UN MASSONE RIFLETTE SUL PATER

UN MASSONE RIFLETTE SUL PATER

La lingua parlata da Gesù era l’aramaico. Tuttavia i Vangeli sono stati scritti in greco e solo successivamente tradotti in latino nella Vetus Itala, poi rivisitata da san Gerolamo, l’autore della famosa Vulgata. Pertanto, per l’esegesi dei testi occorre fare riferimento innanzitutto al testo greco. Per questo lavoro è stato compulsato quello di Matteo, il più completo e adottato ufficialmente dalla liturgia cattolica, riprodotto nell’edizione bilingue curata dal Merk.

Osservo, preliminarmente, che la preghiera si compone di due parti. La prima contiene l’identificazione della divinità, la sua essenza, la sua azione in questo mondo; la seconda, invece, attiene al rapporto che intercorre con l’uomo ed alle modalità comportamentali di quest’ultimo.

Padre nostro, che sei nei cieli. S’incomincia con l’invocazione al Padre, facendo seguire il sostantivo dall’aggettivo “nostro”, cioè “di tutti noi”. L’aggettivazione è oltremodo significativa, perché sottolinea la comunione universale fra tutte le creature. Questa interpretazione è rafforzata dalla proposizione susseguente: “che sei nei cieli”, al plurale, quindi. Perché? Anche chi non è addentro all’astrologia, come il sottoscritto, si è imbattuto in altre occasioni in questa terminologia. Ricordo che nella Divina Commedia la struttura del Paradiso è formata da nove sfere, o ‘cieli’, che prendono il nome dei pianeti allora conosciuti, ai quali si aggiungono il cielo del Sole, della Luna e quello delle Stelle Fisse; tutti questi cieli sono contenuti in quello del Primo Mobile, che li trascina nel movimento; infine l’Empireo.

Nell’astrologia tradizionale i pianeti e le stelle vengono in considerazione non tanto per sé, quanto per la funzione che svolgono sull’uomo e sull’ambiente; indicando i “cieli” s’intende quindi fare riferimento alla funzione armonizzatrice della divinità in ogni aspetto della creazione, considerata unitariamente, sì da apparire una teofania: cæli enarrant gloriam Dei, canta il Salmista, cioè la natura, il mondo, l’universo intero esaltano la gloria di Dio, del quale sono un’emanazione. Sarebbe superficiale identificare questa concezione come “panteismo”, credo invece sia più esatto definirla “panenteismo”, pàn en theò, tutto è in Dio.

Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà. Se la traduzione latina ci lascia perplessi, quella italiana ancor di più.

La forma verbale adoperata nella Vulgata è il congiuntivo esortativo, laddove in greco si adopera l’imperativo aoristo passivo. Il tempo aoristo – aorìstos chrònos – indica l’azione accaduta in un tempo indefinito; la parola “aoristo” etimologicamente significa “senza mettere confini”, a-orìzein. Una forma particolare di questo tempo, usata per indicare un’azione extra-temporale, è quella dell’aoristo “gnomico”, da ghnòme, sentenza: veniva usato per conferire autorità al discorso, indicando una verità o una norma, legale o di vita. La lingua greca è molto ricca di sfumature, sicché la traduzione necessita spesso di perifrasi, come ben sanno gli studenti.

Tutto ciò significa che tutte le azioni, alle quali l’orazione si riferisce, non devono auspicabilmente accadere in futuro, bensì che sono state già compiute, una volta per tutte, in una dimensione eterna, atemporale, nel tempo senza tempo!

Assolutamente fuorviante è la traduzione italiana “sia fatta la tua volontà”, quasi che sia compito dell’orante operare o cooperare per questo scopo. Tanto il latino fieri quanto il greco ghìghnomai significano principalmente “essere”, “nascere”, “divenire”, “compiersi”. Inoltre, nel testo greco l’azione verbale è espressa nella seconda persona singolare: il soggetto che l’ha compiuta è quindi il medesimo Padre al quale ci si rivolge, intendendosi così che Egli ha voluto che il suo nome fosse santificato, il suo regno instaurato, la sua volontà compiuta!

Come in cielo così in terra. Questa volta “cielo” è singolare, in antitesi a “terra”, per rendere meglio l’idea della verticalità, il filo a piombo del Grande Architetto, il sûtrâtmâ della tradizione indù, simbolo ‘assiale’ della manifestazione, il quale unisce fra loro gli stati molteplici dell’Essere e li congiunge contemporaneamente al Principio superiore, dal quale provengono ed al quale armoniosamente si ricongiungono.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano. In Matteo, testo latino, non si usa l’aggettivo “quotidiano”, bensì supersubstantialem, “che sta sopra la sostanza”, dunque spirituale; nel testo greco epioùsion, participio presente di epeimi, “sopravvenire”, “sopraggiungere”, in questo senso “quotidiano”; ma anche di epeimì, letteralmente: “che sta sopra: epì – l’essere: eimì”. L’avverbio sémeron significa “oggi”, “ogni giorno”, esprimendo compiutamente l’idea della quotidianità. Azzardo allora la seguente traduzione: dacci oggi il nostro nutrimento spirituale, che è ben diverso dalla pagnotta. Forse, però, entrambe le traduzioni sono esatte: tutto dipende dall’evoluzione spirituale raggiunta da chi chiede.

Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Anche su questo punto c’è qualcosa da dire. Innanzitutto, tanto la traduzione italiana “rimettiamo”, quanto quella latina dimittimus, è errata: nel testo greco è scritto afékamen che è la forma verbale del tempo perfetto: si deve quindi tradurre “abbiamo rimesso”. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Gesù era un ebreo, come tale aveva un fortissimo senso della giustizia: non si può chiedere per sé più di quanto non si sia già dato agli altri. Ma è tutto qui? Credo si possa aggiungere qualcosa d’altro.

Innanzi tutto, il sostantivo ofeléimata è stato esattamente tradotto “debiti”, ma si sarebbe potuto rendere anche “obblighi”. “Obbligo” è ciò che ci “lega” (ob-ligo). C’è una differenza, il debito essendo conseguenza dell’obbligo. “Rimetti” è la traduzione di àfes, letteralmente “portare via, lontano; rimuovere”. Giustamente, allora, Arnold Bittlinger propone un’interpretazione psicoanalitica: rimuovi ciò che ci lega (male) gli uni agli altri, cioè il rancore che ci corrode all’interno e che ci fa vivere male, facendoci sprecare energia. È un concetto ben noto ai buddisti, i quali insegnano il valore della meditazione, la cui pratica serve per purgare la mente dalle negatività che ci causano frustrazioni e sofferenze. Inoltre, recenti studi in campo medico hanno dimostrato la connessione esistente tra le malattie “dell’anima” ed i tumori, perché la corrosione interiore provocata dalle prime altera il processo di rinnovamento biochimico delle cellule, che così restano maggiormente esposte al rischio di degenerazione tumorale. In questo senso, il perdono appare cosa assai diversa da quella propostaci dall’imperante buonismo: si può perdonare, si può cioè rimuovere il ‘legame’, senza per questo aprire le porte delle carceri a chi non ha dato alcuna prova di pentimento per il passato e di ravvedimento per il futuro.

Non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Anche questa traduzione ci lascia del tutto insoddisfatti, se non addirittura sconcertati. Non riusciremo mai a capire come la massima espressione d’amore possa giocare crudelmente con noi, sue imperfette creature, tentandoci per vedere se ci caschiamo e magari rallegrarsene. Di una simile divinità non sentiamo proprio il bisogno.

In realtà, peirasmòn ha il significato di “prova”; il verbo peiràzo significa “mettere alla prova”. La prova è concettualmente cosa diversa dalla tentazione, non c’è la spinta verso il male; Giobbe fu messo alla prova, Eva fu invece tentata dal serpente; il soggetto messo alla prova conserva sempre la libertà di scegliere tra il bene ed il male, senza ricevere sollecitazioni né in un senso né in un altro.

Il ‘male’ di cui si parla è solo quello metafisico? O non è anche il “male di vivere”, quello, quotidiano, esistenziale, che può farci pensare di essere stati abbandonati dal Padre al nostro destino? Il dubbio è legittimo: nell’Apocalisse le battaglie escatologiche sono precedute da eventi catastrofici quali guerre, pestilenze, carestie, ecc., che toccano da vicino la condizione umana. Non si può neppure escludere che nella mente dell’ebreo Gesù pesassero inconsciamente i ricordi delle umiliazioni patite dal suo popolo in Egitto, delle fatiche causate dalla traversata del deserto, delle sofferenze dell’esilio babilonese; ovviamente nulla a confronto della Shoà che sarebbe sopravvenuta dopo quasi duemila anni. Ma, anche senza giungere a tanto, sappiamo purtroppo che la vita ci offre innumerevoli esempi di prove che, alla lunga, possono compromettere irreparabilmente il nostro equilibrio psicofisico. Sarebbe perciò sufficiente che queste prove ci fossero risparmiate o, almeno, che ci fosse dato sufficiente sostegno per superarle indenni, se non nel corpo, almeno nello spirito.

Proprio questo, come iniziati, credo si debba chiedere al Grande Architetto. Consci che il nostro sé individuale è una parte del Sé universale, dobbiamo pregare per trovare in noi stessi la ‘forza’ necessaria per non smarrire questa consapevolezza, per essere sempre sorretti dalla volontà di procedere, anche tra mille ostacoli ed altrettante insidie, nel nostro lungo, doloroso ma pur sempre cosciente e fecondo cammino verso il Tempio radioso che racchiude i valori eterni dell’Armonia e dell’Amore universale.

Giovanni Lombardo

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IL SENSO DELLA REALTÀ

IL SENSO DELLA REALTÀ

(Conferenza tenuta a Roma il 26 febbraio 1920 da Arturo Reghini alla Società Teosofica)
Tra le tante critiche ed accuse che mi ha sempre tirato addosso la mia lunga ed ardente attività spiritualista ve n’è una che sta per così dire alla base di tutte e che ancor oggi ogni tanto mi tocca a sentirmela appioppare. Dicono, nientedimeno che ho smarrito il senso della realtà! Anche a voi, o lettori, a qualcuno di voi almeno probabilmente sarà capitato lo stesso guaio. Ve lo dicono con le buone, con un misto di compassione e di dispregio, come se vi constatassero affetti da una specie di malattia incurabile; è tanto una brava persona, istruita, intelligente, per bene, ma poverino, ha la testa nelle nuvole, è fuori della realtà! E ve lo dicono con tanta sicurezza che si resta un po’ male; tanto più che la cosa suscita una certa apprensione, perché, dico io, se mi è capitata questa disgrazia di essere o di andare fuori della realtà, vuol dire che senza neppure accorgermene, devo essere dentro fino al collo nella irrealtà. Il poveretto non se ne era accorto, credeva di essere vivo ed era morto! E allora, siccome senza sembrarlo sono modesto, mi vien fatto di guardare con una specie di ammirazione e con un poco di invidia la sterminata falange della moltitudine che, fortunata lei, ha il senso della realtà, che sa cosa è il reale e l’irreale, che passa nella vita illesa ed immune da ogni illusione come la salamandra tra mezzo alle fiamme. E siccome non c’è gaglioffo alfabeta od analfabeta che non sia più che sicuro di tenersi alla realtà, al positivo, al sodo, dovrei arrivare alla poco confortante conclusione che qualunque gaglioffo sia in grado di insegnarmi cosa sia e non sia la realtà e quale sia il modo di vivere conforme o più conforme alla realtà. Se non che, quando si passa a chiedere al sullodato uomo normale che partecipi un poco della sua sapienza, ci si accorge che la sua sicurezza dipende solo dal non avere mai pensato alla questione, e che in fondo egli non è neppure in grado di capire il senso e la portata di quello che dice e se parla è solo perché Iddio dicesi abbia dato la parola all’uomo ed anche alla donna.
Ma vediamo un po’ in che consiste questo famoso senso umano universale della realtà. In che modo l’uomo sente la realtà? Risponderò dicendo che egli sente la realtà conformemente alle sensazioni che il funzionamento dei suoi sensi gli fa provare. L’uomo è portato a concepire la realtà in modo tangibile e spaziale; il tatto e la vista gli danno il senso di una sostanza materiale, che ha una esistenza oggettiva, indubbia, reale; per il suo istinto il compatto è per così dire l’ideale del reale, il reale al superlativo, tipico, per eccellenza; e perfino di se stesso, della sua propria realtà, ha un concetto come di una cosa spaziale, materiale, corporea. E siccome per la sua esperienza questa e soltanto questa è la realtà, egli nega senza altro la esistenza di ogni altra realtà, o di ogni altro senso della realtà; oppure fa ogni sforzo per concepire e ridurre ogni altra realtà a questo suo senso umano della realtà. E quando incontra e annusa taluno che si è sentito pure toccare e turbare da un diverso brivido della realtà, dichiara imperturbabile che quel poveruomo ha perso il senso della realtà. Ma se si chiede ad un uomo cosa intenda per questo compatto, per questo campione di realtà, ci proverà dapprima a spiegarsi per mezzo delle parole solido, denso, massiccio e simili, ed infine non trovando parole adatte sarà naturalmente tratto ad esprimere col gesto di chiudere il pugno quel suo indefinibile senso di ciò che è compatto. Dopo di che resterà lì come un piolo col pugno chiuso ed a bocca chiusa; e con questo la manifestazione della sua sapienza è bell’è raggiunta. Si tratta in fondo della istintiva attribuzione di una realtà oggettiva alle cose, agli oggetti; ossia del riconoscimento che gli oggetti esistono per davvero e non sono illusioni; un muro esiste per davvero, prova ne sia che non si può passarci a traverso; la resistenza massiccia, la impenetrabilità ecco il carattere vero della realtà, il sigillum realitatis. In base a questo assunto la realtà si limita al complesso dell’esistenza oggettiva momentanea, e dico momentanea perché con questo senso della realtà bisogna escludere gli oggetti del passato che non ci sono più e quelli del futuro che non ci sono ancora. L’uomo viene compreso in questo complesso della realtà in quanto è anche egli una cosa reale e tangibile. Quale altra realtà si potrebbe, infatti, con coerenza attribuire all’uomo?
Intorno a questa concezione che identifica l’esistente col resistente vi sono molte cose da osservare; tra le altre debolmente questa: che non è tanto semplice parlare neppure di una esistenza oggettiva limitata al momento presente, perché il presente non è che un limite, un punto di separazione fuggevole ed astratto tra passato e futuro. La realtà materiale di un universo istantaneo non è una cosa molto persuasiva. Ne risulta che la realtà è un insieme più complesso che non l’insieme delle cose esistenti oggettivamente nel tempo; tempo e spazio sono misteriosi elementi della realtà e non viceversa; e non è legittimo escludere la possibilità di sentire la realtà in modo inumano né limitare l’esistenza oggettiva al tipo familiare all’umanità. L’uomo è profondamente abituato al senso della realtà materiale terrena e simultaneamente al senso della propria identità; e sta benissimo anche se identifica questa abitudine con una conoscenza. Tutto quanto percepisce lo riporta a questi due sensi; la pretesa di spiegare il mondo analizzando i fenomeni e riferendoli a questi due sensi elementari corrisponde al bisogno istintivo di sfuggire dall’inconsueto aggrappandosi al consueto, al notorio, al conosciuto. Il senso della realtà contingente e quello della sua identità, confuso di solito con quello della individualità e con quello della identità personale, sono per l’uomo due solidissimi capisaldi cui tutto riferire per tutto spiegare. E’ ben vero che fenomeni da spiegare egli li percepisce mediante i sensi e che apparentemente i sensi possono ingannare. In fatto i sensi non si ingannano mai; è l’uomo che si inganna sopra le sue sensazioni, ed è poi per forza ed ancora coll’uso dei sensi che perviene ad accorgersi di avere ingannato se stesso. La funzione dei sensi è quella che è, non può dire una cosa per l’altra; può mancare per paralisi, ma se funziona è volta per volta tale e quale immancabilmente, meccanicamente si trova determinata ad essere. Dalla identità di due sensazioni la mente invece può erroneamente dedurre una identità tra cose, in realtà tra loro diverse e riconoscibili per tali in base ad una diversità tra altre sensazioni tutte riferentisi a quelle stesse cose. Quando Cimabue credette che sopra una tela di Giotto stava posata una mosca non venne ingannato dai propri occhi; anzi questi fecero esattamente quanto per forza dovevano fare suggerendogli quella sensazione precisa che nella sua mente era catalogata per mosca (e Giotto sapeva benissimo che gli occhi di Cimabue avrebbero visto una mosca e non una zanzara dove egli aveva alla perfezione dipinto una mosca); si ingannò invece Cimabue nel ritenere che questa assimilazione di sensazioni bastasse senza altro per concludere che si trattava proprio di una mosca; e quando poi volendola cacciare constatò coi sensi che era una mosca di una ostinazione tutta speciale, egli giunse coi sensi a rendersi completo ed esatto conto della realtà. I sensi non ingannano e l’uomo sa benissimo che rispetto ai sensi basta non essere tanto stupidi da illudersi; basta aver l’abilità di accorgersi di sbagliarsi per non restare ingannati; quanto a questo l’uomo positivo, che diamine, è sicuro del fatto suo, ed allora egli è certo di attenersi alla realtà, perché quando uno non si inganna vuol dire che ha acchiappato la realtà e ne possiede quindi il vero, il giusto, l’unico senso. E così senza aver la menoma coscienza di essersi fatto ingannare non dai sensi, ma dalla fatale imprecisione ed illusorietà del linguaggio che egli empiricamente adopera, l’uomo normale, pratico, positivo resta soddisfatto della sua perspicacia.
Ad abbassar questa superbia e questa compiacenza vi è però da obbiettare che questo senso della realtà, conseguenza ed inerente ai sensi umani non è affatto suo monopolio. Anche per gli animali il senso della realtà è dato dalla resistenza e dalla impenetrabilità degli oggetti; anche un cane sa di non poter passare attraverso il muro, e quando lo vede sa che c’è il muro; anche il cane ha il senso dell’io ed impara ad attribuire a sé il nome che gli viene dato; anche il cane ha l’abilità di non illudersi sopra apparenti identità di sensazione e sa che non si può passare attraverso il vetro di una finestra, quantunque ci si veda attraverso, né attraverso uno specchio; e sa che il cane che vede in uno specchio non è un suo fratello in caninità con cui sia possibile nonché doveroso e morale, come di solito, scambiare l’osculum fraternitatis. L’uomo, questo portato massimo della evoluzione secondo quel che dicono i suoi scienziati, ha dunque un senso della realtà non gran cosa diverso da quello degli animali; uomini e bestie alla fine sentono il mondo nello stesso modo, colla sola differenza forse che le sole a non dire in proposito bestialità sono le bestie.
Quanto sia connaturata e fatale questa visione materialistica della vita da parte dell’uomo è rivelato dall’analisi del linguaggio per cui vengono espressi ed ove si depositano, si stratificano e si fossilizzano le impressioni, le credenze ed i concetti della massa umana vivente nel tempo. Uno dei caratteri fondamentali del linguaggio, constatabile in tutte le lingue, è dato dal fatto che ogni concetto astratto trova espressione soltanto mediante la metafora. Il linguaggio esprime l’ideale solo mediante il materiale; per una necessità della mentalità e quindi del linguaggio umano è il concreto, il materiale che sta alla base e che dà il modo di esprimere l’astratto. Soltanto nelle voci riferentisi alla vita concreta il linguaggio offre denominazioni cui concordemente i parlanti una stessa lingua danno il medesimo significato preciso senza possibilità di equivoci; quando si dice pane, acqua, sole, madre, ecc., ognuno intende con sicurezza che cosa viene espresso con tali parole. Il linguaggio astratto consta di un continuo simbolismo, di una continua metafora per mezzo della quale si tenta raffigurare l’astratto mediante l’analogia del concreto. Talvolta questo simbolismo è agevolmente constatabile, tal’altra invece per l’antichità della voce può essere riportato alla superficie solo dalla linguistica. La natura necessariamente allegorica del linguaggio astratto arreca una più o meno grande imprecisione nel significato delle parole, imprecisione che può talora accentuarsi col tempo per la minore resistenza che tali parole presentano a tutti i fattori che incessantemente agiscono sul linguaggio apportandovi mutamenti nella forma e nella accezione delle voci. E per ovviare a questa tendenza alla imprecisione le scienze ricorrono alle definizioni ed alla elaborazione di termini tecnici, sempre riportandosi al concreto ed al materiale. Nella mentalità umana si ingenera per questo o meglio anche per questo una tendenza ad annettere ed a circoscrivere il senso della realtà al tangibile ed al materiale, a vedere nel concreto il tipo della realtà. Di questo fatto si trova prova nel linguaggio stesso. La parola realtà, ad esempio, deriva dal latino res che ha presso a poco il significato dell’italiano cosa. E’ chiara dunque la identificazione della realtà colle cose. La parola sostanza, dal latino sub-stantia, è parola di origine dotta, più recente; ed indica per se stessa una visione subordinata della sostanza; ma già oggi ha perso questo senso per opera della tendenza materialistica universale e nell’accezione comune l’essenziale, la sostanza e la realtà delle cose sono dei sinonimi. La materia, l’humus di cui ogni umano è figlio, è la mater, l’alma mater; e, siccome pare che nella arcaica accezione indoeuropea della parola la mater sia la massaia, la misuratrice, materia è la misurabile, la mensurabile da parte della mens. Lo spirito, l’anima non è in paragone che un soffio, un alito; quel che ha importanza reale è la materia. Per questo in inglese la parola material significa importante ed immaterial quel che non ha importanza; è l’espressione it does not matter, che letteralmente vuol dire non fa materia, si usa per dire: non importa. Anche questa analisi elementare del linguaggio mostra quanto naturalmente l’uomo sia portato ad identificare e concepire il reale come materiale.
Ora questa identificazione più o meno cosciente e completa del reale col materiale, cui la filosofia materialista non ha fatto altro che dare una veste e spesso solo una apparenza di cultura, assume veste filosofica nella affermazione che l’intuizione sensibile del mondo è la visione conforme alla vera natura delle cose. Ed è proprio su questa affrettata conclusione che occorre fermarsi per vedere se è proprio sicuro che questo senso della realtà sia il solo possibile ed esistente e quindi il solo vero. Tanto più che con sensibile si suole limitarsi al consueto sensibile.
E diciamo subito che affermare che un senso della realtà è vero od è falso, è pronunciare una frase priva di significato. Un modo di pensare può essere esatto o no, errato o no; un modo di sentire è sempre vero in quanto è. Se io dico che è freddo esprimo una opinione che potrà essere discussa e comprovata coll’uso del termometro; quando io dico che ho freddo affermo un modo di sentire, ed in questo non posso sbagliarmi, posso sbagliare nell’attribuire la causa di questa sensazione alla temperatura esterna mentre invece può dipendere dalla febbre; ma il modo di sentire è quello che è. Quindi non ha senso il dire che un modo di sentire la realtà è giusto od è sbagliato. E’ certo, in quanto c’è, che un senso della realtà è reale. E’ dunque inammissibile servirsi della così detta giustezza del senso umano della realtà per affermare che non possa esservi un senso della realtà di tipo diverso. Dichiarare che è fuori della realtà chi non abbia o non si limiti al senso della realtà contingente è arbitrario. Ed è anche assurdo perché come si fa ad essere fuori della realtà, può esservi realmente una irrealtà? Io dichiaro che non solo non capisco cosa significhi cotesta affermazione, ma che capisco benissimo che ciò non significa nulla. Il fatto che simili non sensi possano essere enunciati mostra anzi che l’umanità interpreta in modo assurdo una sua percezione vaga che taluno possa avere talvolta un senso della realtà che non è il senso ordinario, consueto, comune, normale, grossolano e volgare; vale a dire rivela un riconoscimento incosciente proprio di quel che si vuole negare, è un’implicita ammissione non solo della pura teorica possibilità, ma della effettiva esistenza di un altro modo di percepire il senso della realtà.
Ma a questa negazione gratuita e presuntuosa di una possibile esperienza altrui diversa dalla propria, e che è solo confortata dal pregiudizio oclocratico cristiano di una eguaglianza di tutti gli uomini che misconosce le diversità e le differenze esistenti di fatto, è lecito opporre qualcosa di più della blanda smentita precedente. Mi sia lecito opporre la categorica affermazione basata sopra l’esperienza personale, che c’è anche almeno un altro modo di sentire, di vivere tipicamente diverso. Io sostengo che è possibile sentire sé e il mondo in un modo che per opposizione, e soltanto per opposizione, possiamo chiamare spirituale o trascendente; sostengo che si può avere invece od oltre il senso della realtà materiale il senso della realtà trascendente o spirituale, o per essere più etimologicamente esatti il senso della quiddità immateriale. Sostengo che si può aver coscienza della propria intrinseca netta incorporeità, che è possibile sentire la intima completa immaterialità dell’universo, e sentire interiormente la totalità delle cose.
E del resto, senza salire tanto in alto, non è difficile vedere che vi sono delle gradazioni di grossolanità o di finezza anche nel modo consueto di sentire la realtà. Sopra il senso elementare delle cose che è fornito dai cinque sensi si può percepire, provocato e suggerito da essi, qualche altro senso in cui la materialità si attenua e quasi scompare. Il senso di profonda trascendenza espresso musicalmente da certe pagine di Beethoven non può confondersi col semplice senso del rumore fatto dall’orchestra e neppure col senso della sonorità, della melodia e dell’armonia. Ed un carattere spirituale si riscontra nel senso di perfezione sapiente di certi palazzi quattrocenteschi; nel senso di potenza ieratica, sfingea, sibillina, interiore, espresso da certe statue egizie od etrusche; nella melanconia religiosa dei tramonti, nella purezza delle albe, nella calma panica dei meriggi solatii, nella spettralità siderale inanimata di una notte serena in alta montagna. Non per caso Virgilio, dopo avere invocato gli Dei, quibus imperium est animarum, invoca i loca nocte tacentia late.
Ma, si dirà, questo senso della trascendenza, se pure esiste, è rarissimo; tanto è vero che anche a giudizio degli uomini sono pochi coloro che smarriscono il senso della realtà; mentre il senso della realtà materiale è posseduto da tutti gli uomini sani. Ebbene, che cosa importa questo, che cosa prova a favore o contro l’uno o l’altro senso della realtà? Forse che la giustizia o la verità o l’esistenza di un concetto o di una percezione si possono dimostrare a colpi di maggioranza? Forse che la verità di un teorema si può riscontrare mediante una votazione elettorale? Forse che è possibile apportare nel campo della metafisica il criterio democratico? No, ci vuol ben altro che la spiritosa invenzione del progresso e dell’evoluzione per far diventare sinonimi la sapienza e la democrazia.
Di simili allusioni ed espressioni si trova esempio o traccia negli scritti dei grandi filosofi italiani dell’antichità, della scuola pitagorica ed eleatica, che ebbero vivo e possente il senso della realtà trascendente. E sia detto di passaggio che è ora di smetterla col chiamare greci i grandi italiani come Pitagora, Empedocle, Parmenide, Archimede, per la sola ragione che non parlavano italiano ma greco. Neppure Cesare parlava italiano e con cotesta stregua non sarebbero esistiti italiani prima di tempi assai recenti. Lo spirito positivista sperimentale fu Il senso della realtà comune agli uomini ha diritto di cittadinanza nell’universo come ogni altro senso; ma gli uomini debbono tenere presente che nella casa di mio padre vi sono molte stanze; è una cosa che la sapeva perfino Gesù! Esiste anche un’altra esperienza del mondo per cui non vi sono più le cose né la gente nel senso mortale.

