato dall’ edonismo, dal consumismo, dalla ricerca dell’ effimero e dalla sete sfrenata di dominio, non solo politico, ma soprattutto delle coscienze e delle scelte economico-sociali dei popoli.

La libertà e la dignità dell ‘uomo vengono disinvoltamente calpestate e la mancanza di cultura rende intere popolazioni facile preda di furbi manipolatori dell’ opinione pubblica e dell ‘ andamento dei mercati.

Noi Massoni, che fin dalla prima esperienza dell ‘ Apprendista abbiamo imparato a distinguere attraverso l’ insegnamento del Maestro Venerabile quale sia la vera Luce, sappiamo che questa significa conoscenza e quindi cultura.

E la cultura è ricerca continua della propria interiorità.

Ma tale ricerca può essere compiuta soltanto se si possiede la libertà.

Ma la libertà non può dissociarsi dalla dignità che si fonda sul rispetto profondo di se stessi e degli altri e su un convinto spirito di tolleranza.

Sono dunque queste conquiste straordinarie che un uomo può raggiungere nella sua vita e sono quelle che lo pongono in una posizione superiore e distaccata da cui egli può osservare con estrema obiettività tutte le problematiche del mondo che lo circonda individuandone gli aspetti negativi e le possibilità di soluzione.

Questa nostra caratteristica peculiare ci carica di una responsabilità verso l’ Umanità perché quell’ altruismo al quale ci ha esortato il Maestro Venerabile al momento della nostra Iniziazione deve spronarci a mettere a disposizione, non solo degli altri Fratelli, ma dell ‘ intero mondo profano, il patrimonio di conoscenze sublimi acquisito e di indicare con l’autorevolezza della straordinaria forza morale conquistata, la via del miglioramento e della salvezza degli uomini.

E questo compito deve essere sentito da ciascuno di noi in tutti gli aggregati sociali di cui facciamo parte apportando in essi il nostro equilibrio, la nostra preparazione, il nostro senso dello Stato. Ma in ogni nostra azione dobbiamo evitare di coinvolgere la nostra Istituzione come tale.

La Massoneria infatti non deve essere mai coinvolta in questioni di politica partitica o istituzionale, né in dispute religiose o teologiche perché essa deve rappresentare il centro di aggregazione di tutti gli uomini liberi e dediti al bene e al progresso dell’ Umanità.

In questo senso appare sempre valido il principio elaborato da Anderson che vieta le discussioni di politica e di religione nelle Logge. Tuttavia, poiché viviamo nel cosiddetto VILLAGGIO GLOBALE dove aspirazioni, bisogni, regole di convivenza sono ormai comuni a una moltitudine di uomini, i Massoni puri, che si riconoscono nella pratica e nella credenza degli stessi ideali, hanno il dovere di scambiarsi notizie, opinioni, suggerimenti per aiutarsi a vicenda nella ricerca delle soluzioni più idonee a beneficio di tutti.

 Queste riflessioni, che già esprimemmo al II Convegno nazionale dei Gran Maestri tenutosi a Lisbona nel settembre 1996, sono oggi alla base del Simposio che il Grande Oriente d’Italia ha organizzato a Roma per i giorni 14, 15 e 16 novembre 1977.

In preparazione del III Congresso che avrà luogo a New York nel maggio 1998, abbiamo ritenuto molto importante che il Simposio di Roma dibatta principalmente il tema della “Libertà e Massoneria nella società in evoluzione” perché la libertà è connaturata al modo di essere del Massone ed è il bene ineludibile sul quale si fonda da sempre ogni società.

Poiché però il mondo del Terzo Millennio sembra avviato verso traguardi che non consentono l’ eguale realizzazione, con pari dignità, delle legittime e pure aspirazioni degli individui e dei popoli verso un mondo migliore e qualificato da vera fraternità, è indispensabile ed urgente che i Massoni riflettano sulla necessità che il valore essenziale della libertà venga difeso e fatto entrare nella coscienza di tutti a difesa del reale progresso dell ‘umanità.

Siamo certi che ognuno dei partecipanti al Simposio porterà il contributo della propria esperienza e dei propri saggi suggerimenti affinché la Massoneria possa essere sempre più apprezzata come apportatrice di pace, amore e unione nell’uguaglianza.

Arrivederci dunque a Roma a novembre. Fraternamente e sinceramente,

GRAN MAESTRO  Virginio Gaito

 

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A TUTTI DICO SOLO GRAZIE

A TUTTI DICO SOLO GRAZIE


Carissirni Fratelli

Essere stato alla guida del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani è stata per me un’esperienza alta, tensa e gratificante, che serberò con grande orgoglio e gratitudine per sempre in un angolo importante del mio cuore. Sono passati dieci anni da quel 6 aprile del 2014, quando alla Gran Loggia di Rimini, indossai la collana di Gran Maestro e mi fu consegnato il supremo maglietto, altro importante simbolo di una tradizione che si perpetua nel nostro amato Ordine.

Stavolta è toccato a me insediare il nuovo Gran Maestro, il carissimo fratello Antonio Seminario, cui spetterà  l’onore e l’onere insieme agli altri membri della nuova Giunta, di governare la Comunione e continuare e migliorare I’Opera, Sono certo che sapranno farlo con la loro esperienza, con le loro energie e le loro capacità; sapranno svolgere il loro ruolo con Saggezza, Bellezza e Forza. Sono certo perché in questi anni sono stati accanto a me ed io accanto a loro. Siamo stati una squadra: mano con mano, piede con piede, ginocchio con ginocchio, petto con petto, spalla con spalla. Abbiamo sorriso e abbiamo pianto, Sì perché il decennio e stato tumultuoso romantico, complicato, entusiasmante. Fra i più  difficili ricorderò sempre la perquisizione della Guardia di Finanza al Vascello su mandato della Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi per il sequestro degli elenchi degli iscritti di Sicilia e Calabria. Ma anche il periodo della Pandemia che tutti insieme abbiamo

“A tutti dico solo Grazie…”

superato alla grande sostenendo i fratelli più bisognosi con l’iniziativa dei Mattoni della Fratellanza.

Fra le tante cose belle anche il ripristino del conoscimento al Grande Oriente d’Italia da parte della Gran Loggia Unita d’Inghilterra ed anche l’aver riaperto con buone chances di successo la vecchia e mai affrontata questione di Palazzo Giustiniani col Senato della Repubblica.

Come non ricordare poi con fierezza il fatto che la Gran Loggia e il Vascello sono stati straordinari luoghi d’incontro e di dialogo con uomini e donne molto apprezzati nel Paese, Hanno conosciuto da vicino i massoni e ci hanno onorato con parole di stima. Tante cose belle sono state fatte e tante altre si potevano fare, magari anche meglio. Anche peggio. Noi abbiamo operato sempre mettendoci tanto pegno, Abbiamo consentito al Vascello degli uomini liberi, forti e coraggiosi di solcare acque tranquille anche quando il mare era tempestoso.

Ora che la rotta del futuro è ben tracciata e il mio mandato si è concluso spesso mi guardo indietro in un intreccio di emozioni che porterò sempre vive in me.

Come mi torna sempre in mente il primo giorno, quello della mia iniziazione. Sono passati 41 anni e mezzo dal 24 settembre dell’82 quando salii le scale di quel palazzo austero ed elegante di via Montanini 1 01 per essere iniziato nella loggia Montaperti numero 722 aL l’Oriente di Siena.

Come Rudyard Kipling, splendido esempio di fratellanza, di cosmopolitismo, di tolleranza, di cui prendo a prestito quella magnifica poesia dal titolo la loggia madre, rivedo anch’io con la memoria le facce di coloro che mi accolsero. Cerano Marco il venerabile, Romano l’oratore, e tra le colonne Guido e Roberto i giornalisti, Nilo il bancario, Carlo e Graziano i dentisti, Franco e Cesare i medici condotti, Beppe il cardiochirurgo,  Pierguido il filatelico, Mario l’informatore farmaceutico, Luigi il geometra e Dino il pensionato del distretto militare,

È la mia loggia madre ed è la loggia alla quale tuttora appartengo e nella quale tornerò a vorare con gioia ed impegno. Con la Bellezza di chi ha svolto il suo compito con coscienza, responsabilità e forza e con l’amore che mi lega a tutti i fratelli del Grande Oriente d’Italia, vero bene supremo della più antica Obbedienza massonica del nostro Paese. A tutti dico solo Grazie,

Stefano Bisi

Ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Palazzo Giustiniani


Carissirni Fratelli

Essere stato alla guida del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani è stata per me un’esperienza alta, tensa e gratificante, che serberò con grande orgoglio e gratitudine per sempre in un angolo importante del mio cuore. Sono passati dieci anni da quel 6 aprile del 2014, quando alla Gran Loggia di Rimini, indossai la collana di Gran Maestro e mi fu consegnato il supremo maglietto, altro importante simbolo di una tradizione che si perpetua nel nostro amato Ordine.

Stavolta è toccato a me insediare il nuovo Gran Maestro, il carissimo fratello Antonio Seminario, cui spetterà  l’onore e l’onere insieme agli altri membri della nuova Giunta, di governare la Comunione e continuare e migliorare I’Opera, Sono certo che sapranno farlo con la loro esperienza, con le loro energie e le loro capacità; sapranno svolgere il loro ruolo con Saggezza, Bellezza e Forza. Sono certo perché in questi anni sono stati accanto a me ed io accanto a loro. Siamo stati una squadra: mano con mano, piede con piede, ginocchio con ginocchio, petto con petto, spalla con spalla. Abbiamo sorriso e abbiamo pianto, Sì perché il decennio e stato tumultuoso romantico, complicato, entusiasmante. Fra i più  difficili ricorderò sempre la perquisizione della Guardia di Finanza al Vascello su mandato della Commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi per il sequestro degli elenchi degli iscritti di Sicilia e Calabria. Ma anche il periodo della Pandemia che tutti insieme abbiamo

“A tutti dico solo Grazie…”

superato alla grande sostenendo i fratelli più bisognosi con l’iniziativa dei Mattoni della Fratellanza.

Fra le tante cose belle anche il ripristino del conoscimento al Grande Oriente d’Italia da parte della Gran Loggia Unita d’Inghilterra ed anche l’aver riaperto con buone chances di successo la vecchia e mai affrontata questione di Palazzo Giustiniani col Senato della Repubblica.

Come non ricordare poi con fierezza il fatto che la Gran Loggia e il Vascello sono stati straordinari luoghi d’incontro e di dialogo con uomini e donne molto apprezzati nel Paese, Hanno conosciuto da vicino i massoni e ci hanno onorato con parole di stima. Tante cose belle sono state fatte e tante altre si potevano fare, magari anche meglio. Anche peggio. Noi abbiamo operato sempre mettendoci tanto pegno, Abbiamo consentito al Vascello degli uomini liberi, forti e coraggiosi di solcare acque tranquille anche quando il mare era tempestoso.

Ora che la rotta del futuro è ben tracciata e il mio mandato si è concluso spesso mi guardo indietro in un intreccio di emozioni che porterò sempre vive in me.

Come mi torna sempre in mente il primo giorno, quello della mia iniziazione. Sono passati 41 anni e mezzo dal 24 settembre dell’82 quando salii le scale di quel palazzo austero ed elegante di via Montanini 1 01 per essere iniziato nella loggia Montaperti numero 722 aL l’Oriente di Siena.

Come Rudyard Kipling, splendido esempio di fratellanza, di cosmopolitismo, di tolleranza, di cui prendo a prestito quella magnifica poesia dal titolo la loggia madre, rivedo anch’io con la memoria le facce di coloro che mi accolsero. Cerano Marco il venerabile, Romano l’oratore, e tra le colonne Guido e Roberto i giornalisti, Nilo il bancario, Carlo e Graziano i dentisti, Franco e Cesare i medici condotti, Beppe il cardiochirurgo,  Pierguido il filatelico, Mario l’informatore farmaceutico, Luigi il geometra e Dino il pensionato del distretto militare,

È la mia loggia madre ed è la loggia alla quale tuttora appartengo e nella quale tornerò a vorare con gioia ed impegno. Con la Bellezza di chi ha svolto il suo compito con coscienza, responsabilità e forza e con l’amore che mi lega a tutti i fratelli del Grande Oriente d’Italia, vero bene supremo della più antica Obbedienza massonica del nostro Paese. A tutti dico solo Grazie,

Stefano Bisi

Ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Palazzo Giustiniani

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IL RUOLO DELLA SCIENZA E DELLA CULTURA NEL MONDO DI DOMANI

IL RUOLO DELLA SCIENZA E DELLA CULTURA NEL MONDO DI DOMANI

di

Baldo Conti

Introduzione

Il presente contributo, sul futuro ruolo della scienza e della cultura, non sarà certo dei più facili, almeno se si vuole “rimanere” con i piedi in terra, senza sconfinare nella retorica e nel “già detto”, ma cercherà comunque – nei limiti del possibile – di essere un concreto ed originale aiuto per la soluzione dei nostri travagli esistenziali, non certo “gratuiti” e fittizi, come un esclusivo fatto culturale, ma effettivi. Contemporaneamente il nostro impegno sarà anche quello di non far stancare e distrarre i lettori più del necessario, considerata anche la presunta astrusità dell’argomento non da tutti facilmente “digeribile”

Come sempre, in qualsiasi contesto ci troviamo, occorre definire fin dall’inizio e mettersi d’accordo sul significato che si intende dare alle nostre parole. In questo caso è d’ obbligo chiarire cosa si intende per “scienza” e cosa per “cultura”. Spesso riteniamo di conoscere sufficientemente bene il significato delle parole che usiamo, ma in frequenti occasioni siamo costretti a registrare la nostra “ignoranza”, in altri contesti riteniamo che il significato che noi diamo ad un termine sia lo stesso dei nostri interlocutori, ma non sempre è così e molte delle incomprensioni e delle discussioni derivano anche da una differente interpretazione dei significati di parole e concetti. Per “scienza” (dal latino “sapere”) dobbiamo intendere il risultato di operazioni del pensiero come oggetto di codificazione su piani teorici ed applicativi in ambito pratico; conoscenza esatta e ragionata acquisita grazie allo studio ed all’esperienza; insieme di discipline essenzialmente fondate su calcoli ed osservazioni; complesso organico e sistematico di conoscenze di cui si dispone intorno ad un determinato ordine di fenomeni. In sintesi, possiamo definire la scienza quell’insieme di cognizioni che abbiamo la possibilità di acquisire in base allo studio, all ‘osservazione ed all’esperienza diretta e risultanti da precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura posti anche su molteplici livelli.

