Se Dio è amore, è giustizia, è bontà, perché esiste e
come può esistere il male? Dio non può volere il male, essendo Egli bontà
infinita, ci ha insegnato, fin da bambini, il catechismo cristiano. Allora chi
è che ha voluto il male, « contro » la volontà d’Iddio? Il problema è
formidabile e tremendamente allettante.
Le ipotesi sono due: o esiste una volontà opposta alla
Sua, che Dio non può annientare, oppure è successo qualche cosa che ha dato
origine al potere delle tenebre.
Personalmente sono per la tesi degli opposti e dei
contrari: ogni cosa, in questo mondo, ha il suo contrario e ciò in virtù della
legge dell’armonia e dell’equilibrio. La luce comporta il buio; il bene (o
diversi stadi di bene) implica il male, il non bene, il bene imperfetto. Abbiamo,
cioè, la corruzione del bene, come di tutte le cose: la vecchiaia corrode il
più sano, il più estetico corpo.
E questa la legge dell’avvicendamento, del nascere e
del perire: del nascere che « vuole » il perire, e tale legge l’ha determinata
Dio.
Difatti, per assurdo, potremo dire che la morte, la
nostra breve esistenza terrena, è un ‘altra prova dell’esistenza di Dio.
Orbene, se il disfacimento è proprio delle cose « create » (che hanno un
termine), l’uomo ne è soggetto e vittima.
Ma il male si è manifestato prima della creazione del
mondo e dell’uomo, mi si potrà opporre, tra le creature ben superiori all’uomo
e vicinissime a Dio: tra gli angioli, per altro « creati pure da Dio » . E
dunque possibile che la creazione divina abbia in se qualche cosa di
imperfetto? Eppure nulla nasce dal nulla, se Dio non vuole. E allora?
Allora c’è una sola risposta: Dio ha permesso che le
Sue creature si manifestassero come volevano, lasciandole cioè « libere » ,
sovrane di decidere la loro condotta. A tale mirabile omaggio alla
responsabilità e alle possibilità loro, al libero arbitrio, le creature hanno
malamente risposto, offendendo il Creatore, dapprima con gli angioli ribelli, e
poi con la disubbidienza dell’uomo. Il peccato della superbia e della vanità,
ha rovinato gli uni e gli altri : così è nato il male, per azione e
responsabilità di creature libere di commetterlo, dalla insubordinazione alla
volontà divina, dalla scalata al cielo vanamente e ciecamente tentata da coloro
che vi furono spinti dall’ambizione di primeggiare.
Da allora il
male esiste, è implicito nella natura umana e nel mondo (anche le stelle sono
corruttibili e la corruttibilità non porta certo alla incorruttibilità, come
aveva opinato troppo ottimisticamente S. Agostino, ma alla distruzione totale,
all’annientamento, al nulla) e durerà finché durerà l’uomo e durerà il creato,
in quanto la situazione di peccato, che è venuta a determinarsi per la disobbedienza
alla legge di Dio, non può essere risolta se non con il ritorno, da Lui «
voluto » , dell’uomo a Dio, con ciò sconfiggendo il male e lavando l’impronta
del peccato per azione stessa del peccatore.
Ringraziamo la misericordia di Dio, che ci ha concesso
tale via d’uscita, e cioè di « individualmente » salvarci, seguendo la volontà
buona, diretta a realizzare il bene e quindi a renderci degni di rientrare nel
regno dei perfetti.
L’Ente crea l’esistente con un atto d’amore, e l’esistente (superata la
prova terrena) ritorna all’Ente per virtù propria
Avvertiva il Lambruschini che le verità divine sono
eterne, ma che il modo di esprimerle e di applicarle varia a seconda dei tempi,
dei costumi, della civiltà e del modo di intendere delle genti. Perciò il
nostro linguaggio, pur trattando e sostenendo gli stessi principi affermati,
poniamo, da Dante, sarà diverso dal suo. Ma quid est veritas?
Rispondiamo, semplicemente: « la verità è ciò che noi
sappiamo ». Non si può conoscere verità oltre il limite delle nostre
conoscenze, della nostra cultura, della nostra « scienza ». La verità è
conoscenza trasformata in coscienza della verità e quindi in sentimento; può
essere anche ideale nato sempre da un acquisto intellettuale, da una
cognizione. Da niente, nasce niente: dal Tutto, nasce il tutto (da Dio è nato
l’Universo). Più si è dotati di sapere e più verità (e meglio) si possiedono.
L’occhio umano che indaga il mistero, guarda nel vuoto: non è possibile
scorgere il nulla e vedere qualche cosa dove non c’è nulla. L’orizzonte
dell’inesplorato è un grande cerchio, che racchiude un segreto che esiste e che
« io » voglio scoprire: ecco la ricerca scientifica, la ricerca della verità
più lontana e profonda, più alta… Perché c’è questo di strano nella verità:
che essa è infinita e più ta sondi e più ti dimostra e si rivela la sua
infinita. Pertanto essa risponde a tutte le metrature del nostro cervello: vi è
la verità cosiddetta popolare, e cioè alla portala dei più; e vi è la verità
scientifica, la verità sublime, la verità divina: questa è la scala, la grande
gamma della verità.
Di conseguenza hanno ragione gli Idealisti: la conoscenza
(e quindi, aggiungiamo, la verità perché tale appare a ciascuno di noi ciò che
conosciamo) è « soggettiva » e – aggiungiamo ancora – relativa alle nostre
cognizioni. Perciò raccomandiamo a tutti di non fermarsi mai al primo o ai
primi piani, ma di approfondire sempre ciò che si apprende, il fardello della
nostra esperienza. Chi più pensa e riflette su quanto sa e vede, costui sarà
sempre il più sicuro padrone di sé, ossia dei suoi pensieri, delle sue
opinioni; e, quindi, un uomo « più libero » , poiché il grado di libertà di cui
godiamo, è in relazione alle nostre capacità di usufruirne.
La verità, per altro, è un dono d’Iddio elargito agli
uomini che, da soli, sarebbero stati insufficienti a scoprirla, ma che, posti
su tale via e bramosi, per virtù dell’intima loro natura, di tale cibo,
febbrilmente lo cercano. Di qui sorge la constatazione che l’uomo, per nascita,
non possiede che la possibilità di rifarsi angelo: altro non possiede. La
meravigliosa ed irresistibile spinta a migliorarci, a superarci, a
trascenderci, altro non significa se non l’ascolto dell’invito divino.
Non siamo che poco e possiamo essere
tutto: ecco l’incommensurabile destino dell’uomo. Iddio l’ha creato perfetto,
come perfetto è tutto ciò che esce dalle Sue mani; annientatosi con il peccato,
l’uomo ha ancora avuto un’offerta da Dio: quella di poter risorgere. Chi non
l’accetta, non sa quel che si fa, ma anche per questi infelici Dio ha offerto la via del
conforto e della salvezza nella preghiera, nel sacrificio delle anime buone.
Così Dio ci ha dato da conquistare la verità, la libertà,
la santità. Ripetiamo, con Cartesio, che la verità non può essere stata data ad
esseri incerti e dubbiosi, se non da Chi la possiede in sommo grado.
L’uomo è perfettibile, ecco la inesauribile consolazione,
di fronte alle nostre miserie. E vero che fra il possesso della verità e la
possibilità e l’anelito a conquistarla, si sarebbe dovuto scegliere la seconda
condizione, perché essa
implica azione, sforzo, impegno e cioè « il
merito » dell’uomo.
Iddio però ci ha tolto d’imbarazzo anticipando la nostra
volontà, la quale, per altro, ancorché libera, è indubbiamente consigliata
dalla coscienza.
