( breve riflessione in occasione della relazione di
Maurizio Vanni – Piombino 04/01/2024 )
Volevo complimentarmi per la bellissima e
interessantissima relazione del Fratello
Maurizio Vanni e per la grande intuizione, da parte di chi ha
organizzato questo incontro, per aver correlato l’”arte” alla “Libera
Muratoria”…complimenti davvero!
Oggi assistiamo ad un forte impoverimento del senso
religioso, e specialmente ad un dimagrimento della pratica religiosa ( non solo
in Italia ma nel mondo); anche se era stata annunciato già da tempo (basti
pensare al Concilio Vaticano II che si è svolto sessanta anni fa ( 1962/1965) e
a tutte le problematiche che sta affrontando i’attuale Sinodo.
Il senso religioso è stato travolto dalla
secolarizzazione … dalla crescita inarrestabile della scienza e dalla
tecnologia .
In realtà nonostante queste considerazioni la necessità
di possedere una dimensione SPIRITUALE…TRASCENDENTALE nell’uomo post- moderno
sta crescendo !
Io credo che l’Arte a parità della Libera Muratoria
siano, oggi, più di sempre il rifugio dello Spirito.
Entrambi sono luoghi misteriosi, con una forte funzione
simbolica … perché entrambi emettono messaggi basati sul simbolismo.
Entrambi sono dei catalizzatori della dimensione
spirituale proiettata su una traiettoria di eternità… il loro linguaggio è in
“sub specie aeternitatis”…tutto in questi ambiti si colora di eterno.
Sono entrambi – sia l’Arte che la Libera Muratoria-
luoghi di “ Culto Laico”. ……spazi in cui ciascuno l, con la propria
sensibilità, è stimolato- perché qui trova la TENSIONE Ideale – a porsi delle
domande : sull’uomo l, sulla società, sull’oltre…per comprendere il mondo che
ci circonda.
Luoghi in cui ciascuno può trovare risposte – che la
scienza e la tecnica non sono in grado di definire o dare!
Luoghi ( l’arte e la Libera Muratoria) che servono a
tenere sveglia, a provocare, a stimolare, la COSCIENZA dell’uomo…perché la
“bellezza” non è esterna, ma è nell’ interiorità o nella coscienza o nell’anima
dell’uomo!!!
Noi uomini Libero Muratori siamo “ Ricercatori di
Spiritualità … ricercatori del SENSO PIÙ PROFONDO della Vita “ !!
Questo lavoro dell’amatissimo e carissimo Fratello Amedeo
De Giovanni, passato all’Oriente Eterno nell’anno di Vera Luce fu pubblicato
sul numero 4 di Luz, editrice Har Tzion Latina.
Download “Il mistero delle affinità”
La lettura del libro di Martin BUBER, “Gog e
Magog”, nella sua recente edizione
italiana (Neri Pozza, Vicenza 1999), al di là dell’indubbio fascino per la
rappresentazione di un mondo ebraico isolato, come quello stanziatosi in
Polonia, ma anche per questo più legato alla tradizione antica di quel popolo,
tra i più religiosi del mondo, ed alla sua aspettativa messianica, mi ha
riproposto un problema sempre presente degli studi tradizionali: la ricorrenza
della fioritura, nel tempo, di consorterie e di comunità mistiche presso popoli
del tutto diversi e lontani, nonché le sorprendenti affinità che si riscontrano
in esse, non solo negli obiettivi, per così dire, ma anche nelle personalità
che esprimono e nel parallelismo di
certe vite, che fa pensare talvolta a
medesime sorgenti misteriose e quasi soprannaturali, che in qualche momento
vengono in evidenza, nello scorrere della vita dei popoli.
E’ il mistero delle affinità, che affascina il nostro
pensiero, che si esprime soprattutto nella constatazione della somiglianza di
certe vicende, che, nel loro svolgimento seguono anche un percorso quasi
predeterminato e fatale.
Il tema del libro di BUBER riguarda la storia di un
rapporto spirituale e di vita tra maestro e discepolo di una comunità chassidica
della fine del Settecento in Polonia a Lublino.
Il maestro è Jaqov Iizchaq, detto il Veggente, di
Lublino, ed il discepolo stranamente ha lo stesso nome del maestro, Jaqov
Jizchaq, detto l’Ebreo, di Pzsha.
Il maestro vive la sua religione, nel rispetto assoluto
delle forme e del comportamento, mistico e teurgico, dell’interpretazione e
dell’ispirazione chassidista, con la bontà, ma anche con la rigidezza che essa
richiede per il conseguimento del fine: la preparazione all’avvento messianico,
per la riconduzione della comunità israelitica alla consacrazione elettiva
originaria, attraverso il ricongiungimento con la Shekinàh, e della Shekinàh
con Dio, da cui dipende tutta la storia umana. Per questo, non disdegnerà
l’attenzione verso la Qabalah pratica, dai confini confusi tra teurgia e magia,
nella fiducia di poter chiudere il ciclo storico della dispersione e di
realizzare la grande opera universale del riscatto.
La sua visione dello Tzadiq è quella del misterioso
tramite tra Dio e l’uomo, giusto ma anche spietato nella sua giustizia, in cui
si fondono le funzioni di profeta e di giudice, che attraverso certe
personalità Dio ha suscitato per il popolo eletto, in certi momenti della sua
storia e per mezzo dei quali ha mantenuto il contatto con esso.
Nel suo discepolo invece, l’attenzione è rivolta verso la
purezza interiore: egli sente profondamente in sé stesso la pietà per il
distacco di cui soffre la Shekinàh, a causa soprattutto dei nostri peccati e
delle nostre presunzioni, ed avverte la necessità della santità e dell’umiltà
senza aggettivi (egli sarà chiamato il santo Ebreo), un raggiungimento
personale, che diventa realizzazione di un misticismo assoluto, dove il ritorno
non è negli accadimenti del mondo, e il cui risvolto pratico, per così dire, è
involontario: è solo nell’esempio di espressione e di vita che può offrire.
Questa diversa visione del rapporto e del contatto
possibile tra umano e divino appare sullo sfondo escatologico della convulsione
finale del Settecento e delle guerre napoleoniche che coinvolgeranno presto la
Polonia e tutta l’Europa, tra la fine del Settecento e i primi anni
dell’Ottocento, viste dal maestro e da altri chassidisti appunto come le lotte
di Gog e Magog della visione apocalittica di Ezechiele, annunciatrici dell’avvento
messianico e quindi da indirizzare teurgicamente in tal senso, fino a
determinare, richiedere quasi, da parte del maestro, il sacrificio mistico del
discepolo più amato, del santo, che per questo “si comanda” di
morire.
Ma ovviamente il mondo va avanti e l’inconoscibile resta
tale: anche il maestro morirà, chiedendosi dove ha sbagliato.
Il tema del contrasto resta quindi quello tra mezzo
materiale e mezzo spirituale di riscatto, se veramente l’intervento umano possa
indirizzare le forze misteriose e sconosciute dello spirito verso la
realizzazione del disegno divino di questo mondo, se questo anzi sia il vero
dovere e la vera qualificazione o essenza dell’uomo e se non vi sia qualcuno
tra noi, tra gli uomini, che sappia di essere designato a tutto questo.
Sono queste le domande che mi sembrano ricorrenti, o cui
si pensa di aver dato risposta, in tutte le diverse insorgenze di gruppi,
comunità o istituzioni, molto vicine del resto all’esoterismo nella pratica e
che comunque si esprimono in un comandamento di ritorno alla purezza primitiva
attraverso la purificazione di se stessi.
Questa stessa esigenza di purità, di ritorno allo
spirito, diede origine al movimento chassidista in Polonia, verso la metà del
‘700, attorno alla figura del Baal-shem Tov, il “signore dal buon
nome”, come era chiamato Yisrael ben Eliezer, dopo l’immersione nella
materialità operata, sempre a buon fine, dal sabbatianesimo, ed è ricorrente
nella storia ebraica, ma – si può dire – in tutta la storia dell’Occidente
mediterraneo, dove ha radici molto antiche: basti pensare alla comunità degli
Esseni, tra il II secolo a.C. e l’inizio dell’Era Volgare, alle successive
comunità politico-religiose giudeo-cristiane, allo sviluppo di comunità
gnostiche, tra cui i Pauliciani e i Bogomili, variamente esclusi e
perseguitati, per finire ai Catari – anch’essi pii o puri nella denominazione,
come i Chassidim – e agli Albigesi, contro cui si sviluppò la famosa Crociata
nel XIII secolo.
Storicamente, la vera e propria diaspora del mondo ebraico
è iniziata dopo il 130 della nuova Era [1], e da quel momento possono essere
sicuramente cominciati quei reciproci apporti tra filoni tradizionali, di cui
parlavamo a proposito delle “affinità”, che hanno costituito
gradualmente una possibile confluenza o un intreccio dei fili stessi, in cui si
è rafforzato e specificato quel gene comune di pensiero recondito e riservato,
concesso solo ad iniziati, che è forse all’origine di quel mistero delle affinità stesse, che si
riscontrano poi senza apparenti contatti, a distanza di tempo o contemporanee,
tra uomini e comunità lontane e diverse.
Gli “Ashkenaziti” – come vengono chiamati gli
Ebrei dispersi nelle regioni continentali europee più interne e principalmente
in Germania e Polonia – rimasero più chiusi agli apporti culturali estranei
alla loro origine, forse anche per il corrispondente isolamento delle stesse
nazioni in cui si erano venuti a stanziare, rimaste anch’esse al di fuori del
fluire e dell’arricchirsi delle esperienze e delle tradizioni dei popoli
dell’area mediterranea, la cui storia politica, spirituale e religiosa spesso
si intreccia e si condiziona reciprocamente. [Segue]
[1] Sotto l’Imperatore Adriano, a seguito della
ricostruzione di Gerusalemme – già distrutta da Tito nel 70 – con il nuovo nome
di Aelia Capitolina e dell’erezione di un Tempio a Giove al posto dell’antico
Tempio di Salomone, vi fu l’ultima rivolta ebraica, guidata da Bar Kokhba e
repressa sanguinosamente nel 132. La città venne di nuovo distrutta e
ricostruita dai Romani, divenendo colonia romana, ma priva di ius italicum.
Agli Ebrei fu ingiunto di non risiedervi, dando così inizio all’ultima e più
rilevante dispersione delle superstiti famiglie ebraiche palestinesi. Gruppi
ebraici tuttavia, a seguito delle precedenti vicende storiche, si erano già
allontanati dalla Palestina, insediandosi in diverse località del Medio
Oriente, in Egitto, in Grecia e a Roma. [Torna al testo]
Una delle principali difficoltà in cui s’imbattono gli
storici che studiano la massoneria è la presenza al suo interno di varie
correnti, da quelle teiste – che accettano l’esistenza della divinità – a
quelle laiche. Questo ha dato adito allo sviluppo di diverse teorie
sull’origine di tale associazione, anche se il punto di partenza storico
documentato sono i costruttori delle cattedrali medievali.
Dall’Egitto ai
templari
Per la corrente più tradizionale, la massoneria è un
ordine iniziatico (per entrare a far parte del quale bisogna sottoporsi a dei
rituali d’iniziazione) legato alle tradizioni mistiche dell’antichità. Questo
significa che la massoneria ebbe probabilmente origine da società che facevano
partecipare i loro iniziati a un mistero. Secondo alcuni autori, può essere
fatta risalire ai primi maestri costruttori egizi, le cui abilità tecniche
erano rivestite di un carattere magico e divino. Il sapere trasmesso da maestro
ad allievo per via iniziatica e segreta sarebbe giunto fino ai costruttori di
cattedrali medievali. Ma questa conoscenza non si sarebbe limitata all’antica
sapienza dell’Egitto. In quanto costruttori sacri di templi di tutte le
religioni, i membri della massoneria avrebbero attinto dai culti mistici della
Grecia e del Vicino Oriente.
Tra i riferimenti mitici indicati da alcuni autori ci
sono anche le corporazioni dei costruttori dell’impero romano, i collegia fabrorum, confraternite di
artigiani che riunivano i mestieri necessari a ogni tipo di costruzione e che
accompagnavano le legioni nella colonizzazione di nuovi territori. La
massoneria, quindi, avrebbe perpetuato l’essenza di questo sapere creando logge
o confraternite di costruttori a cui solo gli iniziati potevano accedere.
Ma la leggenda più profondamente radicata è quella che
colloca le origini della tradizione massonica all’epoca di Salomone, re
d’Israele nel X secolo a.C. Hiram Abif, un maestro costruttore della città
fenicia di Tiro, sarebbe stato il capomastro del tempio che Salomone fece
erigere a Gerusalemme. Anche se nella Bibbia è menzionato solo come un
artigiano straniero, nella “mitologia” massonica è il massimo responsabile
della realizzazione del tempio. Una notte Hiram fu assalito da tre operai che
volevano conoscere i segreti dell’architettura, ma si rifiutò di rivelarli.