Per “cultura” (sempre dal latino, “culto”, “cultura”) dobbiamo intendere invece il complesso armonico delle cognizioni di una persona, formato dalla propria sensibilità, dalla propria esperienza, da tradizioni, procedimenti tecnici e tipi di comportamento; tutto ciò che concorre alla formazione individuale sul piano intellettuale e morale ed all’acquisizione della consapevolezza del ruolo assunto nella società; “patrimonio” di conoscenze. In sintesi, la cultura è il nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandatoci, è il substrato indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è l’origine ed il punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche l’unica nostra “vera” proprietà che nessuno ci potrà mai usurpare, e tutto questo sia a livello personale sia come popolo sia come etnia.

Stabilito il significato da dare a “scienza” e “cultura” – e su questo almeno, c’è da ritenere, dovremmo concordare tutti, perché le definizioni sono un fatto di lingua e non sono un’opinione ed in ogni caso è questo il significato attribuito in questo nostro contesto a questi due termini – addentriamoci un po’ più profondamente nell’esame del problema posto, non perdendo mai di vista il fatto che siamo massoni, ma anche “italiani”, con tutti i nostri pregi ed i nostri, e non sono pochi, difetti. Di conseguenza nel corso del nostro esame dovremmo dimostrare, più che altro a noi stessi, anche di essere uomini liberi e di buoni costumi, aperti alle novità e proiettati nel futuro, non troppo ancorati e schiavi del passato e delle tradizioni che spesso sono un substrato insostituibile ma anche un peso dal quale è difficile liberarsi, non afflitti da pregiudizi e da preconcetti, lontani da integralismi e da dottrine dogmatiche di qualsiasi tipo, ma sempre animati invece da quell’indistruttibile senso di civiltà e di miglioramento individuale e collettivo che dovrebbe distinguerci, disposti sempre fraternamente verso il prossimo che, ricordiamolo, non è composto solo dall’uomo ma da tutto ciò che ci circonda e che comprende animali, piante e tutta la natura, “inanimata” compresa.

Come in ogni ricerca seria che si rispetti, prenderemo prima in considerazione il ruolo della scienza e poi quello della cultura, secondo l’ordine della loro apparsa nel titolo, accennando per forza anche un po’ al nostro passato ed al nostro presente, e successivamente trarremo le nostre conclusioni se riusciremo ad individuarne qualcuna, con l’augurio di poter stilare una bozza di comportamento da utilizzare in un eventuale futuro anche se, di questo prossimo terzo millennio, i più fortunati di noi riusciranno ad intravederne solo l’inizio. Ma come già affermato in altre occasioni ciò che conta è stabilire la nostra “buona rotta” e proseguire nella direzione che riteniamo giusta senza preoccuparci troppo di quanta strada riusciremo a poter percorrere.

La scienza

Abbiamo accennato in precedenza che possiamo definire la scienza come quell’insieme di cognizioni che abbiamo la possibilità di acquisire in base allo studio, all’osservazione e all’esperienza diretta e risultanti da precisi calcoli e deduzioni su fenomeni di varia natura posti anche su molteplici livelli. E vediamo il perché. Fin dagli albori della storia umana che conosciamo, ma sicuramente anche molto prima dell’epoca “storica”, I ‘uomo si è sempre confrontato con la ricerca e la scienza e si presume, spesso, anche senza rendersene conto. La “scoperta” della ruota e del fuoco, la fusione dei metalli, l’utilizzazione della forza di gravità, la selezione delle razze animali per allevamento – ma potremmo fare un elenco molto lungo – sono stati un approccio empirico al mondo scientifico del quale l’uomo primitivo ne ignorava presumibilmente anche I ‘esistenza come già detto.

Le varie “discipline” furono ancora indagate ed approfondite, ma potremo dire sempre in maniera per noi oggi “superficiale” ed approssimativa e non certo sistematica, fino ad arrivare a Galileo Galilei (1564-1642) che – con i suoi studi di geometria, astronomia e fisica – può senz’altro essere considerato il primo ed effettivo scienziato “moderno”. Con lui ebbe inizio infatti l’attuale metodo sperimentale che ancor oggi è di base a qualsiasi tipo di ricerca scientifica e che sicuramente lo rimarrà per molto, molto tempo ancora. Partendo da Galileo e dalla sua teoria del “sistema eliocentrico” si è avuta una vera e propria esplosione nella ricerca e nella sperimentazione in tutti i campi e, con l’aiuto della tecnica a disposizione, sono state raggiunte mete impensabili, specialmente in questi ultimi anni, nella chimica, nella medicina, nella fisica, nelle conquiste spaziali e nelle discipline scientifiche in generale.

La visione galileiana della natura ci ha aperto le porte verso un mondo nuovo, immenso nei confini e nelle esperienze, senza limiti nel tempo e nello spazio e quindi senza limite in tutte le direzioni. L’uomo in breve tempo si è riscattato dalla fatica, in parte dalla “paura” ed ha raggiunto una posizione di supremazia nei confronti di tutto il resto del creato. Anche se il sogno di poter “dominare” la natura rimane fortunatamente ancora un sogno, l’uomo si trova comunque davanti un futuro fitto di incognite, di interrogativi e di nuovi tipi di paure. Il timore di non poter disporre pienamente dei “giocattoli” che si è costruito, che qualcosa possa sfuggirgli di mano, che non riesca a conoscere fino in fondo ciò a cosa potrà andare incontro con le sue “scoperte”, lo rendono parzialmente dubbioso, interdetto ed impaurito.

Per questa ragione ampi dibattiti si sono aperti sull’opportunità di proseguire alcuni tipi di ricerca ed in questa controversia, a torto o a ragione, si sono inserite forze politiche, industriali e religiose. Ma forse qui, qualcosa non è stata veramente afferrata nel senso giusto: il principio di scienza e ricerca cosiddetta “pura” in contrapposizione all ‘utilizzazione pratica dei loro risultati. Vediamo perché. Innanzi tutto c’è una distinzione doverosa da fare ed è quella di dividere la ricerca “pura” appunto da quella “applicata”. Per pura si intende la ricerca “fine a se stessa”, per esempio: il matematico che risolve un problema astratto di formule e che si era posto il problema “gratuitamente” senza alcuna “necessità” (anche se in seguito la soluzione potrà avere un ‘applicazione pratica), lo studio di Galileo sulle oscillazioni di un pendolo, perché incrociando una gallina bianca ed un gallo nero abbiamo dei pulcini bianchi, altri neri, ed altri ancora bianchi e neri (o grigi) in numero costante e sufficientemente prevedibile. Per applicata si intende invece quella ricerca che viene appositamente finanziata con uno scopo preciso ed al fine di ottenere dei risultati che diano un utilizzo immediato e remunerativo come la produzione di un antiparassitario utile ad un certo tipo di pianta, la possibilità di mettere in commercio un antibiotico specifico per un certo tipo di malattia, la costruzione di un razzo e di un satellite per I ‘utilizzazione nelle telecomunicazioni. Ed in genere, come già accennato, questo tipo di ricerca è sempre sostenuto finanziariamente perché dia risultati immediati, attesi ed utili, altrimenti l’appoggio ed il finanziamento decadono.

Quasi sempre – specialmente per coloro che non sono “addetti ai lavori” – c’è una grande confusione di idee in proposito. In genere non si riesce mai a distinguere le differenze esistenti tra i due “sistemi” che pure appaiono macroscopiche, ma si ritiene invece, erroneamente, che siano la stessa cosa, che la scienza e la ricerca scientifica siano di un unico tipo. Ma non è così.

                          La ricerca pura dovrebbe essere “intoccabile” in quanto porta sicuramente avanti l’umanità nel suo processo evolutivo, tende esclusivamente ad appurare le ragioni di alcuni fenomeni altrimenti inspiegabili, soddisfa fino “a prova contraria” con il supporto di teorie ed ipotesi e, diciamolo pure, anche con la filosofia, tutte le curiosità ed i problemi che l’uomo si pone sia in ambito materiale sia spirituale.

La scienza o ricerca applicata è ben altra cosa. E’ l’utilizzazione parziale di alcuni risultati della ricerca pura, è finanziata e finalizzata esclusivamente per scopi precisi quasi sempre commerciali, spesso intacca certi tipi di “morale” in quanto produce qualcosa che “disturba” (specialmente da un punto di vista economico) alcune classi o “caste” di cittadini, cerca esclusivamente un utile non essendo altro che un tipo di “investimento” a carattere finanziario.

E’ evidente che, esclusi per ragioni ovvie, coloro che sono interessati direttamente in imprese di ricerca finalizzata in senso applicativo, l’unica “scienza” che noi, come massoni, dobbiamo prendere in seria considerazione è solo quella pura che è a noi amne e risponde più ai nostri ideali ed alla nostra ricerca interiore. L’altra, l’applicativa, potrà coinvolgerci solo marginalmente ed in ambito profano (è più un qualcosa che riguarda professionalmente i tecnici, i medici, l’industria) e solo nel caso in cui provochi effettivamente dei traumi sociali e non ci costringa a fare un calcolo di spese e ricavi.

Ma ricordiamola sempre questa distinzione. La scienza “pura” – come dice appunto il termine – è pura, è composta di idee, di “buone” intenzioni, di progresso conoscitivo, di filosofia, di intuito, è un processo creativo e di conseguenza anche artistico, quindi non “criticabile” come principio e come “servizio” che rende a tutta l’umanità.

La cultura

Come indicato nell ‘Introduzione la cultura è il nostro bagaglio spirituale, appreso o tramandato che sia, è il substrato indispensabile alla nostra vita materiale ed intellettuale, è I ‘origine ed il punto di partenza del nostro comportamento e della nostra morale, è il nostro patrimonio proprio nel senso di ricchezza interiore ed è anche I ‘unica proprietà – come già detto – che nessuno ci potrà mai portare via, e tutto questo sia a livello personale sia come popolo e come etnia. Ed anche qui vediamo perché. Innanzi tutto dobbiamo accennare al fatto che secondo alcuni studiosi è possibile distinguere la “cultura” umana (e quindi animale) sotto molteplici modalità, ma almeno tre sono gli aspetti principali: (l) cultura di origine “genetica”, cioè ereditata insieme al nostro corredo cromosomico ed a tante altre cose utili, dove non è concesso ad alcuno di poter intervenire (salvo forse oggi a seguito di operazioni di ingegneria genetica o di mutazioni imprevedibili); (2) cultura tramandataci dal nostro “gruppo” e dalla nostra famiglia; e (3) cultura appresa per esperienza diretta.

  • La cultura trasmessaci geneticamente potremmo considerarla anche come qualcosa a livello di istinto ed è tutto ciò che noi utilizziamo appena nati e – come già accennato è comune anche a tutti gli animali. Rientrano in questo ambito, per esempio, la ricerca da parte del piccolo del seno materno, il pianto – sempre del piccolo – come “avviso” di qualcosa che non funziona, il carattere che ci ritroviamo, la predisposizione al sorriso o al broncio, e così via, che sono tutti atteggiamenti e comportamenti selezionati nel  tempo, nei millenni, e “scelti” dalla natura per essere tramandati nel tempo proprio perché vantaggiosi alla nostra specie (come si usa dire in ambito etologico).
  • La cultura tramandaci dal “gruppo” e dalla famiglia in genere, è senza dubbio più efficace secondo alcuni, meno secondo altri (la discussione su questa controversia è senza fine ed è già stata affrontata in Tavole ed articoli) ed è da considerare sicuramente come “cultura di seconda mano”. La ragione è semplice. Come è stato appurato in ambito scientifico il corredo cromosomico di un individuo è un qualcosa di unico ed irripetibile e personale come lo sono, per esempio, le impronte digitali. Ed è inoltre da considerare proprio di seconda mano perché ci è stata “tramandata”, in un certo senso ci è stata proprio “imposta” dagli altri: dalla nostra etnia (intesa come razza, area geografica), dal nostro “gruppo” (nazione, discendenza regionale), dalla nostra famiglia (amici e conoscenti stretti compresi), sotto forma. di usi, costumi, abitudini, tabù, sensi di peccato e di paura, e così via.
  • La cultura appresa per esperienza diretta che è quella che dovrebbe essere effettivamente poi la nostra, quella personale, quella che in qualche maniera noi abbiamo scelto ed adottato perché rispondente alle nostre personali necessità. E’ la cultura che abbiamo selezionato nel corso della nostra vita e che ci è costata molta fatica, con grandi o piccole vittorie e grandi o piccole delusioni. E sono proprio le esperienze le più tragiche, le più dolorose e catastrofiche che risulteranno sempre le più utili, indelebili e rimarranno impresse molto bene nel nostro patrimonio culturale, nella nostra memoria, e saranno quindi sempre presenti nell’approccio ad altre esperienze successive.

Tutti e tre questi tipi di cultura formeranno, è ovvio, il nostro cosiddetto “bagaglio” culturale parte ereditato ed in parte costruito – che ci portiamo dietro da sempre, modificabile e modificato tutti giorni, anche se forse non siamo in grado di rendercene conto in modo così evidente. Solo in rare occasi01 ed a certi tipi di “scadenze” (in caso di malattie, di traumi improvvisi, di “sconvolgimenti” di varia origine noi realizziamo che la nostra cultura e noi stessi ci siamo modificati (evoluti) rispetto al passato.

Infine, per la cultura, anche se più difficile forse da individuare, possiamo distinguere – come per I scienza – due tipi di sistemi: quello della cultura “pura” e quello applicativo. Più difficile l’individuazione del suo duplice aspetto proprio perché più labile ed indeciso il confine di separazione anche se, I commercializzazione della cultura assurta a fini industriali dovrebbe essere qualcosa di più evidente tangibile e quindi più facilmente individuabile.

Abbiamo già in precedenza acquisito il principio di cultura nel suo senso “puro” e possiamo dire che la sua parte applicativa è già stata sufficientemente sviscerata quando abbiamo affrontato in passato il problema della “informazione”. L’informazione infatti possiamo identificarla con la cultura “applicata” il quanto non risulta essere altro che cultura “manipolata” a fini socio-politici e quindi commerciali e industriali, ed inversamente, la cultura applicata non è altro che informazione mirata a scopi “profani” ber precisi. E non è quindi il caso di soffermarcisi oltre, anche perché è augurabile che a suo tempo sia stato ben compreso il suo meccanismo.

L’editoria, i film, la TV e tutti le fonti informative sono il supporto necessario a questa cultura. informazione applicativa che non è detto debba per forza essere un qualcosa di negativo, di anti- cultura, di dannoso: sarebbe un pregiudizio pericoloso. Possiamo però fare un identico parallelo come abbiamo già fatto per la scienza.

