Sono in tanti, forse, a non sapere che
all’epoca degli antichi egizi l’attività mineraria, e in particolare
l’estrazione marmifera, era intensa, per la notevole richiesta di prodotti da
destinare all ‘ edilizia, ed a quella propriamente detta funeraria.
All’ epoca delle dinastie faraoniche, le miniere di smeraldi
ed altre pietre preziose, così come le cave di marmi, erano proprietà personale
dei faraoni che le affidavano per lo sfruttamento ad ingegneri e ad ufficiali
tecnici: essi si avvalevano del lavoro prodotto da operai reclutati tra gli
schiavi e i prigionieri di guerra.
I poveri lavoratori di quel tempo, e particolarmente coloro
preposti alla escavazione, non godevano, come oggi, della tutela di alcun
sindacato, e conducevano una vita grama e miserevole. Pensate un po’. Essi
venivano miseramente nutriti e dormivano all’ aria aperta, perennemente sotto
la minaccia della frusta. ln alcune miniere di smeraldi poi, i minerali portati
in superficie venivano spaccati e lavorati da schiavi a cui erano stati tagliati
i garretti perché non potessero fuggire.
Originale, va ricordato, era il metodo di individuazione
delle miniere. Gli esperti – i geologi di allora – esploravano immensi
territori per scoprire abbondanti e ricchi giacimenti, avvalendosi di una serie
di strumenti vari: tra essi, molto usati erano bastoncini arcuati e pendolini
cavi, in cui erano inseriti alcuni pezzetti dei materiali che si intendevano
reperire, molto simili a quelli ancor’ oggi usati dai radioestesisti.
Allorquando le cave entravano nella fase di escavazione,
lunghe carovane scortate da soldati facevano la spola collegando puntualmente,
e con estrema regolarità, i luoghi di estrazione alle città di Tebe e Menfi. In
queste località, i metalli e le pietre preziose estratte venivano finemente e
artisticamente lavorate.
Da pareti ripide, a strapiombo, gli ingegneri
di quel tempo procedevano nella realizzazione di un primo sbancamento,
perforando un costone laterale della montagna per evidenziare in tal modo il
fronte della cava, da cui avrebbero prelevato i blocchi di marmo, o la
creazione dell’ingresso, nel caso di miniera.
Particolarmente ingegnoso era il sistema di scivoli che
collegavano la cava con il fondo valle, consentendo il trasporto dei materiali
estratti.
L’ antica mappa mineraria di una miniera d’ oro, situata
nella regione dello Uadi Hammamat e risalente al Nuovo Impero (fra il 1620 e il
102 a. C), mostra un sistema di gallerie interne – schema comune a tutte le
miniere egiziane – che vede diramarsi dalla galleria principale, quasi mai
diritta, una serie di altri corridoi stretti e lunghi, e mai allo stesso
livello, un labirinto a più piani, su cui si aprivano piccole camere spesso
adibite per riporre gli attrezzi di scavo, al termine del lavoro.
Il sistema di aerazione poi, era stato risolto dai tecnici
egiziani mediante una serie di tubazioni e condutture in cuoio che
convogliavano l’ aria dall ‘ esterno, grazie a giganteschi mantici azionati dai
muscoli di un certo numero di schiavi, preposti a tale compito. Senza sosta
alcuna, sotto il sole implacabile del deserto, essi pompavano l’ aria, ben più
preziosa delle ricchezze che andavano ad estrarre, indispensabile alla vita di
quegli sventurati operai che, nel buio delle miniere, arrancavano a fatica
negli angusti cunicoli, versando sudore e sangue. Furono proprio quegli ignoti
cavatori che col loro sacrificio hanno contribuito non poco alla realizzazione
di quelle meravigliose e ciclopiche testimonianze archeologiche, il cui
indiscusso splendore ha reso grande ed eterna la millenaria civiltà egizia.•
La politica scolastica del partito
clericale” affermava nel lontano 1907 Gaetano Salvemini “non può
essere, in Italia, che una sola: deprimere la scuola pubblica, non far nulla
per migliorarla e più largamente dotarla; favorire le scuole private
confessionali con sussidi pubblici, con sedi d’esami, con pareggiamenti;
rafforzata a poco a poco la scuola privata confessionale e disorganizzata la
scuola pubblica, sopprimere al momento opportuno questa e presentare come unica
salvezza della gioventù quella. Programma terribilmente pericoloso, perché non
richiede nessuno sforzo di lotta aperta ed attiva, ma solo una tranquilla
costante inerzia, troppo comoda per i nostri burocrati e per i nostri politicanti,
troppo facile per la oligarchia opportunista che ci governa
La lettura di queste parole dovrebbe farci
riflettere, per l’attualità del tema e delle considerazioni espresse. Il
presente non è mai uguale al passato, ma la ricerca sulle vicende trascorse
dovrebbe aiutare ad impedire il ripetersi di errori già commessi.
Cosa stava succedendo in quegli anni?
L’Italia risorgimentale stava difendendo il progetto di una scuola laica di
fronte alla prepotente avanzata del mondo clericale ben deciso a riconquistare
tutte le posizioni perdute nei decenni precedenti, con l’ avallo di fatto del
presidente del consiglio, quel Giovanni Giolitti che si era avvicinato in modo
graduale ma costante al mondo cattolico, per motivi esclusivamente politici.
Gli ambienti clericali, di conseguenza,
cominciarono ad esercitare sulla vita politica italiana un’influenza sempre
maggiore che determinò una evidente riluttanza da parte del governo ad adottare
provvedimenti sgraditi ai nuovi alleati.
La causa occasionale del confronto più significativo
tra l’ anima laica e I ‘ anima clericale del Parlamento fu conseguenza del
regolamento per I ‘ istruzione elementare elaborato nel 1907 dall ‘ allora
ministro della P. I. Luigi Rava, che cercò di risolvere l’annoso problema
dell’insegnamento della religione nelle classi elementari con un compromesso
che non piacque a nessuno. Rava, laico e massone, aveva tentato in un primo
momento di escludere ogni accenno all ‘ insegnamento religioso.
Successivamente, il governo decise di scaricare sulle amministrazioni comunali
la responsabilità di decidere se far impartire o meno nelle scuole elementari
l’ insegnamento religioso.
In risposta il deputato socialista Leonida
Bissolati presentò una mozione che diede origine all’ultimo grande dibattito
sui rapporti fra società civile e società religiosa, fra diritti della Chiesa e
diritti dello Stato, svoltosi nel Parlamento dell’Italia liberale, in
un’atmosfera consapevole dell’importanza della posta in gioco: la formazione
dei cittadini.
Da decenni si dibatteva la questione dell’
insegnamento della religione nelle scuole primarie, con alterne vicende che non
è qui luogo a ripercorrere. Leggi, regolamenti, circolari, sentenze del
Consiglio di Stato si erano susseguite a partire dal 1859, rendendo ora obbligatorio,
ora facoltativo questo insegnamento). Ricordiamo solo che, nel 1 877, il
ministro della pubblica istruzione, il “fratello” Michele Coppino
aveva sostituito all’insegnamento religioso “le prime nozioni dei doveri
dell’uomo e del cittadino
Nella mozione del febbraio 1908, Bissolati
invitava i} Governo “ad assicurare il carattere laico della scuola
elementare, vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma,
l’insegnamento religioso .
Ripercorrere gli
eventi che si svolsero alla Camera tra il 18 e il 27 febbraio 1908 è
illuminante per meglio . capire il senso della contrapposizione di due mondi e
di due culture alternative. Perché la realtà delle differenze tra laici e
cattolici in Italia ancora oggi non è, a mio giudizio, una questione superata,
come dicono tanti. E solo una questione rimossa, volutamente ignorata, per
motivi di interesse politico: oggi come ien2 .
Scriveva “l’ Avanti ! il 21 febbraio che
“Aperte le scuole alla Chiesa cattolica, bisogna aprirle alla Sinagoga,
alla Chiesa luterana, al Libero pensiero, alla Massoneria, a quante
associazioni, sette e corporazioni, intendono propagare una fede, illustrare
una credenza, nessun privilegio ad alcuna fede, eguale trattamento a tutte Ma non era certo questo
l’intendimento del mondo cattolico se “L’ Osservatore Romano”
affermava:
“Non faremo atto settario né
partigiano, né intollerante, se proclameremo, ancora una volta, la necessità
per noi cattolici, apostolici, romani, di impadronirci di tutto l’insegnamento,
e di poterlo guidare tutto, secondo i nostri sentimenti, secondo i nostri
principi, secondo le nostre credenze’
Come è ben noto a tutti i massoni italiani, questa vicenda
storica ha segnato la vita della fratellanza italiana provocando una frattura
che non si è mai più risanata.
La Giunta del G.O.I. aveva più volte riaffermato che
l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie era un caposaldo
del programma massonico e tutti i fratelli dovevano tenerne conto.
Si cercò, con scarso successo, di fare pressioni su Rava e
si invitarono i fratelli deputati a svolgere azione comune; le logge dal canto
loro avrebbero dovuto fare propaganda.
Lo scontro si svolse all’interno del Rito Scozzese Antico e
Accettato poi nella Comunione. Il Gran Maestro Ettore Ferrari e gli uomini
della sua Giunta furono accusati di intransigentismo, di aver male valutato le
possibilità di successo dell’ appoggio dato alla mozione Bissolati.
La realtà è molto diversa. Ferrati e i fratelli a lui più
vicini sapevano di combattere una battaglia perduta in partenza, ma vollero
comunque impegnarvisi fino alle estreme conseguenze in nome di un principio, di
una idea.
In quel febbraio del 1908 il mandato elettorale dei deputati
era quasi al termine e nessuno era disposto a giocarsi il seggio elettorale per
un ideale. L’influenza del mondo cattolico era determinante per garantire il
successo di molte candidature, Giolitti aveva elaborato una formula che
scontentando tutti, accontentava in realtà la gran maggioranza dei parlamentari
che votandola, non rischiavano nulla.
Ferrari invece chiese ai massoni deputati di votare compatti
a favore della laicità della scuola sconfessando Giolitti, ma i fratelli
risposero solo in parte. Votarono la mozione 17 deputati massoni, 10 non si presentarono in aula, 11 votarono
contro.
In totale dunque, come risulta dai verbali della Giunta del
G.O.I., i massoni deputati erano 38, ben pochi per poter condizionare la
politica italiana e, come si è visto, molto più sensibili agli equilibri
politici che alle direttive di Palazzo Giustiniani. Non c’era dunque nessuna
concreta possibilità di far passare la mozione. Il voto compatto sarebbe stato
solo un segnale forte, un gesto simbolico, ma i fratelli deputati dimostrarono
di essere prima di tutto politici e governativi.
Avendo disubbidito a precise direttive
della Dirigenza dell’ Ordine, la Giunta decise di deferire ai tribunali
massonici i deputati dissidenti, quasi tutti scozzesi. In realtà in Giunta si
fecero molti distinguo, valutando i rischi dell’azione, ma anche quelli del
silenzi04. Ferrari appariva dubbioso, ma alla fine si decise di
procedere chiedendo I ‘ applicazione dell’ art. 127, vale a dire un
procedimento per direttissima che equivaleva a sicura espulsione.
Su richiesta della loggia “Rienzi” di Roma che
accusò il f. Luigi Rava di colpa grave per il suo contegno nel Governo e alla
Camera sull’insegnamento religioso, la Giunta decise di estendere anche a lui” Rava non rientrò più nell’Ordine “.
Chiudiamo queste brevi note riproponendo quanto disse alla
Camera il deputato Comandini, un fratello di Cesena, sulle conseguenze delle
due forme di educazione.
La cultura laica insegna che “la vita è milizia e missione, è esercizio di ogni energia pel
miglioramento individuale e collettivo della società “. La cultura cattolica
insegna invece che “la vita è
contemplazione e preghiera. Umilia te stesso. Annienta la tua personalità,
mortifica il tuo spirito, macera e distruggi la tua carne, e tu avrai raggiunta
la perfezione della vita “.
Alberto
Acquarone, Lo Stato catechista, Firenze, Parenti, 1961, p. 13; Luigi Pruneti,
La tradizione massonica in Italia. Storia del Supremo Consiglio e della Gran
Loggia d’Italia degli A. L. A. M. Obbedienza di Piazza del Gesù dal 1805 ad
oggi, Roma, Edimai, 1994, p. 63
Ricordiamo
la questione del finanziamento pubblico alla scuola.privata e lo scontro alla
Camera a febbraio 1999 sulla fecondazione assistita. Su entrambe le questioni
laici e cattolici si sono nettamente schierati proponendo inedite maggioranze
trasversali rispetto alla maggioranza di governo.
Archivio
storico GOI, 34 adunanza della Giunta lunedì 3 dicembre 1906
Ivi, 89
adunanza Giunta 6 marzo 1908. Riprende la discussione sui massoni deputati che
hanno votato contro l’emendamento Moschini. Si decide che i provvedimenti
vadano presi subito. L’Or. deve subito fare accusa formale in base all’art.
127. Il Sovr. G. Comm. del RSAA Ballori fa le sue riserve. Trincheri. in nome
della presidenza del RSI, è perplesso anche lui.
Ivi, 90
adunanza Giunta 18 marzo 1908.
G. Leti, Il
Supremo Consiglio dei 33 per l’Italia e le sue colonie, Brooklyn, N.Y. ,
Publishers, 1932, p. 115
Ora”, la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco si
separarono per generare il Tempo. Centro si aprì, l’Uno si rivelò. Un Essere di
nome “Uomo” apparve dalle sue profondità. L’essenza dei quattro
elementi vitali entrò in lui. la terra gli donò un corpo, l’acqua la linfa
vitale, l’aria l’alito di vita, il fuoco lo spirito e la passione.
Con essi, entrò anche il Tempo che gli donò la Morte.
L’uomo, dopo il lungo sonno nel ventre dell’Essere, fu
risvegliato nella vibrazione universale della vita. Si destò, la luce brillò
nei suoi occhi, la natura gli rivelò il suo volto, e la sua anima si riversò in
essa.
Ora, una nuova sensazione pervadeva il suo essere: era
solo, separato dal Tutto, dominato dalle potenze che lo circondavano.
Perchè era lì fuori?
Davanti a lui l’oceano, dietro di lui il deserto, sopra
di lui lo spazio infinito
da una parte la luce impenetrabile, dall’altra la
profondità delle tenebre.
Era SOLO.
Solo con i suoi limiti, con i suoi “perché”.
Eppure, sebbene vedesse il mondo intorno a lui tanto grande, egli stesso ne
rappresentava l’unità.
Vedeva scorrere i fiumi e i ruscelli, mentre il sangue,
allo stesso modo, scorreva nelle sue vene. Sentiva il vento soffiare tra i rami
degli alberi mentre gonfiava le loro chiome, e l’aria, che entrava in lui, gli
gonfiava il petto. Vedeva le piante crescere rigogliose, come crescevano le sue
gambe, le sue braccia, i suoi capelli, il suo corpo.
Vedeva il fuoco ardere. Allo stesso modo, la sua anima impetuosa
cercava la pienezza proiettandosi verso l’alto, con la stessa vitalità delle
fiamme che sfidavano le “misteriose forze” che tendono a condurre
verso il basso.
Quella Natura che tanto timore gli incuteva, la sentiva,
allo stesso tempo, vicina. Molto vicina, forse troppo, troppo simile a lui.
L’uomo aveva paura delle grandezze che lo circondavano,
ma ancor di più non poteva guardare nel profondo “abisso” che
nascondeva al proprio interno.
ln bilico tra due “infiniti”, scoprì la Sfida.
Cos’è la Sfida?
E’ il desiderio dell’uomo di riappropriarsi
di ciò che è stato. E’ il desiderio di vivere, di vincere
le grandezze che lo circondano e quindi reintegrarle in sé, conquistandole.
Solo così l’abisso interiore poteva essere risolto. Ma
non si trattava di riconquistare la sola natura di quegli elementi.
Ben presto se ne accorse. Più conosceva, più aveva sete
di conoscenza. Più riempiva il suo abisso interiore di vittorie sulla natura,
più il peso delle conquiste aumentava la profondità del baratro che era in lui.
La conquista del mondo si trasformò in tragedia. Una sete
senza fine che non poteva essere colmata lo ridusse schiavo delle sue stesse
conquiste.
Il Tempo divenne suo nemico.
La Morte che in principio era entrata in lui continuava a
dominarlo, la “brevità” della vita lo limitava nelle sfide. Ma ciò
che ancor di più lo angosciava della Morte, quando questa sarebbe giunta, era
veder vanificate tutte le sue conquiste con la fine della propria esistenza.
