“Voi resterete quindi libero di
seguire i dettami della vostra coscienza, ma non sarete più libero di seguire
la vostra indifferenza o il vostro capriccio”.
“Il
primo dovere è il sentimento profondo di obbedienza. L’Obbedienza è l’origine
di ogni energia, la sola arma ben temprata. Riconoscete il dovere come una
necessità assoluta davanti alla quale ogni libertà scompare, ogni debolezza è
colpa?”
Dal rituale di investitura al IV Grado
Obbedienza e Libero Arbitrio in una riflessione
prettamente profana, possono apparire in completa antitesi, lontanissimi tra
loro per ideologie e tradizioni. L’Obbedienza passiva a dogmi religiosi e
culturali ha rappresentato per secoli l’unico sentire, e soltanto I ‘Illuminismo
o l’uscita dallo stato di minorità ha risvegliato nell’uomo il coraggio di
servirsi della propria intelligenza. Una presa di coscienza, Libero arbitrio,
che comunque ha lasciato nell ‘uomo un senso di abbandono e disequilibrio per
la perdita di quelle premesse inconfutabili su cui aveva basato la sua
precedente esistenza. Una tesi ed una antitesi quindi, a prima vista senza
soluzione di sintesi; ma a ben guardare attraverso la lente iniziatica, due
temi che conducono a riflessioni importanti, ad un prezioso rapporto dialettico
così precipuo nel nostro mondo Scozzese. Nel rituale del IV grado e nei
successivi sono molti i richiami al Dovere dell’Obbedienza.
‘ ..L’Obbedienza è l’origine di ogni
energia, la sola arma ben temprata. Riconoscete il dovere come una necessità
assoluta davanti alla quale ogni libertà scompare.
Investito del IV grado sono stato onestamente colpito
da altri aspetti e simboli, prestando, ahimè, meno attenzione al tema
dell’Obbedienza E stato nel prosieguo e nell’approfondimento dei Lavori che il
dovere si è rilevato in tutta la sua forza, quasi assolutista. Infatti, sia che
si parli di Leviti che di Cavalieri, i rituali sono permeati del marcato
richiamo all’Obbedienza; un impegno, che da un lato prettamente empirico evoca
una fratellanza in arme, una declinazione militaresca a guardia e difesa del
Tempio e dei Valori in esso rappresentati. Una Obbedienza direi fisica,
esecutrice di ordini degli Alti Gradi; in questo senso calza senz’ altro
l’aspetto della …sola arma ben temprata.
Certo che l’affermazione “. .
.ogni libertà scompare. . ‘ sul momento mi spiazza; nell’Ordine l’esercizio
metodico del dubbio, la libera scelta, sono cardini del discernimento e
dell’accrescimento interiore, pilastri nel cammino iniziatico. Una arbitrio che
si compie in primis attraverso 1a libertà da se stessi, o meglio da tutte
quelle scorie profane che possono viziare la nostra capacità di giudizio. È
importante quindi riflettere su cosa intendiamo per libertà di coscienza; non
una mera scelta, una visione mentale fisica della libertà, che porti a passi
inconsapevoli, accecati da passione e pregiudizi: questa non fa parte dell
‘essere iniziato, piuttosto della mente comune, è il sentire profano. Ed il
rituale è li a ricordarci che: “. . . non sarete più libero di seguire la
vostra indifferenza o il vostro capriccio “.
La nostra sarà piuttosto una libertà a
un più alto livello spirituale, a uno stadio superiore, dove sono tutti quei
principi etici che fanno parte del nostro essere
iniziati. Non già essere liberi da qualsiasi vincolo, in scelte dettate
soltanto da ragione ed esperienze empiriche, ma un arbitrio illuminato, dove
ragione, etica e spiritualità si fondono ad un piano più profondo di libertà di
coscienza, o meglio nel libero arbitrio, “. . .che può e deve fare leva
sull’Intelligenza e la Ragione e sul Giudizio Interiore.. . “
Ed allora se è vero che .ogni libertà scompare. . . ”
è ancora più vero che ” . . . voi resterete quindi libero di seguire i
dettami della vostra coscienza. . . “, di seguire il proprio libero
arbitrio così da diventare anch’esso ‘ …un ‘arma ben temprata ‘ strumento che
si intrinseca e si estrinseca in una Obbedienza ad un livello superiore. Non un
‘obbedienza passiva, mero ricevimento-esecuzione di ordini e insegnamenti, ma
attiva e vitale nel processo di crescita dell ‘Iniziato, una sintesi, dove non
ci sarà più un mero adeguamento al dovere ma la capacità di comprendere e
discernere l’Obbedienza stessa.
Così Obbedienza e
Libero Arbitrio, a prima vista due temi in antinomia, si superano e si
compendiano in quel . sentimento profôndo di obbedienza… ‘ . E una
riflessione sorprendente, ma poi non più di tanto, giacché questo è il sale
della Libera Muratoria: uomini, idee, esperienze empiriche e spirituali, che si
incontrano, a volte si scontrano, spesso si plasmano a vicenda in un perpetuo
processo in divenire.
E allora il Libero Muratore lavorando su se stesso,
rectificando, può e deve cercare una Obbedienza ad un livello ancora più
profondo, una fedeltà ad un Principio che sia fondamento per il nostro essere
iniziati; un luogo dello spirito ” . . .al coperto ed al sicuro. . .
“, dove trovare sempre nuova linfa nel cammino Scozzese, “Qualcosa di
Indubitabile” come teorizzato da René Descartes, su cui poggiare
“…valori non negoziabili…”
Se per il filosofo francese il cogito ergo sum era la chiave
di volta, credo che il nostro luogo sicuro sia la scintilla divina che arde nel
nostro spirito iniziatico. Una Fede in quella fiammella che, accesa la sera
della nostra Iniziazione, si alimenta e si fortifica passo dopo passo
attraverso i principi e i sentimenti massonici che incontriamo lungo il
percorso, e che attendono nuova energia nelle tappe del cammino ancora da
percorrere. Quindi ‘Deus meumque Jus”: non sentiremo quel senso di
abbandono o spiazzamento che l’impegnativo cammino iniziatico ci mette di
fronte, ma troveremo perpetuamente nuova forza in quella bussola, nell
‘Obbedienza profonda a quel Principio immanente, origine di ogni energia, che
arde in noi e che sta a noi comprendere, moderare e compenetrare attraverso il
libero arbitrio.
(IL CLIMA INTELLETTUALE,
MORALE E SPIRITUALE NELL’ITALIA DELLA PRIMA METÀ DELL'(ÀTOCENTO)
di P. P.
La costituzione del primo Grande
Oriente d’Italia (G.O.I.) avvenne il 20 giugno 1805. Dopo si registrò Luna
forte diradazione delle Logge; mentre, viceversa, s ‘aprì il periodo fiorente
della proliferazione delle vendite carbonare e di altre società iniziatiche
gemmate dalla Libera Muratoria. Un successivo rilancio della Massoneria si ebbe
tra il 1859 e il 1861, anche se essa si mostrava divisa in tre rami: il
cavourriano Grande Oriente d’Italia con sede a Torino (1859); il garibaldino
Grande Oriente di Palermo (1860); il Grande Oriente di Napoli (1861).
Anche in Italia sul finire del ‘700 si era effettuato il tentativo di tradurre
in azione le idee nuove importate dalla Francia rendendo manifesta la volontà
di rinnovamento con sentimenti di fiducia talvolta ingenua e con atteggiamenti
spesso di passiva imitazione di ciò che veniva d’oltralpe. Nel primo decennio
dell’Ottocento tali sentimenti e atteggiamenti cominciavano a mutarsi assumendo
spesso forme opposte di critica e di reazione. In particolare nei diversi
centri culturali della penisola si diffondeva un senso di crescente
allontanamento nei confronti dei maestri stranieri un tempo ammirati ed
acclamati e tutto questo si manifestava nella forma di un progressivo distacco
dal razionalismo settecentesco che aveva fatto tabula rasa dei valori della
tradizione. Ora agli inizi dell ‘Ottocento tale razionalismo cominciava ad
essere visto come eccessivo e sovvertitore e, per converso, la rivendicazione
sempre più decisa dei valori della tradizione finiva col rispondere alla
necessità di porre un argine al razionalismo stesso o, almeno, ai suoi eccessi.
ln questo contesto, nel nostro paese, si iniziava a prendere concretamente il
senso della propria nazionalità, in particolare rivalutando la religione che
con la sua tradizione, con la sua struttura, con le sue istituzioni secolari,
poteva sembrare l’istituzione più schiettamente nazionale, l’unica
sopravvivenza intatta nel mutevole corso della nostra storia e della nostra
civiltà.
Il pensiero italiano di questo periodo si
trovava posto di fronte alle due istanze opposte: quella
trascendentistica/fideistica da un lato e quella immanentistica/razionalista
dall’altro. E queste istanze (trascendenza e immanenza, principio di autorità e
libero esame), alla fine non potevano non urtarsi creando così nuovi problemi,
nuovi indirizzi che portarono alla sostanziale mancanza di vita nelle Logge
sino alla metà del secolo.
Il grande movimento dell’Illuminismo aveva voluto porre in
atto la civiltà dei lumi ma seguendo il corso stesso degli eventi poté sembrare
che la rivoluzione si chiudesse in completo fallimento; il secolo dei lumi
tramontava nelle stragi del Terrore, il sogno di libertà e la visione idilliaca
settecentesca dell’uomo buono
per natura si erano mutati nella tirannide
e nella guerra perpetua di Napoleone. Il tentativo del secolo dei lumi di
respingere il passato lasciava sempre più forte il dubbio che non bastasse il
puro e semplice raziocinio per creare un edificio durevole. Tante cose,
idealmente ben congegnate, offendevano profondamente gli affetti e le
consuetudini degli uomini, fossero la costituzione civile del clero, la legge
sull’eguaglianza delle tombe o i regni costituiti ex novo da Napoleone. (Un
solo esempio preso da Foscolo: il culto delle tombe sarà una illusione ma sono
le illusioni come queste che costituiscono il vissuto stesso dell ‘uomo). Di
conseguenza anche la religione liberata dall ‘arroganza dell’altro clero, dall
‘esoso fiscalismo delle decime, dagli intrighi dei gesuiti, ritrovava nuova vita
come un albero potato dei vecchi rami, rigermogliando vigorosamente.
Il senso di appartenenza alla nazione si contrapponeva
al cosmopolitismo astratto sfruttato dalla Francia napoleonica. Il grande
vigore verso lo studio della storia dei popoli e la ricerca dell’origine delle
nazionalità moderne portava all’interesse per la storia del medio evo a cui
tendeva anche il risveglio religioso. Veniva rivalutata la tradizione non più
considerata come archetipo immobile ma come ispirazione per ampliare il mondo dello
spirito. Per questi concetti si sentiva che la vita non era un vano,
capriccioso arbitrio, ma che era retta da una legge superiore ispirata ad un
valore perenne tendente ad attuare un progetto nell ‘ambito di una libertà non
intesa quale arbitrium indifferentiae, cioè come mera facoltà di scelta ma come
determinazione autonoma.
Romanticismo da vedere non solo come moto letterario o
come semplice moto culturale, ma come profonda trasformazione della forma
mentis degli atteggiamenti, della sensibilità, dell ‘apprezzamento degli uomini
e delle cose.
Con l ‘avvento del Romanticismo si rivendicavano i
diritti della fantasia (l ‘intuizione) e della spontaneità (il cuore) contro
quelli dell ‘intelletto (la mente) e si rivendicava il valore della storia e
della tradizione contro I ‘esclusivo imperio della ragione.
Gli illuministi, grazie alla ragione erano convinti di potere
sciogliere ogni dubbio, di potere dare una risposta esatta ad ogni domanda. I
romantici avvertivano i limiti della ragione: sentirono cioè che la sola
ragione non era in grado di spiegare tutto (chi siamo? da dove veniamo? dove
andiamo? quale il senso della vita?); in particolare nessuna teoria razionale e
scientifica riusciva a spiegare in modo soddisfacente l’origine di alcuni
sentimenti, di alcuni stati d’animo che derivavano dalle zone più profonde e
misteriose della mente e dell’anima. Gli illuministi, sempre grazie alla
ragione erano sicuri di potere risolvere tutti i problemi e di potere costruire
una società felice e perfetta. Invece i romantici avevano dubbi sulla
possibilità della ragione di liberare l’uomo dal dolore e dalle imperfezioni;
essi si rendevano conto che esisteva una frattura insanabile fra ideale (un
mondo bello, sereno, felice, senza problemi e senza dolore) e realtà (il mondo
in cui effettivamente si viveva, pieno di problemi, contraddizioni, dolore…).
Ne confronti dei sentimenti mentre l’Illuminismo aveva
posto la ragione al di sopra di tutto i romantici, anche se riconoscevano alla
ragione una validità conoscitiva, esaltavano l’emozione, lo stato d’animo,
l’intuizione ritenendo l’animo come sede interna, profonda, misteriosa di tutte
le pulsioni spirituali, affettive, sentimentali.
Per quanto riguarda poi il valore da attribuire al
singolo individuo, molti illuministi ritenevano che tutti gli uomini fossero
uguali perché tutti provvisti di ragione; per i romantici, invece, ogni uomo
era diverso dagli altri perché provava sensazioni, stati d’animo, sentimenti
diversi dagli altri. Ogni individuo, infatti, aveva dei sentimenti privati, una
sua specifica condizione esistenziale, una sua “anima”.
Così nella valutazione dell ‘importanza della storia
gli illuministi non si erano curati molto del passato spesso ritenuto un mero
cumulo di errori; i romantici, invece, nutrivano un appassionato amore per la
storia vista nel suo perenne e dialettico divenire. In particolare i romantici
rivalutavano il medioevo perché quel periodo aveva segnato il trionfo della spiritualità
e soprattutto perché nel medioevo erano nate le moderne nazioni europee.
Infatti a proposito dell ‘ idea di nazione mentre gli
illuministi avevano avuto tendenze cosmopolite, i romantici davano un ‘enorme
importanza alle origini etnico-geografiche degli uomini. Ogni individuo, per i
romantici, doveva molto alle abitudini, agli usi, ai costumi, alle tradizioni
del luogo di nascita e questo amore per le proprie radici (etniche, storiche,
politiche, culturali…) portava gli intellettuali romantici a studiare e ad
esaltare le tradizioni popolari come le antiche fiabe, leggende, saghe e
tradizioni popolari. Il romanticismo, in pratica, creava ed esaltava il
concetto di nazione (a cui erano strettamente correlati, ovviamente, i concetti
di popolo e di patria). E in nome di questi ideali i popoli oppressi o dominati
da potenze straniere (italiani, polacchi, greci…) iniziavano a combattere per
la loro libertà e indipendenza.
Naturalmente non sarebbe pensabile dare una
definizione univoca ed unitaria del romanticismo (come del resto di qualunque
movimento di pensiero e idee) considerando che il romanticismo tedesco è
diverso da quello inglese; quello francese è diverso da quello tedesco ed
inglese; quello italiano è assolutamente diverso da quello francese, tedesco…
Per non parlare poi del fatto che autori dello stesso paese (e dello stesso
periodo) interpretavano il romanticismo in maniera assai diversa: Manzoni e
Leopardi, ad esempio, sono i nostri più grandi [1]autori
romantici, ma si rifanno a filosofie, concezioni estetiche e poetiche
diametralmente opposte.
Esisteva anche un romanticismo reazionario: molti
intellettuali, delusi per il fallimento degli ideali illuministi e della
Rivoluzione Francese, delusi per il dispotismo napoleonico, stanchi dopo anni
di sommosse, guerre, caos… auspicavano un periodo di pace, di quiete, di
ordine sociale c politico; per questo rivalutavano la religiosità tradizionale
(dogmatica ed oscurantista), la monarchia assoluta (ultramontanismo) ed
invocavano la repressione di ogni velleità riformista e democratica.
Ma esisteva anche un romanticismo liberale che esaltava le
libertà individuali e sociali, che si batteva per la libertà dei popoli
oppressi e che si rifaceva, se mai, al cristianesimo evangelico delle origini.
Così come esisteva un romanticismo democratico rappresentato da coloro che
lottavano per un’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Esistevano
romantici che predicavano l’impegno sociale e politico, e romantici che
praticano il disimpegno totale; romantici che si ponevano alla testa dei popoli
e romantici che si chiudono vittimisticamente in se stessi; romantici che
inseguivano la realtà e romantici che fuggivano da essa… Segni talmente
contrastanti e opposti da rendere difficoltoso qualsiasi tentativo di sintesi.
Una esemplificazione di questa complessa situazione potrebbe essere portata
dalla figura di Joseph De Maistre.
Mentre per una definizione dell’essenza romanticismo si
potrebbe ricordare un pensiero del poeta Novalis2.
“Quando conferisco a ciò che é
comune un senso più elevato. all’ordinario un aspetto misterioso, al noto la dignità
dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita lo romanticizzo”. Il mondo deve
essere “romanticizzato” vedendo nel particolare un valore universale
e, viceversa. riconoscendo che l’universale si esprime sempre nel particolare. Ma per
“romanticizzare” la realtà comune occorre guardarla con gli occhi
dell’intuizione più che con quelli della ragione, tanto impiegati nel periodo
illuministico. La compiuta realizzazione dell’uomo è pertanto
l”‘indiarsi”, la complessa risoluzione nell ‘Uno-tutto, nella quale
l’individuo esplica il suo infinito valore. e, allo stesso tempo, l’infinito si
determina come individuo: con ciò si realizza completamente l’essenza del
romanticismo.