Conclusione

Dopo tutto quanto esposto, cerchiamo di trarre delle conclusioni adeguate ed utili sia come massoni all’interno dei nostri Templi, sia come uomini comuni proiettati nella nostra società civile e nel futuro e se non altro per l’impegno costante nello studio, nella ricerca interiore e nell’introspezione; ancor più poi, certamente, da quella di cittadino qualsiasi nella nostra società più o meno laica e civile. Innanzi tutto, non sembra proprio che il concetto di scienza e di cultura dovrebbe cambiare nel mondo di domani e forse anche nei millenni successivi. Certo, potranno cambiare i dettagli e le tecniche di acquisizione della cultura e del sapere scientifico, ma i principi essenziali e I ‘esigenza di queste due “discipline” saranno necessariamente immutate. Non vedo come potremmo pensare una cultura ed una scienza differenti da come noi la intendiamo oggi, diversamente la cultura non sarebbe più cultura e la scienza non più scienza, ma sarebbero due cose con significati differenti dagli attuali e quindi presumibilmente anche con definizioni e lemmi differenti.

Quindi, è presumibile, che la funzione della scienza e della cultura continuerà ad essere identica a quella avuta nei millenni precedenti, precedenti anche alla nascita di Cristo, sicuramente. Queste due “intuizioni” umane, c’è da ritenere, rimarranno in vita fino a quando l’uomo rimarrà quello che è, e visto che i suoi cambiamenti “strutturali” e “psicologici” si verificano molto lentamente e nel corso di migliaia se non milioni di anni, la vita dell’uomo dovrebbe proseguire anche nel prossimo millennio “tranquillamente frenetica” ed “angosciata” come si è sviluppata fino ad oggi.

Come abbiamo avuto la possibilità di intuire da quanto affermato in precedenza, due sono i concetti che dobbiamo tenere ben distinti e nettamente separati e non quelli di scienza e di cultura, ma di scienza-cultura “pura” e scienza-cultura “applicata”. I due significati “puri” possono senz’altro essere condivisibili sia dalla nostra Istituzione sia dai Fratelli massoni perché ci portano a considerare ed assumere la storia dell ‘uomo fino ad oggi e sono le premesse per un domani che tutti noi ci auguriamo certamente migliore.

                                                                                                                     

Meno condivisibili e sicuramente meno interessanti da tutti i punti di vista – in antitesi – la scienza-cultura “applicata”, almeno come base di esame e di studio da sviluppare all ‘interno dei nostri Templi. Le vicende umane di vita giornaliera in ambito “profano”, sono molteplici, complesse ed imprevedibili, spesso anche spiritualmente poco interessanti; condotte, finanziate, vendute ed utilizzate nelle maniere più disparate nelle varie società del sistema umano e come già osservato in precedenza, da prendere in veloce considerazione solo in caso di gravi “attacchi” alla integrità della natura e dell’esistenza della vita stessa, oppure solo nel caso nel quale il nostro interesse in ambito profano, ma solo profano, fosse indirizzato verso il sistema applicativo. Ed in questi casi le soluzioni dovrebbero essere tutte ovvie e facili da prendere.

L’umanità affronterà questo nostro nuovo terzo millennio e c’è da credere in maniera non molto differente dai precedenti. Da un punto di vista “economico”, avrà debellato tante malattie ma altre sono già pronte in agguato per sostituirle ed entrare in azione, avrà allungato sì la vita dell ‘ individuo ma a “spese” – come sembra – dei più giovani, si sarà liberato quasi completamente dalla fatica ma dovrà sudare ugualmente nelle palestre, avrà una vita più comoda ma sarà prevedibilmente “disturbata” dalla noia e forse come ci dicono alcune discutibili ma pur preoccupanti statistiche – dall’aumento dei suicidi, si sarà inoltrato ancor più nello spazio su satelliti e pianeti ma forse senza aver compreso ancora la sua posizione effettiva nell’universo e senza aver trovato risposta ai tanti “perché”.

Infine, dal punto di vista definibile “puro” l’uomo, con l’aiuto della scienza, della cultura e di tutte le altre discipline che si è “inventato” – grazie a quelle sue grandi ed uniche doti nel mondo “animale”, che sono la fantasia e la capacità di astrazione – ci auguriamo che possa raggiungere quella “felicità” alla quale ha sempre aspirato e che non è altro poi che il raggiungimento del suo equilibrio interiore, nonostante gli “applicativi” sostengano esattamente il contrario. Il raggiungimento di questo equilibrio è sicuramente un processo che possiamo ritenere individuale, probabilmente già raggiunto da tanti grandi uomini in passato, e comunque raggiungibile solo con la effettiva consapevolezza della propria entità e posizione nel mondo e nell’universo che ci circonda. •

                                                                                                                                                                         A. Di Prinzio

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QUANDO ABRAMO ERA UN ARAMEO ERRANTE

                               QUANDO ABRAMO ERA UN ARAMEO ERRANTE

di

Biasco Mucci

Premessa

Francesco Maria Arouet detto Voltaire apre il suo “Dizionario filosofico”, documento di importanza fondamentale per la storia politica e morale universale, con “Abramo” (Abraham) e certamente non perché la lettera “A” è la prima dell’alfabeto ma per le ragioni che si affretta ad esporre immediatamente dopo. Testualmente: “Abramo è uno dei personaggi più celebri in Asia minore e in Arabia, come Thotfra gli egiziani, Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del settentrione e tanti altri assai noti per le loro vicende storiche. Parlo, s ‘intende, della storia profana

Proprio il lato storico profano è opportuno esaminare e analizzare, distinguendolo dal contesto religioso e dogmatico e separandolo dalla leggenda, ampiamente divulgata ed enfatizzata, che tutta la vita e le opere di Abramo siano state stabilite e dirette da una volontà trascendente. Sfugge la ragione che per realizzare i disegni dell ‘Onnipotente sia stato prescelto un “arameo errante”, obbediente sino a rendersi esecutore di azioni crudeli e irrazionali, privo di una personale capacità di giudizio e che assurge a capostipite di due popoli che si vantano di discendere dai suoi “virili lombi’

A giudicare le cose solo in base agli esempi della nostra storia moderna, risulterebbe molto difficile stabilire che Abramo sia stato il progenitore di due nazioni così differenti. L’unica caratteristica che accomuna gli ebrei e gli arabi, i primi discendenti da Giacobbe, nipote di Abramo, e i secondi da Ismaele, figlio di Abramo, è che entrambe le razze sono state razze di predoni. Ma i predoni arabi sono stati molto superiori ai predoni ebrei. Infatti, mentre i discendenti di Israele non hanno conquistato che un piccolo paese, che poi hanno perduto e non ancora oggi stabilmente riconquistato, i discendenti di Ismaele, cacciando gli ebrei dalle loro spelonche che essi chiamavano la “Terra promessa”, hanno ancora oggi saldamente possesso, in gran parte dell’Asia dell’Europa e dell’Africa, di un impero più vasto di quello che fu quello romano.

La storia

Un tempo era opinione generale che Abramo discendesse direttamente da un popolo nomade, un popolo che viveva di pastorizia, lontano dalle grandi città e dalle regioni densamente popolate. Tuttavia se egli nacque, come indica la Bibbia ad Ur dei Caldei, allora crebbe in una delle più grandi, progredite e importanti città del mondo antico. Ur era infatti un fiorente centro commerciale e politico molto prima che Abramo nascesse, e tale restò a lungo anche dopo la sua morte. Gli studiosi hanno creduto per molto tempo che Ur si trovasse, in quel periodo, assai più vicina alle rive del Golfo Persico, ma ricerche recenti hanno dimostrato che la linea costiera era quasi identica a quella di oggi. La città si trovava sulla riva dell’Eufrate, in cima ad una altura artificiale e, racchiusa da mura enormi, pullulava di oltre duecentocinquantamila abitanti. Essa giaceva su un’isola delimitata dal fiume e da un canale che, grazie a una rete di altri canaletti, forniva acqua a una vastissima pianura irrigata. Questa pianura comprendeva campi coltivati a cereali, orti e palme da dattero, giacché le bocche da sfamare, nella città sovraffollata che si trovava al centro, erano molte. Per tutta quella zona agricola erano disseminate fattorie, borghi e villaggi.

Entro le sue robuste mura, Ur era un enorme e intricatissimo labirinto di stradine anguste, la maggior parte delle quali non superavano i due metri e mezzo di larghezza. Lungo tali vicoli si allineavano, sui due lati, senza interruzione, file di case quasi tutte prive di finestre. Si trattava quasi sempre di costruzioni cubiche, a due piani, col tetto piatto, erette attorno ad un cortile centrale, su cui le stanze si aprivano per ricevere aria e luce.

Al piano terreno erano disposti i locali destinati ad uso pubblico, e talvolta adoperati per tesservi, per lavorarvi metalli o compiervi altri mestieri. Le camere da letto si trovavano al primo piano e la vita familiare si svolgeva in gran parte sul tetto, riparato da tende.

Così suonano ai nostri orecchi, da oltre tremila anni, le parole della Bibbia: “Tareh adunque prese Abramo suo figlio, e Lot figlio del figlio suo Aran, e Sarai sua nuora moglie del figlio suo Abramo, e li condusse fuori da Urdella Caldea “. (Genesi, I l, 31).

Tareh, padre di Abramo, apparteneva presumibilmente alla classe media, cioè a quella dei mercanti, e la sua doveva essere una bella casa, se si pensa che contava dalle dieci alle venti spaziose stanze. Probabilmente suo figlio frequentò una scuola pubblica, dove imparò a leggere, scrivere e fare di conto e non è da escludere che imparasse anche un mestiere. Abramo raggiunse la maggiore età in uno dei centri più civili e progrediti del tempo. Perché mai allora suo padre raccolse le proprie cose e, con un viaggio di quasi mille chilometri, si trasferì a Haran, nell ‘estremo nord della valle dell’Eufrate? Il quesito non ha risposta sicura, ma l’archeologo Leonard Woolley, che rinvenne molte cose interessanti nei resti della città di Ur, ritiene di averne scoperta una valida nelle cappelle di famiglia, incorporate in tutte abitazioni salvo le più povere, in cui si venerava un “dio della famiglia” Tale culto era nuovo al tempo di Abramo, e il fatto che per gli abitanti di Ur questo dio familiare divenisse più importante del dio Luna — il cui culto si accentrava nello ziqqurat, l’immenso tempio turrito dominante la città  potrebbe avere indotto Tareh e la sua famiglia a trasferirsi a Harran, altro centro del dio Luna. Naturalmente, però, non è da escludere che questa migrazione fosse causata da semplici ragioni di interesse, o magari che fosse decisa in seguito alla morte di uno dei due figli. In ogni modo resta il fatto che la migrazione avvenne qualunque ne sia stato il motivo.

Ma quando ebbe luogo questo drammatico episodio? L’epoca patriarcale della Bibbia corrisponde alla media Età del Bronzo, cioè agli anni 2000-1500 a.C. ma sinora non si è stabilito con esattezza quando visse Abramo. I moderni studiosi della Bibbia fanno risalire la migrazione da Ur ad Harran al ventesimo o al diciannovesimo secolo a.C. e pertanto la data tradizionale — 1926 a.C.

che si riscontra in alcune edizioni critiche della Bibbia, potrebbe essere vicina alla verità.

Nella regione nord-occidentale della Mesopotamia si trova una zona ricca di praterie, chiamata Paddan Aram o Pianura di Aram. Nella sua zona centrale giaceva Harran, importante punto d’incontro di piste carovaniere. Sebbene tale città fosse ben lontana da Ur per distanza, grandezza e importanza, tuttavia non era, come si è reputato per lungo tempo, un semplice villaggio per le carovane, lontanissimo dai confini con la civiltà. In realtà, al tempo in cui i patriarchi vi fissarono la loro dimora, Harran doveva essere una città fiorente, e il fatto che il suo nome si trovi citato spesso nelle tavolette cuneiformi del diciannovesimo secolo a.C. avvalora l’ipotesi che si trattasse di un importante nodo commerciale

Harran giaceva sulle rive del Balikh, un centinaio di chilometri a nord della confluenza di tale fiume con l’Eufrate. A un centinaio di chilometri a est di Harran si trovava la famosa Guzan oggi Tell Halaf — ove sono state portate alla luce alcune tra le prime testimonianze del superamento della vita primitiva da parte dell ‘uomo e del suo passaggio dall’età della pietra a quella dei metalli. Pure qui venne rinvenuta la prima traccia di un veicolo munito di ruote.

A circa trecentosettanta chilometri da Harran, scendendo giù per il Balikh e l’Eufrate, sorgeva la città di Mari, a lungo dimenticata e gradualmente scoperta a partire dal 1933. Mari fu la sede del castello forse più grande dell’antichità, un edificio con più di duecento stanze, ma d’importanza ben maggiore sono le ventimila tavolette rinvenute negli archivi del palazzo. Occorreranno molti anni per tradurle tutte, tuttavia, quelle decifrate finora, hanno contribuito concretamente a far luce su tutto quel territorio governato, al tempo di Abramo dai pacifici re di Mari.

Da Palmira Abramo si sarebbe diretto, percorrendo altri duecentoquaranta chilometri, verso la bella Damasco la quale, se era primavera quando vi giunse, dovette apparirgli piena di colori con le sue coltivazioni di albicocchi e di mandorli in fiore. La città è probabilmente la più antica del mondo che sia stata abitata fino ad oggi senza interruzione. Poche città si trovano in una regione così bella, col Monte Hermon a ovest e il deserto che si distende nelle altre direzioni. Damasco è circondata da una verzura e da alberi che si levano dal terreno irrigato, reso ricco e lussureggiante dalle acque del fiume Abana, l’attuale Barada. Per quanto tempo Abramo restò in questa città, considerata dagli arabi un Paradiso in terra? Certo almeno il tempo necessario per acquistarvi un fedele domestico, Eliezer, divenuto poi suo prezioso collaboratore e presunto erede (Genesi, 15, 2).

A sud di Damasco Abramo poteva scegliere tre strade. La prima costeggiava i piedi del Monte Hermon, attraversava il Giordano vicino alla sorgente e scendeva poi lungo la riva occidentale del fiume fino al punto in cui esso si gettava nel Mar di Galilea, allora chiamato Lago di Gennesaret. La strada più breve, e probabilmente la più battuta, portava direttamente a sud-ovest, per attraversare il Giordano una diecina di chilometri dalla sua foce, e lì congiungersi con la prima. La terza cominciava lungo la via più antica — più tardi conosciuta come Via Reale — piegava quindi verso la costa meridionale della Galilea e attraversava il Giordano nel punto in cui esso lasciava il lago. Dopo aver costeggiato per un breve tratto la sponda occidentale, la strada voltava bruscamente nella gola della Piana di Jezrael verso la fortificata città di Betshan.

