PERCHÉ ALLORA ESISTE IL MALE?

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PERCHÉ ALLORA ESISTE IL MALE?

Se Dio è amore, è giustizia, è bontà, perché esiste e come può esistere il male? Dio non può volere il male, essendo Egli bontà infinita, ci ha insegnato, fin da bambini, il catechismo cristiano. Allora chi è che ha voluto il male, « contro » la volontà d’Iddio? Il problema è formidabile e tremendamente allettante.

Le ipotesi sono due: o esiste una volontà opposta alla Sua, che Dio non può annientare, oppure è successo qualche cosa che ha dato origine al potere delle tenebre.

Personalmente sono per la tesi degli opposti e dei contrari: ogni cosa, in questo mondo, ha il suo contrario e ciò in virtù della legge dell’armonia e dell’equilibrio. La luce comporta il buio; il bene (o diversi stadi di bene) implica il male, il non bene, il bene imperfetto. Abbiamo, cioè, la corruzione del bene, come di tutte le cose: la vecchiaia corrode il più sano, il più estetico corpo.

E questa la legge dell’avvicendamento, del nascere e del perire: del nascere che « vuole » il perire, e tale legge l’ha determinata Dio.

Difatti, per assurdo, potremo dire che la morte, la nostra breve esistenza terrena, è un ‘altra prova dell’esistenza di Dio. Orbene, se il disfacimento è proprio delle cose « create » (che hanno un termine), l’uomo ne è soggetto e vittima.

Ma il male si è manifestato prima della creazione del mondo e dell’uomo, mi si potrà opporre, tra le creature ben superiori all’uomo e vicinissime a Dio: tra gli angioli, per altro « creati pure da Dio » . E dunque possibile che la creazione divina abbia in se qualche cosa di imperfetto? Eppure nulla nasce dal nulla, se Dio non vuole. E allora?

Allora c’è una sola risposta: Dio ha permesso che le Sue creature si manifestassero come volevano, lasciandole cioè « libere » , sovrane di decidere la loro condotta. A tale mirabile omaggio alla responsabilità e alle possibilità loro, al libero arbitrio, le creature hanno malamente risposto, offendendo il Creatore, dapprima con gli angioli ribelli, e poi con la disubbidienza dell’uomo. Il peccato della superbia e della vanità, ha rovinato gli uni e gli altri : così è nato il male, per azione e responsabilità di creature libere di commetterlo, dalla insubordinazione alla volontà divina, dalla scalata al cielo vanamente e ciecamente tentata da coloro che vi furono spinti dall’ambizione di primeggiare.

Da allora il male esiste, è implicito nella natura umana e nel mondo (anche le stelle sono corruttibili e la corruttibilità non porta certo alla incorruttibilità, come aveva opinato troppo ottimisticamente S. Agostino, ma alla distruzione totale, all’annientamento, al nulla) e durerà finché durerà l’uomo e durerà il creato, in quanto la situazione di peccato, che è venuta a determinarsi per la disobbedienza alla legge di Dio, non può essere risolta se non con il ritorno, da Lui « voluto » , dell’uomo a Dio, con ciò sconfiggendo il male e lavando l’impronta del peccato per azione stessa del peccatore.

Ringraziamo la misericordia di Dio, che ci ha concesso tale via d’uscita, e cioè di « individualmente » salvarci, seguendo la volontà buona, diretta a realizzare il bene e quindi a renderci degni di rientrare nel regno dei perfetti. L’Ente crea l’esistente con un atto d’amore, e l’esistente (superata la prova terrena) ritorna all’Ente per virtù propria

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DIO E’ VERITA’

DIO È VERITÀ

Avvertiva il Lambruschini che le verità divine sono eterne, ma che il modo di esprimerle e di applicarle varia a seconda dei tempi, dei costumi, della civiltà e del modo di intendere delle genti. Perciò il nostro linguaggio, pur trattando e sostenendo gli stessi principi affermati, poniamo, da Dante, sarà diverso dal suo. Ma quid est veritas?

Rispondiamo, semplicemente: « la verità è ciò che noi sappiamo ». Non si può conoscere verità oltre il limite delle nostre conoscenze, della nostra cultura, della nostra « scienza ». La verità è conoscenza trasformata in coscienza della verità e quindi in sentimento; può essere anche ideale nato sempre da un acquisto intellettuale, da una cognizione. Da niente, nasce niente: dal Tutto, nasce il tutto (da Dio è nato l’Universo). Più si è dotati di sapere e più verità (e meglio) si possiedono. L’occhio umano che indaga il mistero, guarda nel vuoto: non è possibile scorgere il nulla e vedere qualche cosa dove non c’è nulla. L’orizzonte dell’inesplorato è un grande cerchio, che racchiude un segreto che esiste e che « io » voglio scoprire: ecco la ricerca scientifica, la ricerca della verità più lontana e profonda, più alta… Perché c’è questo di strano nella verità: che essa è infinita e più ta sondi e più ti dimostra e si rivela la sua infinita. Pertanto essa risponde a tutte le metrature del nostro cervello: vi è la verità cosiddetta popolare, e cioè alla portala dei più; e vi è la verità scientifica, la verità sublime, la verità divina: questa è la scala, la grande gamma della verità.

Di conseguenza hanno ragione gli Idealisti: la conoscenza (e quindi, aggiungiamo, la verità perché tale appare a ciascuno di noi ciò che conosciamo) è « soggettiva » e – aggiungiamo ancora – relativa alle nostre cognizioni. Perciò raccomandiamo a tutti di non fermarsi mai al primo o ai primi piani, ma di approfondire sempre ciò che si apprende, il fardello della nostra esperienza. Chi più pensa e riflette su quanto sa e vede, costui sarà sempre il più sicuro padrone di sé, ossia dei suoi pensieri, delle sue opinioni; e, quindi, un uomo « più libero » , poiché il grado di libertà di cui godiamo, è in relazione alle nostre capacità di usufruirne.

La verità, per altro, è un dono d’Iddio elargito agli uomini che, da soli, sarebbero stati insufficienti a scoprirla, ma che, posti su tale via e bramosi, per virtù dell’intima loro natura, di tale cibo, febbrilmente lo cercano. Di qui sorge la constatazione che l’uomo, per nascita, non possiede che la possibilità di rifarsi angelo: altro non possiede. La meravigliosa ed irresistibile spinta a migliorarci, a superarci, a trascenderci, altro non significa se non l’ascolto dell’invito divino.

Non siamo che poco e possiamo essere tutto: ecco l’incommensurabile destino dell’uomo. Iddio l’ha creato perfetto, come perfetto è tutto ciò che esce dalle Sue mani; annientatosi con il peccato, l’uomo ha ancora avuto un’offerta da Dio: quella di poter risorgere. Chi non l’accetta, non sa quel che si fa, ma anche per  questi infelici Dio ha offerto la via del conforto e della salvezza nella preghiera, nel sacrificio delle anime buone.

Così Dio ci ha dato da conquistare la verità, la libertà, la santità. Ripetiamo, con Cartesio, che la verità non può essere stata data ad esseri incerti e dubbiosi, se non da Chi la possiede in sommo grado.

L’uomo è perfettibile, ecco la inesauribile consolazione, di fronte alle nostre miserie. E vero che fra il possesso della verità e la possibilità e l’anelito a conquistarla, si sarebbe dovuto scegliere la seconda condizione, perché essa

implica azione, sforzo, impegno e cioè « il merito » dell’uomo.

Iddio però ci ha tolto d’imbarazzo anticipando la nostra volontà, la quale, per altro, ancorché libera, è indubbiamente consigliata dalla coscienza.

