VALIDITA’ DEI PRINCIPI MASSONICI

VALIDITA’ DEI PRINCIPI MASSONICI

Sono ormai quaranta e più anni che io sono iniziato libero muratore: sono dunque tutti gli anni validi e ragionevoli della mia vita, e debbo onestamente dire che mai, in nessun momento mi sono pentito della mia investitura massonica, anche se più di una volta il corso degli avvenimenti mi ha distaccato, se non dalla fedeltà all’ordine, almeno dal consenso al comportamento della comunione. La verità è che io, e – dato che è composto di persone come me – anche l’ordine possiamo sbagliare in questo o in quell’atteggiamento: né la fedeltà mi impone di dare ad occhi chiusi un assenso cui del resto nessuno mi potrebbe costringere: ma quanto mi rende ogni momento più cara la stimmata massonica sono i principi della massoneria. I quali poi hanno ancora questo di peculiare: che quelli che oggi distinguo sono più complessi di quelli che scorgevo nel lontano tempo della mia inizi azione. Questi principi mi vennero indicati con il trinomio di libertà, eguaglianza e fratellanza; il metodo mi venne gabellato per socratico; mi venne detto che la mia opera doveva essere dedicata alla ricerca del vero: e nello stesso tempo che di verità ce ne sono molte, mi fu indicata la tolleranza come la massima delle virtù, e mi fu detto di ricercare la virtù e combattere il vizio, apprezzare il bello ed il buono, ed esecrare il brutto ed il cattivo; praticare il bene ed odiare il male, come se tutto ciò fosse compatibile con la tolleranza e come se i confini fra l’una e l’altra qualità fossero ben stabiliti. Non solo: imparai che agli inizi del 1700 le logge dei mestieri edilizi da operative divennero simboliche sotto la spinta della modernità (e delle lotte fra stuartisti e orangisti) che faceva cadere le necessità economiche della corporazione, mi si disse e mi si negò insieme che la massoneria fosse responsabile della rivoluzione, anzi delle rivoluzioni francesi e del Risorgimento italiano: del romanticismo tedesco, dell’indipendenza degli Stati Uniti d’America, delle rivoluzioni sudamericane. E lessi poi tutti quegli avvenimenti, documenti e storie di cui le più mi apparvero superficiali, e pochissime interessanti.

Se poi mi chiedo, o se mi si chiedesse (e me lo domandano spesso) che cosa è la Massoneria, non credo che potrei dare una risposta precisa e soddisfacente: e mi è vano trincerarmi sotto il segreto massonico che sono tenuto ad osservare, e che del resto non posso non osservare perché esso si rivela solo all’Iniziato, a quello con l’I maiuscola: ed io sono ben lungi dal ritenermi tale.

Tutto quanto precede è esatto; come è esatto che io sono di giorno in giorno più soddisfatto di essere massone, eppure non mi sfugge che il valore degli slogan elencati è estremamente generico ed impreciso ed ormai accessibile e direi ovvio a ogni uomo degno di questo nome; perciò alla base della mia soddisfazione ci deve pur essere un fatto razionale e non istintivo. Eccomi dunque alla ricerca di quella ragione che il mio subconscio ha già accettato, ma deve venire alla cognizione della -mia -mente perché io possa rispondere prima a me stesso e poi anche – se la mia disamina mi soddisferà (siamo onesti) – alla curiosità più o meno legittima dei miei conoscenti.

La Massoneria e sorta e fiorita di una fioritura anche troppo rigogliosa, nel 1700: è nata con l’llluminismo, si è nutrita ed ha nutrito l’Enciclopedia e direi che è contemporanea, nel suo sorgere, al declinare della fede cieca, ed al sorgere dell’era della tecnica.

C’è stato un momento in cui, di fronte alla rivelazione della catena causa ed effetto dei fenomeni, ha vacillato il terreno del miracolo ed in quel momento, nei paesi cattolici, si è ricorsi alla dea ragione, mentre i paesi protestanti, già abituati a discutere sul testo sacro ed a dargli quell’interpretazione che più era adatta alle piccole mentalità, non hanno avuto bisogno di sostituire la vecchia teologia ed i miti.

(Questo spiega la profonda ma pur apparente differenza fra le cosiddette massonerie anglosassoni e le cosiddette massonerie latine) .

Il progresso tecnico ha portato dappertutto un disinteresse all’aspetto spirituale della vita, in alcuni dando la religione per accettata e fuori della vita vissuta, ed in altri alla negazione di ogni religione. E’ ben vero che l’ateismo professato è una petizione di principio, in quanto nella stessa negazione della divinità è la sua affermazione: ma è pur vero che man mano che l’uomo è divenuto sia pur limitatamente padrone della fenomenologia e la ha potuta riprodurre, non ha più visto confini alle sue possibilità, e gli è parso di poter girare il problema dell’esistenza e della creazione della vita, con l’affermazione della sua eternità meccanica. L’asserzione che nulla si crea e nulla si distrugge ha potuto regnare nella ragione umana più evoluta e ribelle almeno fino alla scoperta del neutrone negativo, che potrebbe provare la sua esistenza e quindi. la necessità di una creazione come atto volontario. Va aggiunto che il progresso tecnico, che ha dimostrato che il sistema solare è solo un piccolo sistema di pianeti che ruota intorno. ad uno dei milioni di astri della via Lattea è parso dare un colpo alle religioni che volevano un Dio per la terra, con tutte le sue conseguenze, ma a mio avviso anche un colpo all’idea meramente materialistica, perché la mente umana è troppo limitata anche per concepire in un ordine di grandezza che supera del tutto le possibilità di una immaginazione per fantasiosa e potente che sia.

L’uomo mediamente intelligente di oggi è arrivato, io credo, a ripudiare l’idea della divinità antropomorfa, che si interessa dei minimi fatti della vita personale. Della massa, non occorre qui spendere nemmeno una parola: perché anche quegli che ritiene che il Dio non possa avere la barba, né debba intervenire a far ritrovare ad esempio un oggetto smarrito, può seguitare a coltivare ed a credere nella sua religione quale che sia, riconoscendo in quelle dette particolarità divine una necessità per gli spiriti meno provveduti e più materialisti.

Ma tanto porta per forza di cose, un allontanamento dalla pratica religiosa così come viene comunemente richiesta: e perlomeno ad una scelta di precetti che vanno seguiti – quali i precetti morali – e di altri che non vanno osservati, perché o caducati dalla vita moderna, oppure razionalmente insostenibili. Ma una religione rivelata, quale che essa sia, è un blocco omogeneo, e non può trascurarsi un precetto senza caducare tutto il sistema.

Sicché oggi, di fronte ad un rifiorire formalmente superficiale di tutte le religioni, si osserva che l’uomo non ne segue più alcuna seriamente, se non per conformismo, per politica o per quieto vivere. Ogni religione in verità lancia gridi di allarme, non perché i templi siano vuoti, ma perché le vocazioni si fanno più rare, e la qualità di coloro che le seguono diviene più scadente.

Bisogna, inoltre, darsi ragione del fatto che il progresso tecnico ha portato le migliori intelligenze ad occuparsi di fenomeni e di questioni completamente materiali. Ormai, in questo secolo, la scissione dell’atomo senza provocare la reazione a catena è un fatto compiuto, e il vecchio sogno dell’alchimista è divenuto realtà, e le velocità degli astronauti si avvicinano a quella della luce, mentre la chirurgia riesce – lo si prevede imminente – a sostituire gli organi, la chimica a riprodurre gli elementi, e perfino a crearne dei nuovi, la genetica, si dice, può forse, oltre che fecondare artificialmente, anche far mantenere il seme in vita, e la macchina sostituisce sempre più il lavoro manuale umano. L’origine prima è sempre ignota: ma la varietà e la difficoltà degli studi intrapresi porta al disinteresse verso lo studio di quella prima origine.

Prometeo ha veramente rubato la scintilla: Adamo ha veramente morso il pomo della conoscenza: ma né Prometeo né Adamo si sono messi a vedere come è composta la scintilla o chi abbia offerto il pomo. Di fronte al fantastico progredire della tecnica, gli studi dell’io seguitavano a rivangare le orme dei filosofi greci.

Le moderne scienze etiche sono più sistemi di interpretazione dell’azione e del pensiero umano che profonde indagini sull’essenza stessa dell’io. Appena all’inizio di questo secolo si è avuto, con la psicanalisi, un nuovo mezzo di indagine, ma esso è giustamente, per ora, rivolto alla cura delle disfunzioni mentali e alle scelte professionali, che alla patologia dello spirito.

Non è dunque meraviglia che le verità rivelate appaiano crollate. Anche chi fa professione di dogma, non insiste più nell’assoluto obbligo di non discuterlo e seguirlo, ed è costretto al dialogo con chi il dogma non segue, per quanto cerchi di limitare questa necessità, e di gabellarla per tolleranza.

Nessuna meraviglia quindi che tutti i precetti etici ancorati nelle religioni non siano oltre seguiti e che la grande maggioranza degli uomini veda sempre più che il rapporto fra società e individuo è un mero rapporto di forza: la società impone determinate limitazioni all’attività individuale, e libero è l’individuo di violare quelle limitazioni se riesce ad evadere dal sistema primitivo della società. Quanto questa affermazione abbia fondamento, è perfettamente dimostrato dalle possibilità che per un ventennio l’Europa, e quindi il mondo, sono stati le vittime di un sistema di forze e di violenza che violava dichiaratamente qualsiasi principio etico in nome di un male inteso interesse nazionale. E’ vero che ciò è sempre avvenuto, ma è pur vero che si era cercato, nel passato, di trovare delle giustificazioni morali che, nel caso specifico si sono se non completamente ripudiate, appena superficialmente accennate come se dovessero piegare di fronte ad un preteso interesse della nazione.