L’uomo conobbe i suoi limiti, la sua
“piccolezza”, la propria impotenza di fronte al tempo.
Un nuovo compagno si presentò nella sua vita: il Dolore.
Un compagno di viaggio molto scomodo, la contraddizione
di se stesso che urlava ed echeggiava nel suo profondo vuoto interiore,
qualcosa che lo richiamava a ciò che da sempre egli stesso aveva cercato, ma
che non aveva mai avuto il coraggio di trovare: la VERITA’.
La luce non illuminava più la sua vita.
L’uomo si chiuse in se stesso ad ascoltare il Dolore.
Erano lontani i giorni delle conquiste, dei successi,
della luce e dell’oro. L’uomo non era più il “Re del Mondo”, figlio
dell’Eternità. Era schiavo di se stesso, condannato dalla sua stessa natura e
dalla sua intima essenza. La sua vita cambiò.
Una mattina si alzò, si asciugò le lacrime e, lasciati
tutti suoi “averi”, le sue conquiste, le sue sicurezze, partì. Non
portò nulla con sé, solo un sacco vuoto dentro il quale aveva messo il suo
fedele compagno: il Dolore.
L’uomo s’incamminò, lasciò il luogo dove il fiume
s’incontra con l’Oceano e si diresse verso Oriente, verso la sorgente, la
Sorgente di Vita, il luogo dove dimora la VERITA’.
Molto tempo dopo, qualcuno trovò quel sacco, lì dove
sorge il Sole, sull’orlo di un’alta cima di montagna, all’alba di un nuovo
giorno: lo aprì, vi guardò dentro e vi trovò dell’Oro. Poi, guardò in alto e
vide un essere volare libero e leggero, ricoperto di luce dorata. Volava sempre
più in alto, splendendo più forte del Sole, finché divenne una stella.
II si sarebbe compiaciuto di
considerarsi figlio di Puglia ed i pugliesi, quelli moderni, a volta, si
compiacciono di questa predilezione dell ‘Imperatore. Ma cominciamo a porci
delle domande. Federico II è stato amico dei pugliesi?
Esistono due libri, ormai fuori
commercio, li troverete soltanto in biblioteca, il primo s’ intitola: “I
distici di Federico di Svevia in dileggio delle città di Puglia”. L’
autore è B. Paolillo e fu edito a Bari nel 1924. Il secondo di R. Corso ed ha
per titolo: “I presunti motti di Federico II sulle città pugliesi”
edito a Napoli il 1922. In questi libri, s’ intende con tutte le contaminazioni
della leggenda, leggiamo che Federico avrebbe detto di Bari: “Gens infida
Barii verbis multa promittit”. E di Bitonto ancora avrebbe detto:
“Gens Bitontina tota bestia et asinina”.
Con Brindisi, invece, l’imperatore fu benevolo e disse:
“Filia Solis, ave, nostro gratissimo cordi”. E tutti sappiamo che
Andria fu definita “fidelis” Putignano invece aveva osato sbattere le
porte in faccia a Federico senza neppure salutarlo e quando I ‘Imperatore
chiese perché non lo salutassero si sentì rispondere: “Noi stiamo in casa
nostra e non salutiamo nessuno; a voi, nostro ospite, tocca salutare”.
Torno a dire che un grosso ruolo giuoca la leggenda, ma ricordiamoci
che le leggende hanno sempre un fondo di verità. L’ animosità dei pugliesi
contro Federico nasceva, dall ‘ indigenza delle popolazioni tartassate da
balzelli per sovvenzionare le manifestazioni di grandezza e le imprese belliche
del sovrano. Fu così che si ebbero ribellioni e sommosse e numerose città di
questa “prediletta” terra subirono l’ira dell ‘Imperatore.
Dopo la scomunica del 1227, la crociata del 1229, l’
Autoincoronazione di Federico in Gerusalemme e l’ aumentata ostilità della
chiesa, crebbero i sussulti sociali e rimontano a quell’ epoca le distruzioni
di Larino, Sansevero, Civitate, Casalnuovo, Foggia (che pure era considerata
capitale del regno continentale) e Troia la cui fiera opposizione comportò
l’abbattimento delle mura e l’ ammazzamento di parecchi cittadini, le cui carni
furono gettate ai cani. Tuttavia, dal 1 220 alla morte Federico ha soggiornato,
soltanto in Capitanata oltre sessanta volte (con una media, di due volte l’
anno) senza contare i soggiorni in tutte le altre città delle altre province
pugliesi.
Quale fascino aveva la Capitanata
per Federico?
Il grande Haseloff si sorprende per questa
preferenza e descrive così la Capitanata: “Paesaggio desolato, una steppa
deserta, senza alberi, calda d’ estate e fredda d’ inverno, povera d’ acqua,
polverosa e funestata da febbre”. Il Bertaux dice: “Quella regione
maledetta, che si chiama il Tavoliere, il deserto temibile, dove Foggia sembra
accampata come una città del Sud dell’ Algeria”. E Lenormant: “la
noiosa pianura del Tavoliere, piatta senza ondulazioni, senza un albero, un
deserto dove non si scorge un solo essere vivente in estatediventa un vero
Sahara”; e Bourgét: “questo orizzonte così vasto, così nudo, così
deserto”; ed infine lo Steinitzer: In tutta Italia non si trova un
paesaggio squallido quanto il silenzioso “Tavoliere”. E per brevità
non si citano tutti gli altri autori, antichi e moderni, che sono della stessa
opinione.
E continuiamo a porci domande: Perché, allora, questa
ostinata preferenza per la Puglia ed in particolare per il Nord della Puglia,
ossia la Capitanata?
Molti autori, tra cui l ‘ Haseloff, rispondono che si è
trattato di una scelta strategica, politica e militare e siamo tutti d’accordo.
Data la vastità degli interessi di Federico in Occidente e in Oriente, la
Puglia rappresentava la cerniera tra i due poli certamente, tra Foggia e
Brindisi la scelta non poteva non cadere su Foggia, più a Nord del territorio,
più sulla direttrice di Napoli e quindi sulle strade che rapidamente (si
intende per quei tempi) conducevano a Nord. Né tale ruolo poteva svolgerlo I ‘
altrettanto amata Sicilia che pure è spinta verso Oriente, ma dove lo stretto
di Messina ritarda i collegamenti con il continente.
Invece in Puglia, da Brindisi a Manfredonia, attraverso
Monopoli, Bari, Molfetta, Trani, Barletta, troviamo una serie di porti che
allacciano rapidamente l’ Oriente all’Occidente. Ma se si fosse trattato
soltanto di commerci non sarebbe stata necessaria la presenza dell’imperatore.
Se si fosse trattato di controllare la situazione politica ci sembra che
altrettante valide ragioni esistevano al Nord dell ‘impero dove Federico è
dovuto accorrere spesso a spegnere sedizioni e minacce nemiche.
E allora qual era la necessità della sua massiccia presenza
lungo l’ arco di ben trent’ anni qui in Puglia? Davvero dobbiamo credere che
fossero gli uccelletti da cacciare con i falconi?
Secondo alcuni autori Federico costruì molti castelli in
Puglia. Precisiamo subito che Federico costruì pochi castelli ex novo in Puglia
e molti ne restaurò esattamente come fece per tutto il resto d’ Italia, costruì
anche dei cosiddetti castelli di caccia che erano residenze di piacere, di
sollazzo e siamo d’ accordo, ma non costruì questi palazzi, queste case, questi
castelli perché lo attraeva l’aprica regione (di regioni belle, apriche, dai
paesaggi riposanti ce ne sono tante e, abbiamo visto, di migliori), ma fu il
contrario, ossia costruì tali residenze per rendere più gradevole il soggiorno
in zone scarsamente invitanti.
I motivi che inducevano Federico a soggiornare in Puglia erano tanti,
alcuni chiari, manifesti, altri più nascosti e qui occorre affrontare temi più
profondi che investono la personalità di Federico sotto il profilo spirituale,
religioso e scientifico. Il papa Gregorio IX, che da cardinale era stato buon
amico di Federico, divenne suo acerrimo nemico, ma ciò non avvenne per motivi
politici. Gregorio IX si convinse con I ‘ andar del tempo che lo Svevo era un
pericolo per la chiesa anche dal punto di vista religioso. Sappiamo bene quanto
grandi siano state le ostilità tra Federico e la Chiesa, meno bene sappiamo la
grande simpatia dell’imperatore per la civiltà islamica, per gli ordini
iniziatici e spirituali fioriti in Oriente sia nella sfera islamica, sia in
quella sufica e sia in quella cristiana ed a proposito di questi ultimi va
precisato che la spiritual ità nell’ ambito cattolico era tanto maggiore quanto
maggiore fosse la distanza da Roma ossia dal papato. E qui l’indagine si
allarga.
E’ noto che la chiesa di allora era estremamente corrotta,
che il potere temporale soverchiava quello spirituale, che movimenti di
protesta erano fioriti un po’ dappertutto a mano a mano che ci si allontanasse
dal tallone romano. I movimenti, detti eretici, della Provenza (i Catari. gli
Albigesi, ecc.), quelli della contea di Tolosa, contestavano la chiesa di Roma.
Altrettanto accadeva tra i cristiani d’ Oriente che, per giunta, risentivano I
‘ influsso Sufico. La spiritualità orientale era talmente irradiante che se
passiamo da un’ analisi storica, filosofica, religiosa ad una letteraria
troviamo anche nella letteratura occidentale vistose tracce.
Gran parte della produzione trovadorica provenzale e parte
di quella italiana dei Fedeli d’ Amoré, s’ispirano alla spiritualità d
‘Oriente. Purtroppo la brevità ci impedisce di aprire tutto intero il ventaglio
di questo affascinante tema, ma qualche cenno può far capolino. Per esempio, è
noto che Federico, suo figlio Enzo e molti personaggi della corte imperiale
scrivevano poesie e tali poesie sono giunte sino a noi e possiamo leggerle
quando vogliamo. Poesie e sirventesi provenzali sono in nostro possesso, ebbene
in tutta questa produzione poetica si canta l’ amore per una donna che in
realtà non è una donna fisica, ma la conoscenza iniziatica e tale donna (Sofia)
è sempre lontana e dimora e soggiorna in Oriente e precisamente in Siria. Ecco
che noi troviamo liriche indirizzate alla Rosa di Soria e le troviamo nella
produzione della corte federiciana come nelle liriche di Jaufré Rudel, il
principe di Blaia che si era innamorato della contessa di Tripoli senza averla
mai vista ma soltanto per averla sentita decantare dai pellegrini di ritorno
dalla Terra Santa e che in realtà non esisteva come persona fisica ma era
un’allegoria.
In realtà crociati e pellegrini di ritorno dall ‘
Oriente portavano notizie di una religiosità in quei paesi più spirituale, più
libera, da dogmi, da condizionamenti temporali meno oppressa da una pesante
gerarchia clericale corrotta. E’ noto che Federico II ebbe molta simpatia per
l’Islam, che fu in ottimi rapporti col sultano Al Kamil che parlava
perfettamente l’ arabo e conosceva la poesia, la filosofia e la scienza araba.
E’ impossibile qui, in breve tempo, apportare la copiosa documentazione che
testimonia quanto sin qui enunciato. Occorre citare storici arabi, riportare le
splendide pagine di Amin Maaluf a proposito dei rapporti di amicizia vera tra
Federico e Al Kamil, descrivere e documentare l’influenza del sufismo su
Federico, rileggere le poesie uscite dalla sua corte per capire il fascino
esercitato su Federico dagli ordini iniziatici dell’ Oriente.
La simpatia (e diciamo semplicemente simpatia) di
Federico per la sfera orientale con la sua particolarissima spiritualità spiega
perché il papa Gregorio IX lo addita addirittura come un precursore dell ‘
Anticristo sultano battezzato. La Chiesa vedeva nell ‘Imperatore un soggetto capace
di sovvertire l’ordine religioso costituito in Occidente.
Da qui appare chiaro che Federico, visto in questa
ottica, non poteva che soggiornare in Puglia, cioè in quella terra che
rappresentava la cerniera tre l’ Oriente e l’ Occidente, ed in particolare in
Capitanata vicino a tutti quei porti che vedevano il flusso e il riflusso da e
per l’oriente con la possibilità di informazioni rapide (s’ intende relative ai
tempi) di comunicazioni quasi immediate e, nel contempo, restando al Nord della
regione per un più facile spostamento, in caso di necessità, verso il Nord
d’Italia.
Ed ecco, quasi a conferma, di quanto sin qui detto, sorgere a
Lucera la comunità degli arcieri saraceni, fedeli all’Imperatore e “spina
nell’ occhio” per il Papa. Sembra proprio che lo Svevo potesse contare più
sulla fedeltà alla sua persona da parte dei musulmani arabi (che dei cristiani
d’Occidente).
La Puglia, quindi, per Federico fu il ponte naturale che lo collegava
con la sua più intima, segreta aspirazione alla trascendenza e alla ricerca
scientifica e, non dobbiamo dimenticare che ogni uomo, e più ancora un
Imperatore, ha quasi sempre due personalità: quella del ruolo che riveste nel
mondo e quella sua propria, intima, soltanto sua spesso diametralmente opposta
all’altra.
Purtroppo questa esposizione sintetica perde molto
del suo mordente perché non è possibile sviluppare tutte le tematiche che
suffragherebbero l’ assunto, ma lo scopo ultimo di questo mio dire è che,
ancora una volta, la Puglia emerge già Scrigno di arte e di storia, teatro di
avvenimenti antichi e recenti cuore del Mediterraneo e si ricolloca alla
ribalta dell’ umana vicenda imponendosi a un grande Imperatore che ne fa ponte
e cerniera tra il pensiero Occidentale e quello Orientale perché non c’ è altro
ponte più naturale di questo per cui, anziché intitolare questo mio scritto
“Federico II di Svevia e la Puglia” io lo intitolerei:
La politica
scolastica del partito clericale” affermava nel lontano 1907 Gaetano
Salvemini “non può essere, in Italia, che una sola: deprimere la scuola
pubblica, non far nulla per migliorarla e più largamente dotarla; favorire le
scuole private confessionali con sussidi pubblici, con sedi d’esami, con
pareggiamenti; rafforzata a poco a poco la scuola privata confessionale e
disorganizzata la scuola pubblica, sopprimere al momento opportuno questa e
presentare come unica salvezza della gioventù quella. Programma terribilmente
pericoloso, perché non richiede nessuno sforzo di lotta aperta ed attiva, ma
solo una tranquilla costante inerzia, troppo comoda per i nostri burocrati e
per i nostri politicanti, troppo facile per la oligarchia opportunista che ci
governa
La lettura di queste parole dovrebbe farci riflettere,
per l’attualità del tema e delle considerazioni espresse. Il presente non è mai
uguale al passato, ma la ricerca sulle vicende trascorse dovrebbe aiutare ad
impedire il ripetersi di errori già commessi.
Cosa stava succedendo in quegli anni? L’Italia
risorgimentale stava difendendo il progetto di una scuola laica di fronte alla
prepotente avanzata del mondo clericale ben deciso a riconquistare tutte le
posizioni perdute nei decenni precedenti, con l’ avallo di fatto del presidente
del consiglio, quel Giovanni Giolitti che si era avvicinato in modo graduale ma
costante al mondo cattolico, per motivi esclusivamente politici.
Gli ambienti clericali, di conseguenza, cominciarono ad
esercitare sulla vita politica italiana un’influenza sempre maggiore che
determinò una evidente riluttanza da parte del governo ad adottare
provvedimenti sgraditi ai nuovi alleati.
La causa occasionale del confronto più significativo tra
l’ anima laica e I ‘ anima clericale del Parlamento fu conseguenza del
regolamento per I ‘ istruzione elementare elaborato nel 1907 dall ‘ allora
ministro della P. I. Luigi Rava, che cercò di risolvere l’annoso problema
dell’insegnamento della religione nelle classi elementari con un compromesso
che non piacque a nessuno. Rava, laico e massone, aveva tentato in un primo
momento di escludere ogni accenno all ‘ insegnamento religioso.
Successivamente, il governo decise di scaricare sulle amministrazioni comunali
la responsabilità di decidere se far impartire o meno nelle scuole elementari
l’ insegnamento religioso.
In risposta il deputato socialista Leonida Bissolati
presentò una mozione che diede origine all’ultimo grande dibattito sui rapporti
fra società civile e società religiosa, fra diritti della Chiesa e diritti
dello Stato, svoltosi nel Parlamento dell’Italia liberale, in un’atmosfera
consapevole dell’importanza della posta in gioco: la formazione dei cittadini.
