DALLA PIAZZETTA ELLA CHIESA. . .

    RACCONTI DEL MISTERO

Dalla piazzetta della chiesa…

…verso l’ignoto

di

Valentino Romano

Non s’era mai vista tanta gente nella piazzetta della Chiesa. ” Neanche durante le feste patronali”, pensò Giuseppe arrivandovi. Il brusio della folla era sostenuto, eppure non dava fastidio.

Ognuno parlava con i vicini, ma sembrava farlo in uno spazio molto più ampio, per cui il vociare di tutti non disturbava nessuno. Giuseppe avvertiva una strana sensazione dello spazio: gli capitava di pensare alla ‘piazza” come ad un luogo le cui dimensioni s’ingrandivano progressivamente per consentire alla gente che era presente d’ aumentare continuamente.

Le distanze tra le case, la Chiesa, gli alberi e la strada apparivano però sempre uguali.

Era come se lo spazio si adeguasse al numero sempre crescente delle persone che vi confluivano, pur rimanendo inalterato.

 non fu l’unica stranezza che Giuseppe credette di cogliere. Guardò tra la gente nel tentativo di scorgervi volti conosciuti e ne percepì una seconda: non ne riconosceva nessuno; ma ognuno di essi aveva comunque per lui qualcosa di familiare.

Era come se fossero tutte persone che – per qualche verso – avessero attraversato la sua memoria, ognuno deponendovi, in chissà quale meandro, un diverso messaggio. Ora questo, insieme con tutti gli altri, veniva stranamente richiamato, riaffiorando in una confusa simultaneità.

Se però Giuseppe, per totalizzare meglio il ricordo, provava a fissare un volto, questo sembrava sfocarsi nei contorni e divenire anonimo, ancor più degli altri. E così per il primo, per un altro e per un altro ancora.

Proprio come quando si vuole ridare volto e nome ad una persona vista appena in passato e di cui, per un motivo qualsiasi, se ne riaccenda improvvisa memoria.

Giuseppe poi era sempre stato un distratto, abituato a non registrare i particolari che lo circondavano: spesso gli capitava di accorgersi di un mutamento nelle cose che erano intorno a lui solo parecchio tempo dopo che quello era avvenuto.

Quella volta non poté tuttavia accorgersi che anche gli abiti avevano un che d’insolito: la loro foggia era diversa come se fossero stati confezionati in tempi diversi.

Fu scosso allora da un fremito di paura verso un ignoto che non riusciva a comprendere.

Decise di saperne di più: si diresse verso la Chiesa per trovarvi qualcuno che lo aiutasse a capire; sulla porta aveva scorto un gruppo di preti.

Non so se la speranza o la paura – o forse entrambe – gli fecero credere di individuarvi un volto finalmente amico.

“Ci cascava pure lui, pensò. Come la gran parte degli uomini che, avendo paura di ciò che non capiscono, tentano di esorcizzarlo rifugiandosi in Dio”.

Pochi metri lo separavano dal gruppo: affrettò il passo, mentre una inenarrabile commistura d’apprensione, turbamento e insieme di curiosità, gli pervadeva il cervello.

Era quasi giunto a metà strada quando sentì chiamarsi per nome.

Guardò verso quella direzione un attimo, cercando di collegare al timbro della voce che aveva udito il volto di una persona conosciuta.

Il richiamo si ripeté: più chiaro, più deciso.

E dalla folla vide staccarsi due persone che avanzavano verso di lui, una delle due tenendosi appena dietro all’ altra.

Anch ‘egli, istintivamente, si mosse verso di loro, senza avere tuttavia il tempo di riordinare le idee.

“Figlio…” mormorò uomo più vicino e 10 ripeté, in rapida sequenza, altre due volte.

Allora riconobbe suo padre !

Dal fondo dei suoi ricordi, imperioso, riemerse lo stesso richiamo appena udito. Erano le ultime parole che suo padre aveva pronunciato, prima di morire.

Fluirono nella sua mente le medesime sensazioni di allora.

La malinconia ed il rimpianto della separazione si ripresentarono in tutta la loro intensità.

Ma fu un istante, solamente un istante.

Poi gli sguardi d’ entrambi, dopo essersi tanto cercati, si ritrovarono: e si parlarono nella lingua che solo il sangue conosce, dicendosi cose che avevano sapore d’ antico e riannodando tenere, complici e mai sopite intese.

Il rimpianto del passato perduto lasciava in Giuseppe il posto alla commozione di un presente assurdamente ricomposto.

L’altro uomo gli rivolse anch’egli la parola: “Proprio non mi riconosci?”

Giuseppe cominciò a tremare: in lui aumentava il panico di chi si trova in una situazione che non capisce. Pur tuttavia, non aveva paura di quell’uomo. Le sue sembianze avevano un che di vagamente familiare: gli ricordava qualcuno.

Improvvisamente capì: doveva essere suo nonno che pure non aveva conosciuto, perché era morto prima che lui nascesse:

L’ angoscia l’ avviluppò.

Cosa poteva mai essere quel luogo, che cosa accadeva intorno a lui di tanto assurdo da annullare tempo e spazio, stravolgendone i rapporti consueti

Il padre, come una volta, come sempre, capì e gli sorridesse con l’espressione appena malinconica di un tempo: “Giuseppe, possibile che ancora non capisci? Questo è il nostro paese. Ci siamo tutti: generazioni d’oggi insieme a quelle di ieri. Siamo la generazione di sempre. Siamo l’uomo, anzi la sua memoria. Quella che ci circonda è la comunità intera del nostro paese. Ognuno di noi vede le persone che ha amato così come vuole ricordarle e da loro percepisce l’ immagine di quelli che ci hanno preceduti. Così tu vedi me e, tramite me, vedi tuo nonno. L’amore è memoria del passato… E la memoria è l’ unica vera sapienza…”.

“…Allora papà, vuol dire che anch’io…”.

Giuseppe s’interruppe, mentre un lampo di luce gli baluginava nel cervello; rimase muto, ancora incapace di accettare la realtà…

“Si, figlio mio, è così: tu sei appena morto e questo è il luogo che in vita si chiama aldilà”

“Già, solo che adesso è aldiquà”, pensò Giuseppe con la solita immediata ironia che gli aveva permesso tante volte di superare momenti difficili. Sorrise, pensando alle sue paure da vivo.

Gli doleva morire ad esempio perché non sopportava l’ idea del distacco con suo figlio.

Ora invece tutto pareva aver perso l’ importanza attribuita alla vita: era sereno.

Aveva percepito la vera essenza della morte.

Fino ad allora ne aveva colto solo gli aspetti esteriori, intuendo che con i suoi silenzi essa irrideva al vociare convulso, e spesso a vuoto, della vita; che con il disfacimento delle forme ne abbatteva le diversità; che con I’ immobilità ne annullava il frenetico rincorrere e rincorrersi.

Adesso gli era finalmente anche chiaro che la morte non era né la fine né l’inizio di nulla; non conosceva delusioni perché non sapeva illudere; lasciava alla vita le gioie, perché suoi erano gli affanni: non distribuiva premi e nemmeno comminava condanne. Essa cancellava le colpe, rendendo inutile il perdono.

Tutto, la morte accetta, ogni cosa tollerando, con la pazienza estrema di chi è consapevole della propria superiorità finale.

         La sua vittoria stava soprattutto nel fatto che non divideva, ma univa.       

E così, senza più bisogno di parlare, con il padre che gli s’ appoggiava al braccio e con il nonno che li seguiva dipresso, Giuseppe s’ incamminò, finalmente pago, verso I ‘eternità.

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I DIRITTI CIVILI

I DIRITTI CIVILI

di

Vittorio Vanni

La nostra civiltà ha da tempo assunto la democrazia ed i diritti civili che ne conseguono come suoi inattaccabili pilastri. Chi ne teorizzasse oggi una limitazione o ne mettesse in dubbio le basi filosofiche si metterebbe nella posizione di un eretico del periodo medioevale o di quello contro-riformista. Nel contempo la nostra attuale civiltà applica queste conquiste dell ‘ evoluzione in maniera così imperfetta da non apparire, nei fatti, migliore di quella antica. Il progresso etico del XIX e XX secolo, pur così sviluppato nella coscienza dei popoli, ha pur tuttavia prodotto negli ultimi cento anni mostruosità morali e materiali inimmaginabili nelle età più oscure, perché accompagnate dal paritetico sviluppo della tecnica. Ci troviamo, come si dice quotidianamente, alle soglie del terzo millennio senza sicurezze materiali e morali, in un caos ideologico senza precedenti nella storia dell’umanità. Il secolo della grande rivoluzione, quella francese, e quello susseguente, godeva di entusiasmi e sicurezze ormai perdute. Da un parte l’ anelito di una nuova libertà, dall’ altro il dispotismo autoritario del vecchio mondo. Da un lato la freschezza delle nuove conoscenze scientifiche che spazzavano via le cupe nuvole superstiziose, dall ‘ altro il vecchio regime che sosteneva il trono e l’ altare come le fatiscenti colonne della propria esistenza. Ma proprio l’ affermarsi dei diritti civili nella coscienza e nella volontà dei popoli ci pone oggi in una grave crisi dell’interpretazione di tali diritti. I mezzi di comunicazione di massa ci presentano ogni giorno l’immagine di una universalità purtroppo solo informatica, di una globalità sempre più smentita., mentre la frammentazione delle coscienze presenta al più evoluto e civile rappresentante della civiltà occidentale gravi dubbi, ripensamenti e revisioni spesso fondate. E forse la kantiana guerra dei giusti contro i giusti quella che vede in opposizione violenta il nord ed il sud del globo, i valori affermati della nostra civiltà contro quelli di civiltà a loro modo aliene che rivendicano i loro particolari diritti civili? Il trionfo dei diritti civili dei popoli di colore in sud Africa non sta producendo forse un nuovo apartheid di segno opposto? Il diritto di Israele alla propria vita nazionale non contrasta anche violentemente i diritti dei palestinesi alla loro? I diritti dei produttori di ricchezza personale e sociale non sono forse altrettanto validi di quelli dei prestatori d’ opera’? E quelli dei deboli in che modo debbano prevalere nella ridistribuzione del plus-valore? Il diritto dei popoli del terzo mondo che cercano in occidente anche le più precarie condizioni di vita pur di sopravvivere deve prevalere di fronte a coloro che vogliamo mantenere un tenore di vita duramente ottenuto oltre alla propria identità, personalità, valori e costumi?

Dobbiamo rispettare o meno costumi che a noi occidentali sembrano – e forse sono – aberranti, come quelli nord-africani della infibulazione, della parziale o totale asportazione del clitoride alle proprie donne? Dovremo permettere ad una forte minoranza mussulmana in Italia il loro diritto di regolare la propria vita secondo le leggi coraniche della propria tradizione?

La tolleranza sempre un valore assoluto rispetto all’intolleranza altrui?

