ARTE E LIBERA MURATORIA: ASPETTI COMUNI.

ARTE E LIBERA MURATORIA: ASPETTI COMUNI.

( breve riflessione in occasione della relazione di Maurizio Vanni – Piombino 04/01/2024 )

Volevo complimentarmi per la bellissima e interessantissima relazione del Fratello  Maurizio Vanni e per la grande intuizione, da parte di chi ha organizzato questo incontro, per aver correlato l’”arte” alla “Libera Muratoria”…complimenti davvero!

Oggi assistiamo ad un forte impoverimento del senso religioso, e specialmente ad un dimagrimento della pratica religiosa ( non solo in Italia ma nel mondo); anche se era stata annunciato già da tempo (basti pensare al Concilio Vaticano II che si è svolto sessanta anni fa ( 1962/1965) e a tutte le problematiche che sta affrontando i’attuale Sinodo.

Il senso religioso è stato travolto dalla secolarizzazione … dalla crescita inarrestabile della scienza e dalla tecnologia .

In realtà nonostante queste considerazioni la necessità di possedere una dimensione SPIRITUALE…TRASCENDENTALE nell’uomo post- moderno sta crescendo !

Io credo che l’Arte a parità della Libera Muratoria siano, oggi, più di sempre il rifugio dello Spirito.

Entrambi sono luoghi misteriosi, con una forte funzione simbolica … perché entrambi emettono messaggi basati sul simbolismo.

Entrambi sono dei catalizzatori della dimensione spirituale proiettata su una traiettoria di eternità… il loro linguaggio è in “sub specie aeternitatis”…tutto in questi ambiti si colora di eterno.

Sono entrambi – sia l’Arte che la Libera Muratoria- luoghi di “ Culto Laico”. ……spazi in cui ciascuno l, con la propria sensibilità, è stimolato- perché qui trova la TENSIONE Ideale – a porsi delle domande : sull’uomo l, sulla società, sull’oltre…per comprendere il mondo che ci circonda.

Luoghi in cui ciascuno può trovare risposte – che la scienza e la tecnica non sono in grado di definire o dare!

Luoghi ( l’arte e la Libera Muratoria) che servono a tenere sveglia, a provocare, a stimolare, la COSCIENZA dell’uomo…perché la “bellezza” non è esterna, ma è nell’ interiorità o nella coscienza o nell’anima dell’uomo!!!

Noi uomini Libero Muratori siamo “ Ricercatori di Spiritualità … ricercatori del SENSO PIÙ PROFONDO della Vita “ !!

Claudio SPINELLI

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IL MISTERO DELLE AFFINITÀ

IL MISTERO DELLE AFFINITÀ

Amedeo De Giovanni

Questo lavoro dell’amatissimo e carissimo Fratello Amedeo De Giovanni, passato all’Oriente Eterno nell’anno di Vera Luce fu pubblicato sul numero 4 di Luz, editrice Har Tzion Latina.

Download “Il mistero delle affinità”

La lettura del libro di Martin BUBER, “Gog e Magog”, nella sua  recente edizione italiana (Neri Pozza, Vicenza 1999), al di là dell’indubbio fascino per la rappresentazione di un mondo ebraico isolato, come quello stanziatosi in Polonia, ma anche per questo più legato alla tradizione antica di quel popolo, tra i più religiosi del mondo, ed alla sua aspettativa messianica, mi ha riproposto un problema sempre presente degli studi tradizionali: la ricorrenza della fioritura, nel tempo, di consorterie e di comunità mistiche presso popoli del tutto diversi e lontani, nonché le sorprendenti affinità che si riscontrano in esse, non solo negli obiettivi, per così dire, ma anche nelle personalità che esprimono e nel  parallelismo di certe vite,  che fa pensare talvolta a medesime sorgenti misteriose e quasi soprannaturali, che in qualche momento vengono in evidenza, nello scorrere della vita dei popoli.

E’ il mistero delle affinità, che affascina il nostro pensiero, che si esprime soprattutto nella constatazione della somiglianza di certe vicende, che, nel loro svolgimento seguono anche un percorso quasi predeterminato e fatale.

Il tema del libro di BUBER riguarda la storia di un rapporto spirituale e di vita tra maestro e discepolo di una comunità chassidica della fine del Settecento in Polonia a Lublino.

Il maestro è Jaqov Iizchaq, detto il Veggente, di Lublino, ed il discepolo stranamente ha lo stesso nome del maestro, Jaqov Jizchaq, detto l’Ebreo, di Pzsha.

Il maestro vive la sua religione, nel rispetto assoluto delle forme e del comportamento, mistico e teurgico, dell’interpretazione e dell’ispirazione chassidista, con la bontà, ma anche con la rigidezza che essa richiede per il conseguimento del fine: la preparazione all’avvento messianico, per la riconduzione della comunità israelitica alla consacrazione elettiva originaria, attraverso il ricongiungimento con la Shekinàh, e della Shekinàh con Dio, da cui dipende tutta la storia umana. Per questo, non disdegnerà l’attenzione verso la Qabalah pratica, dai confini confusi tra teurgia e magia, nella fiducia di poter chiudere il ciclo storico della dispersione e di realizzare la grande opera universale del riscatto.

La sua visione dello Tzadiq è quella del misterioso tramite tra Dio e l’uomo, giusto ma anche spietato nella sua giustizia, in cui si fondono le funzioni di profeta e di giudice, che attraverso certe personalità Dio ha suscitato per il popolo eletto, in certi momenti della sua storia e per mezzo dei quali ha mantenuto il contatto con esso.

Nel suo discepolo invece, l’attenzione è rivolta verso la purezza interiore: egli sente profondamente in sé stesso la pietà per il distacco di cui soffre la Shekinàh, a causa soprattutto dei nostri peccati e delle nostre presunzioni, ed avverte la necessità della santità e dell’umiltà senza aggettivi (egli sarà chiamato il santo Ebreo), un raggiungimento personale, che diventa realizzazione di un misticismo assoluto, dove il ritorno non è negli accadimenti del mondo, e il cui risvolto pratico, per così dire, è involontario: è solo nell’esempio di espressione e di vita che può offrire.

Questa diversa visione del rapporto e del contatto possibile tra umano e divino appare sullo sfondo escatologico della convulsione finale del Settecento e delle guerre napoleoniche che coinvolgeranno presto la Polonia e tutta l’Europa, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, viste dal maestro e da altri chassidisti appunto come le lotte di Gog e Magog della visione apocalittica di Ezechiele, annunciatrici dell’avvento messianico e quindi da indirizzare teurgicamente in tal senso, fino a determinare, richiedere quasi, da parte del maestro, il sacrificio mistico del discepolo più amato, del santo, che per questo “si comanda” di morire.

Ma ovviamente il mondo va avanti e l’inconoscibile resta tale: anche il maestro morirà, chiedendosi dove ha sbagliato.

Il tema del contrasto resta quindi quello tra mezzo materiale e mezzo spirituale di riscatto, se veramente l’intervento umano possa indirizzare le forze misteriose e sconosciute dello spirito verso la realizzazione del disegno divino di questo mondo, se questo anzi sia il vero dovere e la vera qualificazione o essenza dell’uomo e se non vi sia qualcuno tra noi, tra gli uomini, che sappia di essere designato a tutto questo.

Sono queste le domande che mi sembrano ricorrenti, o cui si pensa di aver dato risposta, in tutte le diverse insorgenze di gruppi, comunità o istituzioni, molto vicine del resto all’esoterismo nella pratica e che comunque si esprimono in un comandamento di ritorno alla purezza primitiva attraverso la purificazione di se stessi.

Questa stessa esigenza di purità, di ritorno allo spirito, diede origine al movimento chassidista in Polonia, verso la metà del ‘700, attorno alla figura del Baal-shem Tov, il “signore dal buon nome”, come era chiamato Yisrael ben Eliezer, dopo l’immersione nella materialità operata, sempre a buon fine, dal sabbatianesimo, ed è ricorrente nella storia ebraica, ma – si può dire – in tutta la storia dell’Occidente mediterraneo, dove ha radici molto antiche: basti pensare alla comunità degli Esseni, tra il II secolo a.C. e l’inizio dell’Era Volgare, alle successive comunità politico-religiose giudeo-cristiane, allo sviluppo di comunità gnostiche, tra cui i Pauliciani e i Bogomili, variamente esclusi e perseguitati, per finire ai Catari – anch’essi pii o puri nella denominazione, come i Chassidim – e agli Albigesi, contro cui si sviluppò la famosa Crociata nel XIII secolo.

Storicamente, la vera e propria diaspora del mondo ebraico è iniziata dopo il 130 della nuova Era [1], e da quel momento possono essere sicuramente cominciati quei reciproci apporti tra filoni tradizionali, di cui parlavamo a proposito delle “affinità”, che hanno costituito gradualmente una possibile confluenza o un intreccio dei fili stessi, in cui si è rafforzato e specificato quel gene comune di pensiero recondito e riservato, concesso solo ad iniziati, che è forse all’origine di quel  mistero delle affinità stesse, che si riscontrano poi senza apparenti contatti, a distanza di tempo o contemporanee, tra uomini e comunità lontane e diverse.

Gli “Ashkenaziti” – come vengono chiamati gli Ebrei dispersi nelle regioni continentali europee più interne e principalmente in Germania e Polonia – rimasero più chiusi agli apporti culturali estranei alla loro origine, forse anche per il corrispondente isolamento delle stesse nazioni in cui si erano venuti a stanziare, rimaste anch’esse al di fuori del fluire e dell’arricchirsi delle esperienze e delle tradizioni dei popoli dell’area mediterranea, la cui storia politica, spirituale e religiosa spesso si intreccia e si condiziona reciprocamente. [Segue]

[1] Sotto l’Imperatore Adriano, a seguito della ricostruzione di Gerusalemme – già distrutta da Tito nel 70 – con il nuovo nome di Aelia Capitolina e dell’erezione di un Tempio a Giove al posto dell’antico Tempio di Salomone, vi fu l’ultima rivolta ebraica, guidata da Bar Kokhba e repressa sanguinosamente nel 132. La città venne di nuovo distrutta e ricostruita dai Romani, divenendo colonia romana, ma priva di ius italicum. Agli Ebrei fu ingiunto di non risiedervi, dando così inizio all’ultima e più rilevante dispersione delle superstiti famiglie ebraiche palestinesi. Gruppi ebraici tuttavia, a seguito delle precedenti vicende storiche, si erano già allontanati dalla Palestina, insediandosi in diverse località del Medio Oriente, in Egitto, in Grecia e a Roma. [Torna al testo]

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UNA DELLE PRINCIPALI DIFFICOLTA’

UNA DELLE PRICIPALI DIFICOLTA’…

Una delle principali difficoltà in cui s’imbattono gli storici che studiano la massoneria è la presenza al suo interno di varie correnti, da quelle teiste – che accettano l’esistenza della divinità – a quelle laiche. Questo ha dato adito allo sviluppo di diverse teorie sull’origine di tale associazione, anche se il punto di partenza storico documentato sono i costruttori delle cattedrali medievali.

Dall’Egitto ai templari

Per la corrente più tradizionale, la massoneria è un ordine iniziatico (per entrare a far parte del quale bisogna sottoporsi a dei rituali d’iniziazione) legato alle tradizioni mistiche dell’antichità. Questo significa che la massoneria ebbe probabilmente origine da società che facevano partecipare i loro iniziati a un mistero. Secondo alcuni autori, può essere fatta risalire ai primi maestri costruttori egizi, le cui abilità tecniche erano rivestite di un carattere magico e divino. Il sapere trasmesso da maestro ad allievo per via iniziatica e segreta sarebbe giunto fino ai costruttori di cattedrali medievali. Ma questa conoscenza non si sarebbe limitata all’antica sapienza dell’Egitto. In quanto costruttori sacri di templi di tutte le religioni, i membri della massoneria avrebbero attinto dai culti mistici della Grecia e del Vicino Oriente.

Tra i riferimenti mitici indicati da alcuni autori ci sono anche le corporazioni dei costruttori dell’impero romano, i collegia fabrorum, confraternite di artigiani che riunivano i mestieri necessari a ogni tipo di costruzione e che accompagnavano le legioni nella colonizzazione di nuovi territori. La massoneria, quindi, avrebbe perpetuato l’essenza di questo sapere creando logge o confraternite di costruttori a cui solo gli iniziati potevano accedere.