La scomparsa, per la reazione della forza sociale delle altre nazioni di quei sistemi amorali, ne ha soffocato (speriamo per qualche tempo) l’uso nel campo degli Stati, ma non ha davvero cambiato la mentalità umana che aveva prodotto la possibilità di quei sistemi politici. Se i religiosi possono sostenere che i l0 comandamenti vengono seguiti per quello che riguarda gli obblighi dell’uomo verso il Dio, non possono davvero sostenere che vengono seguiti per quanto riguarda gli obblighi dell’uomo verso il suo prossimo e il comportamento dell’individuo. Il furto – sotto forma di appropriazione indebita o di truffa – e l’adulterio, per non citare che i peccati più grossolani, sono diventati di comune accezione, anche se si riposa il giorno del Signore, e non si venera altro Dio. Il che significa che deve riconoscersi che la funzione sociale delle religioni ha cessato di avere una sua validità.

D’altra parte, se anche volessimo seguire un filo logico del tutto materialista, dobbiamo riconoscere che l’uomo ha tuttavia bisogno di un fondamento etico e spirituale. L’onesto ed il disonesto possono bene avere – filosoficamente – un senso del tutto relativo, così come lo possono avere il giusto e !’ingiusto. Ma l’uomo non può agire senza ancorare in determinati principi fissi il suo essere agente, perché altrimenti e tutto il suo mondo crolla, e la convivenza sociale è impossibile. Non c’è nemmeno bisogno di citare, a riprova, la profonda moralità dell’anarchico e del materialista, che diviene quasi più moralista del religioso, né di citare la impossibilità asserita, per un individuo morale, di commettere un delitto anche sotto ipnosi. Tuttavia lo Stato moderno ha reso quasi impossibile distinguere il delitto che chiameremo naturale, dal delitto che chiameremo politico quale ad es. il contrabbando o la violenza di norme annonarie o valutarie o fiscali, e quindi non si può nemmeno fare affidamento nella buona indole dell’uomo civilizzato per contare su un cittadino onesto che scorga di per sé la profonda immoralità, ad esempio, della speculazione sulle aree fabbricabili, dell’abuso di una funzione a scopi privati, del favorire una persona a vantaggio, quanto meno, della cassa di un partito o della adulterazione anche innocua dei cibi, oppure della nefandezza della speculazione sulle rette dei minorati nella salute.

Come non credente in una religione definita, voglio credere che se quei signori fossero sinceramente convinti nel seguire una qualsiasi religione, non avrebbero messo, per denaro, a rischio di dannazione la loro anima immortale: e preferisco pensare che tanto è avvenuto, in persone naturalmente oneste, per insensibilità ai principi etici che possono solo essere contenuti come norma cogente, in quella disciplina dello spirito che designammo sotto il nome di religione. Quella mancando, non hanno saputo sostituirla con un’altra che non fosse il rapporto di forza fra la collettività, rappresentata dallo Stato, e l’individuo. E poiché lo Stato parve, ed era debole, essi hanno pensato di potersene avvantaggiare.

Da quanto suaccennato, risulterebbe il crollo di ogni principio etico, di cui pure abbiamo bisogno. In che scuola, in che religione, in che filosofia troverà riparo il nostro io spirituale? Come soddisferemo quello che Jules Romains chiamava «la recherche d’une eglise ».

E’ qui, a mio avviso, che soccorre l’idea massonica. Niente qui è imposto, nessuna credenza è proibita o anche solo negata. L’uomo che si appresta alla iniziazione sa che deve andare ad iniziare una nuova vita, intesa al miglioramento dell’io – e solo attraverso questo miglioramento destinata ad intervenire nel mondo sociale nel rispetto degli «io» di tutti i suoi simili.

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LA CIRCOLAZIONE DELLE IDEE

LA CIRCOLAZIONE DELLE IDEE

di F.B., Secondo Sorvegliante;  

Al riparo, nella Loggia “debitamente coperta”, noi diamo corso ai lavori nel Tempio, uniti nella comune consapevolezza della sacralità, con cui, abbandonati i metalli e opportunamente preparati, celebriamo il Rito.

Guardando al passato e alle origini moderne della Fratellanza, possiamo immaginare la stessa situazione nei nostri Fratelli del Settecento. Non ci può essere d’ostacolo lo stravolgimento sociale e politico in tre secoli di storia, o la frequente alternanza d’Obbedienze e Riti diversi, né le disarmonie fra le Gran Logge Nazionali nelle varie regioni europee durante il secolo XVIII. Una continuità, che trae fondamento e spiegazione dall’uniformità “iniziatica” e tradizionale della Libera Muratoria e si manifesta in modo omogeneo nei fondamenti del pensiero massonico.

Nel Settecento questo si è tradotto in un’attiva e diretta partecipazione, degli aderenti alla Fratellanza, al fermento delle “nuove idee”, che ha caratterizzato i movimenti culturali, la scienza, le arti e lo stesso pensiero politico nell’età dell’Illuminismo.

In tutti i sistemi massonici, le idee di fratellanza, tolleranza, eguaglianza, la solidarietà fra gli affiliati e lo scopo della beneficenza, il riconoscimento personale secondo il merito al posto del privilegio dello “stato sociale”, l’organizzazione su base elettiva, l’enunciazione della libertà di religione e di pensiero, la libera discussione in seno alla loggia, con l’unico veto su argomenti riguardanti la religione e la politica, sono principi universali e costanti nel tempo. Se a questi aggiungiamo l’idea di una natura al centro di ogni fondamento religioso, fino al ricupero, in alcuni casi, della sapienza ermetica del tardo Rinascimento italiano, possiamo intendere come tutte queste connotazioni concettuali fanno assumere alla loggia massonica, non più “operativa e corporativa”, ma vera e propria “società di uomini liberi e di buona reputazione”, un carattere “dirompente” nei confronti della cultura e del sistema stabilizzato del potere nello Stato assoluto dell’Ancien Régime.

L’idea generale che si sviluppa a cavallo dei secoli XVII e XVIII, è quella della rigenerazione dell’uomo; del rinnovamento della società, accompagnate dall’intuizione che ciò può avvenire non più affrontando dall’esterno le istituzioni, ma agendo sull’uomo. E’ necessario cioè “ricostruire il Tempio” preparando prima le “pietre levigate”, a garantirne la futura solidità.

Per questo il fenomeno massonico assume rilevanza anche sotto l’aspetto sociale e politico, come è stato riconosciuto appena da pochi anni in qua, in studi relativamente recenti e autorevoli. (1)

Il massone, oggi come allora, è costantemente alla ricerca individuale della verità e per questo, fin dall’inizio, in tutti gli stati con forme di governo assoluto e autoritario, dove le verità, non escluse quelle spirituali, sono dettate dall’alto, la massoneria è sempre stata scomoda e, in più occasioni, perseguitata.

E’ indubbio che i Fratelli del Settecento, assieme ai circoli intellettuali, alle Accademie, alle società di lettura, e ai salotti, hanno utilizzato la massoneria anche come strumento di diffusione delle “nuove idee” che maturavano agli inizi del secolo, principalmente in Inghilterra e Francia, e che porteranno, dopo il 1780, alle tendenze cospirative e rivoluzionarie, dopo lo scarso risultato del movimento riformista e l’ininfluente azione dei governi ispirati a un “dispotismo illuminato”.

Non è stato ancora dato giusto rilievo, da parte degli studiosi, alla reale incidenza della Fratellanza massonica nell’esperienza intellettuale dei protagonisti dell’Illuminismo europeo, in virtù della peculiare struttura di socializzazione, quale si presenta la loggia, nelle sue finalità umanitarie e filantropiche. Va tenuto conto insomma che molti dei grandi intellettuali europei (specie nella seconda metà del secolo, particolarmente in Germania e in Italia), si sono fatti iniziare alla massoneria. Molti fra questi si sono anche impegnati direttamente nella vita delle logge, affrontando i problemi organizzativi e ideologici dell’Istituzione. Questo basterebbe a confermare la tesi (disattesa fino ad ora dagli studiosi), secondo la quale i “Lumi” e la Massoneria sono manifestazioni prodotte dalla stessa società e cultura. (Giarizzo)

Queste osservazioni preliminari vogliono essere la premessa per un’ipotesi di ricerca tendente a ripercorrere alcuni “sentieri” di collegamento europeo e italiano in particolare, che hanno contribuito a diffondere e propagandare le idee che stavano maturando. Lungo il percorso, nessuna meraviglia se scopriremo che non è stato certo casuale il fatto che la massoneria, in pochi anni, si sia affermata su scala europea.

Per le regioni italiane bisogna tenere conto dell’assenza di uno spirito unitario e dell’esistenza di più Stati con tradizioni, ordinamenti e situazioni socio-politiche diverse, oltre che di influenza straniera. Perciò in Italia, per tutto il secolo XVIII, si è trattato di una massoneria di importazione; e quando i sistemi massonici europei si affermavano negli stati della penisola, le logge italiane assumevano caratteristiche specifiche secondo l’influenza dominante, inglese, francese, olandese o tedesca. (Soriga)

Laddove possibile, alla luce della documentazione attualmente reperibile e sulla scorta degli studi più recenti, è necessario analizzare a fondo la reale consistenza operativa della “ragnatela” di logge esistente sul continente europeo a metà del secolo XVIII, nonostante due condanne da parte della Chiesa cattolica, nel 1738 e nel 1751.

Interessa quindi cogliere i legami ideologici e la capillare diffusione nelle diverse aree geografiche, che offrivano agli affiliati la possibilità di amicizie e di appoggi nelle varie città, l’apertura a nuovi apprendimenti culturali e la tutela della segretezza nei rapporti fra gli associati.