Non vogliate negar l’esperienza
Di retro al sol, del mondo senza gente.


Anche qualche uomo afferra talora “una nota del poema eterno”, ma non è che un lampo, di solito, ed egli riprende poi a sentire il mondo secondo l’abitudine inveterata e resta tutt’al più un “picciol verso” a ricordare l’evento. Ma non è detto che debba essere un lampo per forza; ed è naturale che si possa assuefarsi anche a quell’altro modo di sentire il mondo. Coll’abitudine si ha anche, allora, il senso della normalità e della giustezza di tale percezione; e la sensazione permanente di questa intima incombente realtà è come il mantello di Apollonio che non è possibile scuotere di dosso.
Naturalmente non è possibile spiegare con parole, a chi non ha l’esperienza del senso della realtà spirituale, cosa questo senso sia. Ed agli altri è inutile. Il linguaggio non è che un mezzo convenzionale col quale gli uomini alludono alle loro comuni esperienze, e presuppone ed ha per base un’esperienza similare comune. Esso si presta già male, e dà luogo a continui equivoci, quando si tratta di astrazioni e di concetti filosofici e scientifici; tuttavia, quando si passa al trascendente, è ancora possibile, mediante il simbolismo naturale del linguaggio, mediante la metafora dal concreto all’astratto, trovare il modo di alludere e quindi di esprimere anche l’esperienza sovrumana; ma questo inevitabilmente inter pares, inter nos, e non inter homines. E del resto se l’uomo normale, positivo, non è capace di spiegare cosa sia il compatto, quale mai pretesa è questa di voler avere la spiegazione di quel che non è compatto? Quando si vorrà rendersi conto che non c’è nulla da spiegare ma che c’è tutto da intuire?
Di simili allusioni ed espressioni si trova esempio o traccia negli scritti dei grandi filosofi italiani dell’antichità, della scuola pitagorica ed eleatica, che ebbero vivo e possente il senso della realtà trascendente. E sia detto di passaggio che è ora di smetterla col chiamare greci i grandi italiani come Pitagora, Empedocle, Parmenide, Archimede, per la sola ragione che non parlavano italiano ma greco. Neppure Cesare parlava italiano e con cotesta stregua non sarebbero esistiti italiani prima di tempi assai recenti. Lo spirito positivista sperimentale fu carattere precipuo della scuola italica; il modo onde Pitagora giunse alla scoperta dei rapporti aritmetici tra le altezze delle singole note è il primo esempio tipico perfetto di metodo sperimentale che la storia delle scienze registri; le basterebbe questo per far presumere che questo medesimo spirito positivista egli e i suoi migliori discepoli portassero in tutti i campi di esperienza, anche in quelli dell’esperienza trascendente. Parmenide colla sua filosofia ontologica si pone nettamente nel piano della realtà trascendente. Empedocle tutto pervaso e vibrante di spiritualità trova un fratello solo nell’entusiasmo mirabile di Tommaso Campanella. La serenità luminosa ed ardente del cielo calabrese e siciliano si riflette nella serenità e nell’ardore della visione spirituale di questi grandi italiani.
Ma questo senso della realtà spirituale va annebbiandosi ed ottenebrandosi via via che dalle scuole italiche si passa alle greche, e finisce col perdersi in Aristotele. Aristotele è in gran parte responsabile della materializzazione del senso della realtà in Occidente; per lui, osserva Nietzsche, l’oggetto individuale, il tòde ti è il tipo della piena realtà. Venne poi la ditata brutale ebraico-cristiana; ed era naturale che la cristianità dovesse ritrovare in Aristotele il filosofo del suo cuore. La mentalità moderna, che ha ereditato dalla Grecia il cerebralismo, il bisogno delle spiegazioni, e dal cristianesimo le debolezze sentimentali, il bisogno delle consolazioni, è istintivamente razionalista e materialista e sorda ad ogni senso della realtà immateriale. Il cristianesimo ha sentito il bisogno della resurrezione dei corpi per poter dar corpo anche al paradiso 1; e le varie scuole spiritualiste o meglio che pretendono di essere spiritualiste, sono inevitabilmente portate ad immaginare uno spirito divino od umano che è un surrogato, un duplicato della materia o del corpo, una veste od un nocciolo, una parvenza e non una essenza, una res e non un quid.
Dante, oltre ad essere l’altissimo poeta ed il politico divinatore, è anche sommo filosofo e metafisico, e con linguaggio filologicamente adeguato ed appropriato spesso esprime la sua percezione della realtà interiore. Egli sa di essere in cielo e non in terra; e lo dice esplicitamente per esempio in Par. I, 89-92, e Par. XXII, 7. In tutto il poema sacro al quale han posto mano e cielo e terra, egli non fa che inoltrarsi, salire, illuiarsi, indiarsi, internarsi sino a poter dire:

Nel suo profondo vidi che si interna
Legato con amore in un volume
Ciò che per l’universo si squaderna.


Tra i moderni Nietzsche ha avuto forse più degli altri la forza di trarsi fuori dal mondo ordinario, di sentire la realtà. In Zarathustra, nella Gaia Scienza, e nella Volontà di Potenza traspare un senso trascendente della realtà.
E l’incorporeità del nostro corpo in una visione spiritualista delle cose è chiaramente percepita dal Bergson che se ne serve per dimostrare la difficoltà del dare un carattere ed una sede materiale alla memoria: “Envisagé de ce nouveau point de vue, en effet, notre corps n’est point autre chose que la partie invariablement reanissant de notre représentation, la partie toujours présente, ou plutòt celle qui vient à tout moment de passer. Image lui mème, ce corps ne peut emmagasiner les images…” (Matière et Mémoire, Paris, 1903, pag. 164).

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E’ interessante osservare come, se da una parte l’attitudine istintiva umana è quella di attribuire realtà al solo senso materialista ristretto della realtà, alcune religioni ed alcune scuole filosofiche spingono ad un esclusivismo in senso inverso il loro riconoscimento puramente negativo, logico e non sperimentale della realtà trascendente, affermando la illusorietà intrinseca ai sensi umani. Esse dicono, per esempio, che l’acqua non è quel che appare ai sensi umani perché in realtà l’acqua è un insieme di atomi di ossigeno e di idrogeno in movimento i quali poi alla loro volta si scindono all’analisi in ioni, ossia in una materia che è viceversa della forza che non si sa che cosa sia, e avanti di quel passo. L’universo intero non è che una grande illusione di cui è specialissima vittima l’umanità. La parola Maya è sulle bocche di tutti. E ne esce fuori tutta una propedeutica per sfuggire a questa illusione, per sollevare il famoso velo di Maya, per liberarsi dal cieco carcere della carne sollevandosi dalla vita della materia a quella dello spirito. Così si crea un antagonismo artificiale tra i due modi di sentire la realtà, un feroce dualismo tra spirito e materia in cui la materia ne soffre e lo spirito non ne gode. Persino Kant, il torpido filosofo di Koenigsberg, cade in questo eccesso esclusivista della filosofia spiritualista, e pensa che per percepire il mondo come è realmente occorre superare l’intuizione sensibile, cosa che d’altra parte egli vede possibile solo colla morte. “Quando l’anima lascia il corpo, dice egli 2, noi non abbiamo più l’intuizione sensibile del mondo, non percepiamo il mondo come appare ora, ma come è realmente”. Di fronte alle aberrazioni ed agli eccessi della filosofia idealista, la filosofia materialista, meglio rispondente all’istintivo materialismo umano, ha avuto buon giuoco, e così si è profondamente radicata in moltissimi la persuasione che la sola conoscenza reale è quella fornita dalla loro intuizione sensibile. E c’è voluta tutta l’ondata dello spiritualismo moderno, che ha investito con formidabili assalti il materialismo esclusivista, e le necessità filosofiche cui le stesse scoperte della fisica hanno portato, per scuotere un poco la sicumera dei materialisti ad oltranza.
La Società Teosofica, nei primi tempi, vale a dire quando era ancor viva la sua fondatrice, H. P. Blavatsky, prese a questo riguardo la giusta posizione. Come è noto la Blavatsky fu anti-materialista, anti-cristiana, anti-spiritista. Lo spirito che animava allora la Società Teosofica era veramente positivista, sperimentale, esoterico. Tra i sistemi filosofici indiani la Blavatsky prediligeva il Vedanta Advaita, che tanto ricorda il monismo di Bruno inspirato alla monade pitagorica. Poi, con l’evoluzione, son venuti altri tempi. Il Buddismo ha ricevuto le preferenze, grazie alla sua maggiore affinità coi pregiudizi cristiani. Nella loro esasperazione spiritualista buddismo e cristianesimo tendono entrambi a ripudiare il senso della realtà materiale per rifugiarsi in quello della realtà spirituale. Per l’uno il mondo è una valle di lacrime, per l’altro una causa permanente di guai, di dolori e di seccature. Il buddista è solo preoccupato di sfuggire alla ruota delle cause e degli effetti, e di sottrarsi alla catena delle reincarnazioni; o per lo meno si sforza di raggiungere il programma minimo di non farsi un cattivo Karma e di avere così una prossima incarnazione di sua relativa soddisfazione; il cristiano ripone le sue speranze in una giustizia misericordiosa che lo compensi in un paradiso ultra terrestre dei guai di questo mondo. Un dualismo antagonista tra anima e corpo sta alla base dell’una e dell’altra religione. Il buddismo ha mitigato ma non distrutto alla radice le aberrazioni e le esagerazioni cui si spingono talora certi yoghi indiani per raggiungere i siddhi; il cristianesimo ha raggiunto nella negazione della vita materiale la patologia. Si è concepito il corpo come un nemico, il pensiero come una tentazione del demonio, i desideri della carne come peccato mortale; e nell’attesa supinamente cieca di una grazia celeste che la macerazione e la mortificazione della carne, l’incretinimento della ragione e l’esasperazione morbosa dei sensi dovevano rendere possibile e meritoria, si prendeva per oro colato ogni più stravagante ed assurda visione. La Società Teosofica, mantenendosi sulla via tracciata dalla Blavatsky, avrebbe potuto mantenere il sano equilibrio esoterico tra spirito e materia; parimente avversa all’esclusivismo materialista ed a quello cristiano, avrebbe potuto come il trionfatore ermetico far procedere il suo carro regale condotto dalla pariglia bianca e nera. E’ deplorevole che questo non sia successo. Nella smania di voler dare ragione a tutti, di voler trovare accordo anche dove c’è antitesi, di fabbricare e spingere all’assurdo la pretesa unità fondamentale di tutte le religioni e di tutte le scuole, si è dimenticato che i punti di contatto non possono esistere che a causa dell’esistenza di zone che non sono in contatto. A questa smania si deve la bella scoperta del cristianesimo esoterico, che sta riportando all’ovile le pecorelle smarrite. La Teosofia va diventando a poco per volta un surrogato del cristianesimo. In Germania poi ve n’è un ramo che sta facendo addirittura una teosofia ad usum Societatis Jesus. E così si va sempre più lontani, ma molto lontani, dalla sapienza esoterica, che non ha mai avuto per compito e funzione di consolare l’umanità; ma sebbene ha avuto ed ha il compito di dissiparne i pregiudizi e di condurla e mantenerla ad una serena ed equilibrata visione della vita, e di rendere la convivenza sociale la meno peggiore possibile. Per quei pochi poi che drizzano il collo per tempo al pan degli angeli la sapienza esoterica si propone condurli all’esperienza positiva di ogni trascendenza, ed alla intelligenza di tutte le cose.
La civiltà classica, pagana, seppe mantenere anche socialmente l’equilibrio esoterico, e non rinnegò lo spirito per la materia né la materia per lo spirito. Preposto alla iniziazione è il medesimo dio Dioniso o Bacco, che è dio dell’orgia e del vino; Cerere che è la dea dell’agricoltura è la dea dei misteri e delle cerimonie iniziatiche. Platone nell’apologia di Socrate per bocca di Alcibiade si sofferma con compiacenza sopra la sua resistenza al vino e sulle formidabili sbornie che prendeva insieme ai discepoli; oggi per questa e per altre ragioni si accuserebbe Socrate di corrompere la gioventù in altro senso, per cui lo stesso Anito non pensò ad accusarlo; e certo vi sarebbero poche associazioni spiritualiste che ammetterebbero tra i loro soci un individuo così immorale. Mens sana in corpore sano era l’ideale latino, ed i discepoli di Pitagora eccellevano anche nelle Olimpiadi. Questa serena e savia visione sapeva ad un tempo tenere presenti le due realtà; e sapeva dominarle entrambe come Ercole ed Hermes i due serpenti. I nostri antichi non smarrivano il senso della realtà spirituale per la materiale, né quello della realtà materiale per la spirituale; perché non smarrivano il senso superiore della duplicità della realtà. E di fronte all’affermazione cristiana che il paradiso è dei semplici, sia lecito affermare paganamente che il paradiso è dei duplici.

   