Ma dopo questa lunga riflessione sul periodo romantico
torniamo alla nostra storia, quella della Libera Muratoria. Da un lato in
coincidenza con la sconfitta di Napoleone l ‘importanza della massoneria
ridotta da lui a mero instrumentum regni e usata per lo più per favorire
carriere ad alto livello, viene meno. Dall’altro anche le Logge che non si
erano asservite al regime napoleonico, in questo frangente storico, non
rappresentano lo strumento più adatto per continuare l’azione in senso liberale
e nazionale. In Italia, pur nella scarsezza di dati certi, probabilmente la
maggioranza dei liberi muratori militò nelle file della opposizione liberale e
patriottica ai regimi restaurati rifiutando l’ideologia stessa della
Restaurazione. Si può reputare veritiera, estendendola a tutto l’arco di tempo
che va dal 1815 al 1859, la valutazione che della presenza massonica dava un
confidente della polizia pontificia in un suo rapporto del 1817: “Vi sono
molti massoni in Roma, Fermo, Perugia ma ora sono inoperosi e rimangono come un
venerabile avanzo di antichità per i suoi ammiratori”
Non fu infatti produttivo di risultati il tentativo fatto
intorno al 1820 da FRANCESCO SAVERIO SALF1 [2]di
ripristinare in Italia una Massoneria profondamente riformata; e cosi pure non
ebbe sbocchi pratici l’iniziativa presa nel 1 822 dal Buonarroti[3]di rilanciare la Massoneria puntando su di un drastico snellimento dei
suoi rituali. Non bastava essere contro l’antico regime (ora
restaurato) e a favore del progresso ma bisognava anche individuare le forze
capaci di creare un nuovo ordine e concertare piani d’azione adeguati alle
reali possibilità della società italiana. Questa consapevolezza della nuova
realtà certamente presente in molti liberi muratori fece si che la vita nelle
Logge si assopisse o addirittura cessasse per dar vita ad altre forme di
pensiero ed azione più adatte per il conseguimento del disegno politico che
caratterizzerà il nostro Risorgimento e per questo si generarono nuove
aggregazioni, in parte sicuramente derivate da preesistenti Logge ed una di
questa fu senz’altro la Carboneria.
ln tutte le società segrete che operano
nella Restaurazione, sembrano alternarsi una corrente <<fredda»,
razionalistica, e una vena «calda», romantica e in qualche modo religiosa,
anche se di una religiosità spesso eterodossa che spiega ad esempio perché la
simbologia della Carboneria così ostentatamente si richiami a simboli religiosi
esplicitamente cattolici: per esempio, alla Passione di Cristo e ai santi.
La maggior parte dei massoni, magari entrati
sonno», andò tuttavia a costituire, nella Penisola o fuori di
essa, l’ossatura di una complessa e frastagliata rete di gruppi e di relazioni latomistici, non formalmente
massonici, che influiranno in seguito su una parte cospicua delle élite
culturali e politiche italiane. A questo proposito non si può sottacere la
forte impostazione anticlericale che caratterizzò una cospicua parte dei liberi
muratori italiani dovuta, in estrema sintesi, al convincimento che il più
grande ostacolo per la realizzazione del progetto unitario fosse l’esistenza del
potere temporale della Chiesa a ciò fortemente ostile. Per questo è stato
sostenuto che la Massoneria in Italia, a causa della questione romana, fu
anticlericale nella misura in cui il potere temporale fu antiunitari5 .
CONCLUDENDO: tutte queste considerazioni aiutano a
comprendere come, nonostante l’assenza di un’organizzazione sul territorio, la
massoneria in Italia rinacque quasi improvvisamente alla vigilia dell ‘Unità e
si ramificò poi rapidamente in tutta la penisola.
[1] Il conte
Giuseppe De Maistre può essere preso come l’esempio dell’antitesi dello spirito
giacobino e poi carbonaro; nato nel 1 853 a Chambéry fu educato dai padri Gesuiti
con i quali
rimase sempre in buoni rapporti. Studiò teologia, diritto ed economia a Torino
ed iniziò la carriera di magistrato. Entrò a far parte prima della Loggia
“Tre mortai” e poi della Loggia “Perfetta sincerità”.
Quando scoppiò la rivoluzione il governo piemontese mise al bando le logge
massoniche ritenute pericolose e sovvertitrici. De Maistre uscì dall’ordine ma
molto dopo precisò le sue convinzioni nella “Memoria al Duca di Brunswick”
in cui contestava energicamente la tesi che le logge fossero covi di complotti
rivoluzionari sostenendo che la Massoneria non era che la scienza
dell’uomo, lo studio della sua origine e del suo destino (chi siamo,
da dove veniamo, dove andiamo) e che tutto ciò non conduceva certamente al
sovvertimento dell ‘ ordine
costituito.
–
Pseudonimo del filosofo e poeta tedesco Friedrich Leopold von Hardenberg
(1772-1801). Fu uno dei maggiori animatori del circolo romantico di Jena.
[2] Letterato e
patriota italiano (Cosenza 1759 – Parigi 1832). Sacerdote, nel 1792 entrò nella
Società patriottica napoletana e si rifugiò quindi, lasciata la condizione
ecclesiastica, a Genova e a Milano. Proclamata la Repubblica napoletana, fu
segretario del governo provvisorio. Di principi massonici, fu consigliere di
Gioacchino Murat. Nel 1815 si ritirò definitivamente in Francia; rimase
tuttavia sempre attento agli avvenimenti italiani; per es., nel 1831 stilò con
Filippo Buonarroti il testo di un proclama che avrebbe dovuto servire a un
movimento insurrezionale a cui stavano interessandosi alcuni fuorusciti
italiani.
[3] Uomo politico
rivoluzionario (Pisa 1761 – Parigi 1 837); esule volontario in
Corsica poco dopo lo scoppio della Rivoluzione fran-
Per oltre quaranta anni ho
svolto presso I ‘Università di Pisa un ‘ininterrotta attività di docente
universitario nella Facoltà di Medicina e Chirurgia. In questa veste ho
esaminato centinaia di studenti ed ho espresso giudizi a mio parere obiettivi,
basandomi sulle risposte più o meno corrette alle domande che ponevo. In questo
lungo periodo ho sempre considerato il mio metro di giudizio abbastanza equo e
imparziale. Ma (ora) mi chiedo: è sempre stato così? Mi sarebbe stato
impossibile rispondere fino al giorno in cui, cessata la mia attività di
docente, mi è capitato di incontrare casualmente degli ex studenti, oggi
medici, ai quali dopo una breve conversazione, m’è venuta 1a curiosità di
chiedere “Ma l’esame com’è andato?”. Molti hanno risposto:
“Bene, Professore!” Alcuni tuttavia hanno detto “… Non troppo,
perché lei quel giorno si è dimostrato piuttosto nervoso e, soprattutto, molto
esigente.. .
Questa breve premessa potrebbe apparire fuori luogo, ma mi
permette di introdurre alcune osservazioni del tutto personali su due concetti
fondamentali che hanno fra loro legami talmente stretti da risultare quasi
inseparabili, ossa Equità e Giustizia.
Il dizionario della lingua italiana Treccani definisce
l’Equità come “Giustizia che applica la Legge non rigidamente, ma
temperata da umana e indulgente considerazione dei casi particolari ai quali la
legge si deve applicare ] L’equità non offende la Legge né la Giustina, ma
interpreta l’una e l’altra nel loro vero significato…”. Più in
dettaglio, nel Diritto Internazionale e nei sistemi giuridici di common law, I
‘Equità viene considerata come un criterio di giustizia applicata al singolo
caso, che prevede, da parte del giudice non la pura e semplice
applicazione di una Legge preesistente, ma piuttosto l’applicazione di una
nuova norma inerente il caso singolo”, e ciò a completamento della voce di
cui sopra. In senso più ampio, il termine Equità può essere strettamente legato
a quello di Giustizia ove questa si identifichi in una norma da seguire
costantemente in tutte le attività umane. In altre parole l’uomo
“equo” e “giusto”, sia nel governare che nel giudicare,
come in qualsiasi altra attività della vita di relazione che lo ponga in
rapporto con gli altri esseri umani, deve essere in grado di trattare ognuno riconoscendo
sia le colpe che i meriti, con serenità di giudizio e assoluta imparzialità.
Nella “Retorica” Aristotele concepisce I
‘Equità come la forma di Giustizia che va al di là della legge scritta. Il
concetto filosofico espresso da Aristotele attribuisce all’Equità una valenza
che va oltre l’ambito del diritto, ma che si configura come una vera e propria
Virtù di importanza capitale per il comportamento etico dell’uomo Da tutto
questo si può intuire come i concetti di Giustizia ed Equità debbano essere considerati
come principi che presentano strettissimi legami fra loro. Possiamo considerare
I ‘Equità, in relazione al bene comune e a quello individuale, come una giusta
proporzione e un punto di equilibrio tra soggetti coinvolti in una determinata
azione, di qualsiasi tipo essa sia. Da ciò si intuisce quanto sia fondamentale
l’importanza del principio di uguaglianza fra tutti gli esseri umani perché la
giustizia sia “giusta”.
Sempre secondo il pensiero della scuola aristotelica, quando
si prenda in considerazione la natura della Giustizia e dell ‘Equità, risulta
evidente che in senso assoluto esse non sono la stessa cosa ma che non sono
neppure diverse per origine, in quanto entrambe strettamente connesse con la
natura umana. E equo tutto ciò che è intermedio fra bianco e nero, tra più c
meno. Ed è giusto tutto ciò che viene identificato come rispondente al senso di
Equità. Appare anche giustificato, a mio avviso, che quando si affronti un
qualsiasi argomento di natura etica, si finisca inevitabilmente per considerare
i concetti di Equità e Giustizia come un tutto unico e indissolubile tanto da
identificare l’Equità come una Virtù indispensabile perché qualsiasi
comportamento umano sia al tempo stesso tanto equo quanto giusto.
Senza addentrarmi in questioni di Filosofia del diritto nelle
quali non ho alcuna competenza, mi sento tuttavia di poter affermare che il
concetto di Equità è stato sicuramente diverso lungo il divenire della storia
dell’umanità, come altrettanto diverso è stato sicuramente il concetto di
Giustizia. Nella rigida applicazione delle Leggi in particolare, ciò che oggi
può apparire iniquo poteva essere considerato giusto ed equo in un determinato
periodo storico. Analoga differenza può risultare quando si prendano in esame
culture profondamente diverse dalla nostra: addentrarmi in considerazioni di
questo tipo porterebbe a lunghe dissertazioni che lascio a coloro che, come ho
detto, conoscono profondamente la materia.
Vorrei invece analizzare, secondo una visione del tutto
personale, gli stretti legami che intercorrono fra Equità, Giustizia e
Massoneria. La Via libero-muratoria, se seguita con scrupolosa costanza,
implica un continuo e costante processo di formazione e perfezionamento
interiori. Questo significa una faticosa ricerca della parte migliore di
ciascun uomo, avente come scopo la liberazione dalla schiavitù del Vizio e la
progressiva affermazione interiore delle Virtù. La continua e obiettiva presa
di coscienza del male che è in noi ed il tentativo più o meno efficace di
vincerlo, sicuramente porta ad un maggior equilibrio e pertanto ad una maggiore
equità nel nostro comportamento. Ogni gradino della Piramide del Rito Scozzese
Antico ed Accettato, ogni aumento di Lucc ha un effettivo valore e rappresenta
una vera conquista solo se si accompagna al superamento progressivo di ostacoli
costituiti da tutto ciò che forma la parte peggiore del nostro Sé. Il Vizio va,
innanzi tutto, riconosciuto sinceramente, guardando senza timore nella parte
più oscura di noi stessi; va poi affrontato con consapevolezza e coraggio, senza
tentennamenti o scorciatoie. E la battaglia del Cavaliere contro il Drago con
le sole armi della Virtù che traggono origine e forza dalla nostra natura
divina. Questa natura è una prerogativa comune a tutti gli esseri umani,
ciascuno dei quali costituisce solo un ‘infinitesima parte di un Tutto,
identificabile, a parer mio, nel Grande Architetto dell’Universo. L’uomo che
riconosce la natura divina nella propria esistenza si sente parte di un Grande
Progetto, che può solo intuire, ma che traspare quando egli si addentri nella
conoscenza di se stesso e dell’Universo del quale fa parte. Il continuo cammino
della Scienza, le sue nuove scoperte e conquiste, e la meravigliosa bellezza
che lasciano intravedere, dimostrano come questo Disegno sia universalmente
presente.
La progressiva ascesa della Piramide del R.S.A.A. si
traduce in un ampliamento dell ‘orizzonte della Conoscenza, ponendo l’uomo
nelle condizioni ideali per perfezionarsi in tutte le sue manifestazioni e
attività. Il far risplendere l’Occultum Lapidem con la progressiva ricerca
interiore rappresenta, a mio avviso, uno dei modi (se non il migliore) per
poter giudicare con equità e imparzialità se stessi e, al tempo stesso,
mettersi nelle condizioni ideali in tutti i rapporti con i propri simili.
Voglio adesso ritornare alla riflessione
personale dalla quale sono partito. Nel confrontarsi con gli altri, come nel
caso esaminatore-esaminando, l’equità nell’esprimere un giudizio è requisito
etico fondamentale perché questo sia un “giudizio giusto”: per formularlo
tale non possono, né devono, intervenire fattori condizionanti. Ovvio che la
risposta del medico: “Non troppo, perché lei quel giorno si è dimostrato
piuttosto nervoso e, soprattutto, molto esigente.. . .” ha generato in me
parecchi dubbi. Perché ho chiesto a me stesso se e quanto il mio stato d’animo,
in alcuni momenti come quello in specie, potesse aver influito sul risultato
del mio giudizio finale. Ero stato veramente “equo e giusto? “. Oggi,
più di allora, ho molti dubbi in proposito, e penso che all’origine di questi
dubbi vi sia il progressivo sviluppo della conoscenza di me stesso. Un sereno
stato d’animo, l’equilibrio, l’umana comprensione, la capacità di non lasciarsi
condizionare da sentimenti umani istintivi quali simpatia o antipatia,
sono una meta che si raggiunge progressivamente grazie alla continua
applicazione del metodo libero muratorio. Queste progressive conquiste, secondo
me, devono tradursi, per non rimanere fini a se stesse, in comportamenti
ispirati a Equità e Giustizia in qualsiasi rapporto con i propri simili.
Sotto quella ciotola piena di stelle che
gli uomini chiamano cielo, l’universo è gravido di mistero. L’uomo si
fa querens e il querere si fa dovere, necessità, felicità. Dovere, in
quanto tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale.
Necessità, quale unica forma di consolazione concessa al suo fragile
essere mutevole. Al postutto, fonte di autentica felicità per essere
l’uomo nato al fine di conseguire una conoscenza stabile e certa del
vero, non desumibile dalle tare delle res obscurae del sensibile regno
della mutevolezza. Il nostro pensiero interrogante oggi ha come oggetto
un tema fra i più complessi e delicati, seppure per certo fra i più
affascinanti. Si insegna che il compito e il fine dell’Arte regia sono
costituiti dal rendere l’uomo umano, sempre più umano, sempre più
pienamente umano. È la nota lezione di Fichte (che può leggersi in
Filosofia della Massoneria, nella seconda edizione italiana pubblicata
nel 2019 da Mursia editore. Su questo tema cfr. amplius il nostro
scritto Fichte. Filosofia della Massoneria comparso nel numero di
Officinae del mese di Novembre 2021). Il significato profondo di questo
assunto esige però preliminarmente di appurare in che cosa si risolva
l’umanità, che cosa la sostanzia, che cosa l’alimenta.
All’approfondimento di tutti questi temi saranno pertanto dedicate tutte
le successive considerazioni. A questo fine aiuta sicuramente un
approccio all’argomento dal profilo storico, sia pure circoscritto
all’essenziale. I primi che alla problematica hanno dedicato una
specifica attenzione sono stati sicuramente i Greci. Nella loro grande
epoca hanno infatti posto l’accento sulla necessità di dare un
significato e un senso alla parola umanità, che hanno poi inteso come il
punto di arrivo di una educazione necessaria per superare la naturale
animalitas dell’uomo. L’uomo, unità di corpo, anima e spirito, sebbene
essere razionale è infatti, e rimane pur sempre, un essere animale.