La pratica del “segreto” come principale connotazione dell’attività massonica, utilizzata unitamente ai segni, alle formule di appartenenza e di comunicazione, già dalle corporazioni dei Muratori medievali, diventa nelle logge moderne, simbolo di devozione alla fratellanza, di lealtà e di probità. La capacità di mantenere i segreti della massoneria contraddistingue il vero fratello e rafforza il vincolo societario fra individui che possono non aver nulla in comune, oltre all’appartenenza a una “società” che tende a manifestare contenuti e sapienza arcani e suggerisce un percorso “graduale” verso l’illuminazione.

Per il Settecento in ogni modo, l’attività delle singole logge e l’articolata testimonianza dei rapporti tra loro intercorsi, attestano che, grazie all’impostazione cosmopolita del pensiero massonico, così come per il movimento illuminista, attraverso i contatti e gli intrecci, estesi ai centri europei più importanti, fra obbedienze e fra singoli fratelli, si è attivato un sommerso “corridoio” di comunicazione. Una ramificazione dei centri di diffusione intellettuale, resa efficace e facilitata nel suo sviluppo capillare dalle caratteristiche stesse, dei lavori e dei metodi delle “officine massoniche”, preferite ad altre forme di “sociabilità” più o meno “visibili”. Il “tessuto” sociale interessato e partecipe in questi canali, è costituito anche da “fratelli” che sono eminenti rappresentanti del ceto dirigente. Costoro, nello spirito di eguaglianza massonica, si trovano ad essere accomunati in loggia con soggetti che nella vita profana non sempre condividono la stessa situazione sociale o attività. Fra questi ci sono, nobili, borghesi, commercianti, diplomatici, viaggiatori, (non raramente anche elementi dello spionaggio internazionale), intellettuali, rappresentanti del clero, artisti e musicisti. Per la struttura organizzativa delle logge, tutti questi soggetti erano facilitati e giustificati di fronte alle autorità di polizia, a coltivare relazioni massoniche costanti, con lettere, visite, contatti diplomatici, tra Parigi, Londra, Amsterdam, Praga, Vienna, Firenze, Napoli, Venezia, Roma ecc.

Si possono dunque individuare i centri di diffusione capaci di diventare espressione per nuove figure sociali, che si trovano a sperimentare nell’attività delle logge, forme inedite del vivere civile, confrontandosi sul piano culturale. E’ anche attraverso questo tipo di esperienze che si sviluppa e acquista rilevanza in quel periodo, l’opinione pubblica, così come la sua manipolazione. Sul piano politico, si fa strada la tendenza ideologica a porsi come alternativa al modello di Stato assoluto.

Anche se non dappertutto né in modo univoco, nell’organizzazione delle singole logge, prendono corpo e sono realizzate, all’interno del “Tempio Massonico”, forme di governo innovative, di ispirazione democratica (elezioni a scrutinio segreto, principio della maggioranza, voto per testa, tasse sotto forma di quote, registrazione dell’appartenenza). La struttura della loggia diventò così uno dei principali canali di trasmissione della nuova cultura politica, sull’onda del costituzionalismo inglese, che si opponeva progressivamente sia ai privilegi tradizionali e consolidati, sia all’autorità basata sulla gerarchia. Convinzioni e ideologie la cui influenza si manifesterà nel periodo rivoluzionario di fine secolo. (Jacob)

Anche oggi, nel nostro lavoro individuale, fraternamente coltivato e condiviso assieme agli altri fratelli, al riparo della “Loggia debitamente coperta”, possiamo continuare e assolvere un compito di costante divulgazione. Non sarà bisogno di far circolare le idee del Settecento, in teoria ormai acquisite dalla maggior parte dei sistemi democratici moderni. E’ anche indubbio altresì, che esse non sono, di fatto, un bagaglio universale dell’Umanità. Esse esprimono un insieme di valori universali, spesso disattesi nella quotidianità del mondo profano, perciò non più alla “circolazione delle idee” siamo chiamati ma alla salvaguardia e alla costante riaffermazione di quei valori che restano ancora imprescindibile presupposto per un’autentica “rigenerazione dell’uomo”. 

1) Per una prima informazione: 

V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo, Laterza Bari 1989. 

C. Francovich, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla Rivoluzione Francese, La Nuova Italia Firenze 1974. 

G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento, Marsilio, Venezia 1994. 

F. Venturi, Settecento riformatore, I: Da Muratori a Beccarla, Einaudi, Torino 1969. 

F. Venturi, Utopia e Riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970.  

F. Venturi, La circolazione delle idee, in “Rassegna Storica del Risorgimento”, 1954, pp. 203-222 

M. Jacob, Massoneria Illuminata. Politica e cultura nell’Europa del Settecento, Einaudi Torino 1995. 

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Laterza Bari 1977 

Trampus, La Massoneria nell’età moderna, Laterza Bari 2001 

R. Soriga, Le Società segrete, l’emigrazione politica e i primi moti per l’indipendenza, Scritti raccolti e Ordinati da Silio Manfredi. “Collezione Storica del Risorgimento”, Vol. XXIX, Modena 1942.

P. Maruzzi, Notizie e documenti sui Liberi Muratori in Torino nel secolo XVIII, in “Bollettino Storico Subalpino” 1928-30, a. XXX, pp. 115-213; 397-514 – a. XXXII, pp. 33-100; 241-314 

R. Koselleck, Critica Illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, 1972. 

B. Fay, La Massoneria e la rivoluzione intellettuale del secolo XVIII, Einaudi, Torino 1945.

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PRIMA TAVOLA DEL M.V. SUL TEMA DEL VIAGGIO – Il viaggio circolare e il viaggio rettilineo

PRIMA TAVOLA DEL M.V. SUL TEMA DEL VIAGGIO – Il viaggio circolare e il viaggio rettilineo

lavoro  di A.R.;


«Impariamo a pensare come Leonardo: usare l’immaginazione, stravolgere le regole»
David Perkins

«Siamo tutti cercatori d’oro, smarriti in un deserto dove le vie che conducono al successo sono poche e sepolte nella sabbia, bloccate da condizionamenti mentali che ci impediscono di cogliere un suggerimento anche quando l’abbiamo sotto gli occhi, attratti iresistibilmente da oasi che ci accontentano a metà ma sembrano tanto meglio del vuoto che le circonda. In questa situazione la virtù migliore è il coraggio, con tutti i suoi rischi; la strada di quanti hanno scoperto le pepite è cosparsa di scheletri, quella che ci ha portato al volo dei fratelli Wright o alla relatività di Einstein è costellata di brutte figure e tragici incidenti»
Ermanno Bencivegna

Perché Claudio Magris ha scelto “Itaca e oltre”, che ci parla dell’Enrico di Ofterdingen di Novalis, metaforica odissea dello spirito umano, come titolo fra i tanti possibili?

Magris stesso ha risposto a questa domanda: «Perché il tema centrale è questo: se il viaggio della vita, e quindi anche della letteratura e della poesia, possa essere inteso nel senso classico del restare fedeli a se stessi. Oppure se questo viaggio dimostra l’impossibilità della sosta, il continuo mutare, la perdità dell’identità, il diventare un altro. Il viaggio circolare contrapposto al viaggio rettilineo.» È l’ulissiaco viaggio circolare inteso come metafora della vita, come odissea con il ritorno, come fedeltà alla propria identità e al proprio senso del divenire contrapposto al viaggio rettilineo nel quale il soggetto non torna a casa e a se stesso ma disperde e dissolve la propria identità in un musiliano “delirio di molti”.

L’odissea del nostro tempo è un’odissea senza Itaca, una nuova odissea senza ritorno.

Itaca si configura in questo viaggio dell’essere, non come luogo reale e concreto, ma come nòstos – ritorno, come ritrovamento di sé da parte dell’individuo dopo la sua odissea in cui è divenuto più intensamente se stesso, maturato ed arricchito, attraverso la molteplicità delle esperienze che ha vissuto e di tutto ciò che ha incontrato e reso consustanziale. Itaca non è che un miraggio, una sorta di Fata Morgana, una illusione dell’immaginazione, è un sentimento luminoso, è un luogo dell’anima, è una mera idealità in quanto si definisce nella forma di puro oggetto intenzionale dela coscienz, è una consapevolezza della propria unità e identità di soggetto cosciente.

L’oltre Itaca che cosa significa? Indubbiamente vi è un’allusione al riaffacciarsi dell’avventura, all’odissea che inizia di nuovo senza una rotta definita, senza una direzione precisa. L’aldilà di Itaca sembra essere una cifra da decrittare nelle sue implicazioni problematiche. Dobbiamo intendere l’oltre Itaca come un’ulteriore ricerca, o – fuori allegoria – come un impegno etico da perseguire, o come una tensione unitaria che dia ala e senso alla vita, o come conquista della totalità intesa come ricerca di assoluto?

Il punto nodale della questione – come sostiene Magris – è se fondersi oppure no su qualcosa di assoluto, anche là dove l’assoluto è sentito come opera dell’uomo. Tutto questo è strettamente connesso al modo con cui si concepisce l’individuo: se cioè egli debba essere un’unità anche in mezzo a infinite spinte centrifughe, oppure se l’io debba sentirsi potenziato dal rifiuto dell’unità, e quindi del fondamento che costituisce quell’unità.

