OBBEDIENZA E LIBERO ARBITRIO

OBBEDIENZA E LIBERO ARBITRIO

R.   P.

“Voi resterete quindi libero di seguire i dettami della vostra coscienza, ma non sarete più libero di seguire la vostra indifferenza o il vostro capriccio”.

“Il primo dovere è il sentimento profondo di obbedienza. L’Obbedienza è l’origine di ogni energia, la sola arma ben temprata. Riconoscete il dovere come una necessità assoluta davanti alla quale ogni libertà scompare, ogni debolezza è colpa?”

Dal rituale di investitura al IV Grado

Obbedienza e Libero Arbitrio in una riflessione prettamente profana, possono apparire in completa antitesi, lontanissimi tra loro per ideologie e tradizioni. L’Obbedienza passiva a dogmi religiosi e culturali ha rappresentato per secoli l’unico sentire, e soltanto I ‘Illuminismo o l’uscita dallo stato di minorità ha risvegliato nell’uomo il coraggio di servirsi della propria intelligenza. Una presa di coscienza, Libero arbitrio, che comunque ha lasciato nell ‘uomo un senso di abbandono e disequilibrio per la perdita di quelle premesse inconfutabili su cui aveva basato la sua precedente esistenza. Una tesi ed una antitesi quindi, a prima vista senza soluzione di sintesi; ma a ben guardare attraverso la lente iniziatica, due temi che conducono a riflessioni importanti, ad un prezioso rapporto dialettico così precipuo nel nostro mondo Scozzese. Nel rituale del IV grado e nei successivi sono molti i richiami al Dovere dell’Obbedienza.

‘ ..L’Obbedienza è l’origine di ogni energia, la sola arma ben temprata. Riconoscete il dovere come una necessità assoluta davanti alla quale ogni libertà scompare.

Investito del IV grado sono stato onestamente colpito da altri aspetti e simboli, prestando, ahimè, meno attenzione al tema dell’Obbedienza E stato nel prosieguo e nell’approfondimento dei Lavori che il dovere si è rilevato in tutta la sua forza, quasi assolutista. Infatti, sia che si parli di Leviti che di Cavalieri, i rituali sono permeati del marcato richiamo all’Obbedienza; un impegno, che da un lato prettamente empirico evoca una fratellanza in arme, una declinazione militaresca a guardia e difesa del Tempio e dei Valori in esso rappresentati. Una Obbedienza direi fisica, esecutrice di ordini degli Alti Gradi; in questo senso calza senz’ altro l’aspetto della …sola arma ben temprata.

Certo che l’affermazione “. . .ogni libertà scompare. . ‘ sul momento mi spiazza; nell’Ordine l’esercizio metodico del dubbio, la libera scelta, sono cardini del discernimento e dell’accrescimento interiore, pilastri nel cammino iniziatico. Una arbitrio che si compie in primis attraverso 1a libertà da se stessi, o meglio da tutte quelle scorie profane che possono viziare la nostra capacità di giudizio. È importante quindi riflettere su cosa intendiamo per libertà di coscienza; non una mera scelta, una visione mentale fisica della libertà, che porti a passi inconsapevoli, accecati da passione e pregiudizi: questa non fa parte dell ‘essere iniziato, piuttosto della mente comune, è il sentire profano. Ed il rituale è li a ricordarci che: “. . . non sarete più libero di seguire la vostra indifferenza o il vostro capriccio “.

La nostra sarà piuttosto una libertà a un più alto livello spirituale, a uno stadio superiore, dove sono tutti quei principi etici che fanno parte del nostro essere iniziati. Non già essere liberi da qualsiasi vincolo, in scelte dettate soltanto da ragione ed esperienze empiriche, ma un arbitrio illuminato, dove ragione, etica e spiritualità si fondono ad un piano più profondo di libertà di coscienza, o meglio nel libero arbitrio, “. . .che può e deve fare leva sull’Intelligenza e la Ragione e sul Giudizio Interiore.. . “

Ed allora se è vero che .ogni libertà scompare. . . ” è ancora più vero che ” . . . voi resterete quindi libero di seguire i dettami della vostra coscienza. . . “, di seguire il proprio libero arbitrio così da diventare anch’esso ‘ …un ‘arma ben temprata ‘ strumento che si intrinseca e si estrinseca in una Obbedienza ad un livello superiore. Non un ‘obbedienza passiva, mero ricevimento-esecuzione di ordini e insegnamenti, ma attiva e vitale nel processo di crescita dell ‘Iniziato, una sintesi, dove non ci sarà più un mero adeguamento al dovere ma la capacità di comprendere e discernere l’Obbedienza stessa.