Da decenni si dibatteva la questione dell’ insegnamento
della religione nelle scuole primarie, con alterne vicende che non è qui luogo
a ripercorrere. Leggi, regolamenti, circolari, sentenze del Consiglio di Stato
si erano susseguite a partire dal 1859, rendendo ora obbligatorio, ora
facoltativo questo insegnamento). Ricordiamo solo che, nel 1 877, il ministro
della pubblica istruzione, il “fratello” Michele Coppino aveva
sostituito all’insegnamento religioso “le prime nozioni dei doveri
dell’uomo e del cittadino
Nella mozione del febbraio 1908, Bissolati invitava i}
Governo “ad assicurare il carattere laico della scuola elementare,
vietando che in essa venga impartito, sotto qualsiasi forma, l’insegnamento
religioso .
Ripercorrere gli eventi che si svolsero alla Camera tra
il 18 e il 27 febbraio 1908 è illuminante per meglio . capire il senso della
contrapposizione di due mondi e di due culture alternative. Perché la realtà
delle differenze tra laici e cattolici in Italia ancora oggi non è, a mio
giudizio, una questione superata, come dicono tanti. E solo una questione
rimossa, volutamente ignorata, per motivi di interesse politico: oggi come ieri.
Scriveva “l’ Avanti ! il 21 febbraio che
“Aperte le scuole alla Chiesa cattolica, bisogna aprirle alla Sinagoga,
alla Chiesa luterana, al Libero pensiero, alla Massoneria, a quante associazioni,
sette e corporazioni, intendono propagare una fede, illustrare una credenza,
nessun privilegio ad alcuna fede, eguale trattamento a tutte Ma non era certo questo l’intendimento del
mondo cattolico se “L’ Osservatore Romano” affermava marzo
“Non faremo atto settario né partigiano, né
intollerante, se proclameremo, ancora una volta, la necessità per noi
cattolici, apostolici, romani, di impadronirci di tutto l’insegnamento, e di
poterlo guidare tutto, secondo i nostri sentimenti, secondo i nostri principi,
secondo le nostre credenze’
Come è ben noto a tutti i massoni italiani, questa
vicenda storica ha segnato la vita della fratellanza italiana provocando una
frattura che non si è mai più risanata.
La Giunta del G.O.I. aveva più volte riaffermato che l’
abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole primarie era un caposaldo
del programma massonico e tutti i fratelli dovevano tenerne conto.
Si cercò, con scarso successo, di fare pressioni su Rava
e si invitarono i fratelli deputati a svolgere azione comune; le logge dal
canto loro avrebbero dovuto fare propaganda.
Lo scontro si svolse all’interno del Rito Scozzese Antico
e Accettato poi nella Comunione. Il Gran Maestro Ettore Ferrari e gli uomini
della sua Giunta furono accusati di intransigentismo, di aver male valutato le
possibilità di successo dell’ appoggio dato alla mozione Bissolati.
La realtà è molto diversa. Ferrati e i fratelli a lui più
vicini sapevano di combattere una battaglia perduta in partenza, ma vollero
comunque impegnarvisi fino alle estreme conseguenze in nome di un principio, di
una idea.
In quel febbraio del 1908 il mandato elettorale dei
deputati era quasi al termine e nessuno era disposto a giocarsi il seggio
elettorale per un ideale. L’influenza del mondo cattolico era determinante per
garantire il successo di molte candidature, Giolitti aveva elaborato una
formula che scontentando tutti, accontentava in realtà la gran maggioranza dei
parlamentari che votandola, non rischiavano nulla.
Ferrari invece chiese ai massoni deputati di votare
compatti a favore della laicità della scuola sconfessando Giolitti, ma i
fratelli risposero solo in parte. Votarono la mozione 17 deputati massoni, IO
non si presentarono in aula, I I votarono contro.
In totale dunque, come risulta dai verbali della Giunta
del G.O.I., i massoni deputati erano 38, ben pochi per poter condizionare la
politica italiana e, come si è visto, molto più sensibili agli equilibri
politici che alle direttive di Palazzo Giustiniani. Non c’era dunque nessuna
concreta possibilità di far passare la mozione. Il voto compatto sarebbe stato
solo un segnale forte, un gesto simbolico, ma i fratelli deputati dimostrarono
di essere prima di tutto politici e governativi.
Avendo disubbidito a precise direttive della Dirigenza
dell’ Ordine, la Giunta decise di deferire ai tribunali massonici i deputati
dissidenti, quasi tutti scozzesi. In realtà in Giunta si fecero molti
distinguo, valutando i rischi dell’azione, ma anche quelli del silenzio.
Ferrari appariva dubbioso, ma alla fine si decise di procedere chiedendo I ‘
applicazione dell’ art. 127, vale a dire un procedimento per direttissima che
equivaleva a sicura espulsione.
Su richiesta della loggia “Rienzi” di Roma che
accusò il f. Luigi Rava di colpa grave per il suo contegno nel Governo e alla
Camera sull ‘ insegnamento religioso, la Giunta decise di estendere anche a lui
Rava non rientrò più nell’Ordine “.
Chiudiamo queste brevi note riproponendo quanto disse
alla Camera il deputato Comandini, un fratello di Cesena, sulle conseguenze delle
due forme di educazione.
La cultura laica insegna che “la vita è milizia e
missione, è esercizio di ogni energia pel miglioramento individuale e
collettivo della società “. La cultura cattolica insegna invece che
“la vita è contemplazione e preghiera. Umilia te stesso. Annienta la tua
personalità, mortifica il tuo spirito, macera e distruggi la tua carne, e tu
avrai raggiunta la perfezione della vita “.
La Massoneria è la mia etica di vita, un insieme di
regole fondamentali ed insostituibili di carattere morale e
comportamentale”. Così Vincenzo Racugno ama raccontare ai profani il
proprio modo di intendere la vita e il lavoro, in quello che è diventato un
abile miscuglio alchemico ove vivono e convivono le soddisfazioni di una
brillante carriera universitaria e di una lunga militanza tra le Colonne del Tempio.
E di questa militanza
Vincenzo Racugno è fiero, accanito propugnatore della libertà, della
fratellanza. Nato a Jerzu, il 4 novembre del 1920, da Michele e Paola Demurtas,
Vincenzo Racugno vive a strettissimo contatto con numerosi padri della politica
nazionale e isolana, quali Emilio Lussu, Francesco Cocco Ortu, Ugo La Malfa,
respirando in pieno le idee politiche che lo porteranno sin da giovane ad
interessarsi di politica. Con Armando Businco, uno dei padri del Partito Sardo
D’Azione, è accomunato dall’interesse per la Medicina. Businco è docente di
anatomia patologica a Bologna, fratello di Ottavio radiologo di chiara fama.
Diciassettenne, Vincenzo Racugno raggiunge Cagliari per completare gli studi
liceali iniziati a Lanusei e, conseguito il diploma si iscrive presso la
facoltà di medicina dell’Ateneo Cagliaritano.
Dopo aver conseguito la laurea nel 1946 il giovane medico
parte per Bologna dove Armando Businco l’ha appena iscritto nella scuola di
radiologia: in due anni Vincenzo Racugno ottiene la specializzazione con il
massimo dei voti. La sua terra rappresenta un grande richiamo al quale il
giovane radiologo non può resistere. E’ nuovamente a Cagliari dove nel 1966
viene nominato direttore dell’Istituto di Radiologia.
L’ascesa ai massimi livelli della ricerca in campo
radiologico, una fitta collaborazione con i massimi esperti internazionali e
con gli istituti più prestigiosi nel campo radiologico non impediscono a
Vincenzo Racugno di dedicarsi in maniera attiva alla crescita culturale e
sociale della sua terra. In questi anni matura una scelta di campo, lasciando
le file del Partito sardo d’Azione per confluire nel Partito Repubblicano. In
questa compagine ricopre ruoli di rilievo quali la nomina ad assessore
regionale alla sanità.
Del suo impegno in campo scientifico Vincenzo Racugno,
profuso nella
ricerca “applicata
per il bene e la salute del prossimo” porta i chiari segni nelle sue mani
e nei piedi, rovinati da cinquant’anni di radioterapia: eppure quest’uomo
prosegue con immutato impegno il suo lavoro scientifico che oggi lo vede
maestro di tante generazioni di medici, più o meno giovani, che sono stati
instradati nella difficile ricerca nel campo radiologico.
L’intensa attività di ricerca portata avanti conduce
Vincenzo Racugno a risultati di grandissimo pregio, testimoniati da una
produzione scientifica
di altissimo
livello.
Il 27 giugno del 1997 è nominato, su decreto del Ministro
dell’Università e della ricerca tecnologica, Professore emerito, a
testimonianza della sua attività universitaria.
Dedito all ‘insegnamento ed alla organizzazione delle
strutture sanitarie, Vincenzo Racugno con la sua ricerca scientifica individua
una grave affezione cancerogena diffusa in Sardegna.
La cultura locale riteneva negli anni cinquanta che l’uso
di fumare il sigaro con la brace viva rivolta verso il cavo orale, “a fogu
aintru”, fosse una mera curiosità di carattere antropologico, priva di
conseguenze patologiche: dopo una ricerca sul campo, condotta con l’innato
indomito impegno, Vicenzo Racugno rivela a tutta la comunità scientifica la
originalità di uno studio monografico, pubblicando l’opera “Leucoplachie e
tumori nel palato dei fumatori di sigaro “a fogu aintru”.
Numerosissime le pubblicazioni prodotte durante la
ricerca specchio della sua intensa attività, alla quale associa presenza
costante, disponibilità umana e solidarietà verso i deboli.
La scuola di Cagliari, durante i trent’anni passati sotto
la guida di Vicenzo Racugno, conferisce la qualifica e la specializzazione al
oltre 300 medici.
L’uomo-massone Vincenzo Racugno è specchio
dell’uomo-scienziato, impegnato nella ricerca: curioso, prodigo di consigli,
attento alle esigenze del suo prossimo e sempre disposto a dare una mano di
aiuto a chi si trova a doverne ricevere. Iniziato il 28 novembre del 1975,
viene accolto all’interno della Rispettabile Loggia Hiram n. 657 all’Oriente di
Cagliari: è questa una tra le più attive officine nella Valle del Campidano che
lo vede impegnato a profondere i suoi ideali per il bene dei fratelli massoni.
La riconoscenza dei Figli della Vedova, radunati sotto le
colonne della muratoria isolana, è grande verso Vincenzo Racugno: grazie ad una
sua donazione la Casa Massonica di Cagliari trova una prestigiosa collocazione
nell’antico quartiere di Castello, all’interno di uno dei palazzi gentilizi
appartenuti alla famiglia Sanjust (il palazzo viene infatti acquistato con il
suo grande contributo).
Il cammino all’interno della Muratoria è altrettanto
prestigioso rispetto alla sua carriera universitaria. Primo Sorvegliante,
Maestro Venerabile negli anni ’80 e Giudice del Tribunale Circoscrizionale
della Sardegna: Vicenzo Racugno è stato uno dei pochissimi fratelli ad essere
insignito per due volte dell’alta onorificenza dedicata a Giordano Bruno.
La Loggia Hiram n. 657 all’Oriente di Cagliari, in
occasione del 20 0 anniversario della sua iniziazione gli ha
dedicato una toccante cerimonia durante la quale gli é stata donata una
pergamena celebrativa.
Nonostante il suo trascorso, la sua esperienza e sue doti
riconosciute di abilissimo oratore, Vincenzo Racugno mostra la salda
tranquillità e l’umiltà propria dei forti di spirito. Una vita la sua che
sembra scandita dalla musicalità propria di uno dei geni della musica tanto
cari al professore cagliaritano: Wolfgang Amadeus Mozart. Sua grande ed innata
passione, la musica del compositore massone, lo trascina in animate discussioni
sulla perfezione dell’arte musicale del maestro, con abili ed amabili citazioni
tratte dall’opera che Vincenzo Racugno più ama: il Flauto Magico.
E di questa passione, della vitalità quotidiana e
spirituale, Vincenzo Racugno si fa portavoce, riuscendo a trascinare con vera
irruenza i fratelli. Grazie alla sua vitalità è nata, sotto le colonne del
tempio cagliaritano, una nuova Loggia all’obbedienza del Grande Oriente
d’Italia, intitolata a Wolfgang Arnadeus Mozart. •
Il Settecento fu il secolo che portò la Borghesia a
prendere coscienza di sè stessa ed a rivendicare una maggiore presenza nei
momenti decisionali. La Rivoluzione americana prima, la Rivoluzione francese
poi ed in ultimo la Rivoluzione napoletana del 1799 furono tre esaltanti
momenti di quel secolo, come tappe di un inarrestabile processo che portò
l’uomo, ed il borghese in particolare, dall’infimo ruolo di suddito a quello di
cittadino, da oggetto a soggetto di diritto. Questi tre eventi del diciottesimo
secolo nacquero per motivi diversi ed ebbero sorti diverse, ma che sicuramente
un nesso tra loro, dal momento che uomini illustri, gli Homines Novi, furono in
contatto stretto, scambiandosi notizie, informazioni, opinioni, come il
rapporto epistolare tra i Liberi Muratori Gaetano Filangieri e Beniamino
Franklin o gli incontri a Parigi tra esuli meridionali ed esponenti della
neonata Repubblica Francese. Il Massone Domenico Forges Davanzati, barlettano,
rivolgendosi al senatore Gregoire, ebbe a dire:
“I lumi della Scienza eran così avanzati nel Regno
di Napoli che anche prima che la Rivoluzione francese avesse proclamato la
sovranità dei popoli, gli uomini di lettere napoletani l’avevan proclamata nei
loro libri, sorpassando i francesi con quel moto lento, ma progressivo e
sicuro, che proprio del Carattere italiano”.
La catena che legava tra loro questi uomini era
rappresentata, soprattutto, dalla Libera Muratoria, che, nata in forma
speculativa in Inghilterra nel 1717, si diffuse in Francia, nel resto d’Europa
e negli Stati Uniti d’America. La Massoneria si diffuse nel Mezzogiorno d’Italia,
nonostante nel 1751 la Bolla di Papa Benedetto XIV ed un Regio Editto borbonico
proscrivessero le società segrete.
In Puglia sorsero Logge massoniche: nella Capitanata, a
Bari, a San Severo, Acquaviva delle Fonti, Gioia del Colle, Altamura, Spinazzola,
Giovinazzo, Bisceglie.
Ma quali erano le
idee degli Homines Novi, che portarono a quella utopia durata soli sei mesi, e
la cui fine il Mezzogiorno, secondo alcuni, paga tuttora in termini di
arretratezza e di scarsa coscienza civile? Tutto nasce da una visione laica
dello Stato, dove il trinomio massonico Libertà, Eguaglianza e Fratellanza
rappresenta il cardine della politica. Nello specifico i punti salienti
inizialmente erano due: a) abolizione della potestà feudale, rinnegatrice di
ogni diritto umano; b) abolizione della potestà ecclesiastica, che respingeva
ogni libertà di pensiero ed aveva nelle sue mani tanta parte dell’Aagro
meridionale e pugliese in particolare. In riferimento a questo secondo aspetto,
che da dire che alcuni tra i più ragguardevoli Dignitari della Chiesa di
Puglia, tra i quali Monsignor Capecelatro, Arcivescovo di Taranto, erano tra i
più acerrimi avversari della Curia Vaticana, proponendo una Riforma del
Cattolicesimo che si rifacesse alla originaria purezza del Vangelo, ovvero:
abolizione del potere temporale dei Vescovi sulle
Signorie e le monarchie locali (il Regno di Dio non è di questo Mondo!) ;
libertà di stampa e diffusione di testi ritenuti contrari
alla Curia Vaticana;
abolizione del tribunale dell’Inquisizione;
abolizione del dogma dell’infallibilità papale;
abolizione del celibato per i preti, sancito dall’ultimo
Concilio di NIelfi;
abolizione dei Monaci, ritenuti guardie pretoriane del
Papa;
abolizione della clausura per le fanciulle;
riforma dei sistemi educativi con docenti modello di
civili e cristiane virtù;
lotta al fanatismo religioso ed alla superstizione.