La nostra etica, risultato di una sofferta e lunghissima evoluzione, vacilla di fronte a situazioni affatto nuove, e la tentazione dello scontro frontale si fa breccia in una gran parte della società civile, indipendentemente e trasversalmente alle ideologie ed alle classi, forse ancor più nelle classi sociali popolari che hanno maggiormente beneficato dei diritti sociali universali.

La soluzione a questa divisione interiore che tutti oggi percorre, e travolge opinioni radicate, atteggiamenti interiori ritenuti ormai intangibili non può non investire la Massoneria che negli ultimi tre secoli ha fornito la maggiore energia e forza di pensiero all’evoluzione sociale.

Incrostazioni di pregiudizi storici ormai superati, di agiografie legittime ma ormai scontate, di retoriche stanche e stereotipe, di consuetudini legate ad una contingenza superata ed erroneamente ritenute tradizione impacciano oggi l’ Ordine che sembra afono ed atono, in una eterna difesa contro le persecuzioni dei nostri avversari.

Maggiore vitalità, maggior pensiero massonico potranno contribuire ancor oggi alla risoluzione degli immensi problemi di questa fase storica, che ha necessità di una nuova rinascenza, di un nuovo

umanesimo.           

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APPUNTI PER UNA STORIA DELLA CREMAZIONE

APPUNTI PER UNA STORIA DELLA CREMAZIONE

di

Anna Maria Isastia

Tralasciando i ricordi della classicità romana e greca e le utopie dei rivoluzionari francesi, di cremazione si cominciò a parlare in Italia a metà del secolo scorso.

A luglio 1866, un medico di Padova, Ferdinando Coletti , ristampò sulla Gazzetta medica italiana, da lui diretta, la dissertazione che avcva svolto nel 1857 dando l’avvio alla campagna in favore della cremazione. I campi di battaglia di Custoza e di Sandowa erano coperti di cadaveri di soldati e di animali, le cui esalazioni appestavano l’aria a grandi distanze a causa del caldo e dello scirocco. Serpeggiava il colera e mancavano le braccia per dare a tutti una rapida sepoltura. Questioni morali, igieniche, economiche e religiose spingevano Coletti a proporre l’incenerazione di quei cadaveri e più in generale a sostituire la cremazione all ‘ inumazione, contraria all ‘ igiene per le esalazioni che corrompono I ‘ aria e le infiltrazioni che infettano l’acqua e i terreni. Il medico padovano sosteneva che la chiesa non poteva essere contraria all ‘ incenerazione perché il cristianesimo non professa un culto superstizioso del cadavere e non pensa che si possa conservarlo, ma solo proteggerlo dalla profanazione. Al contrario considera la riduzione del corpo umano in cenere quale simbolo della fragilità umana descritta nella frasepulvis es et in pulverem reverteris (Genesi, III, 19). La profanazione era legata alle quotidiane esumazioni che avvenivano nei cimiteri, indispensabili per fare posto ad altri cadaveri. I resti mollali ridotti in cenere, avrebbero spogliato la morte da tutte le immagini ripugnanti che I ‘ accompagnavano. Le urne, conservate in casa, avrebbero rafforzato i legami familiari ed esercitato una benefica influenza sulla morale degli individui. Gli emigranti avrebbero potuto condurre con sé le spoglie dei loro cari, la religione delle tombe, di foscoliana memoria, si sarebbero estese a tutte le fasce della popolazione. Coletti concludeva la sua perorazione con un invito ad essere utopisti !

La sua perorazione fu raccolta da un deputato nativo di Carovigno (Brindisi), Salvatore Morelli, un massone di sentimenti democratici che, appena eletto deputato, presentò alla Camera una proposta per sostituire la cremazione al sistema di inumazione dei cadaveri, con quali risultati non occorre dirlo.

Fu un massone livornese, Gaetano Pini, medico igienista, grande organizzatore, a rendere popolare il tema della cremazione tra i fratelli lombardi trasformandolo in uno dei punti qualificanti della progettualità massonica. Fondatore di innumerevoli associazioni filantropiche, alto dignitario della massoneria, artefice della nascita della società per la cremazione di Milano e di tutto il movimento cremazionista organizzato, amico di Paolo Gorini, di Agostino Bertani, di Luigi Pagliani, Pini può essere considerato l’ uomo simbolo del collegamento massoneria-cremazione sintetizzando nella sua persona tutte le motivazioni che veicolarono la propaganda del paradigma cremazionista.

I problemi che i primi fautori della cremazione si trovarono ad affrontare furono di tipo normativo e di tipo tecnico. Bisognava modificare le norme in vigore che non prevedevano questo sistema di conservazione dei resti umani e bisognava elaborare un procedimento tecnico che rendesse possibile ridurre in cenere un corpo in maniera igienica ed economica.

La prima cremazione fu fatta a Milano nel 1876 e ad essa ne seguirono altre nelle città dove mano a mano venivano costruiti i forni crematori o meglio, i templi crematori.

Secondo una prassi che si ripete sempre uguale, nelle diverse città veniva costituito un comitato provvisorio che dava vita ad una società per la cremazione dei cadaveri che faceva domanda all’amministrazione comunale per avere la disponibilità di un’ area nel locale cimitero sulla quale far costmire l’edificio crematorio.

I documenti dimostrano che, ovunque, furono i massoni ad attivarsi, scontrandosi spesso con l’ aperta ostilità delle gerarchie cattoliche e dei clericali presenti nei consigli comunali. Furono infatti le maggioranze municipali a decidere la sorte delle cremazioni nelle diverse regioni italiane d’Italia.

Milano, Genova, San remo, Torino, Modena, Bologna, Firenze, Venezia, Novara, Udine, Livorno, Arezzo e tante città grandi e piccole del centro nord risposero positivamente. A Roma, non senza forti contrasti, il fratello Felice Giammarioli riuscì infine a far costruire il tempio nel cimitero Verano.

Ai successi nel centro nord fecero riscontro una serie di fallimenti a sud.

A Napoli i liberi muratori di Rito scozzese, che facevano capo al supremo consiglio di Torino costituirono nel 1886 una commissione incaricata di tradurre in atto i voti della massoneria napoletana  circa la costituzione di una società per la cremazione dei cadaveri e l’erezione di un forno crematorio.

L’ impegno dei massoni napoletani non fu sufficiente a superare l’ aperto boicottaggio delle autorità cittadine al progetto cremazionista anche se, nel 1888, il comitato, in cui entrarono l’ing. Ferdinando Papale e il senatore Enrico De Renzi, ottenne dalla Giunta comunale la designazione dell’ area nel cimitero di Poggioreale dove costruire forno e tempio. L’ area però non venne mai consegnata. Nel 1892 il comitato si trasformò in Società anonima cooperativa per la cremazione dei cadaveri in Napoli. Dopo una serie di ricorsi che non ottennero nessun risultato, l’ 8 febbraio 1907 il prof. Francesco Scaduto, presidente della società per la cremazione napoletana, inoltrava domanda al regio commissario Trinchieri il quale, con lettera del 4 aprile, concedeva l’ area dietro versamento di duemila lire. “11 versamento non si poté effettuare perché il cinque aprile subentrò l’amministrazione regolare – clerico-moderata – la quale non solo si rifiutò di accettare il deposito di duemila lire, ma sollecitamente ritirò dalla R. Prefettura la deliberazione del Regio commissario. mandata pel visto al signor prefetto” . Le autorizzazioni non furono mai date anche se la società contava ben 273 soci .

Anche a Palermo, nel 1891 i massoni di Taranto provarono a loro volta a costituire una società per la cremazione. Ben 236 nomi affollano le quattro liste che seguono quella del comitato promotore, di cui fanno parte il dottor Guglielmo Baldari , l’ applicato tecnico Severino Crivelli, il direttore didattico Eduardo De Vincentiis Pasquale Ridola  professore nel regio liceo, Rosalbino Turano, Francesco Raimondi  Erano tutti fratelli della loggia Archimede, di Rito scozzese, impegnata nella “difficile lotta al clericalismo” e nello sforzo di dare vita a nuove forme di                          pubblica come la Croce verde che fu costituita nel 1892.

Del comitato entrarono a far parte il capo ufficio delle ferrovie, consiglieri comunali, pubblicisti, professori, il presidente della società di tiro a segno, i direttori scolastici. “La voce del popolo”, il settimanale cittadino, diede voce e spazi all ‘iniziativa propagandata attraverso un ciclo di conferenze. Preoccupato dall’iniziativa, l’ arcivescovo intervenne neutralizzando la campagna cremazionista con tre prediche tenute nella Cattedrale a febbraio 1892. In quel mese si teneva il triduo dell’Immacolata in ricordo del terremoto del 1 febbaio 1743.

Per l’occasione monsignor Jorio preparò tre lavori sul tema: “L’ Immacolata e la cremazione”

Tanto bastò per svuotare I ‘ iniziativa della classe dirigente tarantina. Al successo della prima conferenza cremazionista si contrappose il fallimento della conclusione del ciclo informativo. L’impegno e la volontà profusi da questi pionieri non furono sufficienti a superare la prevedibile opposizione dell ‘ autorità ecclesiastica e non risulta che a Taranto sia mai stata operativa una società per la cremazione.

Anche a Salerno, a partire dal 1905, i fratelli della loggia Carlo Pisacane, cominciarono ad interrogarsi sulla possibilità di fondare una società di cremazione  , ma il tentativo non portò a nulla.

L’opposizione cattolica nel meridione fu più forte dell’ impegno del mondo laico. Nel 1874 un sacerdote di Pavia aveva scritto:

“Voi vi domandate quale rapporto possa avere l ‘ abbruciamento dei cadaveri colla religione; ed io, senza la pretesa di dettar sentenza come teologo, e solo come cattolico di buon senso, non dubito di rispondervi francamente che l’ abbruciamento dei cadaveri, quale saviamente è inteso da voi e dai vostri colleghi , non è un voto che si opponga alla religione

Nel 1886 fu invece comminata la scomunica, poi abrogata da Paolo VI nel 1963.