Ma la leggenda più profondamente radicata è quella che colloca le origini della tradizione massonica all’epoca di Salomone, re d’Israele nel X secolo a.C. Hiram Abif, un maestro costruttore della città fenicia di Tiro, sarebbe stato il capomastro del tempio che Salomone fece erigere a Gerusalemme. Anche se nella Bibbia è menzionato solo come un artigiano straniero, nella “mitologia” massonica è il massimo responsabile della realizzazione del tempio. Una notte Hiram fu assalito da tre operai che volevano conoscere i segreti dell’architettura, ma si rifiutò di rivelarli. Venne di conseguenza ucciso e portò i suoi segreti con sé nella tomba. Per i massoni questo evento esemplifica il fatto che il cammino da percorrere per entrare nell’ordine – dall’ignoranza dell’apprendista alla saggezza del maestro – richiede sforzo e perseveranza.

Poiché nel racconto biblico Dio è il grande costruttore dell’universo, il sommo creatore, qualsiasi opera umana deve avere un certo grado di conoscenza della suprema arte della costruzione. Alcuni studiosi ritengono che la figura archetipica del capomastro non sia Hiram Abif ma Noè, l’artefice dell’arca che sfidò il diluvio; altri ancora fanno risalire il primo germe della massoneria addirittura alla Genesi, con Adamo.

Nel XIX secolo il pittore francese James Tissot ricostruì l’incontro, avvenuto a Gerusalemme, tra Salomone e la regina dell’Arabia meridionale

L’incontro tra Salomone la regina di Saba

Si è a lungo sostenuto che i templari medievali avessero appreso la sacra arte della costruzione direttamente dai sapienti musulmani durante il loro soggiorno in Terra Santa, nel corso delle varie crociate. Dopo la soppressione dell’ordine del Tempio da parte di papa Clemente V nel 1312, i templari si sparpagliarono per tutto il continente europeo stabilendosi principalmente in Scozia, dove avrebbero creato la massoneria come un modo per permettere al disciolto ordine di sopravvivere con discrezione.

Questa ipotesi si basava sulla natura iniziatica dell’ordine dei cavalieri del Tempio – infatti i suoi membri si sottoponevano a un rituale d’iniziazione – e del sufismo islamico, le cui confraternite seguivano gli insegnamenti mistici di vari maestri, e i cui segreti e riti divennero forse parte del rituale massonico attraverso il tempio.

La costruzione del tempio di Gerusalemme. In realtà questa miniatura mostra il lavoro dei muratori intorno al 1470, quando fu dipinta

I massoni medievali

Per quanto attraenti possano essere queste leggende sull’origine della massoneria, non esiste alcuna documentazione che ne provi una nascita precedente alle corporazioni dei costruttori medievali, che costituiscono la cosiddetta massoneria operativa. I maestri muratori (maçon in francese, mason in inglese) erano organizzati in logge artigiane e si suddividevano in apprendisti e compagni. Viaggiavano insieme per costruire edifici in zone differenti e mantenevano segrete le loro tecniche per garantire la conservazione dell’arte e del lavoro. Era un modo per evitare le intrusioni di chi non aveva le competenze, ma anche per perseguire l’eccellenza nel proprio mestiere. Non per niente la massoneria era conosciuta come “l’arte reale”. Nel corso dei secoli i muratori e gli scalpellini alimentarono le proprie logge con le storie delle origini leggendarie delle rispettive professioni, la cui sacralità s’incarnava nei capolavori che erano state capaci di creare: le magnifiche cattedrali gotiche.

Per trasmettere le proprie conoscenze, i massoni medievali crearono elaborati rituali d’iniziazione, che prevedevano l’uso di parole segrete e gesti di riconoscimento reciproco e che usavano gli strumenti e il vocabolario della professione come elementi simbolici e liturgici. L’organizzazione e il funzionamento di queste associazioni erano strettamente regolati dalle cosiddette costituzioni o statuti, come l’Antica costituzione di York del 926 o gli Statuti e regolamenti dei maestri del muro e del legno di Bologna, del 1248.

    I massoni medievali crearono dei rituali d’iniziazione utilizzando gli strumenti e il vocabolario della costruzione

La nuova massoneria

Durante il XVII secolo molti intellettuali nobili e borghesi furono attratti dai rituali pittoreschi, quasi mistici, delle riunioni delle logge dei massoni operativi. Alcuni di loro furono invitati a unirsi in qualità di “massoni accettati”. In questo modo, pur non esercitando il mestiere, potevano partecipare ai rituali e alle riunioni ed essere iniziati ai segreti della loggia in modo simbolico.

Il compasso, il filo a piombo e la squadra, simboli massonici, raffigurati in questo gioiello indossato dai membri della Gran loggia di Londra. 1735.

Per alcuni storici della massoneria, questi massoni accettati, o “massoni simbolici”, per lo più intellettuali e scienziati, sarebbero il seme delle future logge speculative o simboliche. In ogni caso all’inizio del XVIII secolo cominciarono a proliferare logge dove la maggioranza dei membri era costituita da massoni accettati e la cui popolarità crebbe di pari passo con il diffondersi delle idee illuministe. All’alba dell’Età dei lumi la protezione di una loggia di massoni accettati rappresentava per qualsiasi intellettuale la miglior garanzia di poter esporre liberamente le proprie idee. Il carattere segreto dell’appartenenza alla massoneria e la mutua protezione e tolleranza tra i suoi membri garantivano uno spazio sicuro di libertà, al riparo dall’intolleranza religiosa che prevaleva in molti Paesi.

1717, l’anno decisivo

Il 24 giugno 1717, festa di san Giovanni Battista, quattro logge londinesi di massoni accettati decisero di federarsi per creare un’obbedienza o Gran loggia che avrebbe unificato i criteri e dato una struttura comune alle società che volevano aderire. Le quattro grandi logge prendevano il nome dalle taverne dove i membri si erano riuniti fino ad allora: The Crown (La corona), The Goose and Gridiron (L’oca e la griglia), The Rummer and Grapes (Il calice e l’uva) e The Apple Tree (Il melo). Quella notte nacque la Gran loggia di Londra e Westminster.

Divenne ben presto evidente che la Gran loggia aveva bisogno di norme di accesso e di funzionamento. Nel 1723 furono incaricati della redazione di tali norme i pastori protestanti James Anderson e John Theophilus Desaguliers. Videro così la luce le Costituzioni dei liberi muratori o Costituzioni di Anderson, un testo che stabilisce regole obbligatorie e una chiara differenziazione tra massoneria operativa e speculativa, e il cui scopo non è più la costruzione di templi, ma l’edificazione del tempio interiore dell’essere umano a beneficio dell’intera umanità.

L’idea di una nuova etica basata sulla fratellanza universale era connaturata alla massoneria, come indica il discorso del cavaliere Ramsay alla Gran loggia provinciale di Francia nel 1737: «Noi vogliamo raccogliere tutti gli uomini di uno Spirito illuminato, di costumi dolci e di una indole gradevole non soltanto per l’amore delle belle arti ma ancor più per i grandi principi di virtù, di scienza e di religione, in cui l’interesse della fratellanza [la massoneria] diventa quello del genere umano tutto intero, da cui tutte le nazioni possano attingere salde conoscenze e dove i sudditi di tutti i Regni possano apprendere ad amarsi mutuamente senza rinunciare alla loro Patria».

Poteva appartenere all’ordine qualsiasi uomo libero, indipendentemente dalla professione. Uno degli aspetti più importanti della massoneria era suo il carattere universale. Ecco perché, come si legge nelle Costituzioni, ai suoi membri non era richiesta alcuna credenza religiosa particolare: «Oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono». Le diverse concezioni di Dio furono condensate nella figura del Grande architetto dell’universo. Le Costituzioni di Anderson avevano il pregio di riempire di persone illuminate le logge massoniche, luoghi dov’era proibito discutere di religione e di politica. Ciò favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza tra persone diverse, un’attitudine che in termini massonici si chiamava «diffondere la luce e riunire ciò che è disperso».

    Nelle logge massoniche era vietato parlare di religione e di politica, un’attitudine che favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza

Ma questa libertà significò che molte logge tradizionali, per lo più irlandesi, che ancora conservavano il misticismo religioso, rifiutarono di unirsi alla nuova Gran loggia. Si facevano chiamare gli Antichi, in opposizione ai Moderni di Londra. Fu solo nel 1813 che il dialogo tra le due fazioni culminò nella loro unificazione in quella che oggi è la Gran loggia unita d’Inghilterra.

L’arrivo nel continente

Le prime logge dell’Europa continentale furono fondate da massoni accettati inglesi e scozzesi giacobiti (cioè sostenitori del deposto re Giacomo II d’Inghilterra) che erano emigrati in Francia. In brevissimo tempo la massoneria si diffuse in tutto il continente in veste di nuova e attraente società illuminata. Nel 1726 nacque a Parigi la loggia di san Tommaso, che ottenne il riconoscimento inglese. Poco dopo, nel 1738, la Gran loggia di Francia divenne la prima obbedienza, o associazione di logge, francese, con il duca di Antin nel ruolo di Gran maestro. Nello stesso anno papa Clemente XII emise la bolla In eminenti, che proibiva ai cattolici di entrare nella massoneria, considerandola eretica.

Alla fine del XVIII secolo la Francia aveva quasi mille logge. Con la rivoluzione francese molti massoni adottarono gli ideali repubblicani e tentarono di portarli all’interno delle logge, ma subirono anche l’attacco del Terrore giacobino durante la fase più radicale degli eventi storici. Fu Napoleone a restituire alla massoneria un ruolo di primo piano durante l’impero, spingendo molti militari ad aderirvi. Nel 1804 fece anche in modo che suo fratello Giuseppe fosse eletto Gran maestro del Grande oriente di Francia (erede della Gran loggia di Francia).

Nella maggior parte dei Paesi le bolle papali contro la massoneria non sortirono grande effetto, a eccezione della Spagna. Nel XVIII secolo l’opposizione alla massoneria nella penisola iberica era forte. L’Inquisizione perseguitò ferocemente l’associazione e nel 1751 il re Ferdinando VI la vietò. L’unica loggia esistente nella prima metà del secolo era stata fondata a Madrid dal duca di Wharton nel 1728. La loggia dei Tre fiori di giglio, detta la Matritense, era composta da massoni britannici e poteva contare sull’appoggio della Gran loggia unita d’Inghilterra. La prima loggia spagnola nacque nel 1801, ma fu fondata in suolo francese, a Brest: la Riunione spagnola, formata dai marinai di una flotta spagnola proveniente da Cadice che si unì alla marina francese per combattere contro l’Inghilterra.

In Italia, il cui territorio era diviso tra repubbliche e regni indipendenti, lo stato pontificio cercò di far rispettare le bolle di scomunica papali. Per ordine del Sant’Uffizio molte logge furono chiuse e i loro membri detenuti, come accadde nel 1790 con l’arresto di più di cento massoni. Ma la massoneria stava diventando sempre più popolare nei territori non controllati dal papa: Napoli, Sicilia, Venezia, Firenze, dove molti massoni iniziati in Inghilterra o in Francia avevano portato le varie correnti. Sia i monarchici sia i repubblicani consideravano la massoneria uno strumento patriottico per realizzare l’unità d’Italia. Nel corso del XIX secolo la massoneria italiana unificata dal Grande oriente d’Italia divenne un simbolo di libertà, e alla luce delle sue logge fiorirono eroi nazionali come Giuseppe Garibaldi.

A cavallo tra realtà e leggenda, la massoneria conserva e utilizza un gran numero di simboli appartenenti a culti e tradizioni iniziatiche del passato, il che non implica che ne sia erede. Oggi, per alcuni, l’antica confraternita è un amalgama di riti antiquati e senza senso; per altri una sfera d’influenza politica e sociale. E c’è ancora chi vede in essa una filosofia di vita e una via per migliorare quella pietra imperfetta che è l’essere umano.

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LES SYMBOLISME DU ZODIAQUE CHEZ LES PYTHAGORIENNES

René Guénon

 Le symbolisme du Zodiaque chez les Pythagoriciennes,

in Études Traditionelles, giugno 1938

Trattando la questione delle porte solstiziali ci siamo riferiti direttamente soprattutto alla tradizione indù, perché in essa i dati che vi si riferiscono sono presentati nel modo più chiaro; ma in realtà si tratta di qualcosa che è comune a tutte le tradizioni, e si può trovare anche nell’antichità occidentale. Nel Pitagorismo, in particolare, il simbolismo zodiacale sembra aver avuto un’importanza altrettanto considerevole; le espressioni ‘porta degli uomini’ e ‘porta degli dèi’, da noi usate, appartengono del resto alla tradizione greca; solo che le informazioni giunte sino a noi sono in questo caso talmente frammentarie e incomplete che la loro interpretazione può dar luogo a parecchie confusioni, che non sono mancate da parte di coloro che hanno considerato tali informazioni isolatamente e senza renderle più chiare per mezzo di un raffronto con altre tradizioni.