Così Obbedienza e Libero Arbitrio, a prima vista due temi in antinomia, si superano e si compendiano in quel . sentimento profôndo di obbedienza… ‘ . E una riflessione sorprendente, ma poi non più di tanto, giacché questo è il sale della Libera Muratoria: uomini, idee, esperienze empiriche e spirituali, che si incontrano, a volte si scontrano, spesso si plasmano a vicenda in un perpetuo processo in divenire.

E allora il Libero Muratore lavorando su se stesso, rectificando, può e deve cercare una Obbedienza ad un livello ancora più profondo, una fedeltà ad un Principio che sia fondamento per il nostro essere iniziati; un luogo dello spirito ” . . .al coperto ed al sicuro. . . “, dove trovare sempre nuova linfa nel cammino Scozzese, “Qualcosa di Indubitabile” come teorizzato da René Descartes, su cui poggiare “…valori non negoziabili…”

Se per il filosofo francese il cogito ergo sum era la chiave di volta, credo che il nostro luogo sicuro sia la scintilla divina che arde nel nostro spirito iniziatico. Una Fede in quella fiammella che, accesa la sera della nostra Iniziazione, si alimenta e si fortifica passo dopo passo attraverso i principi e i sentimenti massonici che incontriamo lungo il percorso, e che attendono nuova energia nelle tappe del cammino ancora da percorrere. Quindi ‘Deus meumque Jus”: non sentiremo quel senso di abbandono o spiazzamento che l’impegnativo cammino iniziatico ci mette di fronte, ma troveremo perpetuamente nuova forza in quella bussola, nell ‘Obbedienza profonda a quel Principio immanente, origine di ogni energia, che arde in noi e che sta a noi comprendere, moderare e compenetrare attraverso il libero arbitrio.

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LA MASSONERIA IN ITALIA NELL’ETÀ DEL ROMANTICISMO

LA MASSONERIA IN ITALIA NELL’ETÀ DEL ROMANTICISMO

(IL CLIMA INTELLETTUALE, MORALE E SPIRITUALE NELL’ITALIA DELLA PRIMA METÀ DELL'(ÀTOCENTO)

 di  P.  P.

La costituzione del primo Grande Oriente d’Italia (G.O.I.) avvenne il 20 giugno 1805. Dopo si registrò Luna forte diradazione delle Logge; mentre, viceversa, s ‘aprì il periodo fiorente della proliferazione delle vendite carbonare e di altre società iniziatiche gemmate dalla Libera Muratoria. Un successivo rilancio della Massoneria si ebbe tra il 1859 e il 1861, anche se essa si mostrava divisa in tre rami: il cavourriano Grande Oriente d’Italia con sede a Torino (1859); il garibaldino Grande Oriente di Palermo (1860); il Grande Oriente di Napoli (1861).


Anche in Italia sul finire del ‘700 si era effettuato il tentativo di tradurre in azione le idee nuove importate dalla Francia rendendo manifesta la volontà di rinnovamento con sentimenti di fiducia talvolta ingenua e con atteggiamenti spesso di passiva imitazione di ciò che veniva d’oltralpe. Nel primo decennio dell’Ottocento tali sentimenti e atteggiamenti cominciavano a mutarsi assumendo spesso forme opposte di critica e di reazione. In particolare nei diversi centri culturali della penisola si diffondeva un senso di crescente allontanamento nei confronti dei maestri stranieri un tempo ammirati ed acclamati e tutto questo si manifestava nella forma di un progressivo distacco dal razionalismo settecentesco che aveva fatto tabula rasa dei valori della tradizione. Ora agli inizi dell ‘Ottocento tale razionalismo cominciava ad essere visto come eccessivo e sovvertitore e, per converso, la rivendicazione sempre più decisa dei valori della tradizione finiva col rispondere alla necessità di porre un argine al razionalismo stesso o, almeno, ai suoi eccessi. ln questo contesto, nel nostro paese, si iniziava a prendere concretamente il senso della propria nazionalità, in particolare rivalutando la religione che con la sua tradizione, con la sua struttura, con le sue istituzioni secolari, poteva sembrare l’istituzione più schiettamente nazionale, l’unica sopravvivenza intatta nel mutevole corso della nostra storia e della nostra civiltà.