Non si sa con certezza quale di questi tre itinerari Abramo scelse, giacché quattromila anni or sono erano tutti molto battuti. Sappiamo comunque che il primo accampamento di cui si abbia traccia, egli lo stabilì nell’ampia vallata antistante l’antica Shekem, città posta sulle alture quaranta chilometri a sud di Betshan e difesa dalle montagne gemelle di Ebal e Garizim, alte circa mille metri. La famiglia di Abramo, composta dalla moglie, la sterile Sarai, in seguito chiamata Sara, dal padre Tareh e dai servitori o schiavi, doveva costituire, anche per quei tempi, un gruppo più che numeroso. Probabilmente si trattava di parecchie centinaia di persone, con folti greggi e mandrie. Tuttavia la famiglia e il bestiame di Abramo non costituivano tutta la schiera di uomini e animali che scese senza fretta attraverso le regioni settentrionali di Canaan, cercando pascoli sulle alture centrali. Con Abramo era il nipote Lot, il quale possedeva una famiglia, delle mandrie, dei greggi e dei pastori suoi, probabilmente ereditati dal padre. E l’insieme di questi due gruppi dovette apparire una tremenda minaccia agli abitanti di Canaan, il cui territorio era soggetto a frequenti incursioni da parte di nomadi che, infiltrandosi dal deserto, predavano e saccheggiavano, per poi scomparire di nuovo nelle terre aride. Perciò Abramo e Lot, probabilmente, furono guardati con vero timore mentre alzavano le loro tende nere di pelo di cammello nell ‘ampia vallata antistante Shekem.

Ma anche le popolazioni dei dintorni di Betel, una trentina di chilometri a sud lungo la pista, dovettero provare le stesse apprensioni quando, riprendendo il cammino, quell’orda discese nella zona, benché lungo le carovaniere si fosse certamente parlato dei modi pacifici di Abramo. La città di Betel era sì circondata da mura, ma non era una fortezza. E vi è ragione di credere che la vicina località chiamata Ai fosse stata ridotta da poco tempo a un mucchio di rovine in seguito ad un attacco di nomadi. Imperversava anche la siccità, l’acqua scarseggiava e i pascoli erano già completamente sfruttati. Perciò gli abitanti di Betel dovettero provare certamente un senso di sollievo quando i loro ospiti non invitati s’incamminarono di nuovo verso sud.

A causa della siccità i pascoli di Canaan non potevano dare sostentamento al bestiame di Abramo e di Lot. Così come molti altri nomadi di quel tempo, Abramo e il nipote dovettero cercare rifugio nella terra irrigata dal Nilo. Quale fu il loro nuovo itinerario? Molto probabilmente essi proseguirono lungo la pista solcante la regione montuosa che più tardi doveva chiamarsi Giudea. Se così fecero dovettero attraversare la piccola ma forte Jebus, la città cinta di mura destinata a diventare sempre più vasta e importante e ad assumere, infine, il nome di Gerusalemme. Sempre avanzando verso sud, oltre villaggi e accampamenti, la carovana di Abramo presumibilmente scese dalle montagne fino all’incrocio di piste situato accanto ai pozzi di Bersabea. Lì ebbe inizio una marcia forzata di trecento chilometri attraverso il deserto di Sur. Fu, con tutta probabilità, un cammino lento e difficile, con le bestie affamate che si contendevano il magro foraggio, e c’è dunque da credere che Abramo e Lot fossero animati da sentimenti assai contrastanti quando giunsero ad una delle solide fortezze che costituivano le Mura dei Principi, messe a baluardo dei confini dell’Egitto. Oltre le mura esistevano buoni pascoli, ma gli emigranti avrebbero ottenuto il permesso di varcarle? Le varcarono. E pare che Abramo fosse un personaggio abbastanza importante se indusse il Faraone a stringere con lui una alleanza che fil però anche causa di uno sgradevole incidente. Avendo dichiarato Abramo che Sara, donna molto bella, era la sua sorella e non sua moglie, il Faraone la prese con sé nel palazzo come concubina. Ma quella notte stessa il Faraone fu avvertito dell ‘inganno e bandì Abramo con tutta la sua gente dall’Egitto. In Egitto era sorta da molti secoli ed era venuta sviluppandosi una grande civiltà. Nell’arrivare e nel ripartire dal palazzo del Faraone a Menfi, nte le piramidi, le città e altri aspetti interessanti di quel paese che rivaleggiava con la terra lontana ove era nato. Abramo e il nipote Lot iniziarono il viaggio di ritorno verso nord e ritornarono sulle alture riarse di Canaan. Ancora una volta, però, si trovarono di fronte alla scarsezza dei pascoli e decisero di dividersi. Lot fatta la sua scelta si decise in favore della terra caldissima e lussureggiante, ma abitata estremamente malvagia, che si stendeva nella valle del Giordano inferiore attorno alle città di Sodoma e Gomorra. Lì egli e la sua famiglia conobbero ben presto l’ avversità in quanto furono fatti prigionieri da quattro re scesi dalla Mesopotamia per riscuotere i tributi di altri cinque re che governavano la regione. Forse è appunto il ricordo di questi nove re che la Via Reale venne così chiamata. Si è ritenuto per molto tempo che la valle del Giordano fosse praticamente inabitabile fuorché nelle vicinanze del lago di Galilea e nell ‘oasi attorno a Gerico, ma oggi possiamo ritenere che quattromila anni fa era invece densamente popolata e ricchissima se riuscì ad ingolosire quei re giunti dalle lontane regioni dell’est per depredarla.

Abramo saputo ciò che era accaduto al nipote, armò i propri servi e si mise all’inseguimento dei predoni riuscendo a salvare Lot e la sua famiglia e a recuperare tutte le spoglie depredate. Nel viaggio di ritorno incontrò Melchisedech, re di Salem e sacerdote del Dio altissimo, con il quale strinse un patto di alleanza, cedendogli la decima parte del bottino e celebrando insieme un sacrificio in onore del Signore. Più tardi, tuttavia, Lot conobbe la sua rovina allorché Geova rovesciò fuoco e fiamme sulle città di Sodoma e Gomorra e la moglie di Lot fu tramutata in una statua di sale.

Quanto ad Abramo, egli e il suo popolo, benché circondati da stranieri e così lontani dalla terra di origine, si accrebbero e prosperarono. Fu in questa regione che Dio apparve ancora ad Abramo, come molto tempo prima gli era apparso ad Harran, e gli confermò la promessa che sarebbe diventato il fondatore di molti popoli e lui e la sua progenie avrebbero ereditato in eterno la terra di Canaan. E sempre in Canaan Agar, la schiava di Sara, gli partorì un figlio di nome Ismaele, destinato a diventare il capostipite del popolo arabo. Là pure la vecchia sterile Sara alla fine, per compimento della promessa di Dio, gli partorì un figlio che fu chiamato Isacco. Sempre in Caanan l’Angelo del Signore fermò la mano di Abramo quando questi, nella assoluta obbedienza alla volontà divina, stava per sacrificare l’amato figlio. Nonostante tutte queste benedizioni divine che ricevette in Caanan, Abramo considerava quella terra un luogo pagano. Egli tumulò Sara nella grotta di Macpela vicino ad Hebron ma più tardi, piuttosto che imparentarsi con i Cananei, inviò il suo fedele servitore Eliezer nella Pianura di Aran affinché scegliesse una moglie per Isacco tra le figlie dei suoi parenti che abitavano tuttora in quella regione. Eliezer s’imbatté in Rebecca figlia di uno stretto congiunto di Abramo e la condusse in Caanan ove divenne consorte di Isacco. Isacco e Rebecca si amarono profondamente e, anche dopo la morte di Abramo, restarono in Caanan, la Terra Promessa, ai margini del deserto che si stendeva verso l’interno, dalle città dei Filistei sulle pianure della costa, attorno ai pozzi di Bersabea e nelle valli superiori attorno ad Hebron.

L’ideale ebraico

Dopo la morte di Abramo suo figlio Isacco dimostra una leale sollecitudine per la solidarietà tribale quando, anche lui come suo padre, insiste perché il suo figlio minore, Giacobbe, si sposi con donne del parentado per non spezzare i vincoli familiari. I gemelli d’Isacco, Giacobbe — o Israele — e Esaù, sono presentati in termini di conflitti personali ed economici. Esaù divenne un esperto cacciatore e uomo della campagna… mentre Giacobbe ” .. fu uomo pacifico che se ne stava sotto le tende.. e preferito al primogenito dalla madre Rebecca. Dalle mogli di Giacobbe, Rachele e Lia, e dalle loro rispettive ancelle, Bilha e Zilpa, nascono dodici figli: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zabulon, Dan, Neftali, Gad, Asher, Giuseppe e Beniamino. I loro discendenti costituirono le “tribù di Israele” e i “figli di Israele” ovvero gli israeliti. La loro identità è ora nettamente definita. Essi evitavano le unioni matrimoniali al di fuori del loro gruppo, e vedono in Canaan la loro terra e il loro retaggio. Quando la carestia li spinge in Egitto si considerano come “forestien” o “ospiti di passaggio” in temporaneo esilio dalla loro patria. La loro individualità è sempre riferita alla loro concezione di un Dio monoteistico che presiede agli eventi naturali e al destino umano, in contrasto con il caotico politeismo del pensiero mesopotamico ed egizio. Per spiegare la migrazione di Abramo e l’intensa coesione e solidarietà dei suoi discendenti vengono addotte delle ragioni spirituali, e in realtà non esiste nessuna altra motivazione convincente. Noi dobbiamo ricordare che la Mesopotamia, dove nacque Abramo, era il centro e il vertice della civiltà di quei tempi. Essa superò di gran lunga Caanan per la complessità e la raffinatezza delle sue arti. La legge e il commercio conferirono alla sua organizzazione sociale una stabilità che non possiamo riscontrare altrove. Possiamo solo concludere, in accordo con la storia della Genesi, che la migrazione di Abramo fu ispirata da motivi di protesta e di affermazione. Protesta contro l’incoerenza della vita e del pensiero mesopotamici, e affermazione di una nuova e soddisfacente risposta all ‘enigma del pensiero umano.

La storia dei patriarchi è narrata nella Genesi immediatamente dopo quella della Creazione e del Diluvio. Questa narrazione è ricca di particolari vicini alla tradizione babilonese. Allo stesso modo, nell’episodio di Giuseppe confluiscono molti nomi e leggende di origine egiziana. Ma ciò che separa i patriarchi dal loro contesto contemporaneo è più decisivo di ciò che li collega alla vita e ai costumi dei loro tempi. La storia di Israele emerge dalla notte dei tempi in un atteggiamento non di continuità ma di rivolta. C’è una nuova intuizione circa l’uomo e la natura, e un fiero ripudio delle mitologie contemporanee con i loro pantheon pluralistici delle deità in guerra tra loro. L’unità e la trascendenza di Dio sono idee nuove e dirompenti che trasformano ogni aspetto dell’esperienza e creano nuove categorie di pensiero. La partenza di Abramo dalla sua terra natale simboleggia una secessione radicale dalle idee pagane. Al loro posto la religione israelita postula la legge universale di una unica intelligenza con una sua finalità: un Dio che agisce con uno scopo morale e con la bontà come attributo fondamentale.

Una nazione scrive la sua storia nell’immagine del suo ideale. La storia dei patriarchi, dalla migrazione di Abramo a Caanan fino al soggiorno di Israele e dei suoi figli in Egitto, ha agito con singolare potenza nel pensiero e nell’ideale ebraico. Non si tratta di una leggenda di guerrieri remoti e sovrumani. Non assomiglia alla visione di un fulgido mondo eroico che per i greci e gli altri popoli antichi rappresentava il loro stato originario. Le storie di Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe sono permeate di un senso di predestinazione divina. Ma esse contengono anche una gran quantità di elementi semplici e terreni, che riflettono un riconoscibile sistema di vita umana in cui la lotta e l’astuzia sono mitigate dagli affetti più gentili e delicati. In seguito, nella letteratura e nel ricordo, la nazione ebraica rivide il suo capostipite come il prototipo di due virtù: bontà e calore nei rapporti umani e una assoluta rassegnazione, che andava al di là della mera umiltà, al volere divino. Tanto la tradizione cristiana quanto quella musulmana accettano l’autenticità storica di Abramo e lo ammettono come loro progenitore spirituale. Ma per gli ebrei egli è il primo e l’unico patriarca, il modello della perfezione ebraica. Ispirati dal suo patto e uniti saldamente fra loro dal ricordo di tre generazioni discese dai suoi lombi, i figli di Israele, precariamente stanziati in Egitto, entrano nella storia documentata nella seconda metà del secondo millennio a.C.

Conclusione

Il racconto biblico si fa più vivido e movimentato nel descrivere la comunità israelitica che si evolve come nazione su suolo straniero. Esso narra come la componente tribale fondata da Abramo e dai suoi discendenti sia lacerata da antagonismi personali. Giuseppe, a causa della gelosia dei suoi fratelli maggiori, finisce in Egitto. I suoi fratelli a loro volta vengono sospinti a sud da una carestia che infierisce in Caanan. A quel tempo Giuseppe, a loro insaputa, si è conquistato una posizione di prestigio al servizio del Faraone d’Egitto.

Egli ha immagazzinato il raccolto eccedente di sette anni di abbondanza in previsione di sette anni di carestia che seguiranno. All’indomani di un drammatico incontro coi suoi fratelli, Giuseppe li rimanda a Caanan dopo essersi fatto promettere che torneranno con il loro vecchio padre Giacobbe. I suoi fratelli si stabiliscono a Goshen, a oriente del delta nilotico, Passeranno dei secoli prima che i loro discendenti possano rivedere la terra dei padri e l’eredità loro promessa. All’inizio del loro soggiorno in Egitto sono uomini liberi, che conducono una sicura e tranquilla vita contadina in una zona ricca di acque, lontano dall’incubo della siccità sempre presente a Caanan. Alla fine di questa esperienza egiziana sono schiavi oppressi che fuggono per sottrarsi alla tirannia e alla persecuzione.