E qui che Dio ha scritto la Sua legge: fortunato chi l ‘avverte, l’ascolta, adegua ad essa la propria condotta! Nessuno può negare ciò che S. Paolo ha così brillantemente ed energicamente affermato e che il Lambruschini pone a fondamento di tutto il sistema dell’educazione dell’uomo: la voce della verità risuona nella coscienza umana. L’uomo può ben tapparsi le orecchie, frastornarsi il cuore: con un ritmo ed una insistenza implacabili, quella voce torna, di tanto in tanto e quanto meno forse l’aspettiamo, a parlare: voce di consiglio, di ammonimento, di richiamo, di guida: voce di rimorso, di pentimento, di perdono; voce di pace, di serenità: beato chi la intende!

Pertanto Dio è in noi, nel nostro essere, nel nostro sentire, nel nostro volere: Egli è in noi come Verità. Che altro attendiamo a scoprirla e ad approfondirla sempre di più, per sempre di più divinizzarci? Ecco l’importanza e il perché dell’invito di S. Agostino: « Noli foras ire: in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem inveneris,’trascende et te ipsum » .

Noli foras ire: in noi abbiamo tutto, perché abbiamo la possibilità di attingere Dio. Interiorizzarci, leggere dentro di noi: ecco il mezzo; per superare la nostra natura o involucro carnale: ecco il fine. Il nostro corpo è un tempio, ove brilla la luce del Santissimo; sta a noi farla brillare di più, perché illumini meglio il nostro

cammino,

Spinoza sbagliava: Dio non è natura, ma spirito creatore della natura; è forza, è anima, è vita, è ordine, è legge, è luce del creato: non è il creato; è il signore dell’Universo, in cui eccelle questo prodigio che è l’uomo; Egli vive nell’uomo e nell’universo, ma non è né l’uomo, né l’universo: Dio è Dio; se altrimenti fosse paragonabile a qualche cosa, a qualunque cosa, non sarebbe più Dio perché non sarebbe più l’Unico.

Non c’è bisogno di appellarsi a ripieghi, caro Berkeley, come quello della produzione delle idee, da parte di Dio, per spiriti percipienti, per dimostrare la Sua esistenza: l’esistenza della verità, dell’amore, della libertà, della santità, del bene, comprovano l’esistenza di Dio, fonte di ogni virtù. Piuttosto c’è da esaminare l’affermazione di Leibniz e cioè che Iddio ci ha posti nel migliore dei mondi possibili. Tale ottimismo metafisico della ragione umana, implica l’ammissione e il riconoscimento del mate ne! mondo e quindi il problema dell’origine del male e della sua natura, problema che ha fatto trepidare spiriti colossali

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L’ARCHITETTO DELL’UNIVERSO

L’ARCHITETTO DELL’UNIVERSO

Naturalmente sorge a questo punto naturale e ovvia la domanda: se ciò è, gli è perché Dio così ha voluto: ora, perché Dio ha voluto così?

Per rispondere in modo esauriente, occorrerebbe conoscere Dio nella Sua essenza, il che è manifestamente vietato all’uomo, il cui limitato, per quanto eccelso intelletto, non arriva certo a « capere » , a comprendere l’immensità, l’infinità, l’onniscienza, l’ eternità di Dio.

Però a un uomo, creatura intelligente, è sempre permesso di opinare: pertanto mi pongo un’ altra demanda, limitandomi a considerare gli effetti della potenza divina: perché Dio ha creato l’universo? Aveva dunque Lui, infinito, bisogno di qualche cosa che cominciasse dalle Sue mani e finisse per volontà Sua? Aveva Egli (che non può sentire necessità di qualche cosa) bisogno di manifestarsi con la meraviglia della creazione, nella quale si vede – come osservo Galileo – ad ogni piè sospinto, la mano dell’Artista?

Respinto senz’altro tale pregiudizio, in quanto Dio è pensiero che contempla se stesso, né altro di superiore a Lui potendo contemplare, perché non esiste, né altro di interiore appunto perché non Gli sarebbe pari, ne deriva che le cause della creazione debbono essere ricercate nella creazione stessa e precisamente nell’essere ch’Egli voile più vicino a Lui, formandolo a Sua immagine e somiglianza e incarnando come Lui il Suo Figliuolo: l’uomo. Aveva bisogno, « l ‘uomo » , del mondo, così com’è ora? Dopo il peccato originale certamente, appunto per poter tornare a Dio; prima del peccato di origine, quando la perfetta coppia umana di Adamo ed Eva viveva serena, per l’ eternità, nel terrestre Paradiso, ovviamente no. Si può allora pensare che Dio, nella Sua onniscienza, già prevedendo la caduta della Sua creatura, abbia vol uto predisporre il mezzo, l’ambiente della sua espiazione e redenzione; oppure che il mondo stesso fosse un Paradiso eterno, popolato di belve mansuete e parlanti, il soggiorno ideale della creatura più amata da Dio, e che essa devasterà con il primo peccato del giorno primo del mondo nuovo, che costringe Dio a creare il tempo, la vecchiaia, la morte secondo natura, e a permettere tutti i malanni che giustizia lega al peccato, e a offrire tutte le virtù necessarie alla purificazione e all’angelicazione dell’uomo.

Come e checché sia, il fatto è che l’amore di Dio si espresse in un atto di carità, che poteva essere e non essere, ma che fu perché inevitabilmente proprio della grazia Sua, che « volle » avere l’oggetto di tanto Amore. Senza l’uomo, a chi e come poteva Iddio manifestare la Sua carità?

Pertanto l’uomo ha questo orgoglio: di essere stato necessario all’amore divino (più forte di Dio: è difatti il Suo amore che fa « muovere » l’universo:  « L’amor che muove il sole e l’altre stelle »); e questa dignità: di essere figli di Dio; e questa nobiltà: che Dio ha bisogno di lui per affermare l’eccellenza della creazione, per interpretare in questo mondo la Sua volontà.

Che esistano uno o più mondi abitati, ciò non importa: la verità (o ipotesi) suddetta rimane valida all’infinito, come, d’ altronde, rimane valido l’assioma da cui siamo partiti: l ‘ esistenza di Dio confermata dall’esistenza stessa del mondo e dell’uomo e dal postulato kantiano della ragione umana sull’eternità dell’anima e sul Giudice supremo, affinché la bontà abbia il giusto premio nella felicita.

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LA REALTÀ Dl FATTO E LA REALTÀ DI PENSIERO

LA REALTÀ Dl FATTO E LA REALTÀ DI  PENSIERO

Ciò detto, il problema dell’esistenza e quello dell’essere dell’uomo in particolare, van posti nel più vasto problema della « realtà di fatto », frutto della « volontà di Dio » . Ciò che è, è: nessuna forza umana può modificare tale realtà. Noi siamo ciò che siamo, la realtà è ciò che è, per volontà superiore alla nostra e

nessuno può smentire, né mutare, la realtà delle cose che esistono. Iddio ci ha dato la realtà e i mezzi per avvertirla. Siccome tale constatazione risulta quindi dai mezzi e dai poteri stessi dell’uomo, essa è « valida per tutti » .

