SAN GIOVANNI BATTISTA E LA FESTA DEL SOLSTIZIO D’ESTATE

Giovanni Battista e la festa del Solstizio d’Estate

(TOURNIAC: Symbolisme maçonnique et tradition chrétienne, trad. di Caio Mario Aceti)

In Massoneria è consuetudine fare l’elogio di san Giovanni Battista alla “Festa Solstiziale” del 24 Giugno. Ritorna in mente un testo massonico relativo al Battista:

“Sei Tu di cui celebriamo la memoria Figlio di Zacaria, Tu che fosti inviato al Cielo per render testimonianza alla Vera Luce, Tu sei colmo dello Spirito e della Virtù di Elia, Tu sei la voce che grida nel deserto. Tu sei il Profeta dell’Altissimo e più che un profeta. Colui al quale rendesti testimonianza, Egli stesso ti ha reso testimonianza in questi termini: fra i nati da donna non è mai sorto alcuno più grande”.

Dopo un tale Giudizio, portato dalla stessa Verità, tutto è stato detto. Ma quale più nobile uso l’uomo potrebbe fare del pensiero e della parola, se non cercando di comprendere e interpretare le eterne Verità che gli sono manifestate dalle Tre Grandi Luci dispensate dal Creatore: il Libro del Mondo, che è la Squadra, la Luce interiore, che è il Compasso ed infine il Libro della Sacra Legge!

A questo scopo vogliamo trattare della parte di san Giovanni Battista. Ma, sin dall’inizio, dobbiamo insistere sulla complessità del simbolismo di san Giovanni Battista indissolubilmente legato a quello di Giovanni Evangelista. Avviene dei due san Giovanni, come dei due solstizi, delle due colonne, dei due luminari, della nascita e della morte, del passato e dell’avvenire. I due Giovanni sono dei punti limite. Il Battista chiude l’antica Legge e annuncia la Rivoluzione Cristiana. L’Evangelista chiude il Libro del Mondo con l’Apocalisse e annuncia il secondo avvento. L’uno e l’altro aprono e nessuno può chiudere. L’uno e l’altro chiudono e nessuno può aprire. Già appare che la loro funzione non è estranea al misterioso “potere delle chiavi”, legato all’iniziazione ai Piccoli Misteri con la chiave d’argento ed ai Grandi Misteri con la chiave d’oro.

L’uno è all’inizio, l’altro alla fine. Non senza ragione il Cristo dice del Battista: “I Profeti e la Legge hanno profetato sino a Giovanni” e dell’Evangelista: “Se io voglio che resti finché non ritorni”.

Dunque sono due testimoni che confermano la presenza e la permanenza delle realtà spirituali, dei legami tra un tempo e l’altro, tra una epoca e l’altra. Hanno preso, nel Cristianesimo, il posto che occupava, nella ripartizione delle feste della Roma Imperiale, il Dio Giano di cui una faccia guardava il passato, l’altra l’avvenire, mentre la faccia invisibile contemplava “l’eterno presente”. E la posizione dei due Santi alla data dei solstizi, conferisce loro una doppia parte, spirituale e cosmologica ad un tempo. Posti in tal modo alle porte solstiziali, essi sono come i pilastri del portico, né nel mondo, né fuori del mondo, né nella Loggia, né fuori della Loggia. Come la nascita e la morte non appartengono in realtà al ciclo umano, ma sono degli intermediari, così i due Giovanni hanno un volto divino ed un volto umano. Essi inquadrano il Sole di Giustizia come i solstizi inquadrano la manifestazione solare. Sono delle tangenti che delimitano questo Sole. Ai punti di tangenza,essi si confondono con lo stesso Sole. E a questo riguardo si osserverà che la vita del Battista fu come un riflesso di quella di Cristo. Nato sei mesi prima di Lui, fu messo a morte per ordine di Erode Tetrarca, pochissimo tempo prima della crocifissione, cioè verosimilmente all’età di trentatré anni. In quanto all’Evangelista, egli appare veramente come un sostituto del Maestro designato da Dante in questi termini:

“Questi è colui che giacque sopra il petto

Del nostro Pellicano, e questo fue

d’in su la croce al grande ufficio eletto”.

L’uno e l’altro sono dunque in stretto rapporto con l’inizio della Iniziazione e con la sua Fine, con la seconda nascita d’acqua battesimale e con la terza nascita del fuoco. Ma l’uno e l’altro in un certo modo si integrano alla Via, si somigliano e somigliano al Maestro per eccellenza. Donde, rispetto ad essi, il simbolismo delle parallele tangenti al cerchio che figurano nei Quadri di Loggia del Rito di York. È come una applicazione del teorema ben noto: “due linee parallele ad una terza sono parallele tra loro”. Le linee sono qui la Via, quella di cui parlano l’Antico e il Nuovo Testamento, la Via diritta che Dante abbandona a metà della sua vita, quando si trova nella foresta oscura e si prepara a discendere all’Inferno. Si osserverà ancora un altro parallelismo fatto di scambi reciproci tra i due Giovanni.

Il Battista si riferisce alla linea orizzontale, cioè alla Livella. Infatti Isaia così profetizzava la missione del Battista: “Si colmi ogni valle, ogni monte o colle si abbassi”. E al piano orizzontale si riferisce l’acqua battesimale; aspetto livellato, che corrisponde al passivo, al passato, alla luna, alla conservazione delle cose. E se il passato è morto, in compenso, la luna presiede alle nascite.

Inversamente, l’Evangelista si riferisce alla Verticale ed al Filo a Piombo. Egli sta sul Monte della Trasfigurazione, sul Monte degli Olivi e sul Calvario e non percorre il piatto deserto di Giudea. Apostolo della Luce e del Fuoco, è simboleggiato dall’Aquila. Questo carattere di verticalità e di luce gli dà un aspetto solare e Apollo, Dio del Sole e degli Oracoli, presiedeva alla vita futura, all’avvenire. Ma in compenso, il solo avvenire di cui si è certi è la morte …

Al Solstizio d’estate inizia il periodo discendente della luce e il Solstizio d’inverno segna l’inizio del periodo ascendente.

Questo complementarismo dei cicli ascendente e discendente chiama un’altra osservazione. Il nome di Giovanni ha, in ebraico, il doppio significato di Lode o “grazia” ascendente e di misericordia discendente. Così si scopre l’indicazione di una corrispondenza armoniosa tra i periodi solstiziali, tra il ritmo respiratorio dell’uomo fatto di aspirazione e di espirazione e la pulsazione spirituale incessante di lode e di misericordia dei due Giovanni, specie di incantesimo o di modulazione gregoriana che manifesta la gloria di Dio e colma l’Universo.

Ci occorreva porre in questa maniera i due san Giovanni, l’uno rispetto all’altro, per liberare più sicuramente i lineamenti del Battista. Ed ora che dire di quest’uomo selvatico, che digiuna e predica la penitenza? Dobbiamo chiederlo a lui stesso come fecero gli inviati dei Principi dei preti: “Che dici di te stesso? ““Voce di uno che grida nel deserto; preparate la via al Signore”. È forse per questa risposta che il Simbolismo massonico attribuisce l’emblema del Gallo al Battista, mentre il Pellicano è attribuito al Cristo e l’Aquila all’Evangelista? Senza dubbio, poiché il Gallo canta all’alba, nel deserto della notte, per annunciare la venuta della Luce, proprio come il Battista gridava nei luoghi deserti per annunciare l’approssimarsi della Vera Luce. Nelle Istruzioni massoniche è anche detto che la Loggia è un “luogo sacro e misterioso dove non si intese mai cane abbaiare né gallo cantare”. E questo può sorprendere. Occorre vedere in ciò il ricordo di una interdizione e di un obbligo fraterno escludente il “rinnegamento dell’alba” prima che il gallo abbia cantato “tre volte”.

Dobbiamo sottolineare anche che il Gallo è l’uccello di Mercurio, cioè di Ermete, patrono della Grande Opera ermetica. In certi riti, il gallo occupa il posto di onore nella “camera di riflessione”, sotto la forma araldica del “Gallo cantante”. Ci si ricorderà che la camera di riflessione è assimilata all’interno della terra, essa è dunque in relazione con l’idea di discesa agli inferi, di “opera al nero”, mortificazione o inizio della Grande Opera ermetica. Ciò è importante non solo in ragione del lato penitenziale della predicazione del Battista, ma anche per altre ragioni concernenti la funzione di Giovanni nel processo spirituale.

Il Gallo simboleggia ancora la fine dell’opera, o “Opera al rosso” e, a questo titolo terminale, ha una grande parte nell’ultimo grado del rito di York della Massoneria americana. Come Giovanni,si trova dunque all’inizio ed alla fine, ai limiti estremi dell’Arte. Posto nel punto più basso che è la camera di riflessione della Massoneria, o la terra nutrice, culmina nell’ultimo grado della Via e sul campanile della Chiesa. Definita così la sua posizione, offre la spiegazione di un passaggio delle Istruzioni: “Dove sta la Massoneria, sulla più alta montagna e nella più bassa valle che è la valle di Giosafat”.

Ha dunque un certo rapporto con l’Asse del Mondo.

Esiste negli Edda scandinavi un curioso testo dove si tratta di tre galli: l’uno nel cielo, l’altro sul frassino Yggdrasil e il terzo “di un nero ferruginoso che cantava in fondo alla terra, nel Palazzo della morte”. Il nero fa pensare nuovamente alla mortificazione o penitenza propria del Battista. In quanto all’aspetto ferruginoso, esso allude alla necessaria spoliazione dei metalli, simbolizzata dal modo di vestire del Battista “vestito di peli di cammello e una cintura di pelle intorno al suo fianco”.

Ma il Gallo è pure l’uccello della Vittoria. Plinio gli assegna una certa parte nella fondazione dell’Impero, presagisce il trionfo alla fine delle prove. Se canta all’ora del rinnegamento di Pietro, canta anche all’ora della Resurrezione …

Se questi commenti, senza dubbio insufficienti, ci conducono a prender coscienza della missione di Giovanni Battista, noi vediamo che la sua stazione al Solstizio d’Estate è in perfetto accordo con la sua parte, e che così nella persona del Battista, come del resto in quella dell’Evangelista, il ciclo santoriale unisce le prospettive spirituali ai dati peculiari alla Cosmologia Sacra.

Infatti, nel Solstizio d’Estate, il Sole entra nel segno del Cancro, domicilio della luna, luminare della Colonna Boaz. Nell’antica Cosmologia tradizionale, la luna simboleggiava la memoria delle cose passate o perdute, e si diceva che ciò che è perduto sulla terra si ritrova sulla luna. È così, per esempio, che nell’Orlando Furioso l’Ariosto narra la storia del cavaliere che va sulla luna a cercarvi la ragione di Orlando impazzito per amore. Ora, questo legame tra la memoria lunare da una parte, il Battista e la festa dei Massoni dall’altra, deve attirare la nostra attenzione. Non si tratta in Massoneria della ricerca della Parola Perduta? E non è l’imposizione del nome “Giovanni” al Battista che permise a suo padre Zacaria di ritrovare l’uso della parola?

Osserviamo ancora che il Cancro simboleggia il “fondo delle acque”, regione strana che san Paolo conobbe quando intraprese il viaggio che doveva condurlo a Roma. Il fondo delle acqueè rappresentato su una lama del Tarocco dove si vede un gambero sul fondo di un fiume, un cane nero ed un cane che abbaia alla luna, dalla quale cade una pioggia di germi. Si è paragonata la pioggia di lacrime dipinta sul quadro della Camera di Riflessione alla pioggia di germi ermetici che assume la stessa forma. Ma se le lacrime manifestano esteriormente il dolore, i germi, al contrario, hanno un carattere interiore benefico, che san Paolo esprime così: “Seminato nella corruzione, risusciterà nella gloria”.

Infine il Solstizio d’Estate e la porta zodiacale dell’Inferno: “Ianua Inferni”, proprio come il Solstizio d’Inverno, che apre il segno del Capricorno, è la “Porta del Cielo”, “Ianua Coeli”. E si citerà Porfirio nell’antro delle ninfe. “Il Cancro è favorevole alla discesa e il Capricorno alla salita”. Questa sentenza del filosofo neoplatonico fa eco alla parola di Giovanni Battista che diceva di Gesù: “Egli deve crescere e io diminuire”.

Tuttavia, il passaggio attraverso la porta dell’Inferno non deve essere preso in senso sfavorevole dal momento che si tratta della via iniziatica perseguita regolarmente e normalmente, al contrario. Occorre a questo riguardo rammentare le due più note discese all’Inferno della tradizione massonico-cristiana? Prima quella del Cristo. Si noterà che si tratta di un avvenimento molto misterioso, fra gli articoli di fede contenuti nel simbolo degli Apostoli, la più antica confessione di fede del Cristianesimo e la sola che sia riconosciuta all’unanimità dalle Chiese Cristiane.

Poi ricorderemo la discesa all’Inferno di Dante. Nella Divina Commedia,essa si pone all’origine dell’immenso viaggio che condurrà il Fiorentino sul monte delle Espiazioni, poi nel Paradiso Terrestre ed infine nel Paradiso Celeste. Saremmo fuori argomento se parlassimo dei numerosi incidenti che hanno fatto ritardare il Pellegrino dei tre mondi,dal momento in cui, sui passi del Cigno di Mantova, inizia il cammino aspro e selvaggio, ma occorre tuttavia ricordare gli avvenimenti narrati nei Canti IX, X, XI dell’Inferno. Dante sfugge ai tre pericoli tremendi della discesa – la caduta nella Palude, il Ritorno a ritroso e la Pietrificazione – grazie all’intervento di un “Missus”, mai nominato se non sotto il vago termine di “Un Altro” o “Un tale”. Se i commentatori hanno visto in questo personaggio ora il Cristo, ora il troiano Enea, ora l’Imperatore Enrico VII di Lussemburgo, noi abbiamo buone ragioni per pensare che questo “Missus” che apre a Dante la Porta della Città infernale, sia molto probabilmente il Santo che presiede alla Porta Solstiziale della Discesa. In quanto alla Discesa del Cristo all’Inferno, opera al nero, occorre segnalare che essa precede la Risurrezione nel Giardino, opera al bianco, e l’Ascensione, opera al rosso. Del resto, ci sono nella Bibbia altri avvenimenti che sono una prefigurazione di questo atto iniziale preliminare ad ogni “Realizzazione” e citeremo per esempio la persecuzione degli Ebrei, in Egitto, seguita dall’Esodo e dal passaggio del Mar Rosso. Si potrebbe quasi dire che tutti i viaggi di cui si parla nella Bibbia cominciano con un avvenimento che corrisponde alla discesa all’Inferno. Se quest’ultima è chiamata nei testi ermetici “eclisse”, “nero più nero del nero”, “nero corvino”, “mortificazione” o “denudazione”, parola che evoca l’abito di Giovanni Battista e quello del postulante Massone, ricordiamoci pure che l’iniziazione è sempre descritta come un viaggio. L’analogia ci conduce naturalmente a pensare che un tal viaggio comporti un rito preliminare di discesa all’inferno. Ed infatti è così.