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UN AMULETO ARAMAICO-EBRAICO CONTRO IL MALOCCHIO RITROVATO IN LECCE

UN AMULETO ARAMAICO-EBRAICO CONTRO IL MALOCCHIO RITROVATO IN LECCE

di

Francesco Guida

Dall’ antica Rivista Storica Salentina (anno XIII n. 4-5, dicembre 1921) diretta da Salvatore Panareo, mi è piaciuto trarre un gustoso articolo di Giuseppe Gabrieli sulla decifrazione di un amuleto aramaico-ebraico rinvenuto per terra nel 1919 dal Sig. Antonio Nuzzo sul viale alberato adiacente la stazione di Lecce. Tale oggetto si presentava in un piccolo astuccio cilindrico di latta arrugginita. Dentro vi era arrotolata una striscia di pergamena dello spessore di circa 25 mm, lunga 42 cm, larga 4 cm, tagliata in punta in alto, con un piccolo foro al vertice, coperta di scrittura ebraica ad inchiostro nero, divisa in sei parti principali. Tre di queste parti sono quadrate e contenenti ciascuna dei quadratini in cui sono iscritte delle lettere dell’ alfabeto ebraico, significanti probabilmente le iniziali del nome di Dio. Oltre a queste figure geometriche, i riquadri principali sono due: uno è occupato dal disegno di una mano distesa. Sul pollice si legge: “Pietra d’Israele”, e sulla palma:

“Io sono Rebecca, figlia di Sultana Istria, prole di Giuseppe Giusto Catina, sul quale il malocchio non ha alcun potere. Quindi segue la sezione principale, più lunga, contenente uno scongiuro: “Io scongiuro, ogni specie di malocchio, sia di sesso maschile sia femminile, che si trova al mondo, che forse ha veduto riguardato o incantato Rebecca, figlia di Sultana Istria NQZ (lettere intraducibili, n.d.a.). Vi comando e scongiuro per quest’Occhio sublime santo, Occhio penetrante, Occhio bianco, Occhio di perfetta misericordia, Occhio perspicacissimo, Occhio di colui che custodisce Israele in eterno, (scritto HLIVISI e scritto H’I’LL), per quest’Occhio sublime e santo io comando e scongiuro voi, tutte le specie di malocchio, di ritirarvi e d ‘allontanarvi e di fuggire e di andarvene da NQZ, e che non vi sia alcun potere su NQZ né di giorno né di notte, né nelle veglie né durante il sonno, né in uno dei suoi nervi o membra in eterno. ANSE Sia dunque la NQZ guardata, custodita, preservata da tutte le malattie cattive che potrebbero infierire nel mondo e da tutti gli spiriti maligni, e da ogni paura, spavento, terrore, sogno cattivo, e da ogni male che esiste nel mondo. Sia la NQZ piuttosto sana di corpo, per avere una vita felice e pace, per meriti delle ancelle (di Dio) Sara, Rebecca, Rachele, Lia, per meriti di Rabbi Meir il taumaturgo. Amen. Dio di Meip; esaudiscimi .

Il Gabrieli, consapevole dei limiti per un commento esaustivo, fornisce tuttavia alcune note esplicative che rischiarano, seppur con luce fioca, il buio interpretativo. Anzitutto riscontra l’ uso diffuso degli amuleti presso gli Ebrei antichi e moderni, in particolare quello contro il malocchio. Purtroppo i nomi di persone menzionati sull’ amuleto non danno alcuna indicazione sulla data dello stesso. Con ogni probabilità il citato Rabbi Meir dovrebbe essereMeir ba ‘al ha-nes (Maestro operatore di miracoli) celebre dottore del sec. d.c., allievo del grande Aqibà, nativo d’ Asia Minore, sepolto in Tiberiade (cfr. Jewish Encyclopedy) Il nome di Rebecca, figlia di Giuseppe Giusto Catina e di Sultana Istria consente qualche ipotesi. Il cognome della madre riporta alla storia degli Ebrei nella penisola istriana, ove verso il 1634 i cristiani cominciarono a fondare i primi Monti di Pietà, per contrapporsi ai Banchi dei Giudei. Questi abbandonarono progressivamente la penisola emigrando tra l’ altro anche in Italia, conservando nomi o cognomi titolati a città istriane. Se questa ipotesi è esatta la madre di Rebecca, Sultana, sarebbe vissuta alla fine del sec. VIII.

Sulla presenza ebraica in Lecce, si hanno fracce già nel periodo normanno (Tanzi, Statuti, 1898) sino alla fine del sec. XVI, ma probabilmente gli Ebrei non tornarono più dopo•il bando di Carlo III nel 1749. •

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IL VERO PARONE RAMPANTE

Il vero Barone Rampante

Scoperto il personaggio che ispirò Italo Calvino

di

Aldo Alessandro Mola

“Credo molto nell’individuo, proprio perché mi preoccupo della storia collettiva”. Così scriveva Italo Calvino nell’agosto 1957. Dieci mesi prima i carri armati sovietici avevano schiacciato l’Ungheria insorta contro il totalitarismo comunista, incompatibile con la sua anima di popolo libero, mai piegato neppure dagli Asburgo. Kruscev – proprio l’uomo che aveva denunziato i crimini di Stalin – si comportava da stalinista. Repressione nel sangue d’ogni anelito alla libertà. Dopo mesi di attesa un segnale da parte del PCI di Togliatti e compagni contro il liberticidio sovietico ai danni degli “Stati satelliti”, Italo Calvino ruppe col partito. “Comunista”, del resto, non era mai stato davvero: era entrato nel PCI durante la lotta di liberazione, convinto di trovarvi un più alto livello di rispetto per l’uomo. Scoprì invece — anche nel famoso viaggio in URSS che lo vide cronista autocensurato – che il totalitarismo rosso era la tromba della libertà, il disprezzo dell’uomo praticato nei gulag non per caso allestiti prima ancora che Hitler impiantasse i lager per concentrarvi e sterminarvi gli oppositori e le “razze inferiori .

Diffidente, e con buone ragioni, nei confronti dell’altra forma di totalitarismo contemporaneo, la massificazione del puro e semplice “consumo”, una sorta di neomarxismo da grande magazzino, Calvino si tuffò allora nelle radici illuministiche dei principi di libertà. E s’imbatté nella massoneria.

Non fu affatto un incontro casuale. Suo padre, Mario, il celebre agronomo e creatore della moderna floricoltura del Ponente Ligure, così come lo zio, Quirino, era stato tra i fondatori della loggia “Giuseppe Mazzini”, sorta a San Remo nel 1900. Lì Mario fu “fratello” di suo padre, Gio. Bernardo e di uno zio, entrambi già affiliati a una loggia di Napoli e ora attivi in quella sanremasca. Di più: prima di trasferirsi in Messico e a Cuba (ove nacque Italo), Mario Calvino fu anche affiliato alla “Garibaldi” di Porto Maurizio, a sua volta fondata nel 1900. Per i Calvino Massoneria significava unificazione nazionale, laicismo, utopia riformatrice, emancipazione delle plebi dall’ignoranza e dalla miseria, libera circolazione di uomini e idee e lotta contro ogni forma di tirannide. Non erano solo “parole”. Mario Calvino dette il suo passaporto a un giovane russo che rientrava nei confini dell’Impero zarista per combattervi l’intolleranza (era l’epoca dei pogrom contro gli ebrei) e finì impiccato. I giornali riferirono che l’orrenda fine era toccata proprio all’agronomo sanremasco. Motivo in più, per lui, di accettare l’invito del governo messicano a organizzare l’agricoltura nel Paese di Pancho Villa.

Italo aveva sempre avuto un rapporto difficile col padre: due mentalità, due mondi, due stili di vita. Però sentiva la suggestione dei simboli che i Calvino ponevano sull’ingresso delle loro case, dalla Pigna a San Giovanni, sul fianco della collina di San Remo. Liberatosi dal partito “padre” ideologico e artificioso, come un Guerin Meschino dell’era atomica Italo andò quindi in cerca dei suoi veri antenati. E s’immerse nello studio dei simboli liberomuratori e di quanti li avevano praticati. Una ricerca fruttuosissima. ln parte riversata nel Barone rampante, primo fortunatissimo romanzo della trilogia completata con Il Visconte dimezzato e Il Cavaliere inesistente, pubblicato nel 1957.

Come ora documenta Luca Fucini in Il Barone dell’Impero l’omaso Borea d’Olmo (Sorbello editore, via Paleocapa 16/ B, Savona), Cosimo Piovasco di Rondò, il “barone” calviniano, non fu affatto parto di fantasia. Era nientemeno che il mare di San Remo dal 1805: un nobile (creato marchese da Vittorio Amedeo III) apprezzato da Napoleone sin da quand’era generale dell’Armata d’Italia e poi creato barone dell’Impero “con maggiorascato”. Abilissimo – narra Fucini, sulla scorta di documenti inoppugnabili – nel traghettare il Ponente Ligure, e soprattutto la “sua” San remo, dall’esoso dominio di Genova (che nel 1753 gli arrestò il padre e gli impose una pesantissima “taglia”) all’ingresso nell’Impero di Francia, dal crollo napoleonico al collet-Piemonte in attesa di libertà costituzionali. Non per caso il figlio di Giobatta mati Borea d’Olmo, Tommaso Pietro Francesco, fu a fianco di Santorre di Santa uni-Rosa ad Alessandria nel moto del 1821. Rampante a sua volta: e sempre verso la libertà. Carbonaro, il giovane cospiratore del 1821 aveva per padre n – siun massone. Tomaso Giobatta, infatti, venne “iniziato” nella loggia di Nizza, Dopo “I Veri Amici Riuniti”. Vietata e perseguitata dai giacobini, la Massoneria stava rinascendo sotto la protezione di Napoleone, celebrato come “primo rito massone” e del resto fratello di “grandi maestri” (Giuseppe, Luigi, Gerolamo.  ). e il cui figliastro, Eugenio Beauharnais, fu il primo gran maestro del  Grande Oriente d’Italia, creato a Milano nel 1805.

Quella massoneria – emerge dal bel lavoro di Fucini – non era però affatezzoto irreligiosa. Fautrice dell’ordine e della legge, essa rispettava la libertà di r im-coscienza dei suoi adepti. Non per caso proprio Giobatta Borea d’Olmo, nel sontuoso palazzo di San Remo (ove ora vive il suo discendente, il duca Guido Orazio, e in cui si trova l’interessante Museo, zeppo di simboli massonici) ospitò papa Pio VII che rientrava dalla Francia verso Roma, per riprender umane  il governo temporale.