Anzitutto, per evitare certi equivoci, sulla posizione reciproca delle due porte, occorre ricordarsi di quanto abbiamo detto sull’applicazione del ‘senso inverso’, a seconda che le si consideri in rapporto all’ordine terrestre o all’ordine celeste: la porta solstiziale d’inverno, o il segno del Capricorno, corrisponde al nord nel ciclo annuale, ma al sud in relazione al cammino del sole nel cielo; così, la porta solstiziale d’estate, o il segno del Cancro, corrisponde al sud nel ciclo annuale, e al nord in relazione al cammino del sole. Per questo, mentre il movimento ‘ascendente’ del sole va da sud a nord e il suo movimento ‘discendente’ da nord a sud, il periodo ‘ascendente’ dell’anno dev’essere invece considerato compiersi nella direzione nord-sud, e il suo periodo’ discendente’ in quella sud-nord, come abbiamo già detto in precedenza. Proprio in rapporto a quest’ultimo punto di vista, secondo il simbolismo vedico, la porta del dêva-loka è situata verso nord e quella del pitri-loka verso sud, senza che vi sia in ciò, malgrado le apparenze, alcuna contraddizione con quello che troveremo più avanti.

Citeremo, corredandolo delle spiegazioni e rettificazioni necessarie, il riassunto dei dati pitagorici esposto da Jérôme Carcopino1: «I pitagorici» egli dice «avevano costruito tutta una teoria sui rapporti dello Zodiaco con la migrazione delle anime. A quale data risalirebbe? È impossibile saperlo. Fatto sta che nel secolo II della nostra era, essa fioriva negli scritti del pitagorico Numenio, che ci è permesso di conoscere attraverso un riassunto secco e tardivo di Proclo, nel suo commento alla Repubblica di Platone, e un’analisi, al tempo stesso più ampia e più antica, di Porfirio, nei capitoli XXI e XXII del De Antro Nympharum». Ecco, diciamolo subito, un esempio piuttosto significativo di ‘storicismo’: la verità è che non si tratta per nulla di una teoria ‘costruita’ più o meno artificialmente, a questa o quella data, dai pitagorici o da altri, a modo di una semplice opinione filosofica o di una concezione individuale qualunque; si tratta di una conoscenza tradizionale, che concerne una realtà di ordine iniziatico, e, proprio in virtù del suo carattere tradizionale, non ha e non può avere alcuna origine cronologicamente assegnabile. Sono, beninteso, considerazioni che possono sfuggire a un ‘erudito’; ma egli dovrebbe almeno capire questo: se la teoria in questione fosse stata ‘costruita dai pitagorici’, come spiegare il fatto che essa si trova dappertutto, al di fuori di ogni influenza greca, e in particolare nei testi vedici, che sono sicuramente di molto anteriori al pitagorismo? Anche questo, Carcopino, in quanto ‘specialista’ dell’antichità greco-latina, può sfortunatamente ignorarlo; ma, da quel che riferisce egli stesso in seguito, risulta che tale dato si trova già in Omero; dunque, anche presso i Greci essa era conosciuta, non diremo solo prima di Numenio, cosa fin troppo evidente, ma prima dello stesso Pitagora; si tratta di un insegnamento tradizionale che si è trasmesso in modo continuo attraverso i secoli, e poco importa la data forse ‘tardiva’ alla quale certi autori, che non hanno inventato nulla e non ne hanno mai avuto la pretesa, l’hanno formulato per iscritto in modo più o meno preciso.

Detto questo, torniamo a Proclo e a Porfirio: «I nostri due autori concordano nell’attribuire a Numenio la determinazione dei punti estremi del cielo, il tropico d’inverno, sotto il segno del Capricorno, e il tropico d’estate, sotto quello del Cancro, e nel definire, evidentemente sulle sue tracce, e sulle tracce dei ‘teologi’ che egli cita e che gli sono serviti da guide, il Cancro e il Capricorno come le due porte del cielo. Sia per discendere nella generazione, sia per risalire a Dio, le anime dovevano quindi necessariamente varcare una di esse». Per «punti estremi del cielo», espressione un po’ troppo ellittica per essere perfettamente chiara da sola, bisogna naturalmente intendere qui i punti estremi raggiunti dal sole nella sua corsa annuale, dov’esso in certo modo si arresta, da cui il nome di ‘solstizi’; a tali punti solstiziali corrispondono le due ‘porte del cielo’, il che è appunto esattamente la dottrina tradizionale che già conosciamo. Come abbiamo indicato altrove, 2 questi due punti erano talora simboleggiati – per esempio sotto il tripode di Delfi e sotto gli zoccoli dei corsieri del carro solare – dal polipo e dal delfino, che rappresentano rispettivamente il Cancro e il Capricorno. Inutile dire, d’altra parte, che gli autori in questione non hanno potuto attribuire a Numenio la determinazione stessa dei punti solstiziali, che erano noti da sempre; si sono semplicemente riferiti a lui come a uno di coloro che ne avevano parlato prima di loro, e come egli stesso si era già riferito ad altri ‘ teologi’.

Si tratta poi di precisare il ruolo proprio di ciascuna delle due porte, ed è qui che nasce la confusione:, «Secondo Proclo, Numenio le avrebbe rigidamente specializzate: per la porta del Cancro, la caduta delle anime sulla terra; per quella del Capricorno, l’ascensione delle anime nell’etere. In Porfirio, invece, è detto soltanto che il Cancro è a nord e favorevole alla discesa, il Capricorno a sud e favorevole alla salita: di modo che invece di essere strettamente assoggettate al ‘senso unico’, le anime avrebbero conservato, sia all’andata che al ritorno, una certa libertà di circolazione». La fine di questa citazione esprime, a dire il vero, un’interpretazione di cui conviene lasciare tutta la responsabilità a Carcopino; non vediamo assolutamente in cosa quel che dice Porfirio sarebbe ‘contrario’ a quel che dice Proclo; forse è formulato in modo un po’ più vago, ma sembra di fatto voler dire in fondo la stessa cosa: ciò che è «favorevole» alla discesa o alla salita deve probabilmente intendersi come ciò che la rende possibile, poiché non é molto verosimile che Porfirio abbia voluto lasciar sussistere in tal modo una specie di indeterminazione, il che, essendo incompatibile con il carattere rigoroso della scienza tradizionale, non sarebbe in ogni caso in lui che una pura e semplice prova d’ignoranza su questo punto. Comunque, è visibile che Numenio non ha fatto altro che ripetere, sulla funzione delle due porte, l’insegnamento tradizionale conosciuto; d’altra parte, se egli pone, come indica Porfirio, il Cancro a nord e il Capricorno a sud, evidentemente egli considera la loro posizione nel cielo; lo indica d’altronde abbastanza chiaramente il fatto che, in quel che precede, sono in questione i ‘ tropici ‘, che non possono avere altro significato oltre quello, e non i ‘ solstizi’, che si riferirebbero invece più direttamente al ciclo annuale; e per questo la posizione qui enunciata è inversa a quella data dal simbolismo vedico, senza tuttavia che ciò costituisca alcuna differenza reale, giacché si tratta di due punti di vista ugualmente legittimi, che si accordano perfettamente fra di loro se si è capito il loro rapporto.

Ma vedremo qualcosa di ancor più straordinario: Carcopino continua dicendo che «è difficile, in mancanza dell’originale, trarre da queste allusioni divergenti», ma che in realtà, dobbiamo aggiungere noi, sono divergenti solamente nel suo pensiero, «la vera dottrina di Numenio», che, abbiamo visto, non è la sua propria dottrina, ma soltanto l’insegnamento da lui riferito, cosa d’altronde più importante e più degna d’interesse; «ma risulta dal contesto di Porfirio che, anche esposta sotto la sua forma più elastica» – come se potesse esserci «elasticità» in un problema che è unicamente una questione di conoscenza esatta – «essa resterebbe in contraddizione con quelle di certi suoi predecessori, e, in particolare, con il sistema che alcuni più antichi pitagorici avevano fondato sulla loro interpretazione dei versi dell’Odissea in cui Omero ha descritto la ‘ grotta d’Itaca’», cioè quell’‘antro delle Ninfe’ che non è altro se non una delle raffigurazioni della ‘caverna cosmica’ di cui abbiamo parlato in precedenza. «Omero, annota Porfirio, non si è limitato a dire che la grotta aveva due porte. Egli ha specificato che una era volta al lato nord, e l’altra, più divina, al lato sud, e che si discendeva dalla porta a nord. Ma non ha indicato se si poteva scendere per la porta a sud. Dice solo: è l’entrata degli dèi. Mai l’uomo prende il cammino degli immortali». Pensiamo che questo dev’essere il testo stesso di Porfirio, e non vi vediamo la contraddizione annunciata; ma ecco ora il commento di Carcopino: «Secondo questa esegesi, si scorgono, in quel compendio, dell’universo che è l’antro delle Ninfe, le due porte che s’innalzano ai cieli e sotto le quali passano le anime, e, al contrario del linguaggio che Proclo mette in bocca a Numenio, quella a nord, il Capricorno, fu dapprima riservata all’uscita delle anime, e quella a sud, il Cancro, fu di conseguenza assegnata al loro ritorno a Dio».

Ora che abbiamo completato la citazione, possiamo facilmente renderci conto che la pretesa contraddizione, anche qui, esiste solo secondo Carcopino; c’è infatti nell’ultima frase un errore evidente, e persino un duplice errore, che sembra veramente inspiegabile. Anzitutto, è Carcopino che aggiunge di propria iniziativa la menzione del Capricorno e del Cancro; Omero, a quanto dice Porfirio, designa le due porte solo per mezzo della loro posizione a nord o a sud, senza indicare i segni zodiacali corrispondenti; ma, siccome precisa che la porta «divina» è quella a sud, bisogna concludere che è questa che corrisponde per lui al Capricorno, esattamente come per Numenio, vale a dire che anch’egli situa le due porte secondo la loro posizione nel cielo, e tale sembra quindi esser stato, in genere, il punto di vista dominante in tutta la tradizione greca, anche prima del pitagorismo. Inoltre, l’uscita delle anime dal ‘cosmo’ e il loro ‘ritorno a Dio’ sono propriamente una sola e identica cosa, di modo che Carcopino attribuisce, apparentemente senza accorgersene, lo stesso ruolo a entrambe le porte; Omero dice, tutto al contrario, che per la porta a nord si effettua la ‘discesa’, cioè l’entrata nella ‘caverna cosmica’ o, in altri termini, nel mondo della generazione e della manifestazione individuale. In quanto alla porta a sud, essa è l’uscita dal ‘cosmo’, e, di conseguenza, per essa si effettua la ‘salita’ degli esseri in via di liberazione; Omero non dice espressamente se si può anche scendere per tale. porta, ma ciò non è necessario, poiché, designandola come «entrata degli dèi», egli indica a sufficienza quali siano le ‘discese’ eccezionali che vi si effettuano, conformemente a quanto abbiamo spiegato nel nostro studio precedente. Insomma, che la posizione delle due porte sia considerata in rapporto al cammino del sole nel cielo, come nella tradizione greca, o in rapporto alle stagioni nel ciclo annuale terrestre, come nella tradizione indù, è sempre il Cancro a essere la ‘ porta degli uomini’ e il Capricorno la ‘porta degli dèi’; non può esserci in questo alcuna variazione e di fatto non ve n’è alcuna; è solo l’incomprensione degli ‘eruditi’ moderni che crede di scoprire, nei vari interpreti delle dottrine tradizionali, divergenze e contraddizioni che non vi si trovano.

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PASCOLI MASSONE

La poesia di Pascoli, come ha detto giustamente il Piromalli, “si infittisce di trame di racconto, di meditazioni sceneggiate e dialogate in cui sono spesso due tempo distinti, passato e presente che si mescolano nei generi del bozzetto, dell’idillio”.

Pascoli non è un “isolato e ingenuo profeta dell’amore, anzi andava più coscientemente e completamente accettando e promovendo l’ideologia nazionalistica della quale la stessa invocata bontà, veniva ad essere un componente”. Nel 1897 pubblica Il fanciullino , cosciente come artista “della nuova situazione politico-sociale e della nuova funzione della letteratura” che per lui è quella di “risolvere nella poesia tutto il suo mondo culturale ed umano”.