Nei riti di iniziazione in grado di Apprendista, questa discesa è rappresentata dalla prima parte della ricezione, quella che avviene fuori della Loggia, in un luogo spesso assimilato ad una caverna sotterranea chiamata in certi riti: Camera di Preparazione e in altri, Camera di Riflessione.

Questi due nomi meriterebbero di essere esaminati accuratamente; come del resto tutti i termini massonici. Segnaliamo solamente di sfuggita che la preparazione comprende la spoliazione del recipiendario al qualesi bendano gli occhi, immergendolo così nel “nero più nero del nero”. La stessa preparazione evoca questa espressione del Battista: “Preparate la via al Signore”, mentre l’isolamento è la rappresentazione del deserto. Infine, la parola “riflessione” allude alla luce riflessa della meditazione ed alla luce riflessa della luna.

Dunque vediamo sino a qual punto il simbolismo gioannita e solstiziale può esser ricco. E quale luce porta il Testimone qualificato “Luce ardente e brillante”, guida ispirata da Elia che risuscita il Figlio della Vedova, Precursore della “Luce Intellettuale Piena d’Amore” di Dante.

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LA LIBERTA’ PER IL MASSONE

La libertà del Massone

di D. D. B.

Cosa significa essere uomo libero”?

Può sembrare una domanda superflua.

Ma lo è veramente, oppure è vero il contrario?

Fatto sta che vi è una assai diffusa tendenza a confondere

l’uomo libero con un essere privo di vincoli

e preda della più sfrenata anarchia.

1 – La nozione di libertà

La comune nozione di “libertà” sembra indicare quel particolare stato in cui viene a trovarsi un soggetto che può compiere una qualsiasi azione in modo del tutto volontario ed autonomo, al di fuori di ogni possibile influenza esterna.

Da tale definizione discende la seguente errata convinzione: un uomo è “totalmente” libero, quando può esercitare tutte le scelte possibili.

Ma esistono davvero un simile uomo ed una simile libertà?

C’è da dubitarne.

Tentando adesso di completare il concetto appena espresso, si può affermare che la nozione di “libertà” suddescritta, indica in primo luogo l’esistenza di un “soggetto” operante, che poi è il soggetto al quale la libertà viene attribuita, in secondo luogo l’esistenza di un “sistema ambientale” nel quale la libertà viene esercitata e, finalmente, attribuisce al soggetto la volontà e la capacità di agire in modo tale da far dipendere ogni sua azione esclusivamente dalla propria decisione di “fare” o di “non fare”.

Ne discende che se il concetto di libertà è astratto e assoluto, astratto ed assoluto certamente non è l’esercizio di siffatta libertà che, anzi, si associa e patteggia con la concretezza dei fatti. La libertà è dunque condizione umana “relativa” in quanto ferreamente subordinata alla “natura” del soggetto ed al “sistema ambientale” nel quale il soggetto la esercita.

Diciamo subito, come immediata conseguenza, che la libertà di un uomo è condizionata dal fatto di essere ciò che è, ovvero dal proprio speciale stato naturale che delimita i confini della sua libertà. Egli non potrà quindi compiere alcuna azione che non sia nelle sue concrete facoltà di uomo: non potrà volare come gli uccelli, respirare nell’acqua come i pesci e così via. L’osservazione è elementare, tuttavia ci fa subito comprende come la libertà intesa come valore assoluto, almeno per l’uomo, non esiste.

2 – La scelta: perdita o conquista di libertà?

Ogni volta che un uomo fa uso della propria libertà, compie necessariamente una scelta. Così facendo riduce la sua libertà, precludendosi la possibilità di effettuare altre scelte opposte o alternative.

Non sempre una scelta è obbligatoria. Alcune lo sono. Le scelte di “fare o non fare”, ad esempio, non sono in alcun modo eludibili, perché l’attività o la inattività di un soggetto, ove non esistano ostacoli esterni che le condizionino, dipendono sempre da un’unica scelta che lo stesso soggetto obbligatoriamente deve compiere: se sceglie di fare, si preclude di non fare e viceversa.

La prima scelta da compiere – anche se può sembrare tardiva poiché solitamente qualcuno ha già deciso per noi prima che raggiungessimo l’età della ragione è “se vivere da soli o se vivere con gli altri’ . Essa è inderogabile. Ed infatti, raggiunta che abbiamo una sufficiente autonomia, tale da permetterci di sottoporre un esame critico la nostra posizione nel mondo, costatiamo di trovarci di fronte ad un bivio: dobbiamo decidere se proseguire il nostro cammino da soli o insieme agli altri: alcuni, o molti, o tutti. E’quello il momento delle scelte consapevoli, di quelle scelte che segnano la nostra vita. Obbligatorio è quindi scegliere di far parte di una collettività umana oppure no. Se decidiamo vivere da anacoreti, sappiamo ciò che ci spetta, quali saranno le libertà che la nostra scelta di isolamento ci assicura e le libertà che ci vieta. Se decidiamo di vivere con gli altri, anche in questo caso sappiamo quali sono le libertà che perdiamo e quelle che acquistiamo.

Sapremo anche – ma qui il ragionamento si sposta sul terreno etico, anch’esso frutto di scelte liberamente compiute – che non sarà possibile usufruire dei vantaggi di una vita collettiva ed allo stesso tempo ignorare gli obblighi che da tale modo di vivere ci derivano.

Si scoprono così due aspetti della nostra vita: il primo ci mostra che al mestiere di vivere si associa sempre e comunque l’obbligo di compiere una scelta; il secondo ci mostra che di scelta in scelta vengono progressivamente ridotte le nostre libertà.

Non mancheremo perciò di constatare, che la nostra personalità, il nostro essere noi stessi, è frutto di scelte che abbiamo in qualche momento ed in qualche modo compiuto, non importa se sempre consapevolmente. Che è come dire con parole diverse, che abbiamo costruito noi stessi rinunciando progressivamente a più ampie libertà. E, come corollario, potremo aggiungere che tanto maggiore sarà la nostra personalità, quanto più limitati saranno gli spazi entro i quali potremo esercitare la nostra libertà.

Così facendo (o così vivendo), noi abbiamo ridotto i nostri spazi di libertà. Ma è poi vero, come un illustre filosofo della scuola di Francoforte ironicamente ebbe a dire, che per non ridurre i nostri spazi di libertà occorrerebbe scegliere di non scegliere, il che equivarrebbe a rinunciare a vivere?

Probabilmente, la nostra autentica libertà di uomini consiste nel poter liberamente scegliere le regole cui la libertà stessa dovrà essere assoggettata.

Ciò non significa che una scelta sbagliata non possa essere corretta o sostituita con altra più giusta. Diciamo piuttosto che i confini, da noi assegnati alla nostra libertà, debbono essere rispettati, poiché in caso contrario verremmo meno ad una delle regole fondamentali che ci siamo imposte: quella di onorare gli impegni che abbiamo assunto nei confronti degli altri e di noi stessi. E, neanche a farlo apposta, è questa una delle regole che definisce i limiti del nostro libero agire, da noi imposti a noi stessi con le nostre scelte etiche.

3 – Il paradosso della libertà

Se accrescere la nostra personalità significa anche restringere i confini della nostra libertà, potremo continuare a chiamarci uomini liberi quando avremo raggiunto un soddisfacente grado di maturità?

Vanno a questo punto svolte altre riflessioni sul concetto di scelta come riduzione di libertà e sul modello di uomo libero cui spesso facciamo ricorso.

In primo luogo va tenuto conto che le prospettive di libertà non possono aprirsi a trecentosessanta gradi, poichè tali particolari prospettive non sono umane.

Va inoltre tenuto conto che se è vero che col procedere delle nostre scelte l’angolatura prospettica si restringe, si amplia invece lo spazio a nostra disposizione. E’ come dire che diminuisce il numero dei campi nei quali la nostra libertà può espandersi, ma aumenta notevolmente la dimensione di ogni singolo campo residuo.

In secondo luogo va tenuto conto che un uomo libero è prima di tutto un uomo consapevole. Ed un uomo consapevole, è un uomo “maturo” che non solo ha accresciuto certe sue capacità di intendere se stesso, il mondo e la realtà che lo circonda, ma è anche uomo che durante la sua vita si è ingegnato per scegliere bene e che è ancora in grado di scegliere bene. Non vi sono speciali indicazioni da seguire per individuare un uomo libero, se non verificare princìpi ed indirizzi di natura generale, da interpretare di volta in volta con sensibilità e comprensione, con spirito di adattamento e con tolleranza, nel rigoroso rispetto del quadro di libertà individuato.

Un uomo libero non somiglierà mai ad una trottola impazzita, ma sarà ricco di esperienza, equilibrato, saggio, non facile agli entusiasmi né incline alle depressioni, sempre capace di esprimere sensatamente i propri giudizi senza cadere nei tranelli del pregiudizio e del già sentenziato.

Il paradosso è dunque il seguente: per essere uomini liberi è necessario ridurre la propria libertà.

4 – Una tipologia molto frequente: l’uomo-massa

Spesso ricorrono nei nostri discorsi alcuni termini che fanno parte di un lessico di uso frequente e tanto familiare da trascurarne talvolta il significato. Tra questi i termini: massa, uomo-massa, individuo, persona.

Per massa si intende comunemente una quantità di oggetti, riferita alla consistenza e alla dimensione materiale o numerica dell’insieme. Non le si attribuisce alcuna proprietà né alcuna qualità particolare, tantomeno organica. Quando si allude ad una “massa di uomini” il significato non cambia, resta quella che è: una quantità priva di qualsiasi accenno riferito ad una seppure tenue organizzazione. A voler essere pignoli, una proprietà la possiede ed è quella di trasformare gli uomini in oggetti: quando un uomo partecipa della massa, perde le sue caratteristiche peculiari e si trasforma da soggetto pensante ed autonomo quale è, in oggetto, in cosa, in numero, in uomo-massa. Un ben triste destino.

Proviamoci a buttar giù una schedina di tale uomo-massa.

Esso è privo di una personalità propria, incapace di possedere opinioni proprie, di esprimere giudizi propri, di assumere iniziative proprie. Come cittadino è un rimorchiato: utilizza le idee degli altri, le opinioni degli altri, è facile preda di ogni forma di persuasione occulta o palese poco importa, si presta docilmente ad ogni tipo di manipolazione, specialmente se politica o religiosa. Essendo disposto ad allinearsi e ad eseguire ordini, purché ci sia qualcuno che li impartisca, rappresenta il modello ideale per operazioni globalizzanti, anche di tipo autoritario. E’ convinto di essere libero ma, sollevato com’è dall’obbligo di pensare e di scegliere, è assai felice di non esserlo.

L’uomo-massa è un uomo che non pensa e, conseguentemente, non sceglie.

Esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere, di ciò che è un uomo.

5 – Libertà come “condizione” dell’essere o come “modo” di essere?

Quale differenza esiste tra una “massa” di uomini ed una “associazione” di uomini? Cosa distingue la “massa” dalla “associazione”?

Anche in questo caso la differenza è sostanziale: la massa si configura come insieme informe di oggetti, mentre la associazione si connota come unione di soggetti. La prima non presenta segni di strutturazione e di organicità. La seconda è strutturata ed organica. Nella prima i partecipanti perdono le loro prerogative di uomini, nella seconda le conservano e le arricchiscono. Nella prima è assente ogni manifestazione di volontà e di intenzionalità di coloro che ne fanno parte, la seconda, invece, sorge, ed è tale, per “volontà” di chi ne fa parte. La prima opera per raggiungere obiettivi che vengono scelti al suo esterno. La seconda sceglie i propri obiettivi e si organizza appositamente per raggiungerli ed inoltre, in tali frangenti, ha l’attitudine a comportarsi come un organismo collettivo.

Cos’è che conferisce organicità all’associazione?

E’ questa una domanda importante e la risposta non è da meno: a conferire organicità all’associazione sono “le regole”. Vi è un vecchio detto che conserva ancora intatta la sua antica saggezza: “senza regole non si dà alcun convento”. E perché le regole assolvano la loro funzione e conferiscano organicità alla associazione, occorre che, esse regole, vengano rispettate.

Entrare in una associazione, significa quindi accettarne le regole, e perciò anche i legami e le limitazioni che da esse derivano. In sostanza, almeno ad un primo giudizio, entrare a far parte di una associazione equivale a ridurre la propria libertà.

Ed allora che bisogno abbiamo di far parte di una associazione, se il prezzo da noi pagato è rappresentato da una quota perduta di libertà?

Perché accettare una riduzione di libertà?

Tali domande esigono risposte meditate. Va ricordato che non sempre entrare a far parte di una associazione significa accettare regole che possano limitare la nostra libertà. Assai spesso si entra in una associazione sol perché essa risponde al nostro modo di interpretare i rapporti che abbiamo col mondo e con noi stessi, sicché il nostro ingresso altro non è che la omologazione di uno stato in larga misura preesistente.

Può anche darsi che si scelga di far parte di una associazione per una intrinseca debolezza dalla quale può sorgere un vago desiderio di ricercare nuovi contatti umani, di accrescere le proprie amicizie, intessere nuovi rapporti e quindi per allontanare le minacce angosciose della solitudine, per non essere soli, od anche per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza, per capire qualcosa di più del mondo, per arricchire i nostri punti di osservazione, per affinare le nostre capacità di giudizio.

E’ curioso – e qui il paradosso si riconferma – ma. talvolta, per aumentare la nostra libertà si rende necessario… ridurla.

6 – Libertà come regola di vita

Per comprendere pienamente il significato di questa frase, occorre far ricorso alla nozione di “disciplina”.

In senso lato, tale parola significa rispetto ed obbedienza verso un potere costituito. Nel senso che indichiamo noi, significa individuazione di un ordine e rispetto delle regole che lo governano. In questo senso la disciplina diviene disciplina di libertà. Essa consente di dare un indirizzo alla nostra vita, di non disperdere ed anzi di accrescere le nostre energie ordinandole ed utilizzandole per gli scopi che intendiamo raggiungere.

Se decidere di far parte di una determinata collettività significa anche contrarre alcuni obblighi derivanti direttamente dal nuovo stato associativo – e, in ultima analisi, ciò equivale ad abbassare il proprio grado di libertà – non c’è da meravigliarsi se appartenere alla Massoneria ugualmente significhi aver contratto degli obblighi ed avere abbassato il proprio grado di libertà.

Ma quali sono le fondamentali richieste che questa istituzione rivolge ai propri adepti e delle quali pretende il più assoluto rispetto?

La Massoneria richiede che i propri adepti, siano uomini LIBERI E DI BUONI COSTUMI. Si tratta di qualità che rientrano nel quadro dei valori etici propri della Massoneria.

“Libero”, per la Massoneria significa non assoggettato a vincoli che possano impedire la libera costruzione del proprio pensiero, la sua piena manifestazione e, coprattutto, che ostacolino l’attuazione pratica dei princìpi di Fratellanza e di Tolleranza, i valori fondamentali su cui si costruisce l’ampio e complesso edificio massonico, il Tempio stesso della Massoneria e il Tempio interiore di ogni massone.