Il pensiero italiano di questo periodo si trovava posto di fronte alle due istanze opposte: quella trascendentistica/fideistica da un lato e quella immanentistica/razionalista dall’altro. E queste istanze (trascendenza e immanenza, principio di autorità e libero esame), alla fine non potevano non urtarsi creando così nuovi problemi, nuovi indirizzi che portarono alla sostanziale mancanza di vita nelle Logge sino alla metà del secolo.

Il grande movimento dell’Illuminismo aveva voluto porre in atto la civiltà dei lumi ma seguendo il corso stesso degli eventi poté sembrare che la rivoluzione si chiudesse in completo fallimento; il secolo dei lumi tramontava nelle stragi del Terrore, il sogno di libertà e la visione idilliaca settecentesca dell’uomo buono

per natura si erano mutati nella tirannide e nella guerra perpetua di Napoleone. Il tentativo del secolo dei lumi di respingere il passato lasciava sempre più forte il dubbio che non bastasse il puro e semplice raziocinio per creare un edificio durevole. Tante cose, idealmente ben congegnate, offendevano profondamente gli affetti e le consuetudini degli uomini, fossero la costituzione civile del clero, la legge sull’eguaglianza delle tombe o i regni costituiti ex novo da Napoleone. (Un solo esempio preso da Foscolo: il culto delle tombe sarà una illusione ma sono le illusioni come queste che costituiscono il vissuto stesso dell ‘uomo). Di conseguenza anche la religione liberata dall ‘arroganza dell’altro clero, dall ‘esoso fiscalismo delle decime, dagli intrighi dei gesuiti, ritrovava nuova vita come un albero potato dei vecchi rami, rigermogliando vigorosamente.

Il senso di appartenenza alla nazione si contrapponeva al cosmopolitismo astratto sfruttato dalla Francia napoleonica. Il grande vigore verso lo studio della storia dei popoli e la ricerca dell’origine delle nazionalità moderne portava all’interesse per la storia del medio evo a cui tendeva anche il risveglio religioso. Veniva rivalutata la tradizione non più considerata come archetipo immobile ma come ispirazione per ampliare il mondo dello spirito. Per questi concetti si sentiva che la vita non era un vano, capriccioso arbitrio, ma che era retta da una legge superiore ispirata ad un valore perenne tendente ad attuare un progetto nell ‘ambito di una libertà non intesa quale arbitrium indifferentiae, cioè come mera facoltà di scelta ma come determinazione autonoma.

Romanticismo da vedere non solo come moto letterario o come semplice moto culturale, ma come profonda trasformazione della forma mentis degli atteggiamenti, della sensibilità, dell ‘apprezzamento degli uomini e delle cose.

Con l ‘avvento del Romanticismo si rivendicavano i diritti della fantasia (l ‘intuizione) e della spontaneità (il cuore) contro quelli dell ‘intelletto (la mente) e si rivendicava il valore della storia e della tradizione contro I ‘esclusivo imperio della ragione.

Gli illuministi, grazie alla ragione erano convinti di potere sciogliere ogni dubbio, di potere dare una risposta esatta ad ogni domanda. I romantici avvertivano i limiti della ragione: sentirono cioè che la sola ragione non era in grado di spiegare tutto (chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? quale il senso della vita?); in particolare nessuna teoria razionale e scientifica riusciva a spiegare in modo soddisfacente l’origine di alcuni sentimenti, di alcuni stati d’animo che derivavano dalle zone più profonde e misteriose della mente e dell’anima. Gli illuministi, sempre grazie alla ragione erano sicuri di potere risolvere tutti i problemi e di potere costruire una società felice e perfetta. Invece i romantici avevano dubbi sulla possibilità della ragione di liberare l’uomo dal dolore e dalle imperfezioni; essi si rendevano conto che esisteva una frattura insanabile fra ideale (un mondo bello, sereno, felice, senza problemi e senza dolore) e realtà (il mondo in cui effettivamente si viveva, pieno di problemi, contraddizioni, dolore…).