Animalità che può essere tuttavia corretta, e perfino completamente
eliminata, con la παιδεία, non essendo a questo fine sufficiente la
semplice attribuzione all’uomo di una anima immortale o della facoltà
della ragione. Troppo noti, per essere elencati singulatim, sono poi gli
strumenti dei quali si avvale la παιδεία per contrastare l’arbitrio
degli istinti e la barbara brutalità. Valga piuttosto ricordare che la
virtus romana altro non è che la incorporazione della παιδεία elaborata
dai Greci, pur restando vero che la humanitas viene per la prima volta
pensata ed esplicitata con questo nome solo al tempo della Repubblica
romana. La parola παιδεία viene infatti tradotta con la parola
humanitas. Nella sua essenza, il primo umanesimo resta quindi un
fenomeno specificatamente romano che scaturisce dall’incontro della
romanità con la cultura della tarda grecità. Il cristianesimo ravvisa
invece la humanitas dell’homo nella sua limitazione rispetto alla
deitas. L’uomo, in questa prospettiva, non è infatti di questo mondo,
inteso invece come un semplice luogo di passaggio transitorio verso l’al
di là. È noto che il Rinascimento – tra il XIV e il XVI secolo –
celebra la humanitas nella sua latitudine più vasta. L’aforisma del
drammaturgo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto
(“Sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”) era
infatti il più amato e il più citato dagli umanisti della renascentia
romanitatis, nonostante poi che, nel suo contenuto, si continui a
intravedere ancora la pratica del vizio come prova di una umanità non
ancora del tutto raggiunta. Salda comunque rimane ancora la convinzione
che il destino della persona umana sia non soltanto l’autotrascendenza,
ma addirittura la divinazione. In questa prospettiva, il modello diventa
allora il Salvatore, vero uomo e vero essere divino. Da ultimo, ma non
per ultimo, non è inutile ricordare che l’umanesimo rinascimentale ha
costituito il movimento culturale e educativo più influente in Europa in
tutto quel periodo. Nella funzione educativa si riconosce poi
un’importanza decisiva alla cultura, intesa come il modo in cui un
gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide
la vita. Alla cultura sottostanno infatti sistemi di valori, significati
e visioni del mondo che possono risultare determinanti fino al punto di
divenire fonte di divisione sociale. Come accade, ad esempio, nella
cultura contemporanea dominante in Occidente, che esclude ogni forma
religiosa dai valori riconosciuti perché degradata a mera superstizione
o, addirittura, a oscurantismo. Per concludere sul punto, la cultura è
come una lente che può chiarire o distorcere convinzioni in apparenza, e
non solo, innate. Proprio perché pervasiva – le sue idee riempiono le
nostre teste – può essere sana o tossica. Per questo – la ripetizione si
impone – costituisce un fattore educativo di portata determinante. (Per
un approfondimento di questo argomento ci permettiamo di rinviare al
nostro precedente scritto dal titolo Massoneria e cultura pubblicato sul
numero di questa Rivista uscito il 23 maggio 2021). Per esaurire questo
sommario excursus dell’Umanesimo storicamente considerato, corretto è
infine affermare che il fenomeno de quo, considerato nelle sue varie
forme, attinge in modo determinato alla antichità, spingendosi talvolta
fino a farne un calco integrale. Fatta eccezione per l’umanesimo di
Sartre che lo concepisce invece come esistenzialismo. Ciò doverosamente
seppur sinteticamente ricordato, al fine di delineare il nostro pensiero
sull’argomento va precisato innanzitutto che tutte le forme di
umanesimo che si sono via via affermate fino ad oggi presuppongono –
come è evidente – l’“essenza” universale dell’uomo. È dunque a questa
“essenza” che si deve far capo se s’intende dare, come ci si è proposti,
un sicuro fondamento e un preciso contenuto a quella umanità che si
vuole costituisca la cifra caratteristica e la peculiarità distintiva
dell’uomo UOMO. Secondo l’insegnamento tradizionale inaugurato da
Platone, l’essenza dell’uomo deve essere ravvisata nel suo essere una
possibilità. Quando si afferma che la humanitas è l’essenza dell’uomo si
vuole pertanto dire che l’uomo è arbitro delle sue scelte, potendo
diventare umano o in-umano. In-umano, in quanto figlio dell’arbitrio e
della sopraffazione, autentico inferno per il tormento di non amare
nessuno. Umano perché agli antipodi del negativo, che, in quanto rifiuto
della ragione, merita il marchio della riprovazione. Il che, se non
andiamo errati, autorizza legittimamente a sostenere che l’umano esiste
nell’uomo soltanto in nuce. Infatti, è solo quando da potenza si
trasforma in atto che l’umano si dispiega in tutta la sua latitudine per
divenire ciò che autenticamente è. Il che postula allora la domanda su
cosa consista il contenuto dell’umano, quale sia cioè la sua cifra,
ossia la peculiarità che lo caratterizza. A chi scrive queste note
l’umano, quale sintesi di valori inalienabili e inespropriabili, va
colto essenzialmente nella cura dell’altro come dono da offrire e
mettere in comunione con quello di cui ciascun altro è portatore. Una
cura aperta in termini universali, perché estesa a livello non solo
umano, ma pure sociale, planetario, cosmico. Anche se, in primis,
indirizzato all’uomo con la diffusione di semi di verità, di bontà, di
bellezza, ma pure di sostegno materiale nei confronti dei più bisognosi,
degli umili, dei diseredati, a questi ultimi uniti nel loro rispettivo
dolore. Il che – sia detto per incidens – è tanto più urgente in questa
attualità connotata dalla indifferenza. Si tratta poi di una cura, dove
la sottolineatura è perfino superflua, non nel senso astratto di un
impegno generico ma in un senso concreto, indirizzata nei confronti di
una persona specifica: impegno duraturo che non deve passare rapido come
il soffio di un vento di montagna. Il che postula una generosità
coltivata giorno per giorno, come avviene per una piantina a primavera, e
nel contempo la forza eterna del bene che si custodisce nel tempo, con
radicale esclusione di ciò che soffoca. Altrimenti il negativo
strangolerebbe e ucciderebbe lo slancio generoso. Prendersi cura
dell’uomo vuol dire, in sintesi, insegnare all’uomo germogli vivi di
tenerezza che, una volta coltivati dall’apprendista-uomo, gli
consentiranno di donare agli altri la propria autentica essenza, come
dire la ricchezza più preziosa del proprio essere, sostanza composita
perché in quel contenitore confluiscono logica, generosità, tradizione,
valori e, più in generale, lo stesso inconscio collettivo.
Da qui una responsabilità educativa di carattere generale che comporta
la messa in atto di una delicata e risoluta paideia secondo la regola
pedagogica della gradualità. In ogni caso, una educazione al difficile,
tanto per l’educando quanto per l’educatore, posto che un’azione
educativa coerente implica l’indicazione di sentieri di vita orientati
al bene: un richiamo energico a vivere la vita in pienezza e
responsabilità, trasformandola creativamente ogni giorno nell’arte del
dono. Fare di se stessi gli artefici del miracolo di trasformare l’altro
in una immagine di virtù è la realizzazione del sogno che nutre
l’uomo-uomo, l’uomo umano. La non umanità coincide allora con il porsi
fuori dell’essenza dell’uomo. Come a dire vittime del dominio
dell’istinto, dell’arbitrio, del sopruso, della sopraffazione, della
forza e della violenza (purtroppo così attuali mentre scrivo!). Stare
dalla parte dell’umano e servirlo con scrupolo e costanza significa
conclusivamente contrastare, con ferma determinazione, tutto ciò che
anche soltanto appanna la luce che scaturisce dalla ricchezza della cura
dell’altrui. Nella nostra società contemporanea significa, in
specifico, contrastare tutto ciò che c’è di insidiosamente distruttivo,
quali le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, l’invadenza
della pubblicità e tutti gli altri influssi che modellano negativamente
l’attuale modo di vivere. Sul piano intellettuale l’opposizione e il
contrasto vanno poi indirizzati a quella corrente culturale, oggi
dominante nel mondo occidentale, chiamata postmodernismo, perché
filosofia essenzialmente scettica. Il suo principio basilare è infatti
questo: la verità è soltanto tutto ciò che è vero “per me”. Con la
conseguenza che l’assenza di una verità oggettiva finisce per impoverire
l’umano perché, a questa stregua, viene meno un punto di riferimento
sicuro nella vita di ciascuno di noi, gioia e guida che tengono lontano
dall’insensato vagare tra incertezze e rischi oltremodo pericolosi.
Dunque, se si vuole rendere l’abitante di questo mondo, tanto complesso e
difficile, sempre più uomo, sempre più umano, sempre più pienamente
umano, non solo nella sfera dell’esercizio individuale della
speculazione ma proprio nella concretezza del sensibile, occorre, a ben
vedere, compiere ogni sforzo nella divulgazione della paideia, posto che
quest’ultima fornisce tutti gli strumenti necessari per affinare l’uomo
fino a trasformarlo in un uomo autentico. Impresa da compiersi senza
posa, perché in questa costruzione lenta, faticosa, sempre
soggettivamente appagante, oltre che collettivamente arricchente, non
v’è in verità mai fine.
Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴ Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi
Il rapporto tra Mussolini e la Massoneria fu cruciale ed
andrebbe studiato nei dettagli, qui, ovviamente, non possiamo che accennarvi
sottolineando però alcuni passaggi emblematici. Mussolini, è bene chiarirlo
subito, non fu mai massone né chiese di esserlo. E’ una leggenda il fatto che
avesse chiesto di essere iniziato ma venne rifiutato per i suoi precedenti
penali o perché troppo irrequieto, non vi sono prove, e le dicerie restano
alquanto prive di fondamento. La sua avversione per la Massoneria, invece, fu
tanto palese, quanto evidente fu il fatto che se ne servì per raggiungere il
potere.
Le origini dello spirito antimassonico di Mussolini
risalgono al contrasto tra socialisti e repubblicani all’inizio del XX secolo,
i primi di tendenza anarchica e i secondi repubblicani perché massoni.
Mussolini si adoperò alacremente per fare espellere i massoni dal Partito
Socialista già dal 1914, nel Congresso di Ancona, prima di capire come, però
sarà bene ripercorre un po’ le tappe del rapporto tra massoni e socialisti fino
al 1914. La Massoneria aveva contribuito validamente alla nascita di un partito
socialista in Italia, le sue prime sezioni erano piene dei ritratti del primo
Gran Maestro della Massoneria italiana: Giuseppe Garibaldi.
Già alla vigilia della sua morte, nell’autunno del 1881 la
massoneria milanese organizzò un congresso fondamentale. Tra i sei temi in
discussione, due erano più propriamente “politici”. E il secondo aveva come
titolo il seguente: “Dell’atteggiamento della Massoneria di fronte alla questione
sociale”. I massoni milanesi erano convinti allora che fosse necessario un
forte impegno sociale per affrontare seriamente i problemi del cosiddetto
quarto stato, sottraendo alla borghesia il cerchio ristretto dell’influenza
massonica, si diceva a chiare lettere: “Il mondo cammina, il quarto stato
chiede alla sua volta di entrare. Che la massoneria italiana si ponga quindi
all’opera e presto. Bisogna dare al popolo, ai lavoratori delle città e delle
campagne, con la scienza, la coscienza di sé stessi. Bisogna educare il
legittimo successore al quale i fati destinano la sovranità della terra”.
Come è evidente, questo è un linguaggio che va ben oltre il
concetto di democrazia, allora ancora più ristretto da un limitato suffragio,
ma che si identifica con la nascente ideologia socialista, teorizzando la
nascita di una serie di logge “operaie e campagnole”, che dipendessero dalle
logge madri. Non vi era nemmeno discriminazione culturale in tale intento,
poiché il fatto che i fratelli fossero analfabeti, non ne inficiava
l’appartenenza, anzi la loggia stessa si incaricava di dare loro gli strumenti
di emancipazione culturale necessari: “precipuo fine di queste logge massoniche
sarebbe quello d’istituire una scuola per insegnare a leggere, a scrivere e far
conto non solo ai fratelli ma alle loro famiglie, ai loro amici ed attinenti”.
Nessuna tassa o capitazione sarebbe stata prevista per queste logge, avendo
esse soltanto “intendimenti progressivi ed umanitari” dell’istituzione
massonica.
L’obiettivo era quello di sottrarre, mediante l’istruzione,
alla influenza clericale un certo numero di persone che sarebbero state
protagoniste a loro volta di una propaganda laica. I rapporti tra Massoneria e
Socialismo, dall’inizio del XX secolo, sono improntati a rispetto e
collaborazione anche se restano su piani distinti, dato che la prima lavora per
il perfezionamento individuale ed il secondo per quello collettivo, non poche
però sono le occasioni di convergenza.
Quando la corrente riformista riesce a prevalere, dal 1900
al 1911, il rapporto di reciproca convivenza si rafforza, in particolare con
l’emanazione delle Costituzioni massoniche nel 1906, le quali riaffermano che
“la Comunione italiana, non discostandosi nei principi e nel fine da quanto
l’Ordine mondiale professa e si propone, propugna il principio democratico
nell’ordine politico e sociale”. Tale assunto favorisce notevolmente il
connubio tra partiti laici e socialisti che hanno modo di affermarsi dal 1907
nei blocchi popolari delle grandi città e nelle loro amministrazioni,
contendendo validamente l’egemonia al blocco moderato. Uno degli esempi più
eclatanti di questi intenti è il Comune di Roma, amministrato con grande
impegno civico e perizia amministrativa dal sindaco Ernesto Nathan, che era
stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, il quale allargò notevolmente
con la sua iniziativa laica la base del consenso.
Tra il 1904 e il 1907 però all’interno dello stesso
schieramento socialista le divergenze sulla compatibilità con il percorso
massonico si fanno più forti e sono sempre più consustanziali a quelle tra i
massimalisti e rivoluzionari che considerano la Massoneria come un retaggio
borghese, e i riformisti che, invece, rilevano sempre maggiori compatibilità di
intenti con essa nel processo di emancipazione umanitaria.
Nel 1905 la Massoneria venne tacciata di essere, sulle
colonne dell’ ”Avanti!” dal sindacalista-rivoluzionario Guido Marangoni, una
“quinta colonna” del riformismo piccolo-borghese, e di essere piuttosto
accondiscendente verso moderati e clericali. Ci fu una forte reazione del
compagno massone Alfredo Poggi e di un Fratello X che replicò testualmente:
“Perché dunque combatterla? O non è combattere una forza viva, un ausilio
valevole all’opera continua di svolgimento della legge indefinita del progresso
umano? I socialisti, più che combattere la Massoneria, dovrebbero conquistarla
e trasformarla, e sarebbe una nuova e grande forza al servizio della moderna
civiltà”, previa epurazione delle Logge dai massoni filo-clericali e moderati,
“trescatori illeciti, profanatori del tempio”.
La Massoneria, d’altro canto, ripudiava i metodi di lotta
socialisti basati sulla violenza, ribadendo di essere favorevole ad “un’azione
inoltre diretta ad infrenare possibilmente gli eccessi e le violenze, in cui
talora quel partito, od almeno una notevole parte di esso, si è abbandonato ed
ai quali ci si proclama pure disposti come a metodo di lotta”. Nell’ottobre del
1905 fu lo stesso Turati a prendere posizione, con una intervista rilasciata al
Corriere, ribadendo che lui ed il suo partito restavano estranei alla
Massoneria; ci furono forti reazioni e prese di posizione e fu deciso pertanto
di convocare un referendum tra gli iscritti per stabilire una eventuale
compatibilità tra l’essere massoni e l’appartenere al Partito Socialista.
La partecipazione fu scarsa ma significativa, solo il 25%
del totale delle sezioni, per una percentuale di iscritti di circa il 30% . Ciò
nonostante, la maggioranza che risultò in quelle condizioni per
l’incompatibilità fu netta ed arrivò all’85% di quanti si erano espressi. E la
proposta di espulsione dei massoni dal partito raccolse il 78% dei consensi. La
rappresentatività di tale referendum però risultava troppo scarsa per
legittimare un qualsiasi provvedimento.
Il GOI replicò, come nella tradizione massonica, con estrema
apertura e tolleranza rimarcando il fatto che si dovevano considerare
dimissionari dalle Logge Massoniche solo coloro che avevano già detto che
avrebbero accettato l’esito referendario, adeguandosi ad esso. Furono così
ritenuti “definitivamente dimissionari dall’Ordine quei Fratelli, i quali,
interpellati dai loro Venerabili, risposero che se l’esito del referendum
avesse stabilito la incompatibilità tra le qualità di massone e di socialista,
si sarebbero ritirati dalla Massoneria; dato che per tutti gli altri non crede
doversi prendere qualsiasi risoluzione, lasciando loro giudici e liberi di
rimanere o di andarsene, perché la Massoneria che deve accogliere ed accoglie
uomini onesti di qualunque fede, scuola o partito, purché sinceramente devoti
alla libertà, alla civiltà ed alla patria, non può, senza rinnegare le sue
dottrine fondamentali, formulare ostracismi, né assumere atteggiamento
d’intolleranza”. Non era una sorpresa, la Massoneria infatti non ha mai imposto
alcuna incompatibilità con nessun ambito politico o religioso, dato che per sua
tradizione secolare di Loggia, in ogni tornata, non si parla né di politica e
né di religione.
Nel febbraio del 1906 l’assemblea costituente massonica
ribadì di volere mantenere buoni rapporti con i socialisti. Fu solo
stigmatizzato il fatto che “la Santa Inquisizione socialista seguì il suo
procedimento, e 9 mila proletari su 37 mila iscritti deliberarono l’indegnità
dei socialisti-massoni” Ma, in conseguenza di ciò, pochissimi furono quelli che
lasciarono il Partito o la Massoneria, per la maggioranza il referendum non
ebbe alcun effetto. Nel 1910 una convergenza sembrava tornare possibile,
soprattutto sul piano della laicità dello Stato e delle riforme sociali, ma le
diffidenze restavano e ci si limitò «a voler tenere presente che l’opera loro
di educazione e disciplinamento e soprattutto quella di opposizione a gretti
criteri corporativistici» poteva «essere seriamente compromessa per i dubbi e
le diffidenze facilmente suscitabili nei lavoratori dal sospetto che,
appartenendo essi ad una associazione segreta, di cui sconosciute sono le
regole vincolatrici, la loro azione, anziché dal vero ed unico interesse dei
lavoratori, potesse essere ispirata e determinata da quei vincoli segreti ».
Come già detto, l’antagonismo era in gran parte datato e
riferito a quello preesistente tra repubblicani e socialisti, soprattutto sul
terreno della lotta di classe, non adottata dai primi ed invece ritenuta
indispensabile per i secondi. Lo ribadì lo stesso Turati, invitando i
socialisti “ogni qualvolta siano chiamati a decidere di tattica elettorale
locale, a ricordarsi dell’opera reazionaria e crumira dei repubblicani di
Romagna sul terreno economico, non sconfessata né dalla direzione né da una
sola Sezione del Partito Repubblicano Italiano, e a regolarsi di conseguenza”.