Nella realtà di pensiero si possono immaginare e sognare (e accettarli come novelli Don Chisciotte) anche mondi antelucani e tutte le fisime metafisiche che si vogliono; ciò non è permesso al buon senso, figlio della economia psichica comune. Quanto appare vero ad un pazzo, è certamente una realtà per lui, ma non è « la realtà » , frutto dell’assenso universale. Noi difatti diciamo rosso il colore di un oggetto, che da secoli è unanimemente definito tale, e se sognassimo di chiamare verde il rosso, il mondo ci accuserebbe di daltonismo e a giusta ragione. Perciò la misura della verità è – per quanto riguarda le cose e i rapporti umani – il consenso generale. Tutto è posto su di queste basi e anche i tribunali condannano (o assolvono) in relazione a quanto asseriscono i testimoni.

Ne discende che la realtà della cosa in sé, la realtà in se stessa e per se stessa, non è affatto un noumeno, bensì un fenomeno, che vuole la constatazione non di uno o di tre uomini, ma « dell ‘uomo » e cioè di « tutti gli uomini » . A pensiero comune, corrisponde realtà di ratio comune, certa, anche perché non potrebbe essere contraddetta da altra realtà o non accertabile (in quanto esistente solo nel pensiero), o diversa.

La realtà come concetto è il segno astratto di una evidenza comune a molti oggetti, alla guisa stessa della bellezza, della vecchiaia, della forza e non vale quindi la pena di spendere una vita a sondare l’inesistente. Il pensiero che crea la realtà, è puro giuoco di parole: il pensiero « stampa, fotografa » la realtà e difatti nessuno può pensare cose o alcunché che sia fuori e comunque che non siano ancora entrati nella sua esperienza, nella sua sensazione. Si può almanaccare con costruzioni immaginarie, mostruose o mirifiche, artista o scienziato che si sia, ma il materiale di tale costruzione è preso, inevitabilmente, dalla realtà vissuta.

La ragione è mezzo di ricerca (e siamo con il Dewey), non già realtà. Hegel confonde l’azione con la sostanza di essa, appunto identificando la razionalità con la realtà.

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DIO E’ VOLONTA’

DIO È VOLONTÀ

L’anticorpo o antimateria non potrebbe forse essere di natura spirituale, la forza di coesione dei corpi, l’elemento indispensablle per dare una fisionomia, un ordine, un posto alla materia, differenziandola nella grandissima varietà d’elle cose, dal vento all’acqua al sasso alla carne… ? E se così è, non vi pare che senza lo spirito « anche » la vita terrena sarebbe impossibile?

Lo spirito è dunque l’elemento che ci « permette » di vivere, di « essere » qualcuno, qualcosa; e di continuare ad esistere materialmente per un « certo tempo » , per poi ritornare nella dissolvenza dell’antimateria? Non potrebbe essere questa, forse, l’onda del creato e dell’Umanità, sul cui flutti di luce galleggiano vari vascelli, destinati a ridiventare spiriti, attratti, catalizzati da una forza superiore, che agisce come calamita centrale su tutto l’Universo, come centro di gravità di tutto il creato? Perché negare a priori tale flusso perenne, voluto da una « volontà » certamente superiore alla nostra: quella dell’Essere eterno, che ha creato altri esseri non eterni, ma che eterni dureranno in Lui?

 « Sia fatta la Tua volontà, come m cielo, così in terra » , ci insegna a pregare Gesù; la volontà del Padre, che è tale appunto in virtù del Suo spirito che aleggia nei Suoi figli, parti di Lui, figli della luce. Vivere non vale essere: essere è compartecipare pure della natura divina che è in noi, il che è manifestamente riservato solo agli uomini e – in particolare – a quei fortunati che vivono in Dio. Essere, significa essere in Dio. L’idea stessa di Dio non può venire all ‘uomo (essere consapevole della gerarchia dei valori) se non dalla propria natura. La constatazione delle forze che agiscono nell’universo (e, più tardi, del loro ordine e

della struttura del creato), fecero pensare e adorare quella Volontà che le governa. Sicché si arriva a dire, con Galileo, che la natura rispecchia la mano, lo stile dell’Autore di essa, e che scoprendone leggi e segreti ci si avvicina sempre di più a cogliere la meravigliosa onnipotenza e bellezza di Dio (senza il Quale noi siamo nulla, non bellezza, non scienza, non verità: ossia, non siamo).

La dissolvenza del creato (e delle creature) nel « nulla eterno » , non ha significato: il nulla non può essere né eterno, né transeunte, perché non esiste in quanto non occupa spazio, né impiega tempo, e ciò che non esiste non ha né presente, ne futuro.

Ritornerei alle monadi di Leibniz, in un senso più ampio: la monade è di natura spirituale non perché indivisibile, ma perché la materia è sinolo di corpo e di anima (spirito, c’è l’eterno.

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DIO “PENSIERO PENSANTE

DIO “PENSIERO PENSANTE”?

Dio pensiero pensante, pensiero che pensa se stesso, non è forse una limitazione posta, dal linguaggio degli uomini, all ‘infinita onnipotenza del Signore? È pacifico che Dio sia di più di un pensiero pensante, ossia di un fatto: è più ortodosso dirLo amore, verità, vita, ossia definirlo con attributi che non hanno confini. Il gentiliano vicolo cieco va bene per l’uomo, caduto sempre, al termine del proprio opinare, in un vicolo cieco. Ciò che abbiamo di soprannaturale in noi, l’intendere, il volere fini celestiali, è frutto di emanazione particolare, dono speciale di Dio, perché l’uomo volesse volere l ‘eterno in Lui, la felicita degli Angioli. Tutti gli altri esseri viventi non bramano ciò, « perché non lo possono » . Solo il pensiero dell’uomo solca l’inesplorato, l’invisibile e raggiunge, anche nel mondo della materia, spazi e corpi non ancora « percepiti » dal nostro essere.

Il pensiero è dunque un elemento dell’eterno e dell’infinito, il veicolo che conduce al mare magno degli spiriti. L’esistente vuol tornar all ‘Ente e trascina con se la grave mole della materia, legata al mondo, al terrestre. Di qui la lotta fra spirito (che ascende) e materia (che pesa), ben individuata da Kant; di qui la necessita della purificazione, santificazione, in una parola della spiritualizzazione affermata dalle più importanti religioni; della ascesi, della metempsicosi o rinascita di ogni momento, nella nostra unica vita terrena; della catarsi, per ritornare all’idea pura, perfetta, del mondo – diremo – iperuranio.

Dio è dunque pensiero puro? Penso di si, e non solo perché senza materia, ossia puro spirito, ma perché infinito. Il Dewey ha ragione nell’averci dato solo le regole per ben vivere e agire in questo mondo: con una filosofia come la sua, si possono esplorare tutti gli aspetti del mondo terreno, ma non si va oltre, nel trascendente; egli fu coerente, onesto e leale verso se stesso (il proprio pensiero) e verso chi non la pensa come lui. Se vi basta di viver bene in questo mondo (70 – 90 anni) accontentatevi del Dewey; qualora invece vi turbi il mistero dell’al di là, della vita eterna, allora rivolgetevi a Dio e con il solo mezzo che abbiamo a nostra disposizione: la Sua parola (e, cioè, quel « pensiero » di cui partecipiamo per dono divino, l’alito, lo spirito

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LO SPIRITO VITALE

LO SPIRITO VITALE

 Vivere ed essere sono sinonimi: se vivo, ovviamente penso e voglio e amo, Dire penso, ergo sono, significa dire la stessa cosa. Cartesio non solo non ci ha dato la prova della nostra esistenza; non solo l’uomo non ha scienza, come osserva giustamente il Vico (ossia, conoscenza delle cause) della sua esistenza, ma neppure coscienza di essa, in quanto dire che due cose sono eguali o dipendenti l’una dall’altra o implicite l’ una nell’altra, non equivale ad afferrare uno stato d’animo (coscienza) relativo all’equivalenza dei due dati.