I propugnatori di queste idee non erano però dei
rivoluzionari radicali, bensì dei riformatori, ad esempio il criminologo
gallipolino Filippo Briganti sosteneva di essere più per la Monarchia che per
il cosiddetto Governo libero, ovvero la
Repubblica, purché ci fossero delle leggi che proteggessero i cittadini da
vessazioni, arbitrii, violenze. L’altro salentino Giuseppe Palmieri respinge
la. libertà intera e male intesa. della Repubblica Francese, ma dice altresì:
…La libertà civile deve essere illimitata per fare bene, ma
ristrettissima e quasi nulla per fare male à” Gli Homines Novi erano
consci che le genti del meridione e della Puglia, soprattutto, non erano
abbastanza virtuose, nè abbastanza illuminate, da accogliere tutte le
innovazioni libertarie rivoluzionarie della Francia. Briganti, Forges
Davanzati, Palmieri, Ciaia, durante tutto il periodo che precorse la
Rivoluzione Francese, furono tutti monarchici, devoti alla dinastia borbonica.
Le cause che portarono molti di questi uomini moderati ad
abbracciare la causa rivoluzionaria in un secondo tempo, tanto da essere
impropriamente definiti ” Giacobini”, sono da ritrovare nel
comportamento opportunistico della Monarchia Borbonica: illuminata nella prima
metà del Settecento con la direzione politica del Ministro Bernardo Tanucci,
quando serviva porre un argine alle pretese dei Vescovi e del Vaticano ed alla
baldanza degli aristocratici terrieri; foscamente
oppressiva con la Rivoluzione Francese, che aveva portato
alla morte Luigi XVI e sua moglie Maria
sorella della Regina
Maria Carolina. La Puglia, in quel particolare periodo, presentava una grande
arretratezza sociale, una sorta di società feudale dove i proprietari terrieri,
rappresentati dal clero e dagli aristocratici, erano quasi sempre non
residenti, le cui rendite erano per lo più dirottate ad abbellire ricche dimore
nella Napoli capitale o altrove e dissipate nel fastoso e dissennato stile di
vita.
La condizione era: le plebi sempre più ignoranti,
affamate e povere ed i pochi ricchi, sempre più ricchi, con una distanza tra le
classi incolmabile, con forme di sopraffazione sancite dal diritto scritto o
consuetudinario, consolidate dalla rassegnazione. Con Carlo III di Borbone
cominciò un corso nuovo dopo anni di Spagnoli ed Austriaci, che avevano gestito
il potere sovrapponendo il loro fiscalismo a quello dei baroni feudali e del
clero, mortificando ancora di più le genti del Sud. Si aprì con Carlo III di
Borbone un dialogo con le menti illuminate del Mezzogiorno, che avrebbe portato
a delle prime riforme economiche e sociali, consentendo che nuovi e numerosi
ceti possidenti emergessero, imprenditorialmente attivi ed interessati alle
riforme, nonché all’incremento della produttività.
In questo contesto si inseriscono due figure di uomini
nuovi, che dalla Puglia, aprirono un dibattito fecondo sulle prospettive
economiche e sociali di questa terra. Due uomini molto diversi tra di loro,
essendo l’uno ricco proprietario terriero salentino e l’altro abate di umile
estrazione sociale di origini molisane, ma che svolse la sua attività nella
nostra Puglia, in particolare nel territorio della Capitanata ed in Terra di
Bari. Questi due uomini dettero un notevole contributo a quell’era delle
Riforme che portò poi alla Rivoluzione del 1799; i loro nomi non sono
conosciuti dal grande pubblico come quelli dei Filangieri, Genovesi, Forges
Davanzati; Ciaia, ma proprio questo dimostra come fosse diffusa in Puglia e nel
Mezzogiorno “l’idea nuova”. D’altra parte esisteva già da tempo una
scuola in tal senso, se si considera che il Sud aveva già espresso nei secoli
precedenti uomini come Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Ma, torniamo ai due
novatori allievi entrambi di quell’Antonio Genovesi, più noto illuminista
napoletano. Il primo dei due è Giuseppe Palmieri nato a Martignano in Terra
d’Otranto nel marzo del 1721. Egli da giovinetto, provenendo da una famiglia
aristocratica, intraprese la carriera militare, che lasciò a quaranta anni col
grado di Tenente Colonello, per ritirarsi nei suoi possedimenti nel Salento,
laddove la sua dimora divenne un crocevia obbligatorio per i liberi pensatori
meridionali e pugliesi, come Filippo Briganti, giurista gallipolino, e Giovanni
Presta, medico ed agronomo, suoi cari amici. E fu proprio nella sua Terra che
il Palmieri espresse le sue riflessioni economiche e sociali, frutto dei suoi
incontri napoletani, ai tempi del militare, con Antonio Genovesi e che lo
portarono ad una certa notorietà, tanto da fargli affidare nel
17831’Amministrazione della Dogana della provincia di Otranto e,
quindi, nel 1791, su
incarico dell’Ammiraglio Acton, l’allora capo del governo del Regno di Napoli,
la direzione del Ministero delle Finanze, incarico che ricoprì sino alla sua
morte il 30.1.1793. Egli scrisse dapprima ” Riflessioni critiche sull’arte
della Guerra due grossi volumi che come ebbe a dire Antonio Genovesi, cui fu
affidata la revisione dell’opera
omicida cagione della malvagità degli uomini”. Successivamente il
Palmieri si occupò più specificatamente di società ed economia con
l’elaborazione in successione temporale di: “Riflessioni sulla pubblica
felicità relativamente al Regno di Napoli”, quindi “Pensieri
economici relativi al Regno di Napoli” ed infine “della Ricchezza
Nazionale”
Ma qual’era il
pensiero di Giuseppe Palmieri? Innanzitutto egli colse l’esistenza di un nuovo
ceto possidente terriero con mentalità imprenditoriale, tanto da scrivere nelle
sue Riflessioni
” Tra le classi non produttrici si suole annoverare
quella dei proprietari. Questo è un abbaglio: bisogna almeno distinguere e
suddividere tale classe. I Proprietari che ritengono per sè medesimi la cura
dei loro fondi, e i fittaiuoli, formano la principalissima classe produttrice.
Da essi riceve moto ed azione la classe dei braccianti. Senza il salario, che
ne ricevono, non potrebbero nè lavorare, nè vivere. La sorte dunque
dell’Agricoltura e degli operai dipende dalla quantità del denaro che possono
spendere i proprietari dei fondi”
Ancora a difesa della nuova classe imprenditoriale
agricola e contro la demagogica posizione rivoluzionaria francese: “La
divisione della terra in porzioni più piccole non è necessaria al vantaggio
dell’agricoltura come si è creduto, la gran coltura supera nell’utile di gran
lunga la piccola: e siccome la gran coltura non può adoprarsi che nelle grandi
tenute. così queste saranno alla società più utili delle piccole”.
E, infine, sulla questione della terra ai contadini:
“Si dividano per ipotesi le terre ai poveri; come le coltiveranno? Come vivono
fintanto che percepiscono il frutto? Noi
vediamo che alcuni di essi, i quali posseggono qualche pezzo di terreno, lo
trascurano per fatigare per altri, e poter vivere col salario. Non basta dunque
dare terreno ai poveri. Bisogna ancora somministrare loro gli aiuti necessari
per coltivarlo e per vivere
Interessante anche l’indicazione sulla bonifica del
territorio: “Questa provincia, il Salento, bagnata da due mari, si estende
nell’Adriatico per lo spazio di circa cento miglia dal capo di Leuca fino
all’antica Egnazia e nel Jonio forse per altrettanto spazio dal medesimo capo
fino a Torre di Mare. Oltre i fertili campi dei suoi contorni, per cui conserva
il pregio dell’Antica Metaponto, ed oltre pochi tratti di terreno verso Taranto
e verso il Capo, tutto il rimanente litorale è incolto.
I luoghi che avrebbero bisogno di aiuto e direzione, sono
quelli ingombrati da paludi o di acque stagnanti. I presenti possessori non
pensano, o non possono, o non sanno disseccar le paludi, né dar con fossi e
canali lo scolo alle acque. Questa intrapresa di massima importanza per
l’aumento della rendita pubblica e privata, per l’aumento della popolazione, e
per conservare la salute di quella che presentemente ci è nella Provincia, è
propria e degna del Principe’
Il Palmieri si conferma, quindi, filosofo del pubblico
bene.
Di tutt’altro tenore le idee dell’altro novatore:
Francesco Longano, abate di umile famiglia, nato il 3.2.1729 a Ripalimosani
vicino Campobasso; ritenuto da Forges Davanzati uno dei più vicini e fedeli
allievi di Antonio Genovesi. Nella sua autobiografia egli descriveva i suoi
conterranei:
“Generalmente son tutti frugali, laboriosi e pieni di senso di
libertà. Di tale provincia pochissimi servono a Napoli e quelli che ci capitano
per evitare la tirannide baronale o la povertà amano meglio far da famigli che
da servidori. A questo modo evitan essi la servitù dei loro simili ed imperano
sulle bestie à la mendicità loro è in odio.’
Di qui il senso della loro industria. La vita campestre
“nei bestiami o nella cultura dei campi forma la loro occupazione
universale. Ma da quel Molise, per tanti legami naturali ed amministrativi
collegato alla Capitanata, partì anche lui per la Capitale Napoli, per istinto
d’evasione e sete d’apprendimento. Dopo essersi abbeverato alla fonte
illuministica del Genovesi e degli ambienti riformatori partenopei, condusse
una vita di insegnamento, di polemiche e di sacrifici. Negli ultimi anni ebbe
un piccolo beneficio ecclesiastico, con la cui modica rendita acquistò un
cavallo e si mise in viaggio per il suo Molise, per la Capitanata e per la
Terra di Bari al fine di aiutare la gente di provincia, rilevandone lo stato,
per rappresentarlo al Sovrano affinchè si decidesse ad intervenire. Ma la umile
sua esistenza, i quotidiani mille ostacoli, che mai gli furono risparmiati, non
impedirono a Francesco Longano, fino all’ultimo, di vivere con quella luce che
Antonio Genovesi gli aveva acceso nell’animo.
Morì il 28.4.1796. Oltre alla sua autobiografia scrisse:
” Piano d’un corpo di filosofia morale”; ” Raccolta di saggi
economici per gli abitanti delle Due Sicilie”; “Viaggio per lo
contado di Molise”; “Filosofia dell’uomo”; infine una serie di
traduzioni di saggi economici di illuministi francesi. In Francesco Longano,
povero prete di povera provincia, è più animoso il contrasto nei confronti dei
ceti privilegiati: il feudalesimo con il suo tetro retaggio di disuguaglianze,
pregiudizi e povertà è l’ostacolo da rimuovere lungo il cammino della rinascita
della Puglia e del Mezzogiorno. Come ebbe a dire: “sono troppe le
ingiustizie. che i baroni esercitano nei loro feudi donde nasce la mancanza
della libertà” Ovviamente l’appello si rivolgeva al Sovrano: “Rompete,
augustissimo padre e monarca, le ignominiose catene che tanto avviliscono i
vostri figli” Ma in una Napoli sospettosa delle novità, Longano era ormai
senza interlocutore. Ormai ogni moderata proposta di cambiamento veniva
trattata come “giacobino”. Pertanto non restava che l’utopia: la
Rivoluzione, riassunta in questa riflessione: “lo Stato è giunto
all’ultimo suo punto di declinazione quando è ridotto a due sole classi, delle
quali una abbonda del superfluo ed all’altra manca il necessario fisico. Dunque
tale Stato è tanto più lagrimevole quanto è meno curabile”
Si spegnevano, così, le possibilità di un dialogo
moderato sulle Riforme tra i novatori e la Monarchia borbonica, correndo verso
la tragedia della Rivoluzione del 1799.
Palmieri e Longano non videro quella Rivoluzione, ma
sicuramente le loro idee vi parteciparono con pieno diritto.
Se la pace è il premio agli uomini di buona volontà,
Delfo Del Bino ha dimostrato, pur con il rigore e l’oggettività delle
argomentazioni, che la massoneria potrebbe avere tutta la volontà di pace
possibile. Nella sua premessa, che è in realtà è più una sperata conclusione,
l’autore afferma:
“Massoneria e Chiesa Cattolica procedano su piani
diversi. E percorrono strade altrettanto diverse. Sono ancora rimasti in piedi
alcuni equivoci a giustificare una presunta inconciliabilità tra cattolicesimo
e massoneria. In questi pochi giorni ancora da trascorrere per chiudere un
millennio e riaprirne uno nuovo, vi è l’attesa, legittima, di vedere cambiare
il volto del mondo. E non già per nuove mirabolanti imprese tecnologiche, ma
per l’impresa più importante che l’umanità si attende: una parola di pace che
sorga dal rispetto reciproco di tutti gli uomini, e per tutti gli uomini della
Terra’
Chiesa e Massoneria non è soltanto una disamina storica
sulla nota controversia, ne è un libro a tesi, nel senso che lascia spazio a
qualsiasi interpretazione, purché, finalmente, questa vi sia. Stranamente,
anche l’esegesi massonica di questo antico contenzioso è carente. Il testo è
sicuramente un parametro attuale ed aggiornato dell’atteggiamento clericale nei
confronti di un perduto controllo della società, e del suo nostalgico e quasi
disperato tentativo di recupero di una morale teologica sociale universalmente
valida. In questo tentativo si spiega il fasto e la grandiosità delle attuali
cerimonie pontificie e la presenza continua sui mass-media italiani del Papa,
presentato come un eroico anziano, malato e sofferente, che regge sulle sue
metafisiche spalle il peso di duemila anni di cristianesimo. Ma dietro le
quinte del colonnato di S. Pietro vi è un’altra realtà. Quella della scarsità e
dell’invecchiamento degli operai della vigna del Signore, obbligati alla cura
di più parrocchie con una congrua che non corrisponde neanche alla paga di un
operaio al primo impiego. Le poche vocazioni si rivolgano per lo più verso gli
Ordini religiosi, mentre quasi più nessuno vuol fare il prete secolare.
L’incremento delle vocazioni nel terzo mondo non può coprire questa difficoltà
oggettiva, in quanto difficilmente i parrocchiani dei paesi latini accettano
senza dubbi africani ed asiatici alla guida del gregge. Ma anche se nel tempo i
sacerdoti colorati fossero accettati ed apprezzati, come sempre capita con la
ragione che il tempo impone, quali culture porterebbero nella Chiesa, quali
variazioni catechistiche e teologiche dovrebbe subire la morale cristiana,
sempre più limitata ed obsoleta? La presenza di un cardinale eccezionalmente
simpatico come Milingo, che ha portato nelle austere aule gotiche le sue
canzoncine tribali, i suoi esorcismi un po’ macumba ed un po’ vudù, è
paradigmatica, assieme alla illusoria speranza di molti massoni della sua
assunzione al Soglio, come Pietro II. Il libro del Del Bino nasce dalla presa
in considerazione di un movimento politico-religioso che negli ultimi decenni
si è consolidato in alcune minoranze cattoliche. In questo caso la disamina è
tratta da un libro d’Angela Pellizzari, Risorgimento da riscrivere— Liberali
& Massoni contro la Chiesa, con prefazione di Rocco Buttiglione e Franco
Cardini, ma da questo punto di vista la bibliografia sarebbe piuttosto vasta.
Per quanto le radici di questo movimento controrivoluzionario e
antirisorgimentale siano, come sempre, molto profonde, si può indicare la più vicina
origine nel cenacolo fiorentino di Attilio Mordini (cfr. Vittorio Vanni).
L’antimassoneria cattolica nelle sue origini fiorentine,
I Quaderni della Biblioteca, Quad. n. 5 Firenze 1998), autore di grande
intelligenza e lucidità, molto apprezzato dagli integralisti cattolici. Ma il
loro cattivo maestro è certamente Plinio Correira de Oliveira, (cfr. Plinio
Correira De Olivera, Rivoluzione e controrivoluzione, Cristianità, Piacenza,
1977) latifondista sudamericano e grande reazionario. La critica controrivoluzionaria
esercitata contro la Rivoluzione Francese (e, in Italia, contro il
Risorgimento) assume caratteri di irrazionalità ed isterismo mistico. Un
esempio di questa prosa si può rintracciare in a Giovanni Cantoni, Metamorfosi
del socialcomunismo: dal relativismo totalitario al relativismo democratico, in
cui si oppone al soprannaturale i “misfatti” del naturalismo:
“Né si può negare l’ipotesi — avvalorata da
significativi sintomi — di una macabra interiorità rispetto allo spogliamento,
al denudamento, un processo di “naturalizzazione”, di trionfo del
naturalismo, cioè di riduzione del reale a pura natura, con tematica negazione
ed esclusione del soprannaturale; un processo spinto fino alla contronatura e
al pre naturale diabolico, cioè ad un ‘orizzonte che includa positivamente il
demoniaco: ecco lo scorticamento, di cui dà emblematica descrizione
GustafMeyrink (1868-1932) nell’ultimo a capitolo del romanzo La notte di
Valpurga, significativamente intitolato “11 tamburo di Lucifero”, nel
quale narra appunto di un tamburo costruito con pelle umana ed al cui rullo
vengono chiamati a raccolta e operano rivoluzionari…[…] uomini dai pugni di
ferro, casacche turchine, fasce scarlatte sul braccio. Hanno formato una
guardia del corpo. Sull’esempio degli antichi Taboriti si fanno chiamare i
“fratelli del monte Horeb”[…] vessilli rossi sventolano con vapori
di sangue davanti alle case. Una moltitudine urlante, in delirio, li circonda
reggendo fiaccole accese
L’antologia del grandguignol integralista, di cui
potremmo portare molti esempi, risente evidentemente d’accanite letture di
grandi mistiche, come Caterina de’ Ricci, Maria Maddalena di Pazzi, Caterina
Salimbeni e Teresa d’Avila ed Ildegarda, le cui orripilanti visioni
sanguinolenti hanno tutto il carattere di morboso horror degli attuali
“controrivoluzionari”. Come ci dicevano i vecchi e più saggi parroci,
“quando si parla troppo del diavolo se ne vede spuntare la coda.