E qui che Dio ha scritto la Sua legge: fortunato chi l
‘avverte, l’ascolta, adegua ad essa la propria condotta! Nessuno può negare ciò
che S. Paolo ha così brillantemente ed energicamente affermato e che il
Lambruschini pone a fondamento di tutto il sistema dell’educazione dell’uomo:
la voce della verità risuona nella coscienza umana. L’uomo può ben tapparsi le
orecchie, frastornarsi il cuore: con un ritmo ed una insistenza implacabili, quella
voce torna, di tanto in tanto e quanto meno forse l’aspettiamo, a parlare: voce
di consiglio, di ammonimento, di richiamo, di guida: voce di rimorso, di
pentimento, di perdono; voce di pace, di serenità: beato chi la intende!
Pertanto Dio è in noi, nel nostro essere, nel nostro
sentire, nel nostro volere: Egli è in noi come Verità. Che altro attendiamo a
scoprirla e ad approfondirla sempre di più, per sempre di più divinizzarci?
Ecco l’importanza e il perché dell’invito di S. Agostino: « Noli foras ire: in
te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam
mutabilem inveneris,’trascende et te ipsum » .
Noli foras ire: in noi abbiamo tutto, perché abbiamo la
possibilità di attingere Dio. Interiorizzarci, leggere dentro di noi: ecco il
mezzo; per superare la nostra natura o involucro carnale: ecco il fine. Il
nostro corpo è un tempio, ove brilla la luce del Santissimo; sta a noi farla
brillare di più, perché illumini meglio il nostro
cammino,
Spinoza
sbagliava: Dio non è natura, ma spirito creatore della natura; è forza, è
anima, è vita, è ordine, è legge, è luce del creato: non è il creato; è il
signore dell’Universo, in cui eccelle questo prodigio che è l’uomo; Egli vive
nell’uomo e nell’universo, ma non è né l’uomo, né l’universo: Dio è Dio; se
altrimenti fosse paragonabile a qualche cosa, a qualunque cosa, non sarebbe più
Dio perché non sarebbe più l’Unico.
Non c’è bisogno di appellarsi a ripieghi, caro Berkeley,
come quello della produzione delle idee, da parte di Dio, per spiriti
percipienti, per dimostrare la Sua esistenza: l’esistenza della verità,
dell’amore, della libertà, della santità, del bene, comprovano l’esistenza di
Dio, fonte di ogni virtù.
Piuttosto c’è da esaminare l’affermazione di Leibniz e cioè che Iddio ci
ha posti nel migliore dei mondi possibili. Tale ottimismo metafisico della
ragione umana, implica l’ammissione e il riconoscimento del mate ne! mondo e
quindi il problema dell’origine del male e della sua natura, problema che ha
fatto trepidare spiriti colossali
Naturalmente sorge a questo punto naturale e ovvia la
domanda: se ciò è, gli è perché Dio così ha voluto: ora, perché Dio ha voluto
così?
Per rispondere in modo esauriente, occorrerebbe conoscere
Dio nella Sua essenza, il che è manifestamente vietato all’uomo, il cui limitato,
per quanto eccelso intelletto, non arriva certo a « capere » , a comprendere
l’immensità, l’infinità, l’onniscienza, l’ eternità di Dio.
Però a un uomo, creatura intelligente, è sempre permesso
di opinare: pertanto mi pongo un’ altra demanda, limitandomi a considerare gli
effetti della potenza divina: perché Dio ha creato l’universo? Aveva dunque
Lui, infinito, bisogno di qualche cosa che cominciasse dalle Sue mani e finisse
per volontà Sua? Aveva Egli (che non può sentire necessità di qualche cosa) bisogno
di manifestarsi con la meraviglia della creazione, nella quale si vede – come
osservo Galileo – ad ogni piè sospinto, la mano dell’Artista?
Respinto senz’altro tale pregiudizio, in quanto Dio è
pensiero che contempla se stesso, né altro di superiore a Lui potendo
contemplare, perché non esiste, né altro di interiore appunto perché non Gli
sarebbe pari, ne deriva che le cause della creazione debbono essere ricercate
nella creazione stessa e precisamente nell’essere ch’Egli voile più vicino a
Lui, formandolo a Sua immagine e somiglianza e incarnando come Lui il Suo
Figliuolo: l’uomo. Aveva bisogno, « l ‘uomo » , del mondo, così com’è ora? Dopo
il peccato originale certamente, appunto per poter tornare a Dio; prima del
peccato di origine, quando la perfetta coppia umana di Adamo ed Eva viveva
serena, per l’ eternità, nel terrestre Paradiso, ovviamente no. Si può allora
pensare che Dio, nella Sua onniscienza, già prevedendo la caduta della Sua
creatura, abbia vol uto predisporre il mezzo, l’ambiente della sua espiazione e
redenzione; oppure che il mondo stesso fosse un Paradiso eterno, popolato di
belve mansuete e parlanti, il soggiorno ideale della creatura più amata da Dio,
e che essa devasterà con il primo peccato del giorno primo del mondo nuovo, che
costringe Dio a creare il tempo, la vecchiaia, la morte secondo natura, e a
permettere tutti i malanni che giustizia lega al peccato, e a offrire tutte le
virtù necessarie alla purificazione e all’angelicazione dell’uomo.
Come e checché sia, il fatto è che l’amore di Dio si
espresse in un atto di carità, che poteva essere e non essere, ma che fu perché
inevitabilmente proprio della grazia Sua, che « volle » avere l’oggetto di
tanto Amore. Senza l’uomo, a chi e come poteva Iddio manifestare la Sua carità?
Pertanto l’uomo ha questo orgoglio: di
essere stato necessario all’amore divino (più forte di Dio: è difatti il Suo
amore che fa « muovere » l’universo: « L’amor che muove il sole e l’altre stelle
»); e questa dignità: di essere figli di Dio; e questa nobiltà: che Dio ha
bisogno di lui per affermare l’eccellenza della creazione, per interpretare in
questo mondo la Sua volontà.
Che esistano uno o più mondi abitati, ciò non importa: la
verità (o ipotesi) suddetta rimane valida all’infinito, come, d’ altronde, rimane
valido l’assioma da cui siamo partiti: l ‘ esistenza di Dio confermata
dall’esistenza stessa del mondo e dell’uomo e dal postulato kantiano della
ragione umana sull’eternità dell’anima e sul Giudice supremo, affinché la bontà
abbia il giusto premio nella felicita.
Ciò detto, il problema dell’esistenza e quello
dell’essere dell’uomo in particolare, van posti nel più vasto problema della «
realtà di fatto », frutto della « volontà di Dio » . Ciò che è, è: nessuna
forza umana può modificare tale realtà. Noi siamo ciò che siamo, la realtà è
ciò che è, per volontà superiore alla nostra e
nessuno può smentire, né mutare, la realtà delle
cose che esistono. Iddio ci ha dato la realtà e i mezzi per avvertirla. Siccome
tale constatazione risulta quindi dai mezzi e dai poteri stessi dell’uomo, essa
è « valida per tutti » .
Nella realtà di pensiero si possono immaginare e
sognare (e accettarli come novelli Don Chisciotte) anche mondi antelucani e
tutte le fisime metafisiche che si vogliono; ciò non è permesso al buon senso,
figlio della economia psichica comune. Quanto appare vero ad un pazzo, è
certamente una realtà per lui, ma non è « la realtà » , frutto dell’assenso
universale. Noi difatti diciamo rosso il colore di un oggetto, che da secoli è
unanimemente definito tale, e se sognassimo di chiamare verde il rosso, il
mondo ci accuserebbe di daltonismo e a giusta ragione. Perciò la misura della verità
è – per quanto riguarda le cose e i rapporti umani – il consenso generale.
Tutto è posto su di queste basi e anche i tribunali condannano (o assolvono) in
relazione a quanto asseriscono i testimoni.