Neppure l’innatismo dell’idea dell’Ente può essere ammesso, quale intuito della esistenza (Rosmini); e neppure l’intuito dell’intuito (Gioberti), poiché tutto ciò comporta riferire ad una idea » già conosciuta e ammessa (ossia ammessa a priori), una priorità che niente riesce a giustificare.

Il « noi siamo » non è una scoperta, ma una constatazione, che nasce dalla realtà del «fatto vita » , vita di cose (corpo) e vita di spirito (pensiero). È dalla morte, invece, che dobbiamo muovere: morte delle cose o anche morte dello spirito? Chi crea le cose (natura?) e chi lo spirito? La natura (fisionomia, forma) ci differenzia, mentre lo spirito (pensiero) ci unisce ed eguaglia.

Il pensiero però è di tutti, anche dei pazzi e degli anormali; anche degli animali. Non è dunque « naturalmente » qualche cosa di divino (il delinquente « pensa » il male), ma può diventarlo secondo volontà, coscienza dei fini e cioè degli ideali a cui indirizzare il volere, dall’essere psico-fisico passando al dover essere e cioè all’essere morale, oppure all’essere estetico, spirituale, ecc. ecc.

Esistono dunque facoltà che non sono seconde neppure al pensiero, ma che non potrebbero esistere od operare senza di esso; e vi è l’intelligenza, che è una virtù del pensiero, una espressione o manifestazione di esso, e che differenzia gli uomini fra gli uomini, gli animali fra gli animali e l’uomo dall’animale: l’intelligenza è graduata, come ad esempio la memoria (estensione della memoria nel passato, adesione al presente, previsione del futuro).

Il pensiero è di tutti, ma le sue singolarità differiscono in ognuno: non possiamo dunque porlo a base e prova della nostra esistenza più della forza o dell’astuzia, ecc. ecc. L’ homo sapiens e l’homo faber, l’homo communis e l ‘ homo originalis, l’uomo politico e l’uomo economico e quant’altre singolarità ci vengono in mente, non ci danno la spiegazione della nostra esistenza, in quanto sono singolarità del tutto: è questo tutto che occorre considerare, ed esso si chiama « spirito vitale » . Esso ci porta alla vita quando si unisce ai corpi animali; la morte lo allontana dal corpo.

Può il corpo darlo a se stesso? Se si, perché gli permette il distacco nell’ora ultima? Comune a tutti gli esseri viventi, dal più microscopico protoplasma all’uomo, lo spirito vitale è l’elemento primo dell’esistenza. Gli altri elementi sono complementari e a quello subordinati. Vivono pure i pazzi e gli anormali, in cui il cervello cessa di funzionare o funziona male, ma quando lo spirito vitale, l’anima, non agisce più, anche la più formidabile delle intelligenze, il pensiero più robusto arrestano il loro corso, fermano i loro palpiti

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VALORI ED ATTUALITA’ DELLE MASSONERIA UNIVERSALE

Valori ed attualità della Massoneria universale

Gustavo Ram, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani

Divenire uomo e un’arte. affermava con convinzione Novalis nei suoi Frammenti antropologici. La Massoneria Universale, scuola che inizia ai grandi misteri della vita, lo sa bene. E da almeno tre secoli lavora instancabilmente a testimoniare la pratica di quest’atte, che nessuno è in grado di insegnare poiché si può imparare solo individualmente. Osservando, intuendo, seguendo negli altri, nel mondo, i segni di una misteriosa orditura che, come faceva dall’alba al tramonto la mitica Penelope, va pazientemente ricostruita come una mappa in grado di condurci a battere, senza timore di perdervisi, i difficili ed accidentati sentieri della vita. Proprio per sviluppare quest’arte il massone ha bisogno, non solo di penetrare nella propria, ma anche nella altrui dimensione interiore. Ha bisogno, come l’aria, del dialogo con gli altri, per apprendere ma anche per contribuire, col proprio bagaglio di esperienze, di conoscenze, di saperi, maturato appunto in una vita illuminata dalla luce della Tradizione, al loro benessere. In questo modo, da muratore esperto nell’arte della edificazione, concorre, recando il proprio simbolico mattone, a costruire il grande Tempio sotto la cui volta celeste si riunirà l’umanità tutta. Ovviamente le modalità di questo lavoro cambiano coi tempi.

Ed in tempi di comunicazione di massa, di villaggio globale, di incontri e di scontri di culture anche la Massoneria non poteva fare a meno di scegliere strade nuove per attualizzare la propria naturale vocazione al dialogo. Il Forum dedicato alla complessa e delicata tematica dei Valori Universali si inquadra esattamente in questo ambito. E la chiamata al lavoro di tutti i Fratelli non solo perché esibiscano, con la propria testimonianza, la profondità dei valori di cui sempre la Massoneria si è fatta portatrice, come la tolleranza, la comprensione dell’altro da sé, la difesa intransigente della dignità dell’uomo, ma perché facciano molto di più. Si confrontino, a viso aperto, e senza alcuna reticenza o timore, col così detto mondo profano, sviluppando coram populo quella loro propensione al dialogo con lo stesso metodo del confronto, aperto e leale, tipico del lavoro di Loggia. Tanto più importante appare questa operazione dal momento che il tema affrontato si presenta, considerati i travagli che affliggono la nostra vecchia e cara Terra, sicuramente utile, oltre che, sul piano intellettuale ed umano, straordinariamente stimolante.

E mi fa particolarmente piacere che tutto questo sia maturato in una terra, la Toscana, nella quale è sorta la prima Loggia massonica — che vide la luce nella, per I ‘epoca, tollerante Firenze nel 1731 lo stesso anno in cui a L’Aja veniva iniziato Francesco Stefano di Lorena, futuro Granduca di Toscana — e dove tuttora opera, nel senso massonico che questa parola possiede, la più numerosa famiglia di liberi muratori del nostro Paese. Per di più questo Forum sui valori, che non si limiterà alle sole problematiche delle Nazioni Unite e della loro (possibile ed auspicabile) Ritorna ma toccherà anche, in successive fasi, le identità religiose e culturali, nonché l’identità terrestre, cade in concomitanza con una ricorrenza quanto mai carica di significati per noi Liberi Muratori. Si celebra, infatti, quest’anno il secondo centenario della fondazione del Grande Oriente d’Italia. che ebbe come suo Gran Maestro Eugenio de

Beauharnais, viceré d’ Italia e sodale di Napoleone Bonaparte. Una occasione imperdibile per mostrare il vero volto di una Massoneria che, ancora una volta, sa stare al passo coi tempi, una Massoneria che è, ieri come oggi, progettualità e azione al servizio dell’uomo, al di là di ogni frontiera, oltre ogni angusta limitazione. Proprio per questo, proprio nella consapevolezza dello straordinario “facere ” al quale le Logge ed ogni singolo Fratello vengono ora chiamati, sarebbe oltremodo significativo se, al termine della sessione di questo primo Forum, scaturisse, per mano di coloro che parteciperanno ai lavori, massoni o profani, ma comunque tutti uomini animati dalla buona volontà del bene operare, un documento di intenti da mettere a disposizione di altri uomini di buona volontà che, come noi. intendono agire molto semplicemente per la costruzione di un mondo migliore. Uomini che non possiedono ovviamente la verità, uomini come noi “dalle granitiche incertezze”. ma proprio per questo più autentici e credibili.