Venne di conseguenza ucciso e portò i suoi segreti con sé nella tomba. Per i
massoni questo evento esemplifica il fatto che il cammino da percorrere per
entrare nell’ordine – dall’ignoranza dell’apprendista alla saggezza del maestro
– richiede sforzo e perseveranza.
Poiché nel racconto biblico Dio è il grande costruttore
dell’universo, il sommo creatore, qualsiasi opera umana deve avere un certo
grado di conoscenza della suprema arte della costruzione. Alcuni studiosi
ritengono che la figura archetipica del capomastro non sia Hiram Abif ma Noè,
l’artefice dell’arca che sfidò il diluvio; altri ancora fanno risalire il primo
germe della massoneria addirittura alla Genesi, con Adamo.
Nel XIX secolo il pittore francese James Tissot ricostruì
l’incontro, avvenuto a Gerusalemme, tra Salomone e la regina dell’Arabia
meridionale
L’incontro tra
Salomone la regina di Saba
Si è a lungo sostenuto che i templari medievali avessero
appreso la sacra arte della costruzione direttamente dai sapienti musulmani
durante il loro soggiorno in Terra Santa, nel corso delle varie crociate. Dopo
la soppressione dell’ordine del Tempio da parte di papa Clemente V nel 1312, i
templari si sparpagliarono per tutto il continente europeo stabilendosi
principalmente in Scozia, dove avrebbero creato la massoneria come un modo per
permettere al disciolto ordine di sopravvivere con discrezione.
Questa ipotesi si basava sulla natura iniziatica
dell’ordine dei cavalieri del Tempio – infatti i suoi membri si sottoponevano a
un rituale d’iniziazione – e del sufismo islamico, le cui confraternite
seguivano gli insegnamenti mistici di vari maestri, e i cui segreti e riti
divennero forse parte del rituale massonico attraverso il tempio.
La costruzione del tempio di Gerusalemme. In realtà
questa miniatura mostra il lavoro dei muratori intorno al 1470, quando fu
dipinta
I massoni
medievali
Per quanto attraenti possano essere queste leggende
sull’origine della massoneria, non esiste alcuna documentazione che ne provi
una nascita precedente alle corporazioni dei costruttori medievali, che
costituiscono la cosiddetta massoneria operativa. I maestri muratori (maçon in
francese, mason in inglese) erano organizzati in logge artigiane e si
suddividevano in apprendisti e compagni. Viaggiavano insieme per costruire
edifici in zone differenti e mantenevano segrete le loro tecniche per garantire
la conservazione dell’arte e del lavoro. Era un modo per evitare le intrusioni
di chi non aveva le competenze, ma anche per perseguire l’eccellenza nel
proprio mestiere. Non per niente la massoneria era conosciuta come “l’arte
reale”. Nel corso dei secoli i muratori e gli scalpellini alimentarono le
proprie logge con le storie delle origini leggendarie delle rispettive professioni,
la cui sacralità s’incarnava nei capolavori che erano state capaci di creare:
le magnifiche cattedrali gotiche.
Per trasmettere le proprie conoscenze, i massoni
medievali crearono elaborati rituali d’iniziazione, che prevedevano l’uso di
parole segrete e gesti di riconoscimento reciproco e che usavano gli strumenti
e il vocabolario della professione come elementi simbolici e liturgici.
L’organizzazione e il funzionamento di queste associazioni erano strettamente
regolati dalle cosiddette costituzioni o statuti, come l’Antica costituzione di
York del 926 o gli Statuti e regolamenti dei maestri del muro e del legno di
Bologna, del 1248.
I massoni
medievali crearono dei rituali d’iniziazione utilizzando gli strumenti e il
vocabolario della costruzione
La nuova
massoneria
Durante il XVII secolo molti intellettuali nobili e
borghesi furono attratti dai rituali pittoreschi, quasi mistici, delle riunioni
delle logge dei massoni operativi. Alcuni di loro furono invitati a unirsi in
qualità di “massoni accettati”. In questo modo, pur non esercitando il
mestiere, potevano partecipare ai rituali e alle riunioni ed essere iniziati ai
segreti della loggia in modo simbolico.
Il compasso, il filo a piombo e la squadra, simboli
massonici, raffigurati in questo gioiello indossato dai membri della Gran
loggia di Londra. 1735.
Per alcuni storici della massoneria, questi massoni
accettati, o “massoni simbolici”, per lo più intellettuali e scienziati,
sarebbero il seme delle future logge speculative o simboliche. In ogni caso
all’inizio del XVIII secolo cominciarono a proliferare logge dove la
maggioranza dei membri era costituita da massoni accettati e la cui popolarità
crebbe di pari passo con il diffondersi delle idee illuministe. All’alba
dell’Età dei lumi la protezione di una loggia di massoni accettati
rappresentava per qualsiasi intellettuale la miglior garanzia di poter esporre
liberamente le proprie idee. Il carattere segreto dell’appartenenza alla
massoneria e la mutua protezione e tolleranza tra i suoi membri garantivano uno
spazio sicuro di libertà, al riparo dall’intolleranza religiosa che prevaleva
in molti Paesi.
1717, l’anno
decisivo
Il 24 giugno 1717, festa di san Giovanni Battista,
quattro logge londinesi di massoni accettati decisero di federarsi per creare
un’obbedienza o Gran loggia che avrebbe unificato i criteri e dato una
struttura comune alle società che volevano aderire. Le quattro grandi logge
prendevano il nome dalle taverne dove i membri si erano riuniti fino ad allora:
The Crown (La corona), The Goose and Gridiron (L’oca e la griglia), The Rummer
and Grapes (Il calice e l’uva) e The Apple Tree (Il melo). Quella notte nacque
la Gran loggia di Londra e Westminster.
Divenne ben presto evidente che la Gran loggia aveva
bisogno di norme di accesso e di funzionamento. Nel 1723 furono incaricati
della redazione di tali norme i pastori protestanti James Anderson e John
Theophilus Desaguliers. Videro così la luce le Costituzioni dei liberi muratori
o Costituzioni di Anderson, un testo che stabilisce regole obbligatorie e una
chiara differenziazione tra massoneria operativa e speculativa, e il cui scopo
non è più la costruzione di templi, ma l’edificazione del tempio interiore
dell’essere umano a beneficio dell’intera umanità.
L’idea di una nuova etica basata sulla fratellanza
universale era connaturata alla massoneria, come indica il discorso del
cavaliere Ramsay alla Gran loggia provinciale di Francia nel 1737: «Noi
vogliamo raccogliere tutti gli uomini di uno Spirito illuminato, di costumi dolci
e di una indole gradevole non soltanto per l’amore delle belle arti ma ancor
più per i grandi principi di virtù, di scienza e di religione, in cui
l’interesse della fratellanza [la massoneria] diventa quello del genere umano
tutto intero, da cui tutte le nazioni possano attingere salde conoscenze e dove
i sudditi di tutti i Regni possano apprendere ad amarsi mutuamente senza
rinunciare alla loro Patria».
Poteva appartenere all’ordine qualsiasi uomo libero,
indipendentemente dalla professione. Uno degli aspetti più importanti della
massoneria era suo il carattere universale. Ecco perché, come si legge nelle
Costituzioni, ai suoi membri non era richiesta alcuna credenza religiosa
particolare: «Oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a
quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono». Le diverse
concezioni di Dio furono condensate nella figura del Grande architetto
dell’universo. Le Costituzioni di Anderson avevano il pregio di riempire di
persone illuminate le logge massoniche, luoghi dov’era proibito discutere di
religione e di politica. Ciò favoriva il riconoscimento reciproco e la
tolleranza tra persone diverse, un’attitudine che in termini massonici si
chiamava «diffondere la luce e riunire ciò che è disperso».
Nelle logge
massoniche era vietato parlare di religione e di politica, un’attitudine che
favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza
Ma questa libertà significò che molte logge tradizionali,
per lo più irlandesi, che ancora conservavano il misticismo religioso,
rifiutarono di unirsi alla nuova Gran loggia. Si facevano chiamare gli Antichi,
in opposizione ai Moderni di Londra. Fu solo nel 1813 che il dialogo tra le due
fazioni culminò nella loro unificazione in quella che oggi è la Gran loggia
unita d’Inghilterra.
L’arrivo nel
continente
Le prime logge dell’Europa continentale furono fondate da
massoni accettati inglesi e scozzesi giacobiti (cioè sostenitori del deposto re
Giacomo II d’Inghilterra) che erano emigrati in Francia. In brevissimo tempo la
massoneria si diffuse in tutto il continente in veste di nuova e attraente
società illuminata. Nel 1726 nacque a Parigi la loggia di san Tommaso, che
ottenne il riconoscimento inglese. Poco dopo, nel 1738, la Gran loggia di
Francia divenne la prima obbedienza, o associazione di logge, francese, con il
duca di Antin nel ruolo di Gran maestro. Nello stesso anno papa Clemente XII
emise la bolla In eminenti, che proibiva ai cattolici di entrare nella
massoneria, considerandola eretica.
Alla fine del XVIII secolo la Francia aveva quasi mille
logge. Con la rivoluzione francese molti massoni adottarono gli ideali
repubblicani e tentarono di portarli all’interno delle logge, ma subirono anche
l’attacco del Terrore giacobino durante la fase più radicale degli eventi storici.
Fu Napoleone a restituire alla massoneria un ruolo di primo piano durante
l’impero, spingendo molti militari ad aderirvi. Nel 1804 fece anche in modo che
suo fratello Giuseppe fosse eletto Gran maestro del Grande oriente di Francia
(erede della Gran loggia di Francia).
Nella maggior parte dei Paesi le bolle papali contro la
massoneria non sortirono grande effetto, a eccezione della Spagna. Nel XVIII
secolo l’opposizione alla massoneria nella penisola iberica era forte.
L’Inquisizione perseguitò ferocemente l’associazione e nel 1751 il re
Ferdinando VI la vietò. L’unica loggia esistente nella prima metà del secolo
era stata fondata a Madrid dal duca di Wharton nel 1728. La loggia dei Tre
fiori di giglio, detta la Matritense, era composta da massoni britannici e
poteva contare sull’appoggio della Gran loggia unita d’Inghilterra. La prima
loggia spagnola nacque nel 1801, ma fu fondata in suolo francese, a Brest: la
Riunione spagnola, formata dai marinai di una flotta spagnola proveniente da
Cadice che si unì alla marina francese per combattere contro l’Inghilterra.
In Italia, il cui territorio era diviso tra repubbliche e
regni indipendenti, lo stato pontificio cercò di far rispettare le bolle di
scomunica papali. Per ordine del Sant’Uffizio molte logge furono chiuse e i
loro membri detenuti, come accadde nel 1790 con l’arresto di più di cento
massoni. Ma la massoneria stava diventando sempre più popolare nei territori
non controllati dal papa: Napoli, Sicilia, Venezia, Firenze, dove molti massoni
iniziati in Inghilterra o in Francia avevano portato le varie correnti. Sia i
monarchici sia i repubblicani consideravano la massoneria uno strumento
patriottico per realizzare l’unità d’Italia. Nel corso del XIX secolo la
massoneria italiana unificata dal Grande oriente d’Italia divenne un simbolo di
libertà, e alla luce delle sue logge fiorirono eroi nazionali come Giuseppe
Garibaldi.
A cavallo tra realtà e leggenda, la massoneria conserva e
utilizza un gran numero di simboli appartenenti a culti e tradizioni
iniziatiche del passato, il che non implica che ne sia erede. Oggi, per alcuni,
l’antica confraternita è un amalgama di riti antiquati e senza senso; per altri
una sfera d’influenza politica e sociale. E c’è ancora chi vede in essa una
filosofia di vita e una via per migliorare quella pietra imperfetta che è
l’essere umano.
Le symbolisme du
Zodiaque chez les Pythagoriciennes,
in Études Traditionelles, giugno 1938
Trattando la questione delle porte solstiziali ci siamo
riferiti direttamente soprattutto alla tradizione indù, perché in essa i dati
che vi si riferiscono sono presentati nel modo più chiaro; ma in realtà si
tratta di qualcosa che è comune a tutte le tradizioni, e si può trovare anche
nell’antichità occidentale. Nel Pitagorismo, in particolare, il simbolismo
zodiacale sembra aver avuto un’importanza altrettanto considerevole; le
espressioni ‘porta degli uomini’ e ‘porta degli dèi’, da noi usate, appartengono
del resto alla tradizione greca; solo che le informazioni giunte sino a noi
sono in questo caso talmente frammentarie e incomplete che la loro
interpretazione può dar luogo a parecchie confusioni, che non sono mancate da
parte di coloro che hanno considerato tali informazioni isolatamente e senza
renderle più chiare per mezzo di un raffronto con altre tradizioni.