Il Borea d’Olmo scovato da Fucini nacque 1’8 marzo 1767 e morì il 10 maggio 1838. Calvino fa nascere il suo Barone rampante alla nuova e vera oevita – gli spazi celesti sui boschi di Ombrosa, cioè San Remo – il 15 giugno no,1767. Il Barone vero e quello apparentemente “fantastico” furono dunque neluna stessa persona. Nella cappella gentilizia dei Borea d’Olmo, nella chiesa già di Santo Stefano a San Remo, ormai bene addentro nella lettura dei “simdiboli”, Cal\âno colse l’intreccio degli elementi primigeni: acqua, terra, aria e ia-fuoco, raccolti nello stemma del Barone dell’Impero, sovrastato dall’elmo nosenza volto del Cavaliere inesistente.

ce,Abilissimo nel ri-velare, cioè nascondere nuovamente, le sue scoperte, i suoi disogni, le sue scorribande nei liberi spazi della fantasia (così remote dallo stalinista Zdanov e dal Togliatti che liquidò senza tanti complimenti fi-l”‘intellettuale” Elio Vittorini), quando approntò di persona un’edizione “scolastica” del Barone rampante e ne scrisse la prefazione col nome anagrammato di Tonio Cavilla, Italo sforbiciò del tutto i capitoli sulle riunioni notturne dei massoni sui boschi d’Ombrosa a cospetto di Cosimo Piovasco di Rondò. L”‘ambiente” torinese in cui lavorava rimaneva succubo della tetra egemonia à,marx-comunista. Di massoneria – tutt’uno con la nascita della borghesia liberale moderna – non si doveva parlare. E così il Barone rampante continuò a svolazzare per i cieli, lontano dalle miserie della Torino degli anni della contestazione e del sangue. “Andrà sempre peggio”, scrisse ancora Calvino in una eilettera che ora compare a cura di Luca Baranelli per IMeridiani di Mondadori. “Più le cose del mondo vanno male, meglio si scrive”. Fedele, insomma, alla sua “missione”: inventare simboli e contrapporre al materialismo incombente ail piacere della libertà. Partendo dalla storia, compreso, finalmente, il rapporto con i suoi “Antenati”: il Barone rampante (o dell’Impero) Borea d’Olmo e quelli “di casa”: Mario, Quirino, Gio. Bernardo…recuperati di nascosto nella

loro dignità di “liberi muratori”.•

neaxgorà Dicembre 2000 / Febbraio 2001                                                                                                                                             15

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IL PRINCIPE Dl SANSEVERO,

IL PRINCIPE Dl SANSEVERO,

ALCHIMISTA E GRAN MAESTRO

di

Sigfrido E. E Hobel

bbiamo già accennato allo Tschudy, alla sua Etoile Flamboyante, ed al Catechismo erme tico-massonico dell ‘ Ordine dei Philosophes inconnus ispirato al Novum Lumen Chymicum del Cosmopolita ed alla obnubilata del Marchese Francesco Maria Santinelli, opere di chiara ispirazione rosacrociana.

Ricordiamo che il Marchese Santinelli aveva fatto parte a Roma del circolo esoterico di Cristina di Svezia, insieme al Marchese di Palombara, a Giuseppe Francesco Borri e ad al dotto gesuita, Padre Athanasius Kircher; nel 1667 era stato a Napoli dove, secondo il Francovich  doveva pur esistere un circolo rosacrociano, collegabile in qualche modo alla esoterica di Giovan Battista della Porta ed della sua Accademia dé Segreti; è ben probabile pertanto che il Principe di Sansevero, il cui influsso fu certo molto forte sullo Tschudy, fosse stato a sua volta in contatto con un tale circolo e che la conoscenza che lo Tschudy aveva delle opere del Cosmopolita e del Santinelli risalga al periodo in cui era stato presso Don Raimondo.

Possiamo quindi-dedurre che lo stesso Principe di Sansevero, con la sua Dissertazione sulla vera cagione produttrice della luce, si sia voluto collegare ai due testi del Cosmopolita e del Santinelli, i cui titoli presentano entrambi un esplicito riferimento alla Luce. Pertanto, anche prescindendo dall’effettiva esistenza a Napoli, difficilmente dimostrabile, di un gruppo iniziatico, che doveva necessariamente essere segreto, si può tuttavia ammettere un collegamento, almeno ideale, del Principe con quella corrente di pensiero d’ ispirazione rosacrociana sviluppatasi in Europa nel corso del XVII secolo.

Il movimento dei Rosa-Croce rappresenta un momento di coagulo di diverse correnti di pensiero accomunate sia dal riferimento ad una tradizione sapienziale pre-cristiana, che da un atteggiamento etico e mistico, ma profondamente anti-dogmatico e fondato su una salda concezione della libertà nella speculazione filosofica e nella sperimentazione. La filosofia ermetica, la tradizione alchemica, la magia naturale e la Cabala costituiscono in tal senso le basi di un pensiero progressista e libertario e vengono riproposte sotto il comune denominatore dei misteriosi RosaCroce.

Raimondo Lullo e Paracelso sono punti di costante riferimento, in una rinnovata visione dell ‘ Alchimia come scienza insieme spirituale e sperimentale, la cui proposta di operatività appare come un invito ad esercitare il pensiero in modo libero e spregiudicato, ed a sviluppare una scienza di tipo sperimentale, collegandosi ad una più o meno definita Società di Filosofi.

ln tal senso è estremamente significativo il fatto che il Principe abbia fatto stampare due opere come il Conte di Gabalis e il Riccio Rapito, in cui si fa riferimento alla teoria paracelsiana degli Spiriti Elementari: questa teoria non costituisce certo né un’assurdità,- né uno scherzo fine a se stesso, ma è piuttosto un ‘ allusione a quelle “nature spirituali le quali, sebbene materiali, non possono essere percepite dai sensi a cagione della loro tenuità” . E il Pope, dedica della sua opera ad Arabella Fermor, aveva fatto un esplicito riferimento ai RosaCroce: sono gente che vi farò conoscere. Il miglior resoconto su di loro, a me noto, si trova in un libro francese, Le Comte de Gabalis, per titolo e mole assai simile a un romanzo, e infatti molte appartenenti al bel sesso lo hanno letto per errore” .

Essendo molto improbabile che il Principe di Sansevero abbia voluto pubblicare due opere esplicitamente collegate alla tradizione rosacrociana senza essersi interessato egli stesso a tale tradizione, riteniamo che soprattutto in essa vadano ricercati i fondamenti di una sua formazione alchernica, con particolare riferimento alle opere del Cosmopolita e del Santinelli, ed alla corrente di pensiero, insieme scientifico ed esoterico, sviluppatasi negli ambienti illuminati europei e soprattutto in Inghilterra

Abbiamo dunque cercato di ricostruire, per quanto possibile, quelli che devono essere stati i principali riferimenti teorici del Principe di Sansevero in materia alchemica, ma siccome, parlando di ricerche alchemiche, intendiamo riferirci anche alla pratica operativa, un elemento decisivo a favore della tesi che il Principe abbia realmente praticata l ‘ Alchimia, è senz ‘ altro l’effettiva esistenza di un laboratorio adatto a tale Opera, insieme pratica e filosofica, e allora non possiamo non ricordare la fornace da vetraio che volle installare nei sotterranei del suo palazzo, e certamente l ‘ esigenza di aver una fornace nel suo stesso Palazzo, era dettata dalla natura dei suoi esperimenti e dalla necessità di garantirne la segretezza.

Quali erano dunque le fisiche esperienze per le quali il Principe utilizzava le sue fornaci e l’annesso Lavoratorio chimico? L’ Origlia ci riferisce che “prima d’ogni altro compose un cristallo in tutto uguale a quello d ‘ Inghilterra…contraffè poscia anche varie sorte di pietre dure…. ebbe il piacere di contraffare pur delle pietre preziose di ogni sorta…. e col comporre sì fatte pietre è andato a filosofare, e chiaramente comprendere come le loro differenti spezie, e i loro differenti, colori, e gradi di durezza si vengono a generare, e perfezionare nelle viscere della terra”, in sintonia, aggiungiamo noi, con le teorie formulate da Paracelso e dal Cosmopolita.

L’ Origlia racconta quindi che il Principe “si è posto a rifare ora (siamo nel 1752-53) due sperienze fatte da lui di già altra volta prima, ma senza qué lumi di Filosofia, ch’ha di presente”. Il primo esperimento riguarda la resurrezione dei granchi di fiume “i quali dopo calcinati a fuoco di riverbero, e ridotti in cenere producono degli moltissimi insetti, e quindi da questi col fecondo giornale innaffiamento di sangue fresco di bue, usato in una particolar maniera, ne rinascono quelli di bel nuovo”: strano esperimento che sembra voler verificare il mito della, nonché le antiche credenze relative alla rigenerazione dei corpi morti.

L’esperimento del Principe di Sansevero, al di là di una interpretazione metaforica, rientra perfettamente nella logica dei lavori alchemici e rappresenta, in particolare, l’applicazione delle concezioni paracelsiane sulla generazione in vitro e sulla rigenerazione delle forme di vita organica: il grande Paracelso, sostenendo che era possibile “far rivivere i morti per mezzo della rigenerazione”, sottolineava che “la Resurrezione ed il ritorno delle cose naturali è un segreto non piccolo, ma profondo e grande nella natura delle cose, più angelico e divino che umano e naturale” e spiegava che la generazione trae origine dalla putrefazione, dal caldo e dall ‘umido, per cui si può far risorgere un essere organico dopo averlo ridotto in polvere e fatto imputridire nel letame all’ interno di una cucurbita sigillata.

In modo analogo Paracelso descriveva anche la creazione di un uomo artificiale, i ‘ Homunculus, ovvero un piccolo essere generato dalla putrefazione dello sperma umano in un vaso sigillato e quindi alimentato con “l ‘ Arcano del sangue umano”. Paracelso definisce questa operazione un “Arcano superiore a tutti gli Arcani”, uno dei più grandi segreti, finora sconosciuto agli uomini.

L’ inquietante operazione della creazione dell ‘Homunculus, che sembra precorrere le moderne idee

di fecondazione artificiale in provetta, presenta inoltre qualche affinità con la seconda delle “sperienze” ritentate dal Principe di cui parla l’ Origlia, e che consisteva nel produrre del sangue artificiale, lasciando fermentare dei cibi masticati e posti nel letame all ‘ interno di un vaso di vetro fatto in una foggia particolare, allo scopo di dimostrare “che il sangue proceda più tosto dal calor della fermentazione, che dalla triturazione dei cibi”.

Subito dopo, l’Origlia prende a narrare, con vivacità e dovizia di particolari, uno strano episodio che getta nuova luce sulle singolari ricerche del Principe di Sansevero: “non però desideriamo di defraudar il pubblico di un accidente, anche avvenuto in questo anno, che nel suo genere sembra stravagantissimo; sebbene non sia tale per quelli, che sono intelligenti delle naturali cose”.

L’Origlia racconta dunque che il Principe, “ritentando di far la materia del suo lume perpetuo, composta, secondo ha scritto nelle cennate sue lettere dell ‘ ossa del cranio umano”, giunse silenziosamente alle spalle di un suo dipendente che teneva in mano un manuaccio di vetro ermeticamente sugellato con i componenti di tale materia, e volendogli fare uno scherzo, gettò all’improvviso un grido, spaventandolo al punto da fargli rompere il vaso: dalla fessura apertasi nel vaso si vide allora uscire un fumo densissimo; questo fumo, dapprima di forma ovale, salendo verso l’alto, cominciò ad assumere una figura umana: “Una sì fatta figura che mostrava a uno a uno tutt’i suoi membri ignudi si era di colore olivastro, e colla barba, e i capelli folti, e in varie, e diverse sue parti si vedeva segnata con certe striature lustre a colore d ‘ argento diafano”. Grande spavento dei lavoranti presenti, mentre il Principe ed il Piccinino si soffermavano ad osservare con interesse ed attenzione il fenomeno, finché la figura, giunta sotto la volta dello stanzone, prese ad allungarsi e a dissolversi fino a sparire del tutto.