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LA VIRTÙ DEL SILENZIO, IL PREGIO DELLA PAROLA, LA SPERANZA DELLA LOGGIA

LA VIRTÙ DEL SILENZIO, IL PREGIO DELLA PAROLA, LA SPERANZA DELLA LOGGIA

di g.l., presentato in loggia


cari fratelli, ho dopo aver sentito la tavola del primo sorvegliante durante la scorsa tornata ho avvertito il bisogno di riflettere. le parole che egli ha rivolto al nostro nuovo fratello, appena iniziato, sul significato del silenzio, meritano un approfondimento. innanzitutto, perché si tace? ognuno di noi pratica l’astinenza dalla parola per motivi diversi e in modi diversi.

c’è chi tace per pudore, per l’umano sentimento di non saper esprimere adeguatamente quanto gli preme, perché teme il giudizio altrui. ma se tra fratelli non partiamo dal presupposto che le nostre parole, quando dette con animo sincero, saranno ascoltate e accettate, dove e quando potremo parlare?

c’è chi tace perché ritiene confusamente di non aver nulla da dire. chi lo pensa, commette sicuramente un errore, se è vero che in ognuno di noi si custodisce un tesoro di emozioni, desideri e timori, che deve essere portato alla luce e offerto agli altri. lo sforzo di comprendere se stessi e il nostro stare al mondo è il primo dovere di ogni essere umano, prima ancora che di ogni libero muratore.

se chi tace per pudore non ha fiducia nei fratelli, chi tace perché pensa di non aver nulla da dire non ha fiducia in se stesso e nel proprio valore. non pensiamo con ciò che la parola sia un pregio in sé. conosciamo fratelli che non parlano mai, eppure ci insegnano moltissimo col solo loro contegno, col calore della loro attenta vicinanza. dentro di loro c’è sicuramente il senso alto e prezioso del silenzio, che non è privazione ma custodia gelosa: come colui che ama bada con cura di non parlare dell’amato con persone e in luoghi volgari, per non deturparlo, così quel fratello tiene rinchiuse nello scrigno del silenzio le cose dello spirito. il senso del segreto risiede anche in ciò, forse: non in un obbligo esterno, ma in un’esigenza interiore che distingue tra sacro e profano, che sa cogliere nel fratello – quando lo è – il compagno capace di aprire l’anima e di accogliere quanto gli viene affidato, dato con fede, e di serbarlo come suo.

se poniamo mente solo a questa prima grossolana distinzione tra il parlare e il tacere, fermandoci quasi ai limiti della psicologia, e al tempo stesso corriamo con la mente ai traguardi ultimi che ci indica la libera muratoria, ci può cogliere un senso di sgomento e di pessimismo. e tuttavia siamo qui, a provare ancora, di nuovo, perché ognuno di noi, chi è stato iniziato nel cuore, ha capito che questa via, questa loggia, valgono la nostra fatica e la nostra speranza.

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LA SCALA SANTA

LA SCALA SANTA

LA SCALA SANTA

di A.R., Maestro Venerabile

«A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quel che fuggo, ma non quello che cerco», scriveva Montaigne, e queste lucide parole valgono a maggior ragione per gli itinerari turistici che ormai tappezzano il nostro globo e ci fanno sentire sconsolatamente a casa anche nella più sperduta isola del Pacifico – come ci fa notare Elena Loewenthal – o fra affollate dune di deserto, o nel cuore di metropoli diverse che si assomigliano tutte malgrado le distanze. Anche le storie viaggiano e gli oggetti che a volte le raccontano. Soprattutto nel deserto, dove l’aria e il tempo spaziano fra un mulinello di vento e un miraggio di memorie, accendendo le fantasie.

«Il complesso edilizio della Scala Santa a Roma comprende la Scala stessa, altre 4 scale a questa parallele (2 alla sua sinistra e 2 alla sua destra) ed inoltre, alla sommità delle scale anzidette, la Cappella di S. Lorenzo o del Sancta Sanctorum, una volta Cappella privata dei Papi e sul cui architrave, sormontante l’altare, è scritto: “Non vi è luogo più santo di questo, su tutta la terra”; qui, poi, vi è l’immagine acheròpita del Redentore (acheròpita: ossia dipinta non da mano umana, ma da mano d’Angeli), immagine veneratissima dal clero e dal popolo romano, legati ad essa come ad un’ancora di salvezza, nelle calamità pubbliche e negli eventi storici dell’Urbe.

Inizialmente la Scala Santa non era ubicata dov’è ora, ma alcune centinaia di metri più in là, nei palazzi lateranensi, ed era salita dai pellegrini recantisi alla benedizione del Santo Padre; qui poi, verso il 1450, cominciò a prendere consistenza una leggenda che la diceva giunta a Roma nel 326, ad opera di S. Elena Madre di Costantino, che l’avrebbe prelevata in Terra Santa, dalla fortezza Antonia sede di Pilato in Gerusalemme. Tale Scala, dunque, sarebbe stata proprio quella salita e discesa più volte da Gesù nella mattina del Venerdì Santo, allorché stava per compiersi l’atto finale della Sua vita – della Sua ascesi – umana; allorché, cioè, stava per compiersi la grande trasmutazione della fase al Rosso, come già infatti testimoniavano il rosso della veste impostagli, per irrisione, da Erode, ed il rosso del sangue sgorgante dalle ferite provocate dalla corona di spine e dai flagelli.

E fu proprio il diffondersi di questa leggenda che spinse poi, circa un secolo e mezzo dopo, Papa Sisto V a ricercare per la Scala una più confacente sistemazione; sì che per suo ordine, in una notte del 1589, al lume di torce e fra canti di salmi e di preghiere, l’architetto ticinese Domenico Fontana (quello noto per avere innalzato l’obelisco di Piazza S. Pietro) la trasportò nella sua attuale sede.

L’orientamento è esattamente Ovest-Est, sì che chi sale la Scala lascia alle proprie spalle le ombre del tramonto e muove verso la Luce d’Oriente, là dove sorge il Sole. Chi sale la Scala, poi, giunge al fine ad una grata oltre la quale gli è dato di vedere il Sancta Sanctorum (“il più venerato Santuario di Roma”, secondo la definizione di Gregorovius) e la venerabile immagine del Salvatore dipinta dagli Angeli, di cui si è detto.

Infine, vi è il numero dei gradini: 28; e tal numero non può essere a caso poiché trova immediato riscontro nei 28 tabernacoli ogivali del Sancta Sanctorum. Sia ben chiaro, inoltre, che 28 non è un numero qualsiasi, ma sacro, specie alla dottrina pitagorica; ed a conferma di questo, si ricorda la seguente risposta che sarebbe stata data da Pitagora a Policrate che gli chiedeva quanti atleti stesse conducendo verso la saggezza: “Te lo dirò, o Policrate: la metà studia la mirabile scienza delle matematiche; l’eterna Natura è oggetto degli studi di un quarto; la settima parte si esercita alla meditazione ed al silenzio; ed in più vi sono tre donne; risolviamo questa semplice equazione di primo grado e troveremo appunto 28, il numero che Pitagora considerava sommamente perfetto. Un’altra conferma di questo ci giunge dalla vicina Basilica Pitagorica di Porta Maggiore, dove vi sono 28 stucchi funerari nella cella, e dove una volta officiavano i 28 componenti della confraternita sacerdotale.»

Infatti, di 27 lettere era l’alfabeto sacro ebraico, e la ventottesima lettera, a tutti ignota, era ritenuta essere la lettera di Dio. Similmente avveniva con l’alfabeto greco, ove alle sue note 24 lettere si aggiungessero le 3 arcaiche: stigma, coppa e sampi. Di 28 giorni è poi il mese lunare, quel mese che governa le maree ed i raccolti, e la crescita di ogni cosa qui, sulla Terra. Ma v’ha di più: che 7, come noto – noto agli Antichi che stabilirono in 7 i giorni della Creazione; manoto anche ai moderni che ordinarono su settemplice base la materia mediante l’attribuzione, ad ogni atomo, di un massimo di 7 livelli (strati, o gusci) elettronici e diedero quindi un’articolazione settenaria alla tavola degli elementi di Mendelejeff – 7 dunque, come noto, ha questa caratteristica: che se lo sommiamo con i numeri interi e positivi che lo precedono, e che sono quindi in lui contenuti (se lo sommiamo cioè con 1, 2, 3, 4, 5 e 6), 7 allora fornisce, come risultato, 28; e far ciò, in matematica sacra, si dice “fare l’addizione teosofica di 7”; ossia prima scandire il numero nelle sue componenti – 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7, come si è visto – e poi riunire queste fra loro con un procedimento di sintesi.» (Tratto da J. Cohen, Echi alchemici nella Romanità antica, Milano, Kemi, 1980).

Il pellegrino e il pellegrinaggio erano figure sentite con grande intensità nel Medioevo: il distacco, l’alienzaione, la separazione dalla sicurezza del proprio ambiente per avventurarsi sulle infide strade dell’epoca richiedevano una devozione pressoché eroica, foriera di rinnovamento spirituale. Fu facile, quindi, che il pellegrino assurgesse a simbolo: egli è lontano da casa, su suolo straniero, ma la sua volontà tende ad una mèta non mondana; esperimenta fatiche e durezze del viaggio, ma anche la consapevolezza della Via: esprime il significato stesso della situazione terrena. Sul pavimento delle chiese si tracciavano labirinti regolari recanti al centro la Terra Santa: il fedele li percorre in ginocchio, sorta di pellegrinaggio sul luogo, sostituto simbolico del pellegrinaggio reale. Del resto il cattolicesimo è ricco di pratiche penitenzial-ascetiche passibili d’interpretazione simbolica: si pensi al rosario, alla preghiera domenicale o alla Scala Santa, da salire in ginocchio pregando, quasi un parallelo ascensionale dei citati labirinti.

La scala quindi è un simbolo importante, ed è una nota raffigurazione assiale ove in particolare si evidenzia la comunicazione intermondana; mette cioè in comunicazione cielo e terra. Il significato connesso alla scala permise di equipararla alla Croce di Cristo. Scrisse difatti Jacques de Saroug: [il Cristo] stette sulla terra come una scala ricca di pioli e si drizzò affinché tutti gli esseri terrestri si elevassero grazie a Lui. Essa (la Croce) è un cammino largo, come una scala fra gli esseri terrestri e quelli celesti. È così facile da seguire che persino i morti camminano sopra di essa: ha vuotato gli Inferni, ed ecco i mortali che salgono su di lei (cit. da Esdman, in Eranos Jahrbuch, 1950).