Egli dovrà aver bandito per sempre ogni atteggiamento di faziosità e di intolleranza e dovrà essere sempre pronto ad intendere le ragioni degli altri, anche se non sarà obbligato a seguirle. Per la Massoneria essere libero, significa essere affrancato da condizionamenti, soprattutto dello spirito.

“Di buoni costumi”, si dice di uomo che ha fatto scelte di vita limitative della propria libertà, in seguito alle quali egli assume atteggiamenti moralmente apprezzabili nei confronti di se stesso e degli altri.

Riassumendo, siamo di fronte ad uomo che ha scelto non già la libertà di fare qualunque cosa, ma di fare solo quelle cose che sono compatibili con la scelta, assorbente, di essere massone, da lui stesso consapevolmente compiuta.

E, a scanso di qualsiasi equivoco, è bene ricordare che si tratta di scelte di carattere esclusivamente etico, prima fra tutte la scelta severamente condizionante di essere uomo di “buoni costumi” estesa ad ogni possibile manifestazione del suo agire.

Altri condizionamenti non esistono, perché tali non possono essere definiti quelli discendenti dalle norme, necessarie, che regolano i rapporti tra i massoni e tra i massoni e la Comunione massonica di cui fanno parte. Non nella religione, per la quale al massone viene unicamente richiesto il requisito minimale della credenza nell’Essere Supremo, simbolicamente indicato come G.A.D.U. Non nella politica, non nella scienza, non nella filosofia, ritenute, per quello che esse effettivamente sono, strumenti del vivere e del conoscere.

(tratto da HIRAM, N.5/6-7/8 maggio/agosto 1991 – Soc. Eras

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LA SCIENZA DELLLA CONOSCIENZA……IL DOLORE E LA GIOIA

La Scienza della coscienza e…

… il dolore e la gioia

Autore: Nello Mangiameli

Il dolore e la gioia sono due stati coscienziali che troviamo in ogni Io e che molti credono e sentono di conoscere profondamente, di sapere che cosa siano. Sviluppando questo articolo ci accorgeremo che, forse, qualcosa potrebbe esserci sfuggito.

          Letteralmente, il dolore può essere interpretato come sensazione di sofferenza fisica .

Dal latino dolere = che vale lo stesso,

dalla radice dar = dal, dol che significa spezzare, scindere.

Il dolore è un processo che spezza, che dilania.

          Altrettanto letteralmente, la gioia può essere interpretata come sentimento di piena e viva soddisfazione dell’Io.

Dal latino, gaudia che significa gaudio, allegrezza

o da

jocum = Jocus, gioco, tutto ciò che produce voluttà e piacere.

          E’ molto frequente trovare persone che riferiscono di avere paura, di temere il dolore e che mettono in dubbio la capacità di sopportarlo. Allo stesso modo, è molto frequente incontrare Io che riferiscono di avere il desiderio, di essere orientati verso la gioia, la felicità e che lottano per dare continuità a questo stato dell’Io e del corpo.

          Il dolore è spesso collegato al punto morte: e entrambi per l’Io, rappresentano situazioni dalle quali possono nascere grandi crisi.

          Invece, la gioia è spesso collegata alla vita e costituisce nell’Io situazioni verso le quali si tende, tanto da cercarla sempre anche e soprattutto in presenza di momenti dolorosi.

          Ma, ci siamo mai chiesti se dietro gli stati coscienziali del dolore e della gioia ci siano dei significati psichici ed energetici da conoscere, attraverso il vissuto e di cui potremmo non essere consapevoli?

          Per conoscere i significati della gioia e del dolore, è necessario vivere e riconoscere il fatto che essi non possono essere compresi, penetrati, attraverso spiegazioni intellettuali, culturali, così come ogni altro stato coscienziale. Ma possono iniziare ad essere penetrati, indagandoli da dentro, attraverso l’Io, osservandoli mentre si formano, mentre nascono dal profondo di noi stessi.

          Se lo stato di dolore e di gioia nascono, ci sarà pure qualcosa che li produrrà (lo stesso vale per gli altri stati coscienziali). Il fluire del vivere e del morire, le diverse situazioni di vita, spesso vengono scambiate con ciò che produce il dolore o la gioia, è una delle proiezioni che è necessario risalire e trasformare.

          Ogni stato coscienziale proviene dalla fisiologia strutturale che lo fa nascere, indipendentemente da ciò che sembra innescarlo.

          Il dolore e la gioia potrebbero quindi, in questo senso, manifestarsi contemporaneamente sul piano cosciente della consapevolezza, anche se questo a molti potrà sembrare assurdo.

          Annie Besant nel suo Sapienza antica ci dice:

“In una entità perfettamente armonizzata il dolore non può esistere….con il cessare della lotta, cessa prima il dolore, poiché questo deriva dal disaccordo dall’alternarsi dei momenti antagonistici…”.

          Alla frase della Besant, io aggiungerei anche la gioia e non solo il dolore. Spiego: uno stato coscienziale può nascere perché il corpo è acceso, vivo, se così non fosse quel corpo non potrebbe produrre quegli stati. Quindi, l’elemento fondamentale è che il corpo sia vivo, vitale per produrre stati coscienziali. La vitalità-Animazione è la forza fondamentale che racchiude in sè i due stati di cui stiamo trattando.

          Essendo la vitalità-Animazione un campo unico, collegato, ne risulta (e lo si vede attraverso l’esperienza diretta), che sia il dolore che la gioia, alla fonte fanno parte della stessa energia Animante, vitale, che li produce e li contiene. Lì, dove si formano, hanno caratteristiche strutturali differenti dalle funzioni e dalle caratteristiche che assumono, quando appunto diventano il dolore, la gioia come comunemente li intendiamo.

        Sono una riduzione della funzione Animante che li produce: un’incarnazione della vitalità-Animazione.

          L’identificazione e la dipendenza da opposizione che abbiamo di solito verso il dolore, e l’identificazione e la dipendenza da accettazione che abbiamo di solito verso la gioia fanno parte degli elementi primari, da Risalire.

          Lo stato di inconsapevolezza dell’Io rispetto alla scaturigine del dolore e della gioia ci costringe in una condizione di identificazione nel processo doloroso e gioioso acquisito che coinciderà con uno stato di non identificazione e quindi non consapevolezza del processo di fisiologia energetica da cui nasce. Ancora una volta è questa la frattura, “l’antagonismo” fondamentale, ossia lo spazio dove dolore e gioia si somatizzano, nascono. Se non si arriva ad essere consapevoli attraverso il vissuto diretto del campo morfo-atomico-coscienziale ( la vitalità-Animazione) il dolore e la gioia, il loro rincorrersi, la loro enantiodromia sarà inevitabile!

          Fino a che la nostra capacità di risalita non sarà in circolo, saremo costretti ad accettare la presenza del dolore e della gioia nella nostra vita.

          Ed ancora. Per la scienza della Coscienza, l’obiettivo da raggiungere non è quindi la gioia e la beatitudine (come per millenni ingenuamente, esperti e maestri hanno ritenuto), bensì la forma oltre il dualismo, la dicotomia da cui sia il dolore che la gioia, questi opposti-complementari, nascon

          La gioia, la felicità, sono stati coscienziali che hanno in sé aspetti perversi e subdoli ancor più del dolore. Si può manifestare in due modi: ricerca di piaceri, sensazioni, emozioni, istinti, godimenti, o attraverso il raggiungimento di uno stato di quiete, di pace ad ogni costo. Può essere perversa, perché si manifesta in maniera allettante, desiderabile: un orgasmo in circolo, o similari, è spesso molto ambito. Il punto è che questa loro intensità di piacere e di beatitudine nasconde ai meno esperti la realtà strutturale pre-gioia da cui nasce, e subdolamente concorre a fissare di più l’identificazione dell’Io in un aspetto della dicotomia che stiamo tentando di Risalire.

          A differenza del dolore che, istintivamente e ostinatamente, cerchiamo di mettere in remissione. Per la gioia cerchiamo di fissarla, ed è questo uno dei motivi che sta perpetuando la dualità, la dicotomia, e sta legittimando la noiosa querelle della lotta tra bene e male che probabilmente non è mai esistita, se non per le proiezioni dell’Io acquisito.

          Il primo suggerimento pratico che emerge è quello di applicare i principi della Risalita sia al dolore che alla gioia, dopo averli vissuti direttamente e quindi conosciuti nelle loro caratteristiche. Non si può risalire e trasformare qualcosa che non si conosce, di cui non si ha consapevolezza. Dove, per Risalire, intendo come base la percezione interiore diretta ed inequivocabile, luogo dove stato coscienziale (dolore e gioia o altro) e fisiologia strutturale che li fa nascere sono all’opera, quel punto è spesso percepibile interiormente come uno specifico fluire di bioluminescenze (attività bio-chimica, bio-elettrica) assumenti specifiche forme. Da lì, risalendo ancora si arriva alla percezione di energie rigorosamente autonome e indipendenti dal dolore e dalla gioia: il luogo dell’autonomia reale dallo stato coscienziale.

          Per fare questo, si parte sempre dalle nostre reazioni, dal fatto “oggettivo” che ha suscitato la gioia o il dolore.

          In questo senso, si possono indurre delle nevrosi di tipo iatrogeno nelle persone, quando si danno loro indicazioni verso una componente, il bene, l’amore, la gioia, o l’indicazione opposta verso il dolore.

          Le sensazioni sovrasensibili che si provano quando si esplora consapevolmente il,campo morfo-atomico-coscienziale, non sono paragonabili alle sensazioni riflesse e ridotte che ci permettiamo di vivere nel sensibile, che riconosciamo.

          E’ difficile trovare una denominazione adatta, ma poco male, ognuno raggiungendo quello stato potrà denominarlo come vuole.

          Il discernimento è sempre tra strutturale e forma acquisita: rappresentano un campo unico, ma distinguerli permette processi di autoconsapevolezza.

Lo stato di un Io dipende dal luogo in cui si ferma o si identifica. Non importa quale significato assumano il dolore e la gioia per ogni singolo Io, se sono più o meno intensi, legati o no a quel vestito. Quello che importa è la loro conoscenza vissuta e la loro risalita.

          Io integrerei le quattro nobili verità del Buddha in questo modo:

L’esistenza del dolore con

“l’esistenza del dolore e della gioia”.

L’origine del dolore con

“l’origine del  dolore

“La cessazione del dolore e della gioia”.

La via che conduce alla cessazione del dolore con

“la via che conduce alla cessazione del dolore e della gioia.

La cessazione del dolore ha come figlio la gioia; la cessazione della gioia ha come figlio il dolore: la cessazione di entrambi, come risalita alla loro fonte, coincide con nuove forme di consapevolezza.

Ed ancora di più: le applicherei ad ogni stato coscienziale e ad ogni opposto-complementare, come accade nella formazione che seguiamo.

     Per non essere frainteso, ovviamente, la Risalita non significa eliminare ogni stato coscienziale, ma vivere lo strutturale da cui nasce e di immettere questa consapevolezza a sostegno dello stesso, ossia trasmutandolo in altre forme e in altre intensità.

     Di questi nuovi Io e nuove società mi riservo di parlare dettagliatamente nei miei prossimi nuovi articoli.

     Il metodo che ci offre il Buddha per superare il dolore è quello del

“distacco e del graduale ritiro o disidentificazione dell’Io fenomenico dal mondo sensibile che ci tiene legati al piano dell’illusione”.

     In questo, c’è una gravissima forma di superficialità: il corpo è unico, esiste, non si tratta di illusione, ma di una realtà funzionale e necessaria! Non si tratta di disidentificazioni dall’Io fenomenico (acquisito), perché è un illusione bensì di prendere consapevolezza del sovrasensibile da reimmettere consapevolmente sul piano fenomenico acquisito, per trasmutarlo e Animarlo, determinando profonde trasformazioni dello stato di autoconsapevolezza dell’unico corpo.

 E poi, nel Buddismo non sono stati in grado di riconoscere che lo stesso superamento andrebbe applicato anche alla gioia, alla felicità, visto che parlano di dualità, di dicotomia.

     Se le cose sono dicotomiche, si rivolgono sia al dolore che alla gioia, sia all’amore che all’odio, sia alla materia che allo spirito e così via.

     Vissuto diretto, Risalita e trasmutazione del dolore e della gioia sono tre momenti del processo di presa di consapevolezza dell’Io.

     Si può trovare forza sia dal dolore che dalla gioia, arrivando a vivere i potenziali enormi che li fanno nascere. Per la Scienza della Coscienza è questa risalita, il mezzo per risvegliare la coscienza di ipersensibilità e facoltà creatrici al di fuori del dolore e della gioia.

     Non si tratta di perdere le intensità che il campo istintivo-emozionale ci permette di vivere, ma di potenziare le sensazioni in maniera ai più, nemmeno pensabile. Quindi nessuna paura, lo strutturale nel sensibile è un amplificatore del sentire, del volere, del concettualizzare, dell’immaginare, in un’unica parola del creare.

     Il dolore e la gioia sono due stati coscienziali che, unitamente a tutti gli altri, costituiscono la porta da attraversare per raggiungere il sovrasensibile.

     Un dolore corporeo è anche psichico ed energetico e viceversa, ed è anche dell’unico corpo: tutto è collegato.

     L’identificazione nel dolore o nella gioia proseguirà fino a che non si ravvedrà la necessità assoluta della sua Risalita: tante gioie e dolori dovremo attraversare ancora prima di entrare in nuove forme di comunicazione con noi stessi: l’unico corpo.

     Le cause possibili del permanere del dolore e della gioia sono:

    l’assenza di Risalita nell’azione;

    l’inconsapevolezza delle energie formatrici del dolore e della gioia;

    l’identificazione conseguente.

E’ questo il segreto: il dolore e la gioia sono delle porte d’ingresso al sovrasensibile reale, e come per ogni porta ne va conosciuta la dislocazione per attraversarla (consapevolmente).

          Se faremo questo, sapremo e vivremo che da questi attraversamenti si sprigioneranno le potenze intuitive e creatrici che potremo con continuità mettere a disposizione dell’Io.

          L’unico corpo, gli Universi, nella sua componente acquisita ha in sé tutto il dolore e tutta la gioia praticati da ogni singolo Io.

          Ancora una volta, la presa di consapevolezza del singolo entrerà in circolo, sarà memorizzata dall’unico corpo e questo sarà un piano potenziale attingibile a cui ognuno potrà attingere.

          Il campo morfo-atomico-coscienziale ed i suoi archetipi creatori sono presenti alla radice–essenza dell’unico corpo, il cammino verso il suo raggiungimento vissuto può essere difficile, ma la Risalita è inevitabile, sarà un’opera d’arte dell’Io.

          L’Io, la coscienza, ha in sé il potere di creazione.

          Nelle religioni, nelle scuole esoteriche si è data sempre molta importanza alla gioia, e i grandi mistici, i Santi e gli iniziati di tutti i tempi credevano di avere intuito che la gioia rivelasse uno stato di grazia e la sofferenza uno stato di oscurità e di chiusura, determinando così, spero inconsapevolmente, un incredibile aumento della dualità, del conflitto, dell’identificazione e della lotta, questa sì, illusoria tra i due opposti.