Anzitutto, per evitare certi equivoci, sulla posizione
reciproca delle due porte, occorre ricordarsi di quanto abbiamo detto
sull’applicazione del ‘senso inverso’, a seconda che le si consideri in
rapporto all’ordine terrestre o all’ordine celeste: la porta solstiziale
d’inverno, o il segno del Capricorno, corrisponde al nord nel ciclo annuale, ma
al sud in relazione al cammino del sole nel cielo; così, la porta solstiziale
d’estate, o il segno del Cancro, corrisponde al sud nel ciclo annuale, e al
nord in relazione al cammino del sole. Per questo, mentre il movimento
‘ascendente’ del sole va da sud a nord e il suo movimento ‘discendente’ da nord
a sud, il periodo ‘ascendente’ dell’anno dev’essere invece considerato
compiersi nella direzione nord-sud, e il suo periodo’ discendente’ in quella
sud-nord, come abbiamo già detto in precedenza. Proprio in rapporto a
quest’ultimo punto di vista, secondo il simbolismo vedico, la porta del
dêva-loka è situata verso nord e quella del pitri-loka verso sud, senza che vi
sia in ciò, malgrado le apparenze, alcuna contraddizione con quello che
troveremo più avanti.
Citeremo, corredandolo delle spiegazioni e rettificazioni
necessarie, il riassunto dei dati pitagorici esposto da Jérôme Carcopino1: «I
pitagorici» egli dice «avevano costruito tutta una teoria sui rapporti dello
Zodiaco con la migrazione delle anime. A quale data risalirebbe? È impossibile
saperlo. Fatto sta che nel secolo II della nostra era, essa fioriva negli
scritti del pitagorico Numenio, che ci è permesso di conoscere attraverso un
riassunto secco e tardivo di Proclo, nel suo commento alla Repubblica di
Platone, e un’analisi, al tempo stesso più ampia e più antica, di Porfirio, nei
capitoli XXI e XXII del De Antro Nympharum». Ecco, diciamolo subito, un esempio
piuttosto significativo di ‘storicismo’: la verità è che non si tratta per
nulla di una teoria ‘costruita’ più o meno artificialmente, a questa o quella
data, dai pitagorici o da altri, a modo di una semplice opinione filosofica o
di una concezione individuale qualunque; si tratta di una conoscenza
tradizionale, che concerne una realtà di ordine iniziatico, e, proprio in virtù
del suo carattere tradizionale, non ha e non può avere alcuna origine
cronologicamente assegnabile. Sono, beninteso, considerazioni che possono
sfuggire a un ‘erudito’; ma egli dovrebbe almeno capire questo: se la teoria in
questione fosse stata ‘costruita dai pitagorici’, come spiegare il fatto che
essa si trova dappertutto, al di fuori di ogni influenza greca, e in
particolare nei testi vedici, che sono sicuramente di molto anteriori al
pitagorismo? Anche questo, Carcopino, in quanto ‘specialista’ dell’antichità
greco-latina, può sfortunatamente ignorarlo; ma, da quel che riferisce egli
stesso in seguito, risulta che tale dato si trova già in Omero; dunque, anche
presso i Greci essa era conosciuta, non diremo solo prima di Numenio, cosa fin
troppo evidente, ma prima dello stesso Pitagora; si tratta di un insegnamento
tradizionale che si è trasmesso in modo continuo attraverso i secoli, e poco
importa la data forse ‘tardiva’ alla quale certi autori, che non hanno
inventato nulla e non ne hanno mai avuto la pretesa, l’hanno formulato per
iscritto in modo più o meno preciso.
Detto questo, torniamo a Proclo e a Porfirio: «I nostri
due autori concordano nell’attribuire a Numenio la determinazione dei punti
estremi del cielo, il tropico d’inverno, sotto il segno del Capricorno, e il
tropico d’estate, sotto quello del Cancro, e nel definire, evidentemente sulle
sue tracce, e sulle tracce dei ‘teologi’ che egli cita e che gli sono serviti
da guide, il Cancro e il Capricorno come le due porte del cielo. Sia per
discendere nella generazione, sia per risalire a Dio, le anime dovevano quindi
necessariamente varcare una di esse». Per «punti estremi del cielo»,
espressione un po’ troppo ellittica per essere perfettamente chiara da sola,
bisogna naturalmente intendere qui i punti estremi raggiunti dal sole nella sua
corsa annuale, dov’esso in certo modo si arresta, da cui il nome di ‘solstizi’;
a tali punti solstiziali corrispondono le due ‘porte del cielo’, il che è
appunto esattamente la dottrina tradizionale che già conosciamo. Come abbiamo
indicato altrove, 2 questi due punti erano talora simboleggiati – per esempio
sotto il tripode di Delfi e sotto gli zoccoli dei corsieri del carro solare –
dal polipo e dal delfino, che rappresentano rispettivamente il Cancro e il
Capricorno. Inutile dire, d’altra parte, che gli autori in questione non hanno
potuto attribuire a Numenio la determinazione stessa dei punti solstiziali, che
erano noti da sempre; si sono semplicemente riferiti a lui come a uno di coloro
che ne avevano parlato prima di loro, e come egli stesso si era già riferito ad
altri ‘ teologi’.
Si tratta poi di precisare il ruolo proprio di ciascuna
delle due porte, ed è qui che nasce la confusione:, «Secondo Proclo, Numenio le
avrebbe rigidamente specializzate: per la porta del Cancro, la caduta delle
anime sulla terra; per quella del Capricorno, l’ascensione delle anime
nell’etere. In Porfirio, invece, è detto soltanto che il Cancro è a nord e
favorevole alla discesa, il Capricorno a sud e favorevole alla salita: di modo
che invece di essere strettamente assoggettate al ‘senso unico’, le anime
avrebbero conservato, sia all’andata che al ritorno, una certa libertà di
circolazione». La fine di questa citazione esprime, a dire il vero,
un’interpretazione di cui conviene lasciare tutta la responsabilità a
Carcopino; non vediamo assolutamente in cosa quel che dice Porfirio sarebbe
‘contrario’ a quel che dice Proclo; forse è formulato in modo un po’ più vago,
ma sembra di fatto voler dire in fondo la stessa cosa: ciò che è «favorevole»
alla discesa o alla salita deve probabilmente intendersi come ciò che la rende
possibile, poiché non é molto verosimile che Porfirio abbia voluto lasciar
sussistere in tal modo una specie di indeterminazione, il che, essendo
incompatibile con il carattere rigoroso della scienza tradizionale, non sarebbe
in ogni caso in lui che una pura e semplice prova d’ignoranza su questo punto.
Comunque, è visibile che Numenio non ha fatto altro che ripetere, sulla
funzione delle due porte, l’insegnamento tradizionale conosciuto; d’altra
parte, se egli pone, come indica Porfirio, il Cancro a nord e il Capricorno a
sud, evidentemente egli considera la loro posizione nel cielo; lo indica
d’altronde abbastanza chiaramente il fatto che, in quel che precede, sono in
questione i ‘ tropici ‘, che non possono avere altro significato oltre quello,
e non i ‘ solstizi’, che si riferirebbero invece più direttamente al ciclo
annuale; e per questo la posizione qui enunciata è inversa a quella data dal
simbolismo vedico, senza tuttavia che ciò costituisca alcuna differenza reale,
giacché si tratta di due punti di vista ugualmente legittimi, che si accordano
perfettamente fra di loro se si è capito il loro rapporto.
Ma vedremo qualcosa di ancor più straordinario: Carcopino
continua dicendo che «è difficile, in mancanza dell’originale, trarre da queste
allusioni divergenti», ma che in realtà, dobbiamo aggiungere noi, sono
divergenti solamente nel suo pensiero, «la vera dottrina di Numenio», che,
abbiamo visto, non è la sua propria dottrina, ma soltanto l’insegnamento da lui
riferito, cosa d’altronde più importante e più degna d’interesse; «ma risulta
dal contesto di Porfirio che, anche esposta sotto la sua forma più elastica» –
come se potesse esserci «elasticità» in un problema che è unicamente una
questione di conoscenza esatta – «essa resterebbe in contraddizione con quelle
di certi suoi predecessori, e, in particolare, con il sistema che alcuni più
antichi pitagorici avevano fondato sulla loro interpretazione dei versi
dell’Odissea in cui Omero ha descritto la ‘ grotta d’Itaca’», cioè quell’‘antro
delle Ninfe’ che non è altro se non una delle raffigurazioni della ‘caverna
cosmica’ di cui abbiamo parlato in precedenza. «Omero, annota Porfirio, non si
è limitato a dire che la grotta aveva due porte. Egli ha specificato che una
era volta al lato nord, e l’altra, più divina, al lato sud, e che si discendeva
dalla porta a nord. Ma non ha indicato se si poteva scendere per la porta a
sud. Dice solo: è l’entrata degli dèi. Mai l’uomo prende il cammino degli
immortali». Pensiamo che questo dev’essere il testo stesso di Porfirio, e non
vi vediamo la contraddizione annunciata; ma ecco ora il commento di Carcopino:
«Secondo questa esegesi, si scorgono, in quel compendio, dell’universo che è
l’antro delle Ninfe, le due porte che s’innalzano ai cieli e sotto le quali
passano le anime, e, al contrario del linguaggio che Proclo mette in bocca a
Numenio, quella a nord, il Capricorno, fu dapprima riservata all’uscita delle
anime, e quella a sud, il Cancro, fu di conseguenza assegnata al loro ritorno a
Dio».
Ora che abbiamo completato la citazione, possiamo
facilmente renderci conto che la pretesa contraddizione, anche qui, esiste solo
secondo Carcopino; c’è infatti nell’ultima frase un errore evidente, e persino
un duplice errore, che sembra veramente inspiegabile. Anzitutto, è Carcopino
che aggiunge di propria iniziativa la menzione del Capricorno e del Cancro;
Omero, a quanto dice Porfirio, designa le due porte solo per mezzo della loro
posizione a nord o a sud, senza indicare i segni zodiacali corrispondenti; ma,
siccome precisa che la porta «divina» è quella a sud, bisogna concludere che è
questa che corrisponde per lui al Capricorno, esattamente come per Numenio,
vale a dire che anch’egli situa le due porte secondo la loro posizione nel
cielo, e tale sembra quindi esser stato, in genere, il punto di vista dominante
in tutta la tradizione greca, anche prima del pitagorismo. Inoltre, l’uscita
delle anime dal ‘cosmo’ e il loro ‘ritorno a Dio’ sono propriamente una sola e
identica cosa, di modo che Carcopino attribuisce, apparentemente senza
accorgersene, lo stesso ruolo a entrambe le porte; Omero dice, tutto al
contrario, che per la porta a nord si effettua la ‘discesa’, cioè l’entrata
nella ‘caverna cosmica’ o, in altri termini, nel mondo della generazione e
della manifestazione individuale. In quanto alla porta a sud, essa è l’uscita
dal ‘cosmo’, e, di conseguenza, per essa si effettua la ‘salita’ degli esseri
in via di liberazione; Omero non dice espressamente se si può anche scendere
per tale. porta, ma ciò non è necessario, poiché, designandola come «entrata
degli dèi», egli indica a sufficienza quali siano le ‘discese’ eccezionali che
vi si effettuano, conformemente a quanto abbiamo spiegato nel nostro studio precedente.
Insomma, che la posizione delle due porte sia considerata in rapporto al
cammino del sole nel cielo, come nella tradizione greca, o in rapporto alle
stagioni nel ciclo annuale terrestre, come nella tradizione indù, è sempre il
Cancro a essere la ‘ porta degli uomini’ e il Capricorno la ‘porta degli dèi’;
non può esserci in questo alcuna variazione e di fatto non ve n’è alcuna; è
solo l’incomprensione degli ‘eruditi’ moderni che crede di scoprire, nei vari
interpreti delle dottrine tradizionali, divergenze e contraddizioni che non vi
si trovano.
La poesia di Pascoli, come ha detto giustamente il
Piromalli, “si infittisce di trame di racconto, di meditazioni sceneggiate
e dialogate in cui sono spesso due tempo distinti, passato e presente che si
mescolano nei generi del bozzetto, dell’idillio”.
Pascoli non è un “isolato e ingenuo profeta dell’amore,
anzi andava più coscientemente e completamente accettando e promovendo
l’ideologia nazionalistica della quale la stessa invocata bontà, veniva ad
essere un componente”. Nel 1897 pubblica Il fanciullino , cosciente come
artista “della nuova situazione politico-sociale e della nuova funzione
della letteratura” che per lui è quella di “risolvere nella poesia
tutto il suo mondo culturale ed umano”.