Si tornò a parlare di referendum e di voto di condanna per appello nominale ma
le posizioni furono varie e divergenti, tra le altre, ricordiamo quella di
Merloni che fu molto applaudita “l’opera singola dei socialisti massoni non ha
mai dato occasione a rilievi di sorta in tutto il partito … Donde la proposta
della scheda bianca: che non significa disinteresse dal problema massonico, il
quale può sempre utilmente discutersi, ma disinteresse dal fatto che ci siano
dei socialisti i quali credano utile e benefico di associare anche le loro
singole energie a quelle di un’istituzione che si propone di dissodare e di
preparare nel campo della cultura, della educazione e delle rivendicazioni
laiche, il terreno alle conquiste democratiche e socialiste” Qualcuno chiese se
gli esempi personali di Merloni o di singoli altri bastassero a giustificare la
penetrazione della Massoneria nel Partito, ma, obiettivamente, almeno sul piano
del buon senso e della razionalità, esse apparivano ineccepibili.
Ancora una volta il referendum riscontrò una minoranza di
partecipanti. Ancora nessun effetto, anzi uscì anche un opuscolo a firma “Il
Socialista massone” in cui si affermava che “la Massoneria, lasciando, come
sempre, totalmente liberi i suoi iscritti di propugnare quella tattica che essi
credano migliore, si astiene dall’intervenire nelle lotte elettorali. Insomma,
individualmente, i socialisti massoni non contraggono alcun impegno, che possa
in qualsiasi modo o misura contrastare coi loro doveri di partito. L’unico
impegno che essi assumono, in quanto massoni, è di dare opera attiva
all’apostolato anticlericale e laico” La guerra di Libia aprì in seguito
contraddizioni e lacerazioni nell’ambito del mondo massonico italiano, scosso
tra le rivendicazioni nazionalistiche, sia pure considerate nell’ambito di una
missione civilizzatrice e di progresso dell’Italia contro un impero turco
autoritario, arretrato e liberticida, e l’impegno per la pace e il disarmo
universale, unito al principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Tra il 1911 e il 1914 la questione dell’appartenenza alla
Massoneria nel Partito Socialista divenne una sorta di terreno di lotta sempre
più accesa tra componenti massimaliste e altre riformiste, si andò così
delineando una tendenza sempre più antimassonica. non per convinzione
particolare ma per convenienza, per esigenza di allineamento con le componenti
massimaliste sempre più maggioritarie. Questa sintesi dei rapporti tra socialisti
e massoni, grazie anche all’analisi che ne fa Giovanni Artero, consente di
capire meglio e a ragione veduta, il Congresso di Ancona nel 1914, quando
Mussolini chiese l’espulsione dei massoni dal Partito Socialista, e di
inquadrare il suo rapporto particolare con i massoni anche nel suo stesso
movimento, dall’inizio alla fine. Mussolini infatti, sarà bene ribadirlo a
chiare lettere, fu messo in condizioni di prendere il potere grazie anche alla
Massoneria e fu liquidato alla fine, il 25 luglio del 1943, da un gruppo di
massoni largamente presenti nel suo stesso Gran Consiglio del Fascismo.
Quando si aprì il Congresso di Ancona dell’aprile del 1914
non aveva la questione della compatibilità tra l’essere massoni ed essere
socialisti ai primi punti all’ordine del giorno, ma quella che sembrava dovesse
restare una questione marginale ben presto risultò avere un notevole spessore.
Fu Bordiga a volerla mettere in primo piano, adducendo la seguente motivazione:
“perché non si deve continuare a sospettare che il Partito socialista italiano
sia più inquinato di massoneria, o meglio ancora di massonismo, di quello che
effettivamente lo sia”.
Si confrontarono così posizioni favorevoli e contrarie a
tale compatibilità, Zibordi pose la questione della incompatibilità su vari
piani: la Massoneria non era tanto deprecabile per i suoi principi filosofici,
quanto piuttosto per la sua azione corruttrice del proletariato che veniva
messo sullo stesso piano della classe che lo opprimeva, inoltre i socialisti
non potevano sottostare a principi religiosi come quello che imponeva la fede
in un Grande Architetto dell’Universo. In conclusione, quindi, i socialisti
iscritti alla Massoneria avrebbero dovuto uscire dal Partito e
l’incompatibilità avrebbe dovuto essere netta. Seguì l’intervento di Poggi che
sottolineò invece come la questione non fosse di particolare rilevanza e che
dovesse pertanto essere trascurata dal Congresso, rilevando in particolare che
“Nessun vero massone può essere antisocialista perché tende a quella
liberazione spirituale che solo sarà possibile col trionfo del socialismo!
Nessun vero socialista può essere antimassone perché contraddirebbe ad ideali
che sono anche suoi!” Se dunque, aggiunse, vi erano debolezze, esse
riguardavano la fede e la tenuta morale di ciascuno, non certo l’appartenenza
alla Massoneria, ma erano strettamente inerenti ad una mancata piena coscienza
socialista, e quindi se qualcuno doveva essere espulso, ciò si sarebbe reso
necessario non in quanto massone, ma piuttosto perché rivelatosi cattivo
socialista.
Si decise pertanto di impostare la discussione e i
successivi interventi partendo da queste due mozioni, quella di Zibordi e
quella di Poggi. Esordì l’onorevole Raimondo che non esitò a definirsi massone
di lunga data, per lo meno dai moti di Milano soffocati nel sangue nel 1898,
quando tutte le organizzazioni politiche erano state sciolte e ai socialisti
non restava che essere massoni per avere scampo, inoltre riaffermò il ruolo
internazionalista della Massoneria indispensabile “alla creazione di
un’atmosfera pacifica utile alla conciliazione dei contrasti tra i popoli”.
Concluse sottolineando come questa doppia appartenenza andava avanti da più di
quindici anni e che molto socialisti-massoni avevano nel frattempo acquisito
cariche di rilievo e responsabilità istituzionali, chiedendo se a quel punto
anche quelle stesse fossero destinate a risultare incompatibili con la linea
del Partito.
Seguì l’intervento di Mussolini che fu il più deciso e
veemente contro la doppia appartenenza, invitando le sezioni ad espellere
immediatamente coloro che non si fossero adeguati alla incompatibilità tra
essere socialisti ed essere massoni. A chi replicava che, in tal modo, si
sarebbero perse non poche teste pensanti, egli disse con una certa
sfacciataggine: «Si è detto che se il Partito provoca un altro esodo dalle sue
file, forse rimarrà senza teste pensanti. Questa è una preoccupazione che non
deve menomamente turbarci, perché anche la morte a poco a poco ci toglie le
teste pensanti». Come a dire che considerava morta e sepolta una intera storia
e con essa gli stessi massoni che ne erano stati protagonisti, forse compreso
un personaggio che egli disse sempre di ammirare molto: Giuseppe Garibaldi, il
cui ritratto riempiva le prime sezioni del Partito Socialista con il suo Sol
dell’Avvenire.
Mussolini pose la questione della incompatibilità proprio
sul terreno della lotta di classe, specificando che l’umanitarismo massonico
era in pieno contrasto con essa, proprio lui che diverrà uno dei più accesi
nemici del concetto di lotta di classe, una volta generata la sua “creatura
fascista”. La sua conclusione fu quindi che non si dovesse solo considerare
l’incompatibilità, ma passare direttamente all’espulsione, per chi ammettesse
di essere massone. Matteotti aderì alla tesi di Zibordi ma rifiutò di sostenere
la tesi di Mussolini rilevando che ci si dovesse limitare ad una dichiarazione
generica di incompatibilità, senza passare però a misure repressive di
espulsione come esigeva Mussolini. Disse testualmente che era indegno che fosse
chiesto “alle sezioni di prendere per la schiena i massoni e cacciarli
fuori…Noi ritorneremo in questo modo alle liste di proscrizione”, e
rivolgendosi a Mussolini non esitò a ricordargli che: “Dovunque tu andrai
porterai rovina”.
Seguirono poi la dichiarazione di Bedeschi che riaffermava
di essere massone e di volere agire secondo coscienza e quella di De Angelis,
contrario a Zibordi, non tanto perché massone, ma perché convinto che il
Partito Socialista dovesse riconoscere ai suoi iscritti la libertà di
appartenere a qualsiasi associazione. Ci furono infine le votazioni e anche
questa volta la maggioranza andò a coloro che avrebbero voluto disinteressarsi
della questione, uscì seconda la posizione di Zibordi, aggravata da Mussolini
che stabiliva l’incompatibilità e l’espulsione, di poco avanti a quella di
Matteotti che ribadiva l’incompatibilità senza espulsione e infine quella di
Poggi che ribadiva la compatibilità ma che risultò minoritaria.
Tutto questa storia è interessante soprattutto per capire
come a tale ribaltamento di posizioni, corrispondesse quello politico, mentre
infatti a prevalere, fino ad allora, nel Partito Socialista era stata la
corrente riformista filomassonica, da allora in poi, seguita anche dal
sindacato, fu la componente massimalista ad essere maggioritaria, proprio in
nome non solo del ripudio della Massoneria, ma anche della piena accoglienza
delle tesi sulla necessità della lotta di classe. La CGL allora molto contigua
al Partito Socialista, nel suo Congresso celebrato a stretto giro rispetto a
quello socialista, anche se adottò formalmente una tesi più morbida, nella
buona sostanza ribadì i principi che erano già stati già espressi nell’assise
socialista, mettendo in guardia gli operai che «non dall’opera di società
segrete più o meno filosofiche e filantropiche [poteva]venirne vantaggio
all’opera loro di emancipazione, ma solo dalla più forte e cosciente
organizzazione loro di classe»
Come reagì a quel punto il Grande Oriente? Subito dopo il
Congresso socialista venne diramata una circolare che specificava testualmente:
“Dopo il voto del congresso di Ancona non vi può essere dubbio sulla condotta
che debbono tenere i massoni iscritti al Partito socialista ufficiale. Se vi è
qualcuno fra essi disposto a piegarsi al novissimo dogma del partito, esca
senz’altro dalle nostre file. Dove noi vogliamo uomini di fede sicura,
coscienze salde e dignitose, volontà libere e forti. Attendo da voi, non oltre
i quindici giorni da oggi, l’assicurazione che il pensiero del governo
dell’ordine è stato da tutti sentito.” In buona sostanza, si confermava il
fatto che non poteva restare in Massoneria solo chi aveva votato la mozione
rivolta all’espulsione dei massoni da quel partito, il minimo indispensabile
per un po’ di credibilità e coerenza.
Giovanni Lerda che si era dimesso dal partito e Orazio
Raimondo che era stato espulso, i quali avevano entrambi difeso a spada tratta
la compatibilità e la doppia appartenenza vennero largamente applauditi
nell’assemblea generale del GOI che si tenne nel 1914, anche se la situazione
non portò per la maggior parte dei massoni socialisti ad esodi di massa dalle
logge. Molti socialisti, anzi, protestarono in maniera ferma e decisa contro la
posizione antimassonica del Congresso di Ancona, ci furono infatti lettere di
protesta di massoni socialisti al segretario del PSI Lazzari, e persino una
conferenza che si svolse nella Loggia Italia di Parigi il 15 giugno, da parte
del socialista Pietro Mazzini, di ferma condanna di quell’operato liberticida.
Pochi mesi dopo, alla vigilia della guerra, nel luglio 1914,
lo stesso Mussolini scriveva come direttore dell’Avanti che “Se non vuole
cadere in rovina, l’Italia può adottare solamente un atteggiamento di assoluta
neutralità”, dopo soli cinque giorni dall’inizio delle ostilità, Mussolini
dichiarava in un manifesto che la guerra era utile soltanto ad aumentare il
potere dell’esercito, dello Stato e delle dinastie al potere: tutte istituzioni
da combattere. Arrivò addirittura a teorizzare una insurrezione contro la
guerra, avvisando i suoi lettori che “Se l’Italia dovesse rompere la neutralità
appoggiando gli imperi centrali, tutti i proletari italiani avrebbero il dovere
di sollevarsi in rivolta”. Fu persino messo in galera insieme al suo compagno
Pietro Nenni perché trovato a sabotare le rotaie dei treni destinati al fronte.
Se Mussolini cambiò nel giro di poco tempo repentinamente
idea fu grazie ad un massone: Pietro Naldi, direttore del quotidiano Il Resto
del Carlino di Bologna; c’è una testimonianza particolarmente eloquente proprio
di un redattore dell’Avanti di allora, Eugenio Guarino che dice: “Pippo Naldi
si presentò alla redazione milanese dell’Avanti e chiese di parlare in privato
con Mussolini. Poco dopo Mussolini abbandonò il suo classico abbigliamento da
persona di sinistra con cappello floscio nero, cravatta lisa e abito logoro, e
cominciò a presentarsi con abiti di lusso all’ultima moda” La Massoneria era
notoriamente interventista e, come è noto, lo divenne immediatamente anche
Mussolini, che si dichiarò ben presto favorevole ad un accordo con l’Intesa e
per un intervento dell’Italia in guerra.
Nuovi abiti, nuovo atteggiamento verso la Massoneria, nuovo
giornale, perché egli fu evidentemente espulso dalla direzione dell’Avanti e
dal Partito Socialista e fondò Il Popolo d’Italia. Mussolini diventava così il
terminale di fiducia in Italia della Massoneria internazionale, quella che
arrivava a Naldi tramite un altro grande massone come Antonio di San Giuliano e
mediante la Massoneria francese la quale, anche passando per la Svizzera,
cominciò a finanziarlo a getto continuo, insieme ad industriali italiani,
fabbricanti di armi ed equipaggiamenti militari. Il più feroce avversario della
Massoneria in Italia ne era diventato, in pochi mesi, il più fedele fiduciario.
La Massoneria che, in ogni caso sostenne ampiamente anche
l’impresa fiumana e anche D’Annunzio, pure lui massone, puntavano alla
realizzazione di una “democrazia del lavoro” che fosse al contempo
anticattolica ed antibolscevica. Lo disse a chiare lettere il Gran maestro
Torrigiani nel suo discorso di insediamento nel 1919 : “..noi dobbiamo
promuovere in Italia il concetto di una Democrazia del lavoro. Integrare il
riconoscimento dei diritti del lavoro con la devozione alla Patria, che è per
noi gradino all’Umanità; tale sia il nostro dovere”. Questa divenne la base con
cui Mussolini cercò poi anche con la CGL, negli anni successivi e durante la
sua affermazione iniziale, una prospettiva di “laburismo” nazionale.
Quando finì la guerra Mussolini stava per emigrare in
America, ma il 23 marzo del 1919 con un gruppo di Arditi, compagnia per altro
fondata da un generale massone di palazzo Giustiniani, di nome Luigi Capello,
in una sala convegni di piazza S. Sepolcro, messa a loro disposizione da un
massone ebreo di nome Cesare Goldmann, con una assemblea formata al 70% da
massoni, fondò i Fasci di Combattimento. Il programma rivoluzionario di tale
movimento era palesemente in linea con le istanze che trovarono risalto a Fiume
e di tendenza repubblicana; se lo leggiamo, nei suoi vari punti, poi variamente
rinnegati una volta che Mussolini realizzò il suo regime con il sostegno della
Monarchia e del Vaticano, esso si può assimilare pienamente alle dichiarazioni
che lo stesso Torregiani fece poi nel suo discorso già menzionato nel giugno
del 1919 e che proseguivano in tal modo: “Ma la borghesia italiana non deve e
non dovrà porsi come nemica di contro al Popolo lavoratore: ella deve fondersi
a lui e illuminare generosamente e saggiamente la impreparazione di lui alla
gestione della cosa pubblica in una collaborazione che deve essere sincera e
piena a qualunque costo. Deve essa avviare tutto il popolo lavoratore alla
conquista dello Stato, che a lui spetta e che da lui sarebbe spezzato e
travolto se s’intendesse di arrestare o frodare il corso della evoluzione
sociale. Soltanto così si difende lo Stato e con lo Stato si difendono i più preziosi
beni. Si difende lo Stato liberandolo dal predominio di quei ceti i quali hanno
cercato di ridurlo ad uno strumento di protezione dei loro interessi
particolari; si difende aprendolo al popolo lavoratore; si difende
contrastandone la conquista ad ogni dittatura di classe, più fieramente ed in
ogni modo a quella delle classi più impreparate (palese allusione alla
dittatura bolscevica n.d.r.), come si difende affermandone nel pensiero e
nell’azione il concetto ed i diritti contro l’antica pretesa sopraffattrice
della Chiesa, che non disarma”
Allora la Massoneria era divisa in due grandi istituzioni,
quella di Piazza del Gesù, più filocattolica e di rito scozzese, e quella di
Palazzo Giustiniani, liberale e anticlericale, legata alla Massoneria rivoluzionaria
francese ed americana. Mussolini non si fece scrupolo di utilizzarle entrambe
per raggiungere il potere.