          Nel contempo, però, questo errore proiettivo ha consentito forgiature e variazioni più forti, funzionali a far riconoscere la necessità di Risalita.

          Tutto, qualunque azione, ha in sé un messaggio strutturale, una funzione, che deve essere riconosciuta.

Nello MANGIAMELI

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LE INIZIATIVE DELLA LOGGIA LEONESSAA ARNALDO n. 051

Le iniziative della Loggia Leonessa-Arnaldo n.951:

                        Tra passato e presente alla ricerca dell’uomo

Nel mese di giugno 2000 la Loggia Leonessa-Arnaldo n.951 ha organizzato due giornate di studio presso il Parco Archeologico di Naquane in Valcamonica sul tema I Camuni e i loro riti.

Il consenso alla manifestazione è stato notevole ed anche la stampa locale si è voluta occupare dell’avvenimento.

Numerosi ed interessanti sono stati gli argomenti trattati durante i lavori congressuali, dei quali presentiamo qui una sintesi.

“Istintivo è nell’uomo il desiderio di fissare i suoi pensieri, i suoi sentimenti, l’immagine degli oggetti che più hanno colpito la sua fantasia in una forma che risulti concreta, che possa essere vista e che possa essere compresa dai suoi simili”.

“Le incisioni rupestri della Valcamonica ” – Emanuele Suss – 1958″

Nell’anno 738 dell’era romana, 16 prima dell’era volgare, il console Pubblio Silio conquistando Vannia, l’odierna Cividate Camuno, trasmetteva inconsapevolmente alla storia il ricordo degli antichi abitanti di questa vallata.

Roma, infatti, denominati gli stessi come “Kemuni” ossia adoratori della divinità celtica del dio dei boschi (roccia 70 di Naquane), li annetteva all’impero e concedeva agli stessi la cittadinanza.

Molti furono i culti che vennero introdotti dai “conquistatori” romani: nella Civitas camunnorum fu innalzato il tempio a Giunone, in Esine si adorò Ercole, a Breno si adorò il Dio Sole, a Bienno si adorò la Dea Luna, come si tramanda in un medaglione argenteo ritrovato in loco, rappresentata seduta sopra un cocchio volante tirato dai cervi (l’animale sacro dei camuni).

Ancora oggi rimane vivo nella dizione toponomastica locale il ricordo di questi eventi, basti pensare che il manufatto della vecchia strada statale che supera, a meridione di Breno, il corso del fiume Oglio è denominato come “ponte della Minerva” stante la presenza di un sacello dedicato a questa divinità ora inglobato nella struttura della vecchia chiesa della “Madonna”. Dove non arrivò l’attività edificatoria cristiana a distruggere o a trasformare preesistenti luoghi di culto fu la tradizione popolare a conservarne la sacralità identificando molte alture o “Koren” (termine celtico che indica un luogo roccioso sopraelevato) come “dei Pagà”, ossia rocce dei pagani.

Questi luoghi furono per molto tempo circondati da un aurea diabolica tenacemente messa in opera dal clero cattolico che inibì al popolo di conoscere queste rocce istoriate con misteriose rappresentazioni animali, simboliche ed antropomorfe.

L’inquisizione fece ardere in valle molti roghi per punire coloro che celebravano strane credenze o solo si avventuravano per i “Koren dei pagà”.

Così infatti ci ricorda Padre Gregorio di Vallecamonica nel suo libro “Curiosj trattenimenti continenti ragguagli sacri e profani de’ popoli Camuni” edito in Venezia nel 1698: “Furono nell’anno di grazia 1518 abbruciate molte infelici donne che fatto han morir homini infiniti con polvere avuta dal demonio e sparsa in aria a provocar procelle”.

Nei luoghi impossibili da bandire al popolo della valle e dove si scorgevano incisioni antiche sulle rocce furono aggiunte, in epoca medioevale, croci, immagini del Cristo o di santi per velarne il primordiale contenuto e sviare il pensiero degli osservatori verso la nuova religione.

Così queste manifestazioni incisorie dei nostri progenitori rimasero mute testimonianze di un mondo scomparso fino agli inizi del 1900 quando il Prof. Marro, egittologo torinese, Senatore del Regno, iniziò ad occuparsene in occasione delle sue vacanze estive in Valle. Ma questa oramai è storia dei nostri giorni e, per utilità, vorremmo lasciarla alla voce dei profani che ci condurranno, svolgendo un ampia analisi stilistica e cronologica dell’arte rupestre, nella visita di domani alle incisioni di Naquane.

E’ tempo dunque di lavorare massonicamente su alcune tematiche care alla nostra Comunione.

Lasciamo il compito di introdurci nella tematica alle parole della Prof. Cristina Citroni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Universita degli Studi di Bologna:

“In questa analisi – afferma la stessa in un suo scritto – si vogliono leggere alcune incisioni rupestri della Val Camonica alla luce del loro significato simbolico, cioè si tenta di vedere nelle immagini rappresentate concetti e pensieri, più che semplici disegni – «fotografie» della realtà quotidiana”. Si ipotizza cioè che le figure rappresentate: cervi, oggetti, armi, ecc., alludano anche a qualcosa d’altro, a un significato metaforico, forse ad un sapere segreto – ma non irraggiungibile (a che scopo, infatti, fare tanta fatica per incidere sulla roccia?) – celato nel simbolo evocato dall’immagine. In quest’ottica si ritiene che parte delle incisioni camune rappresentino simboli di iniziazione sciamanica verso la conoscenza e l’autorealizzazione.

Le incisioni neolitiche, ossia le più antiche che si possano incontrare a Capo di Ponte, parlando decisamente un linguaggio archetipale, inteso nell’accezione di universale, ci forniscono una visione “trascendentale” del mondo e dell’uomo molto diffusa nelle culture preistoriche.

Sulla roccia 50 del parco nazionale di Naquane si trovano rappresentati vari simboli perfettamente orientati, ossia posti verso est:

– il disco solare rappresentato sulla sommità della roccia;

– una serie di oranti, ossia di figure antropomorfe rappresentate con le braccia alzate nell’atto dell’invocazione e le gambe divaricate nell’atto della danza propiziatoria;

– una serie di oranti con struttura corporea incompleta, cioè mancati di testa e di organo sessuale;

– una serie di coppelle, ossia di cavita semisferiche ricavate nella roccia, poste accanto al simbolo solare per raccogliere “simbolicaniente” offerte alla divinità.

Sulla stessa roccia, qualche migliaio di anni più tardi, verrà rappresentata una scena di culto solare totalmente diversa per la tecnica incisoria utilizzata e per la tipologia delle figure: due guerrieri armati ritualmente che circondano un sacerdote che sorregge un disco solare.

Unitamente ad una figura di labirinto “a tria”, ossia a quadrati concentrici, simile a quello in uso come gioco presso l’esercito romano e rappresentato inciso sui piani stradali nelle vicinanze dei concentramenti legionari.

Abbiamo volutamente richiamato alla vostra attenzione questo esempio anticipandovi, immaginariamente, la visione della roccia 50 per trovare noi stessi un ideale “quadro di loggia” sul quale leggere i simboli e sul quale lavorare.                                 

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Torniamo dunque al nostro “quadro di loggia” ossia alla roccia 50.

Su di essa individuiamo innanzitutto il simbolo solare, rappresentato con una circonferenza con due diagonali, posto verso oriente, ai piedi del quale e verso il quale si rivolgono tutti gli oranti.

E’ la rappresentazione plastica del culto più diffuso nell’antichità, e del quale anche nella nostra ritualità si trova traccia, con l’abbinamento della figura dell’orante vivente e dell’orante incompleto, simboleggiante o la parte spirituale dello stesso uomo in preghiera oppure una presenza di un’entità spirituale estranea allo stesso.

Da notare che il simbolo solare rappresentato in questa forma su questa roccia è il frutto di un’evoluzione già successiva al primordiale simbolo costituito da un semplice disco con una coppella, semisfera scavata al centro del disco stesso e quasi originata dall’azione della punta stessa del compasso, strumento utilizzato correntemente dai sacerdoti-incisori (paragonabili ai nostri maestri d’arte) per tracciare la presenza della divinità.

Successivamente il simbolo solare si evolverà in forma di svastica fino ad assumere la forma di una particolare svastica, contenente sempre più coppelle o semisfere adatte a contenere oggetti sacrificali, denominata anche “rosa camuna”, simbolo utilizzato per stemma dalla regione Lombardia.

Il simbolo solare spesso viene sostituito, come nel caso delle rappresentazioni divine sui capitelli o sui menhir, ossia sulle tavole di pietra levigata delle rocce a superficie verticale, con le corna del cervo ovvero dell’animale sacro dei boschi per i celti.

Non a caso sulla roccia 70, a pochi passi dalla roccia 50, venne eseguita l’incisione del dio Kernunos rappresentato con corpo da orante e sulla testa le corna di cervo e con un serpente avvinghiato al braccio e con ai piedi un piccolo orante in adorazione: lo stesso schematismo cultuale utilizzato qualche millennio prima nel neolitico.

Sulla sommità delle costruzioni lignee utilizzate per luoghi di culto o per abitazioni verranno poste le corna del cervo o il disco solare, uso seguito fino a pochi decenni fa anche dai contadini o dagli allevatori locali che erano soliti porre sulla facciata o sulla porta principale della loro “baita” corna di bovide o di capride.

Nella località “Koren del Valento” roccia o “Brik”, termine celtico che indica una località rocciosa particolarmente scoscesa, il culto solare rappresentato da un disco con raggi esterni e con coppella interna, viene affiancato ad una scena di aratura per simboleggiare l’intima interconnessione tra la fecondità naturale del sole che illumina e che riscalda e la dea madre terra che viene fecondata dall’azione dell’aratura umana perché possa donare nuovi frutti.

In alcuni casi all’azione di aratura viene abbinata la rappresentazione del rapporto sessuale tra gli zappatori che seguono l’aratro, trainato da bovidi, quasi a simboleggiare o a comparare la fecondità della dea madre terra con la fecondità femminile.

Non a caso può essere citato il rito invaso tra alcune tribù autoctone di aborigeni australiani che, agli antipodi, celebravano i riti propiziatori dell’agricoltura simulando un rapporto sessuale con il terreno da coltivare.

Né a caso può essere tentato l’abbinamento tra le scene di iniziazione femminile rappresentate su varie rocce del parco nelle quali si vedono gruppi di oranti femminili, caratterizzati da una coppella posta fra la divaricazione delle gambe – simbolo forse della fecondità alla pari dei pendagli circolari concentrici dei menhir camuni che, simili nella forma al disco solare, rappresentavano la fecondità maschile – danzanti attorno ad un orante femminile steso per terra.

In valle a Sonico esiste ancora la roccia della fertilità, interamente coperta da coppelle, ove fino a qualche decennio fa le giovani spose o le sterili erano aduse , segretamente, recarsi per propiziarsi una prole.

La presenza o la frequentazione del popolo alle rocce sacre era testimoniata in due forme: l’incisione sulle stesse delle orme dei piedi (anche il passo è fondamentale per i camuni dato che per salire sui “Brik” ove vi sono le “Marmitte dei Giganti” – ovvero delle enormi coppelle – vi erano gradini scavati nella roccia o pietre nel numero rituale del tre – numero che nel suo multiplo di sei o di nove rappresenta i terreni coltivati e fecondi nell’unica grande mappa topografica della preistoria che si trova sul contrafforte opposto al parco nella località di “Bedolina”) o l’incisione delle orme delle mani sugli altari megalitici (come avvenne presso la chiesa delle Sante ai piedi del Parco che ingloba un altare preistorico ove le mani incise sono state volgarmente contrabbandate per le mani di tre santi che, secondo una leggenda cristiana, avrebbero dovuto fermare un masso che rotolando a valle stava per travolgere l’abside della chiesa.

La civiltà dei camuni con la sua arte incisoria, non unica né univoca nell’arco alpino (vedasi le incisioni delle alpi marittime del monte Bego, le incisioni della Val Pellice, le incisioni della Valtellina, le incisioni di Lagundo nel Tirolo del Sud …) sono un valido tratto d’unione (quasi come le scene di oranti uniti in danza – molto simili alle nostre catene d’unione) tra realtà culturali e cultuali delle popolazioni celtiche centro-europee e quelle mediterranee ove è pur presente l’arte rupestre (vedasi le incisioni del deserto sinaitico ai piedi dell’Har Karkom oppure quelle dell’altopiano dei Tassili nel Sahara settentrionale, o nella penisola iberica o per arrivare addirittura sulla costa atlantica con le incisioni della valle del Tago nei pressi di Lisbona).

Esse rappresentano realmente verità concettuali non semplici e non immediatamente comprensibili, essendo le stesse velate dalla simbologia o dall’allegoria, che riportano l’uomo alle origini ancestrali uniche e prive di divisioni culturali, religiose o razziali.

Esse parlano allo spirito dell’uomo perché si liberi da tutti quelle incrostazioni culturali che lo dividono dalla natura, grande madre e massima opera del Grande Architetto dell’Universo.

Esse indicano ai Massoni la strada della ricerca continua delle verità umane velate o rappresentate dai simboli.

Cavaliere che si esibisce in una prova di abili

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GRANDE ORIENTE d’ITALIA

PALAZZO GIUSTINIANI

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LE ‘PROIEZIONI PROFANE’ DELLA MASSONERIA ITALIANE

Le ‘proiezioni profane’ della Massoneria italiana

Francesco Crispi, che guidò quasi ininterrottamente il governo italiano dal 1887 al 1896, aveva condiviso un passato garibaldino con Adriano Lemmi (1822-1906), Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia tra il 1885 e il 1895, con cui era in stretti rapporti di amicizia. In effetti la Massoneria italiana di fine Ottocento godette di grande prestigio presso i vertici dello Stato come interlocutrice sui grandi temi politico-economici dell’epoca. Lemmi, che si era guadagnato l’appellativo di ‘banchiere del Risorgimento‘, fu coinvolto nello scandalo finanziario della Banca Romana (1892), con l’accusa di aver ricevuto finanziamenti illeciti. Benché assolto in giudizio, non volle che l’eco perdurante dello scandalo nuocesse alla Massoneria e si dimise pertanto dalla carica di Gran Maestro nel 1895.

Emigranti in partenza dal porto di Napoli, in un’incisione della fine dell’Ottocento. Dall’Unità al 1915 lasciarono in queste condizioni l’Italia, diretti soprattutto in America, circa sedici milioni di persone. Rispetto a questo fenomeno la Massoneria giocò un ruolo importante. Saldamente attestata tanto al Nord quanto al Sud del Nuovo Continente, facilitò i rapporti tra emigrati provenienti da regioni italiane diverse e favorì attraverso il vincolo fraterno delle logge il loro radicamento nel Paese d’adozione. Nell’America del Sud l’inserimento dell’elemento italiano nelle logge locali contribuì ad accentuarne l’anticlericalismo, caratteristica comune alla Massoneria latina dell’Ottocento.