Si tratterà di un primo contributo che, auspichevolmente, potrà. dovrà innescare un dialogo aperto a tutte le voci diverse, secondo il tradizionale metodo massonico della ricerca condotta, come recita il nostro rituale, in piena libertà di pensiero da uomini di fede religiosa, di credo politico, di condizione sociale diversa, ma animati dal forte spirito dei costruttori. Il nostro è un piccolo ma non unico passo. Altri ne seguiranno, perché il cammino da percorrere è lungo e la meta, come sanno bene gli iniziati, sfugge di continuo, specialmente quando sembra più che mai a portata di mano. Ci piacerebbe comunque che. iniziative come queste, ed altre che lievitano e stanno lievitando sotto l’azione potente della fiamma di una antica e nobile Tradizione, contribuissero alla realizzazione di un grande sogno che cova nel cuore dei liberi muratori: quello di consentire alla Massoneria universale, di testimoniare, all ‘interno delle Nazioni Unite, nel consesso dei popoli della terra, nato e formato dalla volontà di grandi liberi muratori quali furono il Fratello Winston Churchill ed il Fratello Franklin Delano Roosevelt, i suoi grandi valori quali la liberazione dal flagello della guerra; la fede nei diritti fondamentali di ogni individuo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne; la giustizia, il progresso sociale, la libertà di tutti; la tolleranza e la pace. E questa per noi l’arte della vita, o Arte Reale, che esprime la nostra condizione di uomini di desiderio impegnati a lavorare senza sosta per onorare I ‘impegno preso quando varcammo, per la prima volta, le soglie del Tempio.

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GARIBALDI SCRITTORE ? PERCHE’? PER CHI?

Garibaldi scrittore? Perché? Per chi?

 di Aldo A. Mola | 20 Ottobre 2023

Al Quirinale Vittorio Emanuele II accoglie Garibaldi, presente l’Aiutante di Campo del Re, Giacomo Medici del Vascello, già comandante del 2° Reggimento dei Cacciatori delle Alpi.

Pare che questi editoriali abbiano ventiquattro lettori. Uno in meno di quanti ne contavano i Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Forse perché si occupano di temi tristi: il passato che non passa, il presente che angoscia, il buio pesto del futuro. Per di più sull’Arno l’editorialista va per questioni di “lingua”, sì, ma solo quella che gusta una succulenta “fiorentina”. Pecca di gola (gastrimarghìa), uno dei sette vizi capitali (una volta erano otto). Orbene, accade che un paio dei ventiquattro lettori, sorpresi di scoprire che, con tutto quel che ebbe da fare, Garibaldi abbia trovato anche il tempo di scrivere romanzi, hanno chiesto di saperne di più. In effetti il nome del Generale non compare nei repertori dei letterati famosi. Forse perché egli disse chiaro e tondo che, posata la spada, impugnò la penna per continuare la sua “missione”. Scoprì anche il gioco degli scrittori che si dichiarano devoti esclusivamente alle muse ma controllano ogni giorno se arrivano i sempre magri diritti d’autore.

   Ricordiamo, allora, in via preliminare, che Garibaldi scrisse quattro romanzi: “Cantoni il volontario”, “Clelia, il governo dei preti”, “I Mille” e “Manlio”. Il primo, scritto in memoria del forlivese Raffaele Cantoni caduto nella sfortunata battaglia di Mentana (1867), è poco noto. Ebbe una prima edizione nel 1870, un’altra nel 1873. Finì in un cantone. Ristampato in poche neglette copie, è disponibile gratuitamente in internet. Modesto beneficio Garibaldi trasse dal “Clelia” e dai “Mille”. “Manlio” rimase inedito. 

     Tornò allora a occuparsi di “politica”. Sulla fine della vita, affaticato dagli acciacchi ma sempre vigile, ammonì che occorreva «governare meglio o cadere». Dall’affiliazione alla Giovine Italia all’impresa dei Mille, la sua stella polare fu Italia unita, indipendente, libera. Già in Sudamerica insegnava «Libertad para todos y si no es para todos no es libertad» fu il suo motto. Per arrivarci bisognava organizzarsi.

   Al segretario della Società nazionale, Giuseppe La Farina, all’inizio del decisivo 1859 Garibaldi ripeté che «dovendo promuovere movimenti di popolo, sarebbe bene cominciare con qualche cosa di organizzato per poter dirigere la corrente come si deve». Non era più tempo di improvvisazioni né, soprattutto, di indulgere alle «cose mazzinesche», alle «suggestioni che potrebbero venirci da quei di Londra», alle «commedie che Mazzini chiama rivoluzioni». «Noi non dobbiamo esser partito – ribadì invece Garibaldi ad Agostino Bertani il 13 dicembre 1859 –, ma dominare i partiti tutti.». Dopo l’armistizio di Villafranca (luglio 1859) non rimise in discussione gli obiettivi ultimi, ma scelse la sua via. «A Vostra Maestà – scrisse a Vittorio Emanuele – è nota l’alta stima e l’amore che vi porto; ma la presente condizione in Italia non mi concede d’ubbidirvi, come sarebbe mio desiderio. Chiamato dai popoli mi astenni fino a quando mi fu possibile; ma se ora, in onta di tutte le chiamate che mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai miei doveri e metterei in pericolo la santa causa dell’Italia. Permettetemi, quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca. Appena avrò adempiuto il mio assunto liberando i popoli da un giogo aborrito, deporrò la mia spada ai Vostri piedi e vi ubbidirò fino alla fine dei miei giorni.»

   Mantenne la promessa, ma a modo suo. Dopo la proclamazione del Regno (1861) Garibaldi rimase condizionato dal mancato compimento dell’unità. La necessità di congiungere all’Italia Roma, Venezia e Trento continuò a imporgli l’azione, senza però cedere alla faziosità dei “rivoluzionari” dilettanti. Fu lui a professare il programma cavouriano di governare il Mezzogiorno senza gli stati d’assedio e di farne anzi la piattaforma per mostrare la validità del liberalismo italiano. «Italia e Vittorio Emanuele, ecco la nostra repubblica, ecco il voto delle moltitudini» fu il suo programma.

  Col 1870, ormai definitiva la rottura con Mazzini, Garibaldi cominciò a insistere più esplicitamente sul rinnovamento delle istituzioni: non per mutar la monarchia in repubblica, ma per introdurre correttivi democratici nello Stato e nella condotta dell’amministrazione. «Che fa l’Italia? – s’interrogava nella primavera del 1873 – Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale.» Sotto accusa erano invece «Massoni, Mazziniani, Internazionalisti […] egualmente fautori dell’indolenza democratica […] e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione e della menzogna. Invano si chiamarono a conciliazione le parti diverse della democrazia». Denunciò il “tarlo” della discordia, del dottrinarismo. La Sinistra doveva cercare in se stessa le ragioni della sua debolezza politica e trovarvi rimedio senza indulgere ad addebitarla a speciale malizia degli avversari. “Predicò” per formare il «fascio» delle «associazioni oneste», «la Massoneria, la Mazzineria, la fratellanza artigiana, le società d’operai, di reduci, Internazionali fasci operai, ecc.». Per sgombrare il campo almeno da un equivoco, negò l’esistenza di «garibaldini». I suoi seguaci dovevano sentirsi e dichiararsi solo e sempre “italiani”.