Lontanamente ricorderei anche la scala a 7 pioli dei Kadosh massonici, che percorsa in senso ascendente dall’iniziato e in senso discendente dall’avatar divino: tale la scala dai 7 colori (l’arcobaleno, altro simbolo di collegamento) che il Buddha percorre per giungere in terra. Ricorderei anche che la settima lettera dell’alfabeto greco (H: eta) è l’iniziale di Hèlios (sole) e costituisce pure il simbolo ermetico dello spirito: in essa riposa l’archetipo segnico della scala, al punto che i Framassoni medievali modellarono su questa lettera la facciata delle cattedrali gotiche, meravoglioso esempio, queste ultime, della pietra che tutti vedono ma pochi intendono.

Enorme è quindi l’importanza del 7, il numero che chiude il ciclo della creazione, e la faticosa salita sulla Scala Santa. Ed anche l’Alchimia ha la sua scala: così almeno è raffigurata in un bassorilievo di Nôtre-Dame de Paris: una maestosa Donna con i piedi sulla Terra e la testa fra i Cieli – cioè nei supremi regni – ed i cui attributi sono lo scettro – simbolo del potere che Essa conferisce ai suoi fedeli – i due libri – quello dell’esoterismo, chiuso, e quello dell’essoterismo, aperto – ed infine una scala a 9 gradini, che occorre per superare le fatiche delle 9operazioni ermetiche.

E chi voglia sapere di più su questa scala non ha che da leggere le opere di Nicolas Valois, dove è scritto: «La pazienza è la scala dei Filosofi, e l’umiltà è la porta del loro giardino, poiché a chiunque persevererà senza orgoglio e senza invidia, Dio farà misericordia».

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SILENZIO MASSONICO

SILENZIO MASSONICO

di G.L.


Verso la fine della lettera con cui il nostro M.V. ci salutava e ci offriva spunti di riflessione prima della sosta estiva si leggono alcune righe che ci esortano a non temere, anzi ad esercitare con coraggio e perseveranza la virtù del silenzio. Bisognerà che accogliamo questo invito, giacché il silenzio è una condizione preliminare e, al contempo, un raggiungimento altissimo.

Come condizione preliminare, il silenzio è la disciplina austera cui aderisce il M. nell’ atteggiare il suo contegno nel Tempio, allo stesso modo in cui egli coltiva la sobrietà dei gesti e misura con cautela le sue parole. Sappiamo che per l’Apprendista il silenzio è un privilegio, ma non bisogna dimenticare che, nutrito della consapevolezza che nasce dalla libertà, tale rimane anche per tutti gli altri gradi. Infatti, soltanto l’interiore silenzio dei moti dell’animo in ciascuno permette l’ascolto autentico, l’apertura sincera e benevola alle parole del fratello. Il silenzio è un’accoglienza, un porsi in attesa che sgombra lo spazio sacro del tempio dalla chiacchiera mondana e dalla convulsione del tempo profano. Lungi dal dover essere una noiosa imposizione, il teso silenzio delle bocche e delle anime contraddice la vanità del tempo cronometrico, allo stesso modo in cui l’azione geometrica dei fratelli nello spazio simbolico ritaglia un microcosmo ordinato dal caos dello spazio profano. Eppure, tutto ciò è ancora soltanto una necessaria condizione, quasi una minima norma igienica, a fronte dello sforzo che richiede l’esigente concetto del silenzio, a chi tenti di intuirne la ricchezza. Proporre quindi qualche spunto, offrendolo alla considerazione dei Fratelli.

Il Libro della Legge Sacra è aperto al Vangelo di San Giovanni, che inizia con le note parole: “In principio era il Verbo”. Tuttavia, nella Chiesa d’Oriente si venera l’icona di San Giovanni del Silenzio, in cui l’apostolo tiene il Vangelo aperto alla prima pagina, e intanto preme le dita sulle labbra, a significare non il Verbo ma il Silenzio. Ha occhi convergenti: il suo sguardo è rivolto all’interno, e una creatura alata, la divina Sofia, gli sta sussurrando qualcosa all’orecchio. I commentatori spiegano che l’icona allude alle ultime parole del Vangelo: “Ci sono molte altre cose che ha fatte Gesù, le quali, se fossero scritte ad una ad una, non so se il mondo stesso potrebbe contenere i libri che si dovrebbero scrivere”. Ma io penso che si potrebbe utilmente leggere anche un passo dalla Quinta Enneade di Plotino, che così recita: “In qual modo la vita si diffonde ad un tratto nell’universo e in ogni individuo? Per comprendere questa cosa è necessario che la nostra anima contempli l’anima universale. Ora, per innalzarsi a questa contemplazione, l’anima deve esserne divenuta degna mediante la sua nobiltà, deve essersi liberata dall’errore e dalle cose che affascinano gli spiriti volgari, essersi immersa in un profondo raccoglimento, deve aver fatto tacere non solo il tumulto dei sensi ma anche tutto ciò che la circonda. Tacciano adunque tutte le cose, la terra, il mare, l’aria e il cielo stesso”. Questo dunque ci insegna l’icona di San Giovanni: non c’è parola, non discorso né comunicazione, se esso non conserva memoria e rispetto di quel punto originario da dove ne è scaturita, dal Silenzio, per l’appunto, come la Luce è scaturita dalle Tenebre. Ed ogni parola dovrebbe essere pronunciata con umiltà, giacché, se essa può risarcire le molte solitudini, pure ci si deve ricordare che ogni rottura del silenzio riproduce l’apparire del molteplice dall’unità indivisa. La parola ci ammonisce sul nostro comune destino mortale, per il quale nessun onore è cura; il Silenzio apre la possibilità della liberazione.

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VITALITY: L’UOMO, LA DONNA, L’UNO

VITALITY: L’UOMO, LA DONNA, L’UNO

di I.P.; questa tavola è stata tracciata dal Fratello espressamente per il nostro sito.


Sulla nostra pelle il tempo scava e vi lascia le rughe, segni, graffiti nella cute, dei nostri stati d’animo. Cicatrici, marchi dei nostri conflitti con gli influssi psichici e fisici della vita, insomma segni della reazione del nostro organismo nei confronti dei veleni sia fisici sia mentali coi quali veniamo in contatto.

Importante è però che, sotto la corazza protettiva della pelle, noi rimaniamo così come siamo sempre stati: i bambini incuriositi, timidi e giocherelloni di una volta.

La maschera che la vita ci impone deve essere soltanto una protezione, un’armatura, uno schermo che ci dà la possibilità di sopravvivere. Non dobbiamo però dimenticare di togliercela a volte e di mostrarci così come siamo, magari soltanto a quelle persone che ci sono più care e delle quali ci fidiamo. Soltanto in questa maniera riusciremo a risplendere nella nostra luce migliore, a mostrare la nostra anima. Soltanto così avremo la possibilità di sperimentare e dimostrare che in realtà non invecchiamo mai e lo scorrere del tempo su di noi non lascia alcuna traccia. Facciamo vedere allora allegoricamente nudi, apparendo sempre bellissimi e senza età, soltanto a chi ci apprezza, ci conosce a fondo, ci ama profondamente, incondizionatamente e persegue i nostri stessi ideali. Quella persona ci vedrà sempre uguali, sempre giovani. Non esisterà più depressione, tristezza né sconforto in quei momenti di intensa magica comunicazione o comunione, dove le parole non serviranno.

In quei momenti, potremmo definirli anche sacri, di estrema intimità, il corpo stesso, e sue cellule, i suoi liquidi interstiziali, le sue cellule germinative e riproduttive comunicheranno da sole tra di loro. L’unione consensuale di due corpi in modo simile consacrati, considerati due meri veicoli dello spirito e dell’anima, diventerà in quel momento qualcosa di inevitabile. Avrà inizio l’evento più sublime e maestoso che può avvenire nell’universo, un atto di creazione vera e propria, un atto paragonabile soltanto alle estasi dei grandi mistici. Allora l’unione della carne dello spirito risulterà perfetta e darà loro il modo di diventare finalmente una sola, unica cosa.

In questo frangente sarà data a DUE individui l’opportunità di penetrare ed essere penetrati nello stesso momento, di fondere le loro vite, di scorrere come un fiume impetuoso l’uno nell’altra. Diventare un corpo dentro l’altro, un’anima nell’altra, sangue nel sangue. Una goccia di quel miracoloso benessere e di gioia senza inizio né fine, che ci aiuta a superare tutti gli ostacoli che la vita ci pone davanti, e che soltanto il miraggio di un altro incontro simile, di un simile premio alla nostra sopravvivenza, ci darà la forza di continuare la nostra lotta e il nostro viaggio. Ci renderà appagati e in quel prezioso istante tanto agognato ci farà confluire nell’UNO, ci darà modo di realizzare un UNO, un essere doppio, ermafrodito e perciò completo, ineffabile. La possibilità di avere a disposizione un simile magico rifugio come risulta essere la donna, l’antico alchemico “atanor” o il “calderone” di celtica memoria, se vogliamo dove può compiersi questo miracolo, questa amalgamazione o unione delle essenze primordiali di due individui diversi ma complementari, delle potenti energie derivanti direttamente dal cosmo, dall’UNO CREATORE, che ognuno porta custodite in sé e di cui non conosce l’enorme potenzialità. Tutto ciò, in un atto permesso soltanto a Dio, ci permette i ritornare a lui, di poterci identificare con lui in quel momento sacro.