Lo spiritualista pagano che si guardi intorno nel campo spiritualista vede oggi un tale spettacolo che è difficile dire se la pena possa più del disgusto, e la nausea del ridicolo.
Non parliamo del feticismo selvaggio degno di bruti più che di uomini, quale, per esempio, quello ritratto dal Michetti nella grande tela che è al Museo di Valle Giulia; non parliamo delle madonnine miracolose che qui in Roma fanno concorrenza alle sonnambule di piazza e cui una turba di idioti lascia denaro non potendo lasciare giudizio; non parliamo dei santi miracolosi truffaldini ed espediti sul tipo di San Ranieri di Pisa; ma cosa è questa montatura sentimentale che spasima per le pene di Gesù, le quali, se anche vere, sono state infinitamente più lievi delle torture subite con tanto santo eroismo da migliaia e migliaia di martiri nostri morti di lenta agonia tra una trincea e l’altra o conficcati ad un reticolato? Cosa è questa croce su cui l’aberrazione masochista dei primi cristiani si compiacque di proclamare inchiodato il loro Dio, con scandalo dei pagani che mai avrebbero concepito che si potesse giungere a vedere nel disonore del Golgota il certificato regolare, ufficiale della divinità? Cosa è questa morbosa idea del peccato e delle sue conseguenze, questa mostruosità dell’ira e della vendetta di Dio e dell’inferno, per cui a milioni di uomini questa vita fu resa per davvero un inferno? Questa ipocrisia di una morale unica assoluta, fatta per uso e consumo dell’uomo volgare, e che in pratica si preoccupa solo di non dare scandalo e di sgusciare tra le maglie dei comandamenti e della confessione, tenendo sempre egoisticamente di mira il paradiso? Cosa è questo spirito di compassione per cui non si lasciano stare in pace i disgraziati, ma col pretesto della fratellanza li si obbliga a constatare che non tutti stanno male come loro? Questo precetto di fare agli altri quel che vorremmo che fosse fatto a noi, come se tutti avessero gli stessi gusti? Questo guardare in su per cercare il cielo, questo abbietto strisciar per terra, queste genuflessioni, questo battersi il petto, questo timor di Dio, questa compunzione ipocrita, questa unzione gesuitica, questo andar rasente i muri, obtorto collo, gli occhi bassi e le mani dentro le maniche quasi in perpetua attesa della caduta di una persiana dall’ultimo piano? Cosa sono questi biascicar paternostri, queste poste del rosario, queste litanie, questo segnarsi a dritta ed a manca, questo tuffar di mani in uno stesso recipiente col vantaggio non troppo visibile della salute dell’anima e di quella del corpo? Cosa è questo bisogno miserabile di una consolazione, di una giustizia compensatrice nell’al di là, questo proibire ai ricchi di spirito l’ingresso nel regno dei cieli, forse per liberarsi, almeno in paradiso, dai guastafeste? Che sono mai questi monasteri dove molti si radunano per star soli? No, questo non è senso della realtà spirituale, e non è più nemmeno sano senso della realtà materiale; è morbo, mania religiosa, meschinità, aberrazione, è la forma cattolica dell’infezione cristiana. Il lupus non produce sui volti umani rovine più ripugnanti.
Se passiamo ai protestanti dalla padella caschiamo nella consueta brace. Se il paragone non vi piace, diciamo che da Scilla andiamo a Cariddi, che non è poi una gran distanza. Questa gente, nientedimeno, pretenderebbe di ragionare; ma come può fare a servirsi del proprio cervello, quando tutta la scatola cranica è ingombra da un libro, anzi dal libro, come essi lo chiamano? Che sembra paralizzi loro sino i centri nervosi del movimento, sì da obbligarli a camminare rigidi, impettiti, angolosi e seri come un funerale. Bibbia, bibbia e ancora bibbia. Questa religione da ruminanti conta al suo attivo la pruderie, lo shocking, il cant, il puritanismo, ed ora, eterni Dei, anche il proibizionismo. Con tutto il loro amore e la loro fratellanza cristiana dividono l’umanità in due razze, i bianchi ed i colored men. Negli Stati Uniti d’America, dove sessanta anni or sono c’era ancora la schiavitù, i negri ed i giapponesi (ed in parte anche gli italiani, i dagos) son tenuti a parte peggio dei lebbrosi non solo nei treni e nei cinematografi, ma nelle chiese cristiane e nelle logge massoniche e teosofiche. Non sarebbe meglio astenersi dallo stamburare ai quattro venti amor del prossimo e fratellanza universale? Ivi un tiranno dalla mandibola bestiale, dopo aver sbandierato una sua lega delle nazioni e il paradigma dei quattordici punti, nega sfrontatamente l’eguaglianza delle razze e contesta i più elementari diritti al popolo che può vantare le maggiori benemerenze antiche e recenti ed i più puri titoli di nobiltà. Meglio sarebbe sprofondassero in mare quella loro statua della Libertà, proclamassero il loro brutale egoismo, e si tuffassero nel senso della realtà economica, l’unico senso della realtà che questi business men sian capaci di concepire.
Quanto alla religione greco-ortodossa, dicono in Toscana, accidenti al meglio! E questo è lo spettacolo offerto dalla grande massa della cristianità, sorda ad ogni senso di trascendenza immersa nella materia, nei pregiudizi, nella morale, nella paura, negli isterismi sentimentali, e nell’inerzia mentale e spirituale.
I movimenti di natura spiritualista sorti di recente di fronte alla grande levata di scudi materialista del secolo scorso, ebbero nobilissime intenzioni, ma i fatti lo sono stati molto di meno. Che dire degli spiritisti che van cercando la prova materiale dell’esistenza degli spiriti? Sì che il fenomeno più ambito è la materializzazione dei fantasmi? Non solo non cercano di afferrare il senso della realtà spirituale, ma pretenderebbero che gli spiriti acquistassero il senso della realtà materiale. E se ne vanno in estasi, magari per quaranta anni di seguito, dinanzi ad una sedia ed un tamburello per il solo motivo che si muovono senza che nessuno li tocchi! Né i così detti occultisti delle molte scuole orientali ed occidentali pare che troppo si interessino al senso della realtà spirituale. Uno sente il Weitschmerz, il dolore del mondo, e quell’altro il bisogno di sacrificarsi, uno ci ha la chiaroveggenza e quell’altro esce in corpo astrale, uno si sdoppia e quell’altro si stripla, uno vi predice il passato e quell’altro evoca gli elementali ed i suoi nobilissimi defunti. Ogni proposito è buono per dire un sacco di spropositi. E studiano il sanscrito e l’ebraico per poter dire bestialità anche in sanscrito ed in ebraico. Bel vantaggio davvero riempirsi la testa coll’alchimia, l’astrologia, la cabala, i tarocchi, la magia, la stregoneria, il misticismo, il simbolismo, la storia, le filosofie, le religioni, le scienze comparate e non imparate, e persino, santissimi numi, colla quarta dimensione; quando non si ha la menoma idea di ciò che sia linguaggio e pensiero; quando nel cervello, nei nervi, e perfino nei sensi sovrasta e snatura tutto un’enorme, spessa e tenace crosta di incomprensioni, di valutazioni implicite ed incoscienti, di pregiudizi, di tradizioni, di superstizioni, di preferenze sentimentali, di torpori inerti, di eredità succhiate dal latte materno, dalla bocca dei maestri nelle scuole; dalle limitazioni e caratteristiche di un linguaggio, dalla mentalità peculiare ad un tempo ed a una razza, dalla religione, dalla moralità e dall’ignoranza dominanti! Tutta l’acqua della sorgente di Mnemosine, versata entro tutto questo sudiciume, non farebbe che rimestar sudiciume. Ed è proprio inutile per darsi e per dare l’illusione di essere iniziati ai grandi misteri, lanciarsi alla fabbrica dei romanzi della Lemuria, dell’Atlantide, del piano astrale con relativo serpente, della reincarnazione, delle catene planetarie e dei pianeti interni prima di Mercurio. Anche se qualcosa di vero c’è in tutto ciò, occorre sapere e non trastullarsi colle chiacchiere. Svelare ad un povero cervello umano, spesso digiuno di studi, il mistero di Sat, Cit, Ananda, quando quello è incapace del sillogismo più elementare e non sa parlare senza sgrammaticature, anacoluti e strafalcioni, mi pare una farsa di cattivo gusto. Far sospirare un disgraziato per una decina di anni, e poi ammetterlo all’ultimo grado della scuola esoterica per spiegargli, a muso duro come è congegnata la baracca delle catene planetarie, mi par quasi una cattiveria. Raccontare la storia della creazione; come il Signore, anzi essi il Signore prima creò le 22 lettere dell’alfabeto ebraico, poi i dieci Sefirot, poi le 78 lame del tarocco, poi Lilith, poi la foglia di fico, poi Adamo ed Eva con relativo pomo e serpente e su bel bello di questo passo, quando si ignora cosa c’è tre km. sotto terra e due minuti dopo il primo sonno; sarà una grande salvezza e una gran bella soddisfazione; a me fa l’effetto della girandola: gira, gira, fuoco e fumo, e da ultimo restan quattro pezzi di legno bruciacchiati che non son più buoni a nulla.
E per correre dietro a tutte coteste storie si perde un tempo prezioso che potrebbe essere saviamente impiegato da coloro che sinceramente aspirano ad una conoscenza reale. Lunghi anni di paziente ed arduo lavoro richiede la grande opera della endogenesi. Occorre un indefesso, tenace lavoro per ripulire il terreno di tutte le erbacce che vi prosperano e vi marciscono, per esporre poi all’aria, al sole, a Dio sin le viscere e le zolle scavate dall’antico aratro; e fare maturare la divina messe, la spica, sacra a Cerere eleusina.
Occorre ricordare che lo spirito dell’esoterismo non è intessuto né di fantasie, né di erudizione, né di languori. Ma è intessuto di esperienza, di esperienza, eppoi ancora di esperienza. Di fronte alle credenze, ai desideri, alle preferenze, ai bisogni, ai giudizi, alla mentalità umana, e persino di fronte alla logica ed alla scienza, il discepolo in occultismo è bene mantenga una santa diffidenza, un’attitudine eminentemente positivista. L’essere il pensiero inestricabilmente connesso al linguaggio, e l’essere il linguaggio foggiato ed improntato dalla mentalità media della razza che lo ha parlato nei secoli, fa di esso una continua fonte di errori e di illusioni; occorre anche qui la santa diffidenza; timor verbi initium sapientiae diceva argutamente Vailati.
Tutto vagliando allo staccio della santa diffidenza, a forza di ripulir la testa, e di picchiare sui pregiudizi, sui desideri e sui sentimenti, a forza di sapone e di bastone, un bel giorno, Diis juvantibus, spunterà un raggio di sole. Il senso della realtà spirituale troverà il modo di destarsi nella coscienza. E sarà una cosa tanto semplice, tanto elementare, tanto evidente, che risulterà assurda, ridicola ed inutile la pretesa di pervenirvi o di spiegarla con tutta la farragine delle scienze, delle filosofie e delle religioni.

Ad lucem per legem, ad legem per lucem.

Arturo Reghini




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LAVORO ORIGINALE DI RICERCA E TRADUZIONE

LAVORO ORIGINALE DI RICERCA E TRADUZIONE  

a cura di  Giuseppe Vatri

che ne autorizza la pubblicazione su questo

    Il Sovrano Grande Ispettore Generale Pyron, segretario del Sacro Impero, ha dato, in forma di istruzione, una Notizia sulla Libera Mur(atoria) e sulla fondazione dei Supremi Consigli del trentatreesimo grado.

    NOTIZIA

    L’origine della Libera Muratoria risale alla costruzione del primo tempio di Gerusalemme, sotto il regno di Salomone, l’anno del mondo 2992, 1012 anni prima della nascita del Cristo.

    La descrizione dei segni mistici per le iniziazioni, le sofferenze dei Muratori sotto i successori di Salomone, il racconto storico del fuoco sacro nascosto da Geremia e ritrovato da Neemia, sono consacrati in differenti capitoli della Bibbia.

    Di tutte le istituzioni divine e umane, la Muratoria è per noi la migliore, perché tutti i sui atti, concentrati nelle parabole, e rappresentati con dei geroglifici, hanno una tendenza continua verso la pratica delle virtù innate nel cuore dell’uomo, che lo richiamano senza posa al principio della legge divina e naturale, ne alteri feceris quod tibi fieri non vis (1).

    La Muratoria non è solo contemplativa, essa è anche attiva verso l’umanità sofferente; ed i suoi emblemi lugubri nel terzo grado simbolico non sono che un linguaggio mistico per esprimere che il vero Muratore è colmo di dolore, quando considera come l’universalità degli uomini non sia perfettamente felice.

    I Muratori stessi non sono sempre stati felici! Dopo la distruzione del terzo tempio, i più zelanti si ritirarono nella Tebaide, dove presero il nome di Kadosh, o Santi; essi coltivarono, nel ritiro, le conoscenze che i loro antenati avevano loro trasmesso e, aggiungendovi la scienza degli antichi misteri, dei quali Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone, Virgilio, avevano divulgato la dottrina; è infatti a questi ultimi che si deve la conservazione delle alte scienze.

    Dopo le crociate, la loro scienza fu trasportata in Oriente, dove si formarono Arnaldo di Villanova, Raimondo Lullo, Ruggero Bacone, Tommaso d’Aquino, ed altri sapienti che hanno reso illustre la Muratoria.

    Le disgrazie dei tempi relegarono di nuovo una gran parte dei Muratori nei deserti della Tebaide, dove i loro successori coltivano ancora oggi le scienze che sono state loro trasmesse; altri si rifugiarono in Scozia, e si riunirono all’Ordine dei Cavalieri di Sant’Andrea che si era formato, in Palestina, a partire da gentiluomini Scozzesi. Essi vi presero il nome di Muratori Liberi e Accettati. Giacomo VI, re di Scozia, fu uno dei loro Grandi Maestri, e trasportò la loro Loggia a Edimburgo. Presto la Muratoria si sparse in tutta Europa: tutti i grandi vollero farsi ammettere alla antiche Iniziazioni d’Egitto, di Palestina, di Grecia, e nei nuovi misteri che facevano loro seguito.

    Dal 936, la Muratoria aveva preso consistenza in Inghilterra.

    Nel 1327, EDOARDO III ne aveva riconfermato le Costituzioni.

    Nel 1425, ENRICO VI fu ammesso nell’Ordine.

    Ma i segreti dell’Ordine rimasero chiusi tra pochissime persone le quali, legate dal loro giuramento, concordarono di non accordarne la conoscenza che a coloro che avessero meritato di conoscere quelle tradizioni.

    Da ciò, deriva questa diversità dei riti, questa moltitudine di gradi, che dividono, per così dire, la Libera Muratoria in altrettanti dogmi che gradi.

    Il Nord ha i suoi istituti, le sue parole, i suoi segni e toccamenti particolari; e questi stessi istituti sono ancora divisi in differenti sfumature.

    La Scozia, uno dei primi asili dei Muratori rifugiatisi, ha ugualmente la sua propria particolare Muratoria.

    L’Irlanda, l’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’America Inglese, l’America Francese, l’Italia, e il suo Mezzogiorno, hanno così i loro dogmi, i loro segni, le loro parole e toccamenti.

    La stessa Francia ha sul suo territorio sistemi dogmatici differenti.

    Ciascuna di queste potenze Muratorie pretende di possedere in esclusiva la scienza ed i misteri dei primi Muratori, cosa che rende la Muratoria in qualche modo straniera a se stessa a causa delle difficoltà che essa esperimenta nelle sue comunicazioni.

    In tutti questi differenti sistemi dogmatici, ve ne è uno che appare concentrato in una liturgia più vicina alla Muratoria primitiva e a tutto ciò che appartiene alla Alta Muratoria professata sui due emisferi: questo dogma è quello conosciuto sotto il nome di Rito Scozzese Antico e Accettato, che contiene tutto insieme la simbolica e la mistica di tutti i Riti, le scienze filosofiche, ermetiche e cabalistiche, gli istituti della perfezione e della saggezza; infine, tutto ciò che si designa con il nome di Muratoria antica, di Muratoria moderna e di Muratoria rettificata.

    CARLO EDOARDO, ultimo rampollo degli Stuart, fu il capo della Muratoria antica e moderna. Egli designò, come Gran Maestro e suo successore, FEDERICO II re di Prussia.

    FEDERICO II accordò alla Muratoria una protezione particolare: essa era l’oggetto di tutta la sua sollecitudine.

    A quell’epoca, il Rito scozzese antico e accettato non era composto che dai venticinque gradi dei quali il Prin(cipe del) R(eal) S(egreto) era l’ultimo.

    Dei progetti di rinnovamento, delle discussioni sollevate in Germania del 1782, gli fecero temere che la Muratoria non divenisse la preda dell’anarchia di coloro che, sotto il nome di Muratori, avrebbero potuto tentare di degradarla, di avvilirla, di lavorare alla sua distruzione.

    FEDERICO prevedendo, nel 1786, che la sua vita non sarebbe più durata a lungo, concepì il progetto di concentrare il sovrano potere Muratorio del quale era rivestito, in un Consiglio di Grandi Ispettori Generali, i quali, dopo la sua morte, potessero regolare, conformemente alla costituzione e agli Statuti, il governo della Alta Muratoria.

    Il primo maggio 1786, egli portò a trentatré gradi la gerarchia dei gradi del Rito Scozzese antico e accettato, che era allora limitata a venticinque. Diede al trentatreesimo grado il nome di Potente e Sovrano Grande Ispettore Generale. La potenza data a questo grado, e destinata a reggere e governare il Rito, fu concentrata in un Sovrano Capitolo, sotto il nome e titolo di Supremo Consiglio dei Sovrani Grandi Ispettori Generali, trentatreesimo e ultimo grado del Rito.

    Il grado di Princ(ipe) del R(eal) S(segreto) che, all’epoca del 1786, era investito della potenza del Rito, fu allora classificato come trentaduesimo ed il suo potere sparì per fare posto a quello dei Sovrani Grandi Ispettori Generali.

    Il primo maggio 1786, FEDERICO ne fissò Costituzioni, Statuti e Regolamenti.

    L’articolo 5 dice, che non ci sarà che un solo Consiglio di questo Grado in ogni Nazione o Reame in Europa; due negli Stati Uniti d’America; uno nelle Isole Inglesi e uno nelle Isole Francesi.

    Ogni Consiglio non può essere composto che da nove Membri; ma l’estensione dell’Impero Francese ne ha fatto portare i membri a ventisette.

    L’articolo 8 vuole, che dopo la morte di FEDERICO II, i Supremi Consigli siano i sovrani della Muratoria.

    Di conseguenza è detto, all’articolo 12, che i Supremi Consigli eserciteranno, in ogni Nazione o Reame nel quale saranno stati stabiliti, tutti i poteri Muratori dei quali FEDERICO II era rivestito.

    Poiché ogni nazione è indipendente da tutte le altre nel Governo civile, FEDERICO aveva pensato che fosse più giusto che ognuna possedesse entro se stessa una Alta Corte Muratoria al di sopra della quale non vi fosse appello; e questa politica sarebbe risultata gradita ad ogni governo Muratorio, perché non sarebbero potute esistere sovrapposizioni di poteri.

    Uno spirito di invasione e di infrazione alle Costituzioni del 1786 ha tuttavia elevato, ben di recente, delle pretese contrarie. Il Supremo Consiglio di Francia se ne è lamentato! una Circolare del 14 settembre scorso, un Decreto del 30 gennaio seguente, ed infine una Circolare dello stesso giorno, che è stata inviata a tutte le Logge ed i Capitoli di Francia, ed ai Grandi Orienti esteri, fermeranno lo sguardo dei Muratori e li richiameranno alla Sovrana Potenza e alle Costituzioni del 1786.

    Dall’ Estratto dal Libro d’Oro del Supremo Consiglio di Francia, 1813.

    (1) E’ il noto non fare agli altri quel che non vuoi sia fatto a te.

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SABBIA, SALE E ZOLFO: ALCUNE RIFLESSIONI SU ERMETISMO E MASSONERIA

SABBIA, SALE E ZOLFO: ALCUNE RIFLESSIONI SU ERMETISMO E MASSONERIA




Premessa

Non sono un cultore di alchimia o di arti magiche in genere. Non ho mai usato l’atanòr e neppure un alambicco, né ho mai sperimentato alcunché. La mia curiosità è puramente intellettuale, sollecitata dall’osservazione che nel Gabinetto di Riflessione, sul tavolino, vi sono anche tre ciotole contenenti sabbia, sale e zolfo.
Mi sono chiesto il perché e credo di aver trovato la soluzione di questo ‘arcano’. La sottopongo pertanto alla Vostra riflessione, sollecitando il Vostro contributo al dibattito.

L’Ermetismo

Il Fr. René Guénon afferma che con questo termine si designa una dottrina essenzialmente cosmologica d’origine egiziana, filtrata poi attraverso la cultura ellenistica. La si fa derivare da Ermete Trismegisto, figura leggendaria d’iniziato, considerato dai Greci identico al dio egiziano Thot, inventore della scrittura e del calcolo (1). Inoltre, la peculiarità d’indagine della dottrina suddetta è legata al tipo di iniziazione, regale e non sacerdotale: solo quest’ultima reintegrerebbe l’iniziato al Principio, direttamente, consentendogli di realizzare i Grandi Misteri; laddove la prima si limiterebbe al compimento dei Piccoli Misteri. L’iniziazione a questi ultimi comporta “lo sviluppo delle possibilità dello stato umano considerato nella sua integralità; essi mirano dunque a ciò che abbiamo chiamato la perfezione di questo stato, vale a dire a ciò che è stato designato tradizionalmente come la restaurazione dello ‘stato primordiale’” (2). La distinzione è presente in tutte le culture tradizionali: nel taoismo, per esempio, si distingue fra “uomo vero” e “uomo trascendente”. Aggiunge il Fr. Guénon che l’iniziazione sacerdotale è andata irrimediabilmente perduta e che ci si deve giocoforza accontentare delle iniziazioni ai Piccoli Misteri, come quelle di mestiere, tra le quali la Massoneria e il Compagnonaggio: a questo punto, più prosaicamente, mi sia consentito rammentare il vecchio adagio, nel quale è però racchiusa una grande saggezza: “chi si accontenta, gode”.
“Tutto è nel Tutto e il Tutto è in tutto”. Questo motto condensa la dottrina ermetica, che vedeva una stretta correlazione tra fisica e metafisica, la prima essendo un riflesso della seconda. Se il logos del Vangelo di Giovanni è la Parola ordinante, la Natura è il Liber mutus che la custodisce. Lo studio di questo libro può allora essere uno dei possibili strumenti con il quale ritrovare la ‘parola’ andata poi ‘perduta’.
Anche l’uomo è oggetto di studio. A differenza però di altre filosofie, quali la Scolastica, l’Ermetismo si propone anche di incidere sulla Natura – e quindi sull’Uomo – allo scopo di ottenerne la trasformazione. Così, mescolando sapientemente umori di piante e di metalli, gli alchimisti arricchivano la loro farmacopea. Puntualizzo tuttavia che il lavoro sulle piante (spagirìa) o sui metalli (alchimìa) non era mai fine a se stesso: come i muratori che, sgrossando la pietra, lavoravano il loro sé interiore, così gli ermetisti, mutando il piombo in oro, lavoravano essenzialmente sub specie interioritatis per ottenere la trasmutazione del loro Io, attendendo così alla Grande Opera.
* * *Gli scienziati ci dicono che il nostro mondo è cominciato con un Big Bang, cioè con una deflagrazione effetto della dilatazione spasmodica di una struttura infinitesimale. I testi vedici ci parlano dell’uovo primordiale, in cui era contenuta tutta la Manifestazione; l’esoterismo islamico identifica il Principio con il punto geometrico, figura senza dimensioni, dal cui irraggiamento nasce tutto l’universo. La forma e il significato del numero “zero” possono sollecitare interessanti speculazioni. Nel Genesi l’attuale assetto del mondo è il frutto di molteplici distinzioni: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Il racconto prosegue e ci tramanda la separazione fra luce e tenebre, firmamento ed acque, acque e terra asciutta.
Gli ermetisti raffiguravano la materia indistinta con una circonferenza.
Essa è stata fecondata dal sole, simboleggiato dalla circonferenza con il punto centrale: . Il simbolo del creato è invece una circonferenza il cui diametro è in posizione orizzontale: . Il riferimento alla divisione è quindi molto evidente.
Questo grafema è anche il simbolo alchemico del sale. Non ci si riferisce, però, al sale marino: con questo termine gli ermetisti indicavano piuttosto la personalità essenziale di ogni uomo. Occorre anzi mettere in evidenza che i termini del linguaggio ermetico non hanno alcun riferimento con quelli dell’odierna chimica, trattandosi di metafore, di simboli che devono essere interpretati in chiave esoterica. Coloro i quali presero alla lettera i testi ermetici, accingendosi ai fornelli con pentolini e alambicchi, furono chiamati, spregiativamente, “soffiatori di fumo”. A loro può essere forse attribuito il merito di avere dato impulso alla chimica moderna; è tuttavia chiaro che siamo su un piano di lavoro affatto diverso da quello degli ermetisti, mancando i primi di ogni afflato spirituale.
“La sostanza che si cerca è la stessa cosa di ciò da cui bisogna trarla”. L’aforisma, riferito ad Huginus a Barma (3), ci fa ben comprendere come il lavoro ermetico – alchemico avesse per oggetto l’uomo: si trattava dunque di lavorare su di lui per fare nascere l’homo novus, trasformando la pietra grezza in pietra cubica.
In potenza, quasi tutti gli uomini sono pietre grezze idonee ad essere squadrate. Basta che lo vogliano: il massone non è forse “uomo di desiderio”? Il profano che bussa alla porta del nostro Tempio deve essere però come il Folle, raffigurato dalla lamina dei Tarocchi, quella senza numero: un uomo che va verso l’ignoto.
La sua bisaccia è piccola: ha tenuto per sé l’essenziale; appare spinto da un’irrefrenabile ansia, da un dàimon, simboleggiato dal cane che gli morde la gamba, e pur tuttavia il suo viso non esprime sofferenza. Nella mano destra regge un bastone, dal quale spunta un germoglio: se persevera, il suo giardino interiore conoscerà lo splendore della nuova fioritura ed il Nostro raccoglierà rigogliose messi, premio del suo impegno e della sua costanza.
* * *
Il sale – elemento ‘fisso’ – entra a contatto con le influenze esterne. Nel simbolismo ermetico queste ultime sono simboleggiate dal mercurio, elemento ‘volatile’. L’ideogramma ci aiuterà a comprenderne meglio il significato. Sotto la circonferenza, simbolo dell’indeterminatezza della materia, c’è una croce.
Per inciso, è opportuno rilevare che nel linguaggio ermetico la croce non ha un significato a sé stante, designando piuttosto un lavoro, da compiersi o già compiuto. Come ha rilevato il Fr. Oswald Wirth, “il braccio orizzontale è passivo, come l’uomo che dorma o riposi steso al suolo; al contrario, il braccio verticale è attivo, simile all’uomo che sta in piedi, all’uomo ‘svegliato’, cosciente. L’attivo I, che passa attraverso il passivo, suggerisce l’idea di fecondazione, e proprio all’unione dei sessi si ricollega filosoficamente la Croce +, beninteso a patto di sublimare e di ampliare la nozione volgare di accoppiamento. L’idea, penetrando nell’intelligenza ricettiva, la feconda. Dio si unisce alla Natura per generare ciò che è. La nostra energia sposa il nostro organismo, perché questo agisca. È l’applicazione che dà valore ad ogni forza: questo indica la Croce +, segno di azione e di effettivo lavoro. Secondo che il lavoro sia da effettuare o sia già compiuto, gli Alchimisti tracciano la Croce + sotto un elemento grafico o, viceversa, sopra di esso” (4).
Nel caso al nostro esame, la croce sotto la circonferenza simboleggia il lavoro necessario per l’evoluzione della materia prima: non per nulla, in astrologia, con questo stesso segno s’indica Venere, dea dell’amore. La luna sormontante denota che l’evoluzione di cui trattasi dovrà prodursi nel dominio sublunare, dunque nella sfera della materialità soggetta continuamente ai cambiamenti. Per potere affrontare il ‘mercurio’, cioè l’azione dell’ambiente esterno, il ‘sale’ dovrà essere prima opportunamente purificato.
Si noti che nel Gabinetto di Riflessione il mercurio è significativamente assente: il recipiendario è solo con se stesso, deve conoscere la sua intima individualità, e dunque non può e non deve essere affatto condizionato dall’esterno. Da questo punto di vista, il locale è assolutamente sterile, come la sabbia contenuta nella ciotola.
In Massoneria la purificazione avviene mediante i quattro viaggi simbolici ai quali corrispondono, rispettivamente, le prove di terra, acqua, aria e fuoco. Comincia così il cammino iniziatico, dapprima verso i recessi della nostra coscienza, quindi verso l’alto, verso la dimensione dello Spirito. Una volta spogliato dei metalli, cioè dei pregiudizi e delle passioni, l’iniziando mette a nudo la sua personalità essenziale, la sua quintessenza, ovvero ciò che rimane di lui dopo le quattro prove superate.
A questo punto, il profano è pronto per ricevere la Luce, come il sale è pronto all’incontro con il mercurio. La Luce provocherà l’ignizione dello zolfo, ma di ciò parleremo in seguito.
L’incontro è selettivo: l’iniziato non subisce più passivamente le influenze esterne, come un albero investito dal vento, ma se ne serve, scegliendo opportunamente quelle che gli saranno d’aiuto nella sua crescita spirituale e scartando invece le altre. Il Vangelo ci esorta a “separare il grano dal loglio”, nel linguaggio ermetico si parla invece di ‘coagulazione del mercurio’.
* * *Retto pensiero, retta parola, retto agire. Quest’ultimo compito è quello più impegnativo per l’iniziato, che non può però sottrarvisi, dovendo dimostrare con i fatti d’avere assimilato e di sapere mettere in pratica i precetti ricevuti.
La Luce ricevuta ha acceso lo zolfo che l’iniziato custodiva nel profondo del suo Io. Lo zolfo è il Fuoco realizzatore esistente nel nucleo essenziale di ogni essere. Rappresenta l’ardore della volontà, lo slancio verso l’ideale. È simboleggiato da un triangolo che sormonta una croce: . Il triangolo è il simbolo del fuoco; la croce sottostante si riferisce al relativo processo d’irraggiamento che deve essere compiuto dall’iniziato. La combustione dello zolfo è calmierata dal sale, che s’interpone fra lo zolfo e il mercurio: l’iniziato mantiene vivi sentimenti e idealità, ma il suo comportamento è sempre misurato e composto.
A questo punto, possiamo opportunamente cogliere contatti, ma anche differenze, tra la Massoneria e l’Ermetismo.
Comune alle due Scuole è, senz’altro, il lavoro interiore. Abbiamo già detto che le pratiche alchemiche, di derivazione ermetica, non avevano quale obiettivo primario la così detta mutatio metallorum, la trasformazione dei metalli, quanto piuttosto la trasmutazione dell’iniziato.
È, questo, un concetto universalmente conosciuto e accettato. Ne è testimone, per l’Oriente, l’espressione araba kimia es sadaa, alchimia della felicità, quella ineffabile che prova la creatura allorché conosce il suo creatore: felicità estatica, eminentemente spirituale. Per inciso, va affermato che il mondo arabo ha visto fiorire filosofia ermetica e pratiche alchemiche, giunte a noi attraverso i Templari, che alla guerra con i musulmani preferivano decisamente il “commercio di dottrina e Luce”.
Per l’Occidente, invece, vale la pena meditare sulla XIIª lamina del tarocco, l’Appeso: è raffigurato un uomo, impiccato per i piedi, dalle cui tasche cadono per terra alcune monete.
L’uomo è capovolto, come capovolti sono i valori del mondo iniziatico rispetto a quelli del mondo profano (5), mentre le monete che lascia cadere alludono tanto alla spoliazione dei metalli, quanto ai valori che egli diffonde nel mondo, con la parola e, soprattutto, con l’esempio.