   Sin dal 1870, col memoriale “Due parole di storia”, Garibaldi tracciò lo spartiacque tra il suo gradualismo e l’avventurismo di altri, incompatibile con le prospettive di crescita democratica aperte dall’unificazione nazionale: «Io ho spinto i miei concittadini a delle imprese temerarie qualche volta, ma me le perdonino […]. Comunque, noi non vogliamo delle Rivoluzioni-miserie. Frattanto, i miei concittadini si preparino a temprar l’animo e il corpo, a mostrar che l’Italia facendo farà davvero […]. Ripeto: aspettare l’ora. Non far rivoluzioni da farci beffeggiare». Contro i seminatori di discordie, i provocatori di guerre civili, Garibaldi rivendicò: «Io ho sempre inteso di appartenere alla Nazione Italiana.»

   Conscio della necessità di non isolare il “movimento” dalle componenti più caute del liberalismo, spiegò che i contrasti dovevano rimanere interni alla “famiglia”. Ampliamento del diritto di voto, eliminazione delle imposte indirette, dei dazi sui consumi, della tassa sulla macinazione e sul sale, da sostituire con un’imposta diretta e progressiva, abolizione della pena di morte, emancipazione femminile, interventi a favore delle classi e delle regioni più povere furono il terreno d’incontro tra Garibaldi, le diverse componenti della democrazia radicale e la nuova generazione di uomini politici, orientata da suoi antichi e fedeli seguaci come Aurelio Saffi, con il quale aveva condiviso l’epopea della Repubblica romana del 1849.

   Poiché sulla sua figura e sul suo pensiero si sono accumulate dicerie infondate è bene fissare alcuni punti fermi su un aspetto centrale della sua personalità: la religiosità. Nella congerie di suoi scritti e appunti occorre distinguere i “documenti” relativi alla vita militare e politica, quelli concernenti affetti domestici e amicizie e le carte cui affidò i suoi pensieri su temi generali. Tra queste ultime speciale rilievo occupano le sue riflessioni sulla religiosità. Esse includono tre diversi temi: Dio, le religioni, le chiese intese come clero. Al riguardo, oltre alle lettere, vanno presi in esame anche i suoi discorsi e gli scritti letterari, le cui pagine gli rimasero dinnanzi agli occhi e sotto la penna più a lungo di quanto gli potesse accadere per un proclama, un messaggio, una lettera dettata (e spesso solo firmata) o vergata sul tamburo, nel vortice dell’azione. Nelle prose d’arte (per quanto arte povera, come non esitò mai a dichiarare e a riconoscere) Garibaldi compì anzi uno sforzo per conferire veste definitiva alle proprie riflessioni. Debitamente confrontate con le altre fonti utili a coglierne il pensiero, esse conducono ad affermare che Garibaldi fu credente in Dio personale, creatore e ordinatore dell’universo, provvido nei confronti delle sue creature.

   Valga a conferma l’incipit del capitolo LXIII di Cleliail governo dei preti: «Era una di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni miseria della vita per rivolgerti tutto intiero alle meraviglie colle quali il Creatore ha fregiato i mondi. L’alba primaverile che spuntava dall’orizzonte, così graziosamente tinta dei colori dell’Iride, t’incantava…» Poco oltre, il capitolo intitolato Morte ai preti gronda di invettive contro il clero: «Tra le astuzie dei sardanapali pretini, ricchissimi com’erano, sempre mercé la stupidità dei fedeli, non ultima fu quella d’impiegare gli artisti più eminenti nella illustrazione delle loro favole.» Ai capolavori di Michelangelo e Raffaello contrappose la libertà e la dignità nazionale, «vero capo d’opera di un popolo».

   Contraddizione? No. Attendeva che la Chiesa (altra cosa dal clero) si liberasse dal gravame del potere temporale e tornasse evangelica e missionaria.

   In I Mille, un romanzo (mancato) sull’impresa che lo rese celebre nel mondo, Garibaldi toccò i vertici dell’anticlericalismo militante. Nella prefazione si scusò pubblicamente perché gli parve di avervi detto «abbastanza male» dei preti. Nello stesso libro, tuttavia, le roventi esecrazioni di papi, imperatori, preti (soprattutto i gesuiti) si alternano all’esaltazione, talora ingenua ma sempre appassionata, della «religione della libertà» e della religiosità in sé quale vincolo necessario all’umano incivilimento. Nell’accorato capitolo 61°, La morente,descrive la straziante agonia di Marzia, una delle eroine del romanzo accanto a Lina (Rosalia Montmasson, moglie di Francesco Crispi, personaggio storico mescolato a quelli di fantasia): «Marzia sentiva vicinissima la morte, ma dotata di sì supremo coraggio e di quell’eroismo filosofico capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della materia, accennò colle labbra un bacio verso Lina, che fu seguito da P. e dai cari presenti; non articolò più parola e passò tranquilla all’Infinito!» Materialismo panico? o spiritualismo?

   Il capitolo conclusivo del romanzo, Il sogno, condensa le sue contraddizioni e indica la via del loro superamento. L’eroe assiste al «sorgere del figlio Maggiore dell’Infinito che spuntava dalle cime dell’Apennino (sic!)». Mentre contempla l’aurora, intravvede il nuovo ordinamento dell’Italia unita, «un governo di tutti e per tutti» («non so se lo chiamassero Repubblicano» tiene a precisare), fondato sulla giustizia e sua garante. Descrisse il “miracolo”: la riesumazione gloriosa delle ossa dei martiri caduti per la patria («Si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti…») e, al tempo stesso, alla redenzione dei «chercuti» incluso il «santissimo padre, non più panciuto e con le pantofole dorate, ma calzato con un buon paio di stivali, snello e robusto che consolava il vederlo». Pio IX dirigeva di persona i preti intenti alla bonifica delle Paludi Pontine: «chi colla vanga, colla zappa e coll’aratro; altri lavoravano la terra che era una delizia.» A quell’afflizione educativa, alla fatica quale risarcimento dei danni inflitti alla società non erano però solo i preti nella visione di Garibaldi: dinnanzi ai suoi occhi si affollava «una quantità di finanzieri d’ogni classe, di pubbliche sicurezze, di impiegati al lotto e tanta altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima». «I preti diventati laboriosi ed onesti. Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi consueti al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegano la schiena al lavoro. Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori dell’Universo, oggi obbligati anche loro a menare il gomito per vivere. Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza sul volto di tutti, e tale soddisfazione per il nuovo stato sociale, ch’era un vero miracolo!»

   Il sogno garibaldino di palingenesi va dunque molto oltre la o le chiese o, se si preferisce, guarda altrove: la politica. Su religione e religiosità tornò in una lunga nota esplicativa sul concetto di Infinito: Scrisse: «Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si scrivono dei fascicoli numerosi per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri, e che finiscono per provare e per negare nulla, io credo sarebbe conveniente stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed affratellare tutti. Per parte mia accenno e non insegno. Può il Vero, o l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo credo; ma non lo insegno. V’è il tempo Infinito, lo spazio, la materia, come lo prova la scienza; quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. È essa parte integrante della materia? Emanazione della materia? La soluzione di tale problema è superiore alla mia capacità.»

   Ricalcò analoghe riflessioni in La religione del vero: «Ov’è Dio? io ne so tanto quanto un prete ma io, apostolo del Vero, risponderò: Non lo so, ed avrò detto la verità mentre un prete vi risponderà con una delle definizioni che certamente saranno false se non vi risponde com’io vi rispondo. Chi è Dio? Il Regolatore di Mondi […] sì, quell’intelligenza infinita, la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti ivi disseminati chiunque deve confessare». Il Regolatore dei Mondi per lui era il massonico Grande Architetto dell’Universo. Scrisse infine la sua professione di fede: «Il mio infimo corpo è animato siccome sono animati i milioni d’esseri che vivono sulla terra, nelle acque e nello spazio infinito non eccettuando gli astri, che possono essere animati pure. Come tutti quegli esseri io sono dunque dotato di una quantità qualunque d’intelligenza e se l’intelligenza universale, che anima il tutto, fosse Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata da Dio e sarei dunque una parte infinitamente piccola della Divinità ma ne sarei una parte; quell’idea mi nobilita, mi soddisfa, fa qualche cosa del mio nulla e contribuisce ad elevarmi sulle miserie di questa vita.»