Lo stile rigoroso ed oggettivo di Delfo Del Bino, nella
sua lucidità illuminista e nella sua oggettività laica, ribadisce i limiti
(pag. 43) in cui il dominio spirituale (per chi lo accetta) non può, (o meglio
non dovrebbe) interferire con il dominio della società civile, sempre più
complessa e pluralistica: ” […]La Chiesa, si è data il compito di
difendere la salute dell’anima. A lei spettano tutte le cure spirituali. È un
magistero che non sopporta interferenze né manomissioni da parte di
chicchessia, Stato compreso, ma che a sua volta non può sovrapporsi allo Stato,
né, tanto meno, interferire nelle attività che riguardano la sfera civile”
Ma non consistono proprio in questo, su un piano sociale, le motivazioni
controrivoluzionarie ed ecclesiali dell’impossibile accettazione della
massoneria come componente “normale” della comunità? Obiettivamente,
non possiamo non riconoscere, e con orgoglio, che la Massoneria è stata una
tenace promotrice ed operatrice della laicizzazione dello stato e della
società, del pluralismo e della tolleranza religiosa, della parificazione ed
integrazione della donna, della libertà, insomma, e della dignità di ognuno.
Vediamo però con stupore come questi principi che consideriamo fondamentali non
soltanto alla Massoneria, ma all’evoluzione umana stessa, siano ancora negati,
con motivazioni a volte arcaicamente espresse, a volte ipocritamente eluse, a
volte perversamente dichiarate, ma sempre collegate ad una presenza ed
influenza del male, antropoformizzato nel solito onnipresente demonio. Ma
l’attuale impegno sociale della Chiesa, il suo ecumenismo, la volontà di
riappacificazione con le altre religioni cristiane, il desiderio di
collaborazione con le religioni non cristiane, le tardive richieste di perdono
d antiche e sanguinose persecuzioni non dovrebbe testimoniare che la
sensibilità odierna, com’espressione di un processo evolutivo, ha mutato anche
una teologia immutabile? Il comportamento morale pratico, ben diverso da quello
indicato dal catechismo teologico, di un cattolico integralista d’oggi farebbe
arrossire un libertino del’700. Nella realtà dei fatti la compassione, la
misericordia, la benevolenza dell’uomo nei confronti dei suoi simili, non sono
certo ben rappresentati dall’impostazione antiquaria della morale cattolica. Le
antiche accuse alla Massoneria, espresse in forma abbondantemente riservata
nella Lettera Apostolica di scomunica di Clemente, comminata, fra l’altro ‘per
altri giusti e razionali motivi a Noi noti” trovano poi aperta espressione
nella Storia del Giacobinismo dell’Abate Barruel. E il grande mito, ma più
ossessione, del complotto massonico, derivante dalla ricerca esterna di un
responsabile della caduta dell’Ancien Régime. Molti filosofi cristiani del’700,
fra cui Louis Claude e De Saint Martin e persino Joseph De Maistre,
ultrapapista, videro nella Rivoluzione Francese una punizione divina per la
degenerazione, l’arroganza, la prevaricazione degli antichi poteri, che si
pretendevano tali per diritto divino. La Rivoluzione, pur criticata negli
inevitabili eccessi, era vista come una forma di catarsi irrinunciabile, una
purificazione violenta ma necessaria, la forma estrema della Provvidenza. Chi
non volle riconoscere l’imperscrutabile volontà divina nella distruzione di un
mondo in cui il sovrannaturale era divenuto strumento terribile di una casta
cinica e criminale, si rifugiò nella fantasia del complotto massonico, guidato
occultamente dalle forze infere. Non è il caso qui di rivisitare il percorso
storico di questa comprensibile, ma non accettabile, caduta nell’irrazionale.
Da Don Bernardino Negroni al Taxil, dal Concilio antimassonico di Trento a
Padre Giantulli si potrebbe in verità storicizzare le morbose ossessioni
antimassoniche, ed anche abbracciare chi in buona fede, come noi, creda che
l’evoluzione della spiritualità comporti il superamento dell’odio e
dell’errore. È ciò che vuol auspicare Delfo Del Bino, quando afferma che
“I motivi d’attrito con la Chiesa, almeno quelli di allora, non ci sono
più”. Ma le motivazioni di dubbio su quest’ottimistica affermazione sono,
purtroppo, ancora attuali. Introvigne (Le Teorie del Complotto, Istituto per la
Dottrina e l’Informazione sociale) afferma che: “A partire dal Settecento
una certa forma di pensiero religioso sarà tentata da teorie complottiste a
fronte d’eventi imprevedibili e difficili da spiegare (sic! ) con cause puramente
naturali: l’egemonia culturale dell’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e più
tardi l’esplosione dello spiritismo, la rapida scristianizzazione di numerosi
paesi europei, il socialismo e il comunismo. Sono costruiti così schemi a forma
di piramide che vedono fisicamente dietro i dirigenti politici e culturali
visibili una classe dirigente invisibile costituita dalle società segrete, fra
cui, ma non è la sola, la Massoneria. Dietro le società segrete opererebbero
società ancora più segrete, apertamente sataniste. Dietro i satanisti
opererebbe il Diavolo in persona, la cui azione non si limiterebbe alla
modalità della tentazione, ma si manifesterebbe in apparizioni molto esplicite
e dirette, in cui il Principe del Male dà istruzioni precise e dettagliate ai propri
luogotenenti umani. Solo ad un’epoca relativamente tarda, nello schema — da
qualche parte fra i massoni ed i satanisti — sono inseriti anche gli ebrei,
intendendo quest’espressione, almeno fino al secolo XX, in senso non razziale
ma religioso, dal momento che i teorici del complotto sono più spesso
antigiudaici che antisemiti.”
In un opuscolo
(Scopi e pratiche alchemiche dell’Ordine Egizio, Agapé, Milano, 1983, diffuso
in un milieu particolare, vicino a pseudo-società esoteriche, il cui modello sono
le false massonerie create nella Francia del Fronte Popolare, dell’occupazione
nazista e del governo di Vichy, così si definisce gli “eggregori”
(formazioni psichiche, spontanee o indotte, dai poteri particolari):
” Gli eggregori sono molto socievoli e si
raggruppano volentieri in organismi astrali molto potenti, una sorta di
consorterie, che generano a loro volta degli eggregori più forti e
totalizzanti. I raggruppamenti si producano per affinità e sembrano prolungarsi
fino alla costituzione e all’intrattenimento delle due genialità astrali che
hanno un collegamento diretto al piano spirituale. Gli antichi chiamavano
queste due astralità Adam Kadmon e Adam BeliaL che, da vicino e da lontano,
presidiavano tutte le società segrete. ‘
Come spesso succede nei testi di queste organizzazioni
criptiche, l’esoterismo che esprimono è non soltanto rozzo e ignorante, con
un’interpretazione la cui matrice è evidente quanto aberrante, ma soprattutto
tendenzioso e diretto ad affermare lo stesso sillogismo che si può desumere
dall’affermazione dell’Arcivescovo di Firenze, Mons. Silvano Piovanelli, (La
Nazione 1998): “L’esoterismo è diabolico”. La Massoneria ha un
esoterismo, ergo, la Massoneria è diabolica. Ma la subdola strumentalità di
collegare la Massoneria a movimenti occultistici od a sette riesce ad
influenzare anche i governi, anche i quelli a matrice chiaramente laica, come
quello francese. La Commissione d’inchiesta sulle sette dell’Assemblea
Nazionale Francese nomina 175 società, esia stenti nel territorio, considerate
come settarie, fra cui tutte le Obbedienze Massoniche Francesi, ed inserisce,
fra le “sette” pericolose, fra gli Adoratori delle Cipolle,
l’Internelle Syntetiques Opérative Zététique Energétique et Nucléoniques, il
Club des Surhommes ed altre testimonianze della varietà del la stupidità umana, anche il CLIPSAS che è,
semplicemente la catena delle obbedienze massoniche non riconosciute
dall’Inghilterra e del circuito del Grann de Oriente de France. Se dovessimo
definire il significato di setta da un punto di vista storico-sociale nei suoi
caratteri negativi è proprio la Massoneria che sfuggirebbe a questi parametri.
Ma ne sfuggirebbe la Chiesa Cattolica? Vi sono
certamente due aspetti della inimicizia accanita della Chiesa nei
confronti della Massoneria, che si attua anche oggi, quotidianamente,
inimicizia che i Massoni d’oggi, spenti i roghi e abbattute le forche, credono
superata. Il primo è un aspetto politico, che è una delle ragioni della Lettera
Apostolica di Clemente. Guglielmo Adilardi, nel suo testo ” Lo stato nello
stato La Chiesa Cattolica in Italia: una retrospettiva ed un bilancio attuale,
I Quaderni della Biblioteca, Quad. n. 0 5, Firenze, 1997) mette in evidenza che
“[…] Un potere, quello nascente dagli stati nazionali, che diverrà sempre
più forte, tanto da arrogarsi il diritto di trattare anche in campo spirituale
con il Papa. Per cui il papato, a causa di questa ascesa degli Stati nazionali,
veniva estromesso letteralmente dalla scena europea fino a pervenire alla sua
esclusione definitiva nei trattati di Utrech (1713) e di Rastadt (1714), pur
avendo, come potere temporale, non poche questioni da portare al tavolo dei
negoziati. Altresì era, con tali trattati, sancita la fine del papato quale
elemento equilibratore fra gli e-stati in genere”.
La Massoneria, nei decenni susseguenti, costituì il
legame ideologico dei nuovi tempi fra la parte più evoluta dell’aristocrazia e
la nuova borghesia emergente, legame che in diversi modi, secondo le
particolarità nazionali, produsse il rinnovarsi dei termini etici di stato di
società. In questi termini l’influsso teologico del Papato era limitato alla
coscienza individuale e non poteva più rivolgersi al controllo della comunità.
Perché quindi stupirsi del rinnovato livore contro il costituirsi dell’unità
politica degli italiani, quando questa non poteva che rivolgersi (e lo potrebbe
essere ancor oggi) contro un dominio temporale cattolico che è intimamente, indissolubilmente, inevitabilmente collegato a quello spirituale?
Si potrebbe obiettare che un’antologia del pensiero
dell’integralismo cattolico non può rappresentare quello del Cattolicesimo in
generale. Sui siti internetici ufficiali della Chiesa Cattolica, così come su
quello dell’Opus Dei la ricerca alla voce “massoneria” non riporta
nemmeno un risultato. Solo su quelli della nuova Inquisizione, il GRIS (Gruppo
Italiano Ricerca Sette) ed il CESNUR (Centro sulle Nuove Religioni) diabolicità
e massoneria, gnosi ed aborto, criminalità ed esoterismo sono sempre collegati.
Ma la tattica cerca sempre di non far emergere la
strategia che gli è alle spalle. Pochi giorni fa su Civiltà Cattolica è stato
“perdonato” Giordano Bruno. Secondo l’organo dei Gesuiti, se la
Chiesa è infallibile, i suoi uomini non sempre lo sono, ma, naturalmente,
quelli di ieri, non quelli di oggi. Il “perdono” della Chiesa è
spesso più offensivo della condanna. Il 17 di Febbraio del presente anno 2000,
il movimento panteista internazionale celebrerà, a Campo de’ Fiori, Giordano
Bruno. Pura coincidenza?
Ma la diabolicità della Massoneria e dei suoi aderenti
non è adombrata solo dal folklore un po’ ridicolo ed un po’. retrò degli
integralisti cattolici. Mons. Josef Stimpfle scrisse un articolo (riportato dai
“Quaderni di Cristianità” anno II, n. 4, primavera 1986, pp. 45-67)
contro la tesi di Padre Reinhold Sebott S. J. m, , che affermava che “La
scomunica contro i massoni è abolita”.
Padre Stimpfle affermava in quest’articolo che alla
Dichiarazione di Lichtenau, sottoscritta il 5 Luglio 1970 da una commissione di
nove massoni e tre cattolici, Monsignor De Thoth, i Professori Schwarzbauer e
Vorgrimler, non era da attribuire alcun valore. Da notarsi che la Commissione
era stata indetta dalla Conferenza Episcopale Tedesca, e che i suoi membri
erano stati nominati dalla Congregazione per la Dottrina per la Fede, ma che in
seguito il Card. Seper dichiarò che la sua Congregazione non ha nominato i
membri di tale Commissione né approvato la dichiarazione di Lichtnau, che nelle
sue finalità intendeva indurre Papa Paolo VI a modificare il giudizio della
Chiesa sulla Massoneria, in verità già ben propenso a farlo, perché questo
“avrebbe fatto capire che sarebbe stato molto lieto se da parte dei
massoni, perlomeno quelli di linea inglese, fosse pubblicata in una qualunque
forma una dichiarazione alla quale ci si potrebbe riferire per fondare un nuovo
esame ( ì della questione e per fornire i presupposti affinché, su tale base o
in seguito a questa dichiarazione, si delineassero nuovi tentativi si
soluzione” (cfr. Kurth Baresch, Katholische Kirche und Freimaurerei. Ein
brüderlicher Dialog 1968 bis 1983. [ Chiesa Cattolica e Massoneria. Un dialogo
fraterno dal 1968 al 1983], Vienna 1983, pg. 69). Per quanto i colloqui della
Commissione non produssero i risultati auspicati da Paolo VI, due interviste
sui massoni furono trasmesse dalla radio Vaticana il 27 gennaio 1980 ed il 2
marzo 1980, e in queste si sosteneva, con argomentazione diverse, una sorta di
ammissibilità dei cattolici alla Massoneria, poi sconfessata.
La dichiarazione di Lichtenau, per quanto non contenesse
niente di sconvolgente e si limitasse a dichiarazioni di buona volontà per la
continuità del dialogo fra massoni e Chiesa, fu sconfessata a motivo della
diffidenza ecclesiastica, strumentale od in buona fede che sia.
Le dichiarazioni di Mons. Stimpfle superavano la
questione della ”machinatio” il complotto, cioè, della Massoneria contro
la Chiesa: ” [.. Chiarire il problema se la massoneria conducesse
effettivamente una lotta contro la Chiesa oppure no, non era però assolutamente
necessario per comprendere l’incompatibilità, quindi non è stato neppure
oggetto della commissione di ricerca”.
Si afferma così che il problema politico, per quanto
forse presente, è stato in qualche modo storicizzato e risolto. La guerra
ecclesiastica per il controllo della società prosegue, ma in modalità che la
Massoneria non può più contro combattere. Cui si potrebbe a questo punto
attendere il perdono Dei e la benedizione del carnefice, qualche fresca goccia
di acqua benedetta su ceneri orami spente.
Ma le motivazioni della scomunica sono molto più che
storiche e politiche. Sono profondamente teologiche e profondamente feriscono
l’immaginario collettivo della psiche cattolica. Pur sentendo altrettanto
profondamente l’abissale fascino della massoneria e del suo esoterismo,
l’inconscio del monaco della Tebaide,
sopravvissuto ai primi secoli, l’attribuisce alle non grazie perverse
dell’Avversario. Le motivazioni di Mons. Stimpfle sono, da per- questo punto di
vista, esemplari.