Gli israeliti si adattarono facilmente in Egitto alle istituzioni politiche prevalenti, ma la loro vita sociale e culturale a Goshen fu, senza dubbio, appartata e soggetta a una e vera e propria segregazione. La rigidità ritualistica degli egiziani non si lasciò minimamente smuovere e la separazione tra ebrei e egiziani fu ratificata da una sorta di patto reciproco e dalla creazione di una barriera religiosa e sociale che stimolò le tribù israelitiche a conservare vivo nella memoria il paese di Caanan e a coltivare i loro rapporti con i parenti ebrei rimasti al nord.

Con il crollo della dinastia degli Hyksos, agli inizi del sedicesimo secolo a.C. il nazionalismo egiziano si riconsolidò, caratterizzato dalla intolleranza e dall’esclusivismo. Gli ebrei che vivevano a Goshen furono privati della loro libertà, ridotti in schiavitù e al lavoro forzato e impiegati nella costruzione di nuove città. Quando toccarono il fondo dell ‘umiliazione e delle sofferenze sorse in mezzo a loro un capo, Mosè, che divenne il vero fondatore sia della nazione d’Israele che della sua religione. Egli dette alla parola ebraica Iahvé un carattere distintivo e sublime nella coscienza dei suoi compatrioti. Organizzò le sbandate tribù seminomadi e le chiamò alla rivolta. Fece appello al debole ma ininterrotto ricordo della libera vita pastorale che il suo popolo aveva conosciuto nella “Terra Promessa” e, nella definitiva affermazione della sua funzione di guida politica e spirituale, fece uscire gli ebrei dall’Egitto e li condusse, moltitudine querula, turbolenta, scettica e di “collo duro”, oltre il Mar Rosso, attraverso il deserto, fino alle soglie di Caanan, dove essi avrebbero costituito una nazione e offerto una imperitura testimonianza della loro fede.

La nascita di questa fede è stata giustamente descritta come una “rivoluzione nella visione umana nel mondo”. Tutte le religioni precedenti e contemporanee considerano il destino umano soggetto alle leggi della natura. Così come i cicli naturali ritornano al loro punto di origine senza pretese di progresso, la vita umana era concepita come un interminabile e ordinato processo che passava attraverso la nascita e la morte per ritornare ad un punto di partenza sprofondato nelle tenebre e nel caos. Anche gli dei erano soggetti alle passioni, agli istinti e ai desideri umani. Erano associati a manifestazioni naturali, come il sole e la pioggia. Dato che le forze naturali sono diverse e numerose, il concetto pagano di divinità era pluralistico fino ad arrivare alla confusione.

Abramo respinse l’elemento idolatrico del paganesimo. Si rifiutò di adorare tronchi e sassi. Però il suo Dio non era unico, onnipresente e del tutto trascendente. Era la divinità della famiglia di Abramo, non di altre famiglie, e ancor meno di tutta l’umanità.

Quando le cose andavano male Egli manifestava il suo potere rimettendo tutto a posto. La concezione mosaica della divinità è meno familiare e ingenua, più austera, ma molto più elevata. Mosè sa compiere un esercizio di astrazione senza precedenti e riesce a concepire un Dio posto al disopra della natura, immune dalle passioni umane e dagli eventi naturali. Il concetto pagano della storia, inesorabilmente legato alla ruota della ripetizione, permea la maggior parte del pensiero antico di una profonda tristezza. Il suo malinconico tema ricorre molto più tardi, nella storia, nel grido disperato del filosofo e imperatore romano Marco Aurelio: “Su e giù, avanti e indietro, torno torno. Così è il monotono e insensato ritmo dell ‘universo

In contrasto col caratteristico fatalismo della civiltà pagana, il pensiero ebraico, da Mosè in poi, concepisce Dio come il creatore delle forze naturali, esente dal loro ritmo ciclico. I piani divini si compiono non nella natura ma nella storia umana. Il progresso, non la ripetizione, è la legge della vita. Nella tradizione mosaica Dio applica a se stesso un nuovo epiteto: “Io sono colui che sono “, l’unico a cui nessuna definizione può bastare, l’onnipotente protettore del popolo “che è afflitto da tutte le sue afflizioni e lo redime con il Suo amore e la Sua misericordia

Una volta che il destino umano è separato dal ciclo della natura, si libera dalla fatalistica catena dei ricorsi. L’uomo ha pertanto la capacità di respingere il male e scegliere il bene e viene investito di una dignità unica e attiva, fuori della portata di ogni elemento della natura.•

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IL MAESTRO INTERIORE

IL MAESTRO INTERIORE

di

Corrado Balacco

E’ inutile andare a cercare maestri fuori di noi: il vero maestro è quello interiore. Non è sbagliato avere desideri, voler vivere fino in fondo la propria esistenza: è invece sbagliato avere desideri troppo limitati, troppo piccoli.

“Non è sbagliato il desiderio ma la sua piccolezza”.

E’ giusto voler accrescere la propria esperienza, la propria conoscenza, ma bisogna avere l’intelligenza e il coraggio di andare oltre, fino all’ origine dei desideri, dove si potrà capire quale sia la nostra più profonda e autentica esigenza.

Il mondo è una proiezione della nostra mente: dobbiamo convincercene per essere liberi. Ciò che vediamo e percepiamo è come la pellicola di un film realizzato da noi stessi. Dobbiamo fermare questo film, rompere l’incantesimo (“vedi il film non sei il film”), scoprire al di là delle apparenze, della fantasmagoria delle immagini, quel puro essere-coscienza-beatitudine che è sempre stato lì, immobile come roccia, in paziente attesa che la finissimo con i nostri giochi di illusionismo.

“Ciò che la mente ha fatto la mente deve disfare”.

Il realizzato non ha paura di nulla e vive imperturbabile, perché è già morto in vita, ovvero è sempre stato vivo. “Nella mia terra nessuno è stato e nessuno muore”. Qualunque cosa accada sul palcoscenico dell’esistenza, egli è consapevole che si tratta di una rappresentazione esteriore. L’osserva con distacco, felice di essere al di là dell’esperienza, felice di essere un te amo sotto anestesia?

Dunque la consapevolezza non è costante, può esserci o non esserci; è intermittente e può mancare del tutto. Ma quando è assente, come facciamo a mantenere il senso dell’ego? “Da che cosa dipende questo senso di identità se non da qualcosa che è al di là della coscienza”, qualcosa che persiste anche nelle lacune, negli intervalli, in cui l’io non è presente?

Chi ci sveglia al mattino? Basterebbe approfondire questi interrogativi per renderci conto che il senso dell’identità non ci viene né dal corpo, né dalla mente e che, se ci liberiamo da queste identificazioni, scopriamo un ‘ altra identità.

“La liberazione non è mai della persona, è dalla persona”.

Nascita e morte non sono solo idee della mente; per l’atman esse non esistono, come non esiste il concetto di Dio trascendente nato chiaramente dalla paura. Il Sé non prova paura verso la morte e accetta con distacco quest’ esistenza. “Tu sei il Dio del tuo mondo, e siete entrambi stupidi e crudeli”. In qualche momento della nostra storia, non si sa come, ci siamo dimenticati della nostra vera identità; così ha avuto origine la sofferenza, da cui cerchiamo di liberarci inseguendo il piacere, senza capire che l’ autentica beatitudine non può che trovarsi al di là del dolore e del piacere, in un luogo appartato e inattaccabile. Ma la mente non può stare ferma, la mente deve produrre concetti, idee, definizioni, separazioni, desideri, inizi e fini, in una parola I ‘ intera gamma dell’ esperienza, convinta che I ‘ esistenza e la coscienza siano tutt’uno. Solo I ‘ illuminato sa che non è così, che non c’è una consapevolezza al di là della coscienza fenomenica e della vita-morte. Però egli ha osservato, ha indagato, è andato a fondo, si è posto delle domande senza illudersi che le risposte venissero dalle parole.

Viviamo perché abbiamo desiderato, in un certo momento, di venire al mondo, e questo significa che dobbiamo portare sulle nostre spalle un karma. E’ stato lui, il desiderio del passato, il karma, a plasmare il nostro destino, imprigionandoci tuttavia in “una condizione insostenibile e dolorosa”. Non sappiamo di essere intrinsecamente liberi, ignoriamo di poter uscire di scena, di poterci mettere a guardare noi stessi come in uno spettacolo, di poterci servire del mondo per scavalcarlo e andare oltre. Eppure niente ci impedisce di essere consapevoli qui e ora: basta assumere un atteggiamento di pura testimonianza, di osservazione senza partecipazione.

Nessuno può aiutarci in questo compito. Non esistono maestri esterni, “amare e adorare Dio è ancora ignoranza”, ognuno deve risvegliare il maestro che ha in sé, perché ognuno è il creatore del proprio mondo. Anche i grandi illuminati del passato, i grandi Salvatori hanno fatto ben poco per noi. “Sono venuti e sono andati: e il mondo arranca”. Non ci rimane che procedere soli, con coraggio e pazienza: “nessuno fallisce sempre”. La guida migliore è dentro di noi. Non c’è bisogno di seguire né la via della rinuncia (quella della yogi), né la via dell’ adorazione (quella del bhogi, del bhakta); ogni forma di esperienza comporta un dualismo. Non dobbiamo cercare qualcosa di separato e contrario.

“Non hai bisogno di esperienza, ma di libertà da tutte le esperienze”. La realtà non è uno sperimentare qualcosa, ma un essere, perché noi siamo già reali. Come dice la Chàndogya-upanisad, “ogni cosa è animata da un’essenza sottile, da un’unica realtà, che l’atman. E quello che sei tu” (tat tvam asi).

L’uomo ha un fine preciso: la liberazione della sofferenza, dalla stato di limitazione, della vita fenomenica, il che può avvenire solo attraverso un’espansione della coscienza.

“Per essere libero nel mondo, dovrai essere libero dal mondo”

Tutto ciò che si oppone a questa liberazione-espansione contrasta inutilmente le direttive dell’evoluzione cosmica e, prima o poi, né sarà schiacciato. Chi invece si armonizza con questa linea evolutiva, svilupperà una serenità senza sforzo, raccogliendone i frutti. Ma dobbiamo essere seri nella nostra determinazione; la serietà è la “chiave d’ oro” di ogni realizzazione. Visto che abbiamo messo tanta energia nel diventare schiavi, mettiamone altrettanta per demolire la prigione. Ci siamo alienati dalla realtà alimentando un gran numero di illusioni, ora dobbiamo smettere di nutrirle. “I vecchi solchi del cervello devono essere cancellati”. Non dobbiamo ripetere sempre le stesse esperienze senza imparare nulla, senza procedere di un passo, così finiremo per morire con il desiderio di vivere ancora. L’unica vera tecnica di meditazione è l’ approfondimento e l’ allargamento dell’ autoconsapevolezza. Non si tratta di fare qualcosa, ma soltanto di essere. La via non è graduale: si arriva alla meta di colpo, con un ex-cessus mentis.

Arrestiamo l’ immaginazione, il ricordo, la conoscenza, il desiderio, e scopriremo che siano sempre stati noi stessi, anche senza saperlo. Potremo utilizzare la ripetizione di un mantra del nome di Dio, potremo adottare una respirazione quieta e profonda che renderà la nostra mente “pura, stabile e adatta alla meditazione”, ma è inutile impegnarsi in pratiche acetiche, in rinunce, in ritiri solitari in cui si resta in preda alle “chiacchiere senza fine della mente”, si può tranquillamente vivere tra la gente; lavorare, amare, piangere, ridere. ma dall’ alto del proprio Sé distaccato e intangibile, ricordando senza posa che si è.


Soltanto a questo punto l’ inconscio può fluire nel conscio, la persona si fonde con il testimone, questi con la consapevolezza, che a sua volta s’ immerge nel puro essere, senza perdita dell’identità ma solo delle sue limitatezze.

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BIORITMO: VOCE MISTERIOSA DELL’UNIVERSBIORITMO

BIORITMO: VOCE MISTERIOSA DELL’UNIVERSO di

Silvio Nascimben

Quanti di noi, al mattino, tirandoci giù dal letto, ci guardiamo allo specchio avendo l’impressione, a volte, di essere prossimi a vivere una giornata meravigliosa, anche se piove a dirotto e l’ auto è dal carrozziere, mentre in altre, malgrado il sole splenda radioso lassù nel cielo, avvertiamo, pressante, la voglia di mandare tutto e tutti al diavolo ed il caffè che stiamo sorseggiando non è stato mai, più cattivo di così. Non dobbiamo addebitare questi differenti atteggiamenti a bagordi, alla cena mal digerita ovvero allo stato di malessere generale che precede la classica influenza stagionale: non sono questi i motivi determinanti che ci inducono a vedere il mondo circostante, più bello o più brutto.

Si fa strada, a questo punto, l’ ipotesi che il corso della nostra vita, legato all’ alternanza di momenti in cui tutto gira alla perfezione ed altri in cui perdiamo fatalmente il passo, è legato ad avvenimenti che accadono nell’intero “cosmo” e niente si verifica a caso.

Cos’è, in effetti, il “bioritmo”, questa misteriosa e stupefacente intuizione che potrebbe consentirci una più ampia esplorazione scientifica, in altri termini, un uso più ragionato del nostro vivere?

La teoria del bioritmo, che letteralmente significa ritmo della vita, si basa sul rapporto corrente tra la esistenza umana e gli accadimenti, di ben più ampia portata, che avvengono nell’intero cosmo. Esiste, quindi, una precisa sintonia tra il nostro “vivere quotidiano” e l’universo, tanto da indurci ad approfondire le nostre conoscenze sull’ andamento degli influssi celesti, per meglio affrontare anche i banali problemi quotidiani.

Dall’ osservazione dei tre diversi stati di pulsazione della vita, quello dello spirito, quello della salute ed infine quella dell’ intelletto, scaturisce automatica l’ esistenza di tre diversi tipi di bioritmo. Ciascuno di essi, legato al proprio stato vitale, pur con cicli diversi che si intrecciano tra loro, si mantiene in perfetta autonomia con rispettivi ritmi ascendenti o discendenti. Le onde di questo triplice ritmo, salute, spirito e intelletto, iniziano ad animarsi al momento della nascita di ciascun individuo e, attraverso andamenti alterni, lo seguiranno per tutto il corso della vita. La lunghezza delle onde, invece, varia tra i ritmi: quello della salute fisica, dura 23 giorni e durante i primi 11 giorni e mezzo la fase è positiva, in salita, per poi cadere in discesa libera, fino a toccare il punto più basso: il fisico deve velocemente ricaricarsi, rifare, cioè, il pieno. Subito dopo, l’onda sale nuovamente e con essa riprende il ciclo di 23 giorni. I dello spirito, di 28 giorni, e dell’intelletto, di 33 giorni, seguono le stesse leggi: durante la prima metà del periodo vi è la fase ascendente che è seguita da quella discendente, subito dopo.