Si può dire che tra le due la Massoneria Giustinianea aveva
adottato seriamente prospettive rivoluzionarie che animarono l’impresa fiumana,
la quale non si saldò con il movimento operaio di occupazione delle fabbriche
in un esito insurrezionale solo perché il Consiglio nazionale della CGL bocciò
nettamente la soluzione rivoluzionaria. Ma che la Massoneria considerasse la
nascita dei Fasci di Combattimento come un serio programma per attuare una
rivoluzione repubblicana in Italia è fatto acclarato. In special modo dalle
dichiarazioni del generale Capello, in un suo articolo pubblicato sulla
“Patria” di Roma dove l’alto dignitario massonico, rivolgendosi ai Fasci
scrive: “I Fasci di Combattimento non ebbero affatto in origine carattere
conservatore e meno ancora reazionario. Furono fondati nel marzo del 1919 per
raccogliere le forze superstiti che fecero il movimento interventista
rivoluzionario del maggio 1915, allo scopo di opporre un argine alla tracotanza
del neutralismo socialista, imbaldanzito dalla timidezza del governo e dalla
passività della borghesia che credeva di conservare più agevolmente i profitti
realizzati durante la guerra concedendo largamente sugli allora larghissimi
margini di lucro delle industrie; ed allo scopo pure di offrire al popolo
lavoratore un programma di oneste rivendicazioni economiche, sulla base
nazionale, valorizzando la vittoria, invece di demolirla. Il programma politico-sociale
dei Fasci fu inizialmente audace: affermava la necessità della Repubblica e
prospettava profonde trasformazioni nel campo della proprietà, giungendo
perfino a riconoscere la necessità della espropriazione parziale.”
Questa è una ulteriore prova che il movimento fascista
nacque e fu ispirato da istanze massoniche, le quali non avevano alcuna
velleità reazionaria, ma teorizzavano altresì uno sbocco rivoluzionario di tipo
sindacalista e nazionale. Lo conferma lo stesso Capello, dicendo che “Con tutto
questo sarebbe un grosso sbaglio interpretare il movimento fascista, pur qual è
oggi, come un movimento di “reazione bianca”, fatta nell’interesse del
capitalismo. […] Intimamente il Fascismo è una forza rivoluzionaria, forse la
sola forza veramente ed attivamente rivoluzionaria che vi sia in Italia –
appunto perché combatte la forma “utopistica” della rivoluzione rappresentata
dal così detto bolscevismo, per far strada alla forma realistica della
rivoluzione che si va concentrando in una sorta di sindacalismo nazionale, non
ancora esattamente precisato nei suoi lineamenti, ma già animato da un poderoso
soffio di vita”
Fu quindi la Massoneria a far risaltare Mussolini e a
spingerlo verso una prospettiva rivoluzionaria, dando ispirazione ed impulso ai
suoi Fasci di Combattimento, in una dinamica che va inquadrata nel netto
dissidio tra repubblicani contrapposti ai socialisti, sia a quelli che avevano
adottato i programmi bolscevichi definiti “utopistici” sia a quelli di
orientamento “riformista” ritenuti “neutralisti e passivi”. Era una dialettica
che aveva antiche origini, in particolare nella stessa terra di Mussolini: la
Romagna. L’obiettivo della Massoneria, come già rilevato, era quello di
servirsi di Mussolini per realizzare un programma di attuazione di una
“democrazia del lavoro” che avrebbe dovuto tagliare fuori da ogni combinazione
di potere gli estremi antimassonici del bolscevismo e dell’Associazione
Nazionalistica.
Ma Mussolini era un giocatore d’azzardo abituato a giocare e
a puntare su più tavoli, per ottenerne il massimo del vantaggio personale. Da
una parte si mostrava pronto a realizzare il programma massonico, dall’altra
cercava la “pacificazione” con gli ex compagni socialisti, e infine da un’altra
ancora sondava il terreno con il Vaticano per usare anche la Chiesa come
strumento di propaganda per i suoi fini.
Egli restò di conseguenza il fiduciario della Massoneria
soprattutto durante il biennio rosso, come migliore argine al dilagare del
bolscevismo, fino ad essere aiutato da massoni, durante Marcia su Roma, ad
avere le porte spalancate dal Re. Fu un grande errore massonico, perché
Mussolini non esiterà, dopo essersi impadronito del potere, a fare la sua
ennesima giravolta preferendo alla Massoneria gli accordi con il Vaticano e
finendo per liquidarla del tutto, mettendola fuori legge, devastando le sue
Logge e perseguitando i suoi membri. Contro la Massoneria, dal suo punto di
vista, giocarono due fattori essenziali: il primo rappresentato dal fatto che
Mussolini era “geloso” di quella che egli considerava una sua creatura
politica, di cui intendeva essere il capo assoluto e il secondo un certo
disgusto per un anticlericalismo di stampo risorgimentale, da lui ritenuto
troppo grossolano e logoro, e in definitiva controproducente per l’obiettivo
della conquista e del mantenimento del potere in un paese con masse ancora
largamente cattoliche.
Ad onor del vero, se il Gran Maestro Torrigiani si illuse
sulla possibilità che Mussolini non andasse verso la dittatura e fu quindi
disposto ad aiutarlo e ad incontrarlo, in una misura che potremmo definire
“attendista”, non pochi furono i “fratelli” che contestarono questa scelta, il
Gran Maestro aggiunto di palazzo Giustiniani, Guido Francocci scrisse in un suo
libro “La Massoneria”: “Tale atteggiamento verso il fascismo staccò non pochi
spiritualmente dal Gran Maestro. Pareva allora impossibile che egli non
comprendesse come una situazione politica, di cui era centro e fulcro un solo
uomo – e l’uomo che già aveva dichiarato guerra aperta all’Ordine Massonico
quando aveva fatto proclamare l’incompatibilità ideologica e pratica tra
Socialismo e Massoneria – rappresentava un pericolo imminente e immanente
contro le democratiche libertà. Purtroppo i massoni intransigenti furono
facilissimi profeti, e il Gran Maestro dovette subito accorgersi quanto le sue
previsioni fossero state fallaci. Un colloquio segreto tenutosi a Roma tra lui
e Mussolini, a brevissima distanza dalla “Marcia su Roma”, non poteva che
profondamente deluderlo: accettare il fascismo equivaleva a consentire
l’esperimento dittatoriale, asservire cioè l’Italia al tiranno, sopprimere le
libertà, rinnegare il Risorgimento italiano, far ludibrio dei principi
fondamentali, unica ragion d’essere della Libera Muratoria…”
I massoni che puntarono su di lui, in effetti, avrebbero
dovuto ricordare bene le sue posizioni nel Congresso socialista di Ancona del
1914.
Certo la “notizia” non mette sottosopra l’universo, però è
significativa e merita spazio. Il 1° maggio 1925 Antonio De Curtis, in arte
Totò (Napoli, 15 febbraio 1898-Roma, 15 aprile 1967), solennizzò a modo suo la
festa del lavoro: cinse il grembiule di muratore, anzi di libero muratore, e
venne registrato massone nella loggia “Nazionale” di Roma, all’obbedienza
diretta di Raoul Vittorio Palermi (1864-1948), sovrano e stratega della Gran
Loggia d’Italia. Si sapeva da anni del suo ingresso nella “Fulgor” di Napoli
nel 1945. La novità sulla sua iniziazione di vent’anni prima è emersa
nell’affollato convegno su “L’impresa di Fiume, 1919 1920. Tra leggenda e
realtà”, organizzato dalla Delegazione Magistrale friulana della Gran Loggia
d’Italia al castello di Villalta (Udine), con la partecipazione del sovrano e
gran maestro Antonio Binni e degli storici Enrico Folisi, Lijubinka Toseva
Karpowicz e Valerio Perna, presenti “fratelli” di diverse Comunità e molti
“profani”. Durante il “Ventennio” Totò conservò sotto la bombetta quel segreto
che aiuta a comprenderne meglio la tetragona libertà di pensiero e la distanza
siderale dal “regime”. Ma, poiché si parla di un Ordine iniziatico, andiamo per
ordine…
Primavera di bellezza?
Roma, primavera 1925. Il 3 gennaio da Capo del governo,
Benito Mussolini, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del
Re”), con un infuocato discorso alla Camera respinge l’accusa di complicità nel
“delitto Matteotti” e sfida il Parlamento a denunciarlo e a tradurlo in
giudizio dinnanzi al Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia in forza
dell’art. 36 della Carta Albertina “per giudicare dei crimini di alto
tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, i ministri accusati dalla
Camera dei Deputati”. Nessuno fiata. La maggior parte dei deputati
d’opposizione (socialisti, repubblicani, seguaci di Giovanni Amendola e ala
sinistra del cattolico partito popolare italiano) dall’estate precedente non
partecipano alle sedute, arroccati in un immaginario “Aventino”. Re
rigorosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III (1869-1947, sul trono dal
1900) a chi gli chiede di revocare Mussolini risponde che i due rami del
Parlamento sono i suoi occhi e le sue orecchie. Chi ne vuole la caduta deve farlo
alla Camera, ove i deputati iscritti al Partito nazionale fascista sono ancora
una minoranza (227 su 545).
Ma tra diserzioni e accelerazioni, il Paese sta rapidamente
precipitando dalla democrazia parlamentare, fondata sui collegi uninominali a
doppio turno, al governo di partito unico. La svolta ha una premessa
strategica: dal 1914-1915 due forze si contendono la primogenitura del
Risorgimento e della completa unificazione con la vittoria nella Grande Guerra.
Da una parte i nazionalisti (nati intorno al 1908, nel clima rovente
dell’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna), irrobustiti dalla
confluenza nel Partito Nazionale Fascista (febbraio 1923), gonfio di voti ma
ancor privo di un progetto politico univoco. Dall’altra la massoneria che non a
torto vanta un secolo di lotte per unità, indipendenza e libertà, dalle
cospirazioni nel 1820-1848 sino ai governi che in Italia avevano introdotto
elettività delle cariche, istruzione obbligatoria e codici d’avanguardia.
Tira vento di tempesta. Il 12 gennaio Mussolini deposita
alla Camera la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni.
Il 14 “L’Idea Nazionale”, organo dei nazionalisti, pubblica un estratto della
relazione della “Commissione dei Quindici” distillata dai deputati Gioacchino
Volpe e Francesco Ercole. L’obiettivo è esplicito: “Qualsiasi specie di società
occulta, anche se per ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente
lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la
sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge”.
Di lì a poco lo slogan sarà: tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato.
Poi diverrà: tutto nel partito, niente al di fuori né contro il partito, cioè
l’unico consentito: il Partito nazionale fascista. Il Partito imporrà il colore
della camicia, l’ingresso nel lavoro (tramite i sindacati fascistizzati) e
intrupperà milioni di italiani nel Dopolavoro per controllare corpo e anime dei
cittadini. Una nuova “chiesa”, non meno opprimente dell’altra, con la quale
l’11 febbraio 1929 il regime “concorderà”, salvo poi scontrarsi come fatalmente
accade tra dogmatismi.
In quel maggio 1925 le due principali Comunità massoniche
italiane (Grande Oriente d’Italia, con sede a Palazzo Giustiniani, oggi popolato
di uffici del Senato; e Gran Loggia, a Piazza del Gesù 47, nel sontuoso Palazzo
Artieri) ormai navigano a vista. Il dibattito sulla legge viene calendarizzato
alla Camera dal 16 maggio. Si chiuderà il 19 con approvazione pressoché unanime
e alcune significative assenze non giustificate, a cominciare da Italo Balbo,
“quadrumviro” della mai avvenuta “marcia su Roma” ma antico “oratore” della
loggia Girolamo Savonarola della sua Ferrara e già astenutosi nella
dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo che il 23 febbraio 1923 aveva
dichiarato l’incompatibilità tra fasci e logge.
L’iniziazione massonica di un “uomo di mondo”
Malgrado tutto, mentre la massoneria è sotto assedio e le
libertà individuali stanno per essere soffocate, qualcuno nuota impavido controcorrente.
È il caso di Totò. È un uomo sofferente. Mentre il Tempio sta per crollare
decide di passare tra le sue colonne e di sedere in silenzio fra gli
apprendisti, proprio lui, parlatore forbito, mago della parola, principe dello
scilinguagnolo. È tempo di guardare all’Oriente prima che la Luce venga spenta
a Occidente. Il marchese De Curtis non è affatto uno sprovveduto. Sa benissimo
di compiere un passo rischioso. Conta sulla riservatezza della Fratellanza.
Offre la sua “testimonianza” a quel che resta dell’Italia nella quale si
riconosce: quella degli uomini liberi. L’attore vive una tra le stagioni più
angustiate della sua travagliata esistenza terrena. Ha ventisette anni. La
madre, Anna Clemente, lo voleva prete. Lo aveva avuto dal marchese Giuseppe De
Curtis, frutto di una relazione extraconiugale, e lo aveva fatto registrare
all’anagrafe come Antonio Clemente “di N.N.”. Chierichetto di passo come tanti
coetanei, più malinconico che giocoso, lasciata alle spalle infanzia e
adolescenza tristissime, Totò fece i conti col servizio militare tra Pisa,
Pescia, Alessandria e Livorno. A Cuneo non mise mai piede, ma coniò il celebre
motto “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”… cioè “in
capo al mondo”, in un angolo sperduto, “ai confini dell’Impero”. Si compiacque
anche di dire che vi era stato seminarista. Cuneo era un “tòpos”. Anche se
aveva dato e continuava a dare i natali a politici, scienziati, storici,
scrittori e militari di primaria grandezza (bastino i nomi di Vittorio Bersezio,
Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Vittorio Cian, Ettore Pais, Balbino
Giuliano, Pietro Gazzera…) era dipinta come “Beozia d’Italia”. Proprio perché
non lo è e sa sorridere di sé e delle leggende che la circondano, su impulso di
Gianni Vercellotti, avvocato e profeta del turismo in plaghe povere di vere
autostrade, ferrovie, strade, aree attrezzate ma ricche di umanità, la
“Provincia Granda” è stata al gioco e da molti anni ha costituito
l’Associazione “Uomini di Mondo a Cuneo”, brevius “UdM di Cuneo”. Ora
presieduta dall’esilarante vignettista Danilo Paparelli, con tanto di Totò
quale emblema, viatico e “angelo protettore”, l’UdM ha appena celebrato
l’ennesima edizione dedicata a D’Artagnan, il più celebre dei Quattro
Moschettieri di Alexandre Dumas, che si ispirò al conte Charles di
Batz-Castelmore, fuggevolmente ma effettivamente militare a Cuneo. “Uomo di
mondo”, dunque. Già. Ma come era il mondo conosciuto e vissuto da Totò, uomo e
non “caporale”, sino al fatidico 1° maggio 1925? Una sequenza di umiliazioni e
di speranze, di sogni e di delusioni. Navigazione tra i flutti della vita con
la barra a dritta ma con l’occhio alla sua Stella Polare: la libertà di
pensiero (e anche un po’ di costumi). Sin da ragazzo voleva divertirsi e far
divertire, procurarsi piacere e dispensarne. Intraprese la carriera di attore
nella sua città, che presto però gli divenne stretta. Tardivamente riconosciuto
dal padre e passato a Roma in cerca di miglior fortuna, si esibì in una
“compagnia” di second’ordine, senza fisso compenso. Spiantato, spesso alla
“fame nera” (come egli stesso narrò), fu licenziato in tronco quando osò
chiedere all’impresario, Umberto Capece, almeno gli spiccioli per il tram da
casa al teatro. Gli si spalancò dinnanzi l’abisso dell’isolamento. Optò per il
varietà, di gran lunga più congeniale con le due anime che convivevano nella
sua persona, il sorriso scherzoso (ma quanta malinconia nei suoi occhi) e lo
sconforto più cupo. Totò divenne “la Maschera”. Incarnò gli italiani che
uscivano feriti dalla Grande Guerra e si inabissavano in un regime liberticida
che li avrebbe precipitati in un secondo irreparabile disastro.
La Gran Loggia dal tramonto…
Il suo nome fu iscritto nel repertorio degli “apprendisti”
della Gran Loggia, annotati con la grafia tipica degli scritturali del tempo:
uno svolazzante corsivo pulito pulito con cognome, nome, data e loggia di
appartenenza. Gli iniziati/affiliati della Gran Loggia avevano superato
largamente quota 28.000. Altri ne vennero segnati lo stesso 1° maggio. Il 19 accanto
a un numero matricolare in uno spazio bianco compare la formula arcana:
“Segreto”. Era il giorno dell’approvazione della nefasta legge “contro la
massoneria”. Gli ingressi continuarono sino al 17 novembre 1925, cioè alla
vigilia del forzato autoscioglimento decretato da Raoul Palermi mentre era in
viaggio negli Stati Uniti d’America per ottenere la solidarietà dei Supremi
Consigli di rito scozzese antico e accettato di cui la Gran Loggia faceva parte
dal Convento mondiale di Washington (dal 1912): riconoscimento solennemente
confermato a Losanna nel 1922. In Italia le logge erano perseguitate, invase,
incendiate. I loro arredi e archivi venivano dispersi (anche per iniziativa di
transfughi decisi a cancellare le tracce della loro affiliazione), ma all’estero
l’Acacia continuava a fiorire. Il regime stesso non poté fare a meno di
confrontarsi con massoni di spessore culturale e patriottismo indiscutibile: da
Vittorio Valletta, Ugo Cavallero, futuro maresciallo d’Italia, Luigi Mascherpa,
ammiraglio, Edmondo Rossoni (capo dei sindacati fascisti), Curzio Malaparte
(tutti della Gran Loggia), Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Alberto
Beneduce (del Grande Oriente).
… alla Palingenesi e al Fulgore
Chi sapeva sapeva. Il massonismo non andava sbandierato ma vissuto.