Dopo aver
affondato la lama nel corpo corrotto della P 2, lobby che ha inquinato la Massoneria e che comprendeva in
sé notevoli esponenti della finanza democristiana e di quella vaticana, si
arriva al centro stesso dell’orm ai
secolare prolasso antimassonico: seguiamo Mons. Stimpfle:
In questo contesto
è interessante quanto ha portato di nuovo la ricerca nel campo delle antiche
religioni misteriche. ln una delle opere S.J. storiografiche più recenti
relative al tema si dice: Notiamo, per inciso, che la disposizione del moderno
Tempio massonico è del tutto e per tutto e di identica a quella dei Templi
mithraici e che “nonostante una conoscenza frammentaria dei riti d’iniziazione si può
dire che alcuni dei suoi elementi prefigurano aspetti dell’iniziazione massonica
” (cfr. Cristian Jacq La m- Massoneria Storia ed Iniziazione, Mursia,
Varese 1978).
Non è solo Mithra,
uno degli “antichi dei falsi e bugiardi” che è indiziato di esser
l’ispiratore della massoneria (escluso quella inglese, quasi “buona”)
ma anche Manete, Giamblico, Porfirio, Plotino, Marco lo gnostico, vato
Basilide, ecc, cioè neoplatonici e gli gnostici, i grandi concorrenti del
cristianesimo nell’antichità.
Considerando che sono più di mille ottocento anni rsono trascorsi dalla loro
meteora nel campo filosofico e metafisico, ben grande deve essere stato lo
spavento dell’ortodossia verso questi contesti, se ancora si agitano questi
antichi spettri.
Le affinità del simbolismo e del rituale massonico con
gli antichi misteri non dovrebbe poi scandalizzare i cattolici. Nel
cristianesimo niente è originale nel campo liturgico, e non vi è calendario
religioso, simbolismo, culto che non derivi dagli antichi Misteri.
Noi consideriamo la Massoneria come un ponte fra un
lontanissimo passato ed un lontanissimo futuro e non rinneghiamo ciò che dai
Misteri ci deriva. Se la Chiesa Cattolica crede che dietro Delfi vi siano la
coda e le corna degli avversari, può cominciare a eliminare dal proprio culto
ciò che da Delfi o da altri centri iniziatici deriva. Ma non rimarrebbe niente,
a cominciare dalla mitra e dalla tiara dei Pontefici.
Vi sono poi, in questo documento, delle obiezioni ben più
sensate. Quella ad esempio che la Massoneria attribuisce all’uomo la sua
assoluta autodeterminazione, nei limiti che la società e l’umanità impone, o
nel fatto che La Massoneria considera i dogmi religiosi delle costrizioni
irrazionali che offendono la libertà e la dignità dell’uomo. Se queste sono le
motivazioni etiche della condanna alla massoneria, siamo ben orgogliosi di tale
condanna.
Ma la conferma più eclatante alla sua tesi di demoniaci
influssi Mons. Stimpfle la trova in Stephen Knigth, autore di opere di fantasia
a sensazione, divertenti quanto inattendibili. Lo Knigth nella sua opera The
Brotherhod, London, 1984, che il Monsignore ritiene frutto di
“interessantissime ricerche durate anni e svolte non senza considerevoli
difficoltà” afferma che al posto del Grande Architetto dell’Universo, già
nel grado alto (sic! ) dell’Holy Roy Arch subentra il nome di JAH-BUL-ON: JAH=
Jahvè, BUL= Baal e ON Osiride). Ora, tutti i rituali massonici, di tutti i
gradi conosciuti, sono stati pubblicati da più di duecento anni. Jabel, Jabulon
sono delle parole di passo che hanno un’altra etimologia. Jabelon, fra, l’alto,
parola di passo del XXI grado del R. S. A. A. ha significato di
“giubilare”, ma anche di “giubileo. Stephe Knight, secondo il
Monsignore, ha interrogato non meno di settantacinque massoni di questo (quale?
) grado. In quell’occasione egli dovette costatar che tutti parlavano,
liberamente e senza esitazione, della Massoneria ma che alla parola Jahbulon
settantuno degli interrogati perdevano la calma e la sicurezza di sé.
Monsignore, si ricordi di Leo Taxil. Se un giorno a questo scrittor di
fantascienza convenisse di dichiarare di aver detto delle sciocchezze, dove va
a finire la attendibilità delle sue tesi?
La speranza è che il libro di Delfo Del Bino apra la
strada ad una nuova verifica
dell’inconciliabilità fra massoneria e chiesa, oggi dimenticata da massoni,
orientati in buona fede ad un dialogo che essendo, oltre che civile logico e
razionale, non può aver punti di contatto con espressioni provenienti da un
contesto illogico ed irrazionale.•
CONOSCERE LOUIS CLAUDE DE SAINT MARTIN
di Ovidio La Pera
Che importanza può avere, in Massoneria, conoscere Louis
Claude Saint Martin? e chi era costui? L. C. D. M. fu chiamato il Filosofo
Incognite ed ebbe una notevole influenza sulla concezione esoterica della
Massoneria moderna. Ma, in principio, fu Martinés De Pascally.
Con questo scritto l’autore, mettendo a disposizione del
lettore la sua esperienza, dovuto allo studio più che ventennale della vasta
opera filosofica e letteraria di L. C. De Saint Martin, arricchita anche dalla
traduzione completa dei suoi testi, si propone di facilitare la comprensione
della dottrina e degli insegnamenti di questo insigne maestro; evidenziando i
principali aspetti di alcuni argomenti da lui affrontati e che tanta importanza
e risonanza ebbero nel suo tempo, considerando la grande influenza che
esercitarono su personaggi quali Joseph De Maistre, Honorè de Balzac, Chales
Augustin de Saint Beuve, il filosofo Franz Von Baader, i romantici tedeschi ed
altri, fino all’antroposofia steineriana. , e che non mancheranno ancora di
esercitarla su tutti coloro che si accosteranno al suo pensiero, tenuto conto
della sua vastità e della possibilità di ricerca e di rivelazione che esso
racchiude.
L’importanza massonica di L. C. De Saint Martin deriva
dalla sua particolare esperienza di segretario e coautore degli scritti di
Martinéz De Pascally, Gran Maestro degli Eletti Cohen, un Ordine massonico
settecentesco con dei caratteri molto peculiari, dalla sua influenza diretta
sul Rito Scozzese Rettificato di Willermoz, che ancor oggi rappresenta una
impostazione massonica molto diffusa nei paesi francofoni e nell’Europa del
Nord, oltre al ricollegamento ideale con gli Ordini martinisti tuttora presenti
in tutto il mondo.
Conoscere Louis Claude De Saint Martin è un’opera
propedeutica alla prima stampa in lingua italiana dell’opera omnia di questo
Filosofo Incognito, che Ovidio Pera ha tradotto completamente con estrema cura,
usando non soltanto dizionari dell’epoca, ma anche con il suo trentennale
studio delle opere di questo grande massone.•
Nel
mondo profano, in questi ultimi anni, stiamo vivendo una realtà che a mio
avviso definisco surreale. Fluttuiamo sopra un oceano avvelenato che inaridisce
la terra del compasso (il cuore).
Assistiamo
ad una povertà etica e culturale; un equilibrio precario e fittizio.
La
piccolezza di certi “personaggi” che occupano e sovrastano le
cronache quotidiane. Un NULLA che sta assumendo dimensioni gigantesche.
l’odierna crisi economica, politici spregiudicati e “pregiudicati”;
il volto pulito della mafia. Religioni che non colgono Io “Spirito”
dell’Uomo; persone comuni che quotidianamente vivono di video spazzatura; gente
comune che crede di essere libera perché ha più metalli in tasca; gente comune che,
da sempre, vive in guerra; gente comune che uccide altra gente comune; chi
getta via il cibo; chi non ha cibo per nutrirsi; il vociare infinito dei Talks
Shows. Parole vuote vagano nel vento, producendo un brusio scomposto,
dissonante ed assordante. Illusionisti dell’ottimismo a basso costo produttivo,
specultori fautori del massimo profitto a scapito dei diritti e della vita
delle persone.
Il NULLA, il
VUOTO ci sta lentamente avvelenando i pensieri. Il gioco degli
“opposti” ci confonde, ci distrae, ci fa sentire in balia di questo
nostro tempo. Così naufraghiamo in questo viscido oceano di futilità e di
finzioni.
Ma
Fortunatamente non vi è solo oscurità in questo mondo. Fortunatamente la Luce
scalfisce le ombre attraverso l’opera e la voce di molti “Umili
Maestri”
A
volte mi chiedo: Forse abbiamo dimenticato la “scintilla divina” che
ci ha creato? Oscilliamo fra due mondi che hanno uguale potenza attrattiva, due
magneti che colpiscono i sensi e i pensieri, la squadra ed il compasso, (la
mente il cuore). I l mondo interiore, immateriale, spirituale, ed i’ mondo
esteriore, fisico, tangibile. Vi sono persone più orientate verso la realtà
interiore te quali, nella loro vita, misurano il mondo con il compasso (il
cuore). Altre che hanno, fortemente, operato con la squadra (la ratio/ ragione)
per raggiungere le vette della ricerca scientifica.
Chi
ha esplorato i giardini dell’anima e chi ha costruito le architetture della
mente.
Ognuna
di questi ha agito per il bene dell’umanità, ha contribuito alla ricerca del
senso della vita.
A
mio avviso non vi è separazione tra questi due mondi, pur appartenenti a
dimensioni diverse. Essi sono l’espressione della grandezza dell’uomo, della
sua essenza divina. E’ come se il nostro essere si espandesse, all’infinito, in
due universi: uno fisico, materiale, e l’altro metafisico, spirituale. Quando
l’uomo raggiunge questa consapevolezza è in grado di esplorare gli spazi
cosmici di questi universi paralleli e sconfinanti. A mio avviso Il mondo
interiore è più vasto ed affascinante di quello esteriore, tuttavia
l’importanza che viene data alla mente è in grado di offuscare lo sguardo
rivolto verso l’anima che appare evanescente rispetto all’immediatezza del
piacere dei sensi fisici.
Non
vi deve essere preclusione o pregiudizio ma apertura, espansione, evoluzione.
In
questi anni la ricerca scientifica sta raggiungendo confini che si intrecciano
profondamente con la dimensione spirituale. Basti pensare a gli esperimenti
dell’acceleratore di particelle al CRN di Ginevra.
Il
bosone di Higgs, la così detta particella di Dio (la particella che da peso
alla Materia).
E’
alquanto interessante pensare che la Scienza abbia saputo costruire strumenti
sofisticati che, quasi, possono osservare l’essenza della materia. ln questo
osserviamo l’attrarsi e il respingersi dei due magneti. Due mondi un solo
confine, due universi nell’Universo.
La
cosa ancor più interessante è scoprire che noi, esseri viventi, potremmo
rappresentarne il punto d’incontro e dj unione: il confine, la porta che apre
la dimensione spirituale a quella fisica materiale e viceversa.
Chi
raggiunge questa consapevolezza sviluppa in sè la certezza della propria
divinità unita al “Tutto” come essenza e motore dell’Universo. Credo
che questo sia un argomento interessante per cominciare ad osservare la vita da
una prospettiva un po’ diversa, ad aprire ed espandere i pensieri che possono
viaggiare attraversano ognuno di noi, al di là delle convinzioni politiche o
religiose. fl diamante della Conoscenza.
Un
masso, una pietra , come punto di inizio, un grande monolite bianco.
Osservando
l’ammasso informe di materia, quella materia tanto cara a noi massoni.
materia
non sempre facile da levigare e lavorare.
Incuriositi
dal magma della materia e girando intorno al monolite si scopre che esso ha un
apertura. un varco, una porta da oltrepassare. possibilmente con il piede
sinistro. Entrando nel monolite si entra all’interno del “prisma”
catalizzatore.
Lo
spazio bianco dell’esagono è perfettamente tracciato, il cui esterno dominato
dal magna informe delta materia ci permette di scoprire che l’interno nasconde
uno spazio bianco, (al cui interno troviamo l’immagine di un uomo rovesciato a
introrilievo. L’uomo non più fisico come
chi entra, ma affonda nella materia per liberarsi da essa. ln uno spazio
esagonale, geometricamente.
Non
a caso chi entra si trova nell’ esageramma, questo simbolo antichissimo. II
sigillo di Salomone o stella di Davide, (la stella a sei punte) costituita da
due triangoli: uno, che ha la punta rivolta verso l’alto e personifica il
principio spirituale, a cui viene sovrapposto un altro triangolo, che ha la
punta rivolta verso il basso e rappresenta il principio materiale. II triangolo
con la punta verso l’alto simboleggia il principio maschile mentre quello con
la punta verso i l basso, il principio femminile. Uniti nell’esagramma formano
il principio della perfezione in equilibrio divino. I due triangoli equilateri
che si intersecano capovolti. rappresentano i quattro elementi della natura,
(acqua, aria, terra, fuoco) sotto la spinta delle due forze divine, la spinta
verso l’alto e la spinta verso il basso essi si completano in equilibrio a
vicenda… fino a prendere la forma di un corpo unico. L’ esagramma.
Se,
riportando queste forme nella geometria sacra (cioè in forma tridimensionale),
i triangoli divengono tetraedri e il cerchio sfera…la relazione tra due metà
complementari che insieme formano un unità in perfetta armonia ed equilibrio.
Nella
Creazione queste metà sono le due leggi opposte dello spirito e della
materia… Questo vale sia per il macrocosmo che per il microcosmo, cioè sia
per i corpi celesti che per l’essere umano. Con la sola differenza che
quest’ultimo incarna coscientemente le due leggi di spirito e materia,
patendole applicare per tendere verso I’ unità. Non è un caso che la vita
biologica sulla terra si basa sul Carbonio, la cui struttura molecolare più nota
ha proprio forma di tetraedro…)
All’interno
del prisma esagononale che è sacello ma anche sepolcro, come incubatore di
intime riflessioni e corrispondenze cosmiche. Lo spazio bianco dell’esagono è
perfettamente sagomato da nette linee geometriche all’interno, mentre è
magmatico di materia informe all’esterno.
Nella
camera esagonale si entra uno alla volta, la presenza fisica che entra
ponendosi al centro dell’ Esagramma viene a trovarsi simbolicamente al centro
del Macrocosmo… nel proprio “Silenzio” interiore. è in questa
solitudine, che si creano le condizioni di una relazione con il cosmo – Io
spazio.
Così
si entra in contatto con il “Vero Sé”, l’anima immortale che regna in
noi da sempre, ma che spesso è nascosta ed offuscata dagli effimeri bagliori dell’ego.
Bisogna fare molta attenzione all’ego perché ha una forza sottile che s’insinua
dentro, corrompendo la purezza dei colori. L’ego ama il potere e l’immagine di
sé. L’ego è schiavo dell’Avere e rifugge il “dono incondizionato della
luce”
Spesso
mi capita di osservare il cielo in profondità, con un senso di pace e di
abbandono, sentendomi attratto da un respiro vitale. È una sensazione sottile,
una vibrazione cosmica, che penso colpisca un po’ tutti in egual modo.
Fermiamoci ad ascoltare. Apriamo il cuore, il nostro diamante, al respiro
divino che attraversa l’universo. Se il nostro essere sarà pervaso dalla luce
cosmica. La “Vera Luce” nella sua dirompente potenza. Potremo
spostare le montagne, potremo trovare la giusta Via che sarà quella di una reale
Fratellanza Universale.
Abbiamo
già detto che la Tradizione Primordiale, da cui de riva ogni forma di dottrina
tradizionale, consiste nella Legge propria di questo Ciclo Cosmico. Conviene
dunque sapere in primo luogo in che cosa consista la dottrina dei Cicli
Cosmici, dal momento che essa rappresenta uno dei principi fondamentali della
conoscenza tradizionale, ed un elemento-chiave per comprendere l’origine delle
dottrine che andremo ad esaminare.
Nell’affrontare questo complesso tema, ci riferiremo
soprattutto alla tradizione indiana, nella quale la dottrina dei Cicli Cosmici,
già presente nell’antica cosmogonia vedica, ed ulteriormente sviluppata e
definita nelle opere successive, ha trovato la sua più completa ed esauriente
esposizione , ma non
mancheremo di evidenziare i numerosi collegamenti e le analogie che esistono
fra dati trasmessi dalla tradizione indiana e quelli presenti in altre forme
tradizionali.
KALPA, MANVANTARA E YUGA
Un primo elemento fondamentale della dottrina dei Cicli
Cosmici è la distinzione di tre diversi tipi di ciclo temporale, generalmente
definiti Yuga, Manvantara e Kalpa, che corrispondono a tre diversi livelli
della misurazione del tempo in rapporto, rispettivamente, agli anni terrestri
(o degli uomini), agli anni cosmici (o degli dei) ed agli Anni di Brahma,
ovvero della Divinità suprema.