Ne confronti dei sentimenti mentre l’Illuminismo aveva posto la ragione al di sopra di tutto i romantici, anche se riconoscevano alla ragione una validità conoscitiva, esaltavano l’emozione, lo stato d’animo, l’intuizione ritenendo l’animo come sede interna, profonda, misteriosa di tutte le pulsioni spirituali, affettive, sentimentali.

Per quanto riguarda poi il valore da attribuire al singolo individuo, molti illuministi ritenevano che tutti gli uomini fossero uguali perché tutti provvisti di ragione; per i romantici, invece, ogni uomo era diverso dagli altri perché provava sensazioni, stati d’animo, sentimenti diversi dagli altri. Ogni individuo, infatti, aveva dei sentimenti privati, una sua specifica condizione esistenziale, una sua “anima”.

Così nella valutazione dell ‘importanza della storia gli illuministi non si erano curati molto del passato spesso ritenuto un mero cumulo di errori; i romantici, invece, nutrivano un appassionato amore per la storia vista nel suo perenne e dialettico divenire. In particolare i romantici rivalutavano il medioevo perché quel periodo aveva segnato il trionfo della spiritualità e soprattutto perché nel medioevo erano nate le moderne nazioni europee.

Infatti a proposito dell ‘ idea di nazione mentre gli illuministi avevano avuto tendenze cosmopolite, i romantici davano un ‘enorme importanza alle origini etnico-geografiche degli uomini. Ogni individuo, per i romantici, doveva molto alle abitudini, agli usi, ai costumi, alle tradizioni del luogo di nascita e questo amore per le proprie radici (etniche, storiche, politiche, culturali…) portava gli intellettuali romantici a studiare e ad esaltare le tradizioni popolari come le antiche fiabe, leggende, saghe e tradizioni popolari. Il romanticismo, in pratica, creava ed esaltava il concetto di nazione (a cui erano strettamente correlati, ovviamente, i concetti di popolo e di patria). E in nome di questi ideali i popoli oppressi o dominati da potenze straniere (italiani, polacchi, greci…) iniziavano a combattere per la loro libertà e indipendenza.

Naturalmente non sarebbe pensabile dare una definizione univoca ed unitaria del romanticismo (come del resto di qualunque movimento di pensiero e idee) considerando che il romanticismo tedesco è diverso da quello inglese; quello francese è diverso da quello tedesco ed inglese; quello italiano è assolutamente diverso da quello francese, tedesco… Per non parlare poi del fatto che autori dello stesso paese (e dello stesso periodo) interpretavano il romanticismo in maniera assai diversa: Manzoni e Leopardi, ad esempio, sono i nostri più grandi [1]autori romantici, ma si rifanno a filosofie, concezioni estetiche e poetiche diametralmente opposte.

Esisteva anche un romanticismo reazionario: molti intellettuali, delusi per il fallimento degli ideali illuministi e della Rivoluzione Francese, delusi per il dispotismo napoleonico, stanchi dopo anni di sommosse, guerre, caos… auspicavano un periodo di pace, di quiete, di ordine sociale c politico; per questo rivalutavano la religiosità tradizionale (dogmatica ed oscurantista), la monarchia assoluta (ultramontanismo) ed invocavano la repressione di ogni velleità riformista e democratica.

Ma esisteva anche un romanticismo liberale che esaltava le libertà individuali e sociali, che si batteva per la libertà dei popoli oppressi e che si rifaceva, se mai, al cristianesimo evangelico delle origini. Così come esisteva un romanticismo democratico rappresentato da coloro che lottavano per un’Italia libera, unita, repubblicana e democratica. Esistevano romantici che predicavano l’impegno sociale e politico, e romantici che praticano il disimpegno totale; romantici che si ponevano alla testa dei popoli e romantici che si chiudono vittimisticamente in se stessi; romantici che inseguivano la realtà e romantici che fuggivano da essa… Segni talmente contrastanti e opposti da rendere difficoltoso qualsiasi tentativo di sintesi. Una esemplificazione di questa complessa situazione potrebbe essere portata dalla figura di Joseph De Maistre.