Fu quanto fece Totò. Alternò la rivendicazione del titolo nobiliare (Sua
Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito, Duca Comneno di Bisanzio, principe di
Cilicia, di Macedonia, Dardania, Tessaglia, Ponto, Moldava, Illiria,
Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro..: d’altronde anche il Re d’Italia si
rivendicava Re di Cipro e Gerusalemme, al pari di tanti altri sovrani in
Europa) alle tournées dai successi crescenti e all’esercizio della beneficenza,
praticata con discrezione e senza mai chieder conto del frutto della sua
proverbiale generosità, proprio perché aveva conosciuto la miseria, la fame, il
freddo, l’amore senza speranza, il dolore (anche negli affetti più cari), la
prepotenza esosa degli impresari, l’arroganza dei “potenti” antichi e nuovi.
Di quest’ultima ebbe un saggio nel gennaio 1945 durante una
tournée in Toscana in cui presentava “Imputati, alziamoci”, un sorridente
invito a un “esame di coscienza” da parte di quanti stavano rapidamente
cambiando il colore della camicia, dal nero al rosso fiammante. Come in “Totò
massone. Il principe Antonio De Curtis e la massoneria del suo tempo” (ed,
Atanor) narra Ruggiero di Castiglione (autore di dottissimi saggi e repertori)
gli si presentò nel camerino un energumeno che gli domandò a bruciapelo: “Veramente
per lei camerata e compagno è la stessa cosa?” e alla risposta “Mah, non so”
gli sferrò in faccia un pugno partigiano che gli spaccò le labbra”.
“Spaventatissimo” per il clima di odio dilagante Totò riparò a Roma e poi a
Capri.
“Resurrexit… sino al grado 33°”
Il 9 aprile seguente il “Marchese De Curtis Gagliardi
Antonio” sottoscrisse il Testamento massonico nel “gabinetto di riflessione”
della loggia “Fulgor” di Napoli (Gran loggia d’Italia) per l’accettazione tra i
Fratelli. Alla domanda: “Che cosa dovete a voi stesso” rispose “Niente
all’infuori del miglioramento spirituale”. Chi ritiene che il “re della risata”
si esaurisse nell’esibizione nei teatri di tutta Italia, in un centinaio di
films, spesso a costi irrilevanti, e in un profluvio di presenze televisive,
non ne coglie la profondità umana, fatta di riservatezza, riflessione, tormenti
appena leniti dalla compagna, Franca Faldini e dalla figlia, Liliana, che gli
furono a fianco negli anni difficili dell’incipiente vecchiezza e delal cecità.
Proprio alla compagna una volta accennò quasi distrattamente ai segni di
riconoscimento in uso tra massoni.
Secondo Giordano Gamberini, gran maestro del GOI e
collettore di memorie e confidenze di massoni di antica data e di varie
Obbedienze (come Dunstano Cancellieri), nel 1944 Totò fu iniziato (o più
correttamente si ridestò dal forzato “sonno”) nella loggia “Palingenesi” di
Napoli per transitare poi nella citata “Fulgor”, che aveva sede in via Monte di
Dio, sulla quale si affaccia Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta e ora da suo
figlio, Massimiliano. Lì Totò presenziò all’iniziazione di Mario Castellani e
Vittorio Caprioli. Come documentano le carte che da Piazza del Gesù migrarono al
Grande Oriente con Francesco Bellantonio quando gran maestro era Lino Salvini,
Totò fondò poi una loggia in Roma, la “Fulgor Artis” mentre poche e vaghe voci
rimangono sulla “Ars et Labor” , forse sua reincarnazione.
Gli impegni “professionali” e qualche delusione per i poco
fraterni dissensi tra la diverse Comunità liberomuratòrie e per le gare tra i
diversi aspiranti a cariche apicali (quant’è difficile deporre i metalli al di
fuori dei Templi) coincisero con il suo definitivo assonnamento. Aveva raggiunto
il grado 30° del Rito scozzese. Il 19 ottobre 2012 la Gran Loggia gli conferì
il grado 33° “alla memoria”, presente sua figlia, Liliana.
“’A Livella”
Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre
raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna
l’attrezzo del lavoro di loggia. Sormontata dal compasso, la livella, simbolo
di equilibrio, armonia e uguaglianza, forma un triangolo equilatero
attraversato longitudinalmente dall’archipendolo, che coniuga il piano “terraqueo”
con lo Spirito. Nel film “Letto a tre piazze” (1960) Totò si rivolse a Peppino
De Filippo: durante un’immaginaria quanto allusiva “scalata” gli disse:
“professò’ , la lego ad un masso…, n’ho trovato uno magnifico, questo resiste,
è un bel massone, un massone”. Con una delle sue ultime partecipazioni filmiche
in “Uccellacci, uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966), stupì tutti per la
sua drammatica forza interpretativa, che gli meritò anche una menzione speciale
e un nastro d’argento al Festival di Cannes. Precocemente invecchiato ma
indomito, generoso con tutti (consigliò a Pasquale Zagaria di mutare il nome
d’arte da Lino Zaga in Lino Banfi…), non dimenticò l’amarezza per la sua
esclusione dalla televisione per aver entusiasticamente esclamato “Viva Lauro”
durante una puntata del Musichiere di Gigi Riva (1958). Non era una ingenua
captatio di voti pro-monarchia ma un omaggio a Napoli che, disse una volta, è
l’unica vera grande città d’Italia. Roma ne è solo una “periferia”.
Si avviò alla fine senza rimpianti ma col timore di essere
presto dimenticato. Invece il pubblico gli si affezionò ancor più. Capì la sua
libertà di spirito. L’Italia ne aveva e ne ha bisogno. A nessuno verrebbe in
mente di ignorarlo per la sua scelta del 1° maggio 1925, ribadita vent’anni
dopo, il 9 aprile 1945. D’altronde nella sua originaria “Fulgor”, nella “Fulgor
Artis” o nell’officina intitolata al celebre Gustavo Modena o in altre ancora
delle due diverse liberomuratorie italiane si raccolsero nel tempo attori,
cantanti, scrittori quali Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Giovacchino
Forzano, Silvio Gigli, Francesco Gorni Kramer, Amedeo Nazari, Tito Schipa,
Odardo Spadaro, Paolo Stoppa, Johnny Dorelli e il Claudio Pica, noto come
Claudio Villa, membro della “Propaganda massonica” n. 2, come il grande e
sfortunato Alighiero Noschese: un patrimonio morale del Paese Italia. Allora,
proprio l’Associazione cuneese Uomini di Mondo potrebbe forse promuovere una
rivisitazione di quell’Universo in omaggio al principe Antonio De Curtis, il
Totò del quale ben si può dire “semel abbas, semper abbas”.
Il pensiero teleologico massonico e la sua tensione ontologica alla Verità
Inizio chiarendo il significato della parola “ermeneutica”.
Questa è la metodologia della interpretazione, del chiarire, dello
spiegare. Nasce in ambito religioso per definire la corretta
interpretazione dei testi sacri e poi, nell’età del Rinascimento
italiano, si amplia all’analisi dei testi tout court, in
qualsiasi ambito. Dicendo corretta interpretazione dei testi sacri,
evidentemente mi riferisco a due modalità interpretative: la prima è
l’interpretazione linguistica atta a riconoscere la validità d’origine
di un testo, dunque l’esatta attribuzione a un autore o a una corrente
di pensiero e di cultura. L’altra modalità, specifica per i testi sacri,
è l’interpretazione fideistica o, in senso più generale,
spiritualistico-religiosa (interna alla teologia) del contenuto del
testo.
Non è questa sommaria distinzione da confondere con quella tra forma e sostanza;
infatti, l’interpretazione del testo in quanto tale, nella sua forma
linguistica, non è rivolta alla pura espressione formale, essa al
contrario si volge alla forma per riconoscerne la sostanza nascosta
nella forma. Ad esempio, se un termine ha un certo significato in un
ambito ben definito, quel termine ci svela, essendo stato usato in
quella frazione di testo, non solo che appartiene ad un determinato
periodo storico e a un preciso ambito culturale, ma anche svela il vero
significato dell’intero frammento di testo. In italiano, ad esempio,
usiamo il termine Illuminismo per una specifica corrente di pensiero dai
forti connotati culturali e civili, mentre il termine tedesco Aufklarung,
che potrebbe essere tradotto sempre con Illuminismo, all’analisi
ermeneutica svela un diverso significato che, purgato di connotati
ideologico- politici, ha valenze più letterarie e culturali; quindi più
opportunamente è da tradurre con “rischiaramento“. Il primo ci
dice che illumina le genti verso un cambiamento sociale, il secondo che
rischiara le menti verso la comprensione della realtà. Allora è ben
evidente che con l’ermeneutica si parte dalla forma, come figliastra,
per giungere alla sostanza, come genitrice indiretta.
L’altro livello o dimensione dell’interpretazione ricerca i sensi
nascosti che determinano una fede, in altri termini, si interpreta dando
dei significati d’ordine spirituale che non necessariamente collidono
con il significato semantico della parola stessa o della frazione di
testo in cui essa è contenuta.
La prima modalità appartiene più all’ambito della filosofia mentre la seconda a quello dell’esegesi.
C’è una concezione che in un certo periodo si è andata affermando
riguardo alla filosofia come scienza dal rigore ineccepibile, ovvero
della filosofia come modalità del pensare umano in grado di
rappresentare la realtà.
Ai Massoni queste concezioni lasciano alquanto distratti e
disattenti. Infatti, non sono queste le condizioni che possono essere
definite come necessarie per il percorso massonico d’elevazione umana e
spirituale. Tutto ciò che tenta di porre un termine allo sviluppo del
pensiero e dell’elevazione spirituale umana appare autolimitante,
sembrano un colpo di freno allo sviluppo della Gnosi umana. Per questo
le ideologie al Massone non possono che apparire una castrazione del
pensiero, dell’evoluzione progressiva del pensare e del sentire
dell’Uomo.
Un Massone dovrebbe partecipare alla nostra società universale, per
superare le limitazioni del pensare, per dare spazi e dimensioni altri
da quelli che il mondo profano riesce ad elaborare e che poi
traumaticamente è costretto periodicamente a negare e reinventare. Lo
scopo della Massoneria è quello di fornire uno sviluppo senza traumi,
senza una presunzione gnoseologica che dall’ontologia profana verrebbe
limitata. Ciò implica il
riconoscimento che la Verità è un concetto trascendente e non immanente, ma su questo ritornerò.
Il pensiero umano, pensiero simbolico, filosofico, teologico e
scientifico, con Tommaso, Galilei, Descart, Kant e altri sommi, si è
posto l’obiettivo di essere garante della rappresentazione fedele della
realtà e, sicuramente, sugli aspetti fenomenici ne ha svolto il compito
con esemplare maestria. Tale visione pone quindi il pensiero filosofico
come specchio in cui la realtà, la Natura si rispecchia o almeno, come
Kant meditava, ne riconosce le strutture di base.
Oggi, l’idea che questo indirizzo sia definibile come metafisico, e
su ciò non si può essere che d’accordo ignorando il senso negativo che
tanti filosofi odierni tendono a dare del termine metafisica, ci deve
indurre a riscoprire i sensi nascosti del pensiero metafisico, in
termini moderni e con analisi ermeneutica, anche se in questo scritto
preferisco usare il termine trascendente.
Quando Heidegger riduce il pensiero metafisico alla contemplazione
della verità oggettiva o tutt’al più all’osservarla, e quindi a
riscoprirne le norme che nella realtà sono insite, egli rifiuta la
realtà come insieme sistemico di cui l’uomo è elemento partecipativo e
lo estranea dalla realtà, più precisamente dalla Natura, configurando
quella scissione che già la religione positiva aveva posto, estendendo
tale scissione a tutto l’essere cosmico, uomo, natura e aspetti
sovradimensionali dello stesso e della stessa natura.
Il Massone, superato l’apprendistato, come Compagno incomincia a
sviluppare un’osservazione ermeneutica della Natura nei termini della
scoperta dei suoi significati misterici, quelli nascosti nell’intimo
della Natura, quelli che non vengono svelati neppure dall’individuazione
delle leggi fenomeniche che controllano gli accadimenti, sempre
fenomenici, della stessa Natura. La Natura, in una visuale esoterica, è
da scoprire non nei suoi accadimenti appariscenti, epifenomenici, che di
ciò la scienza con i suoi attuali sofisticatissimi metodi e strumenti è
in grado di fare meglio, ma con una visione altra, nella sua
sostanzialità metastorica e metafisica. Il pensiero materialistico,
positivistico, scientista ci descrive la Natura nel suo apparire, nei
suoi aspetti discorsivi, ma nulla può dire sulla sua sostanzialità, su
ciò che il senso del sacro e della spiritualità umana possono dire ed
intuire. Anche se c’è da ammettere che questo pensiero non si pone altro
scopo che osservare, descrivere e spiegare ciò che accade nella Natura
lasciando ad altri di enucleare i perché degli accadimenti.
La Massoneria, proprio perché non è metodo gnoseologico, si oppone alla ipostatizzazione di una via prestabilita; essa non è “la via” e neppure “una via” essa supera il concetto di via, quindi di metodo e di metodologia, e si pone come “tensione” ontologica alla Verità“.
L’epistemologia filosofica ci ha insegnato che ogni legge scientifica è
tale nella misura in cui può dimostrare la sua fallacia e quindi
superare se stessa con un modello interpretativo maggiormente
esplicativo. Ciò che non è dimostrabile come errato, parziale, limitato
al contingente storico non è scienza ma è fede, è cristallizzazione del
sapere e della conoscenza scambiata come Verità.
La concezione della Massoneria come “metodo di vita“, in
particolare in una certa corrente del pensiero massonico italiano,
vorrebbe dire come affermano certi alti esponenti di Gran Loggia che «La
Massoneria non esprime, invero, una particolare filosofia o ideologia,
ma un metodo di convivenza tra tutte le filosofie e le ideologie
possibili». Un’idea che sorvola sulla rappresentazione della
Massoneria come associazione iniziatica e separata dal mondo profano ed
anche “laicamente” sincretica, di modo che in essa potrebbe confluire
qualunque pensiero umano senza discriminazione. È evidentemente una
concessione all’uso indiscriminato di pensieri esoterici, religiosi,
filosofici e anche ideologici di ogni epoca e cultura senza che essi
passino nel filtro di una ermeneutica massonica. apparentemente
alternativo è l’idea della Massoneria come “ortoprassi”. Questo è un
concetto ripreso dal pensiero teologico volendo superare la distinzione
tra dottrina e morale;
la prima implica il pericolo del dogmatismo, la seconda dà priorità
al retto comportamento sotto la supremazia del bene universale.
L’ortoprassi, corretto modo di agire, limita tanto il pensiero che
l’azione massonica ad un “essere per fare” (comportarsi) e
necessariamente rischia di confluire nella corrente di pensiero del
pragmatismo anglosassone. È sostanzialmente una visione immanentista, di
cifra comportamentale, che mette in secondo piano ogni espressione
spirituale umana. A ben vedere ambedue le visioni soffrono della stessa
unidimensionalità che Marcuse, tanti anni fa, denunciava nell’immagine
dell’uomo unidimensionale.
Ambedue le elaborazioni evidenziano, la prima più della seconda, la
carente elaborazione del pensiero massonico, l’adeguamento a logiche del
passato, a filosofie del pensiero che la stessa filosofia oggi ha
superato.
L’idea del “metodo” massonico, di matrice cartesiana, da una parte
non prende posizione su una elaborazione squisitamente massonica degli
esoterismi, filosofie e ideologie, dall’altra parte vorrebbe opporsi
all’idea pragmatica, comportamentale, del fare massonico, però
contraddicendosi quando s’immerge nel vissuto collettivo profano
adottando filosofie, indirizzi culturali e ideologie sociali. In
definitiva questa massoneria metodologica si rende più pragmatica di
un’ortoprassi che almeno cerca di definire una morale massonica.
Il pragmatismo anglosassone, con i suoi epigoni l’inglese John Dewey e
l’austriaco Ludwig Wittgenstein, mira a considerare l’uomo non come
osservatore ed esploratore della sostanzialità della realtà, ma come
produttore e imprenditore di conoscenza che trasforma la realtà. Non c’è
bisogno di grandi meditazioni filosofiche per capire ciò, è evidente
che, fin dai suoi primordi, l’umanità si è posta pragmaticamente in
questi termini, ma non solo. È questo “non solo” che rende
carente e svela la soffocante autosufficienza del pensiero pragmatico,
il suo porsi in un vicolo cieco al quale, giunti alla fine, si osserva
impotenti la nebbiosa imperscrutabilità della fine del cammino. Se la
realtà è da considerare solo nella sua accezione di causa produttiva,
che trasforma la realtà, che ne è del pensiero non produttivo quello che
la realtà non vuol trasformare ma coglierne le sue intime essenze?
Però, è questo cogliere le essenze che infastidisce il pragmatico,
perché le essenze non sono di per sé produttive, non modificano la
realtà ma la definiscono in un’altra dimensione che esce dal controllo
dell’Uomo. Il pragmatico, dicendo che osservare la realtà vuol dire
osservare per trasformare, non dice nulla di errato, così come non si
erra dicendo di considerare la Massoneria come ortoprassi, cioè dicendo
di osservare la realtà per definire un corretto comportamento, oppure
considerandosi come sincretismo a tutto spazio. Queste due sono visioni
parziali e unidimensionali. Manca l’altra parte, quella fondante, quella
del discorso che è dell’osservare per scoprire le norme regolative
dell’essere umano nella sua dimensione spirituale. In termini semplici,
metodologismo pragmatico ed ortoprassi sono due modalità del pensiero
amorale, che nega ogni dimensione spirituale all’Uomo e alla Natura.