Ne discende che la realtà della cosa in sé, la
realtà in se stessa e per se stessa, non è affatto un noumeno, bensì un
fenomeno, che vuole la constatazione non di uno o di tre uomini, ma « dell
‘uomo » e cioè di « tutti gli uomini » . A pensiero comune, corrisponde realtà
di ratio comune, certa, anche perché non potrebbe essere contraddetta da altra
realtà o non accertabile (in quanto esistente solo nel pensiero), o diversa.
La realtà come concetto è il
segno astratto di una evidenza comune a molti oggetti, alla guisa stessa della
bellezza, della vecchiaia, della forza e non vale quindi la pena di spendere
una vita a sondare l’inesistente. Il pensiero che crea la realtà, è puro giuoco
di parole: il pensiero « stampa, fotografa » la realtà e difatti nessuno può
pensare cose o alcunché che sia fuori e comunque che non siano ancora entrati
nella sua esperienza, nella sua sensazione. Si può almanaccare con costruzioni immaginarie,
mostruose o mirifiche, artista o scienziato che si sia, ma il materiale di tale
costruzione è preso, inevitabilmente, dalla realtà vissuta.
La ragione è mezzo di ricerca (e
siamo con il Dewey), non già realtà. Hegel confonde l’azione con la sostanza di
essa, appunto identificando la razionalità con la realtà.
L’anticorpo o antimateria non potrebbe forse essere
di natura spirituale, la forza di coesione dei corpi, l’elemento indispensablle
per dare una fisionomia, un ordine, un posto alla materia, differenziandola
nella grandissima varietà d’elle cose, dal vento all’acqua al sasso alla
carne… ? E se così è, non vi pare che senza lo spirito « anche » la vita
terrena sarebbe impossibile?
Lo spirito è dunque l’elemento che ci « permette »
di vivere, di « essere » qualcuno, qualcosa; e di continuare ad esistere materialmente
per un « certo tempo » , per poi ritornare nella dissolvenza dell’antimateria?
Non potrebbe essere questa, forse, l’onda del creato e dell’Umanità, sul cui
flutti di luce galleggiano vari vascelli, destinati a ridiventare spiriti,
attratti, catalizzati da una forza superiore, che agisce come calamita centrale
su tutto l’Universo, come centro di gravità di tutto il creato? Perché negare a
priori tale flusso perenne, voluto da una « volontà » certamente superiore alla
nostra: quella dell’Essere eterno, che ha creato altri esseri non eterni, ma
che eterni dureranno in Lui?
« Sia fatta la Tua volontà, come m cielo, così
in terra » , ci insegna a pregare Gesù; la volontà del Padre, che è tale
appunto in virtù del Suo spirito che aleggia nei Suoi figli, parti di Lui,
figli della luce. Vivere non vale essere: essere è compartecipare pure della
natura divina che è in noi, il che è manifestamente riservato solo agli uomini
e – in particolare – a quei fortunati che vivono in Dio. Essere, significa
essere in Dio. L’idea stessa di Dio non può venire all ‘uomo (essere
consapevole della gerarchia dei valori) se non dalla propria natura. La
constatazione delle forze che agiscono nell’universo (e, più tardi, del loro
ordine e
della struttura del creato), fecero
pensare e adorare quella Volontà che le governa. Sicché si arriva a dire, con
Galileo, che la natura rispecchia la mano, lo stile dell’Autore di essa, e che
scoprendone leggi e segreti ci si avvicina sempre di più a cogliere la
meravigliosa onnipotenza e bellezza di Dio (senza il Quale noi siamo nulla, non
bellezza, non scienza, non verità: ossia, non siamo).
La dissolvenza del creato (e delle creature) nel «
nulla eterno » , non ha significato: il nulla non può essere né eterno, né
transeunte, perché non esiste in quanto non occupa spazio, né impiega tempo, e
ciò che non esiste non ha né presente, ne futuro.
Ritornerei alle monadi di Leibniz, in un senso più
ampio: la monade è di natura spirituale non perché indivisibile, ma perché la
materia è sinolo di corpo e di anima (spirito, c’è l’eterno.
Dio pensiero
pensante, pensiero che pensa se stesso, non è forse una limitazione posta, dal
linguaggio degli uomini, all ‘infinita onnipotenza del Signore? È pacifico che
Dio sia di più di un pensiero pensante, ossia di un fatto: è più ortodosso
dirLo amore, verità, vita, ossia definirlo con attributi che non hanno confini.
Il gentiliano vicolo cieco va bene per l’uomo, caduto sempre, al termine del
proprio opinare, in un vicolo cieco. Ciò che abbiamo di soprannaturale in noi,
l’intendere, il volere fini celestiali, è frutto di emanazione particolare,
dono speciale di Dio, perché l’uomo volesse volere l ‘eterno in Lui, la
felicita degli Angioli. Tutti gli altri esseri viventi non bramano ciò, «
perché non lo possono » . Solo il pensiero dell’uomo solca l’inesplorato,
l’invisibile e raggiunge, anche nel mondo della materia, spazi e corpi non
ancora « percepiti » dal nostro essere.
Il pensiero è dunque un elemento dell’eterno e
dell’infinito, il veicolo che conduce al mare magno degli spiriti. L’esistente
vuol tornar all ‘Ente e trascina con se la grave mole della materia, legata al
mondo, al terrestre. Di qui la lotta fra spirito (che ascende) e materia (che
pesa), ben individuata da Kant; di qui la necessita della purificazione,
santificazione, in una parola della spiritualizzazione affermata dalle più
importanti religioni; della ascesi, della metempsicosi o rinascita di ogni
momento, nella nostra unica vita terrena; della catarsi, per ritornare all’idea
pura, perfetta, del mondo – diremo – iperuranio.
Dio è dunque pensiero puro? Penso di si, e non solo
perché senza materia, ossia puro spirito, ma perché infinito.
Il Dewey ha ragione nell’averci dato solo le regole per ben vivere e
agire in questo mondo: con una filosofia come la sua, si possono esplorare
tutti gli aspetti del mondo terreno, ma non si va oltre, nel trascendente; egli
fu coerente, onesto e leale verso se stesso (il proprio pensiero) e verso chi
non la pensa come lui. Se vi basta di viver bene in questo mondo (70 – 90 anni)
accontentatevi del Dewey; qualora invece vi turbi il mistero dell’al di là,
della vita eterna, allora rivolgetevi a Dio e con il solo mezzo che abbiamo a
nostra disposizione: la Sua parola (e, cioè, quel « pensiero » di cui
partecipiamo per dono divino, l’alito, lo spirito
Vivere ed essere sono sinonimi: se vivo,
ovviamente penso e voglio e amo, Dire penso, ergo sono, significa dire la
stessa cosa. Cartesio non solo non ci ha dato la prova della nostra esistenza;
non solo l’uomo non ha scienza, come osserva giustamente il Vico (ossia,
conoscenza delle cause) della sua esistenza, ma neppure coscienza di essa, in
quanto dire che due cose sono eguali o dipendenti l’una dall’altra o implicite
l’ una nell’altra, non equivale ad afferrare uno stato d’animo (coscienza)
relativo all’equivalenza dei due dati.
Neppure l’innatismo dell’idea dell’Ente può essere
ammesso, quale intuito della esistenza (Rosmini); e neppure l’intuito
dell’intuito (Gioberti), poiché tutto ciò comporta riferire ad una idea » già
conosciuta e ammessa (ossia ammessa a priori), una priorità che niente riesce a
giustificare.
Il « noi siamo » non è una scoperta, ma una
constatazione, che nasce dalla realtà del «fatto vita » , vita di cose (corpo)
e vita di spirito (pensiero). È dalla morte, invece, che dobbiamo muovere:
morte delle cose o anche morte dello spirito? Chi crea le cose (natura?) e chi
lo spirito? La natura (fisionomia, forma) ci differenzia, mentre lo spirito
(pensiero) ci unisce ed eguaglia.