Ai suoi lati vi sono due tronchi, che ci rammentano le colonne B\ e J\; la sua gamba destra è piegata ed incrocia la sinistra, formando un triangolo con la punta all’ingiù: . L’ideogramma è il simbolo dell’acqua di vita, pronta a ricevere il Soffio vitale: la Grande Opera è così compiuta (6).
Analogamente, il lavoro del massone che sgrossa la pietra è volto anzitutto alla purificazione della mente e all’elevazione dello spirito.
* * *Le analogie con l’Ermetismo, tuttavia, finiscono qui. Le ricerche svolte non ci consentono di raccogliere tracce di un lavoro politico – nella comune accezione di questa parola, coordinato ed organico – rivolto anche all’esterno, da parte degli ermetisti, sebbene il Cinque e il Seicento li vedano coinvolti a vario titolo, ma sempre individualmente.
Viceversa, la costruzione massonica del Tempio interiore precede quella del Tempio esteriore. Le due costruzioni non procedono di pari passo, né lo potrebbero: prima di rivolgersi all’esterno occorre, intuitivamente, fortificarsi all’interno. Tuttavia è illusorio pensare di migliorare se stessi e disinteressarsi dei problemi del mondo. Il simbolismo delle due colonne è, a tal riguardo, davvero eloquente.
La Bibbia riferisce che quando Hiram costruì il tempio per incarico di Salomone, pose al suo ingresso due colonne. Quella di destra fu chiamata Jakin, quella di sinistra Boaz. I loro nomi significano, rispettivamente, Essa è stabile e Forza (7). Il simbolismo non è però originale: gli ebrei ne sono debitori agli egiziani, che avevano posto una colonna nel regno del Basso Egitto, a nord, a Eliopoli; un’altra in quello dell’Alto Egitto, a sud, presso Tebe. L’unificazione dei due regni avvenne più di 5.200 anni or sono. Il faraone, figlio di Horus, il dio-sole, “luce da luce”, presiedeva al regno unificato, governando il suo popolo con ma’at, cioè con “verità”, “rettitudine”, “giustizia” (8).
Presso gli ebrei la colonna Boaz rappresentava il pilastro regale (Mishpat), Jakin quello sacerdotale (Zedeq). Ambedue le colonne erano idealmente unificate da un archivolto denominato shalom, pace (9).
La pace, la prosperità possono dunque scaturire solo dall’armonioso connubio fra il temporale e lo spirituale. Intendiamoci, la Massoneria non può fare politica, perché i programmi dividono gli uomini, sono invece i princìpi che li uniscono. Compito della Massoneria è formare uomini, maestri di vita, capaci di diffondere la luce e riunire ciò che è sparso.
Diverso è il discorso per i massoni: la costruzione, come dicevamo, è globale; pertanto essi non possono e non devono estraniarsi dalle grandi problematiche religiose, sociali, in una parola: politiche, del nostro tempo. Ciò che veramente conta è che nel loro impegno non dimentichino la tolleranza, cioè, se non l’amore, almeno il rispetto per chi la pensa diversamente, sia questi profano o ‘fratello’: senza, non vi può essere via iniziatica, non vi può essere costruzione, non vi può essere Massoneria.

Giovanni Lombardo

(1) R. Guénon, Considerazioni sulla via iniziatica, Milano 1945, pag. 338. (2) R. Guénon, op. cit. pag. 325. (3) Alchimista vissuto nel XVII secolo. Di lui segnalo La pietra di tocco, una raccolta di massime raccolte da R. Alleau, Aspetti dell’alchimia tradizionale, Atanòr, Roma 1989.
(4) O. Wirth, Il simbolismo ermetico nei suoi rapporti con l’Alchimia e la Frammassoneria, Ed. Mediterranee, Roma 1991, pag. 23.
(5) Rammento che i lavori di loggia sono aperti dopo che il Primo Sorvegliante ha ‘ribaltato’ la squadra.
(6) Cfr. “… e lo Spirito aleggiava sulle acque”, Genesi 1, 2.
(7) I° Re 7, 21.
(8) Ma’at non è traducibile con una sola parola. Il Fr. Mircea Eliade spiega che la ma’at appartiene alla Creazione originaria: dunque riflette la perfezione dell’Età dell’Oro. Sul punto, v. dello stesso A., Storia delle Credenze e delle Idee religiose, I, Sansoni 1991 pag. 106.
(9) Sull’argomento v. C. Knight – R. Lomas, La chiave di Hiram, Mondadori, Milano 1997, capp. 7 e 11.

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LA LUCE NELLA CALABA

La Luce nella Cabala Michele C. Del Re La luce e il mondo

Le cose che ci circondano, senza luce, sono soltanto ostacoli pericolosi ed ostili; con essa il mondo prende forma ed ordine, diventa il cosmo regolato da leggi; per coglier questo non c’è bisogno di filosofia, ma basta l’esperienza quotidiana di ogni uomo, a qualunque cultura appartenga. La luce è intangibile ma presente, ritorna ogni giorno ed è inspiegabile nell’origine; da ciò, facile illazione nella mentalità pre-logica che la luce è manifestazione visibile nel mondo degli uomini e delle cose, della realtà divina ultraterrena senza forma e adimensionale; la luce dunque è il tramite tra la sfera celeste e quella sublunare, la luce dunque accompagna ogni teofania 1. Chiave di volta delle concezioni che vedono come realtà cosmica essenziale la luce, è la contrapposizione del mondo delle tenebre a quello luminoso, con due equazioni, luce-bene-vita, tenebre-male-morte.
Così, nella dottrina manichea, l’elemento caratteristico dell’essere supremo è appunto la luce, concepita come sostanza dell’essere divino. Tale sostanza luminosa, diversa dall’intelletto e dalla materialità, è espressione di Dio, “padre della luce beata” e in quanto tale, signore del regno della Luce. Ma questo regno, fatto di terra-luce e di etere-luce, si identifica, nella sua essenza, con la stessa suprema divinità, poiché esso, corpo della divinità, non è stato creato da Dio, ma è assoluto e coesistente con esso dall’eternità, è espressione della sua essenza. Se una singola parte del regno della Luce fosse nata o fosse stata creata in un dato momento, il regno della luce non potrebbe aspirare a essere assoluto. Il regno della luce non potrebbe aspirare a essere assoluto.
Il regno della Luce è illimitato da tre lati: a nord, a est e a ovest. A sud, invece, la Luce si scontra con l’Oscurità, cosicché qui la sfera di potenza del “Padre della Grandezza”, come lo chiama Mani, e l’armonia più perfetta. Le condizioni del regno delle Tenebre sono in forte contrasto con la pace che domina nel regno della Luce. Gli abitanti del mondo della Materia si scontrano, si spingono l’un l’altro, corrono pazzamente intorno. Nel suo moto vorticoso, il popolo delle Tenebre arriva, ad un certo momento, al limite superiore, dove l’oscurità confina con la luce. Guardando in alto, verso il mondo della Luce, il principe delle Tenebre e il suo popolo vengono presi da un violento desiderio di questo splendido regno e, abbandonati i loro contrasti, si consigliano sul modo di diventar partecipi della luce, di mescolarsi con la luce. I tenebrosi irrompono dal basso nel regno della Luce, così il re e padre della Luce deve difendere se stesso e il regno uscendo dal maestoso “riposo in se stesso” e dalla compiutezza del suo essere, passando da una esistenza contemplativa ad una esistenza attiva 2.
I miti poetici che si sviluppano su questa trama sono numerosi e ispirati, ma interessa comparatisticamente con il nostro tema l’idea dei due regni, dell’aggressione delle tenebre, della corrispondenza luce-bontà-essere.
Lasciando le accennate fantasmagorie del manicheismo e tacendo quelle complesse ed elaboratissime dell’emanazionismo gnostico ellenistico, ricorderò un esempio dal cuore della Palestina 3. Nella comunità di Qumran, quella conosciuta dai manoscritti del Mar Morto 4, la luce e la tenebra sono personificate: la creazione è realizzata attraverso due spiriti, quello della luce e quello del buio; su di essi è fondata ogni opera (Manuale di disciplina, 3, 25). Naturalmente questi due spiriti opereranno finché non verrà il tempo della visitazione di Dio. Il Principe della luce e l’Angelo delle tenebre, tendono a realizzare rispettivamente la giustizia-verità e l’errore-menzogna. L’Angelo delle tenebre insidia i figli della luce per portarli a distruzione. Tenebre e luce vengono così personificati, ma le denominazioni di prìncipe e di angelo, salva forse il principio monoteistico, senza aprirsi al panteismo gnostico.
Si può dire, semplificando, che la concezione cabalistica della luce si trova tra queste due estreme posizioni, ma ha caratteristiche di forte originalità. L’immagine bipolare luce/buio è chiave del cosmo nella speculazione cabalistica 5. Secondo la dottrina della Cabala, l’irraggiamento luminoso ha creato l’estensione, ha creato la dimensione terrena, operando come vibrazione ordinatrice del caos.
D’altronde, nel mondo ebraico-cristiano, la luce è all’origine del mondo e delle sue vicende. La genesi segna l’inizio dell’ordine del mondo con il fiat lux. L’apparizione della luce in apertura del Vangelo di San Giovanni, annuncia il verbo 6. La potenza creatrice precedentemente nascosta nella notte dell’inconoscibile si manifesta con il comando divino che separa la luce dall’ombra, originariamente confuse, l’epifania messianica si realizza con la luce, come la potenza divina viene espressa attraverso il potere di dominare la luce, il volto di Mosè ispirato emana una luce insostenibile, e così via.
Nella Genesi confluiscono diverse narrazioni dell’origine del Cosmo. Quella che più ci interessa è la narrazione del cosiddetto documento sacerdotale poiché in essa protagonista della creazione è appunto la luce: All’inizio Eloim creò il cielo e la terra e la terra era deserta e vuota e le tenebre si stendevano sull’abisso e il soffio di Eloim planava sulle acque. Eloim disse allora “che vi sia la luce” e la luce fu. Eloim constatò che la luce era cosa buona, Eloim poi separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. Si ebbe una sera, poi il mattino: primo giorno.
Eloim disse “che vi siano delle luci sulla volta del cielo per separare il giorno dalla notte e per servire di segno alle feste, ai giorni e agli anni e che dalla volta del cielo i luminari rischiarino la terra”, Eloim pose in essere i due luminari, il più grande per il giorno, il più piccolo per la notte e poi le stelle. Eloim li distribuì sulla volta del cielo in modo tale da rischiarare la terra per comandare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Eloim constatò che era buona cosa. Si ebbe così un giorno ed un nuovo mattino: quarto giorno. Nel discorso incomparabile per grandiosità nel quale Jahvé parla a Giobbe (Gb 38, lsgg.), la luce ritorna come protagonista, segno e frutto della potenza inarrivabile di Dio: hai mai dato tu ordine al mattino, hai mai fatto conoscere all’aurora il suo posto perché impugni le frange del mondo, ne scuota i cattivi quando tutto divenne come la rossa argilla che si tinge come un pezzo di stoffa quando ai cattivi viene ritirata la luce e il braccio che minaccia, fermato? Hai visto le porte dell’ombra? Da quale lato abita la luce e le tenebre dove risiedono, perché tu le riconduca presso di loro e tu sappia il sentiero della loro casa? 7
Arcobaleno, tra luce ed estensione

La luce si manifesta come luce raggiante, splendore, luminosità, biancore, lucore, balenio, scintillio; si diffrange nei colori. La luce, in quanto dà potere di vedere, assegna anche il potere di agire, poiché senza luce c’è soltanto incomposto movimento, non azione. Essa si manifesta attraverso entità-forme particolari come l’arcobaleno che è sostanziato di luce, ma per dir così gode già di certe caratteristiche delle cose materiali. Esso è strutturato e diviso in parti luminose diverse, è già del mondo della molteplicità, insomma. Appunto per questo l’arco celeste è un ponte tra la luce come espressione immediata, manifestazione visibile del mondo adimensionale informale e il mondo terreno fatto di materia estesa non penetrabile, non trasparente, di cose pesanti. Traccia di questa speciale realtà dell’arcobaleno sospesa tra luce e materia, è presente nel folklore: si formano diamanti e perle là dove poggia l’arco del cielo, anello di giunzione tra materia volgare e pesante e realtà celeste, secondo questo schema, che ha poi valore iniziatico:
En sof
Luce arcobaleno
perle materialità

Nella Bibbia l’arcobaleno rappresenta il ponte di salvezza: le intemperie del mondo sublunare non romperanno mai il patto di sopravvivenza che Dio vuole con l’uomo dopo il diluvio (Gn 9, 9_17): è il segno del ritorno dalla luce solo offuscata dalla tempesta, è la strada di luce solo offuscata quale Dio riversa di nuovo la sua luce sul mondo degli uomini, dopo la tempesta che ha ridato libertà sia pur limitata alle forze cieche (non per traslato, nel racconto! cieche perché non vedono, perché non contro la luce) del caos, delle acque spesse e soffocanti.
Proprio in quanto ponte tra Dio e l’uomo, l’arcobaleno simbolizza le prove della via iniziatica, quando l’iniziato si avventura a ripercorrere verso l’alto le linee di irradiazione, che si manifestano nell’arcobaleno: anche nella tradizione cabalistica è segno e via per la risalita verso Dio 8. Esso per l’uomo è un ponte stretto e pericoloso, come ogni passaggio che conduce dal greve al lieve, dalla materia ottusa e non trasparente (carente di luce) allo spirito, che non si frappone allo sguardo, ed è pertanto luminosità.


Dallo Zohar

Il cuore della Cabala è certamente il libro dello splendore, Zohar (splendore, irraggiamento) libro di segreta saggezza 9, per certi aspetti inaccessibile, che ha esercitato una immensa influenza sul pensiero ebraico e di riflesso su tutta la meditazione occidentale sui grandi problemi. “Sotto la superficie dei simboli mistici dello Zohar, i cabalisti hanno visto pulsare la vita nascosta del mondo e hanno sentito di avvicinarsi alla verità totale e profonda dell’essere” 10.
Il Libro dello splendore presenta e manifesta le idee mistiche e gnostiche della Cabala. Essa lascia da parte la filosofia intesa in senso razionalistico e realizza – senza abbandonare il richiamo costante alle fonti tradizionali bibliche, sia pure interpretate spesso in modo assai lontano dalla lettera – una visione del mondo che è madre di meraviglia, poiché anche il pensatore meno recettivo d’una cosmologia per grandi immagini, più legato ai concetti definitori e all’analisi razionale, coglie la ricchezza profonda del messaggio espresso attraverso immagini, richiami, evocazioni, colori.
E la luce inonda l’intero libro, in quanto protagonista della storia cosmica: All’inizio quando si manifestò la volontà del Re, egli pose alcuni segni nella sfera celeste; nel ricettacolo più segreto la scura fiamma si levò dal mistero di en sof infinito come un vapore che si forma dall’adimensionale senza forma, racchiusa nell’anello di questa sfera, né bianca né nera, né rossa, né verde, né di alcun altro colore. Quando la fiamma cominciò a prendere ampiezza produsse colori irraggianti. Dal centro più segreto della fiamma nacque una polla nascosta nel segreto di en sof, e ne uscirono colori che si diffusero su tutto quello che vi era al di sotto.
La polla zampillò ma senza attraversare l’etere della sfera. Essa non poteva essere conosciuta prima che un punto supremo e segreto avesse fatto espandere la sua luce sotto l’azione dell’ultima frattura 11. Al di là di quel punto non si può conoscere nulla, perciò esso è chiamato “inizio”, ed è la prima delle dieci parole con le quali fu creato l’universo. L’inizio Gn 1,1, dunque è luce incolore, vibrazione pura dell’essere, fatta di visibilità, di percepibilità che resta nascosta, finché misteriosamente non viene superata la sfera dell’en sof. La manifestazione della luce è rappresentata dalla mandorla che racchiude la persona divina e che irradia una vibrazione di raggi luminosi attorno a sé. Nella creazione ebraica, la mandorla è un punto ed è il nocciolo dell’immortalità. La luce poi prende caratteristiche particolari nella tradizione ebraica e non soltanto in quella e non soltanto nella cabala.


Il palazzo di luce

Il centro d’origine è un punto, cioè una realtà che anche secondo la geometria elementare è qui, ma non ha dimensioni. Attorno ad esso si svolgono come veli avvolgenti succedentisi, strati di luce sempre più spessa fino a concretizzarsi in materia: la luce più segreta (di una diafanità, di una delicatezza, di una purezza al di là di ogni concepibilità umana), espandendosi dal punto centrale diviene un palazzo di luce, quasi un involucro del centro. Anch’esso è traslucido ed irraggiante al di là di ogni possibilità di conoscenza. Il palazzo riveste il punto interiore inconoscibile; esso stesso è un irraggiamento ineffabile, ma ha tuttavia una sottilità e una diafanità minore del punto originale; attorno vi sono strato su strato ulteriori involucri. Ogni forma che si avvolge alla precedente è lieve, protettiva, ma più densa della precedente, stando allo strato più vicino al centro come la membrana al cervello umano; ed ogni membrana diviene come il cervello per lo strato successivo. Secondo lo stesso modello l’uomo in questo mondo associa cervello e membrana, spirito e corpo per un migliore ordine del mondo.