Una delle più celebri espressioni del grande poeta romagnolo sull’Istituzione è: “Massoni sono quelli che non anelano se non a fare del bene, a fare – ogni giorno, ogni secolo – meglio; veri uomini di cui si compone la vera umanità. Con le parole – e più con i fatti, e soprattutto con l’esempio – hanno cercato sempre di disarmare i rapaci e di sollevare gli oppressi; sono nella lotta, e non per la lotta; sono pacieri e non guerriglieri; non hanno altro fine che di promuovere la umanità del genere umano”.

Come ricorda il Gentile, “Pascoli fu iniziato il 22 settembre 1882 nella Loggia “Rizzoli” all’Or. di Bologna (cfr. Mille volti di Massoni di Giordano Gamberini, Roma 1975, p.181). Il verbale della sua iniziazione fu redatto da Arturo Dalmazzoni. La povertà e le traversie dovettero certo incidere sull’assiduità di quel neofita, ma le esequie massoniche e civili conchiusero non solo le testimonianze di personali convinzioni, ma pure il ciclo di un contributo muratorio essenziale, spesso reso trasparente, oltre che dalla vita, dalla poesia. Quella partecipazione aveva avuto inizio con la originaria testimonianza di tre doveri: alla Patria la vita, alla Umanità l’amore, a se stesso il rispetto: il testamento di G. P. libero muratore (L’Acacia Roma, 1951).

Di opinioni diverse e decisamente contro l’Istituzione è il Ruggio, che nel suo libro (GIAN LUIGI RUGGIO; Giovanni Pascoli – tutto il racconto della vita tormentata di un grande poeta, ed. Simoncelli, Milano 1998) fa menzioni interessanti relative ai rapporti tra Pascoli e la Massoneria, in modo particolare, neanche a farlo apposta, nel racconto degli ultimi giorni di vita del poeta, quando già il tumore che dallo stomaco si era esteso al fegato, lo stava purtroppo portando al lento e progressivo avvicinarsi alla morte.

Il Ruggio racconta l’agonia e le ultime ore del poeta, minato dal male.

“Quella sera [5 aprile, il giorno prima della morte] Maria rimase profondamente turbata, pur continuando a non disperare del tutto. A quel punto decise, però, di fargli dare una benedizione e per questo mandò Attilia al Collegio dell’Osservanza perché chiamasse padre Paolino Dall’Olio, amico di Pascoli. E qui avvenne un episodio che incrinò per sempre i rapporti col fratello Raffaele. Lui, forse temendo che l’ammalato, riprendendo coscienza, si impressionasse alla vista del sacerdote, intuendo così che era alla fine, mandò una persona con il contrordine di non far venire il religioso. Maria, nelle sue memorie, confessa, senza mezzi termini, che quel gesto l’aveva amareggiata e disgustata. Afferma che quella fu l’unica ragione per cui il fratello fu privato dei conforti religiosi che, era sicura, avrebbe desiderato. E non perché un picchetto di massoni avrebbe impedito a quel frate di salire a casa Pascoli.” (p. 339) Il fatto curioso è come invece, nella sua Introduzione alle Poesie , il Baldacci riferisca in modo simile che “Falino, il fratello [carnale] prediletto si fece scrupolo di allontanare il sacerdote che portava il viatico”.

Un’altra, comunque dubbia, versione dell’accaduto, racconta invece che il frate giunse effettivamente alla casa del poeta ormai moribondo e che, intimoritosi di fronte al volto dei tanti massoni presenti al suo capezzale, preferì tornarsene di filata al Convento.

Pascoli morì com’è noto nella sera del 6 aprile 1912, nella sua residenza bolognese. Il testo del Ruggio continua dicendo: “Dal giorno della morte fino a quando la salma non arrivò a Castelvecchio, le campane di San Niccolò suonarono a morto. Nel frattempo, don Barrè era corso a Bologna per ottenere l’autorizzazione per i funerali religiosi. Ciò si rese necessario perché era ancora vivo il ricordo di Pascoli politico, del giovane anarchico che, in gioventù, fu intimo amico dell’attivista socialista Andrea Costa. Senza poi dimenticare che aveva avuto fugaci abboccamenti con la MASSONERIA dalla quale si era ritratto quasi subito perché aveva capito che, così, avrebbe compromesso la propria libertà.” (p. 341)

Decisamente un’opinione molto discutibile. Al di là di queste fugaci notizie, rendiamo omaggio all’illustre fratello Poeta, con la sintesi della filosofia massonica di cui sono impregnate diverse sue opere.

Una poesia molto bella che pur non racchiudendo contenuti massonici è doveroso far presente è senza dubbio la lunga e toccante poesia “La morte del Papa”, contenuta nei Nuovi Poemetti del 1909, e dedicata alla morte del Papa Leone XIII, il papa forse più anti-massone per eccellenza, al secolo Vincenzo Gioachino dei conti Pecci, di Carpineto Romano, morto a Roma nel 1903 all’età di 93 anni e papa dal 1878 al 1903; successore del grande Pio IX.

Nonostante la palese ferocia con cui il Santo Padre si scagliò contro i Massoni (basti pensare alle Encicliche Humanum Genus, Inimica Vis, ecc…) il Pascoli, già iniziato da diversi anni all’Istituzione, trasmette in questi versi una dolcezza inaudita ed un amorevole cura, nel senso latino di attenzione, nei confronti dell’evento dell’aggravarsi delle condizioni di salute del Pontefice, che culmina nella chiusa (“… e con un bianco / lino la fronte gli tergea sua mamma) quando fa accenno ad un ricordo infantile del vecchio papa, facendo presente che con la morte “si ritorna fanciulli” e da qui ne seguirebbero lunghi discorsi sulla scia del Fanciullino pascoliano.

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IL NOSTRO MONDO

    IL NOSTRO MONDO

    Il progetto-desiderio di una società migliore non può basarsi che su modelli che mettano in primo piano l’uomo, non come individualità a sé stante, ma come elemento in armonia con l’universo intero. Per un Massone, questo desiderio non è un sogno utopistico per fuggire dalla realtà; ma qualcosa di pensabile, in quanto fattibile, un “sogno ad occhi aperti”, quindi, per il quale esistono i presupposti di una realizzazione. Certamente esso ha bisogno non solo di analisi concrete del potenziale di una società, ma anche, anzi principalmente, di fantasia, di creatività, di rispetto reciproco fra le genti e, perché no, di un “pensiero” dalle basi antiche e solide che conferiscano armonia a tutto ciò che ha parte in questo progetto-desiderio. Non è facile da raggiungere: esige però che ci si batta per la sua realizzazione.

    Un’era volge al termine e questi duemila anni si concludono lasciando una pesante eredità a quella successiva: deterioramento dell’ambiente, conflittualità politica fra i popoli, caduta dei valori etici e spirituali, crisi dei rapporti sociali ed interpersonali.

    Le cause che hanno innescato questa reazione a catena sono innumerevoli e assai complesse.

    Le civiltà in ascesa hanno sempre un preminente carattere sintetico tendente ad unire ciò che è separato; da quest’azione unificatrice, che i Greci esprimevano con il verbo “simballein” (mettere assieme, unire) nasce la cultura del simbolo, la civiltà simbolica.

    Dal processo inverso del “diaballein”, deriva, invece, la cultura diabolica la quale, separando ciò che era unito, provoca una reazione a catena dagli effetti devastanti che oltre ad insidiare l’armonia del vivere e a stravolgere la scala dei valori; minaccia addirittura la sopravvivenza della terra che ci ospita e ci nutre.

    Varie sono le cause che innescano questa reazione:

1) lo strapotere e la spregiudicatezza del capitale che programma i suoi interventi al solo scopo di moltiplicare i profitti, dì esasperare attraverso la competitività uno sfrenato senso egoistico, di considerare l’uomo soltanto come un semplice strumento della produzione;

2) l’attività dell’uomo che autoelettosi unico sovrano del cosmo, si sente in diritto di deturpare foreste, di far strage di fauna, di inquinare terra, acqua, e aria con i suoi veleni, di manipolare il patrimonio genetico delle piante e degli animali senza tener conto di alcun’altra legge eccetto quella del suo tornaconto personale. Così questo signore dell’universo è diventato il grande “killer” della terra e l’unico animale che distrugge l’ambiente dove vive, soggiogato dall’imperativo del profitto per cui tutto è lecito.

    Altro acceleratore del processo di disaggregazione è il voler considerare la scienza come la più importante attività umana che non ha limiti all’estensione delle sue conoscenze, con la convinzione che essa può riparare qualsiasi guasto provocato dai suoi errori.

    Non ultima tra le cause. Il “culto della superspecializzazione” che comporta una frammentazione del sapere in particelle che si vanno facendo sempre più piccole, sicché la specializzazione diventa solitudine, vera e propria alienazione.

    Eppure questo culto va diffondendosi in ogni altro settore della scienza e della cultura. Ovviamente, non s’intende svalutare la specializzazione in assoluto ma essa ha un valore reale se porta all’approfondimento di una ricerca che non prescinda da una concezione organicistica dell’unitarietà dell’uomo, da un’armonica interazione delle conoscenze, dalle leggi inviolabili della natura a cui si può comandare solo obbedendole e che non ignori neppure le esigenze della collettività, poiché, come sentenziavano gli antichi maestri di scienza che erano anche maestri di vita, “scientia sine coscientia est nihil”.

    Giovanni Cecconi e Gustavo Raffi Oggi più che mai si sente l’esigenza di tanti cambiamenti in molti campi, dall’economia (diverso rapporto uomo-ambiente, uso di energie pulite) alla politica ed alla sociologia ( superamento della concezione materialistico-meccanicistica, cooperazione e non competitività, visione cosmica e non planetaria, sviluppo di una coscienza collettiva) alla medicina (concezione olistica della persona) ed alla spiritualità (superamento delle concezioni parziali e dogmatiche, coscienza di essere tutti figli dello stesso Principio).

    Aprirsi a questa nuova coscienza è oggi una necessità improrogabile e il rendersene conto significa compiere il primo passo verso il cambiamento.

    Si avverte, quindi, la consapevolezza che tutto ciò potrà avvenire solo a seguito di un totale ribaltamento interiore dell’individuo che, necessariamente, porterà con sé anche quello esteriore: un ribaltamento che dovrà cominciare dal singolo e non essere imposto dall’alto. Considerando l’azione dì rinnovamento in questa chiave, il ruolo della Massoneria è fondamentale, indispensabile.

    Quale portatrice di un pensiero e di una tradizione iniziatica, contiene in sé principi ed insegnamenti secolari indispensabili al miglioramento dell’uomo e per formare un’etica nel vero senso della parola.

    Non sto a ricordare i cinque punti della fratellanza; ripeto solo che la Massoneria è una scuola iniziatica che segue l’esoterismo nell’insegnamento ed il simbolismo nell’arte operativa; infatti, senza una tradizione iniziatica-esoterica non esisterebbe un canale di trasmissione di luce iniziatica e senza iniziazione non potrebbe esistere alcuna forma di Massoneria.

    Essa ha il duplice scopo di favorire il perfezionamento dell’uomo e di lavorare, di conseguenza, direi naturalmente, al bene ed al progresso dell’umanità.

    Però se il primo non si realizza “massonicamente” non si conseguirà mai il secondo.

    “Un palazzo, anche se bellissimo come facciata, deve, principalmente, avere fondamenta salde, altrimenti può crollare al primo refolo di vento”.

    Per il bene dell’Umanità è perciò fondamentale che il Massone sia tale nel vero senso della parola.

    E lo è soltanto se egli vive intensamente ed interiormente la Massoneria osservandone tutti i principi, per effetto dell’iniziazione, atto attraverso cui si stabilisce, nel Massone, un nuovo principio di vita, per cui l’esistenza ricomincia, intimamente da capo.

    Nasce qui il sentiero del grande ritorno; a da qui deve nascere, poi, nel Massone l’opera attiva e la missione educatrice nei confronti dell’Umanità!

    L’origine della vita ci sussurra richiami irresistibili nel disegno svelato dalle forme semplici dei simboli: chiama a raccolta apprendisti, compagni e maestri, centro invisibile del simbolo universale: l’UMANITA’.

    La Massoneria, quindi , non è un “club” qualunque, ma qualcosa di completamente diverso.

    L’Uomo Massone non può comportarsi da “Iniziato” all’interno del Tempio e da “Non Iniziato” al di fuori di esso e cioè in ogni manifestazione della sua vita.