Il pensiero però è di tutti, anche
dei pazzi e degli anormali; anche degli animali. Non è dunque « naturalmente »
qualche cosa di divino (il delinquente « pensa » il male), ma può diventarlo
secondo volontà, coscienza dei fini e cioè degli ideali a cui indirizzare il
volere, dall’essere psico-fisico passando al dover essere e cioè all’essere
morale, oppure all’essere estetico, spirituale, ecc. ecc.
Esistono dunque facoltà che non
sono seconde neppure al pensiero, ma che non potrebbero esistere od operare
senza di esso; e vi è l’intelligenza, che è una virtù del pensiero, una
espressione o manifestazione di esso, e che differenzia gli uomini fra gli
uomini, gli animali fra gli animali e l’uomo dall’animale: l’intelligenza è
graduata, come ad esempio la memoria (estensione della memoria nel passato,
adesione al presente, previsione del futuro).
Il pensiero è di tutti, ma le sue
singolarità differiscono in ognuno: non possiamo dunque porlo a base e prova
della nostra esistenza più della forza o dell’astuzia, ecc. ecc. L’ homo
sapiens e l’homo faber, l’homo communis e l ‘ homo originalis, l’uomo politico
e l’uomo economico e quant’altre singolarità ci vengono in mente, non ci danno
la spiegazione della nostra esistenza, in quanto sono singolarità del tutto: è
questo tutto che occorre considerare, ed esso si chiama « spirito vitale » .
Esso ci porta alla vita quando si unisce ai corpi animali; la morte lo
allontana dal corpo.
Può il corpo darlo a se stesso? Se si, perché gli
permette il distacco nell’ora ultima?
Comune a tutti gli esseri viventi, dal più microscopico protoplasma
all’uomo, lo spirito vitale è l’elemento primo dell’esistenza. Gli altri
elementi sono complementari e a quello subordinati. Vivono pure i pazzi e gli
anormali, in cui il cervello cessa di funzionare o funziona male, ma quando lo
spirito vitale, l’anima, non agisce più, anche la più formidabile delle
intelligenze, il pensiero più robusto arrestano il loro corso, fermano i loro
palpiti
Gustavo Ram, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia-Palazzo
Giustiniani
Divenire uomo e un’arte. affermava con convinzione
Novalis nei suoi Frammenti antropologici. La Massoneria Universale, scuola che
inizia ai grandi misteri della vita, lo sa bene. E da almeno tre secoli lavora
instancabilmente a testimoniare la pratica di quest’atte, che nessuno è in
grado di insegnare poiché si può imparare solo individualmente. Osservando,
intuendo, seguendo negli altri, nel mondo, i segni di una misteriosa orditura
che, come faceva dall’alba al tramonto la mitica Penelope, va pazientemente
ricostruita come una mappa in grado di condurci a battere, senza timore di
perdervisi, i difficili ed accidentati sentieri della vita. Proprio per
sviluppare quest’arte il massone ha bisogno, non solo di penetrare nella
propria, ma anche nella altrui dimensione interiore. Ha bisogno, come l’aria,
del dialogo con gli altri, per apprendere ma anche per contribuire, col proprio
bagaglio di esperienze, di conoscenze, di saperi, maturato appunto in una vita
illuminata dalla luce della Tradizione, al loro benessere. In questo modo, da
muratore esperto nell’arte della edificazione, concorre, recando il proprio
simbolico mattone, a costruire il grande Tempio sotto la cui volta celeste si
riunirà l’umanità tutta. Ovviamente le modalità di questo lavoro cambiano coi
tempi.
Ed in tempi di comunicazione di massa, di villaggio
globale, di incontri e di scontri di culture anche la Massoneria non poteva
fare a meno di scegliere strade nuove per attualizzare la propria naturale
vocazione al dialogo. Il Forum dedicato alla complessa e delicata tematica dei
Valori Universali si inquadra esattamente in questo ambito. E la chiamata al
lavoro di tutti i Fratelli non solo perché esibiscano, con la propria
testimonianza, la profondità dei valori di cui sempre la Massoneria si è fatta
portatrice, come la tolleranza, la comprensione dell’altro da sé, la difesa
intransigente della dignità dell’uomo, ma perché facciano molto di più. Si
confrontino, a viso aperto, e senza alcuna reticenza o timore, col così detto
mondo profano, sviluppando coram populo quella
loro propensione al dialogo con lo stesso metodo del confronto, aperto e leale,
tipico del lavoro di Loggia. Tanto più importante appare questa operazione dal
momento che il tema affrontato si presenta, considerati i travagli che
affliggono la nostra vecchia e cara Terra, sicuramente utile, oltre che, sul
piano intellettuale ed umano, straordinariamente stimolante.
E mi fa particolarmente piacere che tutto questo sia
maturato in una terra, la Toscana, nella quale è sorta la prima Loggia
massonica — che vide la luce nella, per I ‘epoca, tollerante Firenze nel 1731
lo stesso anno in cui a L’Aja veniva iniziato Francesco Stefano di Lorena,
futuro Granduca di Toscana — e dove tuttora opera, nel senso massonico che
questa parola possiede, la più numerosa famiglia di liberi muratori del nostro
Paese. Per di più questo Forum sui valori, che non si limiterà alle sole
problematiche delle Nazioni Unite e della loro (possibile ed auspicabile) Ritorna
ma toccherà anche, in successive fasi, le identità religiose e culturali,
nonché l’identità terrestre, cade in concomitanza con una ricorrenza quanto mai
carica di significati per noi Liberi Muratori. Si celebra, infatti, quest’anno
il secondo centenario della fondazione del Grande Oriente d’Italia. che ebbe
come suo Gran Maestro Eugenio de
Beauharnais, viceré d’ Italia e sodale di
Napoleone Bonaparte. Una occasione imperdibile per mostrare il vero volto di
una Massoneria che, ancora una volta, sa stare al passo coi tempi, una
Massoneria che è, ieri come oggi, progettualità e azione al servizio dell’uomo,
al di là di ogni frontiera, oltre ogni angusta limitazione. Proprio per questo,
proprio nella consapevolezza dello straordinario “facere ” al quale
le Logge ed ogni singolo Fratello vengono ora chiamati, sarebbe oltremodo
significativo se, al termine della sessione di questo primo Forum, scaturisse,
per mano di coloro che parteciperanno ai lavori, massoni o profani, ma comunque
tutti uomini animati dalla buona volontà del bene operare, un documento di
intenti da mettere a disposizione di altri uomini di buona volontà che, come
noi. intendono agire molto semplicemente per la costruzione di un mondo
migliore. Uomini che non possiedono ovviamente la verità, uomini come noi
“dalle granitiche incertezze”. ma proprio per questo più autentici e
credibili.
Si tratterà di un primo contributo che, auspichevolmente, potrà.
dovrà innescare un dialogo aperto a tutte le voci diverse, secondo il
tradizionale metodo massonico della ricerca condotta, come recita il nostro
rituale, in piena libertà di pensiero da uomini di fede religiosa, di credo
politico, di condizione sociale diversa, ma animati dal forte spirito dei
costruttori. Il nostro è un piccolo ma non unico passo. Altri ne seguiranno,
perché il cammino da percorrere è lungo e la meta, come sanno bene gli iniziati,
sfugge di continuo, specialmente quando sembra più che mai a portata di mano.