La fama del prodigio si sparse per la città, e il Principe, non potendo negare il fatto, prese a parlarne diffusamente, dicendo che “il Borelli, il Boyle, e altri gran Filosofi oltramontani avendo fatto l’istesse sperienze con ossa umane, avevano altresì nel matraccio di vetro una simile immagine osservato, la quale aveano con tal costanza asserito esser la stessa di quello di cui erano l’ossa, che non avevano dubitato di dire, che per vedere l’immagine di Cesare, di Cicerone, o d’ altri degli antichi, cotanto or da noi commentati, bastasse il solo poter avere un dé lor’ossi”.

La citazione da parte dell’Origlia del Borelli e del Boyle è particolarmente   importante: del Boyle, membro fondatore della Royal Society, si sa infatti che fu in rapporti con un misterioso “Collegio Invisibile”, mentre Pietro Borellio o Borelli è l’autore di un catalogo di testi ermetici, al termine del quale si trova una sua Epistola Chimica in cui si fa riferimento ai RosaCroce. Il fatto che entrambi risultino collegati alla tradizione rosacrociana, appare come un ‘ulteriore conferma, se non dell’adesione, sicuramente dell ‘interesse che anche il Principe doveva nutrire per essa e ciò appare tanto più significativo in quanto la citazione in questione si riferisce ad un tema già di per sé misterioso ed inquietante, quale la possibilità di una palingenesi umana.

Siamo così giunti nel vivo di un argomento affascinante e misterioso, quello delle “belle sperienze” fatte dal Principe di Sansevero “per rispetto alla Palingenesìa”, come si legge al termine della Breve Nota. Ecco dunque a cosa lavorava il Principe nel suo Laboratorio: alla rigenerazione della forma umana dalle sue ceneri; una ricerca la cui portata era tale da oltrepassare le stesse barriere della morte e la cui “materia prima”, come lui stesso dichiara in una delle sue Lettere sul Lume perpetuo, erano le ossa del cranio umano: “le ossa dell ‘ animale più nobile che sia nella terra; e le migliori sono appunto quelle della testa”.

Le ricerche del Principe sulla palingenesi si collegano ad un ‘altra sua strana “invenzione”, quella del Lume perpetuo: la materia era quella per gli esperimenti di palingenesi, ed stata ricavata dalle ossa del cranio umano sottoposte per diversi giorni all ‘ azione del fuoco in una vetreria cittadina. Il Lume nasce in seguito ad un fortuito accidente: il Principe racconta che in una sera di Novembre del 1752, avvicinando la fiamma di un cerino a questa materia contenuta in un vasetto, aveva provocato accidentalmente l’ accensione di una fiamma che aveva continuato ad ardere per sei ore prima che lui deliberatamente la spegnesse. Aveva poi accesa la materia di un altro vasetto e questa aveva continuato ad ardere per diversi mesi, senza che il suo peso fosse diminuito. Il Principe aveva quindi deciso di realizzare altri due di questi “Lumi eterni” per- sistemarli uno al capo e l’altro ai piedi della statua dei Cristo velato del Sammartino, nel Tempietto sotterraneo che stava facendo realizzare nella sua Cappella.

Il Principe, nelle Lettere scritte sull’ argomento, dopo essersi soffermato a lungo sui fuochi fatui, sulle fiammelle che talvolta si vedono sulle teste degli impiccati e sulle “lampade eterne” degli Antichi, conclude affermando che la sua materia ha acquisito il potere di ardere e di attrarre le particelle di “Fuoco Elementare” sparse nell’aria, in quanto i suoi sali sono stati resi fissi in seguito ai vari “cimenti di fuoco   cui le ossa sono state sottoposte.

Nella Dissertazione su una Lampada antica trovata a Monaco, il Principe riprende il discorso sull Lampade perpetue per affermare che gli Antichi “non possedettero mai l’arte di fabbricarne” e ribadir quanto aveva già sostenuto nelle sue Lettere, e cioè che le luci osservate all’ apertura di antichi sepote possono essere prodotte dai sali dalle ossa umane incendiati al contatto con I ‘ aria. Il Principe inizia quindi a parlare del Fosforo, “una materia che brucia, o che diventa luminosa senza avvicinarla al fuoco, o a un fiamma sensibile”, e spiega che tali Fosfori possono essere ricavati da tutte le parti del corpo da cui si put estrarre l’olio mediante distillazione e cita il ben noto principio alchemico secondo cui l’Arte imita l; Natura in quanto i Chimici “non hanno per scopo che imitare le operazioni della natura impiegando men« tempo e meno lavoro”.

Pertanto, la cosiddetta Lampada antica trovata a Monaco murata all’interno del pilastro di una chiesa non è in realtà una lampada, bensì una Caraffa di vetro all’interno della quale si trovava del Fosfore urinario, causa della luce che i muratori avevano scorta al momento del suo ritrovamento e che aveva fatto    pensare di trovarsi al cospetto di una Lampada perpetua.

Quindi, il Principe parla di un altro calice di vetro, custodito dal Rabbino di Costantinopoli, cui era pervenuto, passando di mano in mano, da un altro Rabbino, vissuto duecento anni prima. II Fosforo contenuto in questo vaso era definito “Fuoco nascosto”, e rappresentava, secondo le parole del Rabbino di Costantinopoli, la grande memoria della nazione giudaica “che era quella del Fuoco sacro, di cui i suoi beati erano stati un tempo depositari”. Esso simboleggiava inoltre il Messia atteso dal popolo ebraico e per mantener viva la speranza nella sua venuta, Dio aveva ispirato ad alcuni uomini eletti la realizzazione di dodici di questi Fuochi, affidati ad altrettante persone in ricordo delle dodici Tribù di Israele. E la Caraffa di Monaco sarebbe stata, secondo il Principe, un altro di tali Fuochi, mentre di un altro si sapeva che era stato affidato al Rabbino Isaac Abrabaniel, fuggito da Lisbona in seguito all’espulsione degli Ebrei, e giunto a Napoli, alla corte di Re Ferdinando d’ Aragona.

Simbolo di Luce spirituale, il Fuoco Nascosto ottenuto dal Fosforo estratto dalle urine è contemporaneamente, al pari della forma umana apparsa dai Sali delle ossa, e della luce del Lume eterno, la manifestazione di un principio vitale occultato all’interno della materia.

Ricordando che le operazioni effettuate dal Principe avevano per scopo la palingenesi della forma umana, ci chiederemo dunque se ci troviamo di fronte alla testimonianza di un esperimento allucinante ma tendente ad un effetto “vero e reale”, o se si tratta piuttosto di una metafora da riferire all’idea che l’umano intelletto, scintilla divina presente in ogni uomo, purificato ed esaltato attraverso i cimenti del fuoco, possa fissare la sua essenza e manifestarsi incorruttibile e libero dai vincoli della materia, dello spazio e del tempo?

Il discorso ci porta infine alle Salamandre, gli Spiriti del Fuoco di cui parlava il Conte di Gabalis: “se volete riconquistare il dominio sulle Salamandre, bisogna purificare ed esaltare l’ elemento Fuoco che è in noi e rialzare il tono di questa corda rilassata”. Per ottenere questo straordinario risultato occorre “concentrare il Fuoco del mondo in un globo di vetro per mezzo di specchi concavi” e nel globo si formerà una polvere solare che esalterà il Fuoco che è in noi e ci farà diventare di natura ignea. Il Principe sembra aderire a questa visione quando nella Lettera Apologetica scrive, anche se con cabalistica ironia, “e comecché possa perciò tranquillamente aspettarmi nel mio ultimo transito d’andare a godere nella regione del fuoco la felicità delle modeste e ritenute Salamandre

Emblema del Fuoco del Mondo, la Salamandra è il simbolo della Pietra fissata al rosso e dello Zolfo incombustibile, ovvero di quel Sale centrale incombustibile e fisso che conserva la propria natura anche nelle           ceneri dei metalli calcinati. ln quanto emblema alchemico del Fuoco e della parte più fissa e pura estratta dalla materia sottoposta ai cimenti del fuoco, la Salamandra è il simbolo della rigenerazione dell’uomo interiore, come si legge nello Zohar: “l ‘uomo interiore si lava con il fuoco, come una Salamandra”.

Quando dunque il Principe afferma di voler andare a godere nella regione del Fuoco la felicità delle modeste e ritenute Salamandre, il suo intento, esplicitamente dichiarato, è di esaltare la sua natura ignea, liberandosi dai vincoli della materia grazie all’ azione del Fuocofilosqfico, allo stesso modo in cui, operando alchemicamente, aveva potuto liberare il principio igneo dalla materia sottoposta ai cimenti del fuoco.                                                                                     

Alla luce di quanto abbiamo fin qui esposto, la definizione che il Principe dà di se stesso sulla sua lastra tombale, e con cui chiude la digressione autobiografica della Lettera Apologetica, sembra assumere un nuovo, più profondo significato, sottolineando il carattere straordinario del Principe e l ‘ aspetto eroico della sua audace ricerca, “e si comprenderà da tutti senza alcuna ombra di dubbio, che egli sia un di quei Eroi, che la Natura di tanto in tanto si compiace di produrre per far pompa di sua grandezza” •

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CRISTIANITÀ E LAICITÀ DELLA LIBERA MURATORIA

                              CRISTIANITÀ E LAICITÀ DELLA LIBERA MURATORIA

di

Baldo Conti

Introduzione

Non è per introdurre ancora una volta, un vecchio ed annoso problema, che poniamo alla nostra attenzione queste nostre due componenti massoniche, cristianità e laicità, ma è solo per chiarire — ancora una volta e se sarà possibile — la profonda differenza che esiste tra loro e per togliere dall’equivoco e dall’imbarazzo alcuni dei nostri Fratelli che, sembra, si stiano ancora dibattendo nel loro intimo su questa dicotomia. Proprio leggendo i molti libri e gli articoli che vengono pubblicati sulle nostre riviste ed ascoltando con attenzione anche le Tavole presentate in Loggia, con relativi interventi, viene il dubbio che non ci sia completa chiarezza al riguardo.

La Massoneria cosiddetta “speculativa”, quella attuale, alla quale tutti noi apparteniamo, come si sa, nasce ufficialmente nel Settecento, codificata — se così si può dire — da James Anderson, pastore protestante inglese e, per l’esattezza, presbiteriano. Questo almeno ci narra la storia che noi tutti accettiamo e ciò conferma, se ce ne fosse stato bisogno, l’evidente origine appunto cristiana della Massoneria moderna, ma certo anche di quella precedente definita, in contrapposizione, “operativa”. Chiunque, in caso di dubbio, può rileggersi con tutta la calma che desidera e studiarsi le numerose antiche e recenti pubblicazioni in proposito e se anche, come da tempo sappiamo, il grado di attendibilità della storia è pur sempre molto relativo, l’eventuale concordanza di questa origine tra le varie fonti potrà confortarci, almeno in parte. La nostra estrazione cristiana a prescindere poi dalla storia — è confermata dal fatto che la stessa cultura “laico-profana”, alla quale apparteniamo ed attingiamo, nasce in ambito “occidentale” e quindi, per forza, qualsiasi riferimento, anche vagamente definibile religioso-spirituale-rituale non poteva che ispirarsi al mondo cristiano dal quale deriva ed alle sue componenti simboliche ed esoteriche.