Una delle più celebri espressioni del grande poeta romagnolo
sull’Istituzione è: “Massoni sono quelli che non anelano se non a fare del
bene, a fare – ogni giorno, ogni secolo – meglio; veri uomini di cui si compone
la vera umanità. Con le parole – e più con i fatti, e soprattutto con l’esempio
– hanno cercato sempre di disarmare i rapaci e di sollevare gli oppressi; sono
nella lotta, e non per la lotta; sono pacieri e non guerriglieri; non hanno
altro fine che di promuovere la umanità del genere umano”.
Come ricorda il Gentile, “Pascoli fu iniziato il 22
settembre 1882 nella Loggia “Rizzoli” all’Or. di Bologna (cfr. Mille
volti di Massoni di Giordano Gamberini, Roma 1975, p.181). Il verbale della sua
iniziazione fu redatto da Arturo Dalmazzoni. La povertà e le traversie
dovettero certo incidere sull’assiduità di quel neofita, ma le esequie
massoniche e civili conchiusero non solo le testimonianze di personali
convinzioni, ma pure il ciclo di un contributo muratorio essenziale, spesso
reso trasparente, oltre che dalla vita, dalla poesia. Quella partecipazione
aveva avuto inizio con la originaria testimonianza di tre doveri: alla Patria
la vita, alla Umanità l’amore, a se stesso il rispetto: il testamento di G. P.
libero muratore (L’Acacia Roma, 1951).
Di opinioni diverse e decisamente contro l’Istituzione è il
Ruggio, che nel suo libro (GIAN LUIGI RUGGIO; Giovanni Pascoli – tutto il
racconto della vita tormentata di un grande poeta, ed. Simoncelli, Milano 1998)
fa menzioni interessanti relative ai rapporti tra Pascoli e la Massoneria, in
modo particolare, neanche a farlo apposta, nel racconto degli ultimi giorni di
vita del poeta, quando già il tumore che dallo stomaco si era esteso al fegato,
lo stava purtroppo portando al lento e progressivo avvicinarsi alla morte.
Il Ruggio racconta l’agonia e le ultime ore del poeta,
minato dal male.
“Quella sera [5 aprile, il giorno prima della morte]
Maria rimase profondamente turbata, pur continuando a non disperare del tutto.
A quel punto decise, però, di fargli dare una benedizione e per questo mandò
Attilia al Collegio dell’Osservanza perché chiamasse padre Paolino Dall’Olio,
amico di Pascoli. E qui avvenne un episodio che incrinò per sempre i rapporti
col fratello Raffaele. Lui, forse temendo che l’ammalato, riprendendo
coscienza, si impressionasse alla vista del sacerdote, intuendo così che era
alla fine, mandò una persona con il contrordine di non far venire il religioso.
Maria, nelle sue memorie, confessa, senza mezzi termini, che quel gesto l’aveva
amareggiata e disgustata. Afferma che quella fu l’unica ragione per cui il fratello
fu privato dei conforti religiosi che, era sicura, avrebbe desiderato. E non
perché un picchetto di massoni avrebbe impedito a quel frate di salire a casa
Pascoli.” (p. 339) Il fatto curioso è come invece, nella sua Introduzione
alle Poesie , il Baldacci riferisca in modo simile che “Falino, il
fratello [carnale] prediletto si fece scrupolo di allontanare il sacerdote che
portava il viatico”.
Un’altra, comunque dubbia, versione dell’accaduto, racconta
invece che il frate giunse effettivamente alla casa del poeta ormai moribondo e
che, intimoritosi di fronte al volto dei tanti massoni presenti al suo
capezzale, preferì tornarsene di filata al Convento.
Pascoli morì com’è noto nella sera del 6 aprile 1912, nella
sua residenza bolognese. Il testo del Ruggio continua dicendo: “Dal giorno
della morte fino a quando la salma non arrivò a Castelvecchio, le campane di
San Niccolò suonarono a morto. Nel frattempo, don Barrè era corso a Bologna per
ottenere l’autorizzazione per i funerali religiosi. Ciò si rese necessario
perché era ancora vivo il ricordo di Pascoli politico, del giovane anarchico
che, in gioventù, fu intimo amico dell’attivista socialista Andrea Costa. Senza
poi dimenticare che aveva avuto fugaci abboccamenti con la MASSONERIA dalla
quale si era ritratto quasi subito perché aveva capito che, così, avrebbe
compromesso la propria libertà.” (p. 341)
Decisamente un’opinione molto discutibile. Al di là di
queste fugaci notizie, rendiamo omaggio all’illustre fratello Poeta, con la
sintesi della filosofia massonica di cui sono impregnate diverse sue opere.
Una poesia molto bella che pur non racchiudendo contenuti
massonici è doveroso far presente è senza dubbio la lunga e toccante poesia
“La morte del Papa”, contenuta nei Nuovi Poemetti del 1909, e dedicata
alla morte del Papa Leone XIII, il papa forse più anti-massone per eccellenza,
al secolo Vincenzo Gioachino dei conti Pecci, di Carpineto Romano, morto a Roma
nel 1903 all’età di 93 anni e papa dal 1878 al 1903; successore del grande Pio
IX.
Nonostante la palese ferocia con cui il Santo Padre si
scagliò contro i Massoni (basti pensare alle Encicliche Humanum Genus, Inimica
Vis, ecc…) il Pascoli, già iniziato da diversi anni all’Istituzione, trasmette
in questi versi una dolcezza inaudita ed un amorevole cura, nel senso latino di
attenzione, nei confronti dell’evento dell’aggravarsi delle condizioni di
salute del Pontefice, che culmina nella chiusa (“… e con un bianco / lino
la fronte gli tergea sua mamma) quando fa accenno ad un ricordo infantile del
vecchio papa, facendo presente che con la morte “si ritorna
fanciulli” e da qui ne seguirebbero lunghi discorsi sulla scia del
Fanciullino pascoliano.
Il
progetto-desiderio di una società migliore non può basarsi che su modelli che
mettano in primo piano l’uomo, non come individualità a sé stante, ma come
elemento in armonia con l’universo intero. Per un Massone, questo desiderio non
è un sogno utopistico per fuggire dalla realtà; ma qualcosa di pensabile, in
quanto fattibile, un “sogno ad occhi aperti”, quindi, per il quale
esistono i presupposti di una realizzazione. Certamente esso ha bisogno non
solo di analisi concrete del potenziale di una società, ma anche, anzi
principalmente, di fantasia, di creatività, di rispetto reciproco fra le genti
e, perché no, di un “pensiero” dalle basi antiche e solide che
conferiscano armonia a tutto ciò che ha parte in questo progetto-desiderio. Non
è facile da raggiungere: esige però che ci si batta per la sua realizzazione.
Un’era volge al
termine e questi duemila anni si concludono lasciando una pesante eredità a
quella successiva: deterioramento dell’ambiente, conflittualità politica fra i
popoli, caduta dei valori etici e spirituali, crisi dei rapporti sociali ed
interpersonali.
Le cause che
hanno innescato questa reazione a catena sono innumerevoli e assai complesse.
Le civiltà in
ascesa hanno sempre un preminente carattere sintetico tendente ad unire ciò che
è separato; da quest’azione unificatrice, che i Greci esprimevano con il verbo
“simballein” (mettere assieme, unire) nasce la cultura del simbolo,
la civiltà simbolica.
Dal processo
inverso del “diaballein”, deriva, invece, la cultura diabolica la
quale, separando ciò che era unito, provoca una reazione a catena dagli effetti
devastanti che oltre ad insidiare l’armonia del vivere e a stravolgere la scala
dei valori; minaccia addirittura la sopravvivenza della terra che ci ospita e
ci nutre.
Varie sono le
cause che innescano questa reazione:
1) lo strapotere e la spregiudicatezza del capitale che
programma i suoi interventi al solo scopo di moltiplicare i profitti, dì
esasperare attraverso la competitività uno sfrenato senso egoistico, di
considerare l’uomo soltanto come un semplice strumento della produzione;
2) l’attività dell’uomo che autoelettosi unico sovrano
del cosmo, si sente in diritto di deturpare foreste, di far strage di fauna, di
inquinare terra, acqua, e aria con i suoi veleni, di manipolare il patrimonio
genetico delle piante e degli animali senza tener conto di alcun’altra legge
eccetto quella del suo tornaconto personale. Così questo signore dell’universo
è diventato il grande “killer” della terra e l’unico animale che distrugge
l’ambiente dove vive, soggiogato dall’imperativo del profitto per cui tutto è
lecito.
Altro
acceleratore del processo di disaggregazione è il voler considerare la scienza
come la più importante attività umana che non ha limiti all’estensione delle
sue conoscenze, con la convinzione che essa può riparare qualsiasi guasto
provocato dai suoi errori.
Non ultima tra
le cause. Il “culto della superspecializzazione” che comporta una
frammentazione del sapere in particelle che si vanno facendo sempre più
piccole, sicché la specializzazione diventa solitudine, vera e propria
alienazione.
Eppure questo
culto va diffondendosi in ogni altro settore della scienza e della cultura.
Ovviamente, non s’intende svalutare la specializzazione in assoluto ma essa ha
un valore reale se porta all’approfondimento di una ricerca che non prescinda
da una concezione organicistica dell’unitarietà dell’uomo, da un’armonica
interazione delle conoscenze, dalle leggi inviolabili della natura a cui si può
comandare solo obbedendole e che non ignori neppure le esigenze della
collettività, poiché, come sentenziavano gli antichi maestri di scienza che
erano anche maestri di vita, “scientia sine coscientia est nihil”.
Giovanni Cecconi e Gustavo Raffi Oggi
più che mai si sente l’esigenza di tanti cambiamenti in molti campi,
dall’economia (diverso rapporto uomo-ambiente, uso di energie pulite) alla
politica ed alla sociologia ( superamento della concezione
materialistico-meccanicistica, cooperazione e non competitività, visione
cosmica e non planetaria, sviluppo di una coscienza collettiva) alla medicina
(concezione olistica della persona) ed alla spiritualità (superamento delle
concezioni parziali e dogmatiche, coscienza di essere tutti figli dello stesso
Principio).
Aprirsi a
questa nuova coscienza è oggi una necessità improrogabile e il rendersene conto
significa compiere il primo passo verso il cambiamento.
Si avverte,
quindi, la consapevolezza che tutto ciò potrà avvenire solo a seguito di un
totale ribaltamento interiore dell’individuo che, necessariamente, porterà con
sé anche quello esteriore: un ribaltamento che dovrà cominciare dal singolo e
non essere imposto dall’alto. Considerando l’azione dì rinnovamento in questa
chiave, il ruolo della Massoneria è fondamentale, indispensabile.
Quale
portatrice di un pensiero e di una tradizione iniziatica, contiene in sé
principi ed insegnamenti secolari indispensabili al miglioramento dell’uomo e
per formare un’etica nel vero senso della parola.
Non sto a
ricordare i cinque punti della fratellanza; ripeto solo che la Massoneria è una
scuola iniziatica che segue l’esoterismo nell’insegnamento ed il simbolismo
nell’arte operativa; infatti, senza una tradizione iniziatica-esoterica non
esisterebbe un canale di trasmissione di luce iniziatica e senza iniziazione
non potrebbe esistere alcuna forma di Massoneria.
Essa ha il
duplice scopo di favorire il perfezionamento dell’uomo e di lavorare, di
conseguenza, direi naturalmente, al bene ed al progresso dell’umanità.
Però se il
primo non si realizza “massonicamente” non si conseguirà mai il
secondo.
“Un
palazzo, anche se bellissimo come facciata, deve, principalmente, avere
fondamenta salde, altrimenti può crollare al primo refolo di vento”.
Per il bene
dell’Umanità è perciò fondamentale che il Massone sia tale nel vero senso della
parola.
E lo è soltanto
se egli vive intensamente ed interiormente la Massoneria osservandone tutti i
principi, per effetto dell’iniziazione, atto attraverso cui si stabilisce, nel
Massone, un nuovo principio di vita, per cui l’esistenza ricomincia,
intimamente da capo.
Nasce qui il
sentiero del grande ritorno; a da qui deve nascere, poi, nel Massone l’opera
attiva e la missione educatrice nei confronti dell’Umanità!
L’origine della
vita ci sussurra richiami irresistibili nel disegno svelato dalle forme
semplici dei simboli: chiama a raccolta apprendisti, compagni e maestri, centro
invisibile del simbolo universale: l’UMANITA’.
La Massoneria,
quindi , non è un “club” qualunque, ma qualcosa di completamente
diverso.