Lo scandalo della Banca Romana aveva indotto alle dimissioni anche Giovanni Giolitti, alla presidenza del Consiglio in una parentesi dell’attività governativa di Crispi (1892-1893). La cosiddetta età giolittiana ebbe inizio in effetti solo nel 1903, per concludersi nel 1913. Nel corso di questo decennio, denominatore comune delle svariate ideologie politiche fu il nazionalismo, sottoscritto tanto dalle forze conservatrici quanto da quelle democratiche. Le une e le altre annoveravano personaggi legati al mondo massonico, come del resto ebbe a dire Ernesto Nathan, alla guida dell’Ordine dal 1896 al 1904: «Il colore politico [della Massoneria] è il bianco, la sintesi di tutti gli altri colori a eccezione del nero, negazione della luce». Tuttavia, vuoi perché nel biennio reazionario di fine Ottocento (governo Pelloux), quando vennero chiuse le sezioni dei partiti e soppressa la stampa d’opposizione, molti democratici militanti avevano trovato rifugio nelle logge, vuoi per i perduranti contrasti con la Chiesa di Roma (vedi il capitolo Massoneria e Stato unitario in Italia), i nazionalisti conservatori e liberali identificavano nei cenacoli massonici gli organismi di alleanza dei blocchi radical-socialisti. Fu sulla base di questa convinzione, per esempio, che il filosofo liberale Benedetto Croce (1866-1952), eletto senatore nel 1910, attaccò «l’idiota religione massonica», un’eredità a suo parere derivata dalla Rivoluzione francese. D’altra parte la polemica ideologica era inevitabile in un periodo storico in cui, come ha scritto lo storico A.A. Mola, la Massoneria italiana non seppe o non volle astenersi da «proiezioni profane».

Giovanni Giolitti. I buoni rapporti tra il blocco politico giolittiano e la Massoneria italiana si incrinarono in seguito ai cedimenti dello statista nei confronti dei clericali e sulla questione dell’interventismo.

La più discutibile di queste ‘proiezioni‘ fu forse l’assunzione di una posizione apertamente interventista in occasione dello scoppio della prima guerra mondiale. Schierandosi con i conservatori, i liberali, i democratici, i mazziniani, gli anarco-sindacalisti e gli anarchici a favore dell’ingresso dell’Italia nel conflitto, per quanto queste forze fossero tutte rappresentate nelle logge nazionali, il Grande Oriente rischiò in questo modo di perdere il consenso della base, che annoverava anche neutralisti legati al blocco giolittiano o al Partito Socialista. Questa concessione all’imperante nazionalismo, invece che allontanare la tradizionale diffidenza dell’opinione pubblica per la Massoneria, ne peggiorò l’immagine quando nel 1917, durante un convegno parigino di dignitari scozzesisti di vari Paesi, alleati e neutrali, la rappresentanza italiana dette la propria approvazione al principio che postulava l’opportunità di riconoscere alle popolazioni delle aree plurietniche interessate al conflitto il diritto di decidere mediante referendum, a guerra conclusa, i propri confini. Accusato di tradimento dal fronte nazionalista, il Grande Oriente contraddisse la posizione assunta a Parigi appoggiandone ufficialmente le rivendicazioni nelle aree della sponda adriatica e del Mediterraneo orientali, oltre che in ambito coloniale.

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IL BENVENUTO DEL MAESTRO VENERABILE

IL BENVENUTO DEL MAESTRO VENERABILE

    Ai Fratelli, come pure ai Profani che visitano queste pagine, mi è gradito porgere il benvenuto mio e quello di tutti i Fratelli della Loggia Harmonia Universalis n. 109 di Trieste.

    Chi vorrà dedicare qualche minuto alla consultazione delle pagine che abbiamo qui raccolto, troverà – così speriamo – un frammento del patrimonio di questa Loggia, giovane ancorché forte di vero spirito massonico.

    In una delle sezioni di questo sito troverete una spiegazione del nostro simbolo di loggia, che nelle sue numerose sfaccettature, aiuta a comprendere alcune delle caratterizzazioni massoniche proprie della Harmonia Universalis.

    A me preme, in questo messaggio di benvenuto, invitare il visitatore a soffermarsi, per cominciare, sul dato più immediato, ovvero il nome della nostra Loggia. “Harmonia Universalis” può essere intesa, innanzi tutto, come la meta – utopica quanto pregnante in senso esoterico – della Massoneria. Ciascun Fratello, indipendentemente dal suo grado, anzianità, o ancora sensibilità e inclinazione, trova in questa Loggia il proprio posto e la possibilità concreta di contribuire al lavoro comune. Un’armonia che interpreto come la responsabilità più grande che mi sia stata affidata all’atto dell’investitura. Senza l’impegno dei sorveglianti e dei Fratelli tutti, questa armonia non potrebbe essere mantenuta. Armonia, dunque, innanzitutto all’interno della Loggia.

    La Massoneria non si differenzia da qualsiasi altro consorzio umano: non sempre è possibile mantenere il proprio portamento etico all’interno degli antichi landmarks che ci derivano dalla nostra Tradizione, così ricca di Sacro. E’ anche purtroppo vero -perché negarlo ?- che alcuni individui senza scrupoli, fratelli di facciata, si siano a volte macchiati di delitti che hanno leso grandemente tutta la famiglia massonica. Le gravi colpe di questi individui hanno gettato un’ombra che permane tuttora sul nostro Ordine, sui moltissimi Fratelli onesti. Accade così, di conseguenza, che tanti Massoni italiani preferiscano frequentare la loro Loggia con riservatezza, non perché abbiano qualcosa da nascondere, ma perché semplicemente temono di venire danneggiati rendendo pubblica la loro appartenenza. Il nostro sito esiste anche per tentare di mutare questa situazione.

    Un’altra ragione della riservatezza – si sente dire tante volte – sarebbe dovuta a strani e oscuri “segreti” che costituiscono l’essenza rituale della Massoneria. Non è così. In primo luogo, infatti, il vero Massone spesso riesce con difficoltà a fare emergere dalla propria esperienza quegli elementi che facciano capire al Profano quanto significativa sia la sua vita massonica. E poi bisogna ricordare che, a più riprese e con dovizia di particolari, sono state spiegate le nostre cerimonie e svelati alcuni “segreti” rituali. E’ altrettanto vero, però – e questa circostanza viene spesso confermata da molti Fratelli – che il vero segreto massonico è tanto grande quanto personale e incomunicabile, ed esso attiene al fine ultimo della Massoneria, un sistema di morale velato da allegorie e illustrato da simboli.

    Un sistema morale, inoltre, che richiede un animo profondamente religioso, attento alla dimensione trascendente, nel rispetto della fede e delle credenze di ognuno. Uno dei più tenaci pregiudizi avversi alla Massoneria vuole che noi siamo schierati contro la religione, ma ciò è falso, e l’unica verità storicamente fondata è che il potere temporale dei Papi ha visto sempre con sospetto i Massoni, per la tolleranza dichiarata e praticata nei confronti di ogni credo religioso e per l’ideale ugualitarista che noi propugnamo. Nel senso più ampio e profondo, Massoneria e religione né contrastano né si sovrappongono.

    Dunque, chiunque sia dotato di animo sincero, qualunque sia la sua condizione sociale, credenza religiosa, o inclinazione politica, troverà tra le colonne di questa Loggia chi saprà assecondare il suo cammino iniziatico e trarre giovamento dal reciproco lavoro. Con rispetto, tolleranza, umiltà e carità, siete tutti invitati a portare la pietra che ci permette di edificare il nostro tempio.

    Non mi rimane che rinnovare il mio sincero e fraterno benvenuto.

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IL LIBRO DELLA CHIAREZZA

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  “Il libro della chiarezza”  Sepher ha-Bahir

Federico P.

Questo contributo del carissimo Fratello Federico P. che si offre alla lettura e allo studio, è la prima traduzione integrale in lingua italiana, di uno dei tredici capitoli sciolti dello Zohar. Tale trattato, considerato dagli studiosi il nucleo portante del Libro dello Splendore, oltre ad essere annoverato tra i “capitoli sciolti”, è da considerarsi, anche, slegato nel soggetto, è, infatti, costituito da una serie di paragrafi senza alcuna consequenzialità argomentale. I contenuti di tali paragrafi, ripresi ed ampiamente argomentati,  dipingono comunque i temi trattati nelle varie sezioni dello Zohar.

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§27 La lettera Beth ricorda a causa della sua forma (b) la genesi dell’uomo, la quale, per merito della Saggezza divina, si compie in un corpo chiuso da ogni lato e aperto davanti. La lettera Aleph (a) è aperta anche nella parte inferiore, per ammaestrarci sul fatto che essa riceve, da Kether, il seme dall’apertura posta sopra e lo trasmette tramite quella posta sotto.

§28 Da dove sappiamo noi che la parola schamaim (cielo) indica il Santo, benedetto sia? Dalle seguenti parole della Scrittura (III Re VII,32): esaudiscici, schamaim.

Ora, si può supporre che Salomone invocasse il firmamento? Certamente no! esso invocava Dio che porta il nome di Schamaim. Perché è indicato con questo nome? Perché il firmamento, a causa della sua forma rotonda, assomiglia ad una testa. Inferiamo inoltre, da questo nome, che Dio ha alla sua destra l’acqua e il fuoco alla sua sinistra, in modo che egli dimori nel mezzo. La parola schamaim, infatti, si pronuncia scia mai; ora, se si capovolge l’ordine delle lettere della parola scia, si ottiene esc mai (fuoco e acqua), Dio armonizza, pertanto, il fuoco e l’acqua. Quando è il fuoco ad avvicinarlo trova la gradazione del fuoco, e quando invece è l’acqua, essa trova quella dell’acqua. É per questo che la Scrittura dichiara (Giobbe XXV,2): egli fa regnare la pace nei suoi alti luoghi. Decidiamo, quindi, a proposito della parola schamaim, che il Santo, benedetto il suo nome, ha unito il fuoco all’acqua unendoli insieme facendone il principio delle sue parole, proprio come è scritto (Salmi CXIX,160): la verità è il principio delle tue parole.

§29 É scritto (Genesi I,2): e la terra era thou e bohu. Quando il Santo, benedetto il suo nome, dimorava ancora tra le qliphoth (i gusci), o meglio tra i demoni, creava e subito distruggeva i mondi, dacché la linfa celeste non poteva fluire fino a loro, come è già stato detto. Il passo (Giobbe XIV,11): il fiume abbandonando il suo letto si prosciuga, indica il Giusto che era assente nei due mondi: in quello presente e in quello futuro. Secondo un altra lettura, le parole: Dio creò i cieli e la terra sottintendono i mondi che intese lasciar sussistere, mentre le parole: e la terra era thou e bohu, indicherebbero quelli che aveva in mente di creare, ma che, non avendoli più nel suo proposito non presero consistenza; ed è proprio questo quello che la tradizione intende con l’enunciato: Dio creò dei mondi e li distrusse. Egli aveva in mente di creare numerosi mondi ma, in seguito, scegliendo sentenziò: questi mondi sono di mio gradimento, quegli altri no. É dell’epoca in cui Dio dimorava ancora tra le qliphoth che la Scrittura riferisce (Lamentazioni III,44): hai posto dinanzi a te una nube impedendo alla preghiera di giunge fino a te. Era il tempo del thou e del bohu di cui la Scrittura ricorda (Esodo XIV,20): e la nube era tenebrosa. Sono i gusci della noce; il cui frutto è posto al centro e diviso in quattro parti; porzioni, che corrispondono alle quattro lettere del nome Jéhovah, il quale non è mai insudiciato dalle impurità, così come è scritto (Geremia XXIII,29): le mie parole sono come il fuoco, dice il Signore; infatti, come il fuoco non può essere insudiciato da impurità alcuna, così non può esserlo il Nome sacro.

Allorquando le qliphoth giunsero a maturazione, non potendo più aderirvi, si distaccarono dal frutto [noce], fu allora che la preghiera della Schekinah, che è Adonaï, fu in grado di elevarsi fino al suo sposo Jéhovah. In effetti, fino a quando la Schekinah si trova avvolta dalle qliphoth, rimane nascosta al suo sposo; in questo caso porta il nome di “povera” e “sterile” mancando di chi può armonizzarla in segreto. Ma quando il Santo, benedetto sia il suo nome, spoglierà la Schekinah, dalle qliphoth che l’avvolgono, la profezia si compirà (Isaia XXX,20): e colui che ti istruisce non sparirà più dalla tua vista; e i tuoi occhi vedranno il Maestro che ti ammaestrerà. Così la Schekinah prima sterile, colmerà tutta la terra della sua gloria (Isaia VI,3). La sua benedizione sarà l’olocausto che consumerà le qliphoth.

§ 30 É scritto (Genesi I,2): e lo spirito di Elohïm aleggiava sulle acque. “Lo spirito di Elohïm” conforma lo spirito del Messia; nel momento in cui esso aleggerà sulle acque della Legge, allora la Liberazione avrà inizio, infatti la Scrittura aggiunge: e Elohïm disse: che la luce sia .

La Scrittura dice (Genesi III,23): e Jéhovah scacciò Elohïm dal giardino dell’Eden. Nel momento in cui l’uomo peccò, Dio allontanò il Messia, che dimorava nel giardino dell’Eden, così come è riferito: Jéhovah scacciò Elohïm dal giardino dell’Eden, il che vuol dire: allontanò dal suo Eden se stesso. E perché lo allontanò? La Scrittura risponde: … Affinché coltivasse la terra, vale a dire la Schekinah. La Scrittura aggiunge (Genesi III,24): e mise due Cherub dinanzi al giardino dell’Eden. Questi due Cherub sono: Il Messia, figlio di David, e il Messia, figlio di Giuseppe, i quali però non sono che un’unica persona [1]. Lo spirito del Messia, indicato con le parole “spirito di Elohïm” è anche chiamato (Genesi XLIX,10): Schiloh. É di questo spirito che riferisce la Scrittura (Numeri XI,25): e il Signore disceso nel nembo parlò a Mosè, prese lo spirito che era in lui e lo infuse ai settanta anziani”. Infatti il nome “Schilon” ha valore numerico identico a quello della parola Mosè. La parafrasi “E egli mise dinanzi… “ sta a significare che il Messia avrà il nome di “Schilon” posto prima dei due altri nomi[2], affinché il suo Spirito possa aleggiare sulla Legge, essendo la Liberazione condizionata alla sua presenza. La Scrittura aggiunge: … Che facevano volteggiare una spada di fuoco. Questa spada si trova nelle mani del Messia. E cos’è questa spada? É Metatron che si trasforma; talvolta in verga, altre volte in serpente. La verga indica, tra le altre cose, la Schekinah del basso. Se Israele è degno, la verga inclina dal lato destro, da dove promana la Clemenza; in caso contrario, la verga inclina dal lato del Rigore ove risiede il serpente, il “dio straniero” che tende all’assassinio, per cui il Messia verrà ucciso, come anche gran parte di Israele. É a tale evento che fanno riferimento le parole della Scrittura (Ruth III,13): … Resta coricata fino al mattino. É il “mattino di Abramo” durante il quale la verga inclinerà dal lato della Clemenza. É per questo che la Scrittura la chiama “Spada che volteggia”. Questa spada serve a custodire l’Albero della Vita vale a dire la Legge; chiamata a sua volta dalla Scrittura “Albero di Vita”. Sotto tale definizione è simboleggiata soprattutto la Legge orale. Per il Giusto, essa è un raggio di vita; ma per chi non lo è, essa si trasforma in un veleno mortale, come è stato riferito dai maestri della Mischna[3]. Ecco perché talvolta la verga si trasforma in serpente e il serpente in verga. Ma al tempo del Messia, saranno sterminati tutti quelli di cui la Scrittura racconta (Esodo VII,11): e i maghi egiziani eseguirono l’identica cosa tramite incantesimi.