Ci piacerebbe comunque che. iniziative come queste, ed altre che lievitano e
stanno lievitando sotto l’azione potente della fiamma di una antica e nobile
Tradizione, contribuissero alla realizzazione di un grande sogno che cova nel
cuore dei liberi muratori: quello di consentire alla Massoneria universale, di
testimoniare, all ‘interno delle Nazioni Unite, nel consesso dei popoli della
terra, nato e formato dalla volontà di grandi liberi muratori quali furono il
Fratello Winston Churchill ed il Fratello Franklin Delano Roosevelt, i suoi
grandi valori quali la liberazione dal flagello della guerra; la fede nei
diritti fondamentali di ogni individuo, nella dignità e nel valore della
persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne; la
giustizia, il progresso sociale, la libertà di tutti; la tolleranza e la pace.
E questa per noi l’arte della vita, o Arte Reale, che esprime la nostra
condizione di uomini di desiderio impegnati a lavorare senza sosta per onorare
I ‘impegno preso quando varcammo, per la prima volta, le soglie del Tempio.
Al Quirinale Vittorio
Emanuele II accoglie Garibaldi, presente l’Aiutante di Campo del Re, Giacomo
Medici del Vascello, già comandante del 2° Reggimento dei Cacciatori delle
Alpi.
Pare che questi editoriali abbiano ventiquattro lettori. Uno
in meno di quanti ne contavano i Promessi sposi di Alessandro
Manzoni. Forse perché si occupano di temi tristi: il passato che non passa, il
presente che angoscia, il buio pesto del futuro. Per di più sull’Arno
l’editorialista va per questioni di “lingua”, sì, ma solo quella che gusta una
succulenta “fiorentina”. Pecca di gola (gastrimarghìa), uno dei sette vizi
capitali (una volta erano otto). Orbene, accade che un paio dei ventiquattro
lettori, sorpresi di scoprire che, con tutto quel che ebbe da fare, Garibaldi
abbia trovato anche il tempo di scrivere romanzi, hanno chiesto di saperne di
più. In effetti il nome del Generale non compare nei repertori dei
letterati famosi. Forse perché egli disse chiaro e tondo che, posata la spada,
impugnò la penna per continuare la sua “missione”. Scoprì anche il gioco degli
scrittori che si dichiarano devoti esclusivamente alle muse ma controllano ogni
giorno se arrivano i sempre magri diritti d’autore.
Ricordiamo, allora, in via preliminare,
che Garibaldi scrisse quattro romanzi: “Cantoni il volontario”, “Clelia, il
governo dei preti”, “I Mille” e “Manlio”. Il primo, scritto in memoria del
forlivese Raffaele Cantoni caduto nella sfortunata battaglia di Mentana (1867),
è poco noto. Ebbe una prima edizione nel 1870, un’altra nel 1873. Finì in un
cantone. Ristampato in poche neglette copie, è disponibile gratuitamente in
internet. Modesto beneficio Garibaldi trasse dal “Clelia” e dai “Mille”.
“Manlio” rimase inedito.
Tornò allora a occuparsi di
“politica”. Sulla fine della vita, affaticato dagli acciacchi ma sempre vigile,
ammonì che occorreva «governare meglio o cadere». Dall’affiliazione alla
Giovine Italia all’impresa dei Mille, la sua stella polare fu Italia unita,
indipendente, libera. Già in Sudamerica insegnava «Libertad para todos y
si no es para todos no es libertad» fu il suo motto. Per arrivarci bisognava
organizzarsi.
Al segretario della Società nazionale,
Giuseppe La Farina, all’inizio del decisivo 1859 Garibaldi ripeté che «dovendo
promuovere movimenti di popolo, sarebbe bene cominciare con qualche cosa di
organizzato per poter dirigere la corrente come si deve». Non era più tempo di
improvvisazioni né, soprattutto, di indulgere alle «cose mazzinesche», alle
«suggestioni che potrebbero venirci da quei di Londra», alle «commedie che
Mazzini chiama rivoluzioni». «Noi non dobbiamo esser partito – ribadì invece
Garibaldi ad Agostino Bertani il 13 dicembre 1859 –, ma dominare i partiti
tutti.». Dopo l’armistizio di Villafranca (luglio 1859) non rimise in
discussione gli obiettivi ultimi, ma scelse la sua via. «A Vostra Maestà –
scrisse a Vittorio Emanuele – è nota l’alta stima e l’amore che vi porto; ma la
presente condizione in Italia non mi concede d’ubbidirvi, come sarebbe mio
desiderio. Chiamato dai popoli mi astenni fino a quando mi fu possibile; ma se
ora, in onta di tutte le chiamate che mi arrivano, indugiassi, verrei meno ai
miei doveri e metterei in pericolo la santa causa dell’Italia. Permettetemi,
quindi, Sire, che questa volta vi disubbidisca. Appena avrò adempiuto il mio
assunto liberando i popoli da un giogo aborrito, deporrò la mia spada ai Vostri
piedi e vi ubbidirò fino alla fine dei miei giorni.»
Mantenne la promessa, ma a modo suo. Dopo
la proclamazione del Regno (1861) Garibaldi rimase condizionato dal mancato
compimento dell’unità. La necessità di congiungere all’Italia Roma, Venezia e
Trento continuò a imporgli l’azione, senza però cedere alla faziosità dei
“rivoluzionari” dilettanti. Fu lui a professare il programma cavouriano di
governare il Mezzogiorno senza gli stati d’assedio e di farne anzi la
piattaforma per mostrare la validità del liberalismo italiano. «Italia e
Vittorio Emanuele, ecco la nostra repubblica, ecco il voto delle moltitudini»
fu il suo programma.
Col 1870, ormai definitiva la rottura con
Mazzini, Garibaldi cominciò a insistere più esplicitamente sul rinnovamento
delle istituzioni: non per mutar la monarchia in repubblica, ma per introdurre
correttivi democratici nello Stato e nella condotta dell’amministrazione. «Che
fa l’Italia? – s’interrogava nella primavera del 1873 – Non accenneremo ai
miserabili suoi governanti già condannati dal disgusto universale.» Sotto
accusa erano invece «Massoni, Mazziniani, Internazionalisti […] egualmente
fautori dell’indolenza democratica […] e quindi del trionfo effimero ma reale
dell’oppressione e della menzogna. Invano si chiamarono a conciliazione le parti
diverse della democrazia». Denunciò il “tarlo” della discordia, del
dottrinarismo. La Sinistra doveva cercare in se stessa le ragioni della sua
debolezza politica e trovarvi rimedio senza indulgere ad addebitarla a speciale
malizia degli avversari. “Predicò” per formare il «fascio» delle «associazioni
oneste», «la Massoneria, la Mazzineria, la fratellanza artigiana, le società
d’operai, di reduci, Internazionali fasci operai, ecc.». Per sgombrare il campo
almeno da un equivoco, negò l’esistenza di «garibaldini». I suoi seguaci
dovevano sentirsi e dichiararsi solo e sempre “italiani”.
Sin dal 1870, col memoriale “Due parole di
storia”, Garibaldi tracciò lo spartiacque tra il suo gradualismo e
l’avventurismo di altri, incompatibile con le prospettive di crescita
democratica aperte dall’unificazione nazionale: «Io ho spinto i miei
concittadini a delle imprese temerarie qualche volta, ma me le perdonino […].
Comunque, noi non vogliamo delle Rivoluzioni-miserie. Frattanto, i miei
concittadini si preparino a temprar l’animo e il corpo, a mostrar che l’Italia
facendo farà davvero […]. Ripeto: aspettare l’ora. Non far rivoluzioni da farci
beffeggiare». Contro i seminatori di discordie, i provocatori di guerre civili,
Garibaldi rivendicò: «Io ho sempre inteso di appartenere alla Nazione
Italiana.»