Il tutto, è inoltre confermato dalla nostra remota origine, appunto operativa, di “costruttori di cattedrali”, quindi molto prossima, se non addirittura un tutt’uno o comunque dipendente, dalla Chiesa cristiana. Non sembra perciò che su questo punto possa esserci alcun dubbio o possibilità d’equivoco e sul quale noi tutti dovremmo poi concordare. La cosa appare anche ovvia ed evidente.

Sembrerebbe opportuna qualche modifica al nostro interno: come è già stato detto più volte, il mondo si evolve, cambia e con esso si ha una trasformazione anche  se lenta— dei significati delle parole, degli oggetti e dei simboli, mentre nuove spirito definizioni e nuovi concetti entrano a far parte sia della lingua sia del nostro  mondo anche interiore e spirituale. Come più volte sostenuto, una parola o un simbolo in uso cento e più anni fa non ha certo lo stesso significato di oggi. Tra l’altro, l’evoluzione della lingua e del pensiero portano poi con sé altri problemi; nel tempo, appunto, cambiano i significati delle parole e proprio i tempi sono oggi molto ristretti per l’ampia diffusione dei mass-media. Leggi e regolamenti, appena codificati, sono destinati ad essere cambiati il più presto possibile per una essere giustamente adeguati alle esigenze “ambientali” che cambiano che loro continuamente e velocemente; per poter proseguire nel nostro cammino e per poter vivere la nostra vita ed ottenere oggi gli stessi risultati di ente ieri dobbiamo modificarci incessantemente per “aggiornare” i nostri mezzi  alle nuove necessità che il nostro “habitat” ci fornisce.

Usiamo consapevolmente l’intelligenza che per definizione sembra consista proprio nella capacità d’adattamento a situazioni nuove. La filosofia e della scienza — disciplina da qualcuno ritenuta piuttosto azzardata, rischiosa e talvolta disdicevole — ci suggerisce inoltre, in modo molto saggio, di non “affezionarsi” mai troppo alle nostre idee, ma piuttosto di provare sempre come a confutarle ed a dimostrare che sono “false”, così come non dobbiamo  affezionarci mai troppo alle cose che ci circondano, alle abitudini ed a tutto  ciò che possediamo.

Il nostro futuro potrebbe apparire migliore se riuscissimo a svecchiarci, laicizzarci, a ricrearci effettivamente, nei simboli, nei concetti e nella vita operativa. La leggenda di Hiram, sembra proprio sia stata dimenticata da molti di noi.

Anche in mare, i naviganti hanno l’abitudine, ma direi sono costretti continuamente, a correggere la propria rotta ed a rifare sempre il “punto” della situazione se vogliono rientrare in porto e salvarsi dall’eventuale burrasca. Talvolta, per sopravvivere, sono anche costretti a cambiare completamente rotta, a cercare un porto diverso da quello stabilito inizialmente.

Questa dovrebbe essere proprio la nostra strategia, specialmente futura.

Il tutto, come al solito, non richiederà poi un grosso impegno di tempo, ma più che altro di volontà, di fede nella Libera Muratoria e forse proprio nella vita stessa. Non possiamo lasciar trascorrere i giorni, uno dopo l’altro, senza essere riusciti a costruire qualcosa di nuovo e di migliore, d’efficace e di concreto per noi e per i nostri figli.

Dobbiamo ri-scoprire quella che molti di noi definiscono come “tradizione” e sintetizzare, dai pensieri se filosofici, religiosi e laici di un tempo e d’oggi, una nuova etica massonica la (a-cristiana ed effettivamente universale), un nuovo “sistema” che non stravolgerà sicuramente i valori che da sempre la Massoneria ha indicato al

re mondo ed ha sempre perseguito, non dimenticando mai, ricordiamolo, che la spiritualità non implica necessariamente la presenza della religiosità o della divinità.

Questa nuova etica della Libera Muratoria avrà il compito di ri-adattare e ri-attualizzare “laicamente” e liberamente le nostre vecchie codificazioni, senza costrizione alcuna, alle esigenze del nuovo millennio da poco iniziato sa e che noi tutti ci auguriamo sia migliore dei due che ci hanno preceduto, impresa che, visti i risultati trascorsi, non dovrebbe essere neanche cosa molto difficile ottenere.•

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APICIO

                       APICIO

La cucina dell’antica Roma

Il nome Apicio era comune, nell’ antica Roma a tre ben noti ghiottoni, vissuti in età diverse.

Il primo si fece notare per aver contrastato la legge Fannia del 161 a.C., una legge che cercava di porre un limite allo sperpero durante i banchetti e al numero dei commensali.

Il secondo, vissuto sotto Augusto e Tiberio, si chiamava Marco Gavio Apicio e sembra essere l’ autore della prima stesura del “De Re Conquinaria ‘

Il terzo visse sotto Traiano ed è ricordato per aver inventato il procedimento per mantenere fresche le ostriche. Il suo nome era Claudio Celio Apicio ed elaborò, ampliandolo, il testo del suo predecessore. Quel che fa ritenere vi sia stato l’ apporto di due persone   ben distinte alla realizzazione del trattato è il fatto che Claudio era un nome romano e Celso, invece, etrusco. Non solo. Ma, per alcuni storici della tarda romanità, essendo il nome “Apicio” sinonimo di esperto d’ arte culinaria, detto nome potrebbe intendersi come “Trattato dell’esperto cuoco” a cui avrebbero collaborato vari cuochi di quel periodo.

A differenza dei moderni trattati di arte culinaria, dove con pignoleria asfissiante vengono indicate dosi, quantità, pesi di solidi e liquidi da usare in cucina, tanto da impegnare la mente in calcoli e regole di ricordo scolastico, Apicio, invece, lascia libertà d’inventiva , salvo particolari casi, a tutti tanto da sollecitare, in chi è presente, il vero amore per la cucina. La riprova di questo magistrale invito lo si riscontra nelle espressioni, che suonano quasi un ‘ amorevole raccomandazione, di Apicio rivolte ad un cuoco esperto e di “palato fine “Gustas: si quid deest, addes… ‘ (assaggia, se manca qualcosa aggiungila…) e “Si quid opusfuerit, cittis… ‘ (se c’ è bisogno di qualcosa, aggiungilo…) e, ancora “Si quid defuerit, mittis…

(se manca qualcosa, aggiungilo…).

Nella Biblioteca di Vienna è conservata la Tabula Peutingeriana che illustra pittoricamente le itinera romane, ovverosia, i percorsi attraverso cui giungevano ad Apicio i prodotti esotici simbolo della sua ricca cucina.

Col nome di Apicio la nostra mente ha creato l’immagine di un cuoco eccellente, assillato da continue trovate di cibi sempre nuovi e sempre eccezionali, al punto tale da esigere la stesura di un trattato, quale memoria storica di svariate fantasiose sollecitazioni gastronomiche atte a risollevare lo spirito, allontanando quei sapori tradizionali e abitudinari dei romani di quel tempo, annoiati e perennemente in

cerca di emozioni.

Assaturas. Assaturam: assam a furno simplicem salis plurimo conspersam cum melle inferes.

Aliter assaturas: petroselini scripulos, asareos scripulos, zingiberis scripulos, lauri bacas v, condimenti satis, laseris radicis scripulos, origani scripulos, cyperis scripulos, costi modice, pyrethri scripulos, apii seminis scripulos, liquaminis et olei quod sumcit.

Aliter assaturas myrtae siccae bacarn exenteratam cum cumino, pipere, melle, liquamine, defrito et oleo teres, et fervefactum amulas. Carnem elixam sale subassatam perfundis, piper, piper aspargis et inferes.

Assaturas in collari: elixantur et infunditur in fretali piper, condimentum, mel, liquamen, et attonetur in clibano quousque coquatur. Elixum vero collare, si voles, sine condimm assas, et siccum perfundis

In elixama et copadia piper, ligusticum, origanum, rutam, silfium. cepam siccam, vinum, caroenum, mel, acetum, olei modicum. Persiccatam et sabano expressam elixam perfundis. •

  Arrosti: arrostirai nel forno semplicemente cosparso di molto sale e lo servirai col miele.

Arrosto in altro modo: un pugnello di prezzemolo, un altro di assaraco (Assarum Cumpeum), uno zenzero, cinque bacche di alloro, condimento sufficiente, un pugnello di radice di laser, uno di origano, uno di cipero, poco costo, due pizzichi di piretro, un pugnello di semi di sedano, un pugnello e mezzo di pepe. Salsa e olio quanto basta.

Altro modo di fare l’arrosto: ùiterai una bacca senza semi di mirto secco insieme al cumino, al pepe, al miele alla Salsa, al mosto cotto e olio; farai bollire con arnido e verserai sulla carne lessata ed arrostita e salata bene; cospargi di pepe e porta in tavola.

Arrosto di carne tritata: lessa e versa in padella del pepe, del condimento, del della Salsa; arrostisci al fornello fino a cottura. Ma, lessata la coppa, se vuoi, arrostiscila senza condimento e bagnala con sugo caldo.

Salsa per lessi e carni tagliuzzate: pepe, ligustico, origano, ruta, silfio, cipolla secca, vino, vino dolce cotto, miele, aceto, poco olio. Asciuga il lesso e, dopo averlo ben asciugato col tovagliolo, bagnalo di Salsa.•

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LA MASSONERIA E LA RIVOLUZIONE DEL 1799 A TARANTO

LA MASSONERIA E LA RIVOLUZIONE DEL 1799 A TARANTO

di

Francesco Guida

Una rivoluzione massonica?

Già è difficile considerare la rivoluzione napoletana come rivoluzione giacobina in senso stret to, ovvero impostata sul modello della rivoluzione francese. Non si può parlare di giacobinismo in senso stretto in quanto il giacobinismo in Francia era stato già disperso, ma il movimento napoletano, secondo Franco Venutri, è “un derivato della fusione della grande tradizione della cultura illuministica napoletana e delle forze morali che le idee della rivoluzione francese hanno saputo suscitare” (Tommaso Pedio, Massoni e Giacobini nel Regno di Napoli, ed. Montemurro, Matera 1976, p.85).

Strettamente parlando non si può parlare di Massoneria quale regista della rivoluzione napoletana. Quando la corte di Napoli venne a conoscenza della situazione a Parigi, con una lettera giunta il IO ottobre 1789, dell’invasione delle Tuileries, lasciando intendere che l’artefice fosse il principe Luigi Filippo d’Orleans, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, la stessa regiria Maria Carolina, sorella della regina di Francia, Maria Antonietta, cambiò immediatamente opinione e sentimento sulla Massoneria divenendone acerrima nemica. Fu lei a sobillare il marito Ferdinando IV ad emanare l’ editto del 3 novembre 1789 contro la Massoneria. In seguito a tale provvedimento l’Istituzione cessò di esistere. Pertanto, le varie obbedienze come la Gran Loggia Nazionale, da Diego Naselli, le logge “inglesi” e quelle “francesi” chiusero i battenti. Dalle logge “inglesi”, le più attive con componenti di estrazione borghese, sorsero i “clubs” giacobini, formati da ex massoni come Mario Pagano, Pasquale Baffi, Giuseppe Albanese, Domenico Cirillo, Francesco Caracciolo (E. Stolper; La Massoneria settecentesca nel regno di Napoli, in Rivista Massonica 1975 pp.410-411; Fulvio Bramato, Napoli Massonica nel Settecento, pp.64-65).