L’Uomo Massone
non può comportarsi da “Iniziato” all’interno del Tempio e da
“Non Iniziato” al di fuori di esso e cioè in ogni manifestazione
della sua vita.
Egli dovrà,
quindi, all’esterno, avere un ruolo attivo, vivo, di esempio di guida, di colui
che indica una via da percorrere sicché “se nel lungo cammino della vita
qualcuno rimane indietro, Lui è pronto a fermarsi ed aspettarlo”.
A questo ci
porta la Massoneria, intesa nel suo significato più vero e più profondo: quello
di una via spirituale resa ancor più viva ed operante dai nostro agire
quotidiano avente per scopo l’evolvere dei nostri simili.
Ecco che,
allora, la Massoneria non può che avere e svolgere un ruolo di primissimo piano
in questa società perché “Gli Antichi Doveri” che costituiscono le
sue fondamenta non avranno mai fine.
Doveri, ai
quali occorre rispondere quotidianamente per recuperare la visione olistica del
mondo: dovere inteso come imperativo morale: “agisci come se ogni tuo atto
potesse essere assunto come norma universale”.
Ecco allora
che, qualunque ricerca per individuare l’etica che permetta all’Umanità di
vivere con fratellanza, con uguaglianza, con la tolleranza dai propri principi
interiori, con amore inteso come energia primigenia, non potrà mai prescindere
da quella splendida scuola di vita che è la Massoneria.
A riprova di
quelle che sono le finalità delle Massoneria e nel servizio che il Massone
dovrà compiere nei confronti dei suoi simili vorrei ricordare quanto viene
detto al neofita, terminata la prova del fuoco: “Possa il vostro cuore
infiammarsi d’amore per i vostri simili, possa questo amore improntare le
vostre parole, le vostre azioni, il vostro avvenire…”. Non dimenticate
mai il precetto universale ed eterno “non fare agli altri ciò che non
vorresti fatto a te stesso e fa agli altri tutto il bene che vorresti facessero
a te”.
Dobbiamo ,
quindi, amare il nostro prossimo come noi stessi.
Ma l’amore
verso se stessi si realizza operando per il proprio perfezionamento e per il
superamento dell’”io” che è l’essenza psicofisica dell’uomo,
l’ispiratore della sua vanità e del suo animalesco egoismo. L’iniziato fa poca
strada se non riesce a subordinarlo all’”atman”, cioè al
“sé”.
La Massoneria
ha in sé tutti i requisiti per l’etica della vita, determinati, appunto, da
quel salto di qualità compiuto dall’uomo divenuto Massone che non lo fa essere
più quello di prima poiché è decisamente avviato su di un cammino evolutivo in
grado di aiutare gli altri ad evolvere.
Questo è il
servizio che il Massone deve compiere avendo ben chiaro il concetto di
uguaglianza, inteso come uguale diritto di tutti gli uomini a migliorarsi, e
quello di tolleranza che concilia perciò uguaglianza e differenza.
Il Massone deve
avere i piedi ben piantati a terra e gli occhi sempre rivolti al cielo.
La Massoneria
ti dà la possibilità di esistere, di far tesoro di ogni attimo della vita.
Una delle principali difficoltà in cui s’imbattono gli
storici che studiano la massoneria è la presenza al suo interno di varie
correnti, da quelle teiste – che accettano l’esistenza della divinità – a
quelle laiche. Questo ha dato adito allo sviluppo di diverse teorie
sull’origine di tale associazione, anche se il punto di partenza storico
documentato sono i costruttori delle cattedrali medievali.
DALL’EGITTO AI
TEMPLARI
Per la corrente più tradizionale, la massoneria è un
ordine iniziatico (per entrare a far parte del quale bisogna sottoporsi a dei
rituali d’iniziazione) legato alle tradizioni mistiche dell’antichità. Questo
significa che la massoneria ebbe probabilmente origine da società che facevano
partecipare i loro iniziati a un mistero. Secondo alcuni autori, può essere
fatta risalire ai primi maestri costruttori egizi, le cui abilità tecniche
erano rivestite di un carattere magico e divino. Il sapere trasmesso da maestro
ad allievo per via iniziatica e segreta sarebbe giunto fino ai costruttori di
cattedrali medievali. Ma questa conoscenza non si sarebbe limitata all’antica
sapienza dell’Egitto. In quanto costruttori sacri di templi di tutte le
religioni, i membri della massoneria avrebbero attinto dai culti mistici della
Grecia e del Vicino Oriente.
Tra i riferimenti mitici indicati da alcuni autori ci
sono anche le corporazioni dei costruttori dell’impero romano, i collegia fabrorum, confraternite di
artigiani che riunivano i mestieri necessari a ogni tipo di costruzione e che
accompagnavano le legioni nella colonizzazione di nuovi territori. La
massoneria, quindi, avrebbe perpetuato l’essenza di questo sapere creando logge
o confraternite di costruttori a cui solo gli iniziati potevano accedere.
Ma la leggenda più profondamente radicata è quella che
colloca le origini della tradizione massonica all’epoca di Salomone, re
d’Israele nel X secolo a.C. Hiram Abif, un maestro costruttore della città
fenicia di Tiro, sarebbe stato il capomastro del tempio che Salomone fece
erigere a Gerusalemme. Anche se nella Bibbia è menzionato solo come un
artigiano straniero, nella “mitologia” massonica è il massimo responsabile
della realizzazione del tempio. Una notte Hiram fu assalito da tre operai che
volevano conoscere i segreti dell’architettura, ma si rifiutò di rivelarli.
Venne di conseguenza ucciso e portò i suoi segreti con sé nella tomba. Per i
massoni questo evento esemplifica il fatto che il cammino da percorrere per
entrare nell’ordine – dall’ignoranza dell’apprendista alla saggezza del maestro
– richiede sforzo e perseveranza.
Poiché nel racconto biblico Dio è il grande costruttore
dell’universo, il sommo creatore, qualsiasi opera umana deve avere un certo
grado di conoscenza della suprema arte della costruzione. Alcuni studiosi
ritengono che la figura archetipica del capomastro non sia Hiram Abif ma Noè,
l’artefice dell’arca che sfidò il diluvio; altri ancora fanno risalire il primo
germe della massoneria addirittura alla Genesi, con Adamo.
Nel XIX secolo il pittore francese James Tissot ricostruì
l’incontro, avvenuto a Gerusalemme, tra Salomone e la regina dell’Arabia
meridionale
L’INCONTRO TRA
SALOMONE LA REGINA DI SABA
Si è a lungo sostenuto che i templari medievali avessero
appreso la sacra arte della costruzione direttamente dai sapienti musulmani
durante il loro soggiorno in Terra Santa, nel corso delle varie crociate. Dopo
la soppressione dell’ordine del Tempio da parte di papa Clemente V nel 1312, i
templari si sparpagliarono per tutto il continente europeo stabilendosi
principalmente in Scozia, dove avrebbero creato la massoneria come un modo per
permettere al disciolto ordine di sopravvivere con discrezione.
Questa ipotesi si basava sulla natura iniziatica
dell’ordine dei cavalieri del Tempio – infatti i suoi membri si sottoponevano a
un rituale d’iniziazione – e del sufismo islamico, le cui confraternite
seguivano gli insegnamenti mistici di vari maestri, e i cui segreti e riti
divennero forse parte del rituale massonico attraverso il tempio.
La costruzione del tempio di Gerusalemme. In realtà
questa miniatura mostra il lavoro dei muratori intorno al 1470, quando fu dipinta
I MASSONI
MEDIEVALI
Per quanto attraenti possano essere queste leggende
sull’origine della massoneria, non esiste alcuna documentazione che ne provi
una nascita precedente alle corporazioni dei costruttori medievali, che
costituiscono la cosiddetta massoneria operativa. I maestri muratori (maçon in
francese, mason in inglese) erano organizzati in logge artigiane e si
suddividevano in apprendisti e compagni. Viaggiavano insieme per costruire
edifici in zone differenti e mantenevano segrete le loro tecniche per garantire
la conservazione dell’arte e del lavoro. Era un modo per evitare le intrusioni
di chi non aveva le competenze, ma anche per perseguire l’eccellenza nel
proprio mestiere. Non per niente la massoneria era conosciuta come “l’arte
reale”. Nel corso dei secoli i muratori e gli scalpellini alimentarono le
proprie logge con le storie delle origini leggendarie delle rispettive
professioni, la cui sacralità s’incarnava nei capolavori che erano state capaci
di creare: le magnifiche cattedrali gotiche.
Per trasmettere le proprie conoscenze, i massoni
medievali crearono elaborati rituali d’iniziazione, che prevedevano l’uso di
parole segrete e gesti di riconoscimento reciproco e che usavano gli strumenti
e il vocabolario della professione come elementi simbolici e liturgici.
L’organizzazione e il funzionamento di queste associazioni erano strettamente
regolati dalle cosiddette costituzioni o statuti, come l’Antica costituzione di
York del 926 o gli Statuti e regolamenti dei maestri del muro e del legno di
Bologna, del 1248.
I massoni
medievali crearono dei rituali d’iniziazione utilizzando gli strumenti e il
vocabolario della costruzione
LA NUOVA
MASSONERIA
Durante il XVII secolo molti intellettuali nobili e
borghesi furono attratti dai rituali pittoreschi, quasi mistici, delle riunioni
delle logge dei massoni operativi. Alcuni di loro furono invitati a unirsi in
qualità di “massoni accettati”. In questo modo, pur non esercitando il
mestiere, potevano partecipare ai rituali e alle riunioni ed essere iniziati ai
segreti della loggia in modo simbolico.
Il compasso, il filo a piombo e la squadra, simboli
massonici, raffigurati in questo gioiello indossato dai membri della Gran
loggia di Londra. 1735
Il compasso, il filo a piombo e la squadra, simboli
massonici, raffigurati in questo gioiello indossato dai membri della Gran
loggia di Londra. 1735
Per alcuni storici della massoneria, questi massoni
accettati, o “massoni simbolici”, per lo più intellettuali e scienziati,
sarebbero il seme delle future logge speculative o simboliche. In ogni caso
all’inizio del XVIII secolo cominciarono a proliferare logge dove la
maggioranza dei membri era costituita da massoni accettati e la cui popolarità
crebbe di pari passo con il diffondersi delle idee illuministe. All’alba
dell’Età dei lumi la protezione di una loggia di massoni accettati
rappresentava per qualsiasi intellettuale la miglior garanzia di poter esporre
liberamente le proprie idee. Il carattere segreto dell’appartenenza alla
massoneria e la mutua protezione e tolleranza tra i suoi membri garantivano uno
spazio sicuro di libertà, al riparo dall’intolleranza religiosa che prevaleva
in molti Paesi.
1717, l’anno decisivo
Il 24 giugno 1717, festa di san Giovanni Battista,
quattro logge londinesi di massoni accettati decisero di federarsi per creare
un’obbedienza o Gran loggia che avrebbe unificato i criteri e dato una
struttura comune alle società che volevano aderire. Le quattro grandi logge
prendevano il nome dalle taverne dove i membri si erano riuniti fino ad allora:
The Crown (La corona), The Goose and Gridiron (L’oca e la griglia), The Rummer
and Grapes (Il calice e l’uva) e The Apple Tree (Il melo). Quella notte nacque
la Gran loggia di Londra e Westminster.
Divenne ben presto evidente che la Gran loggia aveva
bisogno di norme di accesso e di funzionamento. Nel 1723 furono incaricati
della redazione di tali norme i pastori protestanti James Anderson e John
Theophilus Desaguliers. Videro così la luce le Costituzioni dei liberi muratori
o Costituzioni di Anderson, un testo che stabilisce regole obbligatorie e una
chiara differenziazione tra massoneria operativa e speculativa, e il cui scopo
non è più la costruzione di templi, ma l’edificazione del tempio interiore
dell’essere umano a beneficio dell’intera umanità. L’idea di una nuova etica
basata sulla fratellanza universale era connaturata alla massoneria, come
indica il discorso del cavaliere Ramsay alla Gran loggia provinciale di Francia
nel 1737: «Noi vogliamo raccogliere tutti gli uomini di uno Spirito illuminato,
di costumi dolci e di una indole gradevole non soltanto per l’amore delle belle
arti ma ancor più per i grandi principi di virtù, di scienza e di religione, in
cui l’interesse della fratellanza [la massoneria] diventa quello del genere
umano tutto intero, da cui tutte le nazioni possano attingere salde conoscenze
e dove i sudditi di tutti i Regni possano apprendere ad amarsi mutuamente senza
rinunciare alla loro Patria».