Scindere le conseguenze morali1 dall’agire comporta necessariamente i
guasti di un produrre concettualistico giunto alla sua
autogiustificazione, così come un comportamento corretto senza definire i
principi morali a cui riferirsi è affermazione general-generica che non
distingue la Massoneria da una qualunque altra forma di approccio
spirituale; anzi, questo ne è escluso per la riduzione ai soli
comportamenti senza considerare l’essenza del sussistere umano.
L’essere umano quando incominciò a mescolare due diversi metalli per
produrne un terzo, ad esempio il bronzo, non si spiegava la
modificazione in terza molecola di altre due mescolate tra loro, non ne
aveva le conoscenze scientifiche. E su questa parziale conoscenza però
sviluppò un sistema di rituali, di miti, di elaborazioni trascendentali
che per lui davano un senso alla Natura nel suo insieme, ponendosi sul
piano della sapienza, anche nel verso di farlo sentire componente vitale
della Natura. Poi, viene lo scienziato, che spiega
la fusione molecolare dei metalli e ignora il pensiero sul
trascendente. Ora sappiamo del potenziale conoscitivo della materia, ma
abbiamo perduto tutto del potenziale sapienziale della Natura, del
Cosmo, del Creato, comunque lo si metta.
Le religioni vorrebbero superare questa frattura e dare una
spiegazione in termini fideisti e finalisti del creato, ma così facendo,
riportando tutto ad un ente creatore. non spiegano l’essenza della
Natura; dicono chi la guida e la giustifica, ma senza rispondere alle
domande: come e perché? Infatti, quel come e perché è nella mente
divina, imperscrutabile all’uomo. Oggi alcuni avventurosi teologi sono
disposti a credere che il Creato sia un Atto divino e che le leggi della
Natura siano effetti e non conseguenze dell’Atto divino, per cui queste
leggi non sono direttamente controllate e gestite dal pensiero divino.
In tal modo si pone all’interno della Natura una capacità di
autorganizzazione ed autoregolamentazione scissa dal divino, in altri
termini non c’è nulla di trascendente nel creato, nella Natura, se non
il solo atto creativo. Pur se affascinante in sé, questa spiegazione
della sussistenza intrinseca della Natura e dei suoi accadimenti non dà
risposta al perché dell’atto creativo, se non nei termini, neoplatonici,
di una “esigenza” autosussistente della creazione rispetto al
divino. In tutto ciò è impossibile, per il pensiero umano, pervenire ad
una Verità in sé esplicativa dei massimi sistemi posti dal pensiero
teologico.
Dunque, anche in questo si evidenzia la limitatezza di certi grandi
del pensiero massonico, come Lessing e Goethe, che ripongono la Verità
ultima nel pensiero divino, come indicibile ed inconoscibile, essendo
troppo compresi in una visione apofasica del divino stesso. Il pensiero
massonico non può porsi in questo spazio autocensorio, anzi deve avere
il coraggio di andare oltre, altrimenti non si distinguerebbe né dal
pensiero scientifico né da quello religioso e, ciò è più importante, non
si definirebbe come pensiero altro, pensiero sapienziale teleologico.
La Massoneria se è altro, ha come necessità epistemologica ed
ermeneutica quella di coniugare il discorso sulla materia e quello sulla
sovramateria, ovvero il pensiero sulla struttura materica e sulla
sovrastruttura spirituale, sul sensibile e sul extrasensibile.
Sempre riguardo all’ortoprassi, questa non aiuta a definire la
Massoneria come pensiero soprasensibile, non fa riconoscere una sua
visione d’ermeneutica esoterica. L’esoterismo non trova lo spazio di
giustificazione di sé nella concezione dell’ortoprassi, che è concezione
di comportamenti umani, pur considerandoli nella loro apparenza
extra-storica ed extra-culturale. Se intendiamo l’esoterismo, visione
riservata e dunque essenzialmente massonica senza inquinamenti estranei,
come strumento essenziale del pensiero massonico è necessario
scandagliarne i suoi peculiari significati non in termini puramente di
perfezionamento spirituale, che non lo distinguerebbe da altre pratiche
spirituali, ma ripeto in peculiari termini massonici. L’esoterismo in
quanto strumento massonico, dal pensiero massonico deve trarre il
proprio significato e non può configurarsi in se stesso, ovvero limitare
il suo sviluppo all’interno di un pensiero avulso da una causalità
esplicativa e da un percorso ben coordinato e indirizzato, altrimenti
una qualunque persona fortemente interessata allo esoterismo potrebbe
benissimo cercare il proprio sviluppo spirituale nell’esoterismo in sé e
non avrebbe la necessità di entrare nella Massoneria. Addirittura,
potrebbe cercare una propria speciale forma d’iniziazione dentro la via
esoterica, ignorando l’iniziaticità massonica. Questo è proprio il
termine ultimo di un pensiero herderiano che in definitiva toglie alla
Massoneria ogni carattere di esclusività, riducendola a mera forma
umanitaria, alla pari di un qualunque umanesimo modernista.
Il Massone, sensibilmente determinato considera l’esistenza come
progetto, alla stregua di un Heidegger, e vuol condividere questo
progetto con altri sotto il riparo della loggia. In questa Loggia il
Massone non trova la spiegazione di come stanno le cose, di
come l’esistere si spiega. La sua concezione di Verità è diversa da quella giuridica, civile e religiosa e pure scientifica.
La filosofia moderna tende a depennare la Verità, intesa come
descrizione oggettiva, dai propri discorsi. È difficile contestare chi
afferma che la razionalità di un discorso se è ridotta alla sua
presentazione decorosa è accettabile dai più. Però, ciò non vuol dire
che la felicità umana risieda nell’essere tutti d’accordo, nella comune
ricerca di una felicità data dall’accordo, come sembra di sentire nelle
parole di un Herder.
Ugualmente, si sente la necessità di superare certe posizioni del XVIII secolo e di quelli successivi, ove la Verità è lo “specchio della Natura”
e che la conoscenza dei dati di fatto e delle norme che li regolano sia
la via alla Verità. I Massoni settecenteschi cercavano ciò, trovandosi
come Lessing, ad essere costretti a negare ogni validità ai plurimi
esoterismi come strumento di conoscenza. È difficile infatti dichiarare
che ogni esoterismo conduce alla Verità, se non appellandosi in modo
fideistico a un’idea di astratta spiritualità non definita. Questo
perché all’epoca, non differentemente da oggi, quello era un esoterismo
che dall’esterno veniva inglobato nel pensare massonico, senza saperlo
integrare, senza saperlo ripensare nei soli termini massonici, facendo
del pensiero massonico un confuso ed incoerente agglomerato dei più
disparati esoterismi, con la tiepida ed inconcludente giustificazione
che ogni forma di esoterismo umano è definibile come ” Tradizione“.
Solo Goethe provò a coniugare massoneria, spiritualità ed esoterismo
extramassonico usando plurime arti, comprese quelle scientifiche, ma con
grande sofferenza e senza giungere ad una conclusione2
Nel linguaggio massonico non appare la parola “felicità”. Il
Massone non cerca la felicità, si distingue dall’accezione moderna
della morale intesa come aiuto reciproco per soddisfare “felicemente“
i desideri personali e collettivi. Una tale concezione, presente ad
esempio in Stuart Mill e in una certa visuale anche nell’idea di
ortoprassi, non rientra nello schema di perfezionamento spirituale; al
più in quello civile e privato del mondo profano. Una tale concezione
parte dal presupposto che non esiste nella natura umana alcuna struttura
sostanziale e ciò è inaccettabile dal pensiero massonico.
Non si deve però pensare che l’accezione trascendentale del pensiero
massonico voglia dire fondarsi su qualcosa di già esistente, di una
trascendenza che trascende persino l’uomo. L’unica trascendenza
concepibile per un Massone potrebbe essere quella di scoprire nella
sostanzialità umana un senso del sacro che lo connota come ente umano e
come essere vivente teso allo spirituale, al metafisico; tutto il resto è
prodotto storico e culturale dell’agire umano. Il pensiero massonico,
depurato dalle connotazioni che gli sono estranee, come quelle
ideologicamente e teologicamente fondate così come quelle di un
esoterismo estraneo alla tradizione massonica, concepisce la morale come
pura espressione umana ed il senso del sacro come propria
sostanzialità. La morale umana, nell’accezione massonica, non discende
dall’extraumano, essa è elaborazione progressiva della pulsione umana al
superamento dei limiti umani, non in senso materiale, civile, religioso
che sono compito e scopo di istituzioni che appartengono all’ambito del
mondo profano. Da parte sua, il senso del sacro è la trascendenza che
appartiene all’uomo e in senso massonico è la sostanzialità che lo
innalza oltre il suo essere produttivo, oltre la sua materialità, oltre i
suoi comportamenti pur moralmente ed eticamente guidati.
Nella Massoneria non si può cercare ciò che Heidegger chiamava
ontoteologia, la ricerca sull’origine e la fondatezza dell’idealità
umana in una sfera extraumana e sulla certezza del possesso di un ideale
giusto e vero. Ciò è rintracciabile solo nel pensiero teologico e a
questo ci si deve rivolgere se quella è la ricerca. Ma, se qualcuno
volesse ridurre il pensiero e la prassi massonica a relativismo, farebbe
un’operazione di mistificazione inaccettabile.
In una società iniziatica, spiritualmente connotata, il relativismo è
cosa estranea. Né può essere considerata come relativistica
l’affermazione che la Massoneria è ricerca di una
Verità, di una Morale, di un Senso del Sacro che fanno parte della
sostanzialità dell’Uomo. Questi concetti hanno valore di assolutezza
dentro la sfera dell’umano. Sono essi che si connotano come veicoli al
superamento della condizione materiale per accedere a quella spirituale.
Se la Massoneria è concepibile come progetto di elevazione dal
materiale allo spirituale, in ciò non sussiste nulla di relativistico.
Ma non solo, infatti, tale rappresentazione è coerente col pensiero
platonico che richiedeva a un progetto di essere affrontato con volontà
superiore. Se una definizione può essere data alla Massoneria è quella
di “fondamentalista”, nel senso di ricerca dei “fondamenti dell’essere umano e della Natura“,
con un proprio metodo e propri strumenti che non fanno parte
della realtà profana. In certe critiche che vengono dal mondo
religioso si tende a stigmatizzare la Massoneria come relativistica
perché essa non riconosce alcuna cosa come definitiva, perché l’uomo è
in una condizione di continuo sviluppo spirituale Ciò, se non è
travisamento voluto, è mancato approfondimento del pensiero massonico.
La Massoneria fonda la propria tradizione sul riconoscimento di un
Ente Supremo, però senza dare definizione di questo Ente e senza farne
discendere altro che il suo riconoscimento, perché ogni Massone è libero
di dare la sua definizione nel rispetto di tutte le fedi. È prassi
tradizionale della Massoneria nel suo insieme il rendersi estranea agli
ambiti religiosi e politici e dunque a non chiudersi dentro un unico
credo o ideologia. La vocazione della Massoneria è quella di essere
universalistica e ancor prima cosmopolitica e di trovare nell’Uomo, a
prescindere dalla sua razza, credo religioso, condizione sociale e
idealità politica le condizioni sostanziali per elevarsi spiritualmente.
Ciò implica non di affermare che per un Massone ogni via da percorrere
sia giusta, bensì di lasciare aperte le porte ad una ricerca la più
ampia possibile e che la sua elevazione spirituale nasce dall’uomo e non
da un qualcosa a lui estraneo. La Massoneria si pone dunque rispetto
all’Uomo come definizione di un ambito spirituale, sacrale, insito
nell’essere umano.
Il fatto che la Massoneria consideri che si possa discutere su tutto
non vuol dire che tutto viene desacralizzato, ma al contrario che nel
tutto si può trovare il senso del sacro e a ciò, a questo senso del
sacro, si sposta la ricerca massonica. In realtà, la critica al
relativismo è puntata verso quel pensiero che non sostiene che la Verità
possa essere detenuta da qualcuno perché a quel qualcuno un Ente
superiore ha rivelato la Verità e che solo quella Verità sia giusta,
mentre tutto il resto, tutte le altre ricerche e vie sono
conseguentemente fallaci ed inutili, che alla “vera” spiritualità non si
possa giungere se non con il proprio credo; anche se oggi teologi
spericolati incominciano a chiedersi con finezza di ragionamento se una
tale concezione possa avere diritto d’esistenza nell’ambito di una
religione3 tesa al bene concepito come libertà che a sua volta
necessariamente implica il senso del rispetto verso le altre vie
spirituali e religiose4.
La corrente pragmatista e relativista del pensiero filosofico moderno
ritiene, sulla falsariga di Nietzsche, che l’uomo è animale
intelligente e che la sua intelligenza si esplica nella collaborazione
degli uomini per la migliore realizzazione dei propri desideri. Questo
modo di vedere la realtà non è in sé errato ma è certamente parziale,
perché volutamente ignora sia il senso del sacro che spinge l’uomo a
vivere pure una vita spirituale, sia la sua connotazione non riducibile
al materiale, la sua sostanzialità metafisica; ignora che l’uomo prima
di sviluppare il senso del sacro ha, come base di partenza, sviluppato
il pensiero simbolico.
Nell’ontoteologia questa unitarietà tra materialità e spiritualità,
che si concretizza nell’essere umano, viene spezzata tra una parte
limitata nella sua finitudine e una parte che anela all’infinito. La
Massoneria, invece, riconosce nel senso di sacro e quindi di infinito la
sostanza che giustifica la parte finita, sensibile. A differenza di
Peter Singer, filosofo americano odierno, la Massoneria non aspira ad “ampliare la cerchia del noi”, piuttosto tende a considerare l’uomo solo alla luce della sua appartenenza all’umanità e quindi come
singolo rappresentante di un “noi assoluto”, come dire che nel singolo uomo esiste l’intera umanità.
Il Massone porta avanti un progetto che ipotizza un futuro possibile
per l’umanità fondato sul riconoscimento del valore trascendentale
insito nell’uomo. Pertanto, la Massoneria si appella tanto alla ragione
quanto al senso del sacro, ove l’uno è ragione d’essere dell’altro e
l’insieme dei due è teleologicamente teso al perfezionamento, giacché
la Massoneria non pensa teologicamente, non concepisce la Verità come
qualcosa di superiore all’uomo e quindi ricerca la Verità dentro la
sostanzialità dell’uomo, della Natura. Non viene ricercato, in altri
termini, un qualcosa che è fuori dall’uomo, a lui superiore, che è
compito teologico, ma vuol scrivere il poema dell’universalità dell’uomo
come percorso di perfezionamento materiale e spirituale, lasciando al
mondo profano il perfezionamento materiale e riservandosi quello
spirituale, inteso come spirituale meramente umano.
Sul piano religioso il misticismo è la via dell’accesso al
trascendente, ma, fuori dall’ambito religioso, può anche essere
concepito un misticismo che del trascendente è azione e pensiero
assieme, nel senso che scopre il trascendente presente nell’uomo o più
precisamente nella determinazione dell’uomo come insieme sistemico di
materia e di spirito. Quest’affermazione che può apparire un paradosso,
un gioco semantico, invece è il percorso non lineare che compie il
Massone. Qualità materiale e qualità trascendentale sono i due distinti
livelli che compongono l’unitarietà dell’essere umano ed il misticismo è
la via che consente di far comunicare i due livelli e farli interagire
sinergicamente, dando luogo ad un superiore essere umano, né solo
materiale né solo spirituale, ma altro da sé.
Richard Rorty, altro filosofo americano pur di pensiero pragmatico e
relativista, pone il misticismo come una superiore forma di linguaggio
che porterebbe al progresso materiale e morale. In una logica massonica è
preferibile parlare di perfezionamento piuttosto che di progresso,
infatti, il perfezionamento è uno scopo mentre il progresso è un
effetto. È però corretto definire il misticismo come linguaggio speciale
che fa comunicare l’uomo sia con la sua parte sensibile sia con la sua
parte spirituale, attuando con questa comunicazione il percorso di
perfezionamento. La via massonica al perfezionamento, in ultima analisi
alla Verità, è raffigurabile come una vite senza fine, che gira senza
mai serrare, che ha la funzione di avvio di un meccanismo che conduce ad
altri risultati che non sono il serrare. La Massoneria può benissimo
concepire una propria forma peculiare di misticismo, estranea alla
religione, proprio partendo da ciò che Rorty definisce come misticismo,
ma superando la sua limitazione al progresso materiale e morale, con il
concetto di perfezionamento spirituale. Come già accennato, Goethe tentò
la ricomposizione dei due livelli della sostanzialità umana; egli aveva
una visione essenzialmente mistica della Massoneria, ma non sviluppò
una mistica massonica e fallì perché volle applicare due strumenti
esoterici, come l’ermetismo e l’alchimia, estranei alla via massonica:
egli, in ultima analisi, fu esoterista perché ermetico e alchimista e
non perché Massone.
LE ORIGINI DELLA LOGGIA MASSONICA ED
I COSTRUTTORI MEDIEVALI DI CATTEDRALI.
Durante il Medio Evo l’umanità fu capace di realizzare le
più grandi opere della storia: in tutta Europa furono movimentati, in poco meno
di tre secoli, milioni di tonnellate di pietra per la costruzione di circa 130
edifici fra cattedrali e grandi chiese. Tali opere impegnarono una quantità di
risorse da far impallidire l’antico Egitto con le sue piramidi.
Per una tale mole di lavoro furono necessari migliaia di
uomini che, operando all’unisono, compirono il miracolo nel nome ed alla gloria
di Dio e della Vergine Maria.
Le opere che si andavano realizzando richiesero certamente
enormi risorse, ma questo non era sufficiente a garantirne il successo: la
sfida da affrontare richiese qualità umane non così comuni.