Conseguenza dell’ editto del 3 novembre è la persecuzione di ogni “unione o società”. Uno degli episodi più eclatanti, e non ancora ben esaltato, fu il processo ai giacobini del 1794, in seguito al quale fu giustiziato il martire massone Emanuele De Deo di Terlizzi. Comunque, nonostante l’editto alcune sporadiche logge continuarono a lavorare nella clandestinità abbracciando i principi della Rivoluzione Francese. Nel marzo 1793 si scoprì che le logge erano organizzate in clubs di sei elementi ciascuna per non essere scoperti (Antonino de Francesco, Vincenzo Cuoco – una vita politica, Laterza 1997, p. 145).

Nell’ agosto 1793 Carlo Lauberg radunò a cena una ventina di Fratelli e qui decisero di abolire tutte le logge tradizionali e di unire in società “li massoni di ultima organizzazione”: si concluse all ‘unanimità che tutti i massoni formassero clubs di non più di undici soggetti (Giuseppe Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo, p. 393). Tali clubs erano suddivisi in quattro livelli: i clubs elementari, che erano le cellule base della struttura, di stanza periferica, si potevano moltiplicare in numero indefinito senza superare gli undici componenti, e se raggiungevano il dodicesimo dovevano scindersi in due clubs proprio per permettere una gestione agile e quanto più al sicura dalle persecuzioni.

Il club era retto da un presidente, un dq)qt.ato ed un segretario. Il candidato Veva essere presentato da due commissari elementari, quali erano #lli scelti tra i più antichi affiliati ed avevano la cura e l’ onere di verificare il curriculum del richiedente.

Il club dei deputati era formato da affiliati di provata fede e capacità. A seconda delle necessità i deputati si riunivano in gruppi composti al massimo di undici elementi, come per esempio per eleggere i commissari dei deputati, per poi sciogliersi subito dopo.

I clubs elettorali erano composti dai commissari dei deputati con il compito di scegliere nel loro ambito i membri del comitato centrale. Non si scioglievano come il club dei deputati in quanto funzionavano come organo di raccordo tra il club centrale ed i deputati, rappresentando le loro istanze al club centrale, vigilavano sulla sicurezza e controllavano i deputati. Il club centrale era il massimo livello dell’ organizzazione, con i membri conosciuti solo da pochi altolocati giacobini. Le disppsizioni erano rese verbalmente ai commissari, da cui erano trasmessi nello stesso modo ai propri deputati, e da questi riferiti per l’esatta

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esecuzione ai clubs elementari (Oreste Dito – L’influenza massonica nella storia calabrese – Ed. Brenner 1988, pp. 14-15). Molto suggestiva si rivela ai nostri occhi la procedura di elezione del presidente del club centrale: ognuno dei venti deputati, disposti in circolo, lasciava a turno il proprio cappello ai piedi del prescelto “a punto d’unione de’ deputati”, di modo tale che chi raccoglieva maggiori suffragi veniva eletto quale “punto centrale”. Un punto iscritto nel cerchio. ln conclusione, non si può dedurre che artefice della rivoluzione sia stata la Libera Muratoria perché era stata disciolta come organizzazione, ma si può affermare che furono i Liberi Muratori che portarono avanti le idee dell’istituzione nella Rivoluzione.

Prodromi massonici in terra jonica

(Giuseppe Grassi – Il tramonto del secolo XVIII in Martina Franca Taranto – Tipografia Arcivescovile: 1926). In Martina i Liberi Muratori venuti da Padova e da Roma avevano fondata la loro prima sede (P. Palumbo Ris. Sal. pag. 13). Non si sa chi sia stato il fondatore. In qualche manoscritto si fa il nome di Bonaventura Fighera, ma è frutto della confusione con altro Bonaventura Fighera, nipote di quel pittore gravinese che si stabilì a Martina. Da Martina i Liberi Muratori si propagarono in tutta la Terra d’ Otranto (così allora si chiamava la provincia di Lecce). Secondo una memoria storica i propagatori furono il francese Francesco Barbaris, Matteo Caro di Messina, Raffaele Mille con la moglie Teresa Gallo, venuto da Napoli per questo scopo. In Taranto fu massone Filippo Ceci (P. Palumbo, op. cit. p. 14).

Ma Nicola Vacca contesta tale riferimento del Palumbo nonché quello di Cesare Teofilato, secondo il quale la Massoneria esisteva nel Salento già nel 1785. Secondo il Vacca, non potendo fruire di fonti certe è invece molto probabile che esponenti locali siano stati affiliati in Napoli, come ad esempio il principe Michele Imperiali di Francavilla Fontana, affiliato a Napoli tra il 1750 – 1770 (Memorie Metalliche Salentine, Napoli – Agar 1962 pag. 25). Invece la prima documentazione certa sulle logge massoniche tarantine risale attualmente solo dal decennio francese, a partire dal 1804.

Esaurita questa premessa doverosa per inquadrare le azioni dei massoni tarantini, è opportuno tratteggiare, seppure in grandi linee. il contesto sociale della città di Taranto in quel periodo. È sufficiente ricorrere alla descrizione fatta da un viaggiatore svizzero, il conte Ulisse de Salis Marschlins, che passò da Taranto nel 1789. Dalle sue osservazioni emerge un quadro deprimente di una città sporca e maleodorante, composta da circa ventimila abitanti in uno stato di ignoranza e semi-abbrutimento: da tale plebe era vano aspettarsi in caso di rivolgimenti sociali un lucido contributo al cambiamento ma solo anarchia. Come nelle altre province del regno, i rampolli delle famiglie altolocate emigravano nella capitale napoletana per attendere agli studi. Da questa ristretta cerchia di intellettuali, formati alla scuola del massone Gaetano Filangieri, del massone Domenico Cirillo e dell’abate Antonio Genovesi, uscirono i protagonisti della rivoluzione del 1799, non a caso definita come rivoluzione massonico-giacobina (Cfr. Antonio Lucarelli, Puglia nel Risorgimento, vol. II pag. 142).

Anche Taranto ebbe la sua breve repubblica, portata da un pugno di uomini e durata appena ventinove giorni. Ma, diversamente da altri tragici epiloghi, come a Martina Franca, Altamura, Matera e tante altre province, Taranto fu risparmiata dallo sterminio e dalla violenza cieca, grazie al sacrificio morale e sociale di un uomo: l’ arcivescovo Giuseppe Capecelatro. Molto si è scritto in loco su questa figura di prelato che fu un personaggio tipico della mondanità napoletana a cavallo del secolo.

Nominato giovanissimo, all’età di 34 anni arcivescovo di Taranto, allora importante diocesi del regno, su interessamento del ministro Bernardo Tanucci, Capecelatro portava uno spirito nuovo ed originale nel mondo ecclesiale tarantino. Per nulla superstizioso, impresse una svolta innovativa nella diocesi che durerà per molti anni. Era portatore di idee gianseniste, che in quel contesto storico ecclesiale significava essere tacciati anche per massone: “La singolare alleanza e l’esplicita simpatia tra massoni e giansenisti, erano determinate dalle affinità dei rispettivi programmi. In alìre parole, despotismo illuminato, da un canto, episcopalismo e chiesa nazionale, dall ‘altro…. L’abate Pietro Tamburini, capo riconosciuto del Giansenismo lombardo affermò, nel 1793, che la Libera Muratoria, di cui non vuole giudicare né bene né male, era avida di riforme religiose, per nulla nemica dello Stato, propensa alle teorie gianseniste e perciò ritenuta affine al giansenismo’ .

Innovò il Seminario, luogo di formazione culturale prima teologica, con l’ istituzione delle cattedre di agronomia e medicina, dotandolo di docenti aperti alle innovazioni culturali, lontani dal curialismo e dalla soggezione romana ma immersi nella realtà socio culturale del territorio. Alcuni di questi preti vicini a

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Capecelatro saranno coinvolti nei moti del 1799 e successivamente in sette massoniche e carbonare.

Il primo della lista è don Giovambattista Gagliardi, famoso naturalista ed agronomo cui fu affidata la originale cattedra di agricoltura, il rettore del Seminario don Vincenzo Sebastio, il superiore degli Agostiniani padre Colella, il cappellano militare don Nicola Abbraciavento, il canonico Giuseppe Antonio Ceci, il frate Guglielmi. Tutti massoni? Non si ha alcuna certezza, ma Gagliardo certamente lo era. Fallito dopo appena un anno l’ esperimento dell ‘insegnamento dell’ agricoltura al Seminario, Gagliardi, intorno al 179091 andò a Napoli ove conobbe tra gli altri Mario Pagano, Domenico Cirillo, Melchiorre Delfico, ed è molto probabile che in questo periodo venne affiliato alla Massoneria.

Durante i moti fu sentito esclamare di essere giacobino da sette anni. Questa è una traccia interessante per scoprire l ‘ appartenenza massonica del Gagliardo. Se il movimento giacobino era stato disperso in Francia nel 1 794 con una legge del Direttorio, come può Gagliardo dichiarasi giacobino nel 1799? Forse la risposta si può trovare nel fatto che a Napoli non sono esistiti giacobini nel senso stretto dell ‘accezione perché il giacobinismo napoletano ha una propria fisionomia.

Per inserire il ruolo di Gagliardo nella rivoluzione del 1799 è opportuno dare qualche cenno sugli avvenimenti politici del regno di Napoli.

L’occasione della rivolta

Nel loro disegno di occupazione i Francesi occuparono Roma nel 1798 facendo prigioniero il papa Pio VI e costituirono la Repubblica Romana. In forza di trattati vigenti Ferdinando IV, re di Napoli, mandato il suo esercito comandato dal generale Carlo Mack ad accorrere a Roma per liberare il pontefice, vi fece ingresso trionfale. Ma i Francesi contrattaccarono, guidati dal generale massone Championnet, sconfiggendo l’esercito borbone e mandando in fuga Ferdinando TV. Quindi occuparono Napoli, il 21 gennaio anche se strenuamente difesa da orde plebee, i Lazzaroni, provocando nuovamente la fuga del re borbone, che il giorno di Natale del 1798 aveva raggiunto Palermo. Il 22 gennaio i patrioti napoletani proclamarono la Repubblica, riconosciuta il 24 gennaio da Championnet. Le conseguenze di tali avvenimenti si riflettevano in tutto il Regno con l ‘ anarchia derivante dai disservizi. Si interruppe il servizio postale per cui non si avevano notizie dalla capitale né dal Preside del capoluogo si avevano indicazioni su come comportarsi in tali frangenti. Gli animi del popolo non erano inizialmente favorevoli al nuovo corso.