I giorni più “critici” sono, per l’appunto, quelli in cui il ritmo da positivo-ascendente passa al negativo-discendente. In questi giorni, ciò è dimostrato da numerosissimi esperimenti medici, avvengono incidenti, accadimenti nefasti e mortali, e nessuna reazione sembra scaturire dall’essere umano, a causa delle batterie scariche.

Tutti gli esseri viventi, coloro che appartengono ai regni animale e vegetale, non possono sfuggire alle leggi cosmiche che regolano il “ritmo della vita”. Qualcuno potrebbe obiettare, forse a ragione, che l’uomo non può e non deve essere accostato a tutti gli esseri viventi e in particolare agli animali, senza arrecare offesa a Dio: perché creati a sua perfetta immagine e somiglianza. Con tono sommesso, non certo per timore perché convinti di quanto andremo ad affermare, ma enormemente imbarazzati, riteniamo che gli animali, anch’ esse creature di Dio, siano migliori dell ‘uomo perché non conoscono la “malvagità

Un grande manifesto pubblicitario, tempo fa, recava l’ immagine di una famiglia di leoni, pigramente sdraiati sotto un secolare albero, nella sperduta savana. Il tutto incorniciato da un rosso tramonto africano. Il testo sottostante, recitava pressappoco cosi: ” Mangiano… solo quando hanno fame, fanno l’amore… per avere cuccioli, rispettano la natura e…non la contaminano. E poi… siamo proprio noi a chiamarli… animali !”

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PROGETTO PER IL TERZO MILLENNIO

                                           PROGETTO PER IL TERZO MILLENNIO

di

Alfredo Di Prinzio

L’Ordine Massonico in tutti i tempi si è proiettato verso il futuro, così i suoi iniziati, ispirati agli “Antichi Doveri”, hanno progettato soluzioni, metodi di vita, insegnamenti che hanno guidato l’Umanità verso conquiste di ogni tipo, liberando popoli e creando nuove nazioni.

Ora che il nuovo tempo è arrivato e il vecchio ciclo si sta concludendo è necessario che tutti i Fratelli si prodighino per programmare e attivare la Nuova Umanità Cosciente di se stessa per un avvenire che si presenta pieno di insicurezze ed incertezze. tutto dovrà essere rifatto, tutto si dovrà ridisegnare nuovamente.

Lo sconvolgimento che si avverte in questo tempo di chiusura di secolo, per la mancanza di armonia e di fratellanza tra le nazioni, è presente sia nel pianeta come contenitore sia nel suo contenuto, che è l’uomo stesso. Questa disarmonia, che è ormai prerogativa di quasi tutte le nazioni, ed il grigiore che emana, tramutano ogni cosa in questo stato caotico e confusionale, creando disequilibri e negatività ovunque, disagi nell ‘ambiente, nell ‘atmosfera e soprattutto nel comportamento dell’uomo stesso.

Altre forze e menti cercano di mettere una soluzione a questa marea che sconvolge la quotidianità dell’uomo, ma con scarso risultato.

Allora è necessario che tutti i Hiram risorti siano chiamati a prodigarsi e a lavorare insieme con uno stesso obiettivo: anticiparsi ai tempi che verranno per programmare, ispirare e proiettare nuove regole e metodi di vita per la Futura Umanità.

Così in ogni officina si dovranno accendere gli athanor di ogni fratello, non solo per lavorare su sé stessi, ma anche per creare dalla Coscienza Egregorica della Loggia questo nuovo Progetto con un lavoro comune, utilizzando la Forza delle ispirazioni.

Nel presente secolo, soltanto la negatività con tutte le sue conseguenze ha fatto notizia e l’Umanità si è dovuta alimentare con questo pane amaro di soffereze, dolore e soprattutto pieno di prevaricazioni! Così, interi popoli in silenzio hanno subito questa tirannide creata da menti dementi con interessi materiali guidati da un consumismo sfrenato.

Ora però, aiutato dagli eventi di questo fine secolo, sta arrivando il momento del ribaltamento della squadra e tutto quello che ferisce la dignità Umana dovrà essere tramutato in positività, in Pace e soprattutto in Amore per la Vita.

Questo processo equivale al passaggio di grado, dal 1 0 al 20, da Apprendista a Compagno. Così il futuro sarà improntato alla Bellezza, all’Anima e all ‘ Amore.

Perciò propongo alle Logge di lavorare di più in questo stupendo grado, che ci preparerà a una lontana Maestria, perché il Compagno lavora col cuore, e quello che è sempre mancato all’Umanità è proprio un cuore.

Date queste circostanze, da buoni apprendisti quali siamo, dobbiamo prepararci a questo passaggio sommando alla Forza la Bellezza dell ‘Arte che noi conosciamo e applichiamo. Il nostro Nucleo Aureo si sta solidificando e questo comincerà ad irradiare la sua Luce dal punto conosciuto solo da noi e questa Luce non solo abbellirà il nostro tempio interiore, ma farà pure in modo che la Bellezza prenda il posto della Forza e questa farà sì che tutti gli uomini entrino a far parte del Grande Progetto dell ‘Umanità.

Ed è questo il maggiore compromesso che noi Liberi Muratori abbiamo con noi stessi e con i nostri padri, perché ognuno di loro ha trasmesso ai suoi figli la parte migliore di sé, con il compito di vigilare su questi eventi come passaggi di Coscienza.

Adesso ognuno di noi in questo tempo è un figlio e questo fa sì che la nostra responsabilità sia più grande, non soltanto per l’Umanità presente, ma anche per tutti i fratelli che prima di noi sono passati all’Or.•. Eterno che ci hanno preceduto e ci hanno lasciato questo legato.•

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IL TRICOLORE

IL TRICOLORE    

11 Tricolore: 200 anni, 1797 -1997

di

Blasco Mucci

Non rampare di aquile e leoni, non sormontare di belve rapaci, nel santo vessillo, ma i colori della nostra primavera e del nostro paese, dal Cenisio all’Etna; le nevi delle Alpi, l’aprile delle valli, le fiamme dei vulcani. E subito quei colori parlarono alle anime generose e gentili, con le ispirazioni e gli effetti delle virtù onde la Patria sta e si augusta: il bianco, la fede serena alle idee che divina l’anima nella costanza dei savi; il verde la perpetua rifioritura a frutto di bene nella gioventù de’ poeti; il rosso, la passione e il sangue dei martiri e degli eroi. E subito il popolo cantò alla sua bandiera ch’ella era la più bella di tutte e che sempre voleva lei e con lei la libertà: ond’è che ella, come là dice la scritta, “piena di fati mosse alla gloria del  Campidoglio “…

(Giosue Carducci, commemorazione a Reggio Emilia, il 7 gennaio

1897, del Primo Centenario del Tricolore)

Premessa

Parigi: quattordici luglio 1789. Il vecchio castello medievale della Bastiglia, utilizzato come prigione politica, viene assalito e espugnato dagli insorti guidati da Camillo Desmoulins, da Georges Danton, da Antonio Giuseppe Santerre e da altri capi rivoluzionari. Crollano con esso le fosche leggende che per secoli ne avevano puntellato l’immagine, ma crolla soprattutto il simbolo di quell’assolutismo che aveva, per secoli, dominato tirannicamente il popolo. Così afferma Adolfo Omodeo: “Dal momentaneo entusiasmo provocato dall’avvenimento, nacque il tricolore francese, per la fusione della bianca bandiera della monarchia con i colori di Parigi: il rosso e il turchino. ” (“L’età del Risorgimento italiano”; Messina-Milano, 1930, pag. 94). Da questo momento la bandiera quale simbolo del potere di un principe scompare, nasce la bandiera espressione della nazionalità. Il tricolore francese, “figlio del popolo “, apre la strada.

Le notizie degli straordinari avvenimenti francesi scuotono l’Europa. Gli ambienti culturali italiani, influenzati dalle illuministiche pagine dell’Enciclopédie e avvezzi da decenni a polemizzare sui numerosi giornali letterari nazionali e d’ oltralpe, cercano sulle Gazzette le informazioni più aggiornate ed esaurienti.

Le notizie dell’ appena iniziata e già vittoriosa Rivoluzione giungendo in Italia, accrescono le speranze dei novatori, ansiosi di ripetere anche nella nostra Penisola le esperienze europee. Giacobini e Fratelli massoni — esistevano da tempo in tutti gli Stati italiani attivissime Logge massoniche — si organizzano in “club” clandestini per prepararsi al “grande giorno”. Emissari francesi li favoriscono e li consigliano. Portano da Parigi i testi del Ça ira, del Reveil du peuple souverain e della Marseillaise, i canti fatidici che, insieme al tricolore, guidano il nuovo esercito rivoluzionario. Pafrioti e principi sono in attesa: i primi impazienti, i secondi preoccupaiü.

Nel 1790 Pietro Verri scrive: “I principi  sociali sono sviluppati nel centro d’Europa; la luce dilatarsi rapidamente; il popolo milanese sarà fra pochi anni illuminato “. E rivolgendosi egli stessi giorni ai suoi concittadini, che in qualità di decurioni governano la capitale lombarda, li incita a leggere i giornali che parlano degli avvenimenti francesi: “Svegliatevi! Non è più tempo di arrogarvi soli la rappresentanza della città. Ogni cittadino al paro di voi ha diritto di eleggere e di essere scelto in servigio della patria (…). Se vi accontentate di essere schiavi purché abbiate dei schiavi sottoposti a voi, sarete voi i nemici della patria. Se scegliete questo partito, vi annunzio in breve la vostra rovina ‘

Particolarmente sensibili ai princìpi rivoluzionari laici d’ oltralpe sono i borghesi ma anche i contadini e i braccianti di Reggio Emilia, i quali — costretti a subire le prepotenze di un patriziato locale esausto e sprovvisto ormai di valori intellettuali ed economici — covano secolari risentimenti contro la dinastia degli Estensi che governa il loro territorio. Pertanto, tra il 30 aprile e il 2 maggio 1791 , in occasione della prevista rappresentazione serale del dramma giocoso “La bella pescatrice “, molti democratici armati, di ogni ceto sociale, organizzano uno dei primi episodi insurrezionali italiani e impediscono con la forza che la rappresentazione teatrale abbia luogo. Negli scontri verificatisi con le truppe ducali, i rivoltosi uccidono addirittura il colonnello comandante la guarnigione, Antonio Fabbrichi. Nel novembre del 1794 i giovani Luigi Zamboni e Giambattista De Rolandis diffondono a Bologna un manifesto che invita i cittadini ad insorgere contro lo Stato pontificio. Per l’ occasione preparano alcune nappe con i tre colori, bianco, rosso e verde. Pagheranno con la vita il loro ardimento. I due giovani appartenevano alla Libera Muratoria. Una Loggia del Grande Oriente d’Italia, la n. 651 all ‘Oriente di Bologna, porta oggi il loro nome.

Le corti italiane, sollecitate dall’Inghilterra, si organizzano nella prima coalizione contro la Francia, impegnata ad esportare le proprie idee rivoluzionarie. Ma l’alleanza è fragile e ne fa le spese, in Italia, il Regno di Sardegna che, fra il 1792 e il 1795, vede le proprie terre, fra le quali la Savoia e il Nizzardo, invase dalle truppe del Direttorio.

Nel marzo del 1796, alla fine di un logorante inverno, il governo francese affida il comando dell’An•nata d’Italia ad un giovane generale di ventisette anni: quel Napoleone Bonaparte che nel 1793, quale comandante dell’ artiglieria, era stato il principale artefice della riconquista della piazzaforte di Tolone occupata dagli inglesi.

L’ Armata d’Italia, nei piani elaborati da Lazzaro Carnot ministro della Guerra del governo francese, doveva svolgere un compito subordinato e di supporto per facilitare le operazioni dell ‘ Armata del Reno che, agli ordini del generale Giovanni Vittorio Moreau, operava in Germania e nelle Fiandre.

Ma ben diversamente, per il genio militare e politico di Napoleone, si svolsero gli eventi.

La campagna d’Italia del 1796 — 1797

1796-1797

La efficienza e la forza dell’Arrnata d’Italia è però alquanto modesta. Circa quarantamila uomini in tutto, molti dei quali malati per i lunghi mesi trascorsi nei bivacchi montani fra le nevi. I cannoni sono ventiquattro e i cavalli non arrivano a quattromila. Ma il nuovo generale, Napoleone Bonaparte — … un giovane d’ingegno smisurato e di cupidità ardentissima di dominio… ” (Carlo Botta, 1824, Storia d’Italia dal 1789 al 1814; tomo secondo: 66) — sa parlare come pochi alle truppe. Egli punta sul loro orgoglio rivoluzionario e repubblicano e ottiene la loro stima e il loro consenso. Il 26 marzo 1796, da

Nizza, inizia la prima campagna d’ Italia.

Prima della partenza, dal Quartier Generale, Napoleone indirizza ai soldati un proclama che galvanizza gli animi e restituisce coraggio e fermezza ai soldati già depressi e sfiduciati. In sintesi gli avvenimenti successivi: valicate le Alpi al Colle di Cadibona; sconfitto l’esercito piemontese a Montenotte, Dego, Millesimo, Mondovì, Fossano, Alba e costretto, il 28 aprile, il re Vittorio Amedeo III di Savoia a firmare l’ armistizio di Cherasco.

Già dal 22 aprile, il generale francese Amedée La Harpe aveva indirizzato alle comunità di Mondovì, Alba e Acqui una esortazione con la quale le invitava a dare prova dei loro “princìpi repubblicani ” facendo sventolare sui campanili le bandiere tricolori e di innalzare nelle piazze gli “alberi della libertà”. Negli stessi giorni, sollecitata da alcuni giacobini guidati da Antonio Ranza — che vorrebbe addirittura costituire delle “legioni rivoluzionarie italiane ” con proprie bandiere dai colori “rosso, turchino e rancio ” — la comunità di Alba dà vita ad una autonoma “repubblica piemontese “. In diverse località della zona — Guarene, Magliano, Piobesi, Castellinado e Castagnito — gli abitanti, spontaneamente, si appuntano sul petto le coccarde con i colori del tricolore francese.