La donna diventa allora un mezzo, o un officiante, messo a disposizione dal Dio Creatore per creare, una porta dell’universo per costruire l’Universo, una Porta nel vero senso della parola, fisico e tangibile insomma, attraverso la quale ci è consentito di viaggiare nel tempo, dove il TEMPO non ha più NESSUNA dimensione o le possiede tutte.

Dove le anime si incontrano, dove dal Chaos ne escono sempre di nuove, dove due anime complementari si fondono e dalla loro fusione ne nasce un’altra e un’altra ancora e si può in questo modo perpetuare l’abbrivio della Creazione infinita. Bisognerebbe ricordarsi di questo miracolo e rendersi conto di quello che l’uomo è in realtà. Quello che l’uomo può dare alla donna, e quello che la donna può dare all’uomo. Se vogliamo, al loro occulto significato d’insieme. Al loro duro viaggio attraverso questo mondo, questa dimensione densa, pesante, sperimentando il fatto di divenire materiali, e ritornare infine, se si è fortunati, alla forma più perfetta e atemporale, qual è lo spirito.

Diventa allora comprensibile il perché di quel momento sì inesplicabile, misterioso e vertiginoso, qual è l’orgasmo, di cui si preferisce non parlare. L’attimo nel quale non ci si rende più conto di essere fatti di materia pesante e degradabile, ma si ritorna, per un istante infinitesimale, nello stato di energia pura, di estrema potenza creativa, un tutt’uno.

Questi due esseri complementari si ritrovano, e ciò è estremamente difficile e raro, e le loro tessere si incastrano perfettamente in tutte le loro dimensioni, diventano un tutt’uno, l’essere perfetto, dagli antichi chiamato Androgino, l’alchemico Rebis. È questo soltanto un assaggio, un sintomo di quello che proveremo in un futuro alquanto prossimo e condiviso da tutti quanti, saggi e stupidi, ricchi e poveri, religiosi e atei, detentori delle verità assolute e dai loro timidi cercatori. È un assaggio del modo in cui vivremo in eterno, alleggeriti del nostro involucro materiale e marcescibile, variamente colorato, finalmente riuniti all’Uno eterno.

È questo il ricordo di come abbiamo in tempi remoti già vissuto in un mondo perfetto, il mitico Eden, prima che ci avessero costretti ad uccidere, prima che ci avessero instillato la paura della morte.

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PULCINELLA: SUE TRACCE ATTRAVERSO I MILLENNI

PULCINELLA: SUE TRACCE ATTRAVERSO I MILLENNI

di I.P., Secondo Diacono

Cercherò, in questa indagine quasi poliziesca, con la ricerca di prove ed indizi, a togliere la maschera ad un mito, ad una maschera, anzi, “la maschera” più antica, se non la più nota, che ebbe origine in un lontano passato, calcò la scena del palcoscenico italico fino alla seconda guerra mondiale e fu infine ridotta in burattino, per divertire i bambini nelle “edicole” dei burattinai delle località estive, per di più meridionali.

Pulcinella è una maschera con caratteristiche peculiari, una maschera, che se guardata con occhi, adusi a scoprire celati messaggi, ci racconta la sua millennaria storia misteriosa, e possiamo leggerla come un codice antico, tramandatoci da saggi, ormai ridotti in polvere.

La maschera campana, napoletana o come alcuni puntigliosamente precisano, originaria di Acerra (col cognome Cetrulo), stimola la mia curiosità da tempo ormai. Il suo nome ha un’origine incerta. Potrebbe derivare da “pulcinello”- pulcino o dal nome di Puccio d’Aniello, popolano d’Acerra, che, come si racconta, s’unì ad una compagnia di saltimbanchi in vece di buffone.

Oppure dall’antico personaggio osco chiamato Maccus, che era capace di imitare i versi delle galline e degli uccelli e chiamato anche “Pullus gallinaceus” o dal tardo latino “pullicens”, nel senso di sempliciotto. In diversi scritti ho riscontrato la notizia, che la maschera sarebbe stata inventata da Silvio Fiorillo da Capua nel 1620.Indubbiamente però il personaggio ed il suo abbigliamento si sono trasformati e codificati lungo i secoli.

Altri interpreti della celebre maschera a teatro, nella commedia in musica, detta opera buffa (teatro di S. Carlino 1740 in piazza Castello a Napoli) furono i Cammarano, Gaspare De Cenzo, Andrea Calcese, Michelangelo Fracanzani (che lo porta in Francia nel 1685, facendogli assumere caratteristiche diverse da quelle originali), Pasquale Altavilla, Salvatore ed il figlio Antonio Petito, forse il più famoso, e poi Enrico Petito, Giuseppe De Martino, Salvatore De Muto. Nel 1628 Pulcinella compare per la prima volta in due opere teatrali “La trappolaria” di Della Porta e “La colombina” del Verrucci.

La maschera ottiene tanto successo, da essere adottata sia in Francia, dove diventa “Polichinelle” (poi Pierrot), che in Inghilterra dove prende il nome di “Punch”, in Germania dove viene chiamata Polizinelle e in Spagna Pulchinelo. Anche la scrittrice George Sand e suo figlio Maurice riscontrano in Pulcinella alcune somiglianze con certe maschere osche e propriamente con Macco, personaggio caratteristico, che impersonava un ghiottone sciocco in certe rappresentazioni farsesche latine, dette “Fabulae Atellanae”. A Roma venne rinvenuta nell’anno 1727 una statua di bronzo di Maccus con caratteristiche simili a Pulcinella. Altri ancora raccontano la sua invenzione da parte di un giureconsulto, un contadino ecc.

E’ curioso che i Celti veneravano il cinghiale MOCCUS, raffigurato spesso vicino ai druidi e ad una grande quercia, che rappresentava un archetipo solare, virile (frenesia sessuale e furor guerresco) e anticamente il simbolo dell’Inverno, mentre in epoca tarda e sotto l’influsso della religione portata dai Romani, viene ad identificarsi con Mercurio.

L’abbigliamento della maschera consisteva inizialmente in una MASCHERA NERA col NASO aguzzo lucido, lungo (il volto che si scorgeva sotto la maschera era coperto da baffi e barba incolta), un camiciotto largo BIANCO, stretto in vita da una corda, sotto il quale si intravvedeva una maglietta di color ROSSO, pantaloni larghi, bianchi e di un copricapo bianco FRIGIO. L’abbigliamento era simile a quello del contado partenopeo, mentre il cappello sembrerebbe più affine a quello portato dai pescatori e marinai partenopei.

La VOCE risultava chioccia e petulante. Alla cintura portava un BASTONE o una spatola.

Più tardi cambia il suo aspetto, la faccia si ripulisce, il volto è sbarbato, acquista una doppia gobba, però il naso diventa adunco, a becco, bitorzoluto, il mento prominente e rivolto all’insù. Infine nel seicento il suo cappello diventa a pan di zucchero.

Alla fine del 17. secolo non ha più la gobba ed il cappello diventa grigio, ad ali rialzate ed al collo porta un fazzoletto verde. Alla fine del seicento il capello diventa di feltro grigio, nell’ottocento al posto del camiciotto indossa una fusciacca bianca. Lo caratterizza un’indole arguta, spesso volgare, una goffaggine e ignoranza indolenti e buffoneschi, la parlantina sciolta, la voracità, la sfrontatezza ed una disincantata saggezza, però non acquista mai un carattere ben definito. Un napoletano sicuramente affermerà, che Pulcinella rappresenta in maniera comica lo spirito stesso della plebe partenopea. Spesso finisce per farsi bastonare, bastona e spesso muore e risorge. Venne dipinto da vari pittori in varie epoche e paesi e persino il pittore veneto Giandomenico Tiepolo si cimentò col ritrarlo.Al museo Ca’ Rezzonico a Venezia è esposto tuttora un suo celebre affresco “Saltimbanchi e Pulcinella (1791-1793). Richiama alla mente vari archetipi, come possono esserlo Dioniso, il dio frigio Mitra, il Matto nei tarocchi.

Pulcinella rappresenterebbe dunque una commistione degli antichi culti agrari locali con culti giunti dall’Oriente, dalla Grecia e dall’Egitto (Osiride). Potrebbe essere interessante, studiare il significato d’insieme delle sue molte e variegate caratteristiche.

Approcciando per esempio una persona, la prima cosa, che attrae il nostro sguardo, è il suo volto. Nel caso di Pulcinella, il volto risulta coperto da una maschera e per di più nera, con il naso ricurvo. La maschera può indubbiamente ricollegarsi al culto di Dioniso, di cui le maschere erano il simbolo.

Anche la tragedia greca era connessa con il sunnominato culto e la stessa parola tragedia deriva dalla dizione greca “odè tou tragou” significando “il canto del capro”. Gli antichi adoratori del dio erano avvezzi a sacrificare in suo onore un capro, probabilmente nero e ne bevevano il sangue, per essere posseduti dallo spirito divino. Sappiamo che in seguito il sangue venne sostituito dal vino rosso.

E’ noto, che la persona che indossa la maschera, si trasforma interiormente e si identifica con un determinato essere soprannaturale, assumendo nel contempo tutte le qualità attribuite a quella divinità.

La curvatura del lungo naso ed il mento all’insù potrebbero richiamare la Luna (ma anche il culto fallico del dio Priapo, figlio di Dioniso e dio della Natura rigogliosa e fertile).Il cappello frigio richiama alla memoria il copricapo, che indossava il dio frigio Mitra-Sole, l’uccisore del Toro cosmico di cui, a Napoli si sono ritrovati diversi luoghi di culto.

Insomma, la maschera potrebbe risultare una sovrapposizione di antichi culti e significati, che nello scorrere dei millenni si sono amalgamati, intrecciati in modo inestricabile.  Al popolo partenopeo l’intrinseco significato della maschera tuttora solletica la memoria collettiva e nel loro animo antico genera una corrente positiva di attrazione verso l’antico inossidabile dio.