    Egli dovrà, quindi, all’esterno, avere un ruolo attivo, vivo, di esempio di guida, di colui che indica una via da percorrere sicché “se nel lungo cammino della vita qualcuno rimane indietro, Lui è pronto a fermarsi ed aspettarlo”.

    A questo ci porta la Massoneria, intesa nel suo significato più vero e più profondo: quello di una via spirituale resa ancor più viva ed operante dai nostro agire quotidiano avente per scopo l’evolvere dei nostri simili.

    Ecco che, allora, la Massoneria non può che avere e svolgere un ruolo di primissimo piano in questa società perché “Gli Antichi Doveri” che costituiscono le sue fondamenta non avranno mai fine.

    Doveri, ai quali occorre rispondere quotidianamente per recuperare la visione olistica del mondo: dovere inteso come imperativo morale: “agisci come se ogni tuo atto potesse essere assunto come norma universale”.

    Ecco allora che, qualunque ricerca per individuare l’etica che permetta all’Umanità di vivere con fratellanza, con uguaglianza, con la tolleranza dai propri principi interiori, con amore inteso come energia primigenia, non potrà mai prescindere da quella splendida scuola di vita che è la Massoneria.

    A riprova di quelle che sono le finalità delle Massoneria e nel servizio che il Massone dovrà compiere nei confronti dei suoi simili vorrei ricordare quanto viene detto al neofita, terminata la prova del fuoco: “Possa il vostro cuore infiammarsi d’amore per i vostri simili, possa questo amore improntare le vostre parole, le vostre azioni, il vostro avvenire…”. Non dimenticate mai il precetto universale ed eterno “non fare agli altri ciò che non vorresti fatto a te stesso e fa agli altri tutto il bene che vorresti facessero a te”.

    Dobbiamo , quindi, amare il nostro prossimo come noi stessi.

    Ma l’amore verso se stessi si realizza operando per il proprio perfezionamento e per il superamento dell’”io” che è l’essenza psicofisica dell’uomo, l’ispiratore della sua vanità e del suo animalesco egoismo. L’iniziato fa poca strada se non riesce a subordinarlo all’”atman”, cioè al “sé”.

    La Massoneria ha in sé tutti i requisiti per l’etica della vita, determinati, appunto, da quel salto di qualità compiuto dall’uomo divenuto Massone che non lo fa essere più quello di prima poiché è decisamente avviato su di un cammino evolutivo in grado di aiutare gli altri ad evolvere.

    Questo è il servizio che il Massone deve compiere avendo ben chiaro il concetto di uguaglianza, inteso come uguale diritto di tutti gli uomini a migliorarsi, e quello di tolleranza che concilia perciò uguaglianza e differenza.

    Il Massone deve avere i piedi ben piantati a terra e gli occhi sempre rivolti al cielo.

    La Massoneria ti dà la possibilità di esistere, di far tesoro di ogni attimo della vita.

    Fa quel che devi, accada quel che può.

    Giovanni Cecconi

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MASSINERIA LA STORIA

Una delle principali difficoltà in cui s’imbattono gli storici che studiano la massoneria è la presenza al suo interno di varie correnti, da quelle teiste – che accettano l’esistenza della divinità – a quelle laiche. Questo ha dato adito allo sviluppo di diverse teorie sull’origine di tale associazione, anche se il punto di partenza storico documentato sono i costruttori delle cattedrali medievali.

DALL’EGITTO AI TEMPLARI

Per la corrente più tradizionale, la massoneria è un ordine iniziatico (per entrare a far parte del quale bisogna sottoporsi a dei rituali d’iniziazione) legato alle tradizioni mistiche dell’antichità. Questo significa che la massoneria ebbe probabilmente origine da società che facevano partecipare i loro iniziati a un mistero. Secondo alcuni autori, può essere fatta risalire ai primi maestri costruttori egizi, le cui abilità tecniche erano rivestite di un carattere magico e divino. Il sapere trasmesso da maestro ad allievo per via iniziatica e segreta sarebbe giunto fino ai costruttori di cattedrali medievali. Ma questa conoscenza non si sarebbe limitata all’antica sapienza dell’Egitto. In quanto costruttori sacri di templi di tutte le religioni, i membri della massoneria avrebbero attinto dai culti mistici della Grecia e del Vicino Oriente.

Tra i riferimenti mitici indicati da alcuni autori ci sono anche le corporazioni dei costruttori dell’impero romano, i collegia fabrorum, confraternite di artigiani che riunivano i mestieri necessari a ogni tipo di costruzione e che accompagnavano le legioni nella colonizzazione di nuovi territori. La massoneria, quindi, avrebbe perpetuato l’essenza di questo sapere creando logge o confraternite di costruttori a cui solo gli iniziati potevano accedere.

Ma la leggenda più profondamente radicata è quella che colloca le origini della tradizione massonica all’epoca di Salomone, re d’Israele nel X secolo a.C. Hiram Abif, un maestro costruttore della città fenicia di Tiro, sarebbe stato il capomastro del tempio che Salomone fece erigere a Gerusalemme. Anche se nella Bibbia è menzionato solo come un artigiano straniero, nella “mitologia” massonica è il massimo responsabile della realizzazione del tempio. Una notte Hiram fu assalito da tre operai che volevano conoscere i segreti dell’architettura, ma si rifiutò di rivelarli. Venne di conseguenza ucciso e portò i suoi segreti con sé nella tomba. Per i massoni questo evento esemplifica il fatto che il cammino da percorrere per entrare nell’ordine – dall’ignoranza dell’apprendista alla saggezza del maestro – richiede sforzo e perseveranza.

Poiché nel racconto biblico Dio è il grande costruttore dell’universo, il sommo creatore, qualsiasi opera umana deve avere un certo grado di conoscenza della suprema arte della costruzione. Alcuni studiosi ritengono che la figura archetipica del capomastro non sia Hiram Abif ma Noè, l’artefice dell’arca che sfidò il diluvio; altri ancora fanno risalire il primo germe della massoneria addirittura alla Genesi, con Adamo.

Nel XIX secolo il pittore francese James Tissot ricostruì l’incontro, avvenuto a Gerusalemme, tra Salomone e la regina dell’Arabia meridionale

L’INCONTRO TRA SALOMONE LA REGINA DI SABA

Si è a lungo sostenuto che i templari medievali avessero appreso la sacra arte della costruzione direttamente dai sapienti musulmani durante il loro soggiorno in Terra Santa, nel corso delle varie crociate. Dopo la soppressione dell’ordine del Tempio da parte di papa Clemente V nel 1312, i templari si sparpagliarono per tutto il continente europeo stabilendosi principalmente in Scozia, dove avrebbero creato la massoneria come un modo per permettere al disciolto ordine di sopravvivere con discrezione.

Questa ipotesi si basava sulla natura iniziatica dell’ordine dei cavalieri del Tempio – infatti i suoi membri si sottoponevano a un rituale d’iniziazione – e del sufismo islamico, le cui confraternite seguivano gli insegnamenti mistici di vari maestri, e i cui segreti e riti divennero forse parte del rituale massonico attraverso il tempio.

La costruzione del tempio di Gerusalemme. In realtà questa miniatura mostra il lavoro dei muratori intorno al 1470, quando fu dipinta

I MASSONI MEDIEVALI

Per quanto attraenti possano essere queste leggende sull’origine della massoneria, non esiste alcuna documentazione che ne provi una nascita precedente alle corporazioni dei costruttori medievali, che costituiscono la cosiddetta massoneria operativa. I maestri muratori (maçon in francese, mason in inglese) erano organizzati in logge artigiane e si suddividevano in apprendisti e compagni. Viaggiavano insieme per costruire edifici in zone differenti e mantenevano segrete le loro tecniche per garantire la conservazione dell’arte e del lavoro. Era un modo per evitare le intrusioni di chi non aveva le competenze, ma anche per perseguire l’eccellenza nel proprio mestiere. Non per niente la massoneria era conosciuta come “l’arte reale”. Nel corso dei secoli i muratori e gli scalpellini alimentarono le proprie logge con le storie delle origini leggendarie delle rispettive professioni, la cui sacralità s’incarnava nei capolavori che erano state capaci di creare: le magnifiche cattedrali gotiche.

Per trasmettere le proprie conoscenze, i massoni medievali crearono elaborati rituali d’iniziazione, che prevedevano l’uso di parole segrete e gesti di riconoscimento reciproco e che usavano gli strumenti e il vocabolario della professione come elementi simbolici e liturgici. L’organizzazione e il funzionamento di queste associazioni erano strettamente regolati dalle cosiddette costituzioni o statuti, come l’Antica costituzione di York del 926 o gli Statuti e regolamenti dei maestri del muro e del legno di Bologna, del 1248.

    I massoni medievali crearono dei rituali d’iniziazione utilizzando gli strumenti e il vocabolario della costruzione

LA NUOVA MASSONERIA

Durante il XVII secolo molti intellettuali nobili e borghesi furono attratti dai rituali pittoreschi, quasi mistici, delle riunioni delle logge dei massoni operativi. Alcuni di loro furono invitati a unirsi in qualità di “massoni accettati”. In questo modo, pur non esercitando il mestiere, potevano partecipare ai rituali e alle riunioni ed essere iniziati ai segreti della loggia in modo simbolico.

Il compasso, il filo a piombo e la squadra, simboli massonici, raffigurati in questo gioiello indossato dai membri della Gran loggia di Londra. 1735

Il compasso, il filo a piombo e la squadra, simboli massonici, raffigurati in questo gioiello indossato dai membri della Gran loggia di Londra. 1735

Per alcuni storici della massoneria, questi massoni accettati, o “massoni simbolici”, per lo più intellettuali e scienziati, sarebbero il seme delle future logge speculative o simboliche. In ogni caso all’inizio del XVIII secolo cominciarono a proliferare logge dove la maggioranza dei membri era costituita da massoni accettati e la cui popolarità crebbe di pari passo con il diffondersi delle idee illuministe. All’alba dell’Età dei lumi la protezione di una loggia di massoni accettati rappresentava per qualsiasi intellettuale la miglior garanzia di poter esporre liberamente le proprie idee. Il carattere segreto dell’appartenenza alla massoneria e la mutua protezione e tolleranza tra i suoi membri garantivano uno spazio sicuro di libertà, al riparo dall’intolleranza religiosa che prevaleva in molti Paesi.

1717, l’anno decisivo

Il 24 giugno 1717, festa di san Giovanni Battista, quattro logge londinesi di massoni accettati decisero di federarsi per creare un’obbedienza o Gran loggia che avrebbe unificato i criteri e dato una struttura comune alle società che volevano aderire. Le quattro grandi logge prendevano il nome dalle taverne dove i membri si erano riuniti fino ad allora: The Crown (La corona), The Goose and Gridiron (L’oca e la griglia), The Rummer and Grapes (Il calice e l’uva) e The Apple Tree (Il melo). Quella notte nacque la Gran loggia di Londra e Westminster.

Divenne ben presto evidente che la Gran loggia aveva bisogno di norme di accesso e di funzionamento. Nel 1723 furono incaricati della redazione di tali norme i pastori protestanti James Anderson e John Theophilus Desaguliers. Videro così la luce le Costituzioni dei liberi muratori o Costituzioni di Anderson, un testo che stabilisce regole obbligatorie e una chiara differenziazione tra massoneria operativa e speculativa, e il cui scopo non è più la costruzione di templi, ma l’edificazione del tempio interiore dell’essere umano a beneficio dell’intera umanità. L’idea di una nuova etica basata sulla fratellanza universale era connaturata alla massoneria, come indica il discorso del cavaliere Ramsay alla Gran loggia provinciale di Francia nel 1737: «Noi vogliamo raccogliere tutti gli uomini di uno Spirito illuminato, di costumi dolci e di una indole gradevole non soltanto per l’amore delle belle arti ma ancor più per i grandi principi di virtù, di scienza e di religione, in cui l’interesse della fratellanza [la massoneria] diventa quello del genere umano tutto intero, da cui tutte le nazioni possano attingere salde conoscenze e dove i sudditi di tutti i Regni possano apprendere ad amarsi mutuamente senza rinunciare alla loro Patria».