Eliminato l’esercito piemontese, Napoleone rivolse tutte le sue forze contro gli austriaci che sconfisse

il 10 maggio 1796 a Lodi. Questa vittoria consentì l’ immediato ingresso dei francesi a Milano, già in mano ai giacobini locali, trionfalmente accolti dalla popolazione esultante. Intanto si erano svolte felicemente le ulteriori imprese di guerra nella pianura padana. Il centro della lotta fu la città di Mantova, difesa dal generale austriaco Dagoberto Sigismondo von Würmser, alla quale i francesi posero l’ assedio. Le operazioni di guerra successive si svolsero con rapidità impressionante: 3 agosto 1796, battaglia e vittoria di Lonato; 5 agosto 1796, battaglia e vittoria di Castiglione; 8 settembre 1796, battaglia e vittoria di Bassano; 15, 16 e 17 novembre, battaglia e vittoria di Arcole; 14 gennaio 1797, battaglia e vittoria di Rivoli; 2 febbraio 1797, battaglia e vittoria della Favorita con la conseguente capitolazione di Mantova. Costretto, nel frattempo, il papa Pio VI al trattato di Tolentino — con il quale lo Stato pontificio era privato di tutte le Legazioni — e ormai sicuro di essere coperto a sud, Napoleone, dopo aver forzato il Tagliamento, portò  l’offenSiva oltralpe, in territorio austriaco, dove avanzò fino alle alture del Semmering a meno di ottanta chilometri da Vienna.

Iniziati, il 7 aprile 1797, i preliminari di pace a Loeben, questa fu conclusa il 17 ottobre 1797 a Campoformio. Questo trattato consentiva alla Francia rivoluzionaria I ‘ influenza completa su tutta la Penisola e favoriva la creazione di repubbliche italiche indipendenti anche se, purtroppo, vassalle della — sorella maggiore — Repubblica Francese.

Napoleone e l’Italia

Dopo l’ ingresso del Bonaparte a Milano si era costituita, sotto il controllo dei francesi, la “Municipalità di Milano” che, nei desideri dei patrioti milanesi, avrebbe dovuto denominarsi successivamente “Repubblica Transpadana”.

Questo termine fu effettivamente assunto ma soltanto in modo formale. Infatti i francesi non consentirono mai che si costituisse uno stato indipendente, con proprie leggi, proprio governo e una effettiva autonomia politica. Tuttavia, una mattina del settembre 1796, per le vie di Milano si vide una lunga sfilata di popolo sventolare una bandiera bianca, rossa e verde e cantare, sull’aria di una canzone in voga, “La Giroletta “, il seguente ritornello nato spontaneo dalle labbra dei dimostranti: “L’è bianca, rossa e verde e la forma i trii color’.

Chi aveva ispirato i milanesi a scegliersi quel tricolore che mai si era visto prima di allora? Si ignora il nome dell’ideatore ma l’ipotesi più probabile è la seguente: nelle vicende rivoluzionarie francesi ebbero parte rilevante molte associazioni a base filosofica e intellettuale, più o meno segrete, ma più di tutte la Massoneria.

È logico pertanto che gli avvenimenti d’ oltralpe sollevassero l’entusiasmo dei massoni italiani e, in linea generale, di tutti gli spiriti liberi della Penisola che allora si definivano illuminati. Questi patrioti vollero assumere una identità nazionale scegliendo, quale simbolo, un tricolore affine a quello francese, ma in cui l’ azzurro era sostituito dal verde, colore massonico per eccellenza e che, simboleggiando la natura, stava anche a rappresentare i diritti naturali degli uomini.

Un mese dopo, il 17 vendemmiaio dell ‘ anno V (8 ottobre 1796), con un decreto dell ‘ Amministrazione della Lombardia, firmato da Napoleone Bonaparte e in nome della Repubblica Francese una ed indivisibile, viene costituita la “Legione Lombarda” composta da 3741 uomini e suddivisa in sette coorti di 500 uomini ciascuna e una compagnia di Cacciatori volontari a cavallo di 120 uomini. Due articoli del sopracitato decreto così stabiliscono:

“Art. IX — Ogni Coorte avrà il suo stendardo tricolorato Nazionale .Lombardo distinto per numero, ed ornato degli emblemi della libertà

“Art. X — L’abbigliamento dell’Infanteria sarà un abito verde con paramani, e mostre scarlato,  iletto verde, pantaloni verdi con gance e galloni rossi, e bottoni coll’lscrizione — Legione Lombarda — Libertà — Eguaglianza —. L’abbigliamento dei Cacciatori a cavallo sarà simile a quello di quest’Arma dell’Armata francese. Le distinzioni saranno bianche, e rosse come nell’uniforme d ‘Infanteria.

I ragazzi milanesi, che assistevano alle sfilate di queste Ùuppe, le chiamavano burlescamente “remolazzit’ per il richiamo al colore dei ravanelli.

Ma non sono ancora questi i vessilli destinati a rappresentare I’ ideale nazionale. Sono bandiere militari e, come tali, dovevano ricevere pochi giorni dopo la loro istituzione il battesimo del fuoco alla battaglia di Arcole. Una di queste bandiere, assegnata alla Legione Lombarda il 6 novembre 1796, è pervenuta sino a noi ed è conservata nel Museo del Risorgimento di Milano.

Ma non trascorse molto tempo che il Tricolore, da insegna militare, diventò simbolo nazionale, e ciò avvenne sotto i migliori auspici

La Repubblica Cispadana

Bonaparte aveva istituito governi municipali per amministrare in via temporanea le province occupate, ma Bologna e Ferrara si erano già costituite in Repubblica e cominciavano a fare leve di soldati. Il fine di Napoleone era di riunire queste due ex Legazioni pontificie agli Stati del duca di Modena per costituire una sola Repubblica situata tutta quanta al di qua del Po. Tutto questo nell’ eventualità che, al momento della pace con l’Austria, si potesse impedire la restituzione al papa di Bologna e Ferrara e, al duca di Modena, il Modenese e Reggio nell’Emilia. Contemporaneamente nasceva nei cittadini l’aspirazione — alimentata dall’ attività politica svolta da “club” patriottici composti prevalentemente da Fratelli massoni ma anche da liberi pensatori, da rivoluzionari, da elementi progressisti e da liberali — di creare uno Stato laico moderno sul modello di quello francese. Per realizzare questo progetto Napoleone convocò, per il 16 ottobre 1796, un congresso da tenersi a Modena ove cento deputati delle quattro province dovevano costituire una Assemblea nazionale incaricata di proclamare la nuova Repubblica e di elaborare una Costituzione.

Questo “Primo Congresso Cispadano”, che si svolge a Modena nei giorni 16, 17 e 18 ottobre 1796 delibera la costituzione della “Confederazione Cispadana” e invita gli italiani ad unirsi nel nome della comune libertà. Per la prima volta dopo secoli di dominazione straniera risuona nuovamente il nome “Italia”.

Contemporaneamente il Congresso abolì la feudalità, decretò l’ eguaglianza civile, nominò un Commissario incaricato di formare una legione di quattromila uomini e decretò la riunione di una seconda Assemblea, a Reggio Emilia in dicembre, per deliberare sulla Costituzione da adottarsi. Gli abitanti di Reggio manifestarono il più grande entusiasmo. Essendo uscito il 4 di ottobre da Mantova un corpo di circa 200 soldati austriaci, corsero alle armi, lo accerchiarono a Montechiarugolo vicino a Correggio e lo condussero, al completo, prigioniero a Reggio. Nello scontro caddero due cittadini reggiani che, a giusta ragione, possono considerarsi i primi martiri della rinascita nazionale.

Questo II Congresso Cispadano di Reggio Emilia nelle sedute del 27 e 28 dicembre 1796 delibera all’unanimità di trasformare la Confederazione Cispadana in “Repubblica Cispadana, una e indivisibile”, dando vita al primo Stato unitario della storia italiana. Il 7 gennaio 1797, nel corso dei lavori dello stesso Congresso, il deputato di Lugo di Romagna, Giuseppe Compagnoni, propose ai convenuti che la bandiera dai colori verde, bianco e rosso fosse adottata come vessillo ufficiale della neonata Repubblica. Una fraterna, ma accesa, discussione avvenne sull’ adozione del terzo colore, oltre il bianco e il rosso.

La componente filofrancese propose l’ azzurro che vedeva in esso il colore più simile al bleu francese; i seguaci della Carboneria proponevano il nero; dai rappresentanti filopontifici fu proposto il giallo, ma prevalse il verde, scelto dalla componente massonica di cui il colore verde è un simbolo, per la volontà dell ‘elevato numero dei Fratelli massoni presenti nel Congresso. Fu altresì deciso che la banda centrale bianca fosse “caricata” di un turcasso portante quattro frecce, circondato da due rami di alloro, poggiante su di un tamburo disposto orizzontalmente con alla base due affusti di cannone incrociati e le lettere R (Repubblica) e C (Cispadana) ai lati.

Il turcasso venne scelto come simbolo “raccoglitore” di idee e princìpi libertari nuovi; le quattro frecce rappresentavano le quattro province unite; alcuni fori nel turcasso esprimevano l’intento che altre città italiane accorressero sotto il vessillo, animate dallo stesso spirito di indipendenza; l’ alloro simboleggiava la vittoria che coronava l’ azione rivoluzionaria secondo I ‘ antico uso greco e romano; il tamburo — strumento di richiamo a raccolta del popolo e dei soldati — e gli affusti di cannone stavano a rappresentare la forza armata della neonata Repubblica.

Da quel momento la bandiera tricolore “italiana”, così approvata dal Congresso, inizia il suo cammino, alquanto avventuroso, nella storia. Ma già il 12 febbraio 1797 la sua foggia venne modificata dalla costituita Guardia Civica Modenese, che inalberò un vessillo — la cosiddetta ” — privo del tamburo, degli affusti di cannone e delle quattro frecce sulla banda centrale bianca, ma con la scritta “Libertà e Eguaglianza” sulla banda superiore rossa e con la dicitura “Guardia Civica Modenese” sulla banda inferiore verde. Il 19 marzo dello stesso anno anche il turcasso scomparve e fu sostituito dal berretto frigio, già presente nel tricolore dei Cacciatori della Legione Lombarda.

   La Repubblica Cisalpina       

Il | 0 giugno 1797 Napoleone decretò l’unificazione della Repubblica Transpadana con la Repubblica Cispadana alla quale fu assegnato il nome di “Repubblica Cisalpina” con Milano capitale. La solenne proclamazione fu fatta il 29 giugno e, ben presto, furono annessi alla Cisalpina i territori del Mantovano, del Bergamasco, del Bresciano, parte del Veronese, l’ex ducato di Massa e la Valtellina. Come bandiera venne assunto il tricolore verde, bianco e rosso, a bande uguali ma, per la prima volta, verticali e senza alcuna iscrizione. Il bianco venne però successivamente “caricato”, sotto I ‘ impulso dei concetti libertari e liberali che stavano confusamente farsi strada. Nel giro di due anni apparvero, e scomparvero, sul bianco del tricolore fasci littori sormontati dal Leone di San Marco, aquile ad ali spiegate; pugnali di Bruto incrociati o meno a rami di palma; fasci con asce bipenni, posti orizzontalmente, artigliati da aquile reali ad ali spiegate e squadre con fili a piombo o squadre e compassi intrecciati, di netta ispirazione massonica.

Nel 1799, a seguito dell’ occupazione dell ‘Italia da parte delle truppe della II Coalizione — Napoleone era impegnato nella Campagna d’Egitto — tutti gli ordinamenti francesi vennero aboliti, ivi compresi i simboli delle varie Repubbliche italiche istituite in precedenza dal Bonaparte. La bandiera della Cisalpina non era ancora stata sostituita che Napoleone, rientrato dall’Egitto e vittorioso a Marengo il 14 giugno 1800, impose agli Alleati della II Coalizione il ripristino, nel Nord Italia, dell’ ordinamento politico precedente e il riconoscimento, con la pace di Luneville del 9 febbraio 1801 , della ricostituita Repubblica Cisalpina. Il tricolore cisalpino venne di nuovo adottato ma “puro” senza cioè nessun fregio e nessuna iscrizione, nonostante un violento intervento, in sede di ricostituzione del Governo repubblicano, da parte del conte Francesco Melzi d’Eril, clericale e filopapalino, che propose di sostituire il colore verde con il colore giallo. Questo tentativo venne respinto dall’altrettanto violenta difesa di questo colore da parte del massone generale napoleonico Jean Baptiste Guichard.

Il cammino del Tricolore

Il 26 gennaio 1802 dalla “Consulta di Lione” viene proclamata la “Repubblica Italiana” e ne fu acclamato Presidente lo stesso Napoleone Bonaparte, in quel momento anche Primo Console della Repubblica Francese.

Come insegna venne adottato uno strano tricolore costituito da un drappo quadrato rosso ove era inserito un rombo bianco nel cui interno, a sua volta, era posto un quadrato verde. Il tutto senza alcuna iscrizione né fregio. Tale vessillo rimase invariato sino al 1805, anno in cui Napoleone, divenuto Imperatore dei Francesi, trasformò la Repubblica Italiana in Regno d’Italia acquisendone il titolo di sovrano. In questa circostanza la bandiera, pur mantenendo gli stessi colori, venne ad assumere un aspetto ancor più singolare: un drappo quadrato con inserito un rombo bianco, delimitato da fronde di alloro dorato, e con le quattro bande triangolari, formatisi agli angoli del vessillo, alternativamente di colore rosso e verde. Il rombo bianco, talvolta, ornato di fregi e motti.

Caduto definitivamente Napoleone, il tricolore italiano venne abolito insieme al Regno che rappresentava e, in tutta I ‘Italia, vennero ripristinate le bandiere delle precedenti dinastie. Ma sotto il dominio austriaco a proliferare società segrete patriottiche che assunsero come loro simbolo unitario il tricolore verde, bianco e rosso a bande verticali, sia pure con qualche variante a seconda del gruppo che l’aveva adottato. La “Giovine Italia”, per esempio, creò un tricolore con la banda verde più ampia delle altre due per significare la preponderante componente massonica nella Associazione.

Nel 1848 Carlo Alberto, all ‘ alba delle guerre d’ Indipendenza, adottò per le sue truppe un inedito tricolore a bande verticali uguali, con disposizione bianco, rosso e verde a partire dall ‘ asta “caricato”, sulla banda centrale rossa, di una croce bianca così da ottenere l’insegna savoiarda. Ma già nel luglio dello stesso anno tale vessillo fu sostituito da quello “risorgimentale” ove il tricolore verde, bianco e rosso — a bande verticali a partire dall ‘ asta — era “caricato” sul bianco con lo stemma savoiardo rosso con croce bianca, inscritto in uno scudo sannitico di colore azzurro.