§ 31 Una volta Rabbi Boon era seduto e spiegava le parole del versetto (Isaia XLV,7): sono io che formo la luce e creo le tenebre. Perché tale varietà di vocaboli? Perché la luce è una cosa reale, mentre le tenebre non lo sono affatto; ora, per tutto ciò che non è reale la Scrittura adopera la parola “creare” (bara), così come è detto (Amos IV,13): … formò i monti e creò il vento. La Scrittura riporta (Genesi I,4): ed Elohïm disse: che la luce sia fatta (iehi), e la luce fu fatta (va-iehi). “Iehi” esprime dunque una azione; pertanto la luce è cosa reale. Ecco il motivo per cui la Scrittura fa uso, a proposito della luce della parola “formare”, mentre, per le tenebre adopera un lemma che non lascia intendere alcuna azione. Il passo della Scrittura riporta difatti: … creò le tenebre.

La parola “bara” esprime anche l’idea “di inganno, illusione” nel senso del proverbio: Un tale ha ingannato (habri) ecc. Rabbi Berekhya chiese: Per quale motivo la Scrittura riporta: … Va-iehi òr invece di : … Ve-haiah òr?[4] Rabbi Boon rispose, questo è spiegabile con la seguente metafora, un re possedeva un oggetto prezioso e lo custodiva con estrema cura desiderando di trovare un luogo consono per esporlo. Ecco… la luce preesisteva già prima della creazione per questo la Scrittura usa la parola “va-iehi”.

§ 32 Il settimo cielo costituisce “l’Oriente” del mondo: e è da la che proviene il seme d’Israele: infatti è il midollo spinale che trasferisce la materia dal cervello a quel membro in cui essa si trasforma in seme, così come è riferito (Isaia XLIII,5): io riporterò dall’oriente il tuo seme. Quando Israele è rispettoso dei comandamenti, il seme gli giunge dall’Oriente e si rinnova continuamente; ma quando, al contrario, è iniquo riceve del seme già usato, come è detto (Ecclesiaste I,4): una generazione passa, e una generazione subentra. É la medesima generazione passata che si manifesta nuovamente. E cosa significano le parole: … io ti riunirò dall’occidente? La parola occidente indica quella regione ove le semenze sono mischiate le une alle altre; da qui il nome maàrab. Questo è spiegato con il racconto allegorico del figlio di un re che possedeva una fidanzata bella e pia, alla quale offriva gemme del tesoro di suo padre. Essa accettava tutti i doni conservandoli insieme. Dopo un certo tempo il figlio del re manifestò il desiderio di vedere tutte le ricchezze radunate. Ecco perché la Scrittura dice: … e io ti riunirò dall’Occidente. Che cosa riunirà? Le semenze che sono state seminate dall’Oriente. In effetti questo versa il suo seme nell’Occidente e dopo un certo tempo viene a radunare quanto seminato.

§ 33 Perché il numero sette? Per concordare con i giorni della settimana. Ne inferiamo che ciascun giorno della settimana possiede una potestà peculiare. Ciò nondimeno quale relazione intercorre tra questo numero e la Saggezza infinita? Esso ci fa conoscere che, come esiste una Saggezza infinita nell’orecchio dell’Ineffabile, così ciascuna delle altre membra ha la sua propria potestà. Questo corrisponde ugualmente alle sette membra principali dell’uomo, come è detto (Genesi IX,6): … Poiché l’uomo è stato creato ad immagine di Elohïm.

§ 34 L’anima dell’uomo emana dal principio maschile, e quella della donna dal principio femminile. Questo è il motivo per cui il serpente conveniva tra se: poiché Eva emana dal lato sinistro, dal Nord, giungerò presto a sedurla. In cosa consisteva la seduzione? Ebbe rapporti intimi con essa. Avendo alcuni discepoli chiesto a Rabbi Shimon come la cosa fosse possibile, il maestro rispose: l’empio Samael si adunò con tutte le sue legioni celesti di fronte al proprio Maestro. Quando il Santo, benedetto sia il suo nome, sentenziò (Genesi I,28): … e dominerete sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, Samael si chiese in quale maniera avrebbe potuto indurre l’uomo al peccato, facendolo così scacciare dalla presenza di Dio. Disceso sulla terra accompagnato dalle sue schiere, cercò un alleato che gli fosse simile. Trovò il serpente, che primitivamente aveva la forma di un cammello[5]. Ritornò nell’Eden superiore e andò a cercare la donna alla quale disse (Genesi III,1): sebbene Dio ti abbia comandato di non mangiare del frutto di tutti gli alberi che sono nel Giardino, ecc.. Samael si proponeva, esasperando il comandamento di Dio, a costringere la donna a trasgredirlo. La donna infatti rispose: Dio ci ha proibito soltanto l’Albero del Bene e del Male, raccomandandoci di non mangiarne i frutti e di non toccarli, per timore di morire. La donna aggiunse due altre prescrizioni che non provenivano da Dio, essa infatti affermò (Genesi III,3): … Dei frutti dell’albero che è nel Giardino, Dio ci ha comandato di non mangiarne. É una esagerazione, considerato che Dio non aveva vietato che i frutti dell’Albero del Bene e del Male. In seguito aggiunse: … E di non toccarli. É un altra esagerazione, considerato che Dio aveva soltanto proibito di mangiarne i frutti. Samael, l’empio, si avvicinò allora all’Albero e lo toccò. Questi lanciò un grido e parlò così (Salmi XXXVI,12): che il piede dell’orgoglioso non giunga fino a me, e che la mano del peccatore non mi sfiori. Il serpente disse allora alla donna, ho toccato l’Albero e tuttavia non sono morto, tu puoi fare altrettanto, e non morrai. Essa toccò l’albero, ma avendo veduto l’angelo sterminatore presentarsi dinanzi ad essa si disse: forse sto per morire, e il Santo, benedetto egli sia, creerà un altra donna e la donerà all’uomo. Non è giusto, vivremo tutte e due o moriremo entrambi. É allora che donò il frutto a suo marito perché ne gustasse. Appena questi ne ebbe mangiato e gli occhi di entrambi si schiusero, disse alla sua donna il frutto che ho mangiato non è offensivo soltanto per i mio palato, ma lo sarà anche per quello di tutte le creature. Quando Dio chiese ad Adamo ove fosse, rispose (Genesi III,10): ho inteso la tua voce nel Giardino e ho avuto paura, perché ero nudo, – nudo di buone opere, nudo di obbedienza ai comandamenti di Dio. Ora, l’abito di nascita di Adamo consisteva nella punta delle sue unghie. Interpellato Adamo riferì: Maestro dell’universo, se fossi vissuto da solo avrei forse ugualmente peccato dinanzi a te; ma avendomi destinato una donna, questo evento è inevitabile, infatti è stata proprio lei che mi ha indotto a trasgredire il tuo comandamento. Il Santo, benedetto sia il suo nome, disse ad Eva: non ti sei compiaciuta di peccare da sola, ma hai anche sedotto l’uomo! Avendo Eva accusato a sua volta il serpente, Dio li adunò tutti e decise: maledì la donna e l’uomo con nove maledizioni e con la morte, scacciò Samael con tutti i suoi compagni dalla regione sacra del cielo, amputò i piedi al serpente e lo conclamò come più esecrabile fra gli animali della terra condannandolo a cambiare pelle ogni sette anni.

§ 35 É scritto[6] (Isaia LV,1): venite, acquistate senza denaro e senza alcun baratto, il vino e il latte. Che cosa significano “Il vino e il latte”? E quale rapporto esiste fra questi due liquidi? Il vino simboleggia il timore[7], ovverosia il Rigore e il latte la Clemenza. Poiché siamo più frequentemente il soggetto del timore, la Scrittura antepone il vino al latte. Possiamo con ciò, ipotizzare che la Scrittura voglia indicare in senso stretto il vino e il latte? Assolutamente! Essa indica, piuttosto, le realtà  di cui questi due liquidi sono il simbolo.

§ 36[8] Secondo un altra versione, Rabbi Hiya disse che i figli di Dio, di cui parla la Scrittura (Genesi VI,2), sottintendono gli angeli del lato cattivo da sempre corrotti[9]. É quanto emerge dalle parole (Genesi VI,4): ne nacquero dei fanciulli che furono uomini potenti e famosi nel loro tempo. La Scrittura non riporta “schem” ma “ha-schem”[10]. Allo stesso modo le parole della Scrittura (Salmi XXV,6): ricordatevi, Signore, delle vostre bontà e delle vostre misericordie, che avete manifestato da sempre (meòlam), annunziano i patriarchi che costituiscono il basamento del trono sacro superiore. Rabbi Isaac aggiunse: La parola “meòlam” indica il letto del Re Salomone….[11].[Segue]

 NOTE

[1]L’edizione a stampa di Amsterdam e quella di Vilna riportano AB$MD  in luogo di WHNYA  RXD. [Torna al testo]

[2]Cioè prima dei nomi di “Figlio di David” e “Figlio di Giuseppe”. [Torna al testo]

[3]Confrontare Talmud, tr. Sabbath, foglio 88b, e tr. Yoma foglio 72b. [Torna al testo]

[4]HYXW esprime piuttosto l’idea del divenire, dell’essere creato ex novo, mentre YHYW esprime soprattutto l’idea dell’apparire di cosa già preesistente. [Torna al testo]

[5]Consultare nota 11 della sezione “Bereschith”, ai Riferimenti. [Torna al testo]

[6]Tutto questo passo è estratto dal Midrasch Ruth, dello Zohar Hadasch, foglio 63b; mentre nell’edizione di Venezia si trova al foglio 35a. [Torna al testo]

[7]La parola Timore non va intesa nel senso stretto del termine, ma con l’estensione metafisica che ne propone lo Zohar. A tale proposito consultare: Preliminari, foglio 11b: “Tutte le prescrizioni della Legge nel racconto della Genesi”, tradotte in Appendice a (Prima e seconda prescrizione). [Torna al testo]

[8]Tutto il paragrafo che segue, si trova in una nota a margine delle edizioni di Sulzbac foglio 19a. Sarebbe dunque un errore averlo intercalato nel testo. Noi ne proponiamo comunque la traduzione. [Torna al testo]

[9]Cioè: questi angeli, in realtà, non hanno mai subito una caduta, ma erano corrotti fin “Nel Principio”. [Torna al testo]

[10]Questa interpretazione fa perno sulla parola OLWEM e su O$X. [Torna al testo]

[11]Il seguito delle parole di Rabbi Isaac manca. [Torna al testo]

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IDRA DE MASCHANAH

Idra de-Maschanah

Federico P.

Questo elaborato di traduzione e commento di uno dei capitoli sciolti dello Zohar, riflessioni del carissimo Fratello Federico P. , viene offerto alla lettura e allo studio.

Download “Idra de Maschanah”

Introduzione

Il testo che si presenta è l’Idra de Maschanah, uno dei tredici capitoli sciolti del Sepher ha-Zohar, ovverosia il Libro della Radiosità o, come più comunemente noto, Libro dello Splendore, opera da sempre considerata nodale per la Qabalah, tanto da far proclamare uno degli ultimi cabalisti del nostro secolo stanchi di interpretazioni o letture non ortodosse: “Occorre, una volta per sempre, ricordare, rilevare ed evidenziare, che la Bibbia della Qabalah Ebraica è il Sepher ha-Zohar e che ogni idea che non può trovarvi la sua referenza è falsamente cabalista[1]”.

Il Sepher ha-Zohar è, comunque, un testo di difficile acquisizione, anche se si deve registrare una ristampa anastatica nel 1970 (della traduzione francese a cura di Jean de Pauly, 1906-1911, in sei volumi), ormai esaurita da tempo e una pubblicazione, sempre in lingua francese (è giunta al quinto volume) assai più recente, traduzione dall’aramaico a cura di C. Mopsik e articolata in diciotto volumi.

Con esclusione di copie manoscritte che circolavano certamente già dal 1280 [2], le prime edizioni a stampa, in lingua aramaica, sono datate Mantova 1558 – 1560 e Cremona 1559 – 1560. Da dire che le due pubblicazioni furono eseguite a seguito di un recupero dei diversi manoscritti in circolazione, manoscritti contenenti differenze di dettaglio che, alla fine, diedero origine a due testi alquanto diversi sia in merito all’ordine dei capitoli sia al contenuto.

Immanuel di Benevento editò il testo di Mantova effettuando una scelta personale operata su dieci manoscritti, mentre per l’edizione di Cremona, Vittorio Eliane l’organizzò procedendo al confronto di sei manoscritti.

Le differenze si concretizzarono nel numero di tomi, tre per l’edizione di Mantova, uno per quella di Cremona; tali differenze di taglio spinsero gli studiosi a distinguere il Sepher ha-Zohar Hakatan (Piccolo Zohar) dal Sepher ha-Zohar Hagadol (Grande Zohar) di Mantova, testo, quest’ultimo, utilizzato dai Cabalisti Hassidici Polacchi e Tedeschi fino al diciottesimo secolo. Entrambe le edizioni furono raccolte e pubblicate, dopo essere state integrate con altri manoscritti ritrovati nelle bibioteche europee, in ventidue volumi a Tel-Aviv tra il 1945 e il 1958, edizione in lingua aramaica curata da Yehuda Achlag.

L’Idra de-Maschanah (ardya o Idra, deriva dalla parola ebraica rdh, e significa, camera, sala di riunione, e per estensione assemblea o riunione, concilio) è riportata nel Sepher ha-Zohar II^ alle pagine 471 – 478 ai fogli 122b – 123b [3].

Come sopra si diceva, è uno dei tredici capitoli sciolti, così indicati dagli studiosi perché non seguono la logica consequenzialità di quanto è esposto nelle pagine che li precedono, trattando argomenti che nulla hanno di comune con il tema soggetto della sezione.

Il Pauly, onestamente ammette che si ignora del perché questa Idra porti il nome di Maschanah (Santuario), considerato che non vi è contenuto nessun riferimento in tal senso. É ipotesi accettata, che il titolo sia stato aggiunto da qualche copista, in considerazione del fatto che la parascha, vale a dire la sezione biblica dove l’Idra è intercalata tratta, appunto, dell’erezione del Santuario (Tabernacolo). O forse, come lo stesso de Pauly suggerisce e alcuni commentatori ipotizzano, il Sepher ha-Zohar contiene soltanto dei frammenti di queste Idra, per cui nulla vieta di pensare che nei manoscritti originali, l’Idra de-Maschanah trattasse proprio del Santuario e che noi si sia in possesso soltanto di un frammento.