Conscio della necessità di non isolare il
“movimento” dalle componenti più caute del liberalismo, spiegò che i contrasti
dovevano rimanere interni alla “famiglia”. Ampliamento del diritto di voto,
eliminazione delle imposte indirette, dei dazi sui consumi, della tassa sulla
macinazione e sul sale, da sostituire con un’imposta diretta e progressiva,
abolizione della pena di morte, emancipazione femminile, interventi a favore
delle classi e delle regioni più povere furono il terreno d’incontro tra
Garibaldi, le diverse componenti della democrazia radicale e la nuova
generazione di uomini politici, orientata da suoi antichi e fedeli seguaci come
Aurelio Saffi, con il quale aveva condiviso l’epopea della Repubblica romana
del 1849.
Poiché sulla sua figura e sul suo pensiero
si sono accumulate dicerie infondate è bene fissare alcuni punti fermi su un
aspetto centrale della sua personalità: la religiosità. Nella congerie di suoi
scritti e appunti occorre distinguere i “documenti” relativi alla vita militare
e politica, quelli concernenti affetti domestici e amicizie e le carte cui
affidò i suoi pensieri su temi generali. Tra queste ultime speciale rilievo
occupano le sue riflessioni sulla religiosità. Esse includono tre diversi temi:
Dio, le religioni, le chiese intese come clero. Al riguardo, oltre alle
lettere, vanno presi in esame anche i suoi discorsi e gli scritti letterari, le
cui pagine gli rimasero dinnanzi agli occhi e sotto la penna più a lungo di
quanto gli potesse accadere per un proclama, un messaggio, una lettera dettata
(e spesso solo firmata) o vergata sul tamburo, nel vortice dell’azione. Nelle
prose d’arte (per quanto arte povera, come non esitò mai a dichiarare e a
riconoscere) Garibaldi compì anzi uno sforzo per conferire veste definitiva
alle proprie riflessioni. Debitamente confrontate con le altre fonti utili a
coglierne il pensiero, esse conducono ad affermare che Garibaldi fu credente in
Dio personale, creatore e ordinatore dell’universo, provvido nei confronti
delle sue creature.
Valga a conferma l’incipit del
capitolo LXIII di Clelia, ilgovernodeipreti:
«Era una di quelle aurore che ti fan dimenticare ogni miseria della vita per
rivolgerti tutto intiero alle meraviglie colle quali il Creatore ha fregiato i
mondi. L’alba primaverile che spuntava dall’orizzonte, così graziosamente tinta
dei colori dell’Iride, t’incantava…» Poco oltre, il capitolo intitolato Morte
ai preti gronda di invettive contro il clero: «Tra le astuzie dei
sardanapali pretini, ricchissimi com’erano, sempre mercé la stupidità dei
fedeli, non ultima fu quella d’impiegare gli artisti più eminenti nella
illustrazione delle loro favole.» Ai capolavori di Michelangelo e Raffaello
contrappose la libertà e la dignità nazionale, «vero capo d’opera di un
popolo».
Contraddizione? No. Attendeva che la
Chiesa (altra cosa dal clero) si liberasse dal gravame del potere temporale e
tornasse evangelica e missionaria.
In I Mille, un romanzo
(mancato) sull’impresa che lo rese celebre nel mondo, Garibaldi toccò i vertici
dell’anticlericalismo militante. Nella prefazione si scusò pubblicamente perché
gli parve di avervi detto «abbastanza male» dei preti. Nello stesso libro,
tuttavia, le roventi esecrazioni di papi, imperatori, preti (soprattutto i
gesuiti) si alternano all’esaltazione, talora ingenua ma sempre appassionata,
della «religione della libertà» e della religiosità in sé quale vincolo
necessario all’umano incivilimento. Nell’accorato capitolo 61°, La
morente,descrive la straziante agonia di Marzia, una delle
eroine del romanzo accanto a Lina (Rosalia Montmasson, moglie di Francesco
Crispi, personaggio storico mescolato a quelli di fantasia): «Marzia sentiva
vicinissima la morte, ma dotata di sì supremo coraggio e di quell’eroismo filosofico
capace di affrontarla come una conosciuta, come una transizione naturale della
materia, accennò colle labbra un bacio verso Lina, che fu seguito da P. e dai
cari presenti; non articolò più parola e passò tranquilla all’Infinito!»
Materialismo panico? o spiritualismo?
Il capitolo conclusivo del romanzo, Il
sogno, condensa le sue contraddizioni e indica la via del loro superamento.
L’eroe assiste al «sorgere del figlio Maggiore dell’Infinito che spuntava dalle
cime dell’Apennino (sic!)». Mentre contempla l’aurora, intravvede il
nuovo ordinamento dell’Italia unita, «un governo di tutti e per tutti» («non so
se lo chiamassero Repubblicano» tiene a precisare), fondato sulla giustizia e
sua garante. Descrisse il “miracolo”: la riesumazione gloriosa delle ossa dei
martiri caduti per la patria («Si scopron le tombe, si levano i morti, i
martiri nostri son tutti risorti…») e, al tempo stesso, alla redenzione dei
«chercuti» incluso il «santissimo padre, non più panciuto e con le pantofole
dorate, ma calzato con un buon paio di stivali, snello e robusto che consolava
il vederlo». Pio IX dirigeva di persona i preti intenti alla bonifica delle
Paludi Pontine: «chi colla vanga, colla zappa e coll’aratro; altri lavoravano
la terra che era una delizia.» A quell’afflizione educativa, alla fatica quale
risarcimento dei danni inflitti alla società non erano però solo i preti nella
visione di Garibaldi: dinnanzi ai suoi occhi si affollava «una quantità di
finanzieri d’ogni classe, di pubbliche sicurezze, di impiegati al lotto e tanta
altra gente inutile alla società ed ora resa utilissima». «I preti diventati
laboriosi ed onesti. Tutte le cariatidi della Monarchia, come i primi consueti
al dolce far niente ed a nuotare nell’abbondanza, oggi piegano la schiena al
lavoro. Non più leggi scritte. Misericordia! Grideranno tutti i dottori
dell’Universo, oggi obbligati anche loro a menare il gomito per vivere.
Finalmente una trasformazione radicale in tutto ciò che abusivamente chiamavasi
civilizzazione e le cose non andavano peggio! Anzi scorgevasi tale contentezza
sul volto di tutti, e tale soddisfazione per il nuovo stato sociale, ch’era un
vero miracolo!»
Il sogno garibaldino di palingenesi va
dunque molto oltre la o le chiese o, se si
preferisce, guarda altrove: la politica. Su religione e
religiosità tornò in una lunga nota esplicativa sul concetto di Infinito:
Scrisse: «Nelle presenti controversie della Democrazia mondiale, in cui si
scrivono dei fascicoli numerosi per provare Dio gli uni, per negarlo gli altri,
e che finiscono per provare e per negare nulla, io credo sarebbe conveniente
stabilire una formola edificata sul Vero, che potesse convenire a tutti ed
affratellare tutti. Per parte mia accenno e non insegno. Può il Vero, o
l’Infinito, che sono la definizione l’uno dell’altro, servire all’uopo? Io lo
credo; ma non lo insegno. V’è il tempo Infinito, lo spazio, la materia, come lo
prova la scienza; quindi incontestabile. Resta l’intelligenza infinita. È essa
parte integrante della materia? Emanazione della materia? La soluzione di tale
problema è superiore alla mia capacità.»