Organizzazione, comunicazione e competenze necessarie,
richiesero un modello senza precedenti; fu tale spinta a generare la formazione
delle antenate delle moderne Logge Massoniche: praticamente, in tutte le opere
di un certo rilievo, esisteva una loggia a lato della cattedrale; gli operai
ammessi non vi abitavano, ma la utilizzavano per cibarsi o per riposarsi
durante la giornata di lavoro; in più veniva utilizzata per custodire la cassa
con gli utili.
Esisteva poi una differenza di rango fra gli operai, basata
sulle rispettive specializzazioni. Ad esempio, nell’Inghilterra del XIV secolo,
coloro che lavoravano la pietra (ovvero gli “hewers”) percepivano un salario
maggiore rispetto ai posatori (chiamati “layers”); un secolo prima (1212)
alcuni documenti londinesi distinguevano tra categorie di operai “cementarii”,
“scultores lapidum liberorum” e gli altri operai generici.
Come si vede non era ancora apparsa la definizione di
“freestone-mason” poi abbreviato con free-mason, che ritroviamo documentata
solamente dalla metà del ‘300.
Con Maestro artigiano (o massone) della pietra “libera”, si
intendeva coloro che lavoravano le pietre più malleabili, facili a lavorare
(ovvero i cosiddetti “artisti” che avevano il compito di produrre i vari
ornamenti quali statue, capitelli, etc.), rispetto a coloro che dovevano
sgrossare la pietra, più dura e difficile, di cava e infine coloro che avevano
il solo compito di posarla e che quindi si trovavano al livello più basso.
Fra i primi statuti di Loggia medievali, troviamo un
estratto tramandatoci dal canonico Ph. A. Grandidier [su_tooltip
style=”bootstrap” position=”north” content=”Che si occupò con successo della
storia della Cattedrale di Strasburgo, tramandandoci l’opera “Ensayo històrico
y topografico de la Iglesia Catedral de Estrasburgo”, Lerrault, 1782, Strasburgo.”][1][/su_tooltip]
. Riassumendo, si trovano interessantissimi spunti: scrive che, davanti alla
Cattedrale, esisteva un edificio contiguo chiamato Maurer-Hoff, dove si
riunivano gli operai del cantiere; tale antica confraternita di massoni liberi
aveva avuto origine in Germania ed era composta da maestri, compagni e
apprendisti.
Pian piano, nel corso di due-tre secoli, dal tipo di
massoneria, definita operativa, si giunse a quella di carattere speculativo, la
cui data di fondazione ufficiale risale al 1717 [su_tooltip style=”bootstrap”
position=”north” content=”Benché esistano prove documentali che attestino
l’esistenza di massoni speculativi operanti già dalla prima metà del secolo
precedente: Elias Ashmole riporta nei suoi diari di esser stato iniziato in una
Loggia il 16 ottobre 1646: «Sono stato fatto Massone a Warrington, nel
Lancashire, insieme al Col. Henry Mainwaring, di Karincham, nel
Cheshire.»”][2][/su_tooltip] in Inghilterra, ad opera di quattro logge
londinesi, The Goose and Gridiron, The Crown, The Apple Tree e The Rummer and
Grapes che si costituirono nella Gran Loggia di Londra. Successivamente nel
1723, un gruppo di pensatori e scienziati fra cui spiccavano numerosi membri
della Royal Society, primo fra tutti il pastore anglicano Jean-Théophile
Désaguliers, ne redassero le Costituzioni, mentre il pastore presbiteriano
James Anderson ne fu il firmatario. Così la massoneria divenne il “fulcro
d’unione” tra gli uomini, sulla sola base delle loro qualità morali. In un
momento travagliato della storia inglese, ove regnavano le divisioni religiose
a livello dinastico, politico e sociale, la massoneria si erse a simbolo di
unione e fratellanza umana a dispetto della religione professata e dello status
sociale dei singoli adepti. Queste idee, poste a fondamento delle Costituzioni
del 1723, divennero la base per la diffusione dei valori di uguaglianza,
libertà e fratellanza che funsero da innesco per la rivoluzione francese prima
e quella americana poi.
Che cos’è una Loggia Massonica?
Come abbiamo verificato dai documenti storici pervenutici,
la “loggia” ai tempi dei massoni operativi era il luogo ove facevano base gli
operai medievali, ovvero una costruzione ubicata nei pressi del cantiere che
permetteva alle maestranze impegnate nei lavori di avere una sede per riposare,
riporre i propri oggetti, fare riunioni e decidere il da farsi…
La Loggia Massonica moderna, ossia quella speculativa, non è
un luogo identificato nello spazio o nel tempo, ma è, più precisamente, uno
stato mentale; quando i massoni si riuniscono in Loggia significa che
attraverso opportune e precise movenze dettate da antichi rituali si
trasportano su un diverso piano spirituale, utile a dimenticare, ossia mettere
da parte, tutto il bagaglio (o fardello) che ciascuno di noi si porta appresso,
durante il vivere quotidiano.
Generalmente i massoni si ritrovano per giungere a questo
stato in uno spazio con delle determinate caratteristiche, chiamato appunto
“tempio” che, comunque, non è strettamente necessario ad “aprire” i lavori di
una Loggia.
Da questa premessa è facile comprendere come la Loggia non
sia un luogo fisico, ma sia, più propriamente, un’entità completamente avulsa
dalla materialità terrena; più facilmente potremmo definirla come la dimensione
dello “spirito”.
Infatti ciò che rende “rispettabile” una loggia è la
capacità dei propri componenti di elevarsi ad un livello superiore; debbono
cioè riuscire ad abbandonare i “metalli” fuori dal tempio; dove,
simbolicamente, con il termine “metalli” si tende ad indicare l’insieme dei vizi,
pregiudizi, stato socio-economico e così via di ciascun individuo…
Da questa prerogativa, è chiara l’intenzione di eliminare
non solamente le differenze di casta, ma anche quelle politiche e religiose,
fonti inesauribili di guai e contrasti fra gli uomini.
Coloro che intendono “lavorare” in Loggia debbono quindi
tentare di operare “liberamente ed onestamente” con i propri fratelli, partendo
ogni volta da zero; senza preconcetto alcuno si stimola il ragionamento
favorendo la possibilità di seguire la propria “intuizione”, parte fondante del
lavoro di Loggia.
Queste caratteristiche, indispensabili al Libero Pensiero,
permettono a questo variegato consesso di elevarsi ad ideale via di
integrazione fra gli uomini: basti pensare che esistono Logge in cui ebrei,
musulmani e cristiani si chiamano, e soprattutto si comportano da Fratelli.
A tal proposito, è sufficiente ricordare il primo degli
“Antichi Doveri” tramandatici da Anderson nel 1717:
“I. Concernente Dio e la religione.
Un muratore è tenuto per la sua condizione a obbedire alla
legge morale; e se intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un
libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero
obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale
essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a
quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le
loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di
onore ed onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li
possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il
mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste
perpetuamente distanti.”
Per comprendere la portata di un tale precetto, basti
richiamare alla memoria il particolare momento vissuto dall’Inghilterra – ma
anche dal resto d’Europa – agli inizi del XVIII sec. quando lo scontro
religioso aveva raggiunto il suo apice: anglicani, luterani e cattolici erano
profondamente divisi e la convivenza si era fatta difficile; fu allora che
queste menti illuminate vollero cambiare il corso della storia, cercando di
elevarsi al di sopra delle differenze e concentrandosi piuttosto sui punti di
interesse comuni a tutti gli uomini. Da questa volontà nacquero affermazioni
come quella notissima espressa da Evelyn Beatrice Hall che riassume così il
pensiero di Voltaire: “Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte
il vostro diritto di dirlo.”
E un giorno di inizio primavera, sono in campagna. Di
fronte a me l’orizzonte è grandioso, e posso ammirare le onde di verdi colline
e più in là la maestosa catena di montagne, molto innevate, sublimi, uno
stimolo per la mia immaginazione. Il cielo è intensamente azzurro, non
offuscato dallo smog.
Di fronte ad un simile spettacolo viene spontaneo
riflettere sulla bellezza, sul senso estetico. Riflessione sollecitata, acuita
dalle macchie di colore rosso, rosa, giallo, dei primi tulipani, eleganti sul
loro stelo verde pallido, dalle modeste commoventi pratoline bianche, da questo
verde ancora intatto e fresco di inizio primavera.
Le città in cui oggi viviamo sono ormai invivibili: contaminate dallo smog,
dall’intenso traffico, dall’incuria della gente che molto spesso non le ama
abbastanza, soltanto le usa, che non sa e non vuole vedere. Città che sono pur
scrigni di bellezza, ma nelle quali questa bellezza è tenuta nascosta, è
ignorata. Come accade in certe abitazioni nelle quali splendidi mobili e
ornamenti sono nascosti da inutili e banali suppellettili, che le
involgariscono, le imbruttiscono.
Il senso estetico è molto spesso un innato dono di natura,
e il fortunato mortale che lo possiede può godere di gioie infinite. Un chimico
sa come manipolare e trasformare i prodotti, l’economista elabora grafici e dal
loro zig-zag prevede crisi monetarie o lo sviluppo della ricchezza di un paese.
Professioni indubbiamente utili, come lo sono tutte le professioni che aiutano
il progresso. Ma la ricerca della bellezza non è ricerca di guadagno, è un dono
del tutto gratuito, infinitamente prezioso per chi la sa trovare, la vuole
trovare. La gioia che ci può dare la vista di un fascio di rose elegantemente
sistemate in un vaso, un raggio di sole attraverso i vetri della finestra,
l’azzurro intenso del cielo, il volo di un uccello, un bosco verde cupo, tutto
lo spettacolo grandioso, variopinto, Intenso della natura.
Il senso estetico. In alcuni è istintivo, in altri più
nascosto, assopito e che pur può essere improvvisamente risvegliato in una
felice pausa nella corsa sfrenata della vita.
E un
dono dell’anima. Non si sofferma sulla composizione chimica degli oggetti, ma
vede la forma, il colore, la luce. Non indaga sulle leggi della creazione ma
indugia sulle gioie della creazione. E una ricerca artistica e intuitiva, che
non richiede il sapere, ma il saper vedere. Un geologo, uno scienziato che
studia la composizione delle piante e delle rocce non è sempre in grado di
rendere artisticamente; poeticamente le forme, i colori come invece hanno
saputo superlativamente fare Leonardo, Tintoretto, Turner con qualche colpo di
pennello. Penso che le sensazioni così dette inutili siano le più potenti, le
più squisite.
I nostri sensi• — il tatto, l’olfatto, il gusto, la vista,
l’udito — sono serVitori della nostra vita e strumenti per preservarla. Hanno
una funzione fisiologica e ci guidano alla ricerca di quanto ci è necessario.
Ma questi strumenti ci regalano anche sensazioni profonde e raffinate che spesso,
inconsciamente, ci accompagnano per tutta la vita e rimangono parte del nostro
essere, della nostra sensibilità.
Con il ragionamento filosofi, psicologi possono spiegare
molte cose, l’universo, la sua evoluzione. Ma definiscono apparenze il fremito delle
foglie, i limpidi ruscelli scroscianti, la fiamma dello sguardo, il palpito
delle palpebre. Apparenze a cui tuttavia noi dobbiamo molte nostre sensazioni.
E anche molte nostre decisioni e debolezze. L’apparenza della gloria,
l’apparenza dell’amore.
Il filo dei miei pensieri potrebbe continuare a lungo. Il
contrasto fra corpo e anima, fra concretezza ed intuizione, fra logica, ricerca
e sentimento. Il nostro complicato io che deve cercare e possibilmente trovare
un ampio sbocco di liberazione, come il fiume che sfocia nell’ immenso oceano.
Un oceano dove può trovare poesia, bellezza, sentimento, pace, liberazione,
conciliazione.
Fortunato
chi tutto questo tenta di trovare. Fortunato chi lo trova
La ruota è forse, insieme con la
croce, il simbolo più ricorrente nelle religioni antiche sia occidentali che
orientali.
Diffusissima nelle rappresentazioni celtiche rappresenta
la divinità creatrice (il perno immobile) intorno alla quale tutto gira. È il
dio druidico Dagda al quale Mag è servitore o meglio «servitore della ruota».
Nella piastra di Gundestrug un
uomo gira la ruota cosmica mentre il dio, le braccia levate in alto, è
impassibile fermo nel tempo e nello spazio, perno di un moto che è insieme
avanzamento e ritorno proiettato all’infinito, simbolo quindi dell’eternità.
La ruota di Mag è fatta di legno di tasso, albero della morte (i suoi archi si
piegano nel dare la morte ma indefinitivamente ritornano nella loro posizione
di partenza). Questa ruota è una ruota cosmica.
Quando apparirà sulla terra ne seguirà la fine: chi la
toccherà morrà, chi la vedrà perderà la luce, chi ne udrà il rumore perderà
l’udito. Arianrhod, dea gallese, è la ruota d’argento.
Essa ha due figli, uno si chiama Dylan eil Ton e nuota
rapidissimo nell’acqua, l’altro è Llew ed è un guerriero invincibile.
Riti e danze di queste popolazioni sono tutte improntate
al moto rotatorio e si perpetuano ancor oggi nel folklore inglese, bretone,
normanno e nel nord in genere. Ruote alate, ruote infiammate di Daniele, ruote
dei cherubini di Ezechiele nella religione ebraica.
Le ruote infiammate girano perpetuamente intorno al Bene
immutabile; sono ruote rivelatrici ed elevano l’intelligenza dell’uomo
abbassandosi nel loro movimento fino ai più umili. Esse sono portatrici dell’
illumlnazione divina.
Le ruote alate girano eternamente su un perno senza
declinazione: rappresentano la verità, unica ed assoluta, verità che può
lambire il mondo ma non pervaderlo completamente in quanto imperfetto. La
perfezione è unicamente cosa divina e quindi totalmente ultramondana.
La cintura di Ishtar (casa della luna per gli antichi
babilonesi) è per gli arabi la ruota dello Zodiaco. Zodiaco significa ruota
della vita, Primitivamente con significazione lunare si trasforma nel tempo in
significazione solare.
I limiti dell’orizzonte sono circolari, il firmamento
è emisferico, gli astri si muovono con moto
circolare, la perfezione filosofico-matematica è nel cerchio, sublimazione
divina del quadrato, limite dello spazio umano.
Nell’iconografia indiana la ruota ha spesso dodici
raggi: sono il ciclo lunare ed il ciclo solare espressi nei mesi.
La ruota cinese ha trenta raggi; sono i giorni
approssimati del ciclo lunare.
La ruota dell’esistenza buddista ha sei raggi, cioè
quante sono le classi di esseri o Ioka: è la ruota della Legge volta in un
movimento in unico senso. La ruota del Dharma, con i suoi otto raggi simbolizza
gli otto sentieri della vita.
Il perno della ruota è sempre la Divinità, il Sovrano, l’Uomo univerSale. Il
Chakra è attributo peculiare di Vishnu e non è altro che un disco solare.
Nel mondo occidentale, medioevale la ruota è
attraverso il rosone delle cattedrali il simbolo del centro cosmico e del
centro mistico ricongiunti in una sola figura.
I raggi vanno dal centro alla periferia e da questa
ritornano al centro: unità nella totalità.
RUOTA – ROSONE – ROSA
La fiamma che, sotto il crogiolo dell’Alchimista,
fonde la croce di vile metallo e la trasforma in metallo perfetto ed
incorruttibile è la rosa. E essa mistica rigenerazione nel mondo greco.
Apuleio nel suo «Asino d’oro» fa mangiare, con
l’aiuto di un sacerdote di Iside, a Lucio un serto di rose vermiglie: solo così
egli potrà riacquistare le sue sembianze umane.
Nell’antica Grecia i roseti erano
dedicati ad Afrodite ed in certi casi anche ad Atena, dea dell’ulivo. Sulle
tombe venivano poste le rose: i «rosalia» dei latini che, nel mese di maggio
simbolizzavano in que53
sto modo la rigenerazione della natura. Da ciò
derivava un simbolo di resurrezione e quindi di immortalità.
Centro mistico, perfezione assoluta, anima, cuore ed
amore della coppa della vita: ecco gli aspetti simbolici della rosa indiana.
Nell’iconografia cristiana la rosa è la coppa che
raccoglie il Sangue di Cristo (il Santo Graal) ma anche con i suoi petali
vermigli, la trasfigurazione di questo sangue.
L’erta per giungere al Santo Graal è piena di spine e
di triboli. Persino il peccato si dovrà commettere per potervisi avvicinare.
Peccato e redenzione, terra e cielo.
«Rosa candida», «rosa mistica», «rosa aurea», ecco
tre simboli cristiano-medioevali con significati che spaziano dalla purezza
assoluta alla potenza spirituale.
La Riforma protestante si fregia di una rosa apposta
sulla croce. Analogo emblema è dei Rosa-Croce. In questi due casi la rosa non è
che il Cuore del Cristo.
Rosa è purezza, amore, sofferto amore, sublimato
attraverso la sofferenza che ne arrecano le spine. Giardino dell’anima,
giardino del cuore, tramite di elevazione: Rosa dei Cavalieri, Giardino
dell’Amore, Romanzo della Rosa…
Perfezione umana mai perfetta, perfezione divina
sempre perfetta. L’eterno slancio dell’Uomo, che cosciente della sua razione
rna anche impotente nei suoi limiti cerca nel Trascendente di raggiungere
quella perfezione che intuisce ma che non sarà mai sua. La rosa e la ruota:
identificazione ma non totale.