Poteva appartenere all’ordine qualsiasi uomo libero,
indipendentemente dalla professione. Uno degli aspetti più importanti della
massoneria era suo il carattere universale. Ecco perché, come si legge nelle
Costituzioni, ai suoi membri non era richiesta alcuna credenza religiosa
particolare: «Oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a
quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono». Le diverse
concezioni di Dio furono condensate nella figura del Grande architetto dell’universo.
Le Costituzioni di Anderson avevano il pregio di riempire di persone illuminate
le logge massoniche, luoghi dov’era proibito discutere di religione e di
politica. Ciò favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza tra persone
diverse, un’attitudine che in termini massonici si chiamava «diffondere la luce
e riunire ciò che è disperso».
Nelle logge
massoniche era vietato parlare di religione e di politica, un’attitudine che
favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza
Ma questa libertà significò che molte logge tradizionali,
per lo più irlandesi, che ancora conservavano il misticismo religioso,
rifiutarono di unirsi alla nuova Gran loggia. Si facevano chiamare gli Antichi,
in opposizione ai Moderni di Londra. Fu solo nel 1813 che il dialogo tra le due
fazioni culminò nella loro unificazione in quella che oggi è la Gran loggia
unita d’Inghilterra.
L’ARRIVO NEL
CONTINENTE
Le prime logge dell’Europa continentale furono fondate da
massoni accettati inglesi e scozzesi giacobiti (cioè sostenitori del deposto re
Giacomo II d’Inghilterra) che erano emigrati in Francia. In brevissimo tempo la
massoneria si diffuse in tutto il continente in veste di nuova e attraente
società illuminata. Nel 1726 nacque a Parigi la loggia di san Tommaso, che
ottenne il riconoscimento inglese. Poco dopo, nel 1738, la Gran loggia di
Francia divenne la prima obbedienza, o associazione di logge, francese, con il
duca di Antin nel ruolo di Gran maestro. Nello stesso anno papa Clemente XII
emise la bolla In eminenti, che proibiva ai cattolici di entrare nella
massoneria, considerandola eretica.
Alla fine del XVIII secolo la Francia aveva quasi mille
logge. Con la rivoluzione francese molti massoni adottarono gli ideali
repubblicani e tentarono di portarli all’interno delle logge, ma subirono anche
l’attacco del Terrore giacobino durante la fase più radicale degli eventi
storici. Fu Napoleone a restituire alla massoneria un ruolo di primo piano
durante l’impero, spingendo molti militari ad aderirvi. Nel 1804 fece anche in
modo che suo fratello Giuseppe fosse eletto Gran maestro del Grande oriente di
Francia (erede della Gran loggia di Francia).
Nella maggior parte dei Paesi le bolle papali contro la
massoneria non sortirono grande effetto, a eccezione della Spagna. Nel XVIII
secolo l’opposizione alla massoneria nella penisola iberica era forte.
L’Inquisizione perseguitò ferocemente l’associazione e nel 1751 il re
Ferdinando VI la vietò. L’unica loggia esistente nella prima metà del secolo
era stata fondata a Madrid dal duca di Wharton nel 1728. La loggia dei Tre
fiori di giglio, detta la Matritense, era composta da massoni britannici e
poteva contare sull’appoggio della Gran loggia unita d’Inghilterra. La prima
loggia spagnola nacque nel 1801, ma fu fondata in suolo francese, a Brest: la
Riunione spagnola, formata dai marinai di una flotta spagnola proveniente da
Cadice che si unì alla marina francese per combattere contro l’Inghilterra.
In Italia, il cui territorio era diviso tra repubbliche e
regni indipendenti, lo stato pontificio cercò di far rispettare le bolle di
scomunica papali. Per ordine del Sant’Uffizio molte logge furono chiuse e i
loro membri detenuti, come accadde nel 1790 con l’arresto di più di cento
massoni. Ma la massoneria stava diventando sempre più popolare nei territori
non controllati dal papa: Napoli, Sicilia, Venezia, Firenze, dove molti massoni
iniziati in Inghilterra o in Francia avevano portato le varie correnti. Sia i
monarchici sia i repubblicani consideravano la massoneria uno strumento
patriottico per realizzare l’unità d’Italia. Nel corso del XIX secolo la
massoneria italiana unificata dal Grande oriente d’Italia divenne un simbolo di
libertà, e alla luce delle sue logge fiorirono eroi nazionali come Giuseppe
Garibaldi.
A cavallo tra realtà e leggenda, la massoneria conserva e
utilizza un gran numero di simboli appartenenti a culti e tradizioni
iniziatiche del passato, il che non implica che ne sia erede. Oggi, per alcuni,
l’antica confraternita è un amalgama di riti antiquati e senza senso; per altri
una sfera d’influenza politica e sociale. E c’è ancora chi vede in essa una
filosofia di vita e una via per migliorare quella pietra imperfetta che è
l’essere umano.
Non vi sono, oggi,
argomenti, più difficili a trattare come quello dell’integrazione razziale, in
quanto l’irrazionalità, l’emotività, l’egoismo, la xenofobia, inconsci o meno
che siano, fanno parte del bagaglio psicologico di ognuno. Nessuno può dirsi
veramente immune da impulsi biologici potenti come il sospetto, la paura, il
rifiuto dell’altro, dell’alieno, dello straniero.
Chi afferma con sdegno di esserne privo molto spesso
dimostra con i fatti una violenta preclusione verso alcune categorie umane o
un’intolleranza, spesso feroce, verso delle categorie ideologiche che non
collimano con le sue. Chi vive attivamente nelle nostre città deve riconoscere
che la tentazione dell’insofferenza, del rigetto, dell’intolleranza, è spesso
messa a dura prova dalle varie forme di mendicità, a volte violenta, che gli
extracomunitari esercitano.
Chi subisce sulla propria pelle lo stillicidio quotidiano
degli scippi, dei borseggi, dei furti, deve dimostrare continuamente a sé
stesso di avere, tenacemente, la volontà di non generalizzare, di comprendere,
di tollerare.
Questo, a volte,
può esser più facile per chi ha dei mezzi economici per la difesa di se stesso
e della propria famiglia, ma per le classi meno fortunate questo non sempre è
possibile.
Quando, nei mass-media, i protagonisti di raid, punitivi
o preventivi, o comunque esprimenti sentimenti di avversione contro gli
extracomunitari sono intervistati, ognuno respinge con sdegno l’accusa di
razzismo e nella maggior parte dei casi le affermazioni sono senz’altro
sincere.
Può nascere cosi, in una nazione come la nostra, nel
complesso bonaria ed ospitale, una forma nuova di razzismo, non più basata sul
pregiudizio etnico, ma sulla paura di esser sottoposti ad atti di piccola o
grande criminalità.
Ignorare le ragioni, a volte giustificate, di questi
sentimenti della popolazione, o addirittura criminalizzarle, è un errore fatale
alla convivenza ed alla comprensione dei popoli.
La volontaria cecità delle
autorità politiche ed anche religiose di fronte al disagio della popolazione,
cecità indotta da motivi ideologi spesso obsoleti, può produrre, alla fine,
ulteriori lutti ed atrocità di cui l’umanità farebbe finalmente a meno. Il riconoscimento
dei diritti dell’umanità nasce dall’equilibrio, dalla razionalità, dalla
conoscenza, e non solo dal sentimento, che spesso è acritico ed a volte
volubile.
Nella difficile opera
dell’integrazione razziale, che attende l’Europa futura, non potranno
esser misconosciuti i diritti della cittadinanza, che pretende di mantenere un benessere
economico ed un’identità personale e di gruppo, che ha acquisito prezzi
altissimi, pur senza farne, nel suo complesso, concetti ideologici
L’ansia acritica dell’immediata integrazione degli
extracomunitari, a tutti costi, sia economici sia politici, è forse l’ultima,
in ordine temporale, delle confessionalità nella storia del pensiero.
Quest’ansia, che può assumere dei caratteri funesti,
contrasta nei fatti con la ragionata e cosciente affermazione del diritto
d’ogni membro de l’umanità alla sussistenza ed alla dignità personali.
L’accoglienza calda, umana e gioiosa che noi italiani. in
particolare, vorremmo riservare ai nostri fratelli d’ogni luogo e razza, non può
prescinde] da una valutazione e pianificazione dei mezzi d’ospitalità.
Vi sono tuttavia dei valori che, pur non dimenticando le
difficili realtà economiche e sociali della nostra patria, italiana ed europea,
vanno comunque affermati e difesi.
Il principio dell’uguaglianza e della fratellanza fra i
popoli non è oggi comunemente contestato, al contrario è divenuto un archetipo
psicologico e spirituale della stragrande maggioranza dell’umanità. Ben diverse
e sottili sono le variazioni dei principi con cui l’istinto primordiale,
presente in tutti gli esseri umani, vorrebbe rideologizzarsi.
L’accusa di razzismo, sempre portata agli altri, naturalmente. oggi più
concettualmente rozza del razzismo stesso. Per combattere le nuove forme
dell’intolleranza, per procede. evolutivamente e civilmente verso
l’integrazione, è necessario studiare e quindi conoscere le sue nuove maschere,
le sue nuove variazioni concettuali ed ideologiche.
Le parole chiave di queste variazioni attuali, che
degenerano sentimenti popolari rispettabili sono: personalità ed individualità:
ritualità genetica.
La dottrina della razza, tipica della prima metà del XIX
secolo era dapprima considerata come dominio dell’antropologia dell’etnologia,
quando queste consideravano i popoli primitivi o più arretrati come selvaggi da
ammansire e addomestica con usanze tipiche di una civiltà superiore.
Le supposte inferiorità di fatto erano quindi soggette ad
igiene sociale, ma anche etica e spirituale. L’identità occidentale, affermata
con la forza dal colonialismo, con la conoscenza dal scientismo, con i concetti
dalla speculazione filosofica, non aveva in principio, dubbi di sorta sulla
necessità etica della propria supremazia.
Il “bagaglio dell’uomo bianco”, il cui peso e
gloria Kypling epicamente cantato, faceva
parte dell’immaginario collettivo che nessun se non pochissimi, avrebbe messo
in dubbio.
I mezzi che l’occidente evoluto usava verso i popoli
ancora nell’infanzia erano la brutalità dei fucili, i bastoni e le fruste.
Il giudizio verso i dominati
era lo stesso che gli antichi romani riservavano ai schiavi e, in parte, alle
donne, esseri che bisognava proteggere, dominandoli.
Il positivismo ed il
razionalismo scientista di quegli anni confermava gli aspe biologici ed
antropologici della mentalità corrente, che si creava un mito, un’ide forza,
una cristallizzazione d’energie creatrici relative agli istinti di un’epoca.
Le nazioni europee, tutte più o meno implicate nel
colonialismo, si creavano così una sua giustificazione, razionale ed etica nel
contempo, ai loro
interessi anti-universalistici ed
anti-individualistici.
Per affermare il concetto di stato etico, tipico delle
oligarchie di ogni colore politico, era necessario collegare il sentimento di
nazionalità a quello, più energetico e biologico, di razza, attraverso la
creazione di un “mito’ cioè ad un’idea che è più
valida per la sua suggestione possibile che per la sua verità e fondatezza.
ln questo senso il razzismo è un nazionalismo potenziato,
che supera i confini territoriali, giuridici, culturali. Pur opponendosi
all’universalismo, non si esaurisce in semplice unità di civiltà, ma può
estendersi senza limiti geografici alla ricerca, o all’affermazione, del
“proprio sangue’
Questo mito, che ha segnato con una striscia di sangue il
volto del nostro secolo, ha però delle evidenti limitazioni.
I popoli europei sono formati geneticamente da un
meticciato bianco di cui sarebbe impossibile determinare la principale origine,
sempre ammesso che questa sia o che sia importante ravvisarne le tracce.
Sarebbe oggi impossibile rilanciare l’idea di
“purità o di contaminazione razziale”, ma variazioni ideologiche del
razzismo, più insidiose, potrebbero ben cavalcare il disagio delle popolazioni
europee di fronte all’immigrazione sempre più pressante dal Terzo Mondo.
Queste variazioni, già
presenti “in nuce” nel razzismo classico, ma ripresentate
insidiosamente sin dalla fine degli anni 70, potrebbero essere il maggior
ostacolo all’affermazione dei diritti dell’umanità al libero spostamento e
all’integrazione razziale.
Vi è, negli archetipi mentali e biologici dell’umanità,
un istinto inestinguibile di sopravvivenza attraverso la specie, di
mantenimento delle proprie caratteristiche fisiche e psicologiche.
Quest’istinto di natura legittimamente egoistica ha, naturalmente,
delle fondate e legittime basi naturali, e si dovrebbe applicare oggi non più
alla propria appartenenza “razziale” ma a quella dell’intera specie
umana.
Può essere, al contrario,
usato in termini opposti, per il rifiuto dell’altrui individualità, e per
l’affermazione della propria maniera di vita e cultura particolare.