Ricalcò analoghe riflessioni in La
religione del vero: «Ov’è Dio? io ne so tanto quanto un prete ma io,
apostolo del Vero, risponderò: Non lo so, ed avrò detto la verità mentre un
prete vi risponderà con una delle definizioni che certamente saranno false se
non vi risponde com’io vi rispondo. Chi è Dio? Il Regolatore di Mondi […] sì,
quell’intelligenza infinita, la cui esistenza, gettando lo sguardo nello spazio
e contemplando la stupenda armonia che regge i corpi celesti ivi disseminati
chiunque deve confessare». Il Regolatore dei Mondi per lui era il massonico
Grande Architetto dell’Universo. Scrisse infine la sua professionedifede:
«Il mio infimo corpo è animato siccome sono animati i milioni d’esseri che
vivono sulla terra, nelle acque e nello spazio infinito non eccettuando gli
astri, che possono essere animati pure. Come tutti quegli esseri io sono dunque
dotato di una quantità qualunque d’intelligenza e se l’intelligenza universale,
che anima il tutto, fosse Dio, io avrei allora una scintilla animatrice emanata
da Dio e sarei dunque una parte infinitamente piccola della Divinità ma ne
sarei una parte; quell’idea mi nobilita, mi soddisfa, fa qualche cosa del mio
nulla e contribuisce ad elevarmi sulle miserie di questa vita.»
Garibaldi, condottiero, politico,
scrittore, si poneva domande comuni a tanti uomini. E tentava risposte sue,
forse ingenue ma sicuramente sincere, pacate. Una sorta di mano tesa verso
tutti, un invito alla tolleranza universale. «Semplice, bella, sublime è la
religione del vero: essa è la religione di Cristo perché tutta la dottrina di
Cristo poggia sull’eterna verità. L’uomo nasce uguale all’uomo, Indi… Non fate
ad altri ciò che non vorreste per voi. Chi non ha fallito getti la prima pietra
sul delinquente. Simbolo di fratellanza il 1° precetto e simbolo di perdono il
2°. Simboli, precetti, dottrina che praticati dagli uomini costituirebbero quel
grado di perfezione e di prosperità, a cui è suscettibile di giungere. Ma no,
dice il prete: al di fuori della bottega son tutti dannati! Chi non è con me è
con Satana e condannato a bruciare in eterno…»
Garibaldi credé nell’immortalità
dell’anima? In un appunto in nota al Clelia osservò: «Il
cadavere conserva ancora la materia. Ma ove? L’intelligenza dorme o si è
divisa?»
Non aveva certezze e, ciò che più conta,
non s’impancava a formulare e a imporre verità che per primo
non possedeva. Quello degl’interrogativi senza risposta è il Garibaldi vero. È
anche un Garibaldi molto attuale, giacché non propone una dottrina, un
catechismo, un insegnamento né, meno ancora, un modello al quale attenersi
rigidamente. Offre solo un esempio: quello di chi convive con i
dubbi, reputa di non arrivare a darsi alcuna soluzione definitiva e tuttavia
non si abbandona alla disperazione né diviene scettico o indifferente. Sente
che di giorno in giorno la vita si esaurisce, ma non ne prova angoscia. Attende
senza nulla pretendere. Vive, lascia vivere e nel frattempo fa quel che sente
di dover fare per «guarire la gran piaga della miseria.»
Aldo A. Mola
Nella Prefazione ai romanzi storici Garibaldi disse
chiaro e tondo perché li scrisse: «1° Per ricordare all’Italia molti dei suoi
valorosi, che lasciarono la vita sui campi di battaglia per essa. 2° Per
trattenermi colla gioventù italiana sui fatti da lei eseguiti. 3° Per ritrarre
un onesto lucro dal mio lavoro. Ecco i motivi che mi spinsero a farla da
letterato in un tempo in cui credetti meglio far niente che far male.»
Generale, deputato, artefice dell’unità nazionale Garibaldi si reggeva sulle
grucce, non aveva né stipendi né pensioni. Scrisse di getto e pubblicò “Clelia”
(uscito nel 1870 in inglese prima che in italiano) e “Cantoni il volontario”
(1870), “I Mille”, specchio di «un’anima che sente le miserie e le vergogne del
suo paese», e le “Memorie”, intraprese nel 1871, completate l’anno seguente e
pubblicate nel 1874. Benché tradotti nei Due Mondi, i romanzi non gli
fruttarono quel che sperava. Viveva in condizioni miserevoli. Alcuni Comuni gli
assicurarono una pensione di 3.000 lire annue. Nel 1876 accettò il “dono
nazionale” e nel 1880 grazie al giureconsulto piacentino e futuro presidente
del Senato Giuseppe Manfroni ottenne l’annullamento delle nozze con Giuseppina
Raimondi e sposò la provvida compagna Francesca Armosino, dalla quale aveva
avuto Rosa, Clelia e Manlio. La sua, sì, fu “una vita inimitabile”.
La libera muratoria ci consente col
simbolo di poter entrare in contatto con una Realtà che sentiamo trascendente e
immanente, così tanto ineffabile quanto vicina; la sua sostanza è il Mistero
che ci avvolge da dentro e da fuori e tentare di avvicinarci alla sua
“comprensione” è il tentativo eroico di poter abbracciare il senso
originale e profondo di ciò che lega tra loro l’uomo, l’universo delle cose nel
quale siamo e ciò che intuiamo come GADU.
Non è possibile rappresentare tutte le esperienze col
pensiero e per questo il metodo libero muratorio si serve dei simboli, dei
riti, dei miti, e nel pellegrinaggio dei suoi vari gradi ci dà l’audacia, il
coraggio, la forza, ma anche l’umiltà, di voler gettare lo sguardo più in là
dell’apparente frammentazione delle cose e di parlare di questa Realtà, o forse
è più giusto dire di voler parlare intorno a questa Realtà, che resterà per
l’uomo il segreto stesso della sua esistenza e del suo senso.
Così ci pare che attraverso i simboli tutto il mondo
si spiritualizzi e che la vita assuma progressivamente l’aspetto di un viaggio
a ritroso fino al senso profondo dell’origine comune di tutte le cose e
dell’Essere stesso, trasformandosi sempre più consapevolmente da esperienza
profana in esperienza del sacro: è come se uno squarcio di verità riuscisse a
filtrare dalle fessure del mondo e facesse riemergere ciò che da sempre
sappiamo ma custodito nel nostro recondito più profondo, come un ricordo eterno
che si risveglia e che riaffiora sulla soglia del Finito.
Perché attraverso i simboli rimettiamo
alla luce l’esistenza di una “relazione” con l’infinito, di un legame
sentito come un “atto d’amore” originale che supera spontaneamente
l’apparente separazione tra tutto ciò che è manifestato e tutto ciò che
intuiamo appartenere all’ Assoluto.
L’uomo si sente come una ipostasi dell’unica Realtà
che sola essa E; una forma particolare e sempre in gestazione che si è generata
in un particolare tempo e spazio dell’Essere infinito ed eterno, che è insieme
tempo e spazio sempre nuovo, e che l’intelligenza dell’uomo legge nelle
infinite forme delle infinite cose che lo avvolgono.
Questa Realtà esiste ed è in noi, la sentiamo esistere
come sentiamo il battito del nostro cuore e che noi siamo appena una delle
molteplici forme del suo Spirito che imprime il suo contatto e la sua
mediazione nel Finito.
Allora ci pare di riconoscere di far parte da sempre
di un unico respiro, di una relazione fraterna tra noi, il nostro di-dentro e
le cose del mondo; sentiamo di poter ricomprendere nelle moltitudini delle
forme discordanti che ci appaiono reali e presenti nell’intero universo e
quindi anche in noi stessi che ne siamo parte, la manifestazione momentanea e
nello stesso tempo eterna, il riflesso cangiante, il seme divino di una Energia
vitale, potente e sconosciuta ricca di un unico Spirito increato, senza inizio
e senza destino, che costituisce tutto.
Ecco che l’essenza e il senso stesso della Natura
che ci circonda ci sembra la nostra stessa essenza e lo stesso senso profondo
dell ‘esistenza umana, perché questa Realtà non ci è data al di fuori della
nostra vita con essa e in essa.