Poteva appartenere all’ordine qualsiasi uomo libero, indipendentemente dalla professione. Uno degli aspetti più importanti della massoneria era suo il carattere universale. Ecco perché, come si legge nelle Costituzioni, ai suoi membri non era richiesta alcuna credenza religiosa particolare: «Oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono». Le diverse concezioni di Dio furono condensate nella figura del Grande architetto dell’universo. Le Costituzioni di Anderson avevano il pregio di riempire di persone illuminate le logge massoniche, luoghi dov’era proibito discutere di religione e di politica. Ciò favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza tra persone diverse, un’attitudine che in termini massonici si chiamava «diffondere la luce e riunire ciò che è disperso».

    Nelle logge massoniche era vietato parlare di religione e di politica, un’attitudine che favoriva il riconoscimento reciproco e la tolleranza

Ma questa libertà significò che molte logge tradizionali, per lo più irlandesi, che ancora conservavano il misticismo religioso, rifiutarono di unirsi alla nuova Gran loggia. Si facevano chiamare gli Antichi, in opposizione ai Moderni di Londra. Fu solo nel 1813 che il dialogo tra le due fazioni culminò nella loro unificazione in quella che oggi è la Gran loggia unita d’Inghilterra.

L’ARRIVO NEL CONTINENTE

Le prime logge dell’Europa continentale furono fondate da massoni accettati inglesi e scozzesi giacobiti (cioè sostenitori del deposto re Giacomo II d’Inghilterra) che erano emigrati in Francia. In brevissimo tempo la massoneria si diffuse in tutto il continente in veste di nuova e attraente società illuminata. Nel 1726 nacque a Parigi la loggia di san Tommaso, che ottenne il riconoscimento inglese. Poco dopo, nel 1738, la Gran loggia di Francia divenne la prima obbedienza, o associazione di logge, francese, con il duca di Antin nel ruolo di Gran maestro. Nello stesso anno papa Clemente XII emise la bolla In eminenti, che proibiva ai cattolici di entrare nella massoneria, considerandola eretica.

Alla fine del XVIII secolo la Francia aveva quasi mille logge. Con la rivoluzione francese molti massoni adottarono gli ideali repubblicani e tentarono di portarli all’interno delle logge, ma subirono anche l’attacco del Terrore giacobino durante la fase più radicale degli eventi storici. Fu Napoleone a restituire alla massoneria un ruolo di primo piano durante l’impero, spingendo molti militari ad aderirvi. Nel 1804 fece anche in modo che suo fratello Giuseppe fosse eletto Gran maestro del Grande oriente di Francia (erede della Gran loggia di Francia).

Nella maggior parte dei Paesi le bolle papali contro la massoneria non sortirono grande effetto, a eccezione della Spagna. Nel XVIII secolo l’opposizione alla massoneria nella penisola iberica era forte. L’Inquisizione perseguitò ferocemente l’associazione e nel 1751 il re Ferdinando VI la vietò. L’unica loggia esistente nella prima metà del secolo era stata fondata a Madrid dal duca di Wharton nel 1728. La loggia dei Tre fiori di giglio, detta la Matritense, era composta da massoni britannici e poteva contare sull’appoggio della Gran loggia unita d’Inghilterra. La prima loggia spagnola nacque nel 1801, ma fu fondata in suolo francese, a Brest: la Riunione spagnola, formata dai marinai di una flotta spagnola proveniente da Cadice che si unì alla marina francese per combattere contro l’Inghilterra.

In Italia, il cui territorio era diviso tra repubbliche e regni indipendenti, lo stato pontificio cercò di far rispettare le bolle di scomunica papali. Per ordine del Sant’Uffizio molte logge furono chiuse e i loro membri detenuti, come accadde nel 1790 con l’arresto di più di cento massoni. Ma la massoneria stava diventando sempre più popolare nei territori non controllati dal papa: Napoli, Sicilia, Venezia, Firenze, dove molti massoni iniziati in Inghilterra o in Francia avevano portato le varie correnti. Sia i monarchici sia i repubblicani consideravano la massoneria uno strumento patriottico per realizzare l’unità d’Italia. Nel corso del XIX secolo la massoneria italiana unificata dal Grande oriente d’Italia divenne un simbolo di libertà, e alla luce delle sue logge fiorirono eroi nazionali come Giuseppe Garibaldi.

A cavallo tra realtà e leggenda, la massoneria conserva e utilizza un gran numero di simboli appartenenti a culti e tradizioni iniziatiche del passato, il che non implica che ne sia erede. Oggi, per alcuni, l’antica confraternita è un amalgama di riti antiquati e senza senso; per altri una sfera d’influenza politica e sociale. E c’è ancora chi vede in essa una filosofia di vita e una via per migliorare quella pietra imperfetta che è l’essere umano.

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INTEGRAZIONE RAZZIALE Opportunità e difficoltà

Social network sphere – vector illustration.

INTEGRAZIONE RAZZIALE Opportunità e difficoltà

di

Vittorio Vanni

Non vi sono, oggi, argomenti, più difficili a trattare come quello dell’integrazione razziale, in quanto l’irrazionalità, l’emotività, l’egoismo, la xenofobia, inconsci o meno che siano, fanno parte del bagaglio psicologico di ognuno. Nessuno può dirsi veramente immune da impulsi biologici potenti come il sospetto, la paura, il rifiuto dell’altro, dell’alieno, dello straniero.

Chi afferma con sdegno di esserne privo molto spesso dimostra con i fatti una violenta preclusione verso alcune categorie umane o un’intolleranza, spesso feroce, verso delle categorie ideologiche che non collimano con le sue. Chi vive attivamente nelle nostre città deve riconoscere che la tentazione dell’insofferenza, del rigetto, dell’intolleranza, è spesso messa a dura prova dalle varie forme di mendicità, a volte violenta, che gli extracomunitari esercitano.

Chi subisce sulla propria pelle lo stillicidio quotidiano degli scippi, dei borseggi, dei furti, deve dimostrare continuamente a sé stesso di avere, tenacemente, la volontà di non generalizzare, di comprendere, di tollerare.

Questo, a volte, può esser più facile per chi ha dei mezzi economici per la difesa di se stesso e della propria famiglia, ma per le classi meno fortunate questo non sempre è possibile.

Quando, nei mass-media, i protagonisti di raid, punitivi o preventivi, o comunque esprimenti sentimenti di avversione contro gli extracomunitari sono intervistati, ognuno respinge con sdegno l’accusa di razzismo e nella maggior parte dei casi le affermazioni sono senz’altro sincere.

Può nascere cosi, in una nazione come la nostra, nel complesso bonaria ed ospitale, una forma nuova di razzismo, non più basata sul pregiudizio etnico, ma sulla paura di esser sottoposti ad atti di piccola o grande criminalità.

Ignorare le ragioni, a volte giustificate, di questi sentimenti della popolazione, o addirittura criminalizzarle, è un errore fatale alla convivenza ed alla comprensione dei popoli.

La volontaria cecità delle autorità politiche ed anche religiose di fronte al disagio della popolazione, cecità indotta da motivi ideologi spesso obsoleti, può produrre, alla fine, ulteriori lutti ed atrocità di cui l’umanità farebbe finalmente a meno. Il riconoscimento dei diritti dell’umanità nasce dall’equilibrio, dalla razionalità, dalla conoscenza, e non solo dal sentimento, che spesso è acritico ed a volte volubile.

Nella difficile opera dell’integrazione razziale, che attende l’Europa futura, non potranno esser misconosciuti i diritti della cittadinanza, che pretende di mantenere un benessere economico ed un’identità personale e di gruppo, che ha acquisito prezzi altissimi, pur senza farne, nel suo complesso, concetti ideologici

L’ansia acritica dell’immediata integrazione degli extracomunitari, a tutti costi, sia economici sia politici, è forse l’ultima, in ordine temporale, delle confessionalità nella storia del pensiero.

Quest’ansia, che può assumere dei caratteri funesti, contrasta nei fatti con la ragionata e cosciente affermazione del diritto d’ogni membro de l’umanità alla sussistenza ed alla dignità personali.

L’accoglienza calda, umana e gioiosa che noi italiani. in particolare, vorremmo riservare ai nostri fratelli d’ogni luogo e razza, non può prescinde] da una valutazione e pianificazione dei mezzi d’ospitalità.

Vi sono tuttavia dei valori che, pur non dimenticando le difficili realtà economiche e sociali della nostra patria, italiana ed europea, vanno comunque affermati e difesi.

Il principio dell’uguaglianza e della fratellanza fra i popoli non è oggi comunemente contestato, al contrario è divenuto un archetipo psicologico e spirituale della stragrande maggioranza dell’umanità. Ben diverse e sottili sono le variazioni dei principi con cui l’istinto primordiale, presente in tutti gli esseri umani, vorrebbe rideologizzarsi.

L’accusa di razzismo, sempre portata agli altri, naturalmente. oggi più concettualmente rozza del razzismo stesso. Per combattere le nuove forme dell’intolleranza, per procede. evolutivamente e civilmente verso l’integrazione, è necessario studiare e quindi conoscere le sue nuove maschere, le sue nuove variazioni concettuali ed ideologiche.

Le parole chiave di queste variazioni attuali, che degenerano sentimenti popolari rispettabili sono: personalità ed individualità: ritualità genetica.

La dottrina della razza, tipica della prima metà del XIX secolo era dapprima considerata come dominio dell’antropologia dell’etnologia, quando queste consideravano i popoli primitivi o più arretrati come selvaggi da ammansire e addomestica con usanze tipiche di una civiltà superiore.

Le supposte inferiorità di fatto erano quindi soggette ad igiene sociale, ma anche etica e spirituale. L’identità occidentale, affermata con la forza dal colonialismo, con la conoscenza dal scientismo, con i concetti dalla speculazione filosofica, non aveva in principio, dubbi di sorta sulla necessità etica della propria supremazia.

Il “bagaglio dell’uomo bianco”, il cui peso e gloria Kypling epicamente cantato, faceva parte dell’immaginario collettivo che nessun se non pochissimi, avrebbe messo in dubbio.

I mezzi che l’occidente evoluto usava verso i popoli ancora nell’infanzia erano la brutalità dei fucili, i bastoni e le fruste.

Il giudizio verso i dominati era lo stesso che gli antichi romani riservavano ai schiavi e, in parte, alle donne, esseri che bisognava proteggere, dominandoli.

Il positivismo ed il razionalismo scientista di quegli anni confermava gli aspe biologici ed antropologici della mentalità corrente, che si creava un mito, un’ide forza, una cristallizzazione d’energie creatrici relative agli istinti di un’epoca.

Le nazioni europee, tutte più o meno implicate nel colonialismo, si creavano così una sua giustificazione, razionale ed etica nel contempo, ai loro

interessi anti-universalistici ed anti-individualistici.

Per affermare il concetto di stato etico, tipico delle oligarchie di ogni colore politico, era necessario collegare il sentimento di nazionalità a quello, più energetico e biologico, di razza, attraverso la creazione di un “mito’ cioè ad un’idea che è più valida per la sua suggestione possibile che per la sua verità e fondatezza.

ln questo senso il razzismo è un nazionalismo potenziato, che supera i confini territoriali, giuridici, culturali. Pur opponendosi all’universalismo, non si esaurisce in semplice unità di civiltà, ma può estendersi senza limiti geografici alla ricerca, o all’affermazione, del “proprio sangue’

Questo mito, che ha segnato con una striscia di sangue il volto del nostro secolo, ha però delle evidenti limitazioni.

I popoli europei sono formati geneticamente da un meticciato bianco di cui sarebbe impossibile determinare la principale origine, sempre ammesso che questa sia o che sia importante ravvisarne le tracce.

Sarebbe oggi impossibile rilanciare l’idea di “purità o di contaminazione razziale”, ma variazioni ideologiche del razzismo, più insidiose, potrebbero ben cavalcare il disagio delle popolazioni europee di fronte all’immigrazione sempre più pressante dal Terzo Mondo.

Queste variazioni, già presenti “in nuce” nel razzismo classico, ma ripresentate insidiosamente sin dalla fine degli anni 70, potrebbero essere il maggior ostacolo all’affermazione dei diritti dell’umanità al libero spostamento e all’integrazione razziale.

Vi è, negli archetipi mentali e biologici dell’umanità, un istinto inestinguibile di sopravvivenza attraverso la specie, di mantenimento delle proprie caratteristiche fisiche e psicologiche.

Quest’istinto di natura legittimamente egoistica ha, naturalmente, delle fondate e legittime basi naturali, e si dovrebbe applicare oggi non più alla propria appartenenza “razziale” ma a quella dell’intera specie umana.

Può essere, al contrario, usato in termini opposti, per il rifiuto dell’altrui individualità, e per l’affermazione della propria maniera di vita e cultura particolare.