L’intelligibilità del tema contenuto in questo scritto, non è di quelli che si suole dire della più immediata e agevole comprensione e le note che seguono, certamente incomplete e mutile, se pur di aiuto, non potranno rendere in maniera completa l’intero sistema metafisico delle Sephiroth [4], dei due Visi e delle cinque Persone, enunciato nel de-Maschanah.

Lo studio di tali sistemi, così importanti nella Qabalah, non potranno quindi, essere portati a termine soltanto con quanto esposto nel testo e in questa breve introduzione, ma dovranno trovare riferimenti su altri elaborati di più scorrevole esposizione. Le pagine che seguono, tenteranno in ogni caso, di introdurre alla lettura dello scritto fornendo alcuni elementi fondamentali sul sistema metafisico degli stessi, presentando anche taluni commenti di noti pensatori.

Fin dagli inizi, gli studiosi si chiedono se l’insegnamento della Qabalah sostenga che tutte le cose emanino dall’Assoluto stesso. Questa è la sintesi di tutto l’insegnamento. Per onestà intellettuale occorre registrare che tale peculiare problema non ha trovato, nel corso dei secoli, una codifica universale nelle varie accademie. Ecco che allora emerge un grande arruffio. Alcune scuole, nel tentativo di rivelare l’Assoluto quale principio della Relatività, hanno letto il sistema sephirotico come una pura dottrina emanatista e autori, allora, l’hanno considerata una parente molto stretta del Panteismo e hanno teorizzato le Sephiroth come un’irradiazione consustanziale della divinità non manifesta confutandole, conseguentemente, il ruolo di mero potere dell’Emanatore. Altri autori vi hanno letto l’archetipo dell’ex nihilo, vale a dire la libera creazione della sostanza primordiale; altri ancora, nel tentativo di riconciliare nel divino non manifesto l’antinomia che emerge tra l’Assoluto e la Creazione, hanno ipotizzato l’emanazione delle Sephiroth all’interno dello stesso divino, imputando ai Mondi, in cui queste si dispiegano, la missione di legittimare e giustificare il Relativo stesso. Alcune scuole, al contrario, hanno inteso ricomporre questa antinomia riconducendola al potere dell’Emanatore manifestato nelle Sephiroth create ex nihilo. In breve vi è stato letto tutto e il contrario di tutto; emanazione, creazione ex nihilo, consustanzialità, potere divino creatore, elemento mediatore, ipostasi.

Nonostante le divergenze sostanziali che la gnoseologia del sistema ci consegna, la Qabalah affida il compito di sondare il rapporto tra Dio e mondo, tra Assoluto e relativo alle Sephiroth, con la funzione di rivelare l’Assoluto come principio della relatività, e ai due Visi e ai cinque Parzuphim (Persone) per spiegare l’adattamento graduale della natura assoluta della divinità alla relatività.

Francis Warrain rilevava nel 1931 come il Sepher ha-Zohar accennasse alle Sephiroth come dieci gradi del divino.

[5] Sono veli attraverso i quali l’essenza divina si rivela; sono i dieci gradi per mezzo dei quali l’Assoluto manifesta qualcosa della propria realtà inaccessibile. Non sono delle creature, ma delle nozioni e dei raggi dell’Infinito, che per varie digressioni discendono dalla sorgente suprema, senza tuttavia separarsene. Aderiscono alla Causa delle Cause, interamente occulta in se, da cui ne emanano direttamente, e grazie alla virtù di questa Causa delle Cause, Radice delle Radici, producono e governano tutto il resto.

Le Sephiroth non sono, quindi, delle entità, non sono neanche delle ipostasi divine, benché le prime tre siano con una certa frequenza (ma erroneamente) associate alla manifestazione della Trinità cristiana, tentativo articolato soprattutto nel Rinascimento, non sono degli elementi distinti dalla Radice dell’Essenza ed emanati da Lei.

Esse costituirebbero il fondamento del Mondo dei Principi Divini (Olam Atziluth); Principi tramite i quali il Pensiero Divino si rende origine di una creazione possibile.

Sephira, al singolare (Sephiroth al plurale), è tradotto con Numerazione. Il Sepher ha-Zohar le indica, a volte, con la parola Corone o Lampade. Questo perché la parola Lampada, include la nozione di strumento propagatore della luce; mentre Corona è il nome stesso della prima Sephira, quella che è la sorgente e la sintesi di tutte le altre.

Indicando con dei gradi o principi numerali gli stadi consecutivi del rapporto che salda l’Assoluto al Relativo e chiamando questi stadi consecutivi (Sephiroth) Numerazioni, la Qabalah suggerisce che l’essenza dei Numeri compartecipa delle due nature (relativa ed assoluta); il che testimonia un’elaborazione metafisica delle più profonde ed autorizza a ritenere la manifestazione primordiale, quella dall’Assoluto al Relativo, come fondata sui numeri. In effetti, la condizione concettuale di una possibile transizione dall’Assoluto al Relativo, è ipotizzabile soltanto dopo il deflusso dall’Uno-Uno, dall’Uno che non conta di plotiniana memoria, all’Uno inizio della molteplicità.

Non credo sia utile, al fine di evitare possibili confusioni, invadere la lezione della distribuzione delle Sephiroth (da ordine circolare in lineare), il che presupporrebbe conoscenze che hanno riferimento ad un prima e a un dopo (prima e dopo la rottura dei Vasi) e porterebbero inevitabilmente il nostro discorso al Tikkun (Riparazione).

In questa sede è sufficiente sapere che i due Visi (Grande Viso Arikh Anpim e Piccolo Viso Ze’eir Anpim) che raccolgono i cinque Parzuphim (tre Persone nel primo e due nel secondo) e le Sephiroth, sviluppano, nella Qabalah, due nozioni metafisiche vincolate e vincolanti.

Lo sviluppo lineare delle Sephiroth, infatti, presuppone una articolazione che richiama una gerarchia espletata nelle Persone dei due Visi; gerarchia che rende la sua immanenza nel Relativo. L’antinomia tra il Relativo e l’Assoluto (per la Qabalah) può essere risolta soltanto considerando queste due nozioni; con le Sephiroth l’Assoluto rende possibile la causa della Relatività, con le Persone la Relatività si trova compiuta all’interno dell’Assoluto.

In quale maniera la causa della Relatività è resa possibile attraverso le Sephiroth, l’Idra non lo esplicita, ma il racconto è contenuto nel Sepher ha-Zohar I^ foglio 14a, nelle quindici righe che introducono la Parascha del Berechith (la sezione biblica di concordanza). Alcuni commentatori hanno inteso, per altro, leggervi anche un’indicazione all’antefatto della creazione, da qua l’ipotesi di un capitolo mancante al Genesi, quello dell’Antecedente il Principio[6]. Il passo che segue è una traduzione della versione aramaica, che ne fa Moïse Cordovero.

Nel tempo primordiale, vale a dire quello del Re nel suo zenit supremo, Egli incise un punto [Kether, la prima sephirah] nella sfera celeste.

Una Fiamma oscura zampillò all’interno del Chiuso che iniziava dai confini dell’Infinito; forma nell’informe (materia primordiale) fissata al centro dell’anello. Non bianco, non nero, non rosso, non verde, di nessun colore. Quando egli misurò esattamente [7]  fece apparire dei colori per illuminare l’interno [le altre nove Sephiroth]. Al centro della Fiamma sgorgò una sorgente, a iniziare dalla quale, giungendo in basso, i colori presero le loro sfumature. Il Chiuso del Chiuso dell’enigma dell’Infinito, tentò di perforare, ma non perforò la propria aria circondante, dimora sconosciuta. Fino a quando, a causa della potenza della sua apertura, un punto si illuminò, chiusura suprema. Al di sopra di questo punto nulla è generato, per questo è chiamato Rechith, inizio, prima parola di ogni parola.

Dieci Sephiroth, due Volti, cinque Persone, trentadue Sentieri della Saggezza, cinquanta Porte dell’Intelligenza, quattro Mondi, quattro classi di Nomi divini, ecc. ecc. potrebbero, in realtà, generare qualche perplessità e confusione. In realtà è soltanto nell’analisi che la Qabalah moltiplica, quantifica, seleziona e distingue; nella sintesi TUTTO è sempre una cosa sola.

A proposito del Piccolo e del Grande Volto, per ritornare ai contenuti dell’Idra, il Sepher ha-Zohar III^ ai fogli 141a 141b (Idra Rabba) afferma: l’Antico degli Antichi [Grande Viso] e il Piccolo Volto è una sola e medesima cosa; tutto era e tutto sarà. Non è suscettibile di trasformazione, non è mai modificato e mai lo sarà, è il centro di ogni perfezione. È l’immagine di tutte le immagini, l’immagine di tutti i nomi, l’immagine che si vede ovunque e sotto tutti gli aspetti, ma soltanto come riproduzione e disegno, poiché nessuno ha visto o può vedere l’immagine reale ed autentica. La riproduzione più simile all’originale è quella dell’uomo. Tutti i mondi, in alto e in basso, sono compresi nell’immagine di Dio. L’Antico Sacro [Grande Viso] e il Piccolo Volto sono la stessa cosa. Ma ci si chiederà, quale è dunque la differenza fra l’uno e l’altro? Il tutto è una bilancia, dove un piatto contiene la Clemenza e l’altro il Rigore. I piatti formano due bilance? Assolutamente…

Le Sephiroth i due Visi, i Parzuphim (le Persone) sono quindi i soggetti dell’Idra, tali temi sono sviluppati dal punto di vista dei diversi aspetti sotto i quali la divinità si manifesta. Nel testo l’esposizione segue il punto di vista del Non-Essere (Ayn), e descrive l’adattamento dell’Assoluto alle condizioni della Relatività in funzione della Ragione.

Locuzioni come: La Testa del Re, i Capelli del Re, la Fronte del Re, il Naso del Re sacro, le Orecchie, ecc. che si incontrano nella lettura del de-Maschanah, non vanno, ovviamente, considerate in senso restrittivo, poiché, termini come Testa, Fronte, Occhi, Orecchie ecc. non sottintendono, assolutamente, delle forme materiali i cui antecedenti si trovano, per altro, nell’antica dottrina del Ch’iour Qomah (la misura del corpo di Dio) che tanto imbarazzo provocò ai filosofi ebrei del medio evo, ma sottintendono gradi dell’essenza divina in manifestazione.

Scorrendo il testo dell’Idra, emerge assai chiaramente, che l’incommensurabilità è uno degli attributi della divinità in manifestazione, la quale è, indefinita in tempo e spazio. La cosa è di per se assai illuminante. É agevole comprendere, infatti, che l’incommensurabilità indefinita collocata nel tempo-spazio è cosa assai differente dall’infinità a-spaziale e a-temporale di Ayn o del Non-Essere.

L’indefinito, infatti, è soltanto una successione di dati, i quali, per quanto spinti allo indeterminato sono in ogni caso finiti e conseguentemente subordinati alla legge della necessità quaternaria. Il principio o, per dirla con l’Idra, Kether è simile al punto geometrico il quale anche se considerato privo di dimensione e spazio, produce tuttavia la linea, il piano e il volume; ma pur rappresentandosi in indefinite modalità, il punto può produrre soltanto linee, piani o volumi. Esso quantunque elemento di origine, ricade nella sfera dello spazio-temporale, con tutte le implicanze d’ordine metafisico che ne possono scaturire.

L’infinito a-spaziale e a-temporale di Ayn, del Non-Essere, è di altro ordine e grado. Esso è privo di ogni relazione, estraneo ad ogni condizionamento e progressione, ad ogni origine ed estremo, a tutti i numeri e numerazioni, indifferente ad ogni punto linea e volume. Cosa ci suggerisce allora il de-Maschanah? Che al di là della stessa essenzialità di cui tutte le cose sono fatte, esiste la radice di questa stessa essenza.

L’Idra, ben comprendendo ogni limite dialettico, colloca la radice di tutte le radici, l’essenza di tutte le essenze, il principio di tutti i principi, al di fuori della portata del pensiero e della conoscenza quale effetto di una relazione soggetto – oggetto. Questo, però, non significa che la via del ritorno al Non-Essere sia, nella Qabalah, preclusa o negata, al contrario ne è testimoniata l’esistenza per… contrasto. La tecnica insegnata in alcune Accademie e conosciuta con il nome di Bittul ha-Yesh (svuotare per riempire) aveva questo scopo; tramite una conoscenza non di relazione ma frutto di una identità con il divino, ritornare al Non Essere.

Nella sua prima manifestazione unitaria e superiore Ayn, il Non-Essere, è la Sephira Kether, che l’Idra chiama Antico degli Antichi, Antico dei Tempi, Mistero dei Misteri, Segreto dei Segreti. Questo supremo grado è anche indicato con Grande Viso o Grande Figura. È il Neqouda hada (Punto primordiale), la Corona, il testimone-protagonista della transizione fra l’Assoluto e il Relativo. Come prima manifestazione unisce, quindi, intimamente i punti di vista del Non-Essere (Ayn) e quello dell’Essere (rappresentato nell’Idra dallo stesso Albero Sephirotico), e come ogni confine, come tutti gli estremi, può essere intuito soltanto proiettato in questi due termini, di cui esso è la frontiera.

Come avviene, secondo il de-Maschanah, questo passaggio, questa transizione dall’immanifesto al manifesto? In verità l’Idra non ne parla, lasciando al lettore interessato la gioia di scoprirlo con la riflessione sugli abbondanti simboli e immagini del testo; ma in un altro passo del Sepher ha-Zohar, al foglio 268b del primo volume, il problema è affrontato e proposto a soluzione nella maniera che segue: …[268b] Rabbi Shimon continuò: alzo le mie mani al cielo, in segno di preghiera.

Quando la Volontà Suprema [Ayn] aleggiava in alto nell’alto, in maniera sconosciuta e inconcepibile, la Testa Misteriosa [Ayn Soph] proiettò una tale Luce [Ayn Soph Aur] da essere a sua volta impenetrabile. Era un “Pensiero di Luce” [269a]. Un velo fu tirato e attraverso di esso, inizialmente in maniera fioca, questa luce iniziò a mostrarsi (Kether), in seguito altri veli furono tesi, ed emersero, così i nove Hekhaloth celesti [vale a dire le successive nove Sephiroth da H’cmâ a Malcouth].

Questi non sono luce, non sono spiriti e neanche delle anime, non sono delle forme definite. Tutti sono Ayn [il Non Essere] percepito attraverso i differenti veli. Non considerate Ayn [il Non Essere] e tutti gli Hekhaloth [le Sephiroth] spariranno.

Tutti i misteri della Fede sono compresi in questo insegnamento, secondo il quale tutto ciò che esiste in alto e in basso è la Luce del Non Essere, l’Infinito [Ayn]. Sollevate un velo, e tutta la materia vi apparirà immateriale; alzatene ancora un altro, e il mondo etereo superiore si manifesterà ancora più spirituale e sottile, e così di seguito [fino alla Volontà suprema].