Sento che le cose sono pervase del
suo senso, del suo Logos riversato su di noi e dentro di noi nella doppia
natura dell’uomo, che
diventa una rappresentazione transitoria del Tutto, allo stesso tempo finita e
infinita: l’uomo è insieme l’idea, lo strumento, il luogo e il tempo con il
quale e nel quale l ‘ Assoluto agisce e
si manifesta.
E il cammino verso o intorno a questa Realtà è, per
me, non una mera astrazione intellettuale o il risultato di uno studio
particolare, ma è sentito come un atto ideale di “fede”, un
proiettarsi fiducioso verso o un cadere intorno a ciò che sentiamo, convinti
che quello che il nostro intelletto tenta di ricostruire è già la risposta a un
“qualcosa” che si lascia intelligere
e da cui non riusciamo, non possiamo e non vogliamo distaccarci.
Questa fede così ricolma di speranza ci fa sentire
tempio e scrigno vivente, manifestazione umana, immagine e simbolo di questa Realtà, custodi del suo Spirito e della Luce che
illumina di sé stessa tutte le cose, che risplendono in Essa proprio nella
misura del proprio riempimento di Luce e della propria capacità di rifletterne
i suoi raggi.
Così la nostra pur momentanea e fragile vita personale
è ricompresa in un’unità armonica che scaturisce da questo solo Principio e
concorre a mantenere ininterrottamente in vita la Vita di questa Realtà che è
così da sempre.
Ecco perché sentiamo questa fede (o fiducia) in questa
suprema Realtà non come una fede in un comandamento caduto dall’alto, non in un
suggerimento esterno, né sentiamo questa fede (o fedeltà) come una fede nelle
credenze di altri o nella ragione dell’uomo, che si ferma impotente davanti ai
paradossi della logica e che ha anch’essa, tante volte nel nostro mondo
insidioso e ricolmo dell’autorità della scienza, l’aspetto di una fede
idolatrata, ma la sentiamo come fede nella nostra spiritualità che avvertiamo
come una parte non quantitativa del Mistero e nel nostro aprirci a Esso.
Credere, per me, rappresenta la risposta a ciò che la
ragione non riesce a concludere da sola, intendendolo non come un
“difetto” momentaneo che potrà trovare una soluzione in un futuro che
oggi non c’è nelle magnifiche sorti e progressive
dell ‘umana gente, ma come un arricchimento della coscienza che
si apre alla speranza mentre interroga incessantemente questo Mistero.
Non credo neppure nei “contenuti” del mio
credere, sempre aperto e inconcluso, ma credo in quanto credere appartiene alla
natura ineffabile di questa Realtà stessa che ci interpella, che ci chiama a Sé
e della quale io stesso mi sento parte con la mia dimensione sostanziale:
questo è, per me, il senso di credere in ciò che sento, perché è parte della
mia condizione, della mia unicità irripetibile e della libertà del mio essere
nell ‘immanenza dell ‘Essere.
Il mistero di questa Realtà, di questo Principio, resta
inesauribile al di là di ogni nostra conoscenza oggettiva e soggettiva, perché
non è nulla delle cose che abbiamo elaborato o di un qualsivoglia sforzo che
abbiamo ideato per definirlo; non è neppure il prodotto stesso delle nostre
intuizioni perché resta ciò che il simbolo nasconde col suo velo, resta un
“mondo intero” indivisibile che si è incarnato ricongiungendo
intimamente le cose stesse dal loro di-dentro e perché altrimenti senza questo
intreccio, senza questa interin-dipendenza tra il GADU, il Mondo e l’Uomo, si
rischia di dissolverla m un’astrazione della mente o peggio ancora di
trasformarla in un concetto, in un emblema, in un segno finito e di celebrarla
come fosse un evento straordinario o come fosse un idolo.
Il nome del GADU non è scritto con le lettere dell’uomo
e neppure con quelle delle stelle in cielo, perché, come il simbolo, non può
essere delimitato come un oggetto che può essere pensato, ma come orizzonte che
rende possibile il pensare, l’immaginare, l’intuire.
E in questo Mistero noi cerchiamo la nostra Via, un
“testimone” della nostra esistenza che ci dica chi realmente siamo,
per non cadere nel vuoto di un enigma insolubile e senza senso o nella resa
incondizionata a una vita isolata che attende solo di essere inghiottita
nell’annientamento dell ‘entropia, consapevoli invece che la nostra esistenza,
la vita che esiste indipendente da noi, l’esserci in un “qualcosa”
anziché nulla, il sentire che l’universo è un posto in grado di accogliere il
Bene, il Bello, l’Armonia, ci fa sentire legati a una Energia eterna e tenuti
per mano da un’ Intelligenza autocosciente che ci sostanzia e che ci fa
appartenere al suo stesso logos.
Noi siamo compenetrati in questa Realtà viva,
sovrapponendoci alle cose ma senza dominarle, partecipando continuativamente al
Tutto e al suo eterno e inesplorabile Progetto senza poter trovare alcun
“luogo” esterno, lontano da Esso, dal quale poterlo osservare,
cosicché resta velata in noi la sua essenza senza remunerarci mai di alcuna
certezza, mentre l’imperscrutabilità del Mistero scuote l’intelletto e le
ferite procurate anche per aver strappato una minima conoscenza di questo
non-conoscere non ci lasciano in pace.
E siccome non è dato all’uomo di vedere l’Assoluto
spogliato del suo velo simbolico, questo velo non diviene un impedimento alla
visione della Realtà, ma è la visione stessa della Realtà non deformata dai
nostri occhi e resa a noi accessibile senza attraversare la soglia che ci
trasfigura: la nostra condizione umana non è quella di risolvere l’enigma del
mondo o di trovare la formula del Tutto, ma è l’esperienza, qui e ora,
dell’infinita e struggente meraviglia della Realtà che ci alimenta, e che ci fa
esistere incarnandosi in noi e nelle cose intorno a noi; è il vivere
costantemente al cospetto di questo Mistero lasciandoci trovare liberi di
accoglierlo col cuore puro e colmo di meraviglia, pur nella nostra sgualcita e
fragile materia.
Riconoscendo le fattezze di questo velo possiamo non
considerarci più spettatori del mondo e possiamo scendere finalmente
dall’albero della conoscenza e dell’autorità dell’Io per salire quello della
Vita, dell’esistenza dell ‘Essere e rimanere nel nostro stesso particolare e
vedere senza essere abbagliati dalla luce del Tutto.
Realizzare la nostra natura di messaggeri e di simboli
dell’Eternità nel breve tempo del Divenire che ci è concesso: cosi l’immagine
terrena e transitoria della Manifestazione, la verità frammentata e umana e la
Verità integra ed eterna si somigliano; di più, si uni-sostanziano, si
appartengono l’una all ‘altra nello stesso istante, come un’immagine in uno
specchio.
Considero queste
poche parole solamente un tenue riflesso di quello che mi pare di vedere
guardandomi nel mio specchio annerito, senza alcuna certezza e senza alcuna
presunzione di darmi una spiegazione convincente o definitiva del mio cammino;
né tantomeno di delineare una sorta di personale quanto ingenua visione
filosofica dell’esistenza. Vorrei solo che le parole non rimanessero una
declinazione del pensiero, ma potessero trasformarsi in carne viva e fossero
capaci davvero di toccarmi, come un giorno di sole d’inverno che scalda e
sparisce liberandosi in uh irraggiungibile sospiro…
…
talvolta anche un piccolo sole d’inverno sorride luminoso e puro,
benché la primavera sia ancora lontana.
L ‘uomo che pensa si è già incamminato sul ponte che da
qualche patte conduce,
forse sulla sponda dell ‘Eden,
forse sull’orlo dell’Abisso.
Egli ha già
capito che non possiede nulla su questa sponda.