Maha-Kalpa La suprema misura del tempo è data
dalla durata della vita di Brahma, cui i testi brahmanici attribuiscono il
ruolo di Dio-Creatore, e la cui vita dura 100 (0 108) Anni di Brahma, un arco
di tetnpo immenso, detto Para o Maha-Kalpa. che rappresenta il ciclo completo
nel corso del quale si manifestano tutti i I•vlondi possibili, e al termine del
quale sorgeranno altri Brahma ed altri cicli, alFinfinito.
Kalpa Ogni Anno di Brahma è composto da 360
Giorni. detti Kalpa, ognuno dei quali segna il nascere di un nuovo Universo:
all’alba di ogni Kalpa, Brahma si manifesta depositando nelle Acque
prilnordiali il Germe d’Oro dell’Uovo Cosmico (Brahmanda o Hiranyagarbha) da
cui trae origine un Univers02 destinato a scomparire e ad essere
riassorbito nel Sonno della divinità col sopraggiungere della Notte di Brahlna.
quando si verificherà la Pralya3 , la “Dissoluzione di ogni
cosa” a opera dell’Acqua e del Fuoco; Ina al suo risveglio, Brahma creerà
poi di nuovo se stesso Uovo Cosmico, ponendo in essere un nuovo Universo. Vita e morte si alternano dunque
conie il giorno e la notte, la veglia e il sonno, e mentre ogni Giorno-Kalpa
rappresenta la durata di un intero Universo, lo sviluppo totale di un Mondo,
ogni Notte rappresenta un periodo di quiete ed uno stato di assenza della manifestazione.
Manvantara A sua volta, ogni Kalpa è composto da
14 Manvantara, divisi in due serie settenarie: il A4anvantara, unità di misura
cosmica e divina del tempo, comincia a riguardarci più da vicino, perchè ad
ogni Manvantara corrisponde un ciclo dell’umanità e delle sue civiltà, ciclo
che è posto sotto la tutela di un Manu, ovvero di un mitico Antenato, dal quale
promana la Legge propria di ognuno di questi cicli .
Il Manu del primo Manvantara del nostro
Kalpa è detto Brahma
Svayambhuva, “Colui che esiste di per se stesso”,
dal quale sarebbero discesi i princìpi fondamentali della società indo-ariana
contenuto nei Veda e nelle Leggi di Manu; gli fanno seguito altri cinque Manu:
Svarochisha, Auttami, Tamasa, Raivata e Chakshusna. Il nostro Manvantara è il
settimo della prima serie, è ed retto da Vaivasata, il Manu dell’attuale
umanità, la cui figura è collegata al primo Avatara _(incarnazione) di Visnù 5
. Alla fine dell’attuale Manvantara, altri sette Manu•reggeranno i
Manvantara della Notte di Brahma: i loro nomi sono Savarna, Dakshasavarna,
Brahmasavarna, Dharmasavarna, Rudrasavarna, Rauchya, Bhautya. Segnaliamo che al
Manu Vaivasata corrisponde, nella mitologia babilonese, Sitnapistim, l’ultimo
re antidiluviano e il primo uomo dell’attuale umanità.
Ogni Manvantara corrisponde dunque ad una
particolare condizione
dell’umanità, ed è
localizzato in uno dei sette Dwipa (Tl’erre, Regioni) del nostro
pianeta, viene cioè collegato ad una particolare configurazione delle terre
emerse, contraddistinta da un diverso Polo, e quindi da un sùo particolare
Centro Sacre• principale. Queste sette Terre, che si succedono nel corso di un
Kalpa (manifestandosi due volte, una volta durante il Giorno di Brahma, ed
un’altra durante la Notte) sono designate, nel loro insieme, come Terra Santa o
Terra dei Viventi, al cui centro si trova il Centro primordiale, simboleggiato
dal Monte Meru, la Montagna Cosmica6 .
Se il Manvantara rappresenta la massima unità di misura del
tempo di un’umanità, ed è contemporaneamente una misura cosmico-divina, per
calcolare il tempo in termini terrestri, e a noi più accessibili, occorre far
riferimento agli Yuga, le epoche o età che rappresentano la forma ciclica più
ridotta, e che caratterizzano le principali fasi della storia di un ‘umanità.
Gli Yuga sono quattro, la loro durata è ineguale, ed era messa in rapporto ai
punti segnati sulle quattro facce di un dado
Krita-Yuga o Satya-Yuga (4800 anni) :
corrisponde al numero 4, il punto vincente e rappresenta l’Età dell’Oro
(letteralmente l’Età Cornpiuta o l’Età Reale), in cui la legge universale
(I)harrna) si manifesta nella sua integrità e la vita si svolge in uno stato di
totale equilibrio e armonia: in questa età esiste un’unica classe, denominata
Hanzsa, coinc il Cigno di Brahma
Treta-Yuga (3600 anni) : corrisponde al
l)lltnero 3, e indica un’epoca ancora felice, in cui però cominciano ad
apparire la cupidigia e la sofferenza
Dwapara-Yuga (‘2400 anni) : corrisponde al
numero 2. ed è
in cui il
è ridotto alla sua
metà, aumentano i vizi e le disgraziQ% mentre diminuisce la durata della vita
Illuana
Kali-Yuga :
l’ultirna età. corrispondente al munero 1, è l’età de
la privazione e della perdita, in cui resta solo un quarto del
Dhar;na; il terjììltne
Kali, che indica concetti negati\i quali
perdita, cattiveria e discordia. può esse-
re messo anche in relazione con la natura
sanguinaria della dea Kalì. Nera (si tratta. infatti di un’età oscura) e con il
termine che int,ica i!
Età, la cui durata è detta di 12.000 anni.
sir-nile a quelìa del Grande Anno delle tradizioni mesopotamica e greca. Il
Maha-Y’uga viene identificato da alcuni con lo stesso Manvantara, mentre altri
affermano che occorrono 71 (0 72) IVIaha-Yuga per fonnare un Manuantara, e 1000
per fivmare un Kalpa, la cui durata cotnplessiva sarebbe quindi di 12 milioni
di anni
Ma in realtà, avvertono alcuni testi, gli anni di cui si
parla non sono anni umani. bensì Anni degli Dei (o anni cosmici). ognuno dei
quali corri-
ciclo completo.
come un Kalpa. ma più ancora un Anno di Brahma o l’intera sua Vita (cfr.
Guenon, Simboli della Scienza Sacra, ed.cit. p.321) 4) Manvantara
significa letteralmente discesa (A vatara) di Manu. Guenon (Il Re del Mondo.
ed.cit. p. 12) nota la somiglianza del nome di Manu con quello del Menes
egiziano, del Menu celtico e del Minos greco. ai quali viene attribuita una
funzione legislativa analoga a quella del Manu; nella tradizione ebraica la
funzione di supremo rappresentante, in perpetuo. dell ‘ autorità spirituale è
attribuita a Melchisedec, re di Saleln (Genesi xrv’. 8). mentre nella
tradizione romana il ruolo di capo spirituale e massimo legislatore spetta al
saggio re Numa. il cui nome può essere collegato al termine areco Nomos
(Legge). Ina PLIò anche esser visto come un anagrannma di 114anu (cfr. Guenon.
op.cit. p.45-55)
) Alla successione dei sette Manvanrara e dei relativi Manu
possono essel•e collegati i sette Re di Edom di cui parla la tradizione
cabalistica o i sette Re antidiluviani della tradizione babilonese. che
rapprescn!ercbbero
Mondi anterion ai nastro
(‘cfr
Chienon. Il Re del
ed.cit
{Fi{dirionali e
ed.cit. p,45-46)
Cfr.
Guenon, Consideradottrina dei
Fonne
tradizionali e cicli co€”lici. ed.cit. p. 1 1-20. Per quanto riguarda ie
due serie settenafie degli stati dell ‘ essere. Guenon precisa che ciò può
intendersi
7
sia nel
senso di una successione temporale, sia nel senso di una presenza si
multanea dei vari stati. e li mette in rapporto con i sette
Swa»ga (paradisi) e i sette Patala (inferni) che rappresentano i diversi gradi
della manilestanone universale. 7) Leggi di Manu I, 69 s.
Mahabharata 111 12826. Cfr. Mircea Eliade, immagini e simboli. ed.it. Jaca
Book, Milano 1981, p.6064 (si veda anche. dello stesso autore, Il ntito dell’eterno
ritorno, ed.it
Rusconi, Milano 1975)
N) Nel
BrahmavaivartaPurana, Vishnu rivela a Indra che l’intera vita di Brahma dura
108 Anni e
che un
Giorno e una Notte di Brahma equivalgono a 28 esistenze di Indra. ognuna delle
quali dura 7 1 cicli (corrispondenti ai Maha- Yuga).
9) Cfr.
A.Morretta (op.cit. p. 1 15) che cita il VishnuPurana per il rapporto fra anni
terrestri e divini. Gli anni del Kalpa risultano invece 4.294.080.000 si
moltiplica la durata del Maha-Yuga per 71 e per 14. Va rilevata anche una certa
discordanza fra chi ha voluto calcolare in termini di anni terrestri la durata
complessiva della Vita di Brahma, che risulta di 155.520 miliardi di anni se si
considerano solo i Giorni, durante i quali esiste un mondo manifestato, per cui
i Kalpa sarebbero 36.000, mentre si raddoppiano se si considerano anche le
Notti, e al
lora i 100 Anni di Brahma vengono a corrispondere a 311.040
miliardi di anni. i0) La teoria degli Avatara è esposta soprattutto
nei Purana (Bhaga vata Purana, Varaha Purana,
8
sponde a 360 anni terrestri, in
quanto ogni nostro anno equivale ad un giorno cosmico. Pertanto, i 12.000 anni
del Maha-Yuga (o Manvantara) dovrebbero essere moltiplicati per 360, e la sua
durata complessiva sarebbe di 4-320.000 anni (12.000×360) ; quella del Kalpa,
considerato pari a 1000 Maha-Yuga, assommerebbe allora a 4-320.000.000 anni,
mentre la durata complessiva della Vita di Brahma sarebbe quantificabile in ben
311.040 miliardi di anni9.
GLI AVATARA Dl VISHNU
Abbiamo dunque visto che i quattro Yuga sono
caratterizzati dalla progressione discendente 4-3-2-1 (l’inverso della
Tetraktys pitagorica) che indica il progressivo allontanamento dalla pienezza
del Dharma (l’ordine cosmico, la Conoscenza), e dà una somma pari a 10, numero
che corrisponde allo sviluppo completo di un ciclo, definendo la relazione fra
il suo inizio e la sua fine.
Alla divisione di un ciclo dell’umanità in quattro Yuga
di durata ineguale, ma corrispondenti a dieci periodi di durata uguale, si
collega un’altra dottrina induista relativa alla suddivisione interna dello
stesso ciclo dell’umanità: si tratta della dottrina dei dieci Avatara
(Desavatara) di Vishnu, ovvero delle dieci successive incarnazioni del Dio,
considerate come discese dello Spirito divino, che si manifesta, assumendo un
corpo, per salvare l’umanità o per ristabilire l’ordine nel mondo’0 . La serie
degli Avatara, che va inquadrata nella successione dei quattro Yugall ,
consente di definire le fasi di una vera e propria storia segreta dell’umanità,
narrata in chiave mitica dal punto di vista della tradizione indo-ariana, e
costituisce pertanto un prezioso schema nel quale possono trovare una
collocazione anche numerosi dati provenienti da altre tradizioni:
Matsya (Pesce) : Vishnu appare in forma di pesce
a Manu per avvisarlo dell’imminente Diluvio, e poi porta in salvo la sua Arca
sulla Montagna del Nord. Il Diluvio è quindi la catastrofe (Pralaya) con la
quale inizia il primo periodo (Krita-Yuga) dell’attuale Manvantarat2 ;
Manu, il progenitore della nuova umanità, salva dalle acque del Diluvio anche
la Conoscenza, portando con sè i Rishi, gli antichi poeti-veggenti, autori dei
Veda.
Kurma (Tartaruga) : in forma di Tartaruga,
Vishnu aiuta gli dei (Deva) e i demoni (Asura) a “frullare” il Mare
di Latte, ovvero il caotico Oceano degli Elementi, servendosi del Monte Mandara
(l’Asse del Mondo) come mestolo e del serpente Vasuki (il Tempo) che lo
circonda, come di una corda, per ottenere i 14 Tesori (Chaturdasa Ratnam, le
cose più desiderabili di questo mondo) fra cui l’elisir dell’immortalità
(AmritaSoma), che poi ha cura di far bere solo ai Deva.
Varaha (Cinghiale) : Vishnu-Cinghiale, sconfigge
il demone Hiranyaksha, autore del Diluvio, e fa emergere la Terra (la dea
Pritvi) dal fondo dell’Oceano.
Narasimha (Leone) : con l’aspetto di Uomo-Leone,
Vishnu sbrana il malvagio re Hiranyakashipu che dubitava del suo potere.
Vamana (Nano) : apparso in forma di nano, Vishnu
ottiene dal re Bali la promessa di regalargli tanta terra quanta ne potrà
percorrere con tre passi; trasformatosi quindi in gigante, copre tutto il
mondo, compresa la regione di Patala (gli Inferi), così come l’antico
Vishnu-Trivikrama aveva creato il Mondo con tre passi; questa incarnazione di
Vishnu viene collocata nel Treta-Yuga (mentre le quattro precedenti appartengono
al KritaYuga) e si pensa che si riferisca al periodo in cui gli Arii lottano
contro le popolazioni dravidiche per il possesso della penisola indiana.
Parasurama (Rama con l’ascia da guerra) : Vishnu, incarnatosi come
Parasurama, figlio del saggio Brahmano Jamadagni, vendica l’uccisione del
padre, distruggendo, con l’aiuto di Shiva, l’intera casta degli Kshatrya
(Guerrieri) capeggiata dal malvagio re Kartavirya, nel corso di una sanguinosa
guerra durata ventuno anni l•3 . Il mito, narrato nel
Mahabharata, si riferisce alla ribellione degli Kshatrya contro l’autorità dei
Brahmani.
Rama: settima incarnazione di Vishnu, Rama è l’eroe per eccellenza, e
rappresenta l’espressione più alta degli ideali della casta guerriera. Figlio
del re di Kosala, Dasaratha, Rama viene istruito dal saggio RishiVisvamitra: in
seguito a degli intrighi viene esiliato, e si ritira nella foresta con la sposa
Sita e il fedele fratello Lakshmana; dopo 14 anni Ravana, re dei Demoni,
rapisce Sita e con un carro volante la porta in un’isola (identificata con
Ceylon) ; aiutato da un esercito di scimmie capeggiato da Hanuman, Rama
raggiunge l’isola, uccide Ravana e libera la sua sposa. Le gesta di Rama,
narrate nel Ramayana, si collocano nell’ultirno periodo del Treta-Yuga (fra il
5000 e il 4000 a. C). , e sembrano riferirsi all’affermazione del primo Impero
indo-ariano.
Krishna (lo Scuro) : Krishna è l’eroe divino più venerato di tutta
l’India, la cui leggenda è narrata nella prima parte del Mahabharata; da bambino
viene affidato a dei pastori per evitare che venga ucciso dal re Kansa, suo zio
lt ; divenuto poi un eroico guerriero, uccide Kansa e distrugge una
città aerea, Saubha, che sorge sulle rive dell’Oceano; quindi fa da mediatore
nella disputa fra i cugini Panduidi e Kuruidi, e la BhagavadGita narra di come
aiuta e istruisce, in vesti di auriga, il suo amico Arjuna, i spingendolo alla
battaglia contro i Kuruidi, e rivelandoglisi come dio. Infine, ritiratosi a
meditare in una foresta, viene ucciso da un cacciatore, mentre la sua città,
Dvaraka, i cui abitanti si sono dati ad ogni genere di vizio, sprofonda
nell’Oceano. Con la morte di Krishna ha inizio il Kali-Yuga l 5•
Buddha:
all’inizio del Kali-Yuga, Vishnu si incarna nel Buddha per predicare la
rinuncia e il rifiuto del dogmatismo; il nono Avatara si collega alla
diffusione del Buddhismo in India e al suo successivo riassorbimento
nell’Induismo.
10 Kalkin: l’ultimo Avatara si manifesterà
alla fine del Kali-Yuga, quando la confusione sarà giunta al culmine; sarà
preceduto dall’apparizione di sette Soli, e da un grande calore distruttivo, e
giungerà, come il Cavaliere dell’Apocalisse, cavalcando un cavallo bianco e con
una spada fiammeggiante in pugno, per restaurare il Dharma, e dare inizio ad un
nuovo ciclo.