La Repubblica Romana, nata il 9 febbraio 1849, retta dai triunviri Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini, Aurelio Saffi e difesa da Giuseppe Garibaldi, adottò, con decreto del 12 febbraio 1849, quale bandiera della neonata Repubblica il tricolore italiano con I ‘ aquila romana sull ‘ asta.

Il tricolore italiano, con al centro lo scudo sabaudo, rimarrà anche dopo “la fatal Novara” la bandiera del Regno di Sardegna e dopo la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta il 17 marzo 1861 , sarà il vessillo nazionale sino al 1946. Nel 1936, dopo la conquista dell’Abissinia e l’assunzione del titolo di Imperatore di Etiopia da parte di Vittorio Emanuele III, lo scudo savoiardo sul bianco venne sormontato da una corona imperiale. Nel 1943, durante la guerra civile, la Repubblica Sociale Italiana mantenne come vessillo il tricolore con l’asta della bandiera cuspidata da un fascio repubblicano e “caricando” il bianco, eliminando lo scudo sabaudo, di un fascio con l’ ascia bipenne posto orizzontalmente e artigliato da un’ aquila ad ali spiegate.

Con l’avvento, nel 1946, della seconda “Repubblica Italiana”, il Tricolore riassunse l’aspetto “puro” del vessillo della Repubblica Cisalpina, a bande verticali uguali verde, bianco e rosso, senza iscrizioni o fregi di sorta.

Nel bianco possono essere “caricati”, ma soltanto sulle bandiere in dotazione alla Marina, mercantile e militare, gli stemmi delle quattro Repubbliche marinare — Venezia, Genova, Pisa e Amalfi — racchiusi in uno scudo sannitico.

Sulla bandiera della Marina militare l’emblema è sormontato dalla corona turrita e rostrata e, nello stemma di Venezia, il Leone di San Marco impugna la spada. Sulla bandiera della Marina mercantile I ‘ emblema non è sormontato dalla corona turrita e rostrata e, nello stemma di Venezia, il Leone di San Marco regge un libro anziché impugnare la spada.

I tre colori, bianco, rosso e verde sono stati adottati anche per il sigillo della Repubblica Italiana. Il decreto legislativo del Presidente della Repubblica così testualmente recita: “L’emblema dello Stato approvato dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto da una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale: Repubblica Italiana“.

Conclusione

Terminando questa breve storia del Tricolore, non possiamo fare a meno di rilevare come esso si sia trasformato nel tempo secondo le presunte necessità di coloro che hanno ritenuto di doverlo utilizzare. Bande orizzontali, verticali, larghe, strette, scudi, fasci, stemmi ed una grande quantità di fregi si sono alternati nella nostra bandiera secondo anche la fantasia di chi ci ha preceduto. Qualcosa però è rimasto immutato: i colori e il simbolo. Il verde, caro a noi massoni, ci ricorda un glorioso passato di battaglie per l’ Unità d’Italia alla quale tanti nostri Fratelli hanno dato la propria vita. Il simbolo, anch’ esso rimasto immutato nei secoli, è quel qualcosa che tiene uniti eticamente tutti coloro che sono nati in terra italica. E quel sentimento che ci lega e ci accomuna, nel bene e nel male, nelle manifestazioni di solidarietà e in un altruismo operante.

Il nostro Tricolore dovrebbe ancor più farci “ricordare” il nostro avvenire, il futuro dei nostri figli e quindi la necessità ed il dovere, da parte di ogni cittadino, di costruire una società migliore e più civile, meglio se laica, democratica ed effettivamente basata sulla libertà e il rispetto per l’ altro, qualunque esso sia.•

Dagli Atti del Congresso di Reggio Emilia aperto il 26 Vendemmiatore dell’anno V (17 Ottobre 1796)

Nelle ore tre pomeridiane del 28 dicembre 1796 il suono delle trombe ha annunziato al popolo l’inizio delle sedute del Congresso. In un momento le tribune della sala elegantemente disposte sono ripiene di cittadini. Montato alla tribuna, il cittadino Fava di Bologna manifestò il desiderio di vedere ivi radunati non solo i rappresentanti della Nazione Cispadana e del Popolo di Reggio, ma anche popoli tutti d’Italia.

Lesse quindi decreti fatti nelle diverse città ed invito i rappresentanti a rinnovare l’atto solenne che dichiara l’•unità e l’indivisibilità della Repubblica. Un moto simultaneo fece ergere in piedi tutti i presenti e, i cappelli sollevati •in aria approvarono con l’unanimità dei sentimenti’

Il 7 gennaio 1797 il deputato di Lugo di Romagna Giuseppe Compagnoni propose ed ottenne l’adozione della bandiera verde bianco rossa quale vessillo della neonata Repubblica, affine a quella francese ma nel quale l’azzurro era sostituito dal verde, colore massonico per eccellenza e che, simboleggiando la natura, rappresentava anche i diritti naturali degli uomini.

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SOTTO IL SEGNO DELIA COMETA.

                                             SOTTO IL SEGNO DELIA COMETA.

Carissimi Fratelli,

il Cosmo, che non ha struttura, assomiglia a un guazzabuglio di eventi straordinari, casuali e disordinati, in cui la Vita costruisce strutture, estraendole da un disordine senza struttura.

Il concetto basilare, che meglio definisce una struttura, scaturisce dalla consapevolezza che vi è la possibilità di ricordare la stessa, ovvero di paragonarla a un ‘ altra struttura. In considerazione di ciò e per il concetto di casualità, che ci ricorda l’impossibilità di ricordare il caos o paragonarlo a un altro caos, in quanto privi di struttura, le forze cosmiche si ripropongono in strutture cicliche, e la Vita, adeguandosi, impara a bioritmare fornendo le adeguate risposte.

Nell’immenso crogiolo primordiale, l’azione della luce del sole, agendo sulle molecole semplici, diede l’avvio alla Vita. Oggi, alla luce della biochimica, pur immaginando condizioni ideali tali in cui la vita possa aver inizio senza luce, nessuno potrebbe assicurare la sua sopravvivenza, considerato che le radiazioni elettromagnetiche abbracciano un campo piuttosto ampio di frequenze e, di questo spettro, la luce solare e la vita occupano una minuscola sezione di esso tanto da rendere veramente difficile una conclusione che l’una non dipenda direttamente dall’altra. Questo significa che le forme viventi sono coinvolte tutte in un continuo dialogo aperto, ed un intenso scambio di informazioni ed influssi astrali, con l’universo.

Carissimi Fratelli, non dobbiamo aver dubbi! Una stella se osservata in una notte buia e senza luna, nel silenzio di un deserto, non può passare inosservata, anche se attorniata da altre luci, perchè risplende di luce propria. Ed eccola l’ Umanità tutta, con i buoni ed i cattivi, i ricchi e i meno abbienti, bianchi e neri, rossi e gialli, coloro che dicono di sapere e gli ignoranti, tutti con il naso all’ insù, con gli occhi fissi a cercare la cometa, arcana messaggera di silenziosi ed inquietanti messaggi, che qualcuno, tentando il recupero di un prestigio perduto, definisce apportatrice di sventure e maledizioni divine.

    Noi, quaggiù, con i nostri affanni e con l’acre sudore dell’impegno riposto nella conquista delle futili ed effimere profanità, con il cipiglio di chi, ahimè, accumula i metalli illudendosi di conquistare così l’immortalità della materia, restiamo in attesa della “buona novella”.

Carissimi Fratelli, è lo spirito che sopravvive, l’unico e solo aspetto, della triplice struttura dell’Uomo, non costretto a sottostare alle leggi della Natura dove tutto si trasforma e nulla si crea.

Volgiamo, allora, le nostre menti, i nostri pensieri, le nostre intenzioni… le nostre speranze, lassù in alto, verso il cielo infinito, solcato dalla “cometa” che con la sua immensa coda di luce, in silenzio, passa su di noi quasi a ricordarci che sarebbe, forse, molto meglio se l’ Umanità guardasse più diritto, davanti a sé, e si occupasse più fattivamente dei mille e mille problemi che soffocano, senza tregua, coloro che hanno bisogno, che soffrono per le prepotenze e le cattiverie dei propri simili, degli oppressi che lottano senza speranza per la libertà che forse… non avranno mai.

L’ invito del Ven.mo Gran Maestro, Fr. Virgilio Gaito, a contrapporre al costante e progressivo degrado della cultura nel nostro paese, ad opera del consumismo e dell’effimero, non deve lasciarci indifferenti. L’impegno riposto da ciascuno di noi, nei Lavori Esoterici, deve essere tale da provocare veramente quella trasformazione necessaria affinché le parole e le intenzioni non appaghino soltanto la sfera meditativa, ma operino concretamente nel sociale determinando quella ascesa verso l’alto, che è l’unica e sola a dare un vero significato alla esistenza umana, e che consente di guardare, con distacco, le miserie della vita di tutti i giorni, dall’alto, come la “cometa “…lassù nel cielo…

Il Presidente del Collegio dei MM.•.VV.•. di Puglia

Silvio Nascimbeh

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UN’IPOTESI INQUIETANTE: PASSATO E FUTURO …

UN’IPOTESI INQUIETANTE:

passato e futuro potrebbero influenzarsi reciprocamente…

ln un mondo cristallizzato in cui non vi fosse alcun cenno di mutamento, il tempo di certo non esisterebbe. Per avere una pallida idea di quel che si intende per “realtà del tempo”, bisognerebbe, innanzi tutto, chiarire il significato di “realtà del divenire”.

Per alcune filosofie, le orientali in particolare, I ‘unica realtà assoluta è quella dell ‘Essere: tutto ciò che è fuori di essa, non è altro che un’illusione. Tutto ciò che appartiene al divenire, quindi, non può essere considerato reale, in quanto opposto dell ‘essere e, conseguentemente, appartenente al mondo dell ‘illusorio.

Nel mondo dei viventi, il ritmo temporale è talmente rapido che il passaggio dalla nascita alla morte avviene in uno spazio che va dal fuggente attimo, ai giorni e agli anni, attraverso il susseguirsi di ritmi molto vari e talmente fugaci, che neanche la velocità del pensiero – il cui moto è pressoché immediato riesce a cogliere. Non è difficile rendersi conto, che la successione temporale non può essere analizzabile. Tutti noi ci muoviamo, e ci realizziamo, in funzione di un obiettivo prefissato non rendendoci conto, guarda caso, che lo stimolo primario del nostro operato non scaturisce dal presente, bensì dal futuro. Lo spazio e il tempo potrebbero essere, pertanto, immaginati come due immensi percorsi autostradali dove il presente, il passato e il futuro, magicamente fusi, costituiscono il misterioso e sconcertante scenario. La psiche umana, mistero dei misteri, è la sola che riesce a compiere in lungo e in largo i percorsi del presente e del passato. Quella del sensitivo, poi, è la sola a spingersi anche nel futuro.

Il tempo, considerato da sempre un impietoso tiranno, nel suo incessante procedere, impone a tutti gli esseri umani la legge irreversibile del suo fluire, che non consente a nessuno di risalirlo “controcorrente”, anzi: riesce a far apparire come assurdi ed inaccettabili i fenomeni paranormali, decisamente in contrasto con esso.

Considerando il “tempo” come un semplice prodotto del continuo mutamento della materia, il filosofo C. D. Broad sottolinea, molto argutamente, che se non esistessero “enti fisici” soggetti al divenire, esso non esisterebbe per  l’impossibilità indiscussa di distinguere un “prima” e un “dopo”. In un universo in cui tutto è immobile, dove non accade nulla – come cristallizzato – in assenza di mutamenti, non esisterebbe alcuna differenza tra il passato, il presente e futuro, in quanto identici. Non sarebbe piu possibile avvertire la successione di istanti diversi, del trascorrere delle ore, dei giorni, dei secoli, a causa del tempo “pietrificato”.

E’ indiscusso, quindi, che la vita dell’uomo è dominata dal fattore tempo e da luoghi comuni come, domani, ieri, lo scorso anno, e da eventi che sono scanditi dall ‘incessante ritmo dell ‘orologio. Ci illudiamo, pertanto, che le informazioni relative al mondo del “presente” ci pervengano dai cinque sensi; nessuno, però, s’accorge che percepiamo, in verità, sempre e soltanto il “passato”. Quando ci lasciamo rapire dalla magia di un rosso tramonto, ad esempio, molti non sanno che il disco solare, giù all ‘orizzonte, è già calato da oltre otto minuti: è, infatti, il tempo che impiega il suo segnale di luce per coprire la distanza che lo separa dalla terra. Anche di notte, specie s’è serena, quando il nostro sguardo contempla il luccichio della volta celeste, ignoriamo, purtroppo, che gran parte di quelle stelle che brillano lassù, più non esistono: sono morte, e la luce che giunge a noi, proviene pertanto dal passato.

Appare evidente che vi è sempre un ritardo, anche se piccolo, tra il verificarsi dell ‘evento e il momento in cui il nostro essere prende coscienza dell ‘accaduto. Tutto ciò potrebbe spiegarsi con la diversa velocità con cui viaggiano le informazioni, sia nel nostro sistema nervoso che fuori di esso.

A questo punto, le svariate possibili sollecitazioni di mirate visioni retrocognitive, se il passato venisse percepito contemporaneamente al presente, e con nitidezza di immagini senza pari, potrebbero determinare nell ‘essere umano uno stato confusionale tale da far rasentare la follia: stati allucinatori, più conosciuti come psicometria da ambiente, dovuti proprio alla coesistenza delle due “irreali” realtà.

La realtà del divenire, non si attua in un astratto succedersi di passato, presente e futuro, ma nella loro sintesi che potremmo definire generata dal cosmico orgasmo di un organismo in cui coesistono il mondo animale-umano, minerale e vegetale, uniti indissolubilmente, per I ‘eternità.     Potremmo a questo punto, concludere che I ‘esistenza umana prende forma, si muove e si realizza, in un mondo popolato di strane presenze: i fantasmi di un passato che col loro spontaneo, ed a volte provocato, manifestarsi, tendono a condizionare il futuro.

Si, dev’essere proprio così. Nonostante la consapevolezza delle esperienze vissute, e le immagini del futuro che il presente a volte lascia intravedere, l’uomo continua stoicamente il suo cammino…

Chissà perché mai questa tenacia… ? E’ forse questo, I ‘arcano significato del tempo: sfidare Dio, Grande Architetto dell ‘Universo, per affermare, di conseguenza, il principio del libero arbitrio..

Silvio Nascimben

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