Interpretando in modo alchemico il colore nero (nigredo) viepiù possiamo arguire il cinquecentesco ermetico suggerimento dell’inizio dell’Opera. Esaminando la figura ci balza agli occhi il colore bianco (albedo), lunare (spesso Pulcinella viene rappresentato seduto su di una falce lunare) del suo abbigliamento, che ci indica il proseguire dell’Opera al bianco. Nella concezione esoterica-iniziatica la morte (nero) precede la nascita (bianco-rinascita).

Bianco, che rappresenta la Luna, l’iniziato, il sacerdote. Bianco, che si collega alla figura del “Matto” dei Tarocchi, l’unico Arcano Maggiore a non avere il numero, e che immancabilmente si identifica con Dioniso.

Il bianco ci ricorda ancora l’agnello, antica e comune vittima propiziatoria, simbolo della primavera, del transitorio prevalere della vita, del rinnovarsi delle stagioni e nel colore stesso ritroviamo il simbolo della purezza, dell’aria e vedi caso del mercurio, menzionato precedentemente come una curiosità. Infine sotto al camiciotto s’intravede il rosso, simbolo del principio vitale, l’Eros trionfante e libero dei riti dionisiaci, il colore che in Oriente veniva abbinato alle festività primaverili (o volendo l’amaranto della maglietta, che spesso sfugge-è celato) ed esprime il fine nell’Opera al rosso (rubeo). A mio parere tutti questi significati e simboli si nascondono amalgamati nel magico personaggio, che si può leggere come un libro. Anche il bastone, che porta alla cintola e di cui spesso si serve, potremmo interpretarlo come il tirso dell’antico Dioniso, come il bastone delle maschere dell’agro, che donava la fertilità ed infine come una versione della bacchetta magica degli antichi magi.

La sua voce chioccia mi riporta in mente gli scongiuri, le filastrocche e cantilene, che utilizzavano gli alchimisti per scandire il tempo delle loro operazioni ed in particolare il tono nasale di voce che assumevano, per raggiungere delle particolari tonalità o vibrazioni, necessarie “all’apertura” della loro materia.

Questo tipo di voce si può ancora sentire a Napoli, nel Duomo, durante l’attesa dello scioglimento del sangue del patrono della città, s. Gennaro. Le cosiddette “parenti”, eredi di arcaiche sacerdotesse di culti dimenticati, stanno ore ed ore a cantilenare antichi ritmi temporali segreti, sino a che il fenomeno non si verifichi.

Anche l’antica maschera “Carnevale a cavallo ‘a Vecchia” ci porta a ritroso nel tempo. Raffigura Pulcinella a cavallo d’una vecchia, simboleggiando Pulcinella il Carnevale (Dioniso-Sole) a cavallo della magra Quaresima (anno passato, rinsecchito-Luna). Nelle grotte e nei misteriosi ipogei (come quel mitreo ritrovato nel 1994, nel rione Forcella) su cui poggiano le fondamenta della grande, misteriosa città, essa stessa più volte rinata su precedenti insediamenti sanniti, oschi, greci, alessandrini, romani e moderni, si sono perpetrati riti antichi, che tuttora albergano seppur inconsapevolmente nel cuore del popolo napoletano e hanno dato alla luce un mito, un nuovo dio, che tutto comprende e che rinasce di anno in anno, proteggendo il popolo negletto, ridandogli speranza.

La maschera rappresenta in questo modo l’antico androgino, l’alchemico Rebis (fase intermedia dell’Opera) o l’ermafrodito dei riti dionisiaci.

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RISFESSIONI DEL 2* DIACONO SUL GENOMA E L’INGEGNERIA GENETICA

Science concept with DNA molecule and gear mechanism

Riflessioni del 2º Diacono sul genoma e l’ingegneria genetica

di I.P.                 


In questi ultimi 50 anni la medicina ha fatto piu’ progressi che nei 50 secoli precedenti.

E questo con due successive rivoluzioni. La prima comprende nel 1936 i sulfamidici e continua con gli antibiotici, la seconda concerne la scoperta del codice genetico completo (sembra).

Queste due novità hanno trasformato il destino degli uomini. Da Ippocrate la morale medica si è limitata a semplici regole, anche se incostantemente rispettate: generosità, compassione, abnegazione, disinteresse.

Mentre la morale in questi ultimi anni, dopo la 2ª guerra mondiale, comincia a perdere il suo significato e lo stesso uso di questa parola diventa desueto: rinasce l’ETICA.

L’Etica, questa parola antica trasmessaci dalla cultura greca, dove comincia ad esistere con Aristotele, differisce dalla morale tradizionale. L’ ETICA suppone che ci si interroghi sui principi e che se ne discuta, ed ha in sé l’espressione della misura.

Ora sarà meglio parlare di etica della biologia e della medicina, che era fondata inizialmente su un doppio rigore: quello della scienza e quello della morale.

Probabilmente le due missioni più nobili dell’uomo sono di accrescere e di trasmettere la conoscenza.

Col progresso si fa avanti una terza missione: il buon uso dei progressi della scienza, nel senso di favorirne gli effetti positivi e di scongiurarne gli effetti negativi.

La rivoluzione biologica sta per dare all’uomo tre controlli: sulla riproduzione, sull’eredità, sul sistema nervoso.

Volevo dilungarmi e condurre il discorso in un altro modo, ma proprio negli ultimi giorni sono venuto a conoscenza, tramite i media, che negli ultimi anni sarebbero nati almeno 30 bambini con il codice genetico di TRE (sic!) persone, per assistere i genitori, altrimenti sterili. La medicina ha a che fare con dei problemi che riguardano tutta l’umanità da millenni. Pensiamo all’aborto, agli studi anatomici (una volta puniti con la morte), alla donazione degli organi, alla determinazione della morte (in Giappone, per antica consuetudine non si può per una settimana aprire un corpo), alla clonazione, allo studio del genoma, ai test genetici, ai cibi transgenici, ecc.

Le scoperte del monaco moravo Gregor Mendel sono state un determinante aiuto alla medicina e la genetica è ora al primo posto delle discipline biologiche. Questa scienza ci può aiutare nella previsione delle malattie (diagnosi), nella ricerca dell’identità e può essere utile nell’ingegneria genetica.

La diagnosi prenatale si fonda sul prelievo del tessuto del feto e dei diversi costituenti ovulari, del liquido amniotico, del sangue e della pelle del feto. Questa metodica può però avere anche gravi ripercussioni etiche. In siffatto modo si decide il destino del bambino. In mano ad un dittatore può dare atto a temibili misure di EUGENETICA. Si profila la possibilità di poter scegliere il sesso, il colore degli occhi, l’altezza, la corporatura, il quoziente intellettivo, tendendo ad una perfezione che porta in sé il germe della malattia (supportata da un’élite circoscritta con fondi illimitati). Ora sappiamo, dopo la scoperta del sistema dei gruppi sanguigni tissulari HLA, che ci sono alcuni stati morbosi associati a determinati gruppi HLA, come il diabete giovanile, il reumatismo, ecc. Spesso, certe società straniere chiedono ai loro impiegati di conoscere il loro HLA, il che non è eticamente accettabile.

Anche gli ACIDI NUCLEICI sono strettamente personali e si trovano in ogni cellula di un organismo. Con i nuovi metodi di indagine (brevettati da società commerciali) si possono cosÏ determinare le impronte genetiche di ogni singolo individuo (criminali, paternità). Nel 1971, lo scienziato americano Paul Berg dimostrò che è possibile modificare il patrimonio genetico del colibacillo e farlo diventare un operaio utile all’industria farmaceutica, fabbricando insulina. Nacque l’INGEGNERIA GENETICA.

Si prospettavano grandi, stupefacenti possibilità di modificare il patrimonio genetico. Vari specialisti dell’ingegneria genetica, consci del potenziale esplosivo delle nuove scoperte, si riunirono nel 1974 ad Asilomar negli Stati Uniti e decisero di ricorrere ad una moratoria. Per 2 anni tutti i laboratori impegnati in studi genetici si fermarono. Dopo due anni gli studi proseguirono in condizioni di rigorosa protezione. Nell’ingegneria genetica dobbiamo distinguere due distinti ordini di ricerca. Quelli che si prefiggono di modificare un organo, trasferendo un gene nelle cellule dello stesso e le ricerche che tendono a trasformare l’intero individuo, per esempio, trasferendo un genoma di un uomo in un ovulo fecondato.

Nel primo caso si utilizzano le cellule di un organo, chiamate SOMATICHE. In questo caso un solo organo è interessato. Queste sono ricerche utili per correggere il malfunzionamento di esso (malattie dell’emoglobina, emofilia, miopatie), e questi procedimenti non generano problemi per l’etica. Il secondo caso invece può generare molti pericoli, soprattutto in mano a individui pericolosi e senza scrupoli.

L’ingegneria genetica che agisce sul GENOMA e sull’intero individuo dovrebbe essere bandita. Soltanto progressi futuri, che permetterebbero di modificare una piccolissima parte delle cellule germinali, responsabili di una grave malattia ereditaria, rispettando l’insieme della persona, potrebbero essere permessi.

Il mercato tende ad una commercializzazione dei progressi dell’ingegneria genetica e si sta già da tempo tramando per brevettare il genoma (USA). Questo dev’essere proibito. Si profila insomma un’alleanza tra la genetica, l’eugenismo ed il denaro.

Importante è anche distinguere bene tra INVENZIONE e SCOPERTA. Il genoma, scoperto dall’ingegneria genetica, tramite l’aiuto determinante dalla tecnica (invenzione), che può essere brevettata, non deve essere brevettato.