   Garibaldi, condottiero, politico, scrittore, si poneva domande comuni a tanti uomini. E tentava risposte sue, forse ingenue ma sicuramente sincere, pacate. Una sorta di mano tesa verso tutti, un invito alla tolleranza universale. «Semplice, bella, sublime è la religione del vero: essa è la religione di Cristo perché tutta la dottrina di Cristo poggia sull’eterna verità. L’uomo nasce uguale all’uomo, Indi… Non fate ad altri ciò che non vorreste per voi. Chi non ha fallito getti la prima pietra sul delinquente. Simbolo di fratellanza il 1° precetto e simbolo di perdono il 2°. Simboli, precetti, dottrina che praticati dagli uomini costituirebbero quel grado di perfezione e di prosperità, a cui è suscettibile di giungere. Ma no, dice il prete: al di fuori della bottega son tutti dannati! Chi non è con me è con Satana e condannato a bruciare in eterno…»

   Garibaldi credé nell’immortalità dell’anima? In un appunto in nota al Clelia osservò: «Il cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è divisa?»

   Non aveva certezze e, ciò che più conta, non s’impancava a formulare e a imporre verità che per primo non possedeva. Quello degl’interrogativi senza risposta è il Garibaldi vero. È anche un Garibaldi molto attuale, giacché non propone una dottrina, un catechismo, un insegnamento né, meno ancora, un modello al quale attenersi rigidamente. Offre solo un esempio: quello di chi convive con i dubbi, reputa di non arrivare a darsi alcuna soluzione definitiva e tuttavia non si abbandona alla disperazione né diviene scettico o indifferente. Sente che di giorno in giorno la vita si esaurisce, ma non ne prova angoscia. Attende senza nulla pretendere. Vive, lascia vivere e nel frattempo fa quel che sente di dover fare per «guarire la gran piaga della miseria.»

Aldo A. Mola

Nella Prefazione ai romanzi storici Garibaldi disse chiaro e tondo perché li scrisse: «1° Per ricordare all’Italia molti dei suoi valorosi, che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa. 2° Per trattenermi colla gioventù italiana sui fatti da lei eseguiti. 3° Per ritrarre un onesto lucro dal mio lavoro. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato in un tempo in cui credetti meglio far niente che far male.» Generale, deputato, artefice dell’unità nazionale Garibaldi si reggeva sulle grucce, non aveva né stipendi né pensioni. Scrisse di getto e pubblicò “Clelia” (uscito nel 1870 in inglese prima che in italiano) e “Cantoni il volontario” (1870), “I Mille”, specchio di «un’anima che sente le miserie e le vergogne del suo paese», e le “Memorie”, intraprese nel 1871, completate l’anno seguente e pubblicate nel 1874. Benché tradotti nei Due Mondi, i romanzi non gli fruttarono quel che sperava. Viveva in condizioni miserevoli. Alcuni Comuni gli assicurarono una pensione di 3.000 lire annue. Nel 1876 accettò il “dono nazionale” e nel 1880 grazie al giureconsulto piacentino e futuro presidente del Senato Giuseppe Manfroni ottenne l’annullamento delle nozze con Giuseppina Raimondi e sposò la provvida compagna Francesca Armosino, dalla quale aveva avuto Rosa, Clelia e Manlio. La sua, sì, fu “una vita inimitabile”.

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L’ETERNITÀ E IL SIMBOLO

L’ETERNITÀ E IL SIMBOLO

P. P. B.

La gloria di colui che tutto move

per I ‘universo penetra, e risplende 

 in una parte più e meno altrove.

La libera muratoria ci consente col simbolo di poter entrare in contatto con una Realtà che sentiamo trascendente e immanente, così tanto ineffabile quanto vicina; la sua sostanza è il Mistero che ci avvolge da dentro e da fuori e tentare di avvicinarci alla sua “comprensione” è il tentativo eroico di poter abbracciare il senso originale e profondo di ciò che lega tra loro l’uomo, l’universo delle cose nel quale siamo e ciò che intuiamo come GADU.

Non è possibile rappresentare tutte le esperienze col pensiero e per questo il metodo libero muratorio si serve dei simboli, dei riti, dei miti, e nel pellegrinaggio dei suoi vari gradi ci dà l’audacia, il coraggio, la forza, ma anche l’umiltà, di voler gettare lo sguardo più in là dell’apparente frammentazione delle cose e di parlare di questa Realtà, o forse è più giusto dire di voler parlare intorno a questa Realtà, che resterà per l’uomo il segreto stesso della sua esistenza e del suo senso.

Così ci pare che attraverso i simboli tutto il mondo si spiritualizzi e che la vita assuma progressivamente l’aspetto di un viaggio a ritroso fino al senso profondo dell’origine comune di tutte le cose e dell’Essere stesso, trasformandosi sempre più consapevolmente da esperienza profana in esperienza del sacro: è come se uno squarcio di verità riuscisse a filtrare dalle fessure del mondo e facesse riemergere ciò che da sempre sappiamo ma custodito nel nostro recondito più profondo, come un ricordo eterno che si risveglia e che riaffiora sulla soglia del Finito.

Perché attraverso i simboli rimettiamo alla luce l’esistenza di una “relazione” con l’infinito, di un legame sentito come un “atto d’amore” originale che supera spontaneamente l’apparente separazione tra tutto ciò che è manifestato e tutto ciò che intuiamo appartenere all’ Assoluto.

L’uomo si sente come una ipostasi dell’unica Realtà che sola essa E; una forma particolare e sempre in gestazione che si è generata in un particolare tempo e spazio dell’Essere infinito ed eterno, che è insieme tempo e spazio sempre nuovo, e che l’intelligenza dell’uomo legge nelle infinite forme delle infinite cose che lo avvolgono.

Questa Realtà esiste ed è in noi, la sentiamo esistere come sentiamo il battito del nostro cuore e che noi siamo appena una delle molteplici forme del suo Spirito che imprime il suo contatto e la sua mediazione nel Finito.

Allora ci pare di riconoscere di far parte da sempre di un unico respiro, di una relazione fraterna tra noi, il nostro di-dentro e le cose del mondo; sentiamo di poter ricomprendere nelle moltitudini delle forme discordanti che ci appaiono reali e presenti nell’intero universo e quindi anche in noi stessi che ne siamo parte, la manifestazione momentanea e nello stesso tempo eterna, il riflesso cangiante, il seme divino di una Energia vitale, potente e sconosciuta ricca di un unico Spirito increato, senza inizio e senza destino, che costituisce tutto.

Ecco che l’essenza e il senso stesso della Natura che ci circonda ci sembra la nostra stessa essenza e lo stesso senso profondo dell ‘esistenza umana, perché questa Realtà non ci è data al di fuori della nostra vita con essa e in essa.

Sento che le cose sono pervase del suo senso, del suo Logos riversato su di noi e dentro di noi nella doppia  natura dell’uomo, che diventa una rappresentazione transitoria del Tutto, allo stesso tempo finita e infinita: l’uomo è insieme l’idea, lo strumento, il luogo e il tempo con il quale e nel quale  l ‘ Assoluto agisce e si manifesta.