Lo stesso sacrificio sull’altare, il fumo che se ne innalza e tutto ciò che serve al suo uffizio, altro non è che Ayn [il Non Essere] osservato attraverso la materia. Beato il destino dei Giusti che scorgono Ayn in tutto! Felice la loro sorte, in questo e nel mondo a venire!

Per il Sepher ha-Zohar, quindi, il manifesto transitorio è lo stesso Assoluto immanifesto percepito per contrasto attraverso dei veli. Per la manifestazione del transitorio, poiché esso non sarebbe esistente al di fuori o in contrapposizione all’Assoluto, un velo è inizialmente tirato (tra la manifestazione e la non manifestazione), su cui lo stesso Ayn inizia a mostrarsi prendendo il nome di Grande Viso, questi a sua volta, tira dinanzi a se un’altra cortina, su cui inizia a tracciarsi il Piccolo Viso (le altre Sephiroth). Non si intende qui, sollevare il problema della realtà o meno della manifestazione di fronte all’unicità reale dell’immanifesto, certo è che la creazione intesa come semplice riflesso è un insegnamento chiaramente formulato ed è chiamato nella Qabalah, Eidolon.

Non nascondo di aver subito, inizialmente, la tentazione di presentare l’Idra in chiave alchemica, cosa possibile e altamente suggestiva. Troppo indicativi i passaggi nella seconda parte del testo, latte della Madre, il rosso stemperato nel bianco, il bianco fuoriesce dal rosso, il monte della mirra e quello dell’incenso, spirito che fuoriesce dalla bocca di Dio, le nobili sorgenti dissetano lo Tzadiq (Giusto), succo di potenza ecc. ecc. La verità è che in questa tentazione ha prevalso la necessità di una presentazione ortodossa, ma entrambi i punti di vista raccontano la stessa corsa degli eventi. Comunque è assai agevole per chi sa, ritrovare tutti gli elementi di attinenza all’Opera. Di indicazione possa essere questo passaggio del capitolo sciolto ha-Bahir al paragrafo ottavo: “Il settimo cielo costituisce l’Oriente del mondo… è da là che proviene il seme… perché è il midollo spinale… o se preferite l’Asse… che trasferisce la materia dal cervello a quel membro… o se preferite a quell’Albero… in cui essa si trasforma in seme, così come è riferito in Isaia XLIII,5: io radunerò dall’Oriente il tuo seme”. Ed ancora al paragrafo trentaduesimo: “É scritto [8] (Isaia LV,1): venite, acquistate senza denaro e senza alcun baratto, il vino e il latte. Che cosa significano le parole vino e latte? E quale rapporto esiste fra questi due liquidi? … Possiamo ipotizzare che la Scrittura voglia indicare in senso stretto il vino e il latte? No di certo! Essa indica, piuttosto, le cose di cui questi due liquidi sono il simbolo.

Desidero chiudere questa breve introduzione con le parole di Gershom Scholem: L’Idra de-Maschanah avrà raggiunto il suo scopo se riuscirà a trasmettere al lettore l’idea del potere della fantasia contemplativa e della creatività del linguaggio figurato che il pensiero, apparentemente astruso, dei cabalisti nasconde.

Le note che, nel testo sono riportate in corpo pieno e contrassegnate da numeri arabi appartengono al lavoro di Jean de Pauly, quelle in corsivo contrassegnate da lettere romane sono quelle contenute nel VI^ volume ed eseguite dal saggio revisore voluto da Emile Bertrand nel 1905.

Federico P.

NOTE

[1] Emmanuel Lévyne “Le mystère du Nom divin Èlohim” Tsédek 1980. [Torna al testo]

[2] Gershom Scholem “Lo splendore della Qabbalà” pag. 24. [Torna al testo]

[3] Il riferimento è inteso per la pubblicazione del 1906, traduzione di Jean de Pauly in sei volumi, edizioni Maisonneve et Larose. [Torna al testo]

[4] La parola Sephiroth non è riconducibile al greco sfera, ma, come emerge nel Sepher ha Bahir (il Libro della Chiarezza), è relato all’ebraico sappir (zaffiro), perché sottintende lo splendore di Dio simile, appunto, a quello dello zaffiro. [Torna al testo]

[5] Francis Warrain “ Les Sephiroth”  Edizioni Chacornac Parigi 1931. [Torna al testo]

[6] Alcuni studiosi, ed anche il sottoscrittone è convinto, indicano il commento a tale capitolo mancante in un altro brano sciolto del Sepher ha-Zohar, nel Sepher de Zenioutha in cui è trattato della morte dei Re di Edom (distruzione di una precedente creazione) della restituzione dei Vasi e dell’istituzione del Regime della Metheqela [Bilancia] (presupposto di equilibrio alla creazione attuale). [Torna al testo]

[7] Parola per parola: Quando egli tracciò una corda (ahycm dydm). La parola corda non deve essere intesa nel senso stretto del termine, trattandosi di sartia di piccolissimo diametro che si tende fra due punti per tracciare una linea dritta, quindi il passo è da intendersi: quando allineò degli elementi. In altre parole nel tempo in cui le Sephiroth passarono, dopo la rottura dei Vasi, dalla disposizione circolare primordiale a quella lineare (N.d.T.). [Torna al testo]

[8] Tutto questo passo è estratto dal Midrasch Ruth, del Sepher ha-Zohar Hadasch, foglio 63b; mentre nell’edizione di Venezia si trova al foglio 35a. [Torna al testo]

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L’ARCO DI COSTANTINO




Sotto, lo schema costruttivo dell’arco di Costantino. 1) Armatura del quadrato; i quattro punti rappresentano le intersezioni delle diagonali con le oblique che congiungono un angolo con la mediana del lato opposto. 2) Sviluppo della tavola tripartita; sui quattro punti si intersecano due coppie ortogonali di segmenti tra loro paralleli. 3) Il procedimento può essere applicato diverse volte, ottenendo divisioni del lato per tre, nove, ventisette e così via. 4) Sviluppo «interno» della sezione aurea. ab viene proiettato sul lato di base puntando il compasso sugli angoli adiacenti. Il rapporto così ottenuto tra base e altezza è corrispondente alle proporzioni dell’arco privo del cornicione aggettato. 5) Rettangolo in diatessaron, o in tre quarti. Le aree in grigio segnano la differenza tra i limiti del cornicione e delle mura dell’arco.                                 Sopra, a sinistra sistema di costruzione del rettangolo aureo. A destra sviluppo della spirale aurea. Il metodo più semplice per costruire un rettangolo aureo richiede la costruzione d’un quadrato e la sua divisione per mezzo delle diagonali e delle mediane. Si punta il compasso sul punto mediano del lato di base con apertura pari al segmento che lo congiunge con l’angolo del lato opposto e lo si proietta sul lato di base ottenendo il rettangolo aureo. La proporzione aurea è tale allorché la parte minore (m) sta alla maggiore (M) come la maggiore al tutto (m : M = M : m + M); ovvero, se il lato del quadrato è uguale a 1, allora 0,618 : 1 = 1 : 1,618).   L’arco di Costantino cela una sapienza architettonica non ordinaria, decisamente eccezionale, dispiegata per di più con il determinante ausilio della tavola tripartita, il quadrato partito in nove caselle che figura nel quadro d’apprendista ed è il gioiello del grado di Maestro, uno degl’indiscutibili fossili residui della Massoneria operativa nella speculativa: l’architetto dell’arco di Costantino ha davvero «tracciato una tavola».
Per onorare Costantino e la sua vittoria su Massenzio, il Senato impose all’architetto non pochi imperativi: inglobare nell’arco rilievi desunti da monumenti di Adriano, Marco Aurelio e Traiano con altri scolpiti appositamente per Costantino, articolare in modo continuo il ciclo narrativo dei fregî e l’epigrafico, sottolineare con l’architettura le principali cadenze della complessa simbologia da manifestare con il monumento.
Già un archeologo di razza come Mansuelli aveva colto quali difficoltà si fossero presentate all’ignoto architetto, e come le avesse superate di slancio. L’architetto infatti non si è limitato alla semplice inserzione dei fregî traianei e di Marco Aurelio, ma ha voluto che le loro proporzioni risonassero nell’intero monumento. Ciò costituiva la principale difficoltà: mentre i rilievi di Marco Aurelio sono costruiti con la proporzione armonica di due terzi, quelli di Traiano sono basati sulla sezione aurea. Le tre principali consonanze armoniche, tradotte in rapporti lineari, danno luogo a superfici rettangolari costituite da moduli quadrati, mentre in un rettangolo aureo l’unica divisione regolare possibile riproduce moduli aurei.
L’architetto ha risolto questa difficoltà utilizzando gli sviluppi proporzionali insiti nella tavola tripartita. Per ottenerla è necessario armare il quadrato delle sue diagonali e delle sue mediane, quindi si congiungono i punti mediani dei lati con gli angoli dei lati opposti (Ill. 1.1). Questi segmenti, ipotenuse di triangoli rettangoli 1 : 2 (e quindi in radice di 5), intersecano le diagonali in quattro punti sui quali si tracciano le due coppie di parallele trasversali che costituiscono l’ossatura della tavola tripartita (Ill. 1.2). La stessa costruzione è però necessaria per sviluppare un rettangolo aureo (sotto, a sinistra). L’unica possibilità d’accordare le due proporzioni era di costruire l’arco sulla differenza tra un accordo armonico e la sezione aurea. Perciò l’architetto, invece di sviluppare totalmente il rettangolo aureo dal punto mediano del lato (Ill. 2.1), ne ha contenuto lo sviluppo entro il quadrato, puntando il compasso sui due angoli di base (Ill. 1.4). Su questo rettangolo, sottounità della sezione aurea, ha impostato la facciata dell’arco (sotto)
Sulle suddivisioni della tavola tripartita s’allinea la distribuzione delle parti. L’arco trionfale è corrispondente al terzo centrale, sui margini della tavola insistono gli archi laterali, i tondi adrianei e i fregî di Marco Aurelio in alto. Sulla fascia orizzontale del primo terzo s’arrestano i rudenti, cioè le modanature che colmano gli sgusci delle colonne, sulla seconda s’incentra il cornicione divisorio.
E proprio con il cornicione, così inusualmente sporgente, l’architetto ha raggiunto una proporzione armonica in diatessaron, o di tre quarti. Suddivisa nuovamente la tavola tripartita per tre (Ill. 1.3), e quindi per due, ha tracciato le parallele delle ipotenuse in radice di 5 ottenendo il rettangolo in tre quarti e una scansione modulare di 18 x 24 (sotto).

Con questo rettangolo era possibile armonizzare i fregî aureliani: ciascuno in due terzi verticali, li ha accostati ai lati dell’epigrafe ottenendo due rettangoli orizzontali di tre quarti. Le due coppie di rilievi trovano così perfetta risonanza nelle dimensioni dell’arco.
Con la modulazione di 18 x 24 è possibile, per chi ha pazienza, una più attenta lettura del monumento (sopra). Si noterà che i piedistalli delle colonne sono di quattro moduli, le colonne di sei, capitello e cornicione di tre. Quindi la proporzione fra la colonna e il suo piedistallo è di due terzi, fra la colonna e l’insieme capitello–cornicione d’un mezzo. Le statue ai lati dei rilievi aureliani sono di tre moduli, sul piedistallo d’un modulo: anche qui, rispetto alla colonna, un rapporto di due terzi; i tondi adrianei occupano due moduli e sotto di essi le fasce scultoree realizzate appositamente si sviluppano su un modulo: un mezzo.
Il cornicione divide l’altezza sui 5/13, cioè la sezione aurea aumentata d’un’unità. L’arco trionfale occupa un’area, sino al cornicione, che ripete in verticale le proporzioni di tre quarti. Ma a osservare le linee di scrittura epigrafica si noterà che in ogni modulo ne sono contenute tre. Ciò significa che la modulazione a cui ha fatto ricorso il nostro anonimo e ingegnoso architetto è di 54 x 72. Per i nostri occhi profani sarebbe solo un coacervo di linee. Per lui era musica, la musica dell’universo, della mens divina celebrata nell’epigrafe. 
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LA QABALAH

La Qabalah

Qabalah o Kabalah o ancora Cabala, è il termine ebraico che indica il complesso delle dottrine esoteriche e mistiche dell’ebraismo, esposte in un enorme complesso di scritti pubblicati in un numero ancora maggiore di manoscritti e in un vastissimo patrimonio di tradizioni orali.
Il momento di maggior fioritura della Qabalah si situa intorno al III-IV secolo, ma affonda le proprie radici in una ininterrotta tradizione mistica che la collega con i movimenti apocalittici, con il Talmud e con la Bibbia. Alla formazione della Qabalah – che fu organizzata in maniera sistematica intorno al XIII secolo – contribuirono dottrine gnostiche, neoplatoniche, neopitagoriche, islamiche e cristiane.

Tutto l’insegnamento della Qabalah tende ad investigare la condizione unitiva dell’Assoluto divino alla relatività del creato. Questa indagine non è pretenziosa, giacché la nostra intelligenza può giungere alla nozione dell’Assoluto e all’idea di Dio tramite la riflessione sui principi del Pensiero e della Realtà.

I diversi sistemi filosofici si sono limitati a rappresentare Dio con lo sbocciare del Pensiero e della Realtà; e quando sono risaliti verso i principi, si sono accontentati di considerarlo come il termine di un processo di cui hanno tralasciato di esaminarne le tappe. La Qabalah, al contrario, si è sforzata di scoprire l’ordine necessario che, in virtù delle stesse condizioni del Pensiero e della Realtà, statuisce il legame tra l’Assoluto e il relativo. Per sondare il rapporto tra Dio e mondo, tra Assoluto e relativo la Qabalah elabora delle nozioni di ordine metafisico, i Nomi Essenziali e le loro Plenitudini, i due Volti, le cinque Persone, le dieci Sephiroth, l’Equilibrio della Bilancia, le trentadue Vie, le cinquanta Porte.

I Nomi Essenziali celebrano, in un certo senso, la natura assoluta di Dio. Le dieci Sephiroth rivelano Dio come principio della relatività: è il motivo per cui si associano loro dei Nomi divini Essenziali che provvedono a legare l’aspetto relativo alle condizioni assolute.

I due Visi e le Cinque persone della Qabalah spiegano in maniera graduale l’adattamento della natura assoluta di dio alla relatività, ma da un altro punto di vista. È vero che tutte le antiche teodicee, hanno codificano il principio trascendente, ma nessuna di esse si è preoccupata di scoprire come l’influsso di questo principio trascendente possa essere assimilato dagli esseri creati, interamente sottomessi alle condizioni della relatività. L’Assoluto, così asseverato, dimora inaccessibile e sembra negare la possibilità di esistenza al relativo stesso: giacché se il relativo è al di fuori dell’Assoluto, esso non è più tale, vale a dire non include l’intero; e se il relativo è compreso nell’Assoluto, non può esistere realmente in rapporto a lui. Emerge quindi un dilemma sostanziale. Può esistere il relativo di fronte all’Assoluto? Questo problema è stato risolto dalla Qabalah con l’introduzione del principio della relatività nella natura stessa dell’Assoluto.

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