La luce e la storia del mondo

Nella speculazione cabalistica, non soltanto la creazione, ma tutta la dinamica storica del mondo è fatta dalla luce e dall’antiluce che sono le tenebre. È continuamente presente e attivo l’aspetto terreno della luce come l’aspetto celeste, anzi, sovraceleste. E Dio disse: “Fiat lux” (Gen 1,3). La luce originale che Dio creò è la luce dell’occhio, la luce che Dio mostrò ad Adamo, grazie alla quale fu capace di vedere il mondo da una estremità all’altra 12. La stessa luce che Dio mostrò a Davide che vedendola cantò le sue lodi “Quanto grande è la bontà che tu tieni in riserva per quelli che ti onorano” (Salmo 21,20). Questa è la luce con la quale Dio rivelò a Mosè la terra di Israele.
Alle generazioni peccaminose, quella di Enoch, quella del diluvio, quella della generazione della Torre di Babele, Dio dissimulò questa luce ed essi non potettero goderne; la dette a Mosè ma gliela ritirò quando Mosè si recò dal Faraone, gliela dette di nuovo quando andò sul monte Sinai. La luce del volto di Mosè era tale che i figli di Israele potevano avvicinarlo soltanto quando copriva il suo viso con un velo (Es 34,30).
Rabbi Isacco ha detto: “Con la creazione Dio illuminò il mondo da una estremità all’altra”. La luce poi fu ritirata perché i peccatori che sono al mondo non potessero goderne. Resta in riserva, viene serbata per i giusti come dice il salmo: “la luce è seminata per i giusti” (Salmo, 97, 11).
Questa luce sgorgò dalle tenebre percosse e squarciate dai colpi dell’inconoscibile. E proprio a partire dalla luce che fu nascosta per qualche via segreta furono formate le tenebre dei mondi inferiori dove risiede la luce. Queste tenebre sono chiamate notte del versetto “e le tenebre le chiamò notte” (Genesi, 1,5).


Il fuoco e le luci

Quando la luce prende concretezza di cosa acquista la dimensione delle cose terrene, si manifesta in fuoco e fiamma. Già la luce poteva essere pura vibrazione o esser colorata; la fiamma, ancor più della luce si diversifica. Del fuoco, Rabbi Simeone dice: È scritto in un versetto ‘perché il Signore tuo Dio è un fuoco divorante’ (Deut 4,4). Secondo altri sapienti, esiste una sorta di fuoco più potente di ogni altro fuoco che divora e consuma ogni altro fuoco. Così chi ha cuore di cogliere il mistero della Santa Unità di Dio, contempli la fiamma che si eleva dal carbone ardente o da una candela.
Bisogna sempre che ci sia qualche sostanza materiale da cui si innalzi la fiamma. Nella fiamma si possono vedere due luci, una è bianca e brillante una è nera o blu. Delle due la luce bianca è la più alta e si innalza senza vacillare; al di sotto vi è una luce blu o nera sulla quale riposa la prima, come su uno zoccolo. Le due luci sono legate e indissociabili. La bianca riposa sul trono della nera. A sua volta la base nera è legata a qualche materia che è al di fuori di essa e che l’alimenta e la fa aderire alla luce bianca, al di sopra.
Qualche volta la luce blu o nera diviene rossa ma la luce di sopra resta sempre bianca.
La luce inferiore, nera che sia, blu o rossa, è tramite e legame tra la luce bianca al di sopra di essa e la sostanza materiale in basso. La luce inferiore per natura, è uno strumento di morte, di distruzione che consuma tutto ciò che le si avvicina, ma la luce che sta sopra non consuma né distrugge. Con questa rappresentazione del misterioso legame e passaggio tra il mondo terreno dimensionale delle cose e la realtà suprema, la cabala da una chiave – naturalmente nel suo quadro spirituale di non facile acquisizione – per prospettare una soluzione, o per meglio dire per suggerire una lettura del problema cosmologico e cosmogonico, e di conseguenza una lettura dei rapporti tra il bene (legato all’assoluto, all’inconoscibile, alla luce) e il male legato al contingente, all’errore: due luci nella stessa candela, nello stesso fuoco, nella stessa fiamma. La luce bianca e la luce inferiore. La prima è divina, costruttiva, invariabile, non consuma né distrugge. Il Saggio commenta “ecco perché Mosè ha detto ‘il Signore tuo Dio è un fuoco divorante”, divora cioè tutto quello che è al di sotto di Lui. Ha detto il tuo Dio non il nostro Dio perché Mosè era tenuto nella luce celeste che non consuma né distrugge.
Anche la missione di Israele viene collegata a questo misterioso gioco di luci. Israele porta la luce blu a bruciare e ad aderire alla luce bianca; funge così da tramite, tra i due mondi.
Finalmente, in questa misteriosa strada delle luci colorate e poi bianca si aggiunge un’altra luce appena percettibile simbolo dell’essenza suprema 13.
La Cabala ha la sua scaturigine nell’interpretazione numerica e letterale dei simboli dell’alfabeto; essa ritrova nel nome YHVH il processo delle luci: nell’ultimo H si esprime la luce blu o nera, mentre nelle prime tre lettere è presente la luce bianca e scintillante. Talvolta l’H della luce blu diviene l’iniziale della parola che vuol dir miseria, miserabilità.


Israele, Luce blu, Luce bianca, Luce impercettibile

La sensazione, a questo punto della lettura dello Zohar, è di meraviglia incantata, di desiderio di sentirne di più, ma anche di sgomento o smarrimento intellettuale, poiché ci si rende conto della inadeguatezza, come strumento di analisi, dei termini e dei concetti della tradizione razionalistica occidentale. Le parole del saggio sembrano decadere e disperdersi col loro vorticoso gioco di luci in elucubrazioni difficilmente comprensibili, ma esercitano un richiamo alla mente, offrendo una ricchezza di senso che non permette di abbandonare il campo, quasi ci trovassimo soltanto di fronte ad una costruzione fantastica o ad un semplice gioco di esempi esplicativi.
In realtà, come è stato detto tante volte, la Cabala ha un suo linguaggio che consiste in rappresentazioni ed immagini che possono essere solo con approssimazione trasprogrammate, per così dire, nell’usuale linguaggio appreso sui banchi del liceo o comunque dai libri, legato storicamente alla filosofia del mondo greco-romano. Ma non basta. È impossibile andare al di là del significato verbale delle affermazioni cabalistiche per coglierne il senso se si pretende di interpretarle con i dati e le leggi dello sperimentalismo della scienza moderna, altrettanto inadeguato dello strumentario concettuale della filosofia aristotelica. Diciamolo in termini di cabala: se il Sole si identifica con lo spirito e la sua luce è la conoscenza diretta, mentre la conoscenza lunare è razionale e riflessa, il saggio cabalista direbbe di non limitarsi alla conoscenza diretta, mentre la conoscenza lunare, qual è certo la nostra per la sua tendenza a definire e rappresentare per quantità e forza vettoriale le cose.


La luce e il sacrificio

E le domande che si pone il saggio cabalista sono le stesse che continuiamo a porci noi razionalisti, viandanti sulla stessa strada, anche se con altri abiti mentali. Un esempio soltanto: il sacrificio, il mistero del sacrificio, perché, quale ne è il senso? La nostra logica raziocinante non dà risposta; anche nella Cabala costituisce problema cogliere il senso di questa soppressione rituale di un essere vivente. La strada alla risposta non si limita a considerazioni scientifico-naturalistiche; esso viene riportato al discorso delle luci: Il fumo che si eleva infiamma la luce blu che si unisce allora alla luce bianca e così la candela è tutta intera illuminata da una sola ed unica fiamma poiché è natura della luce blu di annientare quello che entra in contatto con essa in basso, il fuoco discende e consuma l’olocausto ed è questo che rivela che la Catena è completa. La lue blu aderisce in questo caso alla luce bianca divorando la carne e il sacrificio in basso. La pace regna nei mondi perché si ricostituisce la catena. Quando la luce blu ha divorato ogni cosa in basso il canto e la preghiera dei sacerdoti e di fedeli formano una catena per cui vi è una sola luce che rischiara il mondo.
Olocausto, fumo, luce blu, luce bianca. Il continuum del mondo

Insomma, il fascino che esercita lo Zohar e in genere le opere maggiori della Cabala viene da questo: nella riflessione aristotelica, tomistica e kantiana che sono fondamento metodologico prima che contenutistico della nostra cultura, e più in particolare, della nostra speculazione filosofica, i due mondi, quello della spiritualità e quello della materialità sono nettamente distintie si accetta pacificamente la dicotomia res estensa/res cogitans cartesiana quasi fosse un dogma inattaccabile.
La Cabala non crede in questa separazione e si pone alla ricercatezza attenta del legame tra pensiero e materia; tra queste due entità che vengono colte come modi diversi dell’essere, necessariamente deve esservi un ponte, una sostanza di passaggio e collegamento. Il ponte è la luce, come si è visto, luce che tra l’altro nella nostra scienza moderna ha due aspetti, energia ondulatoria e massa materiale. Sebbene io sia estremamente diffidente nei confronti di paralleli tra dati della scienza naturalistica e ricerca spirituale, è certamente soprendente questa inafferrabilità fisico-matematica della luce la quale sembra assumere nella scienza altri aspetti per così dire metafisici se è vero che nessun corpo potrebbe mai superare la velocità della luce, se è vero quindi che raggiungerla vuol dire annichilirsi, certo, questa distinzione così netta tra ciò che non si tocca e la materia comincia a sembrare meno sicura.


Idee e cose, princìpi e luce

D’altronde si ritrova in una certa tradizione collaterale, non accettata per così dire dal pensiero ufficiale, il modo di procedere intellettuale che conduce a dubitare della dicotomia del mondo. Scriveva Artaud 14, con una penetrazione del campo nebbioso di incertezza tra cose e astrazioni, che impone di riportarne il brano: “Vi sono veramente dei princìpi? Voglio dire dei princìpi separati e che esistono dietro le cose? O, in altri termini, gli dèi della nomenclatura pagana hanno un’esistenza meno affermata e meno valida che i princìpi di cui ci serviamo per pensare? E questa domanda ne fa sorgere un’altra: Vi sono nello spirito dell’uomo delle facoltà veramente separate?
Ci si può del resto chiedere se un principio sia altro che una semplice facilitazione verbale; e questo riconduce alla questione di sapere se vi è qualche cosa al di fuori dello spirito che pensa, e se, nell’assoluto, dei princìpi esistano come realtà o come esseri che ripartiscono le loro energie.
In qual misura, e per quanto in alto si risalga verso l’origine delle cose, dei princìpi, viventi come realtà separate, sfuggono a un giuoco dello spirito intorno ai princìpi? E vi sono nell’uomo stesso delle specie di facoltà-princìpi che avrebbero una esistenza distinta e potrebbero vivere separate?
Ma se nella continuità, nella durata, nello spazio, nel cielo in alto e nell’inferno in basso, i princìpi vivono separati, essi non vivono come princìpi, ma come organismi determinati.
L’energia creatrice è una parola, ma che rende possibili le cose eccitandole col sostegno del proprio fuoco-essenziale. E come nel mondo creato ci sono tutte le qualità della materia, tutti gli aspetti della possibilità, degli elementi che si contano per mezzo di numeri e si misurano per mezzo della loro densità, così il flusso creatore che prende fuoco a contatto con le cose – e ogni colpo di fuoco della vita sulle cose equivale a un pensiero – questo flusso negli organismi chiusi, e che vanno dalla nostra grossolanità materiale alla più improbabile sottigliezza, compone ciò che chiamiamo Esseri, e che non sono altro che dei soffi nella durata.
Le fonti del sapere

Naturalmente la cabala è lontana dalla mentalità scientifico-naturalistica anche per il richiamo costante e necessario al testo sacro, considerato fonte di scienza: oltre i testi già citati, ricordiamo che la Cabala costruisce la sua interpretazione sul buio che colpisce gli egiziani e non il popolo eletto (Es 21,23), sull’episodio della colonna di fuoco che conduce il popolo eletto fuori dell’Egitto (Es 13, 21; 14,19, 2; Salmi 78, 14) e sui brani in cui le scritture ripetutamente associano la luce con il Creatore: O Jahvé mio Signore hai provato di essere veramente grande; Tu ti sei avvolto nella dignità e nello splendore e la luce è il Tuo ornamento (Salmi, 14, 1-2).Mi apparve una figura di uomo, da quelli che parevano i suoi fianchi in su lo vedevo splendere come l’elettro, come una visione di fuoco all’interno e intorno a sé e dai fianchi verso il basso mi sembrava pure una figura di fuoco con uno splendore tutto attorno assai simile allo splendore dell’arcobaleno che appare nelle nubi in un giorno di pioggia (Ezec 1, 27, 28). La luce del giorno (Gb 35,12,15) è la nemica dei malvagi: da che vivi hai tu comandato al mattino? hai tu additato all’aurora il suo posto ond’ella serri i lembi della terra e ne scacci i malvagi? si trasforma allora come la creta di un sigillo e si presenta con un vestimento ed è sottratta agli empi la loro luce e il braccio eretto è spezzato.
La luce, la luna

Nel discusso e spesso frainteso Tramonto dell’Occidente si metteva in evidenza che il senso che noi uomini del 2000 diamo ad una scultura gotica è profondamente diverso dal senso che le dava l’uomo del medio evo, nonostante che se usiamo un metro, le misure sono ovviamente le stesse per noi e per lo scalpellino medievale che si preparava a scolpire la pietra.
È lo stesso per la luce, se vogliamo. La luce per noi è necessariamente inquadrata in un mondo di scienza naturale necessariamente inquadrata in un mondo di scienza naturale per il quale deve avere delle spiegazioni galileiane, mentre nella visione cabalistica la luce ha valore come si è detto di anello di congiunzione tra il mondo senza dimensioni o informale e il mondo delle tre dimensioni.
In quel quadro di idee, è profondamente erroneo parlare di simbolismo della luce, se per simbolo si intende una sorta di appiglio analogico per spiegare un fenomeno. La luce è un segno, e attraverso il momento intuitivo, proprio dell’arte ma non ad essa esclusivo, arriviamo anche noi a cogliere il senso della luce, senso restato vivo in alcune espressioni apparentemente insignificanti del nostro parlar quotidiano.
Certo venire alla luce (per nascere) è espressione in cui luce è qualcosa di più della gelida lampada elettrica della sala parto odierna. Chi dice luce del volto, o racconta la gioia dell’uomo dicendo gli si illuminò il volto vuol esprimere certamente qualcosa di più del fascio di luce di un riflettore da teatro. Mille altre espressioni ritrovano questa luce come momento di penetrazione dello spirituale oltre la soglia della materia.In questa visione della luce, non così aliena alla nostra Gestalt spirituale, l’aspetto più ambiguo e di più difficile interpretazione è quello del buio della notte, (del quale fa parte, anche se per schiarirlo) la luce della Luna, luce sì, ma inestricabilmente connessa alle tenebre.
In questa visione si inserisce l’antica tradizione della Luna la quale nei tempi più antichi quando riappare durante il mese scatena la gioia dell’uomo, sicché nel Talmud si parla della Luna che si rinnova e si ricorda che i buoni un giorno ringiovaniranno come fa la Luna; poi la meditazione si sposta sulla deficienza della Luna nell’alternanza delle sue fasi, tanto che in una spiegazione del Talmud, si afferma che Dio ha menomato la luna che originariamente aveva la stessa luminosità del Sole. Dio proclama di sacrificargli una vittima, in espiazione del fatto che Egli ha ridotto la Luna 15.
La Luna come la Shechinah come la Luna riacquista la luminosità e poi decade di nuovo fino a uno stadio di completa oscurità, di povertà. La redenzione potri riportare la luna ad uno splendore originario. È insomma la luce della Luna quella più vicina alla luce della grande crisi del distacco di Adamo dal Creatore e dal suo giardino. La perfetta scomparsa della luna rappresenta la discesa nelle terre dell’esilio e l’esperienza dei terrori. La Luna nuova è anche il momento però in cui inizia la meditazione sul Messia, che nella visione cabalistica è evidentemente riconquista della luce: Da nord si eleva il vento, una scintilla scaturisce dalla forza del nord dal fuoco di Dio e colpisce sotto l’ala l’Arcangelo Gabriele e il suo grido sveglia i galli a mezzanotte. Da quel momento fino all’alba il pio si dedica allo studio della Torah. Ed è l’ora della Luna, la mezzanotte, contrapposta al mezzogiorno, quella in cui si svolge una veglia praticata dal circolo dei cabalisti dello Zohar 16: a mezzanotte Dio entra in paradiso per andare a passeggio con i giusti, a mezzanotte si svolge un dialogo, che giunge fino all’unione mistica, tra Dio e la Shekinah.


Il riflesso di luce

Nello Zohar il processo della creazione corre dall’assoluto purezza immateriale alla progressiva materializzazione del mondo. Nella dottrina lurianica, in ogni livello della emanazione si ritrova non soltanto la luce diretta, la luce che proviene dal centro luminoso dell’en sof, ma anche la luce diretta, la luce che proviene dal centro luminoso dell’en sof, ma anche la luce che proviene dal centro luminoso dell’en sof, ma anche la luce riflessa in direzione opposta, la luce riflessa dunque risale, per così dire lungo la catena della emanazione, cioè tende a ritornare all’originale sorgente. In ogni sefirah esiste quindi un doppio corso della luce. Se il raggio viene filtrato verso il basso, dal basso però viene un riflesso verso l’alto. La struttura globale del mondo dell’emanazione come di ciascuna parte di esso dunque è costituita dalla simultanea attività della luce diretta e della luce riflessa.
La ritrazione consiste nel fatto che prima ancora di porre in essere l’universo da sé stesso attraverso l’emanazione di luce, il creatore compie un ritrarsi da sé stesso in sé stesso e si crea quindi uno spazio vuoto. Questo spazio vuoto (infinitesimale per en sof) è invece l’immensità tridimensionale nella quale si realizza l’intero en sof, nel sistema lurianico diviene un punto di vuoto; l’idea della ritrazione e della luce riflessa, aspetto uguale e contrario alla luce primordiale, fa parte dell’essenza divina. Forze, luci ed attributi destinati ad esser resi manifesti più tardi (includendo anche le forze di risposta, di pietà e di giudizio) erano già presenti in uno stato indifferenziato di realtà indistinta all’interno di en sof, ove pietà e giudizio sono naturalmente soltanto le radici nascoste e potenziali delle forze corrispondenti che divengono manifeste ed esistenti nel mondo: “la radice del divino giudizio non era riconoscibile come tale, era dissolta nell’abisso infinito dell’essenza divina come un grano di sale nell’oceano”.
Come il popolo va in esilio, così en sof si ritrae; nello spazio vuoto lasciato dalla sua luce creatrice, che illumina lo spazio primordiale della creazione e agisce sulla residua che mette in movimento il processo cosmico secondo la struttura ordinata delle dieci Sefiroth.
La dottrina della ritrazione è basata – come scrive Scholem – su un’asserzione semplice, crudamente naturalistica: come è possibile per il mondo esistere se l’en sof, la divinità infinita l’occupa tutto quanto? Se la luce di en sof si trova in ogni dove, quale spazio resta? Evidentemente Dio, nel proiettarsi al di fuori riduce, ritrae la propria nascosta essenza. Il processo di ritrazione e di emanazione è l’ultima realtà della creazione. I due princìpi, le due forze, agiscono e reagiscono per cui si può in qualche modo pensare ad una sorta di ritmico respiro del Dio vivente attraverso appunto il chiudersi e l’aprirsi, il ritrarsi e l’emanare.
La suprema manifestazione prodotta dal primo raggio di luce, cioè dalla linea diretta che penetra nello spazio primordiale è l’uomo primordiale Adam Kadmon. Da questo essere che non è niente altro che il modo di esistenza delle luci naturali dello spazio primordiale si formano varie luci con un processo che è descritto in termini simbolici come spezzare i vasi o morte di re.
Per cogliere il senso di questi termini è necessario far presente che il vaso è il contenitore usato dall’artigiano e quindi le Sefiroth sono vasi contenitori, nel senso che sono gli strumenti usati da Dio emanante nel processo della creazione 17.


Luce attiva e luce resistente

Elaborata da Natan di Gaza che riprende la dottrina lurianica dello zimzum insistendo su alcuni aspetti della luce. All’inizio in en sof vi sono due specie di luci o aspetti che possono essere chiamati attributi in senso spinoziano. La luce pensante e la luce non pensante. La prima è diretta, è focalizzata allo scopo della creazione, ma nella infinita ricchezza dello en sof – scrive Scholem – ci sono forze o princìpi che non sono diretti alla creazione e il cui unico scopo è sapere che cosa essi sono e restare dove sono.
Questa è la luce non pensante che è estranea al processo creativo.
Quando per la formazione del processo di nascita dell’universo distinto da Dio, la luce pensante si ritrae per lasciar spazio alla creazione stessa, alle altre essenze, la luce non pensante che rimane nell’assoluto totale perché non ha preso parte alla dinamica creativa, resiste per così dire, si oppone, fa da inerzia nei confronti del trattamento negativo e allora attraverso un paradossale meccanismo essa diviene ostile e distruttiva quindi il potere del male è in definitiva fondato e non radicato nella luce non creativa di Dio. La dualità della forma e della materia prende dunque un nuovo aspetto, ambedue sono fondate in Dio. La luce non pensante non è male in sé stessa ma prende questo aspetto perché si oppone all’esistenza di ogni cosa che non sia en sof e pertanto è posta, si pone a distruggere strutture prodotte dalla luce pensante. Così l’infinità riempita con la luce non pensante, mescolata con qualche residuo della luce pensante restata dopo zimzum è chiamata Golem, la materia primordiale senza forma. L’intero processo della creazione procede pertanto dalla dialettica di due luci, in altre parole attraverso la dialettica praticata nel vero en sof.
Così la luce senza pensiero costruisce strutture di sua propria natura, il mondo demonico il cui solo intento è di distruggere che cosa la luce pensante ha prodotto. Queste forze sono chiamate i serpenti che si svolgono e si avvolgono nel grandi abisso. I poteri satanici chiamati nel Zohar sitra ara,‘altra parte’ non sono niente altro che l’altra luce dell’en sof.
Dunque anche la dottrina così elaborata di Sabatay Zevi evidenzia il grande problema della sussistenza del male, ma per la prima volta esso viene visto come una parte di Dio cioè la parte che si oppone alla creazione non quindi come un principio creato, come accade nel cattolicesimo e nel cristianesimo in genere, non quindi come nella gnosi dualistica nella quale ha capacità di Dio anche il male e soltanto al di là dei due poteri si pone la abraxas inconoscibile che in quanto è il tutto non può non comprendere ogni forza.
Dunque la resistenza della luce senza pensiero alla attualizzazione della luce che contiene pensiero deriva dal fatto che l’unico impulso della luce senza pensiero è quella che niente esista all’infuori di en sof. Ad ogni stadio della creazione si rinnova la lotta tra le due luci.
Per la dottrina della contrazione nel pensiero lurianico “egli contrasse la sua luce quasi come un pugno in concordanza con le sue proprie misure e il mondo era lasciato nel buio e in quelle tenebre egli innalzò rocce e acque scure. In altri termini la creazione non viene intesa come concentrazione di un potere di Dio in un luogo, ma come ritrazione da un luogo. Il luogo dove egli si ritira è puramente un punto a paragone della sua infinità ma comprende dal nostro punto di vista ogni livello di esistenza sia spirituale sia corporeo. Questo punto è lo spazio primordiale chiamato tehiru 18.Ma il punto dal quale Dio si è ritratto ha in sé un residuo per così dire di luce che è come la goccia d’olio che resta nella bottiglia quando essa è vuota e la hyle la materia prima su cui si svolge la creazione è proprio questa, rescimu, questo residuo del fondo della bottiglia.
Per la dottrina più comune 19, viene lasciato uno spazio libero e questo spazio libero è riempito da un raggio di luce dell’en sof; là, per forza naturale si crea l’Adamo che precede tutta la creazione. Lo sviluppo avviene in forma di circoli concentrici e questa luce è lo stesso en sof o è una sostanza diversa. I cabalisti distinguono le loro posizioni, ma su ciò rinviamo alle analisi storiche della cavala, limitandoci a dire che dall’Adam Kadmon creatosi si proiettano luci, alcune onnidirezionali, sfericamente irraggiantisi, altre che procedono linearmente, come raggi unidirezionali; queste si concretizzano poi nella forma delle lettere. Si collegano così due aspetti tipici della speculazione cabalistica, quello relativo ai segni alfabetici e numerici con quello della luce.