E il cammino verso o intorno a questa Realtà è, per me, non una mera astrazione intellettuale o il risultato di uno studio particolare, ma è sentito come un atto ideale di “fede”, un proiettarsi fiducioso verso o un cadere intorno a ciò che sentiamo, convinti che quello che il nostro intelletto tenta di ricostruire è già la risposta a un “qualcosa” che si lascia intelligere e da cui non riusciamo, non possiamo e non vogliamo distaccarci.

Questa fede così ricolma di speranza ci fa sentire tempio e scrigno vivente, manifestazione umana, immagine e simbolo di questa Realtà, custodi del suo Spirito e della Luce che illumina di sé stessa tutte le cose, che risplendono in Essa proprio nella misura del proprio riempimento di Luce e della propria capacità di rifletterne i suoi raggi.

Così la nostra pur momentanea e fragile vita personale è ricompresa in un’unità armonica che scaturisce da questo solo Principio e concorre a mantenere ininterrottamente in vita la Vita di questa Realtà che è così da sempre.

Ecco perché sentiamo questa fede (o fiducia) in questa suprema Realtà non come una fede in un comandamento caduto dall’alto, non in un suggerimento esterno, né sentiamo questa fede (o fedeltà) come una fede nelle credenze di altri o nella ragione dell’uomo, che si ferma impotente davanti ai paradossi della logica e che ha anch’essa, tante volte nel nostro mondo insidioso e ricolmo dell’autorità della scienza, l’aspetto di una fede idolatrata, ma la sentiamo come fede nella nostra spiritualità che avvertiamo come una parte non quantitativa del Mistero e nel nostro aprirci a Esso.

Credere, per me, rappresenta la risposta a ciò che la ragione non riesce a concludere da sola, intendendolo non come un “difetto” momentaneo che potrà trovare una soluzione in un futuro che oggi non c’è nelle magnifiche sorti e progressive dell ‘umana gente, ma come un arricchimento della coscienza che si apre alla speranza mentre interroga incessantemente questo Mistero.

Non credo neppure nei “contenuti” del mio credere, sempre aperto e inconcluso, ma credo in quanto credere appartiene alla natura ineffabile di questa Realtà stessa che ci interpella, che ci chiama a Sé e della quale io stesso mi sento parte con la mia dimensione sostanziale: questo è, per me, il senso di credere in ciò che sento, perché è parte della mia condizione, della mia unicità irripetibile e della libertà del mio essere nell ‘immanenza dell ‘Essere.

Il mistero di questa Realtà, di questo Principio, resta inesauribile al di là di ogni nostra conoscenza oggettiva e soggettiva, perché non è nulla delle cose che abbiamo elaborato o di un qualsivoglia sforzo che abbiamo ideato per definirlo; non è neppure il prodotto stesso delle nostre intuizioni perché resta ciò che il simbolo nasconde col suo velo, resta un “mondo intero” indivisibile che si è incarnato ricongiungendo intimamente le cose stesse dal loro di-dentro e perché altrimenti senza questo intreccio, senza questa interin-dipendenza tra il GADU, il Mondo e l’Uomo, si rischia di dissolverla m un’astrazione della mente o peggio ancora di trasformarla in un concetto, in un emblema, in un segno finito e di celebrarla come fosse un evento straordinario o come fosse un idolo.

Il nome del GADU non è scritto con le lettere dell’uomo e neppure con quelle delle stelle in cielo, perché, come il simbolo, non può essere delimitato come un oggetto che può essere pensato, ma come orizzonte che rende possibile il pensare, l’immaginare, l’intuire.

E in questo Mistero noi cerchiamo la nostra Via, un “testimone” della nostra esistenza che ci dica chi realmente siamo, per non cadere nel vuoto di un enigma insolubile e senza senso o nella resa incondizionata a una vita isolata che attende solo di essere inghiottita nell’annientamento dell ‘entropia, consapevoli invece che la nostra esistenza, la vita che esiste indipendente da noi, l’esserci in un “qualcosa” anziché nulla, il sentire che l’universo è un posto in grado di accogliere il Bene, il Bello, l’Armonia, ci fa sentire legati a una Energia eterna e tenuti per mano da un’ Intelligenza autocosciente che ci sostanzia e che ci fa appartenere al suo stesso logos.

Noi siamo compenetrati in questa Realtà viva, sovrapponendoci alle cose ma senza dominarle, partecipando continuativamente al Tutto e al suo eterno e inesplorabile Progetto senza poter trovare alcun “luogo” esterno, lontano da Esso, dal quale poterlo osservare, cosicché resta velata in noi la sua essenza senza remunerarci mai di alcuna certezza, mentre l’imperscrutabilità del Mistero scuote l’intelletto e le ferite procurate anche per aver strappato una minima conoscenza di questo non-conoscere non ci lasciano in pace.

E siccome non è dato all’uomo di vedere l’Assoluto spogliato del suo velo simbolico, questo velo non diviene un impedimento alla visione della Realtà, ma è la visione stessa della Realtà non deformata dai nostri occhi e resa a noi accessibile senza attraversare la soglia che ci trasfigura: la nostra condizione umana non è quella di risolvere l’enigma del mondo o di trovare la formula del Tutto, ma è l’esperienza, qui e ora, dell’infinita e struggente meraviglia della Realtà che ci alimenta, e che ci fa esistere incarnandosi in noi e nelle cose intorno a noi; è il vivere costantemente al cospetto di questo Mistero lasciandoci trovare liberi di accoglierlo col cuore puro e colmo di meraviglia, pur nella nostra sgualcita e fragile materia.

Riconoscendo le fattezze di questo velo possiamo non considerarci più spettatori del mondo e possiamo scendere finalmente dall’albero della conoscenza e dell’autorità dell’Io per salire quello della Vita, dell’esistenza dell ‘Essere e rimanere nel nostro stesso particolare e vedere senza essere abbagliati dalla luce del Tutto.

Realizzare la nostra natura di messaggeri e di simboli dell’Eternità nel breve tempo del Divenire che ci è concesso: cosi l’immagine terrena e transitoria della Manifestazione, la verità frammentata e umana e la Verità integra ed eterna si somigliano; di più, si uni-sostanziano, si appartengono l’una all ‘altra nello stesso istante, come un’immagine in uno specchio.

Considero queste poche parole solamente un tenue riflesso di quello che mi pare di vedere guardandomi nel mio specchio annerito, senza alcuna certezza e senza alcuna presunzione di darmi una spiegazione convincente o definitiva del mio cammino; né tantomeno di delineare una sorta di personale quanto ingenua visione filosofica dell’esistenza. Vorrei solo che le parole non rimanessero una declinazione del pensiero, ma potessero trasformarsi in carne viva e fossero capaci davvero di toccarmi, come un giorno di sole d’inverno che scalda e sparisce liberandosi in uh irraggiungibile sospiro…

                … talvolta anche un piccolo sole d’inverno sorride luminoso e puro,

benché la primavera sia ancora lontana.

L ‘uomo che pensa si è già incamminato sul ponte che da qualche patte conduce,

forse sulla sponda dell ‘Eden,

forse sull’orlo dell’Abisso.

Egli ha già capito che non possiede nulla su questa sponda.

Dall ‘altra parte non vede niente,

anche se gli sembra un Tutto,

 su questa parte vede tutto,

anche se gli sembra niente.

 E nel cammino,

 questo niente lo sente sempr

senza quel Tutto ove non vede niente.

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