La Rivoluzione a Taranto

A fine dicembre 1798 finirono a Taranto provenienti da Barletta alcuni emigranti corsi, al servizio dell’ Inghilterra, tra i quali il conte F. A. Rossi, con la moglie e figlia, che furono scambiati per Francesi. Questi furono trattati con ostilità dal popolo, e chiarito l’equivoco furono ospitati dall’arcivescovo Capecelatro nel suo palazzo per circa diciotto giorni.

Intanto il 9 gennaio erano giunti a Taranto sette corsi, non altolocati come il conte Rossi, tra i quali Francesco Boccheciampe, Giovambattista De Cesari, Raimondo Casimiro Corbara, inviso al conte Rossi che si rifiutò di portarli con sé.

Essi restarono a Taranto sino all’otto febbraio, quando dovettero fuggire nell’isola di San Pietro. Era accaduto che il sei febbraio si era impiantato l’ Albero della Libertà a Martina Franca, ed il giorno successi vo I ‘ arcivescovo Capecelatro ne venne inforrnato.

L’ otto febbraio arrivò finalmente la posta con la clamorosa notizia. L’ arcivescovo Capecelatro ricevette un fascio di stampe da consegnare al “noto liberale” Michele Gennarini. Giunse da Napoli anche Saverio Miglietta, “propagandista rivoluzionario”. All’ arcivescovo venne intimato di collaborare col nuovo regime, con la pubblicazione di una pastorale in suo favore. l’ adesione del Capecelatro fu immediata, convocò il governatore, il Comandante del Castello e gli elementi rappresentativi dei diversi ceti, consigliandoli di istituire il nuovo governo. Quindi inviarono un banditore per le vie delle città che invitava il popolo a radunarsi davanti l’ arcivescovado. Parlò per primo Capecelatro che invitò il popolo ad adeguarsi al nuovo sistema, poi presero la parola incisivamente Giovambattista Gagliardo e Michele Gennarini, che lessero i proclami e le stampe pervenute da Napoli, commentandole e condannando l’ operato del re.

In particolare Gagliardi dichiarò pubblicamente di donare alla nascente repubblica settecento ducati. La mattina dell’8 febbraio si procedette all’ elezione del presidente della Municipalità nella persona del patrizio Francesco Antonio Calò, che seppur riluttante dovette accettare la carica, del segretario e di

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IL VERO BARONE RAMPANTE

Il vero Barone Rampante

Scoperto il personaggio che ispirò Italo Calvino

di

Aldo Alessandro Mola

“Credo molto nell’individuo, proprio perché mi preoccupo della storia collettiva”. Così scriveva Italo Calvino nell’agosto 1957. Dieci mesi prima i carri armati sovietici avevano schiacciato l’Ungheria insorta contro il totalitarismo comunista, incompatibile con la sua anima di popolo libero, mai piegato neppure dagli Asburgo. Kruscev – proprio l’uomo che aveva denunziato i crimini di Stalin – si comportava da stalinista. Repressione nel sangue d’ogni anelito alla libertà. Dopo mesi di attesa un segnale da parte del PCI di Togliatti e compagni contro il liberticidio sovietico ai danni degli “Stati satelliti”, Italo Calvino ruppe col partito. “Comunista”, del resto, non era mai stato davvero: era entrato nel PCI durante la lotta di liberazione, convinto di trovarvi un più alto livello di rispetto per l’uomo. Scoprì invece — anche nel famoso viaggio in URSS che lo vide cronista autocensurato – che il totalitarismo rosso era la tromba della libertà, il disprezzo dell’uomo praticato nei gulag non per caso allestiti prima ancora che Hitler impiantasse i lager per concentrarvi e sterminarvi gli oppositori e le “razze inferiori .

Diffidente, e con buone ragioni, nei confronti dell’altra forma di totalitarismo contemporaneo, la massificazione del puro e semplice “consumo”, una sorta di neomarxismo da grande magazzino, Calvino si tuffò allora nelle radici illuministiche dei principi di libertà. E s’imbatté nella massoneria.

Non fu affatto un incontro casuale. Suo padre, Mario, il celebre agronomo e creatore della moderna floricoltura del Ponente Ligure, così come lo zio, Quirino, era stato tra i fondatori della loggia “Giuseppe Mazzini”, sorta a San Remo nel 1900. Lì Mario fu “fratello” di suo padre, Gio. Bernardo e di uno zio, entrambi già affiliati a una loggia di Napoli e ora attivi in quella sanremasca. Di più: prima di trasferirsi in Messico e a Cuba (ove nacque Italo), Mario Calvino fu anche affiliato alla “Garibaldi” di Porto Maurizio, a sua volta fondata nel 1900. Per i Calvino Massoneria significava unificazione nazionale, laicismo, utopia riformatrice, emancipazione delle plebi dall’ignoranza e dalla miseria, libera circolazione di uomini e idee e lotta contro ogni forma di tirannide. Non erano solo “parole”. Mario Calvino dette il suo passaporto a un giovane russo che rientrava nei confini dell’Impero zarista per combattervi l’intolleranza (era l’epoca dei pogrom contro gli ebrei) e finì impiccato. I giornali riferirono che l’orrenda fine era toccata proprio all’agronomo sanremasco. Motivo in più, per lui, di accettare l’invito del governo messicano a organizzare l’agricoltura nel Paese di Pancho Villa.

Italo aveva sempre avuto un rapporto difficile col padre: due mentalità, due mondi, due stili di vita. Però sentiva la suggestione dei simboli che i Calvino ponevano sull’ingresso delle loro case, dalla Pigna a San Giovanni, sul fianco della collina di San Remo. Liberatosi dal partito “padre” ideologico e artificioso, come un Guerin Meschino dell’era atomica Italo andò quindi in cerca dei suoi veri antenati. E s’immerse nello studio dei simboli liberomuratori e di quanti li avevano praticati. Una ricerca fruttuosissima. ln parte riversata nel Barone rampante, primo fortunatissimo romanzo della trilogia completata con Il Visconte dimezzato e Il Cavaliere inesistente, pubblicato nel 1957.

Come ora documenta Luca Fucini in Il Barone dell’Impero l’omaso Borea d’Olmo (Sorbello editore, via Paleocapa 16/ B, Savona), Cosimo Piovasco di Rondò, il “barone” calviniano, non fu affatto parto di fantasia. Era nientemeno che il mare di San Remo dal 1805: un nobile (creato marchese da Vittorio Amedeo III) apprezzato da Napoleone sin da quand’era generale dell’Armata d’Italia e poi creato barone dell’Impero “con maggiorascato”. Abilissimo – narra Fucini, sulla scorta di documenti inoppugnabili – nel traghettare il Ponente Ligure, e soprattutto la “sua” San remo, dall’esoso dominio di Genova (che nel 1753 gli arrestò il padre e gli impose una pesantissima “taglia”) all’ingresso nell’Impero di Francia, dal crollo napoleonico al collet-Piemonte in attesa di libertà costituzionali. Non per caso il figlio di Giobatta mati Borea d’Olmo, Tommaso Pietro Francesco, fu a fianco di Santorre di Santa uni-Rosa ad Alessandria nel moto del 1821. Rampante a sua volta: e sempre verso la libertà. Carbonaro, il giovane cospiratore del 1821 aveva per padre n – siun massone. Tomaso Giobatta, infatti, venne “iniziato” nella loggia di Nizza, Dopo “I Veri Amici Riuniti”. Vietata e perseguitata dai giacobini, la Massoneria stava rinascendo sotto la protezione di Napoleone, celebrato come “primo rito massone” e del resto fratello di “grandi maestri” (Giuseppe, Luigi, Gerolamo.  ). e il cui figliastro, Eugenio Beauharnais, fu il primo gran maestro del  Grande Oriente d’Italia, creato a Milano nel 1805.

Quella massoneria – emerge dal bel lavoro di Fucini – non era però affatezzoto irreligiosa. Fautrice dell’ordine e della legge, essa rispettava la libertà di r im-coscienza dei suoi adepti. Non per caso proprio Giobatta Borea d’Olmo, nel sontuoso palazzo di San Remo (ove ora vive il suo discendente, il duca Guido Orazio, e in cui si trova l’interessante Museo, zeppo di simboli massonici) ospitò papa Pio VII che rientrava dalla Francia verso Roma, per riprender umane  il governo temporale.

Il Borea d’Olmo scovato da Fucini nacque 1’8 marzo 1767 e morì il 10 maggio 1838. Calvino fa nascere il suo Barone rampante alla nuova e vera oevita – gli spazi celesti sui boschi di Ombrosa, cioè San Remo – il 15 giugno no,1767. Il Barone vero e quello apparentemente “fantastico” furono dunque neluna stessa persona. Nella cappella gentilizia dei Borea d’Olmo, nella chiesa già di Santo Stefano a San Remo, ormai bene addentro nella lettura dei “simdiboli”, Cal\âno colse l’intreccio degli elementi primigeni: acqua, terra, aria e ia-fuoco, raccolti nello stemma del Barone dell’Impero, sovrastato dall’elmo nosenza volto del Cavaliere inesistente.

ce,Abilissimo nel ri-velare, cioè nascondere nuovamente, le sue scoperte, i suoi disogni, le sue scorribande nei liberi spazi della fantasia (così remote dallo stalinista Zdanov e dal Togliatti che liquidò senza tanti complimenti fi-l”‘intellettuale” Elio Vittorini), quando approntò di persona un’edizione “scolastica” del Barone rampante e ne scrisse la prefazione col nome anagrammato di Tonio Cavilla, Italo sforbiciò del tutto i capitoli sulle riunioni notturne dei massoni sui boschi d’Ombrosa a cospetto di Cosimo Piovasco di Rondò. L”‘ambiente” torinese in cui lavorava rimaneva succubo della tetra egemonia à,marx-comunista. Di massoneria – tutt’uno con la nascita della borghesia liberale moderna – non si doveva parlare. E così il Barone rampante continuò a svolazzare per i cieli, lontano dalle miserie della Torino degli anni della contestazione e del sangue. “Andrà sempre peggio”, scrisse ancora Calvino in una eilettera che ora compare a cura di Luca Baranelli per IMeridiani di Mondadori. “Più le cose del mondo vanno male, meglio si scrive”. Fedele, insomma, alla sua “missione”: inventare simboli e contrapporre al materialismo incombente ail piacere della libertà. Partendo dalla storia, compreso, finalmente, il rapporto con i suoi “Antenati”: il Barone rampante (o dell’Impero) Borea d’Olmo e quelli “di casa”: Mario, Quirino, Gio. Bernardo…recuperati di nascosto nella

loro dignità di “liberi muratori”.•

neaxgorà Dicembre 2000 / Febbraio 2001                                                                                                                                             15

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