Mentre per una definizione dell’essenza romanticismo si potrebbe ricordare un pensiero del poeta Novalis2.


“Quando conferisco a ciò che é comune un senso più elevato. all’ordinario un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita lo romanticizzo”. Il mondo deve essere “romanticizzato” vedendo nel particolare un valore universale e, viceversa. riconoscendo che l’universale si esprime sempre  nel particolare. Ma per “romanticizzare” la realtà comune occorre guardarla con gli occhi dell’intuizione più che con quelli della ragione, tanto impiegati nel periodo illuministico. La compiuta realizzazione dell’uomo è pertanto l”‘indiarsi”, la complessa risoluzione nell ‘Uno-tutto, nella quale l’individuo esplica il suo infinito valore. e, allo stesso tempo, l’infinito si determina come individuo: con ciò si realizza completamente l’essenza del romanticismo.

Ma dopo questa lunga riflessione sul periodo romantico torniamo alla nostra storia, quella della Libera Muratoria. Da un lato in coincidenza con la sconfitta di Napoleone l ‘importanza della massoneria ridotta da lui a mero instrumentum regni e usata per lo più per favorire carriere ad alto livello, viene meno. Dall’altro anche le Logge che non si erano asservite al regime napoleonico, in questo frangente storico, non rappresentano lo strumento più adatto per continuare l’azione in senso liberale e nazionale. In Italia, pur nella scarsezza di dati certi, probabilmente la maggioranza dei liberi muratori militò nelle file della opposizione liberale e patriottica ai regimi restaurati rifiutando l’ideologia stessa della Restaurazione. Si può reputare veritiera, estendendola a tutto l’arco di tempo che va dal 1815 al 1859, la valutazione che della presenza massonica dava un confidente della polizia pontificia in un suo rapporto del 1817: “Vi sono molti massoni in Roma, Fermo, Perugia ma ora sono inoperosi e rimangono come un venerabile avanzo di antichità per i suoi ammiratori”

Non fu infatti produttivo di risultati il tentativo fatto intorno al 1820 da FRANCESCO SAVERIO SALF1 [2]di ripristinare in Italia una Massoneria profondamente riformata; e cosi pure non ebbe sbocchi pratici l’iniziativa presa nel 1 822 dal Buonarroti[3]di rilanciare la Massoneria puntando su di un drastico snellimento dei

suoi rituali. Non bastava essere contro l’antico regime (ora restaurato) e a favore del progresso ma bisognava anche individuare le forze capaci di creare un nuovo ordine e concertare piani d’azione adeguati alle reali possibilità della società italiana. Questa consapevolezza della nuova realtà certamente presente in molti liberi muratori fece si che la vita nelle Logge si assopisse o addirittura cessasse per dar vita ad altre forme di pensiero ed azione più adatte per il conseguimento del disegno politico che caratterizzerà il nostro Risorgimento e per questo si generarono nuove aggregazioni, in parte sicuramente derivate da preesistenti Logge ed una di questa fu senz’altro la Carboneria.

ln tutte le società segrete che operano nella Restaurazione, sembrano alternarsi una corrente <<fredda», razionalistica, e una vena «calda», romantica e in qualche modo religiosa, anche se di una religiosità spesso eterodossa che spiega ad esempio perché la simbologia della Carboneria così ostentatamente si richiami a simboli religiosi esplicitamente cattolici: per esempio, alla Passione di Cristo e ai santi.

La maggior parte dei massoni, magari entrati sonno», andò tuttavia a costituire, nella Penisola o fuori di essa, l’ossatura di una complessa e frastagliata rete di gruppi  e di relazioni latomistici, non formalmente massonici, che influiranno in seguito su una parte cospicua delle élite culturali e politiche italiane. A questo proposito non si può sottacere la forte impostazione anticlericale che caratterizzò una cospicua parte dei liberi muratori italiani dovuta, in estrema sintesi, al convincimento che il più grande ostacolo per la realizzazione del progetto unitario fosse l’esistenza del potere temporale della Chiesa a ciò fortemente ostile. Per questo è stato sostenuto che la Massoneria in Italia, a causa della questione romana, fu anticlericale nella misura in cui il potere temporale fu antiunitari5 .