LE QUATTRO ETÀ DEL MONDO
Alla dottrina orientale dei quattro Yuga,
corrisponde, nella tradizione greco-romana, quella delle quattro (o cinque) Età
del Mondo, la cui prima formulazione risale ad Esiodo ‘6 e che venne ripresa e
sviluppata da numerosi altri scrittori e poeti dell’antichità, fra cui Virgilio
e Orazio p . La descrizione delle varie Ere, o meglio, dei cicli di
civiltà che si sono succeduti nel nostro mondo è la seguente:
Età dell’Oro: quando in cielo regnava Cronos, il mondo era abitato da
una razza di uomini simili agli dei, che vivevano felici e liberi da malattie e
preoccupazioni e praticavano la giustizia senza bisogno di esservi costretti,
nè avevano bisogno di lavorare, perché la terra, su cui regnava una perenne
primavera, dava i suoi frutti spontaneamente e in abbondanza; dopo una vita
lunga e serena, questi uomini morivano tranquilli, come se si addormentassero.
Alla loro scomparsa, divennero degli spiriti aerei. custodi e protettori degli
uomini.
Età
dell’Argento: Zeus, subentrato a Crono, ridusse la durata della primavera,
determinando il succedersi delle stagioni, e gli uomini dovettero cominciare a
coltivare la terra, a costruirsi dei rifugi e a sviluppare le arti; molto
peggiore della precedente, la generazione argentea era contraddistinta da una
prolungata fanciullezza, durante la quale (per cento
Kurma
Purana, Matsva Purana). ma compare anche nel Ranuzyama e nel Mahabharata
A.Morretta
(Miti indiani. ed.Longanesi, Milano 1982, p. 125 ss.). Va anche detto che il
numero dei dieci Avatara sembra sia stato stabilito piuttosto tardi (verso il X
secolo d.C): il Mahabharata ne cita infatti sei e la Bhagavata Purana ventidue,
mentre altri testi danno anche altre cifre. In ogni caso, la concezione degli
Avatara ha avuto in India un’ampia diffusione, ed esiste anche nel Buddhismo
(in cui sono i Bodhisattva che rappresentano le incarnazioni del principio
divino) e nel Jainismo (i Tirthankara) n ) Nel Vishnu-Purana gli
Avatara di Vishnu sono definiti Kalpa. ma ciò va in rapporto ad un sotto-ciclo
piuttosto che in riferimento ai Giorni di Brahma
12) Secondo il Bhagavata Purana. il Diluvio ha luogo
durante la Notte di Brahma, mentre il dio è sprofondato nel Sonno del Kalpa
notturno I s) La distruzione della casta guerriera è totale. in
quanto tutti i suoi maschi vengono uccisi: ParasuRama fa accoppiare le donne degli
Kshatrya con i Brahmani. con l’intento di assicurare la sopravvivenza della
casta guerriera. rendendola però più sagoia e meno arrogante. ) Molte leggende
popolari sono sorte intorno a Bala-Krishna, il “Fanciullo forte” ed
agli spensierati amori della sua giovinezza (sui quali Jayadeva ha composto,
nel 1170. il poellia Gitagovinda) l ) La molle di Krishna sa9
rebbe avvenuta il 18
febbraio 1 302 a.C. (cfr. A. Mometta, op.cit. p.323). Ifi) Esiodo,
Le Opere e i Gionti, vv. 106-201
17 ) Virgilio,
Bucoliche, Egloga IV. Georgiche; Ovidio, Metamorfosi I, vv.89-150; Orazio,
Epodi xvl. vv.41 ss.; 18) Daniele 11. 31-45: il Gigante dai piedi di
argilla è apparso in sogno a Nabucodonosor, re di Babilonia, che dopo aver
invano interrogato gli astrologhi e maghi caldei, riceve da Daniele la
spiegazione del suo significato. 19) Gli Esseri Viventi che nella
Visione di Ezechiele (I, 4-15) circondano il Carro di Dio hanno fattezze di
Uomo, Leone. Toro e Aquila; analogamente, i quattro Viventi dell’Apoca1isse UV,
7-8), che circondano il Trono di Dio sono detti simili a un Leone, a un
Vitello, a un Uomo e a un’ Aquila, e sono la raffigurazione simbolica dei
quattro Evangelisti.
20)
Fulcanelli, Il Mistero delle Cattedrali, ed. Mediterranee, Roma 1972, p.
169-175: l’ interesse che il più importante alchimista contemporaneo mostra per
i Cicli Cosnuci, dimostra che questa dottrina ha un valore meta-storico, le cui
implicazioni teoriche e operative trascendono il senso di una semplice teOria
sulla storia dell’umanità e del pianeta.
anni) i fanciulli vivevano presso le madri;
da adulti, gli uomini di questa Età erano però stolti e non veneravano gli dei,
per cui Zeus, sdegnato, li fece sparire, ed essi sono diventati spiriti degli
Inferi.
Età
del Bronzo: la terza generazione era composta di uomini violenti e terribili,
nati dai frassini e amanti della guerra, ma non empi; benché tremendi, la morte
colse anche loro, e scesero nelle squallide dimore del gelido Ade.
Età degli Eroi (compare
in Esiodo, ma non in altri autori, e più che ad una Età a sé stante, potrebbe
essere considerata come I ultima fase dell’Età del Bronzo o la prima della
successiva Età del Ferro) : la Terra genera una stirpe celeste di eroi,
ritenuti semidei, molti dei quali furono uccisi in combattimento, alcuni a
Tebe, altri a Troia; ma altri furono posti da Zeus ai confini del mondo, nelle
Isole dei Beati, dove hanno vissuto felici e sereni.
Età
del Ferro: l’ultima generazione, caratterizzata dal nero ferro, è composta da
uomini malvagi, violenti e senza timore degli dei; è una stirpe priva di
giustizia, di lealtà, di pudore e di pietà, su cui regnano la frode, la guerra,
la diffidenza, e il desiderio del possesso; l’uomo inizia a navigare, delimita
le proprietà terriere, scava nelle visceri della terra alla ricerca di tesori;
Zeus distruggerà anche questa ultima razza “quando i bambini nasceranno
canuti”.
Alla suggestiva versione mito-poetica data dal mondo
classico, fa riscontro la Visione descritta nel Libro di Daniele18 ,
in cui le quattro Età del Mondo sono simboleggiate da un ‘enorme statua,
dall’aspetto terribile e straordinario, con la testa d’oro, il petto e le
braccia d argento, il ventro e le cosce di bronzo, le gambe di ferro, e i piedi
in parte di ferro e in parte di argilla: Daniele spiega che le parti della
statua simboleggiano quattro Regni successivi, l’ultimo dei quali è
caratterizzato dal duro ferro che tutto spezza e distrugge, mischiato però alla
fragile argilla; pertanto, come il gigante viene distrutto da una pietra
staccatasi da un monte, che ne colpisce i piedi, provocando la rovina
dell’intera statua, allo stesso modo quest’ultimo Regno sarà distrutto e
stritolato da un Nuovo Regno, indistruttibile ed eterno, che Dio farà sorgere
dal cielo.
Anche i quattro “Animali” della Visione di Ezechiele
o i quattro simboli animali degli Evangelisti19 che circondano
l’immagine del Cristo in Gloria, oltre ad indicare le quattro modalità
attraverso le quali si manifesta il Verbo divino, ed oltre al loro collegamento
con i quattro Elementi, possono alludere, come nota Fulcanelli20 alle
quattro fasi in cui si divide un grande periodo ciclico, e che corrispondono
alle quattro Età dell’Umanità di Esiodo o ai quattro Regni di cui parla
Daniele.
Il carattere “universale” di questa dottrina, lo si
può dedurre dalla sua presenza anche in tradizioni molto distanti e diverse, e
se non desterà meraviglia, per la prossimità delle aree culturali, ritrovare
l’idea delle quattro ere dell’umanità nell’Avesta persian0[1], appare certo più sorprendente che la stessa visione si ritrovi anche in
una realtà completamente diversa e priva di contatti con il mondo indo-europeo,
come quella delle civiltà precolombiane: nei documenti e nei calendari
mesoamericani, si rileva infatti sia la presenza di calcoli relativi a grandi
cicli temporali, sia il riferimento a quattro Ere del Mond022
Secondo i Maya, infatti, gli Dei, dopo aver distrutto tre
Mondi con un diluvio, col fango e col fuoco, hanno creato il Mondo attuale,
sorretto da quattro divinità (i Bacab) che ne rappresentano i punti cardinali.
Gli Aztechi, collegandosi alla tradizio.ne Maya, parlano parimenti di quattro
Soli, che si sono succeduti a partire dalla creazione del genere umano, e
ognuno dei quali è collegato ad una delle quattro direzioni dello spazio, ma
aggiungono ancora un quinto Sole, quello attuale, che viene posto al cen-
–
tro di questo schema e rappresenta il
compimento dell’intero Cic10 23 .
Primo Sole (MatlactliActl: Dieci Acqua), 4008 anni: la terra era
abitala dai Giganti e questa prima umanità venne distrutta da un Diluvio, dal
quale scampo’ solo una coppia (o sette) trovando rifugio su un albero o in una
grotta. Sulla Pietra del Sole questa epoca è rappresentata dal Dio Giaguaro
(Ocelot”Fonatiuh) ed è detto che i Giganti furono divorati dai giaguari.
Secondo Sole (Ehocatl: Serpente di Vento), 4010 anni: gli uomini si
cibavano di frutta selvatica e quando il Serpente di Vento (Quetzalcoatl)
distrusse questo Sole, gli uomini furono trasformati in scimmie, ad eccezione
di una coppia, che si salvò salendo su una roccia.
Terzo Sole (Tleyquiyahuillo), 4081 anni, distrutto da una pioggia di
Fuoco e dalla lava; per sopravvivere, gli uomini furono trasformati in uccelli.
Quarto
Sole (Tzontlilinc), durato 5026 anni, fu distrutto da piogge torrenziali e
inondazioni, simboleggiate dalla Dea Chalchiuhtlicue (l’Acqua della Luna
infausta) : il diluvio durò 52 anni, le montagne scomparvero sotto l’acqua e
gli uomini furono trasformati in pesci
Quinto
Sole: è simboleggiato dal volto di Tonatiuh, il Dio Sole, posto all’interno del
segno Ollin, che indica il Movimento, perché sarà il movimento della Terra che
farà perire l’attuale umanità.
Ricordiamo che le culture mesoamericane consideravano
particolarmente pericolosi i punti conclusivi dei cicli temporali, in
coincidenza dei quali avrebbero potuto verificarsi le più tremende catastrofi.
I Maya possedevano un sistema calendariale molto complesso ed estremamente
preciso, ereditato dagli Olmechi, nel quale il calcolo dei tempi era effettuato
in rapporto a diversi cicli, ognuno dei quali aveva una propria
“Ruota” calendariale24 :
Anno solare civile (Haab maya, Xihuit azteco)
composto da 18 mesi di 20 giorni (divisi in 4 periodi di 5 giorni) per un
totale di 360 giorni. L’Anno solare reale era calcolato con grande esattezza in
365, 2420 giorni, e tale risultato era ottenuto aggiungendo 5 giorni (detti
Nemontemi) ad ogni anno, più uno ogni 4 anni, e sottraendo un giorno ogni 130
anni. Ogni anno portava il nome del suo giorno iniziale che poteva variare fra
quattro diversi segni.
Calendario rituale (Tzolkin maya, Tonalpoualli
azteco) : è ritenuto il più antico ed era considerato sacro e magico in quanto
dai suoi giorni fasti o nefasti dipendevano i destini umani; si sviluppa in
periodi di 260 giorni, ottenuti combinando i segni dei 20 giorni con quelli dei
primi 13 numeri, formando delle serie di 13 giorni fino al ripetersi della
stessa combinazione iniziale segno-numero (1-Cipactli) 25 .
Rivoluzione sinodica di Venere, calcolata con
grande precisione in 584 giorni (dai calcoli moderni risulta di 583, 920
giorni).
I Maya possedevano inoltre un sistema particolare, detto Computo
lungo (Quenta larga) per il calcolo dei cicli temporali di maggiore durata;
questo sistema, che viene fatto iniziare dal 3113 a. C. ed al quale si
riferiscono numerosi steli scolpite, è fondato sul numero Venti e presenta le
seguenti unità temporali:
Kin, il giorno;
Uinal, il mese formato da venti giorni;
Tun, l’anno, formato da 400 giorni (20 mesi),
che si sovrappone al ciclo annuale di 360 giorni, formato da 18 mesi) ;
Katùn: la misura-base del Computo Lungo
(significa letteralmente
“Due Anni”) formata da 20
Anni-Tun, e corrispondente a un ciclo di 7.200 0 8.000 giorni;
Baktùn: formato da 20 Katùn (144.000 0 160.000
giorni),
Piktùn: formato da 20 Baktùn (3.200.000 giorni),
e così via, fino all’Alautùn di 36 miliardi di giorni.
steva da 12.000 anni.
22 ) Cfr.
F.Gonzàlez, I sim
precolombiani, cd.Mediterranee. Roma 1993, p. 195 e p.217 ss.
; A. Moretta, I miti maya e aztechi, ed.TEA 1995,
-3 ) Le
informazioni relative ai quattro Soli sono desunte dai documenti aztechi
raccolti nel Codice latino-Vaticano 3738 e dalle iscrizioni della Pietra del
Sole di Axayacatl. Da notare che anche altre tradizioni si riferiscono ai Cicli
definendoli Soli, anche considerando delle successioni diverse, come le
scritture buddhiste che parlano di sette Soli o il Libri Sbillini che ne
enumerano nove (Cfr. G. Hancock, Impronte degli I)ei, ed. Corbaccio, Milano
1996, p.i28 ss. e 252) 24 ) Cfr. cfr. A.Morretta, I “liti maya
e aztechi, ed.TEA 1995, p. 129 ss. ; F.Gonzales, I simboli p re c o l 0 b i a n
i , ed.Mediterranee 1993, p.211 ss. Dizionario delle mitologie e delle
religioni, ed.cit. p. 1719-21
) I venti nomi-glifi aztechi dei giorni sono: Cipactli
(coccodrillo), Eecatl (vento), Calli (casa), Quetzapalin (lucertola), Coatl
(serpente), Miquiztli (morte), Mazal (capriolo), Tochtli (coniglio), Atl
(acqua), Itzucuintli (cane). Ozomatli (scimmia),
Malinalli
(erba), Acatl (canna), Ocelotl (giaguaro), Quauhutl (aquila), Comaquauhtl
(avvoltoio), Ollin (movimento, terremoto), Tecpatl (coltello di silice),
Quiauitl (pioggia), Xochifl (fiore). Questo Calendario è stato inoltre
collegato all’anno lunare. che normalmente è inveI l
ce composto da 13 mesi di 28
giorni, per un totale di 364 giorni, pari a 52 settimane (cfr. Morretta,
op.cit. p.272).
– 1)
L’ultimo Nuovo Fuoco fu acceso nel 1507. sotto Montezuma II, 14 anni prima
della fine dell’illipero azteco.
La determinazione dei periodi ciclici derivava dalla
combinazione dei computi delle diverse ruote calendariali: il Ciclo-base, detto
Xihuitl o Xiuhmolpilli (it “Secolo” azteco), durava 52 anni (divisi
in quattro periodi di 13 anni), al termine dei quali il ciclo sacro di 260
giorni coincideva con quello solare di 365 (18.980 giorni, pari a 260×73 0
365×52). Al termine di ogni ciclo di 52 anni, il Mondo andava rinnovato, e a
tal fine si svolgeva, sulla montagna Uixachtecatl, una cerimonia detta la
“Legatura degli anni”, nel corso della quale veniva acceso il “Nuovo
Fuoco”, ed ogni famiglia poteva riaccendere il suo fuoco, dopo che il
ricorrente pericolo della scomparsa del Mondo era stato scongiurato per altri
52 anni 26 Due Xihutl componevano inoltre un Ciclo di 104 anni, che
terminava con la coincidenza dei due calendari di 260 e 365 giorni con quello
di Venere di 584 giorni (i 37-960 giorni del Ciclo sono infatti pari a 260×156,
365×104, 584×65).
(fine prinza parte)
–
[1] ) L’Avesta è il libro sacro dello Zoroastrismo,
sviluppatosi in Persia verso il VII secolo a.C., secondo il quale il Mondo,
teatro dell’eterna lotta fra il principio del bene, rappresentato da Ahura
Mazda, e quello del male, espresso da Angra Mainyu, esi-