Se vi fosse, veramente, una civiltà superiore in termini
oggettivi, è solo il contatto fra i popoli di diversa tradizione e la loro
competizione non violenta che potrebbe affermarla e confermarla.
Sappiamo invece, oggi, che ogni civiltà possibile è il
prodotto di una compromissione naturale fra diverse culture e modi di vivere,
anche se i principi etici fondamentali devono essere comunque comuni.
Il nuovo razzismo non si lega più alle differenze
genetiche, che elude come mere appartenenze materiali, ma si collega a
considerazioni più sottilmente spirituali.
ln quest’ambito si presenta come una volontà di
stabilire, miticamente, delle forme, dei limiti, delle individualità.
Il globalismo ed al mondialismo che si presentano
insistentemente al nostro futuro, e che certamente hanno in sé dei pericoli,
sono visti come l’indice di caos etnico e di snaturamento delle individualità,
considerate come valore assoluto ed eterno.
Da questo punto di vista vi è una contraddizione dei
termini, in quanto l’individualità è considerata, paradossalmente, come una
forma comunitaria. Il razzismo, biologico o spirituale che sia, si rifiuta di
considerare il singolo, in nome di un’astratta concezione di stirpe, di sangue,
di tradizione. Queste hanno, in realtà, una vitalità, un’essenzialità, una
sopravvivenza, quanto mai variabili, mobili, transeunti e trascendenti.
Rispettare ed affermare
l’individualità di un popolo che ha, comunque, i suoi diritti non significa
negare quelli dell’individualità del singolo, che nella scala dei valori etici
ha valori primari, legati all’unicità momentanea della sua vita presente.
Il razzismo attuale, nel presentare la sua scala di
valori etici, sociali ed economici, fa prevalere l’idea di personalità”
sull’individualità, intendendo così che il “merito” può prevalere sui
diritti di ognuno, anche su quelli minimali.
Il valore personale dell’intelligenza, dell’operosità,
della dirittura morale non può esser messo in discussione, ma il concetto di
eguaglianza non si basa su questo parametro, ma su quello degli inalienabili
diritti individuali di chi ha meno intelligenza, meno operosità, meno dirittura
morale.
La confusione “meritocratica” diventa razzismo
quando si attribuisce agli extra-comunitari minori valori di personalità,
utilità e correttezza sociale, il che può anche esser vero, ma non in relazione
ai diritti minimali.
Il razzismo attuale si contrappone poi al cosiddetto
“mito” democratico ed illuminista, e si schiera contro la civiltà
laica e profana della società borghese, affermando che la virtù, la nobiltà, la
dignità non s’impara, ma si possiede o non si possiede, secondo la razza, la
stirpe, la tradizione.
E’ la consueta teoria delle élite, che, conservatrici o
rivoluzionarie che siano, si autodefiniscono tali solo in valenza del successo,
della forza, dell’abilità, elementi, a volte, puramente casuali, non indotti
dal merito individuale e soprattutto non innati.
L’autoaffermazione del sentimento elitario, in un periodo
d’estrema crisi morale, politica ed economica come il nostro, è una tentazione
che può affermarsi anche in relazione al fastidio che la presenza aliena degli
extracomunitari, anche se non eccessivamente numerosa, può provocare.
Ancora più pericoloso è lo scambio dialettico fra i
concetti di personalità e di individualità che può diffondersi nella mentalità
comune; ma il concetto di maggior efficacia del nuovo razzismo è quello di
spiritualità genetica.
Le forze dell’umanità che si richiamano all’istinto, al
sangue, all’ereditarietà, insomma a tutto ciò che dà forma e sostegno alla
personalità, non sono viste come un’espressione individuale, ma come appartenenti oggettivamente alla
natura.
Ad esempio, l’aggressività psico-zoologica dell’uomo – che
Conrad Lorenz ha evidenziato essere componente naturale ed indispensabile –
come espressione individuale può esser controllata, diretta, raffinata e
sublimata.
Come espressione della natura ha invece un valore innato
in sé e può e deve esser usata coscientemente come forza egoica opprimente
sugli altri, come un impulso inarrestabile di vita, ed in questo caso la
personalità trascende la natura materiale stessa, divenendo spiritualità.
Non è più, quindi, la razza, un fattore meramente
biologico, un puro dato, estraneo a qualsiasi azione creatrice dell’uomo, ma
un’essenza spirituale che si manifesta sì biologicamente, ma che,
intrinsecamente, si rende visibile in qualità, atteggiamenti, inclinazioni,
sensibilità.
La nobiltà, come confessa Dante Alighieri, è
fondamentalmente “antica ricchezza e bei costumi”, ma, essendo i bei
costumi molto spesso una creazione generazionale indotta dal censo, è questo, e
solo questo, che forma l’élite.
Ed è questo, fondamentalmente, il nuovo ed antico
razzismo contro i diritti dell’umanità e contro l’integrazione dei popoli.
La povertà è, nello stesso tempo, inferiorità economica,
intellettuale, morale. Un povero mansueto ed inoperoso è considerato la feccia
dell’umanità, ma un povero ribelle ed attivo è sempre negativamente negro,
albanese, marocchino, come una volta era italiano.
censo è considerato sintomo di criminalità, ma
una criminalità “sui generis”, corretta, civile, superiore, dotata di
qualità, d’educazione, di superiorità. Un ricco è pulito, quindi puro, quindi
spirituale, anche se di quell’ambigua spiritualità moderna delle classi
privilegiate chiamata New Age. Questa afferma i diritti altrui coltivando i
propri privilegi, ama profondamente la povertà ed i poveri quando quella e
questa sono ben lontani, e disprezza profondamente il razzismo triviale di chi
incolpa gli zingari per i furti subiti.
Ed è proprio a questa forma di neo-razzismo
pseudo-spirituale cui bisogna riferirsi come al rifiorire di nuove forme
d’intolleranza.
In questo torbido fine millennio le speranze di qualche
decennio fa sembrano impaludarsi, la nuova realtà europea, sperata e sognata da
generazioni, sembra fagocitata dal pragmatismo delle banche e delle
multinazionali.
Le nuove generazioni, che in parte non accettano il
cinismo imperante nel nuovo ordine, si rivolgono illusoriamente alla cosiddetta
nuova spiritualità.
Movimenti neo-mistici, pseudo-religioni, sette
sponsorizzate dalle industrie che necessitano di sempre nuovi bisogni, ricreano
universi chiusi e falsamente elitari, volgendosi spesso ad un improbabile
oriente, ad una metafisica grossamente ciarlatanesca.
Il movimento della New Age
è come fiaccato da improbabili ansie escatologiche, non derivanti dalla
profondità dell’inconscio collettivo quanto dall’introiezione d’archetipi prima
rimossi dal consumismo degli anni ’80, e poi frustrati dalla crisi economica
degli anni ’90.
I suoi corifei,
apparentemente contrari alla tecnocrazia, all’inquinamento ecologico, al
consumismo, al predominio delle considerazioni economiche su quelle etiche, ne
rappresentano invece la loro giustificazione metafisica, dimostrando
un’opposizione rivolta solo a finalità materialistiche, mentre vorrebbero così
combattere l’arido positivismo delle multinazionali.
Il sacrificio della
razionalità, secondo i neo-guru, è indispensabile alla scoperta della fede,
dimostrando così che la New e la Old Age concordano nella volontà di controllo
delle coscienze e nello sfruttamento del prossimo.
Il razzismo evoluto della post-filosofia della New Age
ieri, e della Next Age oggi, è rappresentato dal presentare l’umanità come
soggetta ad evoluzione spirituale individuale, il cui assommarsi, nel futuro,
diverrebbe l’evoluzione spirituale dell’intera umanità.
L’indifferenza, e la riprovazione, verso le necessità
razionali ed organizzative della società, lungi dal rappresentare un
‘ascetismo, ostentato ma mai dimostrato, dimostrano un fideismo incontrollato
nei confronti di una fatalità preordinata verso il meglio.
Le preoccupazioni quotidiane dell’umanità, di fronte ad
una realtà poco felice, diventano una discriminante fra gli esseri evoluti e
quelli che lo saranno in un lontanissimo futuro.
Il responsabile senso di colpa che ogni essere umano ha
nei confronti dei miliardi di esseri umani senza libertà, senza cibo, senza
medicine, viene così rimosso e sublimato nel concetto che ognuno deve comunque
evolvere nel suo ambito e nelle sue condizioni, senza interventi ed aiuti
esterni.
La povertà, il disagio, l’ignoranza, divengono così il
segnacolo di un’esistenza precedente rivolta verso la materialità e il male. Le
responsabilità sono così dirette, individuali, senza attenuanti, senza • pietà
se non formale, con indifferenza totale e sostanziale.
Neanche le deliranti teorie sulla superiorità biologica
razziale arrivarono mai a discriminare l’essenza interiore dell’umanità, a
condannare implicitamente una vita umana, spesso più infelice che colpevole.
Cos’è dunque possibile fare per professare ed attuare il
diritto alla sussistenza, alla libertà, alla dignità di ogni uomo in quanto tale,
e non soltanto come appartenente ad una particolare razza, cultura o civiltà?
Aumentare, prima di tutto in noi stessi, la conoscenza e
la consapevolezza della “charitas” come la consideravano i romani,
che non è la semplice pratica dell’elemosina, ma la coscienza profonda che gli
uomini differiscono enormemente per intelligenza, cultura, maturazione, ma che
sono uguali nei sentimenti, nei bisogni, nei desideri, negli affetti, nella
capacità di gioire e di soffrire.
Praticare la “virtus”, che è soprattutto
moderazione ed equilibrio delle passioni e, oggi, dei consumi, godendo più
della propria personalità che del proprio status.
Esercitare la “fides”, che è speranza ed azione
assieme, per l’affermazione di principi che, negati spesso dalla realtà esteriore,
devono essere tenacemente riconquistati nella realtà interiore.
Bisogna esser consapevoli, come un buon padre di
famiglia, che non sempre possiamo soddisfare i bisogni materiali di tutti, come
vorremmo, ma possiamo dare a tutti dignità, offrendo attenzione e
considerazione, aggiungendo alle mille lire dovute al lavavetri uno sguardo, un
sorriso, una parola.
Non dovremo attribuire agli ospiti delle nostre nazioni
europee più diritti di quelli che godono i nostri concittadini, perché la
“bontà” o meglio il “buonismo” molto spesso è solo
fittizio, e nasconde l’egoismo di chi vuol esorcizzare i propri complessi di
colpa o ignorare, senza giustizia, l’equilibrato diritto di ognuno.
Dovremo pretendere dai nostri ospiti che compiano i loro
doveri, e che si adattino ai costumi ed alle leggi locali con la diligenza e la
pazienza dell’ultimo arrivato, nell’attesa di una generazione che possa
imparare ed insegnare nuovi valori e quindi nuove tradizioni.
Solo
allora avremo il diritto e la capacità di organizzare, produrre, legiferare, in
favore del nostro prossimo più alieno, perché senza equilibrio, prudenza,
equità, maturazione personali le nostre opere produrranno soltanto nuovi
errori, dolori e tragedie all’umanità.
Il bresciano Giuseppe Zanardelli, giurista e uomo di
governo. Quella che, a giusto titolo, è ricordata nei libri di storia come la
“Leonessa d’Italia” può andare fiera di due tra i più illustri propri figli:
all’inizio del Millennio, Arnaldo, il cui nome rimane indissolubilmente legato
alla natia Brescia, e, ottocento anni dopo, Giuseppe Zanardelli.
Se il primo giganteggia dall’alto della propria fede
incrollabile nella purezza della religione, reale ed unico potere spirituale
solo se separato ed affrancato da quello temporale, il secondo, vissuto agli
albori del Risorgimento che egli contribuisce a rendere movimento unificatore
del giovane Stato italiano sovrano ed indipendente, profonde i tesori della propria
scienza giuridica al servizio di un moderno Corpus iuris nazionale, in
particolare nel settore penale, mentre in campo politico si rivela uno dei più
convinti assertori del cavourriano Libera Chiesa in Libero Stato.
Giuseppe Zanardelli ad appena 22 anni partecipa alla
rivoluzione del 1848 e l’anno seguente, durante le gloriose Dieci Giornate di
Brescia, si comporta da valoroso infliggendo, proprio l’ultimo giorno, insieme
ad altri pochi giovani compagni, una cocente umiliazione ad un consistente contingente
delle truppe del Generale austriaco Haynau, obbligate alla resa benché molto
più numerose e meglio armate.
Costretto a rifugiarsi dapprima in Toscana e, qualche anno
dopo, in Svizzera non avendo mai rinunciato alle sue idee unitarie ed a
cospirare, nel 1859 però da Lugano passa a Como presso Garibaldi che lo invia a
Brescia in missione speciale.