Se vi fosse, veramente, una civiltà superiore in termini oggettivi, è solo il contatto fra i popoli di diversa tradizione e la loro competizione non violenta che potrebbe affermarla e confermarla.

Sappiamo invece, oggi, che ogni civiltà possibile è il prodotto di una compromissione naturale fra diverse culture e modi di vivere, anche se i principi etici fondamentali devono essere comunque comuni.

Il nuovo razzismo non si lega più alle differenze genetiche, che elude come mere appartenenze materiali, ma si collega a considerazioni più sottilmente spirituali.

ln quest’ambito si presenta come una volontà di stabilire, miticamente, delle forme, dei limiti, delle individualità.

Il globalismo ed al mondialismo che si presentano insistentemente al nostro futuro, e che certamente hanno in sé dei pericoli, sono visti come l’indice di caos etnico e di snaturamento delle individualità, considerate come valore assoluto ed eterno.

Da questo punto di vista vi è una contraddizione dei termini, in quanto l’individualità è considerata, paradossalmente, come una forma comunitaria. Il razzismo, biologico o spirituale che sia, si rifiuta di considerare il singolo, in nome di un’astratta concezione di stirpe, di sangue, di tradizione. Queste hanno, in realtà, una vitalità, un’essenzialità, una sopravvivenza, quanto mai variabili, mobili, transeunti e trascendenti.

Rispettare ed affermare l’individualità di un popolo che ha, comunque, i suoi diritti non significa negare quelli dell’individualità del singolo, che nella scala dei valori etici ha valori primari, legati all’unicità momentanea della sua vita presente.

Il razzismo attuale, nel presentare la sua scala di valori etici, sociali ed economici, fa prevalere l’idea di personalità” sull’individualità, intendendo così che il “merito” può prevalere sui diritti di ognuno, anche su quelli minimali.

Il valore personale dell’intelligenza, dell’operosità, della dirittura morale non può esser messo in discussione, ma il concetto di eguaglianza non si basa su questo parametro, ma su quello degli inalienabili diritti individuali di chi ha meno intelligenza, meno operosità, meno dirittura morale.

La confusione “meritocratica” diventa razzismo quando si attribuisce agli extra-comunitari minori valori di personalità, utilità e correttezza sociale, il che può anche esser vero, ma non in relazione ai diritti minimali.

Il razzismo attuale si contrappone poi al cosiddetto “mito” democratico ed illuminista, e si schiera contro la civiltà laica e profana della società borghese, affermando che la virtù, la nobiltà, la dignità non s’impara, ma si possiede o non si possiede, secondo la razza, la stirpe, la tradizione.

E’ la consueta teoria delle élite, che, conservatrici o rivoluzionarie che siano, si autodefiniscono tali solo in valenza del successo, della forza, dell’abilità, elementi, a volte, puramente casuali, non indotti dal merito individuale e soprattutto non innati.

L’autoaffermazione del sentimento elitario, in un periodo d’estrema crisi morale, politica ed economica come il nostro, è una tentazione che può affermarsi anche in relazione al fastidio che la presenza aliena degli extracomunitari, anche se non eccessivamente numerosa, può provocare.

Ancora più pericoloso è lo scambio dialettico fra i concetti di personalità e di individualità che può diffondersi nella mentalità comune; ma il concetto di maggior efficacia del nuovo razzismo è quello di spiritualità genetica.

Le forze dell’umanità che si richiamano all’istinto, al sangue, all’ereditarietà, insomma a tutto ciò che dà forma e sostegno alla personalità, non sono viste come un’espressione individuale,  ma come appartenenti oggettivamente alla natura.

Ad esempio, l’aggressività psico-zoologica dell’uomo – che Conrad Lorenz ha evidenziato essere componente naturale ed indispensabile – come espressione individuale può esser controllata, diretta, raffinata e sublimata.

Come espressione della natura ha invece un valore innato in sé e può e deve esser usata coscientemente come forza egoica opprimente sugli altri, come un impulso inarrestabile di vita, ed in questo caso la personalità trascende la natura materiale stessa, divenendo spiritualità.

Non è più, quindi, la razza, un fattore meramente biologico, un puro dato, estraneo a qualsiasi azione creatrice dell’uomo, ma un’essenza spirituale che si manifesta sì biologicamente, ma che, intrinsecamente, si rende visibile in qualità, atteggiamenti, inclinazioni, sensibilità.

La nobiltà, come confessa Dante Alighieri, è fondamentalmente “antica ricchezza e bei costumi”, ma, essendo i bei costumi molto spesso una creazione generazionale indotta dal censo, è questo, e solo questo, che forma l’élite.

Ed è questo, fondamentalmente, il nuovo ed antico razzismo contro i diritti dell’umanità e contro l’integrazione dei popoli.

La povertà è, nello stesso tempo, inferiorità economica, intellettuale, morale. Un povero mansueto ed inoperoso è considerato la feccia dell’umanità, ma un povero ribelle ed attivo è sempre negativamente negro, albanese, marocchino, come una volta era italiano.

      censo è considerato sintomo di criminalità, ma una criminalità “sui generis”, corretta, civile, superiore, dotata di qualità, d’educazione, di superiorità. Un ricco è pulito, quindi puro, quindi spirituale, anche se di quell’ambigua spiritualità moderna delle classi privilegiate chiamata New Age. Questa afferma i diritti altrui coltivando i propri privilegi, ama profondamente la povertà ed i poveri quando quella e questa sono ben lontani, e disprezza profondamente il razzismo triviale di chi incolpa gli zingari per i furti subiti.

Ed è proprio a questa forma di neo-razzismo pseudo-spirituale cui bisogna riferirsi come al rifiorire di nuove forme d’intolleranza.

In questo torbido fine millennio le speranze di qualche decennio fa sembrano impaludarsi, la nuova realtà europea, sperata e sognata da generazioni, sembra fagocitata dal pragmatismo delle banche e delle multinazionali.

Le nuove generazioni, che in parte non accettano il cinismo imperante nel nuovo ordine, si rivolgono illusoriamente alla cosiddetta nuova spiritualità.

Movimenti neo-mistici, pseudo-religioni, sette sponsorizzate dalle industrie che necessitano di sempre nuovi bisogni, ricreano universi chiusi e falsamente elitari, volgendosi spesso ad un improbabile oriente, ad una metafisica grossamente ciarlatanesca.

Il movimento della New Age è come fiaccato da improbabili ansie escatologiche, non derivanti dalla profondità dell’inconscio collettivo quanto dall’introiezione d’archetipi prima rimossi dal consumismo degli anni ’80, e poi frustrati dalla crisi economica degli anni ’90.

I suoi corifei, apparentemente contrari alla tecnocrazia, all’inquinamento ecologico, al consumismo, al predominio delle considerazioni economiche su quelle etiche, ne rappresentano invece la loro giustificazione metafisica, dimostrando un’opposizione rivolta solo a finalità materialistiche, mentre vorrebbero così combattere l’arido positivismo delle multinazionali.

Il sacrificio della razionalità, secondo i neo-guru, è indispensabile alla scoperta della fede, dimostrando così che la New e la Old Age concordano nella volontà di controllo delle coscienze e nello sfruttamento del prossimo.

Il razzismo evoluto della post-filosofia della New Age ieri, e della Next Age oggi, è rappresentato dal presentare l’umanità come soggetta ad evoluzione spirituale individuale, il cui assommarsi, nel futuro, diverrebbe l’evoluzione spirituale dell’intera umanità.

L’indifferenza, e la riprovazione, verso le necessità razionali ed organizzative della società, lungi dal rappresentare un ‘ascetismo, ostentato ma mai dimostrato, dimostrano un fideismo incontrollato nei confronti di una fatalità preordinata verso il meglio.

Le preoccupazioni quotidiane dell’umanità, di fronte ad una realtà poco felice, diventano una discriminante fra gli esseri evoluti e quelli che lo saranno in un lontanissimo futuro.

Il responsabile senso di colpa che ogni essere umano ha nei confronti dei miliardi di esseri umani senza libertà, senza cibo, senza medicine, viene così rimosso e sublimato nel concetto che ognuno deve comunque evolvere nel suo ambito e nelle sue condizioni, senza interventi ed aiuti esterni.

La povertà, il disagio, l’ignoranza, divengono così il segnacolo di un’esistenza precedente rivolta verso la materialità e il male. Le responsabilità sono così dirette, individuali, senza attenuanti, senza • pietà se non formale, con indifferenza totale e sostanziale.

Neanche le deliranti teorie sulla superiorità biologica razziale arrivarono mai a discriminare l’essenza interiore dell’umanità, a condannare implicitamente una vita umana, spesso più infelice che colpevole.

Cos’è dunque possibile fare per professare ed attuare il diritto alla sussistenza, alla libertà, alla dignità di ogni uomo in quanto tale, e non soltanto come appartenente ad una particolare razza, cultura o civiltà?

Aumentare, prima di tutto in noi stessi, la conoscenza e la consapevolezza della “charitas” come la consideravano i romani, che non è la semplice pratica dell’elemosina, ma la coscienza profonda che gli uomini differiscono enormemente per intelligenza, cultura, maturazione, ma che sono uguali nei sentimenti, nei bisogni, nei desideri, negli affetti, nella capacità di gioire e di soffrire.

Praticare la “virtus”, che è soprattutto moderazione ed equilibrio delle passioni e, oggi, dei consumi, godendo più della propria personalità che del proprio status.

Esercitare la “fides”, che è speranza ed azione assieme, per l’affermazione di principi che, negati spesso dalla realtà esteriore, devono essere tenacemente riconquistati nella realtà interiore.

Bisogna esser consapevoli, come un buon padre di famiglia, che non sempre possiamo soddisfare i bisogni materiali di tutti, come vorremmo, ma possiamo dare a tutti dignità, offrendo attenzione e considerazione, aggiungendo alle mille lire dovute al lavavetri uno sguardo, un sorriso, una parola.

Non dovremo attribuire agli ospiti delle nostre nazioni europee più diritti di quelli che godono i nostri concittadini, perché la “bontà” o meglio il “buonismo” molto spesso è solo fittizio, e nasconde l’egoismo di chi vuol esorcizzare i propri complessi di colpa o ignorare, senza giustizia, l’equilibrato diritto di ognuno.

Dovremo pretendere dai nostri ospiti che compiano i loro doveri, e che si adattino ai costumi ed alle leggi locali con la diligenza e la pazienza dell’ultimo arrivato, nell’attesa di una generazione che possa imparare ed insegnare nuovi valori e quindi nuove tradizioni.

Solo allora avremo il diritto e la capacità di organizzare, produrre, legiferare, in favore del nostro prossimo più alieno, perché senza equilibrio, prudenza, equità, maturazione personali le nostre opere produrranno soltanto nuovi errori, dolori e tragedie all’umanità.

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IL BRESCIANO GIUSEPPE ZANARDELLI

                IL BRESCIANO GIUSEPPE ZANARDELLI

Fratelli famosi:

Il bresciano Giuseppe Zanardelli, giurista e uomo di governo. Quella che, a giusto titolo, è ricordata nei libri di storia come la “Leonessa d’Italia” può andare fiera di due tra i più illustri propri figli: all’inizio del Millennio, Arnaldo, il cui nome rimane indissolubilmente legato alla natia Brescia, e, ottocento anni dopo, Giuseppe Zanardelli.

Se il primo giganteggia dall’alto della propria fede incrollabile nella purezza della religione, reale ed unico potere spirituale solo se separato ed affrancato da quello temporale, il secondo, vissuto agli albori del Risorgimento che egli contribuisce a rendere movimento unificatore del giovane Stato italiano sovrano ed indipendente, profonde i tesori della propria scienza giuridica al servizio di un moderno Corpus iuris nazionale, in particolare nel settore penale, mentre in campo politico si rivela uno dei più convinti assertori del cavourriano Libera Chiesa in Libero Stato.

Giuseppe Zanardelli ad appena 22 anni partecipa alla rivoluzione del 1848 e l’anno seguente, durante le gloriose Dieci Giornate di Brescia, si comporta da valoroso infliggendo, proprio l’ultimo giorno, insieme ad altri pochi giovani compagni, una cocente umiliazione ad un consistente contingente delle truppe del Generale austriaco Haynau, obbligate alla resa benché molto più numerose e meglio armate.

Costretto a rifugiarsi dapprima in Toscana e, qualche anno dopo, in Svizzera non avendo mai rinunciato alle sue idee unitarie ed a cospirare, nel 1859 però da Lugano passa a Como presso Garibaldi che lo invia a Brescia in missione speciale.