Le Sefiroth

I cabalisti pongono dieci forze operative, Sefiroth, di natura divina emanate (ma il termine è già troppo definitorio); l’energia di ciascuna delle Sefiroth si rivolge verso l’alto attraverso la pietas cabalistica positiva e verso il basso per la forza negativa del peccato. Questa è la linea di fondo della dottrina segreta.
Per denominare e descrivere le Sefiroth vengono utilizzati i termini allegorico simbolici, biblici e della tradizione rabbinica. L’intera Bibbia ebraica non è più studiata come narrazione storica, bensì viene interpretata – decifrata, se così si può dire – come velata esposizione del processo dinamico delle Sefiroth. I simboli delle Sefiroth sono numerosi e variati nella Cabala classica che poi si ricollega al libro dello splendore.
Nel mondo, che è immagine somigliante a Dio, le Sefiroth costituiscono una costellazione che ripercorre la forma umana 20. Al di sotto v’è il mondo degli esseri singoli, il mondo degli angeli e degli spiriti, poi il piano dell’essere materiale. Il processo della emanazione conduce dunque dall’unità al molteplice. Il senso e lo scopo della meditazione e della prassi cabalistica è appunto la risalita fino all’unità ripercorrendo i gradi della emanazione.


L’attesa messianica

Nella Cabala, nel tardo medio evo e dell’evo moderno l’attesa messianica prende sempre più spazio e l’uomo spera che la fine della storia possa essere in qualche modo sollecitata se non provocata dall’uomo con le grandi operazioni cabalistiche. Da questo orientamento operativo, si svolge in alcuni circoli una volgarizzazione semplificativa; dalla dottrina segreta nasce una nuova generale teologia ebraica, talvolta con aspetti superstiziosi e/o di magia operativa 21, la cosiddetta Cabala pratica.
I cabalisti come Luria e i suoi discepoli esercitano un notevole influsso in questo senso. Il tema dell’origine del male, del destino dell’anima, specialmente il problema del Messia, luce che si espone alle tenebre, è al centro degli interessi. Dopo il movimento messianico forte e tragico dei Sabatiani del 1600, lo studio della Cabala ritorna ad essere compito di circoli ristretti, anche se gli eventi storici vengono spesso interpretati da molti credenti sulle tracce dei principi cabalistici 22.


Luce di paradiso, luce di cabala

Non prendo posizione in questa sede, per non perdere il filo del discorso, sui problemi dei rapporti tra la speculazione cabalistica e le concezioni di Dante, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro per l’eventuale iniziazione di Dante alla setta d’amore; certo il modo in cui Dante presenta la parte alta del cielo dove v’è sublime contatto tra Dio e la realtà del paradiso (che non è fuori del mondo, bensì fa parte di un continuum fino all’altro polo, quello satanico), è quanto meno di una analogia impressionante con la visione dell’en sof e del mondo che intorno all’en sof si raccoglie. Resta naturalmente la distinzione di fondo per la quale Dante si preoccupa costantemente di parlare di creazione esterna, di distinzione netta, di distanza infinita tra creato e creatore, mentre questa distinzione non è così chiaramente proclamata nel pensiero della Cabala, poiché le creature sono scalarmente meno divine, per dir così, quindi non sono sentite così diverse da Dio, tanto che si arriva, come s’è detto, nella Cabala Lurianica, a vedere un movimento di ritrazione dell’assoluto per lasciar spazio alla sua creatura, in un eterno respiro del cosmo Dio/universo.
Nel canto XXVIII del Paradiso, Dante vede “un punto quindi che irraggiava lume acuto / sì che il viso che egli affoca / chiuder conviensi per lo forte acume”. Intorno a questo punto che irradia luce così potente che l’occhio si abbaglia e deve chiudersi a causa della intensità, intorno a questo punto che non ha dimensioni, si avviluppa un alone che è un cerchio di fuoco che gira con velocità immensa e poi successivamente si presentano i diversi cerchi angelici che in qualche modo sono sempre più – se si vuole – materiali tanto che aumenta la loro grandezza e diminuisce la loro velocità e luminosità. La struttura cosmologica, come si vede, ha parecchi punti di consonanza con quella dell’alta Cabala 23.
Di solito, invero, si pone l’accento sulla organizzazione geometrica di questo mondo dantesco. Sembra particolarmente significativo, invece, questa proiezione della luce dal punto luminoso di Dio, senza dimensione, alle diverse forme di realtà.
E l’accostarsi di Dante a Dio è ripercorrere verso l’alto la strada delle Sefirot, se si accoglie l’analogia cabalistica. Nel canto XXX del Paradiso, alla soglia dell’empireo nell’incerta attesa “immersi nel silenzio più profondo e in una luce che ha il carattere indefinito di quella del cielo prima dell’alba”, Beatrice annuncia che Dante è uscito dal primo grande cielo per entrare nell’empireo che è pura luce, l’occhio viene dapprima abbacinato, poi acquista forza visiva incommensurabilmente superiore, per cogliere Dio 24.
Nella visione dantesca, il passaggio tra il creatore ed il creato, quindi (in terminicabalistici) il contatto tra l’en sof e ciò che è al di fuori avviene attraverso il fulgore, fulgore che non è puramente intellettuale ma è di partecipazione, tanto che viene definito come amore, come compresenza.
Dante con una nuova ‘luce degli occhi’ vede il mondo come lume “in forma di rivera / fluvido di fulgore infra due rive / dipinte di mirabil primavera”. È inutile certo ripercorrere le dottissime disquisizioni teologiche che si sono svolte attorno a questi punti. Lume è lassù che visibile fece
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
e si distende in circular figura
in tanto che la sua circonferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua potenza
riflesso al sommo del mobile primo
che prende quindi vivere e potenza. Una visione, quella dantesca, della gerarchia degli esseri, dal punto sublime adimensionale tutto-luce, agli astri sublimi, alla umanità anelante al cielo, al mondo organico sottoposto a ferree leggi, alla bruta materia disorganizzata, lontana dal punto centrale, tenebrosa. Così questi versi difficili e apparentemente lambiccati a prima lettura, diventano di chiaro significato una volta che si tenga presente la dottrina cabalistica: luce come sostanza e come energia trasmettitrice del potere, della verità, della vita.


Il senso odierno della cabala

Ma qual è il senso di quel ‘modo di pensiero’ (così definirei la cabala; infatti metodo è un modo che richiede una procedura prestabilita, atteggiamento è troppo poco determinato in senso finalistico conoscitivo) per il nostro Zeitgeist che dà forma all’attuale figura di mondo?
“Il nostro mondo, scriveva Sergio Quinzio 25, è ormai radicalmente secolarizzato, carico di tecnica, di nichilismo e quindi assolutamente disincantato”. Quanto scrive non vale per il mondo spirituale percorso da forze non soltanto geometriche e secolari, ma è vero per la nostra scienza, che addirittura si va disumanizzando (staccandosi dall’uomo, in senso proprio, non solo inaridendosi!) visto che la ricerca sfugge sempre più all’essere umano per essere praticamente portata avanti dai computer.
Quale che sia l’estensione del fenomeno, vi è una alternativa a questo totale disincanto, che teniamo per vero perché efficace fondamento d’una scienza potente ed operativa qual è l’attuale, ma paradossalmente vissuto come menzogna perché assolutamente non appagante?
Una delle possibili alternative è certamente quella del reincanto, quello della rilettura in chiave di forze affascinanti (direi: di magia) dell’immenso universo; è la strada che viene seguita dalle mitologie dei nuovi gruppi religiosi, sorgano essi fuori o all’interno delle grandi religioni.


Il pensiero mitico

Ma forse vi è una terza strada tra il pensiero disincantato e la visione magica del mondo. La terza strada – seguo ancora Quinzio che si ispira a Givone – la terza strada è il pensiero tragico, il pensiero mitico nel quale sussistono conflitti e contraddizioni. “In tale pensiero incanto e disincanto, tecnica e poesia, identità e differenza, finito ed infinito, vengono pensati insieme. In realtà è la grande strada imboccata da Hölderlin e da altri autori che hanno sentito questa tragicità del pensiero; se la verità implica il suo contrario, se può convivere il momento dell’incanto col momento del nichilismo e della tecnica secolarizzata, resta la gioia dell’osservazione che è nel fondo anche di ogni tragedia”.
Sotto questo profilo, riprende senso la via della Cabala come visione della luce che si diffonde nel cosmo che anzi costituisce il cosmo, in qualche modo restringendo addirittura il posto di Dio; non si tratta di ridurre col godimento estetico l’ansia, essenziale all’uomo, d’osservare, di sapere; piuttosto, a questo nostro tragico pensiero nel quale convive la nostalgia del mondo incantato, la tecnica e il nichilismo, la cabala può dare l’intuizione meravigliosa dell’armonia del cosmo, ritrovare il cantuccio lasciatoci da Dio nel suo ritrarsi, che nulla gli toglie (ritrarsi di un punto adimensionale, non riduce lo spazio di Dio), ma dona a noi un espandibile universo.
La Cabala e il suo fiorire di luci presenta un mondo – l’espressione è di H. Corbin in il paradosso del monoteismo – che può essere indicato come mondo immaginale. In qualche modo, riassume Quinzio, “tra il mondo della percezione sensibile e il mondo astratto dell’intelletto c’è l’intermondo dell’immagine, luogo dove i corpi si spiritualizzano e gli spiriti prendono corpo, luogo del realismo visionario della manifestazione teofanica”.
Soltanto quando ci si rende conto dell’esistenza degli angeli, cioè l’esistenza delle gerarchie divine, se vogliamo, delle Sefiroth, si ritrova la controparte celeste dell’uomo, quella archetipica angelica.
Devo confessare che Corbin per me esplicita una sensazione che ho sempre provato nel pensare ai massimi problemi: il monoteismo esoterico (chiamiamolo filosofico, per approssimazione; forse razionalistico?) è in qualche modo ancora idolatrico in quanto vuole afferrare Dio e la sua forza (che anzi, propriamente non è ancora forza e luce, è pre-forza e pre-luce: ha/è in sé forza e luce), vuole com-prendere l’assoluto trascendente e inconoscibile, come se fosse un oggetto osservabile ed apprensibile. Sotto questa prospettiva non appare così paradossale e assurda la tesi della necessità degli angeli, sostenuta dal Corbin nel suo paradosso 26.In altri termini, si può ritrovare attraverso la luce della Cabala, quella natura che oggi è soltanto un oggetto di preoccupazione per gli esiti catastrofici che minacciano la vita, ridotta dunque a strumento tecnico della nostra salute, vagheggiata come un ambiente ‘pulito’ in cui abitare comodamente e senza pericoli.
Forse dobbiamo ritrovare, attraverso la via della tenebra e della luce, quel senso “di tremebonda venerazione, di sacra paura di fronte al maestoso, insondabile mistero della potenza soverchiante della natura, in cui vita e morte, ordine e sopraffazione si alternano e si mescolano senza fine”.
Ma non è più possibile, secondo Quinzio, raggiungere questa meta. Io credo invece che la battaglia contro la disperazione tecnica, la disperazione nichilistica che ci sovrasta, possa avvenire in questa fine di millennio proprio con l’arma della contemplazione – contemplazione critica, consapevole dello stridore con gli assiomi della nostra scienza/tecnica potentissima – della luce della Cabala che in questo mondo fatto soltanto di forze insensatamente operanti, cieche e solo causalistiche, ci racconta di un Dio che ritira un poco il suo luogo, per lasciare un angolo dell’immensità anche all’uomo, all’interno dell’assoluto en sof. E quest’angolo, Egli inonda di luce, di stelle, d’arcobaleni.
Beninteso, lettore che mi hai seguito lungo la strada del pensiero tragico o mitico, non parlo di ingenua fede, così difficile per il nostro Zeitgeist critico (il grande Pan è morto, e non soltanto il grande Pan), ma di un impegno esistenziale. Mi accontento di fronte al mistero, di un commitment guardingo, fondato sulla certezza che il raggio di luce non ha soltanto fotoni e vibrazioni, ma è anche lume degli occhi. Questo, la fisica quantistica non può togliercelo, né può toglierci gli arcobaleni, le stelle, i luminari del cielo 27.   Note Benoist K., Signes, symboles et mytes, Parigi 1978: La luce è dunque energia: nelle credenze del sufismo il cuore dell’uomo è come una lanterna di vetro nel quale si trova la sua coscienza più segreta sotto forma di una lampada accesa dalla luce dello spirito. Per un dotto esame biblico e storico-teologico dal punto di vista cattolico, vedi J. Ratzinger, Licht, in Handbuch theologischer Grundbegriffe, Monaco 1970. Widengren G., Il manicheismo, Milano 1964. Rinvio a Raffaello Del Re, in E. Zeller e R. Mondolfo, La filosofia dei Greci, Firenze 1979. Shubert K., The dead sea community, Londra 1960. La Cabala – propriamente ricezione, tradizione – espressione originale del pensiero, designa un orientamento speculativo che si sviluppa nella cultura ebraica del sud della Francia, della Spagna del nord, dal tardo XIII secolo.
Essa si fonda su una visione del mondo che in prima approssimazione può essere definita neoplatonica ma che comunque viene sviluppata con riferimento costante alle fonti tradizionali, la Bibbia, il Talmud e la Midrach; la ricerca cabalistica vuole rispondere alla domanda ultima, quella che chiede di spiegare, di mostrare ed anche di giustificare il rapporto tra la realtà assoluta trascendente (en sof) e il mondo che ci circonda contingente e pieno di difetti.
Mi limito a richiamare l’opera di Sholem G., Kabbalah, New York 1988, con riferimenti alla amplissima letteratura. l Vangelo giovanneo viene letto spesso in termini assai vicini a quelli della cabala; v’è naturalmente da intendersi, poiché negli autori cristiani si tratta la luce come simbolo più che come segno, come immagine non come realtà. Resta l’obiettivo fatto che Giovanni vede la storia cosmica come lotta tra luce e tenebre. “La vera luce è una energia increata vivente che ritma i giorni della nuova genesi, Dio è luce (Gv 1, 5-7); Essa si irradia per l’azione di Gesù, come l’energia-luce si irradia nel mondo materiale per mezzo dei grandi luminari (J. Goettmann, Saint Jean, évangile de la nouvelle Genèse, Parigi 1982).
P. Teilhard De Chardin, La messe sur le monde, scrive: “siamo dominati dall’illusione tenace che il fuoco sorge dalla profondità della terra… si deve rovesciare la visione… All’inizio non c’era il freddo e le tenebre, c’era il fuoco, spirito bruciante, fuoco fondamentale e personale, è la luce preesistente che pazientemente ed infallibilmente elimina le nostre ombre”. Cfr. Bottero J., Naissance de Dieu, Parigi 1986; Nordio M., (a cura di), La genesi, Milano 1977. Benoist, Signes, cit., 58. Budda si manifesta nel mondo degli uomini discendono i sette gradini, i sette colori, dell’arcobaleno. In Zohar, The book of splendor, New York 1990, una scelta curata da G. Sholem. A. e K. Toaff, Il libro dello splendore (scelta, con introd.), Pordenone 1994. Questo punto primordiale è stato spesso riportato all’atomo di massa nulla e di energia infinita del big-bang, che la scienza fisico-matematica pone all’inizio temporale del mondo. Nonostante il fascino di questi parallelismi, mi attengo al principio che si tratta di espressioni che hanno unità di misura tra loro incommen- surabili. Potrei aggiungere che le teorie scientifiche cambiano per adattarsi alle nuove scoperte, le immagini come questa della luce segreta sono immutabili nella loro capacità evocativa. In un discorso di Gesù (Mt 6, 22-23) si segue la tradizione (presente anche in altri passi del Vangelo) della luce. “L’occhio è lume del corpo, se dunque l’occhio tuo è sano tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se l’occhio tuo è guasto tutta la tua persona sarà illuminato, ma se l’occhio tuo è guasto tutta la tua persona sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che in te è tenebre, quanto grandi saranno queste tenebre?” In tale brano no solo si richiama la dicotomia tenebre-luce, ma si considera ovvio un modo di intendere la luce cui la cabala darà grande rilievo operativo: l’occhio non è solo recettore passivo ma è esso stesso lume per la persona, è un anello della lunga catena che dalla spiritualità dell’en sof conduce allo spessore materiale delle tenebre fitte. La scienza naturalistica è partita dalla stessa osservazione della fiamma, che effettivamente si divide in parti diverse, più o meno calde, più o meno vivide di luce. Naturalmente queste parti della fiamma sono determinate dalla percentuale d’ossigeno, dai moti convettori, etc., basta accendere un becco Bunsen e variare il rapporto conbustibile / comburente per rendersene conto. Le risposte di chi non si limita ad osservare la fiamma soltanto come addensamento di particelle in combustione sono due: la fiamma è soltanto una immagine analogica, che permette di comprendere per somiglianza il processo spirituale; questa è la risposta spiritualistica, per la quale la fiamma è un esempio come un altro. Per la cabala, la spiegazione scientifico – naturalistica è una descrizione, una definizione; la realtà della fiamma è quella del ponte tra adimensionale e dimensionale. Artaud A., Eliogabalo, l’anarchico incoronato, Milano 1977. Scholem, Kab, 186 sgg. Quando la Luna era collegata al Sole, essa era luminosa di luce propria. Quando si separò dall’astro del giorno, l’impero delle sue proprie regioni, il suo rango nella scala degli esseri divenne inferiore e così pure la sua luce. Scholem, Kab, 187. Il sabatianismo, sconvolgente e tragico movimento messianico che al di là degli esiti storici arricchì d’un fermento di idee la religiosità mistica (G. Scholem, Sabatai Sovi, il messia mistico, Princeton 1989) si fonda sull’idea della ritrazione e ristorazione, della cabala Iurianica: il messia riconduce lungo il sentiero di luce alla realtà suprema. L’abiura di Sabbatai per taluni discepoli rientra in questo flusso e riflusso di luci dirette e riflesse. Scholem, Kab, 129. Scholem, Kab, 231. I Sefirah, corona è la suprema manifestazione della divinità trascendente, è volontà e pensiero di Dio, II Sefirah è la saggezza divina, la ancora indifferenziata idea della Torah, III sinistra è la intuizione, meglio dire penetrazione, nelle idee dei segni numerici e letterali; essa ha già una nota di concretezza, poiché manifesta l’essere nei simboli alfabetici, La triade dei più alti Sefiroth costituisce una unità in sé. Le sottostanti sette Sefiroth si suddividono sotto questa triade in una colonna destra, sinistra e media. IV destra Abramo, assoluta Grazia, V sinistra Isacco la assoluta forza; Vi Giacobbe la Torah scritta, la VII di destra e l’VIII di sinistra hanno minor portata, IX e X si trovano di nuovo sulla colonna del centro, XI è la legittimità, cioè la colonna del mondo, il princìpio maschile, mentre X, signoria regale, rappresenta la comunità di Israele, la Torah centrale, il princìpio femminile. Per la cabala numerologica, rinvio a M. C. Del Re, La divination informatique, Parigi 1994. Per la comprensione del movimento che sembra abbia ritrovato forza e significato nella teologia della terra promessa di alcuni gruppi israeliani, rinvio ancora, in prima istanza, alla ricerca di Scholem, 1897-1992, ricca di informazioni e sensibile al messaggio della linea di pensiero cabalistica. È restaurazione della base della fiamma che porta all’ineffabile luminosità, o è soltanto un aggregato politico? Ma non questo il tema che ci siamo proposti. Richiamo soltanto le classiche ricerche di Gabriele Rossetti, La Beatrice di Dante, Roma 1988, riedita dalla Atanòr, che meritoriamente ripubblica classici altrimenti introvabili; L. Valli, Dante e i fedeli d’amore, Roma 1928. Ricominciò: Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel che è pura luce,
luce intellettual piena d’amore.
Come subito lampo che discetti
gli spiriti visivi sicché priva
dall’atto l’occhio dei più forti obietti,
così ne circonfulse luce viva
e lasciommi fasciato di tal velo
nel suo fulgor che nulla m’appariva.
Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con siffatta salute
per far disposto a sua fiamma il candelo. In Radici ebraiche del moderno, Milano 1990, p. 178. Quinzio, Radici, 164. “Immaginosamente, la luce gnostica, la coscienza dei sensi, è ben altra cosa dalla combinazione di fotoni, dalla luce fisica. La luce gnostica è una illuminazione per partecipazione al senso. I fotoni apportano la luce soltanto ad un essere illuminato o illuminabile dalla partecipazione al senso e alla propria memoria del senso. I fotoni non hanno in loro stessi niente di luminoso, lo spazio se non coltooda occhi viventi è altrettanto buio del centro della terra, anche se è pieno di informazioni in ciascun angolo… Qui dovrei aprire il discorso sulla scienza neo-gnostica, per la quale, almeno per ora, rinvio a R. Ruyer, La gnosis de Princeton, Parigi 1974, dal significativo sottotitolo, des savants à la recherche d’une religion. Anche nella tradizione cattolica e ortodossa troviamo però interpretazioni assai vicine allo spirito, mi sembra, della luce cabalistica, salva l’idea del Cristo come persona. Commentando il passo giovanneo Egli è la vera luce, che illumina ogni uomo, venendo nel mondo, versetto che per la sesta ed ultima volta usa iltermine ‘luce’ (“secondo un procedimento giovanneo, il sesto e ultimo uso d’una parola essenziale designa il Cristo nell’attività che dà il suo senso all’insieme del testo), J. Goettman, cit., scrive “figlio del padre delle luci, luce di luce, il verbo è fonte e legge di tutte le altre luci, Egli luce increata, luce autentica… La luce, che era nel mondo creato da essa, viene nel mondo presso i suoi, quindi 1 – la luce fisica fotonica è materia, 2 – la luce di vita che ci permetta di vederla è l’intelligenza, 3 – la luce del verbo incarnato è quella reale, che sconfigge le tenebre. Zenit Indice
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ROTOLI DEL MAR MORTO, OCCHIO ALLE MISTIFICAZIONI

ROTOLI DEL MAR MORTO, OCCHIO ALLE MISTIFICAZIONI       

Cinquant’anni dopo la scoperta vengono integralmente pubblicati i manoscritti del Mar Morto, antichi testi biblici redatti dagli ebrei esseni. Coi quali alcuni credono di poter scuotere l’edificio storico e dottrinale di giudaismo e cristianesimo. Ma solo al prezzo di evidenti manipolazioni. Peter Carsten Thiede, uno dei più autorevoli studiosi della materia, controbatte: “I rotoli attestano la storicità del background culturale e religioso dei Vangeli”

intervista a Peter Carsten Thiede a cura di Rodolfo Casadei        

Oramai è solo questione di giorni. Ancora una breve attesa e poi i papiri più famosi del mondo, quei manoscritti del Mar Morto che hanno fatto accapigliare due generazioni di storici, ermeneuti, biblisti, archeologi, ecc. si trasformeranno definitivamente nella prima grande impresa editoriale scientifica del nuovo secolo. Alla fine di gennaio comincerà la pubblicazione integrale dei 15 mila papiri (per lo più frammenti) di contenuto biblico rinvenuti nelle grotte di Qumran, in Cisgiordania. Il piano dell’opera, a cura della Oxford University Press, prevede ben 37 volumi. Molte voci si sono già levate per annunciare l’avvento di rivoluzioni teologiche e dottrinali sull’onda di questa pubblicazione. Per chiarirci un po’ le idee su quello che ci aspetta ci siamo rivolti a Peter Carsten Thiede, studioso tedesco professore di Storia del Nuovo Testamento presso la Scuola superiore di Teologia di Basilea e grande esperto dei Rotoli del Mar Morto: è visiting professor per questa materia presso l’università israeliana di Ber-Sheva nel Negev e direttore per la Rilevazione danneggiamenti dei Rotoli presso l’Autorità archeologica israeliana a Gerusalemme.