Simile tempra di patriota e di uomo libero e di buoni
costumi non può non accostarsi alla Libera Muratoria che tanti meriti vanta
nell’affrancazione dei popoli delle dominazioni politiche, militari,
confessionali: basti pensare all’opera determinante del Gran Maestro Giuseppe
Garibaldi e delle migliaia di Massoni che hanno fatto l’Italia e versato il
loro sangue per la libertà degli oppressi ovunque nel mondo. E’ infatti
significativo della sua volontà di elevarsi spiritualmente per meglio servire
gli altri che il Nostro venga iniziato il 29 febbraio 1860 all’età di 36 anni,
appena un mese prima della sua elezione il 25 marzo 1860 a deputato per il
Collegio di Gardone Val Trompia, soppresso il quale, sarà deputato di Iseo.
L’attività politica sempre più intensa, culminata nella
nomina a Ministro dei lavori Pubblici nel Gabinetto Depretis nel 1876, poi
degli Interni nel marzo 1878 nel gabinetto Cairoli suggeriscono al Gran Maestro
del Grande Oriente d’Italia dell’epoca, Giuseppe Mazzoni, creatore nel 1877
della Loggia “Propaganda”, di affiliarvi Giuseppe Zanardelli, così come
Agostino Bertani, Nicola Fabrizi, Giovanni Bovio, Emilio Cipriani, Quirico
Filopanti, Giuseppe Ceneri, Oreste Regnoli, Gaetano Tacconi, Giacomo Sani,
Pietro Ripari, ai quali le occupazioni profane e professionali o politiche e
l’opportunità di lungimirante discrezione impediscono di frequentare i regolari
lavori di Loggia.
Ciò non impedisce al Nostro di raggiungere il 33° grado, il
massimo della gerarchia del Rito Scozzese Antico ed Accettato. E dal maggio
1881 al maggio 1883 nel quarto Gabinetto di Agostino Depretis, lo Zanardelli
ricopre la carica di Ministro di Grazia e Giustizia; in tale qualità, riesce
con grande fermezza e alto senso di dignità nazionale, a far respingere la
domanda austriaca di estradizione per i compagni di Guglielmo Oberdan.
Altro martire massone per l’unità d’Italia. Nell’ultimo
Gabinetto Depretis e nei tre Gabinetti Crispi, dall’aprile 1887 al febbraio
1891, Zanardelli è di nuovo Guardasigilli ed è in quel periodo che le sue
qualità di giurista e di uomo di pensiero rifulgono attraverso l’elaborazione e
la promulgazione del nuovo codice penale, approvato il 1 gennaio 1890, che, a
tacer d’altro, resterà pietra miliare nella civiltà giuridica universale.
L’Italia, infatti, prima tra tutte le Nazioni europee, con
tale strumento ha decretato l’abolizione della pena di morte, prevista dallo
Statuto Albertino, in applicazione delle teorie individualistiche propugnate da
Rousseau, da Kant, e dai Massoni Filangeri, Montesquieu, ma soprattutto da
Cesare Beccaria, per i quali, conformemente al pensiero liberomuratorio,
l’individuo è il fine di tutta la vita e di tutta l’attività sociale.
Quarantun anni più tardi Alfredo Rocco, Guardasigilli del
Regime, interprete della reattiva concezione autoritaria fascista, che
considerava l’uomo non più come fine ma come mezzo, ripristinerà la pena
capitale come “segno della riacquistata virilità ed energia del nostro popolo e
della totale liberazione della nostra cultura politica e giuridica
dall’influsso di ideologie straniere alle quali l’abolizionismo si ricongiunge
direttamente” (dalla Relazione al Re per il Codice Penale del 1931).
La Costituzione democratica dell’Italia repubblicana ha
giustiziato definitivamente la pena capitale riabilitando la versione
illuminata di Zanardelli, formatosi alla scuola del Diritto romano da lui fatto
oggetto di vera e propria venerazione, così come traspare dal discorso
pronunciato come Guardasigilli il 14 marzo 1889 alla presenza del Re e della
Regina in occasione della posa della prima pietra del monumentale Palazzo di
Giustizia di Roma quando afferma che “in Roma e letterati di gran fama, e
storici insigni, ed incomparabili capitani furono in pari tempo dotti giuristi
che si illustrarono nelle lotte del Foro.
Ne
venne che il diritto romano, oggetto di studio e di culto universale, fu recato
ad una tale perfezione, da essere giustamente chiamato la ragione scritta”.
Né meno nobili sono le parole dello Zanardelli dedicate
all’erigendo Tempio di quella Giustizia che egli non si limita a definire “la
suprema guarentigia di tutti i diritti, l’invocata proteggitrice delle persone
e dei beni dei cittadini e nel fulgore della sua indipendenza, la sicura
vindice di ogni libertà” a significare l’altezza di questo superiore principio
egli affermava infatti non bastare il motto inciso nel grande vestibolo del
palazzo di Giustizia di Vienna, Justitia
regnorum fundamentum, poiché perspicuamente intuisce che “la giustizia,
idea e sentimento, impeto e ragione, scienza e coscienza, è il fine stesso
delle civili società anzi il fine dell’umana esistenza, sicchè nos ad justitiam esse natos potè dire
esattamente il grande oratore e filosofo di Roma Cicerone”.
Nessuno quindi più degnamente e con maggiore legittimazione
del giurista massone Giuseppe Zanardelli, rievocatore delle glorie italiane
eguali nel campo del diritto, può chiedere ai reali di collocare la prima pietra
del Palazzo di Giustizia poiché “dagli esempi del passato i giovani devono
prendere gli auspici dell’avvenire; a queste memorie devono attingere quelle
virtù che Vico chiamava carattere particolare della gente romana, la fede nei
propri destini”.
Simile idealista, che, con raro senso dello Stato, ha
dedicato tutto se stesso fino al termine della sua vita al reggimento della
cosa pubblica anche come Presidente della Camera dei Deputati e Primo Ministro,
non può avvilire in una sterile contrapposizione, della quale sono invece
caparbi protagonisti non pochi laici e massoni del tempo, tra i più illustri
Giovanni Bovio, la querelle nata all’indomani della Breccia di Porta Pia e poi,
della promulgazione della Legge delle Guarentigie che sostanzialmente abolisce
il potere temporale del clero suscitando fiere proteste tra i cattolici animati
da propositi di rivincita
L’orientamento del giovane Stato italiano, proteso a
trasferire allo Stato i beni patrimoniali della Chiesa. È infatti frutto della
concezione laica ed anticlericale ispirata anche dalla Libera Muratoria del
tempo, troppo a lungo perseguitata e scomunicata. Giuseppe Zanardelli, dal
canto suo, si rende promotore instancabile, fin dal 1865 in seno al Consiglio
comunale e dal 1868 in quello provinciale bresciani, dello stanziamento di
ingenti fondi per la realizzazione di quel monumento di bronzo, oggi ancora
campeggiante a Porta Venezia nella piazza che lo ricorda, dedicato al
concittadino Arnaldo del cui pensiero di fustigare fin dall’XI secolo della corruzione
e del temporalismo della Chiesa di Roma egli è profondo conoscitore ed
ammiratore. Tuttavia, ancorchè il “Corriere della Sera” del 14 agosto 1882
riferisca che il Ministro Zanardelli è stato applaudito fragorosamente quando
ha detto che quella solenne inaugurazione è la sintesi della rivoluzione
italiana, che qualche anno dopo, nel corso della seduta del 10 giugno 1887 alla
Camera dei Deputati, in risposta all’interrogazione del Deputato Giovanni
Bovio, timoroso che un passo dell’Allocuzione del 23 maggio indirizzata da Papa
Leone XIII al Sacro Collegio possa far sospettare l’esistenza di trattative per
una riconciliazione tra la Chiesa di Roma ed il Governo italiano, da più parti
auspicata pur da opposte e contrastanti angolazioni, il Guardasigilli Zanardelli,
da grande statista non meno che da Massone amante della propria Patria, nel
rassicurare l’On. Bovio sull’esistenza di tali trattative le proprie
dichiarazioni del 1883 come Ministro per i culti nella stessa aula. “Io
dichiarai allora, a nome del Governo, di essere alieno da ogni persecuzione
grande o piccola, di essere penetrato del massimo spirito di tolleranza, e mi
piace udire che tale tendenza ha l’approvazione anche dell’On. Bovio:
ma, se da una parte ciò dichiarai, ed aggiunsi di essere pieno
di rispetto per la libertà di coscienza, pieno di rispetto per i Ministri della
religione e per il loro augusto Capo, quando esercitano il loro alto ministero
spirituale, dichiarai in pari tempo che mi sento l’animo acceso da una cura
vigile e gelosa per l’incolumità delle prerogative dello Stato, per le sacre
necessità della Patria. Certamente io non desidero dissidi, non desidero il
divorzio, la lotta tra la religione e la Patria.
Io vorrei un clero patriottico il quale sia animato dal
sentimento della salute e della grandezza della Nazione, il quale si guardi dal
suscitare discordie sociali.
Ma, affinché questi scopi non soffrano offesa io,
consapevole che l’Italia, fra tutte le Nazioni d’Europa, è quella la quale
colle sue leggi ha dato più ampia libertà alla Chiesa, queste leggi ho il
dovere, cui non posso venir meno, di far sì che siano fedelmente e
scrupolosamente osservate. Io assicuro l’On. Bovio che, quando su questo stesso
tema dei rapporti tra Chiesa e Stato mi si presentano questioni discutibili,
sono amico di ogni soluzione serena, equanime, liberale, conciliativa, se così
volete chiamarla, ma nel medesimo tempo non posso certo consentire che lo Stato
abdichi ai propri intangibili diritti, i propri immutabili doveri, abdichi la
propria indeffettibile missione di luce, di progresso, di civiltà”. Giuseppe
Zanardelli, dunque, è stato un grande statista, nemico del trasformismo e del
compromesso, ma rispettoso nel medesimo tempo delle prerogative dello Stato
così come della missione della Chiesa tanto più autorevole ed efficacemente
esercitabile quanto più circoscritta alla sfera spirituale, quella stessa che
l’altro grande bresciano Arnaldo le assegnava con tanta veemente passione
rimanendone tuttavia trucidato ed arso.
Ma le sue ceneri si sono posate sulle Pandette di Zanardelli
nutrendone tuttavia il sublime spirito di tolleranza che per sempre nella
storia d’Italia e dell’Umanità illuminerà Arnaldo e Giuseppe, purissimi
paladini della libertà e dell’amore fraterno.
Virgilio Gaito, Ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.
Vederla che si consumava d’amore, la mente altrove, lontana
da tutto ciò che non fosse l’uomo che proditoriamente s’era permesso di
lasciarla anzitempo; vederla furibonda e incapace di lasciar andare ogni cosa
lui avesse toccato, la berretta da notte, la tabacchiera, il rasoio, il libro
dei conti, il pitale; e poi insonne e inappetente nello strazio degli ultimi
giorni, quando perfino portare il bicchiere alle labbra pareva una colpevole
distrazione dal pensiero fisso di lui, spinse Anita ad accelerare i preparativi
per il matrimonio: amava Pietro e Pietro amava lei. Perché aspettare? Il solo
fatto che la sera lui dovesse tornare a casa propria le dava il tormento. Tanto
l’avviliva il distacco che, molti anni dopo, sotto le coperte, gli accarezzerà
il petto disegnando piccoli cerchi e come evocando una disgrazia
sorprendentemente evitata, dirà: «Ma ti ricordi quando la sera dovevi
andartene? Quando non potevi accarezzarmi qui e qui e qui?»,
Nell’imminenza de] matrimonio, Pietro Ferro aveva lasciato
il lavoro al Cotonificio Raggio prendendo il posto in campagna di Nino Bixio,
partito per il seminario di Carcare. Con un po’ di fortuna sarebbe potuto
tornare al Borgo di Dentro da scolopio, presso la stessa casa che l’aveva accolto
negli anni della scuola elementare. Anche Anita aveva lasciato la Filanda
Salvi: con la morte di Luigina, alla famiglia serviva una donna in casa.
Si sposarono un mercoledì di marzo del [902 alle sette e
mezza del mattino. Giuseppe Garibaldi rifiutò di entrare in chiesa e rimase sul
sagrato insieme agli amici del Circolo Democratico, riuniti a fumare dietro uno
degli. eleganti vespasiani che, sul finir del secolo, i massoni avevano fatto
installare davanti a ognuna delle sette chiese della città.
Primo Leone invece accompagnò all’altare la figlia
ostentando un vistoso fazzoletto rosso nel taschino della giacca, identico a
quello che stringeva il collo dello sposo.