Simile tempra di patriota e di uomo libero e di buoni costumi non può non accostarsi alla Libera Muratoria che tanti meriti vanta nell’affrancazione dei popoli delle dominazioni politiche, militari, confessionali: basti pensare all’opera determinante del Gran Maestro Giuseppe Garibaldi e delle migliaia di Massoni che hanno fatto l’Italia e versato il loro sangue per la libertà degli oppressi ovunque nel mondo. E’ infatti significativo della sua volontà di elevarsi spiritualmente per meglio servire gli altri che il Nostro venga iniziato il 29 febbraio 1860 all’età di 36 anni, appena un mese prima della sua elezione il 25 marzo 1860 a deputato per il Collegio di Gardone Val Trompia, soppresso il quale, sarà deputato di Iseo.

L’attività politica sempre più intensa, culminata nella nomina a Ministro dei lavori Pubblici nel Gabinetto Depretis nel 1876, poi degli Interni nel marzo 1878 nel gabinetto Cairoli suggeriscono al Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia dell’epoca, Giuseppe Mazzoni, creatore nel 1877 della Loggia “Propaganda”, di affiliarvi Giuseppe Zanardelli, così come Agostino Bertani, Nicola Fabrizi, Giovanni Bovio, Emilio Cipriani, Quirico Filopanti, Giuseppe Ceneri, Oreste Regnoli, Gaetano Tacconi, Giacomo Sani, Pietro Ripari, ai quali le occupazioni profane e professionali o politiche e l’opportunità di lungimirante discrezione impediscono di frequentare i regolari lavori di Loggia.

Ciò non impedisce al Nostro di raggiungere il 33° grado, il massimo della gerarchia del Rito Scozzese Antico ed Accettato. E dal maggio 1881 al maggio 1883 nel quarto Gabinetto di Agostino Depretis, lo Zanardelli ricopre la carica di Ministro di Grazia e Giustizia; in tale qualità, riesce con grande fermezza e alto senso di dignità nazionale, a far respingere la domanda austriaca di estradizione per i compagni di Guglielmo Oberdan.

Altro martire massone per l’unità d’Italia. Nell’ultimo Gabinetto Depretis e nei tre Gabinetti Crispi, dall’aprile 1887 al febbraio 1891, Zanardelli è di nuovo Guardasigilli ed è in quel periodo che le sue qualità di giurista e di uomo di pensiero rifulgono attraverso l’elaborazione e la promulgazione del nuovo codice penale, approvato il 1 gennaio 1890, che, a tacer d’altro, resterà pietra miliare nella civiltà giuridica universale.

L’Italia, infatti, prima tra tutte le Nazioni europee, con tale strumento ha decretato l’abolizione della pena di morte, prevista dallo Statuto Albertino, in applicazione delle teorie individualistiche propugnate da Rousseau, da Kant, e dai Massoni Filangeri, Montesquieu, ma soprattutto da Cesare Beccaria, per i quali, conformemente al pensiero liberomuratorio, l’individuo è il fine di tutta la vita e di tutta l’attività sociale.

Quarantun anni più tardi Alfredo Rocco, Guardasigilli del Regime, interprete della reattiva concezione autoritaria fascista, che considerava l’uomo non più come fine ma come mezzo, ripristinerà la pena capitale come “segno della riacquistata virilità ed energia del nostro popolo e della totale liberazione della nostra cultura politica e giuridica dall’influsso di ideologie straniere alle quali l’abolizionismo si ricongiunge direttamente” (dalla Relazione al Re per il Codice Penale del 1931).

La Costituzione democratica dell’Italia repubblicana ha giustiziato definitivamente la pena capitale riabilitando la versione illuminata di Zanardelli, formatosi alla scuola del Diritto romano da lui fatto oggetto di vera e propria venerazione, così come traspare dal discorso pronunciato come Guardasigilli il 14 marzo 1889 alla presenza del Re e della Regina in occasione della posa della prima pietra del monumentale Palazzo di Giustizia di Roma quando afferma che “in Roma e letterati di gran fama, e storici insigni, ed incomparabili capitani furono in pari tempo dotti giuristi che si illustrarono nelle lotte del Foro.

                               Ne venne che il diritto romano, oggetto di studio e di culto universale, fu recato ad una tale perfezione, da essere giustamente chiamato la ragione scritta”.

Né meno nobili sono le parole dello Zanardelli dedicate all’erigendo Tempio di quella Giustizia che egli non si limita a definire “la suprema guarentigia di tutti i diritti, l’invocata proteggitrice delle persone e dei beni dei cittadini e nel fulgore della sua indipendenza, la sicura vindice di ogni libertà” a significare l’altezza di questo superiore principio egli affermava infatti non bastare il motto inciso nel grande vestibolo del palazzo di Giustizia di Vienna, Justitia regnorum fundamentum, poiché perspicuamente intuisce che “la giustizia, idea e sentimento, impeto e ragione, scienza e coscienza, è il fine stesso delle civili società anzi il fine dell’umana esistenza, sicchè nos ad justitiam esse natos potè dire esattamente il grande oratore e filosofo di Roma Cicerone”.

Nessuno quindi più degnamente e con maggiore legittimazione del giurista massone Giuseppe Zanardelli, rievocatore delle glorie italiane eguali nel campo del diritto, può chiedere ai reali di collocare la prima pietra del Palazzo di Giustizia poiché “dagli esempi del passato i giovani devono prendere gli auspici dell’avvenire; a queste memorie devono attingere quelle virtù che Vico chiamava carattere particolare della gente romana, la fede nei propri destini”.

Simile idealista, che, con raro senso dello Stato, ha dedicato tutto se stesso fino al termine della sua vita al reggimento della cosa pubblica anche come Presidente della Camera dei Deputati e Primo Ministro, non può avvilire in una sterile contrapposizione, della quale sono invece caparbi protagonisti non pochi laici e massoni del tempo, tra i più illustri Giovanni Bovio, la querelle nata all’indomani della Breccia di Porta Pia e poi, della promulgazione della Legge delle Guarentigie che sostanzialmente abolisce il potere temporale del clero suscitando fiere proteste tra i cattolici animati da propositi di rivincita

L’orientamento del giovane Stato italiano, proteso a trasferire allo Stato i beni patrimoniali della Chiesa. È infatti frutto della concezione laica ed anticlericale ispirata anche dalla Libera Muratoria del tempo, troppo a lungo perseguitata e scomunicata. Giuseppe Zanardelli, dal canto suo, si rende promotore instancabile, fin dal 1865 in seno al Consiglio comunale e dal 1868 in quello provinciale bresciani, dello stanziamento di ingenti fondi per la realizzazione di quel monumento di bronzo, oggi ancora campeggiante a Porta Venezia nella piazza che lo ricorda, dedicato al concittadino Arnaldo del cui pensiero di fustigare fin dall’XI secolo della corruzione e del temporalismo della Chiesa di Roma egli è profondo conoscitore ed ammiratore. Tuttavia, ancorchè il “Corriere della Sera” del 14 agosto 1882 riferisca che il Ministro Zanardelli è stato applaudito fragorosamente quando ha detto che quella solenne inaugurazione è la sintesi della rivoluzione italiana, che qualche anno dopo, nel corso della seduta del 10 giugno 1887 alla Camera dei Deputati, in risposta all’interrogazione del Deputato Giovanni Bovio, timoroso che un passo dell’Allocuzione del 23 maggio indirizzata da Papa Leone XIII al Sacro Collegio possa far sospettare l’esistenza di trattative per una riconciliazione tra la Chiesa di Roma ed il Governo italiano, da più parti auspicata pur da opposte e contrastanti angolazioni, il Guardasigilli Zanardelli, da grande statista non meno che da Massone amante della propria Patria, nel rassicurare l’On. Bovio sull’esistenza di tali trattative le proprie dichiarazioni del 1883 come Ministro per i culti nella stessa aula. “Io dichiarai allora, a nome del Governo, di essere alieno da ogni persecuzione grande o piccola, di essere penetrato del massimo spirito di tolleranza, e mi piace udire che tale tendenza ha l’approvazione anche dell’On. Bovio:

ma, se da una parte ciò dichiarai, ed aggiunsi di essere pieno di rispetto per la libertà di coscienza, pieno di rispetto per i Ministri della religione e per il loro augusto Capo, quando esercitano il loro alto ministero spirituale, dichiarai in pari tempo che mi sento l’animo acceso da una cura vigile e gelosa per l’incolumità delle prerogative dello Stato, per le sacre necessità della Patria. Certamente io non desidero dissidi, non desidero il divorzio, la lotta tra la religione e la Patria.

Io vorrei un clero patriottico il quale sia animato dal sentimento della salute e della grandezza della Nazione, il quale si guardi dal suscitare discordie sociali.

Ma, affinché questi scopi non soffrano offesa io, consapevole che l’Italia, fra tutte le Nazioni d’Europa, è quella la quale colle sue leggi ha dato più ampia libertà alla Chiesa, queste leggi ho il dovere, cui non posso venir meno, di far sì che siano fedelmente e scrupolosamente osservate. Io assicuro l’On. Bovio che, quando su questo stesso tema dei rapporti tra Chiesa e Stato mi si presentano questioni discutibili, sono amico di ogni soluzione serena, equanime, liberale, conciliativa, se così volete chiamarla, ma nel medesimo tempo non posso certo consentire che lo Stato abdichi ai propri intangibili diritti, i propri immutabili doveri, abdichi la propria indeffettibile missione di luce, di progresso, di civiltà”. Giuseppe Zanardelli, dunque, è stato un grande statista, nemico del trasformismo e del compromesso, ma rispettoso nel medesimo tempo delle prerogative dello Stato così come della missione della Chiesa tanto più autorevole ed efficacemente esercitabile quanto più circoscritta alla sfera spirituale, quella stessa che l’altro grande bresciano Arnaldo le assegnava con tanta veemente passione rimanendone tuttavia trucidato ed arso.

Ma le sue ceneri si sono posate sulle Pandette di Zanardelli nutrendone tuttavia il sublime spirito di tolleranza che per sempre nella storia d’Italia e dell’Umanità illuminerà Arnaldo e Giuseppe, purissimi paladini della libertà e dell’amore fraterno.

Virgilio Gaito, Ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia.        

GRANDE ORIENTE d’ITALIA PALAZZO GIUSTINIANI

USEPPE ZANARDELLI

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DESTINO

DESTINO

              RAFFAELLA          ROMAGNOLO

Vederla che si consumava d’amore, la mente altrove, lontana da tutto ciò che non fosse l’uomo che proditoriamente s’era permesso di lasciarla anzitempo; vederla furibonda e incapace di lasciar andare ogni cosa lui avesse toccato, la berretta da notte, la tabacchiera, il rasoio, il libro dei conti, il pitale; e poi insonne e inappetente nello strazio degli ultimi giorni, quando perfino portare il bicchiere alle labbra pareva una colpevole distrazione dal pensiero fisso di lui, spinse Anita ad accelerare i preparativi per il matrimonio: amava Pietro e Pietro amava lei. Perché aspettare? Il solo fatto che la sera lui dovesse tornare a casa propria le dava il tormento. Tanto l’avviliva il distacco che, molti anni dopo, sotto le coperte, gli accarezzerà il petto disegnando piccoli cerchi e come evocando una disgrazia sorprendentemente evitata, dirà: «Ma ti ricordi quando la sera dovevi andartene? Quando non potevi accarezzarmi qui e qui e qui?»,

Nell’imminenza de] matrimonio, Pietro Ferro aveva lasciato il lavoro al Cotonificio Raggio prendendo il posto in campagna di Nino Bixio, partito per il seminario di Carcare. Con un po’ di fortuna sarebbe potuto tornare al Borgo di Dentro da scolopio, presso la stessa casa che l’aveva accolto negli anni della scuola elementare. Anche Anita aveva lasciato la Filanda Salvi: con la morte di Luigina, alla famiglia serviva una donna in casa.

Si sposarono un mercoledì di marzo del [902 alle sette e mezza del mattino. Giuseppe Garibaldi rifiutò di entrare in chiesa e rimase sul sagrato insieme agli amici del Circolo Democratico, riuniti a fumare dietro uno degli. eleganti vespasiani che, sul finir del secolo, i massoni avevano fatto installare davanti a ognuna delle sette chiese della città.

Primo Leone invece accompagnò all’altare la figlia ostentando un vistoso fazzoletto rosso nel taschino della giacca, identico a quello che stringeva il collo dello sposo.

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