Professor Thiede, secondo alcuni studiosi l’imminente pubblicazione completa dei “rotoli del Mar Morto” scuoterà dalle fondamenta l’edificio della biblistica e costringerà a riscrivere intere parti della Bibbia. È d’accordo con queste affermazioni?

Non sono d’accordo per nulla. Gli esperti conoscono tutti i rotoli e i frammenti in questione da molto tempo. Non è affatto vero, come di tanto in tanto si legge qua e là, che ad importanti studiosi è stato impedito l’accesso ai testi. In parole povere, le principali teorie circa l’impatto dei Rotoli sulla Bibbia, sul giudaismo e sul cristianesimo sono ben note da tempo e, come si sa, sono piuttosto controverse. L’unica cosa che adesso cambierà davvero è che nessuno dovrà più necessariamente recarsi a Gerusalemme per leggere i rotoli. Tutti potranno farlo a casa loro, o in una biblioteca. Ma… c’è un importante “ma” da tenere presente: questi testi sono scritti in paleo-ebraico, in aramaico e in greco, e la maggior parte di essi sono molto frammentari e danneggiati. Saranno sempre necessarie grande preparazione e professionalità per capire il significato di questi frammenti di pelli e di papiro. Nei prossimi mesi dobbiamo sicuramente attenderci l’apparizione di molte teorie sensazionaliste basate sulla lettura dei Rotoli. Esse saranno diffuse da autori privi della competenza per capire ciò che hanno letto, ma dotati della volontà di nuocere alla Bibbia, oppure al giudaismo, oppure al cristianesimo.

I Rotoli del Mar Morto sono stati scoperti fra il 1947 e il 1956. Perché c’è voluto tanto tempo per arrivare alla loro pubblicazione integrale?

In realtà, i primi rotoli sono stati pubblicati già nel 1948! C’è voluto tutto questo tempo per arrivare alla loro pubblicazione integrale perché ci siamo trovati di fronte a migliaia di frammenti, quasi sempre molto piccoli, che dovevano essere ricomposti come in un puzzle. E naturalmente molti pezzetti del puzzle mancavano. Non va poi dimenticato che la maggior parte di questi testi erano in precedenza sconosciuti: ciò significa che gli studiosi non avevano un testo base di riferimento con cui fare i paragoni. Ricostruire e pubblicare un testo sconosciuto a partire dai suoi frammenti non è certo un’operazione facile. All’epoca della scoperta solo un pugno di studiosi era capace di un’impresa del genere. Fino al 1967 – cioè fino al momento della riunificazione di Gerusalemme – gli studiosi ebrei, che ovviamente sono i veri esperti della lingua ebraica, non erano autorizzati ad esaminare la maggior parte dei rotoli e dei frammenti, che erano conservati presso il Museo John Rockefeller a Gerusalemme est. Dopo il 1967 il vecchio team di esperti e gli studiosi ebrei si sono impegnati a formare una nuova generazione di studenti. E così grazie alla seconda generazione di studiosi dei materiali di Qumran, molto più numerosi di quelli della prima, si è potuto condurre a termine il lavoro.

Alcuni personaggi sembrano suggerire che le Chiese cristiane dovranno revisionare le loro dottrine alla luce dei rotoli di Qumran. Per esempio secondo Giza Vermes, uno degli studiosi di Qumran, le scoperte che ci vengono dai rotoli dimostrerebbero che nelle più antiche versioni dei Vangeli Gesù non era presentato come “figlio di una vergine”, ma semplicemente di una “giovane donna”. Davvero andiamo incontro a una stagione di importanti revisioni dottrinali?

Vermes sbaglia. Sulla “nascita verginale” di Gesù i rotoli non aggiungono nulla che già non sappiamo. In tutti i manoscritti in lingua ebraica contenenti la profezia di Isaia circa la nascita del Messia (Is 7, 14) viene usata la parola alma. Tecnicamente significa “giovane donna”, ma in tutti i casi in cui è utilizzata nelle Scritture, risulta riferita a giovani donne vergini. La cosa non è affatto strana: in una cultura tradizionale come quella degli antichi ebrei era ovvio che una giovane donna, se non era sposata o non era una prostituta, doveva essere per forza una vergine. La parola ebraica che significa “vergine” in termini biologici e anatomici è betula: la si può usare per definire donne di qualsiasi età, donne anziane comprese, che non hanno mai avuto rapporti sessuali. Ma Isaia usa la parola alma proprio per far capire che la vergine di cui parla è una giovane donna, una donna in grado di concepire e mettere al mondo un figlio. Quando, nel III secolo a.C., la Bibbia ebraica fu tradotta in greco dagli ebrei stessi per quegli ebrei della diaspora che non riuscivano più a leggere l’ebraico, per tradurre l’espressione alma di Isaia fu utilizzato il greco parthenos, che significa precisamente “vergine”. Ben prima che il cristianesimo facesse irruzione nella storia, per gli ebrei era assolutamente ovvio che la “giovane donna” di cui parlava la profezia di Isaia era una “vergine”. Matteo nel suo Vangelo non fa altro che citare la traduzione greca di Isaia. Dunque ha ragione al 100 per cento quando afferma che Isaia ha profetizzato una nascita verginale.

Alcuni anni fa lei ha preso parte al dibattito relativo al contenuto e alla datazione del frammento 7Q5 che, secondo la teoria di padre O’Callaghan, sposterebbe la data di redazione del Vangelo di Marco dall’inizio del II secolo d.C. all’anno 50 circa, trasformandolo nel racconto di un testimone oculare e in una prova importante della storicità dei Vangeli. Ma in generale, la pubblicazione dei rotoli di Qumran rafforzerà la storicità dei Vangeli oppure, al contrario, evidenzierà errori e incongruenze?

La pubblicazione finale di tutti i rotoli rafforzerà ulteriormente la storicità del background culturale e religioso dei Vangeli. Su questo non ho dubbi. Naturalmente i rotoli ci aiutano a capire certe parole ed espressioni presenti nel Vangelo, e perciò, in un paio di casi, le nostre traduzioni moderne potranno essere migliorate. Ma l’insegnamento o, come dice lei, la “dottrina”, resterà immutata.

Secondo una certa interpretazione, sostenuta soprattutto in alcuni libri di giornalisti anglosassoni, il cristianesimo non sarebbe altro che una religione di seconda mano derivata dalle dottrine degli Esseni, i cui monaci vissero presso il monastero di Qumran. La pubblicazione dei rotoli smentirà definitivamente questa interpretazione oppure no?

Sì, la smentirà completamente. Ora siamo assolutamente certi che Qumran non fu un “monastero”, ma un centro di formazione dove gli esseni – che sono a tutti gli effetti una corrente dell’ebraismo – trascorrevano un periodo che poteva durare fino a tre anni prima di uscire, insediarsi in qualche altra zona del paese, fondare famiglie e “cellule” missionarie, incaricate di diffondere la loro interpretazione delle profezie bibliche. I cristiani hanno fatto proprie alcune delle interpretazioni degli esseni e ne hanno respinte altre. Questa pratica non ha nulla di strano: i cristiani erano ebrei come gli esseni, avevano in comune con loro gli stessi testi di riferimento, cioè la Torah, i Profeti, i Salmi. Era normale che esistesse un “dialogo teologico” fra loro e gli esseni. Tuttavia – e questo è un aspetto decisivo – per quanto riguarda l’insegnamento circa Gesù di Nazareth come il vero, profetizzato e atteso Messia, figlio di Dio e Salvatore, i cristiani non hanno copiato alcun insegnamento esseno, ma proclamato una nuova, vittoriosa verità.           

di Casadei Rodolfo

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LO ZODIACO E IL RISVEGLIO DELL’UOMO

 


   


 
LO ZODIACO E IL RISVEGLIO DELL’UOMO


STUDI DI ORDINAMENTI INIZIATICI
  O Sole, tu che spazzi le tenebre dell’ignoranza, tu che unifichi con i tuoi raggi tutte le creature sopra e sotto il cielo, tu che dispendi calore a tutti gli uomini senza curarti della casta, ma soltanto premiando le intelligenze, tu o Sole, allarga la mia mente e permetti che io possa comprendere l’unità del creato dell’essere unificante
dell’uno al di fuori dell’apparenza.

Pico della Mirandola, Della bellezza in comune
Uno studio approfondito dell’essenza dello spirito dell’uomo non può non ricollegarsi ad una visione dell’Universo, del macrocosmo, di cui l’Io, inteso come microcosmo, è solo un frammento. Non si ha, infatti, un’analoga visione dell’Io, se si concepisce l’Universo in maniera materialistica e deterministica oppure se lo s’intende in maniera dinamica.
È evidente che, alla luce della fisica contemporanea, non si può non interpretare il cosmo come essenzialmente un ampio campo energetico. Nello stesso tempo si deve purtroppo riconoscere che non si sono adeguate le altre discipline ad una visione fondamentalmente spiritualistica che oggi s’impone dell’Universo e di conseguenza dell’Io.
Si vive purtroppo ancora una profonda contraddizione fra una cultura, basata sulla conoscenza del fenomeno o del dato staccato ed isolato, ed un’altra cultura, nuova, anche se in realtà antica, che riconduce l’uomo ad una visione olistica, rispettosa di tutti e del Tutto.
L’astrologia dà per scontato che l’uomo è essenzialmente un centro di energia che si sviluppa, inserito in campi energetici diversi. Si presuppone che una massa di energie, incalcolabilmente smisurata, precipiti dall’Infinito e lo percorra ininterrottamente. Questa massa energetica, lungo il cui percorso si trova la terra, apparentemente è omogenea, in realtà è formata da radiazioni ben distinte, ciascuna delle quali ha particolari caratteristiche ed assolve compiti particolari, permettendo la vita e lo sviluppo degli esseri tutti.
Da questa premessa s’impone una nuova concezione dell’uomo, non più centrata sulla sua superiorità e, di conseguenza, sul dominio nei confronti della natura. Bisogna abbandonare definitivamente questa concezione, anche se antica e sostenuta dalle religioni monoteistiche, ancora oggi dominanti e numericamente rilevanti. A parte la violenza e, di conseguenza, i danni purtroppo in parte irreversibili che questa mentalità ha arrecato e arreca sull’ambiente, è essa un segno di superbia o di ignoranza. Quanto invece sarebbe più corretto riflettere sulla fragilità della natura umana. Sì, è grande l’uomo, ma solo se riconosce i suoi limiti, il suo essere la creatura più evoluta sulla terra, perché dotata di intelligenza, ma pur anche limitato e spesso indifeso. Una “canna pensante”, come lo definisce Pascal, una canna sbattuta dai venti, forte, perché si piega ma non si spezza: grande nell’intuire, come Giordano Bruno, infiniti mondi e per questa sua convinzione affrontare impavido la morte, ma povero e misero, quando si ritiene il dominatore e s’inorgoglisce nel costruire ordigni, capaci di distruggere l’intero sistema solare. Riflettendo sulla complessità dell’uomo e sulle forze dinamiche, per molti versi ancora misteriose dell’universo, acquistiamo la consapevolezza della nostra essenza più autentica, sforziamoci di capire qual è la nostra vocazione più vera! Solo così, forse, possiamo ricomporre il nostro Io diviso e riportare l’armonia nella nostra coscienza e nella società umana.
Si parla oggi di un mondo di apparenze, di una rete intricata di convenzioni e di norme formali, in cui si è tutti inviluppati, e da cui non si riesce facilmente ad uscire. L’Io che ripete meccanicamente formule vuote in un quotidiano gioco di apparenze è una povera maschera, che recita la sua parte di un copione fisso, nascondendo, spesso col sorriso, la sua sofferenza. Perché la sofferenza? Da dove nasce la sofferenza? Se l’uomo fosse soddisfatto di sé e della sua vita non ci sarebbe sofferenza, ma non sarebbe un uomo! L’insoddisfazione, è stato detto, è l’essenza dell’uomo. Essa, di cui spesso non si riesce a comprendere la ragione, si manifesta come ansia o inquietudine. È in realtà la voce del profondo, del sé che richiama l’uomo a se stesso e alla sua vera realizzazione. Il primo passo verso la liberazione dal mondo delle vuote apparenze è il sentire questa voce e dare ad essa ascolto. È questo il primo gradino verso la liberazione interiore. L’esperienza dell’illuminazione è paragonabile a quella del risveglio. Un’esperienza che, dallo smantellamento del sistema cosciente, fatto d’intricate e vane convenzioni, porta ad un tuffo nel vuoto, tuffo che in realtà è la vera possibilità di emergere della “natura umana”. Quello che il buddismo chiama “vuoto divino”. È allora che si scopre il Sé, come un mondo infinito d’essenze e di forze vitali, di cui lo Zodiaco e la rappresentazione e i cui segni zodiacali, altro non sono che gli archetipi cui noi orientiamo la nostra vita. In questo Sé, abisso infinito, s’apre l’Infinito della creazione. È proprio la percezione di questo Sé, alimentato e collegato alle energie cosmiche, che ci porta allo stato più elevato, in cui l’Io è depotenzializzato e da cui si avanza verso la crescita interiore. È appunto attraverso una profonda analisi interiore che si scopre la sincronicità del singolo con tutto l’universo e con tutti i singoli possibili. Si scopre allora la correlazione psicofisica dell’Universo in cui l’armonia e l’amore sono l’essenza indispensabile alla crescita individuale.
Purtroppo, il campo d’attenzione della nostra cultura occidentale è quello relativo al piano mentale. Ne sono conseguenza le grandi realizzazioni scientifiche e tecnologiche, ma tutto questo è stato realizzato in virtù di una dissociazione fra l’Io, la parte cosciente, e il Sé. La ragione in questo modo si sovrappone allo spirito. È come se la parte prevale sul tutto. Questo spiega perché spesso ci si abbandona alla barbarie, alla guerra, alla violenza a quanto c’è di più distruttivo per il singolo e per il Tutto. Non è forse vero che una piccola parte d’umanità, ricca di beni materiali, potenzialmente distruttiva, s’impone sul resto dell’umanità, spesso tragicamente impotente?
È nel profondo, nella scoperta del Sé che si può trascendere l’essere umano. La nostra coscienza è solo uno dei modi cosmici di essere coscienza. Ogni ordine di cose dell’universo partecipa della Coscienza, vive ed è degno di crescita. Bisogna essere pronti a recepire un diverso modo di intendere e un diverso sentire. Ci si deve spingere verso una diversa dimensione logica, che diventa poi anche morale. È un discorso, questo, molto difficile e le parole non servono, quanto piuttosto aiuta il silenzio, l’intuizione o la meditazione. L’obiettivo potrebbe essere il creare fra gli uomini una diversa armonia, basata sulla comprensione spirituale, il rapportarci da centro spirituale a centro spirituale, da anima ad anima. I segni dello zodiaco, se capiti realmente nella loro simbologia, ci rappresentano le prove, le esperienze, le lezioni necessarie per la realizzazione del vero progresso spirituale che regola la nostra vita. I segni zodiacali costituiscono i vari tipi di energia che segnano i diversi sentieri di evoluzione entro cui si esprime la natura umana. È come se il Grande Architetto, Intelligenza Suprema, ma anche profondissimo Amore, attraverso i dodici segni zodiacali nutrisse il nostro spirito permettendo, attraverso le esperienze o i suoi doni, a volte anche dolorosi, la nostra evoluzione. Dal centro dello Zodiaco Celeste c’invia i suoi raggi per trasformarci in piccoli soli irradianti, a nostra volta, Conoscenza e Amore.

Salvatore Piazza
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UNA DIFESA

UNA DIFESA

Lettera di Federico il Grande al fra PP. Greinemman Rettore nel Convento dei Cappuccini e Schuff Predicatore dei medesimi ad Aquisgrana quando hanno eccitata la plebe nel duomo di questa città nell’occasione dell’inaugurazione della Loggia Framassonica

Download “Lettera Amica”

Reverendissimi Padri. Diversi rapporti confermati dai giornali, hanno portato alla mia conoscenza, quanto zelo voi adoperate ad affilare la spada del fanatismo contro genti tranquille, virtuose e rispettabili, che si chiamano frammassoni. Nella mia qualità di già dignitario di quest’Ordine stimabile, devo respingere quanto sta nel mio potere la calunnia e l’ingiuria, e tentare di togliere il velo denso che vi fa apparire quel Tempio eretto a tutte le virtù, come un ritrovo del vizio.

Come? vorreste forse, reverendissimi padri, ricondurre fra di noi quei secoli dell’ignoranza e della barbarie che sono stati per tanto tempo scandalo della ragione umana? Quei tempi del fanatismo, che l’occhio della ragione non può riguardare senza un fremito? Quell’epoche, nelle quali l’ipocrisia seduta sul trono del dispotismo, fra la superstizione e l’umiltà, incatenava il mondo e faceva bruciare vivi senza distinzione tutti quelli che sapevano leggere?

Voi date ai frammassoni, non solamente l’epiteto oltraggioso di stregoni, ma voi li chiamate furfanti, uomini ignominiosi, precursori dell’anticristo, ed esortate un popolo intero a distruggere questa razza maledetta.

Furfanti, reverendissimi padri, non sono coloro che, come noi, si fanno un dovere di assistere i poveri e gli orfani; furfanti al contrario, sono quelli che li spogliano, che li privano del loro patrimonio e s’ingrassano della loro preda in grembo all’ozio ed all’ipocrisia; i furfanti ingannano gli uomini; i frammassoni aprono loro l’intelletto. Un frammassone, uscendo dalla sua Officina, dove ha ricevuto insegnamenti tendenti solo al bene dell’umanità, sarà in seno alla famiglia miglior marito e padre.

Gli sforzi dei precursori dell’anticristo tenderebbero probabilmente ad abolire la legge di Dio, i frammassoni invece non potrebbero ribellarvisi senza distruggere il proprio edificio. E come potrebbero essere una razza maledetta, coloro che fanno consistere tutta la loro gloria nella diffusione di quelle virtù che valgano a formare un uomo onesto?