La bioetica si sforza di promuovere i benefici e di limitare i pericoli. Bisogna insomma rispettare l’individuo, la conoscenza, rifiutare il lucro e stimolare la responsabilità dei ricercatori. Tutte norme in cui ci riconosciamo.

L’etica non riguarda soltanto i medici o i biologi ma tutti i cittadini consapevoli.

Comunque è sempre difficile prevedere il futuro, e la stessa bioetica evolve con i costanti progressi della scienza, così come anche i metodi informativi si evolvono continuamente. Speriamo con ottimismo, che anche la formazione dei cittadini si modificherà sempre più nel senso della saggezza, della verità, dell’armonia e dell’osservanza di quelle leggi antiche, che la natura stessa ci insegna e ci impone. Il mancato rispetto di queste leggi produce avvertimenti dai nomi terribili: aids, BSE, allergie, avvelenamenti, diminuzione della fecondità, inquinamento, cambiamenti climatici…

Riflessioni del 2º Diacono sul genoma e l’ingegneria genetica

di I.P.                 


In questi ultimi 50 anni la medicina ha fatto piu’ progressi che nei 50 secoli precedenti.

E questo con due successive rivoluzioni. La prima comprende nel 1936 i sulfamidici e continua con gli antibiotici, la seconda concerne la scoperta del codice genetico completo (sembra).

Queste due novità hanno trasformato il destino degli uomini. Da Ippocrate la morale medica si è limitata a semplici regole, anche se incostantemente rispettate: generosità, compassione, abnegazione, disinteresse.

Mentre la morale in questi ultimi anni, dopo la 2ª guerra mondiale, comincia a perdere il suo significato e lo stesso uso di questa parola diventa desueto: rinasce l’ETICA.

L’Etica, questa parola antica trasmessaci dalla cultura greca, dove comincia ad esistere con Aristotele, differisce dalla morale tradizionale. L’ ETICA suppone che ci si interroghi sui principi e che se ne discuta, ed ha in sé l’espressione della misura.

Ora sarà meglio parlare di etica della biologia e della medicina, che era fondata inizialmente su un doppio rigore: quello della scienza e quello della morale.

Probabilmente le due missioni più nobili dell’uomo sono di accrescere e di trasmettere la conoscenza.

Col progresso si fa avanti una terza missione: il buon uso dei progressi della scienza, nel senso di favorirne gli effetti positivi e di scongiurarne gli effetti negativi.

La rivoluzione biologica sta per dare all’uomo tre controlli: sulla riproduzione, sull’eredità, sul sistema nervoso.

Volevo dilungarmi e condurre il discorso in un altro modo, ma proprio negli ultimi giorni sono venuto a conoscenza, tramite i media, che negli ultimi anni sarebbero nati almeno 30 bambini con il codice genetico di TRE (sic!) persone, per assistere i genitori, altrimenti sterili. La medicina ha a che fare con dei problemi che riguardano tutta l’umanità da millenni. Pensiamo all’aborto, agli studi anatomici (una volta puniti con la morte), alla donazione degli organi, alla determinazione della morte (in Giappone, per antica consuetudine non si può per una settimana aprire un corpo), alla clonazione, allo studio del genoma, ai test genetici, ai cibi transgenici, ecc.

Le scoperte del monaco moravo Gregor Mendel sono state un determinante aiuto alla medicina e la genetica è ora al primo posto delle discipline biologiche. Questa scienza ci può aiutare nella previsione delle malattie (diagnosi), nella ricerca dell’identità e può essere utile nell’ingegneria genetica.

La diagnosi prenatale si fonda sul prelievo del tessuto del feto e dei diversi costituenti ovulari, del liquido amniotico, del sangue e della pelle del feto. Questa metodica può però avere anche gravi ripercussioni etiche. In siffatto modo si decide il destino del bambino. In mano ad un dittatore può dare atto a temibili misure di EUGENETICA. Si profila la possibilità di poter scegliere il sesso, il colore degli occhi, l’altezza, la corporatura, il quoziente intellettivo, tendendo ad una perfezione che porta in sé il germe della malattia (supportata da un’élite circoscritta con fondi illimitati). Ora sappiamo, dopo la scoperta del sistema dei gruppi sanguigni tissulari HLA, che ci sono alcuni stati morbosi associati a determinati gruppi HLA, come il diabete giovanile, il reumatismo, ecc. Spesso, certe società straniere chiedono ai loro impiegati di conoscere il loro HLA, il che non è eticamente accettabile.

Anche gli ACIDI NUCLEICI sono strettamente personali e si trovano in ogni cellula di un organismo. Con i nuovi metodi di indagine (brevettati da società commerciali) si possono cosÏ determinare le impronte genetiche di ogni singolo individuo (criminali, paternità). Nel 1971, lo scienziato americano Paul Berg dimostrò che è possibile modificare il patrimonio genetico del colibacillo e farlo diventare un operaio utile all’industria farmaceutica, fabbricando insulina. Nacque l’INGEGNERIA GENETICA.

Si prospettavano grandi, stupefacenti possibilità di modificare il patrimonio genetico. Vari specialisti dell’ingegneria genetica, consci del potenziale esplosivo delle nuove scoperte, si riunirono nel 1974 ad Asilomar negli Stati Uniti e decisero di ricorrere ad una moratoria. Per 2 anni tutti i laboratori impegnati in studi genetici si fermarono. Dopo due anni gli studi proseguirono in condizioni di rigorosa protezione. Nell’ingegneria genetica dobbiamo distinguere due distinti ordini di ricerca. Quelli che si prefiggono di modificare un organo, trasferendo un gene nelle cellule dello stesso e le ricerche che tendono a trasformare l’intero individuo, per esempio, trasferendo un genoma di un uomo in un ovulo fecondato.

Nel primo caso si utilizzano le cellule di un organo, chiamate SOMATICHE. In questo caso un solo organo è interessato. Queste sono ricerche utili per correggere il malfunzionamento di esso (malattie dell’emoglobina, emofilia, miopatie), e questi procedimenti non generano problemi per l’etica. Il secondo caso invece può generare molti pericoli, soprattutto in mano a individui pericolosi e senza scrupoli.

L’ingegneria genetica che agisce sul GENOMA e sull’intero individuo dovrebbe essere bandita. Soltanto progressi futuri, che permetterebbero di modificare una piccolissima parte delle cellule germinali, responsabili di una grave malattia ereditaria, rispettando l’insieme della persona, potrebbero essere permessi.

Il mercato tende ad una commercializzazione dei progressi dell’ingegneria genetica e si sta già da tempo tramando per brevettare il genoma (USA). Questo dev’essere proibito. Si profila insomma un’alleanza tra la genetica, l’eugenismo ed il denaro.

Importante è anche distinguere bene tra INVENZIONE e SCOPERTA. Il genoma, scoperto dall’ingegneria genetica, tramite l’aiuto determinante dalla tecnica (invenzione), che può essere brevettata, non deve essere brevettato.

La bioetica si sforza di promuovere i benefici e di limitare i pericoli. Bisogna insomma rispettare l’individuo, la conoscenza, rifiutare il lucro e stimolare la responsabilità dei ricercatori. Tutte norme in cui ci riconosciamo.

L’etica non riguarda soltanto i medici o i biologi ma tutti i cittadini consapevoli.

Comunque è sempre difficile prevedere il futuro, e la stessa bioetica evolve con i costanti progressi della scienza, così come anche i metodi informativi si evolvono continuamente. Speriamo con ottimismo, che anche la formazione dei cittadini si modificherà sempre più nel senso della saggezza, della verità, dell’armonia e dell’osservanza di quelle leggi antiche, che la natura stessa ci insegna e ci impone. Il mancato rispetto di queste leggi produce avvertimenti dai nomi terribili: aids, BSE, allergie, avvelenamenti, diminuzione della fecondità, inquinamento, cambiamenti climatici…

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TAVOLA PER L’INIZIAZIONE DI UN NUOVO FRATELLO

TAVOLA PER L’INIZIAZIONE DI UN NUOVO FRATELLO

di F.A., Primo Sorvegliante; lavoro presentato in Loggia , in occasione  della iniziazione del Fr. Paolo



Il termine iniziazione, dalla notte dei tempi, ha sempre avuto carattere sacro. Infatti ‘initia’ plurale del vocabolo latino initium (principio-inizio) definisce propriamente i principi e cioè i capisaldi della conoscenza. Quindi l’iniziato è colui che è reso partecipe dei principi, dei fondamenti dell’esistenza nella sua interezza cioè della vita universale.

Poiché tutto in natura si evolve per gradi così anche l’iniziazione prima di conferire al discepolo la facoltà ultima di penetrare i fondamenti della vita universale deve consentirgli un graduale progresso che, dalla condizione iniziale di Profano, lo elevi via via a quella di Maestro.

Con il conferimento della ‘prima’ iniziazione viene trasmesso all’aspirante una particolare influenza spirituale con il cui aiuto dovrà autonomamente far proprio l’insegnamento che gli viene offerto; insegnamento basato essenzialmente sul simbolismo.

Il neo-iniziato deve ‘etimologicamente in-ire’ penetrare l’essenza delle cose ma, per poterlo fare, deve prima liberarsi da tutte le scorie che gli impediscono una visione distante da ciò che lo circonda. Sulla coscienza di ognuno pesa il fardello della superstizione storica, razziale, nazionale, familiare, scolastica, scientifica, morale, religiosa, ecc.

Egli deve perciò liberarsi da questi ostacoli che lo condizionano e restituirsi alla purità dell’innocente. Raggiunto questo traguardo sarà come se iniziasse una nuova vita alla quale si affaccia ‘infante’ e cioè non parlante: ecco perché all’Apprendista è prescritto il silenzio, simbolo della conquistata purezza e insieme del segreto del mondo da cui proviene.

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