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NOTE SULLA SIMBOLOGIA DEL RAMO D’ORO

(Barcelona) The Golden Bough – Joseph Mallord William Turner – Tate Britain

Giuseppe Alvaro Renderò il deserto un lago d’acqua e la terra arida una fontana. Nel deserto pianterò il cedro, l’acacia, il mirto e l’olivo selvatico… Isaia, 41, 18-19 Pochi archetipi hanno esercitato nel tempo un fascino così profondo e fecondo come quello dell’ Albero, il cui simbolismo è diffuso virtualmente in ogni cultura umana. Pur se la trattazione esaustiva del suo significato esoterico e dei suoi innumerevoli miti va ben oltre le possibilità di questa tavola, merita di essere ricordato che l’albero, come l’uomo stesso, è dotato di una duplice natura, terrena e celeste, e simboleggia quell’ asse del mondo ponte fra il mondo della materia e quello dello spirito, cui sono riconosciuti significati e poteri immensi di conoscenza e di vita. Come “arbor vitae” o “arbor philosophica” spesso viene rappresentato capovolto, con le fronde in basso e le radici in alto, a significare il processo della creazione che – a partire dallo spirito – si manifesta nei multiformi aspetti del mondo sensibile. Uno dei più antichi esempi di albero rovesciato è quello descritto nelle Upanishad: “Questo universo è un albero che esiste eternamente, con le radici in alto e i rami che si estendono in basso. La pura radice dell’albero è Brahman, l’immortale, in cui i tre mondi (cioè il cielo, la terra e gli inferi) hanno il loro essere, che nessuno può trascendere, che è veramente il sé”. Metafisicamente l’Albero rappresenta la forza universale, che si dispiega nella manifestazione come l’energia della pianta dalle radici invisibili si dispiega nel tronco, nei rami, nel fogliame e nei frutti. All’ Albero, con alto grado di uniformità, si associano idee di immortalità e di conoscenza sovrannaturale da una parte, di tentazione e di forze mortali e distruttrici (serpi, demoni o draghi) dall’altra. In questa sede ci occuperemo soltanto del carattere “immortalante” dell’albero, carattere che come vedremo passa per analogia a sue singole componenti (rami, frutti…), che diventano quasi simbolo del simbolo. Già le Tradizioni più antiche testimoniano di una “bevanda di immortalità” che stilla dall’albero come “soma” o “amrta” nel mondo vedico, come “haoma” nelle antiche culture iraniche e soprattutto nella Qabbalah, ove al grande e possente “Albero di Vita” è connessa una “rugiada” per virtù della quale si produce la resurrezione dei morti. Altre volte sono i frutti dell’albero a promettere l’immortalità, come nel caso delle mele del Giardino delle Esperidi o dell’Albero della Vita biblico. Infine, ancora più spesso, sono i rami che appaiono come pegno di resurrezione ed immortalità: il mirto dei misteri eleusini, il “ramo d’oro” di Enea, l’ulivo e le palme della tradizione cristiana e più in generale i rami di alberi sempre verdi o che producono fiori gialli od olii usati nelle lampade, segno evidente della loro natura ignea e solare…. Lo studio di questi antichissimi simboli rivela importanti e ricorrenti analogie. Consideriamo ad esempio il vischio: questa pianta parassita che sottrae acqua e sostanze minerali alle altre piante era ritenuta dagli Antichi una pianta del regno intermedio (né albero né cespuglio) e secondo la leggenda nasceva dove il fulmine aveva colpito un albero. Per la sua natura sempreverde il vischio era considerato una panacea, nonché simbolo di immortalità. Particolarmente apprezzati nell’antica Roma e presso i druidi celtici, erano i ramoscelli di vischio che crescevano sulle querce. Secondo Ranke-Graves, essi erano considerati gli organi sessuali della quercia, così che quando i druidi li tagliavano con un falcetto d’oro a scopi rituali, attuavano una vera e propria castrazione simbolica. Il denso succo delle loro bacche rappresentava così lo sperma (che in greco significa “seme”) della quercia ed era considerato un liquido con grandi doti ringiovanenti. Plinio afferma che i druidi tagliavano i rami di vischio con falcetti d’oro, li raccoglievano in un panno bianco e li offrivano poi agli Dei insieme al sacrificio di due tori bianchi. Le tradizioni di tutto il mondo antico raccomandavano infatti l’uso delle mani nude o di strumenti d’oro nella raccolta delle erbe medicinali particolarmente preziose, allo scopo di preservarne la forza. Ecco ad esempio come la Sibilla descrive ad Enea, desideroso di ritrovare nell’Averno il padre Anchise, proprietà e modalità di raccolta del ramo d’oro: …Poiché se tanto amore e così grande desiderio si trova nel tuo animo di solcare due volte la palude Stigia e vedere due volte il nero Tartaro e ti piace affrontare questa folle fatica, ascolta ciò che prima deve essere fatto. Un aureo ramo, con foglie e gambo pieghevole, consacrato a Giunone infernale, è nascosto sotto un albero ombroso: lo copre tutto il bosco e le ombre lo chiudono in oscure convalli. E non si può entrare nei luoghi segreti della terra prima di aver staccato dall’albero il virgulto dalle fronde d’oro. Proprio questo dono la bella Proserpina ordinò che le fosse portato; strappato il primo, ne nasce un altro pure d’oro e il virgulto mette frondi d’uguale metallo. Dunque, cerca profondamente cogli occhi e, trovato il virgulto d’oro, strappalo con la mano secondo il rito; ed infatti ti seguirà facilmente e di buon grado se i Fati ti chiamano; altrimenti con nessuna forza potrai vincerlo né strapparlo con duro ferro…. e ancora: …Pascendosi le colombe volando avanzano fin dove con lo sguardo potessero giungere gli occhi di chi le seguiva. Quindi, quando giunsero all’ingresso del maleodorante Averno, veloci si levano in volo e discese per l’aria limpida, si posano nel luogo desiderato sull’albero dalla doppia natura (NdT: sia vegetale che aurea) da cui rifulse pei rami lo scintillio dell’oro. Come il vischio, che si riproduce su un albero, suole nel freddo invernale verdeggiare di fronda novella nei boschi, e avvolgere i tronchi rotondi con gialli aurei frutti, tale era l’aspetto dell’oro frondoso sull’elce ombroso, così la sottile foglia d’oro tintinnava al vento leggero…. E’ proprio grazie al ramo d’oro, simbolo dell’albero della vita e analogo dell’aurea verga di Hermes, Enea può attraversare – da vivo – il regno dei morti nelle viscere della terra (“interiora terrae”), compiendo così il suo viaggio iniziatico di rigenerazione. Verde ed oro, simboli di vita e luce… E veniamo dunque all’acacia, di cui si conoscono 1.200 specie. La botanica classifica l’acacia fra le leguminose della famiglia delle mimosacee, piante arboree o arbustive originarie dell’Australia o dell’Africa centrale. Le acacie in genere presentano foglie bipennate, spesso modificate per adattarsi alle temperature elevate e all’aridità delle regioni australi in cui crescono. Alcune specie recano brevi rami appiattiti simili a spine, detti fillodi, che contribuiscono a svolgere la funzione fotosintetica delle foglie. I semi commestibili, il legname pregiato e le gomme ricavabili da alcune varietà conferiscono al genere un grande valore commerciale. Sul piano esoterico, la natura sempreverde, la presenza di fiori gialli e soprattutto il legno duro e resistente fanno dell’acacia un simbolo del superamento della morte presso numerose culture antiche. Secondo gli Egizi, gli Dei erano nati sotto l’acacia della dea Saosis, a nord di Heliopolis e lo stesso Horus era emerso da un albero di acacia. Leggende posteriori collegarono l’acacia non solo alla nascita, ma anche alla morte ed alla vita ultraterrena. Nel Libro dei Morti, alcuni bimbi divini accompagnavano il defunto al sacro albero di Acacia, parti del quale venivano battute e schiacciate dal morto: queste parti erano ritenute dotate di un magico potere curativo. Gli Arabi consideravano l’incorruttibile acacia una manifestazione di el-Huzza, Dea il cui nome significava “forte, possente” il di cui santuario si trovava nella valle di Nakhla ed era costituito da tre alberi di acacia arabica, in uno dei quali si manifestava la Dea. Anche gli Ebrei attribuivano all’acacia un altissimo significato simbolico, tanto da farla entrare nella costituzione dell’Arca dell’Alleanza. Era questo il recipiente nel quale Israele aveva riposto le Tavole della Torah, dopo averle ricevute sul monte del Sinai; su di esse erano incisi i Dieci Comandamenti. L’Arca (si noti come questa parola di origine indoeuropea che indica il “custodire” è alla radice di “arcano”, cioè “esoterico, segreto”), fu trasportata per tutti i 40 anni di viaggio nel deserto, e accompagnò Israele durante i lunghi anni di conquista della Terra Promessa, fino a venire posta nel Tempio costruito dal Re Salomone. Si trattava di una cassa lunga due cubiti e mezzo (Esodo, 25, 10 sgg.; ogni cubito è circa mezzo metro), larga un cubito e mezzo, e alta un cubito e mezzo; veniva trasportata inserendo due lunghi pali negli appositi anelli, come illustrato dalla figura. Quando Israele si accampava, al centro dell’accampamento veniva eretto il Tabernacolo, e nel Santo dei Santi era riposta l’Arca. Questa era composta di due pezzi principali: un parallelepipedo inferiore e un coperchio che lo chiudeva, un chiaro riferimento alla terra e al cielo. Il parallelepipedo inferiore era formato da tre distinte scatole. Le due esterne erano entrambe d’oro, mentre quella mediana era di legno d’acacia. Senza approfondire i numerosi significati di questa scelta, ci limiteremo a ricordare che lo strato di acacia separava le lamine d’oro come un isolante elettrico, onde permettere a ciascuna delle due di costituire uno schermo separato. Una doppia schermatura, insomma, in grado di isolare completamente la Torah dai campi energetici negativi, e di captare solo quelli positivi. I tre strati del recipiente inferiore alludono anche alle tre dimensioni spaziali cui si aggiunge la dimensione temporale (il coperchio costituito da un’unica lamina d’oro sovrastata dai Cherubini) e la “quintessenza”, rappresentata dalle Tavole della Torah. E veniamo infine al mito di Hiram, cuore pulsante della simbolica massonica ed in particolare del 3° grado: per non aver voluto svelare la parola sacra ai tre cattivi compagni (simboleggianti l’ignoranza, il fanatismo e l’avidità), il saggio Architetto viene ucciso e sepolto sotto un ramo d’acacia. Lì viene trovato da uno dei nove Maestri inviati alla sua ricerca ed infine disseppellito da tre persone, il Maestro Venerabile e i due Sorveglianti; ogni tentativo di riportare in vita il cadavere fallisce finché il Maestro Venerabile invita i Sorveglianti, sconvolti perché ad Hiram si stacca la carne dalle ossa, ad unire i loro sforzi in una catena vivente e – grazie alle risorse dell’Arte – desta a nuova vita il Maestro assassinato. Non possono sfuggire le analogie fra questo mito ed i molti altri basati sul ciclo vita-morte-resurrezione. Fra tutti ricorderò nuovamente quello di Osiride, dio egizio della vegetazione, ucciso con l’inganno dal fratello Seth. L’illustrazione in alto, tratta dal testo ermetico Atalanta fugiens di Michael Maier (1618) narra il dramma in tre tempi. In alto a sinistra Seth, coperto dall’arco, imbraccia ancora la spada sanguinante mentre ai suoi piedi giace Osiride smembrato. Accanto accorre Iside che rappresenta il secondo tempo del dramma: ritrova il fratello-marito e presumibilmente s’appresta a vendicarlo. Infine, in primo piano, la riesumazione di Osiride operata da tre personaggi, due soldati romani – evidentemente stupiti – ed un ineffabile sapiente orientale raffigurante, secondo il costume dell’epoca, Ermete Trismegisto. Superfluo sottolineare le analogie fra i soldati e il sapiente dell’illustrazione ed il Maestro Venerabile e i Sorveglianti del mito massonico. In effetti, secondo una ipotesi ben documentata, proprio questa illustrazione ermetica del mito d’Osiride sarebbe alle origini della leggenda di Hiram e dei tratti essenziali del rituale d’iniziazione al terzo grado. Acacia, in greco acacia, significa esente da colpa, innocente, non nocente. Massonicamente si dirà che il Maestro “conosce l’Acacia” ed anche che si diviene Maestri passando da Squadra a Compasso attraverso l’Acacia, cioè che si diviene incorruttibili ed immortali “procedendo dalla rettitudine (Squadra) all’iniziativa “Compasso” passando per l’Acacia (innocenza)”. Simbolo fra i più importanti nell’Istituzione muratoria, l’acacia rappresenta l’iniziato che esce dalla bara di Osiride per trasformarsi in Horus; dell’Agnello di Dio (Cristo) che resuscita; dello stato di rigenerazione che ogni uomo dovrebbe raggiungere superando se stesso. Poiché l’ucciso sopravvive simbolicamente in ogni Maestro, il ramo di Acacia allude agli ideali massonici che sopravvivono alla morte. Gli annunci mortuari massonici vengono ornati con questo simbolo e ramoscelli di Acacia vengono deposti sulla tomba del Fratello defunto… Secondo Osvald Wirth l’Acacia è emblema della sicurezza e della certezza, poiché la morte simbolica di Hiram, come quella di Osiride e di Cristo, non rappresenta il disfacimento dell’essere, ma una trasformazione che conduce alla Luce, che il colore giallo dei suoi fiori sembra preannunciare. Infine, Mackey nella sua enciclopedia riafferma che l’Acacia massonica con «…la sua natura sempre verde ci rammenta l’immortalità dell’anima libera da macchie». Indicazione che nel termine ‘libera’ cela una consonanza col trentaquattresimo verso aureo di Pitagora: «Allora, lasciato il corpo, salirai al libero etere. Sarai un dio immortale, incorruttibile, invulnerabile». Compreso il suo significato, siamo dunque sempre degni dell’Acacia? Certamente no e non c’è nulla di umiliante nell’ammettere le nostre debolezze umane. Osvald Wirth confessava: “Ammesso nove lustri fa in Camera di Mezzo, non posso ancora vantarmi di conoscere l’Acacia. Come voi, in realtà sono rimasto Compagno. I miei viaggi non sono finiti ed io lavoro senza posa a conquistare la Maestria, che sono ben distante dal possedere”. L’essenziale, cari Fratelli, sta tutto in quel lavorare “senza posa” la nostra pietra, sforzandoci di trasformare questo simbolo sublime – il ramo d’oro – in realtà vivente.

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IL NOSTRO MONDO

    IL NOSTRO MONDO

    Il progetto-desiderio di una società migliore non può basarsi che su modelli che mettano in primo piano l’uomo, non come individualità a sé stante, ma come elemento in armonia con l’universo intero. Per un Massone, questo desiderio non è un sogno utopistico per fuggire dalla realtà; ma qualcosa di pensabile, in quanto fattibile, un “sogno ad occhi aperti”, quindi, per il quale esistono i presupposti di una realizzazione. Certamente esso ha bisogno non solo di analisi concrete del potenziale di una società, ma anche, anzi principalmente, di fantasia, di creatività, di rispetto reciproco fra le genti e, perché no, di un “pensiero” dalle basi antiche e solide che conferiscano armonia a tutto ciò che ha parte in questo progetto-desiderio. Non è facile da raggiungere: esige però che ci si batta per la sua realizzazione.

    Un’era volge al termine e questi duemila anni si concludono lasciando una pesante eredità a quella successiva: deterioramento dell’ambiente, conflittualità politica fra i popoli, caduta dei valori etici e spirituali, crisi dei rapporti sociali ed interpersonali.

    Le cause che hanno innescato questa reazione a catena sono innumerevoli e assai complesse.

    Le civiltà in ascesa hanno sempre un preminente carattere sintetico tendente ad unire ciò che è separato; da quest’azione unificatrice, che i Greci esprimevano con il verbo “simballein” (mettere assieme, unire) nasce la cultura del simbolo, la civiltà simbolica.

    Dal processo inverso del “diaballein”, deriva, invece, la cultura diabolica la quale, separando ciò che era unito, provoca una reazione a catena dagli effetti devastanti che oltre ad insidiare l’armonia del vivere e a stravolgere la scala dei valori; minaccia addirittura la sopravvivenza della terra che ci ospita e ci nutre.

    Varie sono le cause che innescano questa reazione: 1) lo strapotere e la spregiudicatezza del capitale che programma i suoi interventi al solo scopo di moltiplicare i profitti, dì esasperare attraverso la competitività uno sfrenato senso egoistico, di considerare l’uomo soltanto come un semplice strumento della produzione; 2) l’attività dell’uomo che autoelettosi unico sovrano del cosmo, si sente in diritto di deturpare foreste, di far strage di fauna, di inquinare terra, acqua, e aria con i suoi veleni, di manipolare il patrimonio genetico delle piante e degli animali senza tener conto di alcun’altra legge eccetto quella del suo tornaconto personale. Così questo signore dell’universo è diventato il grande “killer” della terra e l’unico animale che distrugge l’ambiente dove vive, soggiogato dall’imperativo del profitto per cui tutto è lecito.

    Altro acceleratore del processo di disaggregazione è il voler considerare la scienza come la più importante attività umana che non ha limiti all’estensione delle sue conoscenze, con la convinzione che essa può riparare qualsiasi guasto provocato dai suoi errori.

    Non ultima tra le cause. Il “culto della superspecializzazione” che comporta una frammentazione del sapere in particelle che si vanno facendo sempre più piccole, sicché la specializzazione diventa solitudine, vera e propria alienazione.

    Eppure questo culto va diffondendosi in ogni altro settore della scienza e della cultura. Ovviamente, non s’intende svalutare la specializzazione in assoluto ma essa ha un valore reale se porta all’approfondimento di una ricerca che non prescinda da una concezione organicistica dell’unitarietà dell’uomo, da un’armonica interazione delle conoscenze, dalle leggi inviolabili della natura a cui si può comandare solo obbedendole e che non ignori neppure le esigenze della collettività, poiché, come sentenziavano gli antichi maestri di scienza che erano anche maestri di vita, “scientia sine coscientia est nihil”.

    Giovanni Cecconi e Gustavo Raffi

    Oggi più che mai si sente l’esigenza di tanti cambiamenti in molti campi, dall’economia (diverso rapporto uomo-ambiente, uso di energie pulite) alla politica ed alla sociologia ( superamento della concezione materialistico-meccanicistica, cooperazione e non competitività, visione cosmica e non planetaria, sviluppo di una coscienza collettiva) alla medicina (concezione olistica della persona) ed alla spiritualità (superamento delle concezioni parziali e dogmatiche, coscienza di essere tutti figli dello stesso Principio).

    Aprirsi a questa nuova coscienza è oggi una necessità improrogabile e il rendersene conto significa compiere il primo passo verso il cambiamento.

    Si avverte, quindi, la consapevolezza che tutto ciò potrà avvenire solo a seguito di un totale ribaltamento interiore dell’individuo che, necessariamente, porterà con sé anche quello esteriore: un ribaltamento che dovrà cominciare dal singolo e non essere imposto dall’alto. Considerando l’azione dì rinnovamento in questa chiave, il ruolo della Massoneria è fondamentale, indispensabile.

    Quale portatrice di un pensiero e di una tradizione iniziatica, contiene in sé principi ed insegnamenti secolari indispensabili al miglioramento dell’uomo e per formare un’etica nel vero senso della parola.

    Non sto a ricordare i cinque punti della fratellanza; ripeto solo che la Massoneria è una scuola iniziatica che segue l’esoterismo nell’insegnamento ed il simbolismo nell’arte operativa; infatti, senza una tradizione iniziatica-esoterica non esisterebbe un canale di trasmissione di luce iniziatica e senza iniziazione non potrebbe esistere alcuna forma di Massoneria.

    Essa ha il duplice scopo di favorire il perfezionamento dell’uomo e di lavorare, di conseguenza, direi naturalmente, al bene ed al progresso dell’umanità.

    Però se il primo non si realizza “massonicamente” non si conseguirà mai il secondo.

    “Un palazzo, anche se bellissimo come facciata, deve, principalmente, avere fondamenta salde, altrimenti può crollare al primo refolo di vento”.

    Per il bene dell’Umanità è perciò fondamentale che il Massone sia tale nel vero senso della parola.

    E lo è soltanto se egli vive intensamente ed interiormente la Massoneria osservandone tutti i principi, per effetto dell’iniziazione, atto attraverso cui si stabilisce, nel Massone, un nuovo principio di vita, per cui l’esistenza ricomincia, intimamente da capo.

    Nasce qui il sentiero del grande ritorno; a da qui deve nascere, poi, nel Massone l’opera attiva e la missione educatrice nei confronti dell’Umanità!

    L’origine della vita ci sussurra richiami irresistibili nel disegno svelato dalle forme semplici dei simboli: chiama a raccolta apprendisti, compagni e maestri, centro invisibile del simbolo universale: l’UMANITA’.

    La Massoneria, quindi , non è un “club” qualunque, ma qualcosa di completamente diverso.

    L’Uomo Massone non può comportarsi da “Iniziato” all’interno del Tempio e da “Non Iniziato” al di fuori di esso e cioè in ogni manifestazione della sua vita.

    Egli dovrà, quindi, all’esterno, avere un ruolo attivo, vivo, di esempio di guida, di colui che indica una via da percorrere sicché “se nel lungo cammino della vita qualcuno rimane indietro, Lui è pronto a fermarsi ed aspettarlo”.

    A questo ci porta la Massoneria, intesa nel suo significato più vero e più profondo: quello di una via spirituale resa ancor più viva ed operante dai nostro agire quotidiano avente per scopo l’evolvere dei nostri simili.

    Ecco che, allora, la Massoneria non può che avere e svolgere un ruolo di primissimo piano in questa società perché “Gli Antichi Doveri” che costituiscono le sue fondamenta non avranno mai fine.

    Doveri, ai quali occorre rispondere quotidianamente per recuperare la visione olistica del mondo: dovere inteso come imperativo morale: “agisci come se ogni tuo atto potesse essere assunto come norma universale”.

    Ecco allora che, qualunque ricerca per individuare l’etica che permetta all’Umanità di vivere con fratellanza, con uguaglianza, con la tolleranza dai propri principi interiori, con amore inteso come energia primigenia, non potrà mai prescindere da quella splendida scuola di vita che è la Massoneria.

    A riprova di quelle che sono le finalità delle Massoneria e nel servizio che il Massone dovrà compiere nei confronti dei suoi simili vorrei ricordare quanto viene detto al neofita, terminata la prova del fuoco: “Possa il vostro cuore infiammarsi d’amore per i vostri simili, possa questo amore improntare le vostre parole, le vostre azioni, il vostro avvenire…”. Non dimenticate mai il precetto universale ed eterno “non fare agli altri ciò che non vorresti fatto a te stesso e fa agli altri tutto il bene che vorresti facessero a te”.

    Dobbiamo , quindi, amare il nostro prossimo come noi stessi.

    Ma l’amore verso se stessi si realizza operando per il proprio perfezionamento e per il superamento dell’”io” che è l’essenza psicofisica dell’uomo, l’ispiratore della sua vanità e del suo animalesco egoismo. L’iniziato fa poca strada se non riesce a subordinarlo all’”atman”, cioè al “sé”.

    La Massoneria ha in sé tutti i requisiti per l’etica della vita, determinati, appunto, da quel salto di qualità compiuto dall’uomo divenuto Massone che non lo fa essere più quello di prima poiché è decisamente avviato su di un cammino evolutivo in grado di aiutare gli altri ad evolvere.

    Questo è il servizio che il Massone deve compiere avendo ben chiaro il concetto di uguaglianza, inteso come uguale diritto di tutti gli uomini a migliorarsi, e quello di tolleranza che concilia perciò uguaglianza e differenza.

    Il Massone deve avere i piedi ben piantati a terra e gli occhi sempre rivolti al cielo.

    La Massoneria ti dà la possibilità di esistere, di far tesoro di ogni attimo della vita.

    Fa quel che devi, accada quel che può.

    Giovanni Cecconi

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