CONCLUDENDO: tutte queste considerazioni aiutano a comprendere come, nonostante l’assenza di un’organizzazione sul territorio, la massoneria in Italia rinacque quasi improvvisamente alla vigilia dell ‘Unità e si ramificò poi rapidamente in tutta la penisola.


[1] Il conte Giuseppe De Maistre può essere preso come l’esempio dell’antitesi dello spirito giacobino e poi carbonaro; nato nel 1 853 a Chambéry fu educato dai padri Gesuiti con i quali rimase sempre in buoni rapporti. Studiò teologia, diritto ed economia a Torino ed iniziò la carriera di magistrato. Entrò a far parte prima della Loggia “Tre mortai” e poi della Loggia “Perfetta sincerità”. Quando scoppiò la rivoluzione il governo piemontese mise al bando le logge massoniche ritenute pericolose e sovvertitrici. De Maistre uscì dall’ordine ma molto dopo precisò le sue convinzioni nella “Memoria al Duca di Brunswick” in cui contestava energicamente la tesi che le logge fossero covi di complotti rivoluzionari sostenendo che la Massoneria non era che la scienza dell’uomo, lo studio della sua origine e del suo destino (chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo) e che tutto ciò non conduceva certamente al sovvertimento dell ‘ ordine costituito.

– Pseudonimo del filosofo e poeta tedesco Friedrich Leopold von Hardenberg (1772-1801). Fu uno dei maggiori animatori del circolo romantico di Jena.

[2] Letterato e patriota italiano (Cosenza 1759 – Parigi 1832). Sacerdote, nel 1792 entrò nella Società patriottica napoletana e si rifugiò quindi, lasciata la condizione ecclesiastica, a Genova e a Milano. Proclamata la Repubblica napoletana, fu segretario del governo provvisorio. Di principi massonici, fu consigliere di Gioacchino Murat. Nel 1815 si ritirò definitivamente in Francia; rimase tuttavia sempre attento agli avvenimenti italiani; per es., nel 1831 stilò con Filippo Buonarroti il testo di un proclama che avrebbe dovuto servire a un movimento insurrezionale a cui stavano interessandosi alcuni fuorusciti italiani.

[3] Uomo politico rivoluzionario (Pisa 1761 – Parigi 1 837); esule volontario in Corsica poco dopo lo scoppio della Rivoluzione fran-

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OSSERVAZIONI A PROPOSITO Dl EQUITÀ E GIUSTIZIA

OSSERVAZIONI A PROPOSITO Dl EQUITÀ E GIUSTIZIA

di G. B.

Per oltre quaranta anni ho svolto presso I ‘Università di Pisa un ‘ininterrotta attività di docente universitario nella Facoltà di Medicina e Chirurgia. In questa veste ho esaminato centinaia di studenti ed ho espresso giudizi a mio parere obiettivi, basandomi sulle risposte più o meno corrette alle domande che ponevo. In questo lungo periodo ho sempre considerato il mio metro di giudizio abbastanza equo e imparziale. Ma (ora) mi chiedo: è sempre stato così? Mi sarebbe stato impossibile rispondere fino al giorno in cui, cessata la mia attività di docente, mi è capitato di incontrare casualmente degli ex studenti, oggi medici, ai quali dopo una breve conversazione, m’è venuta 1a curiosità di chiedere “Ma l’esame com’è andato?”. Molti hanno risposto: “Bene, Professore!” Alcuni tuttavia hanno detto “… Non troppo, perché lei quel giorno si è dimostrato piuttosto nervoso e, soprattutto, molto esigente.. .

Questa breve premessa potrebbe apparire fuori luogo, ma mi permette di introdurre alcune osservazioni del tutto personali su due concetti fondamentali che hanno fra loro legami talmente stretti da risultare quasi inseparabili, ossa Equità e Giustizia.

Il dizionario della lingua italiana Treccani definisce l’Equità come “Giustizia che applica la Legge non rigidamente, ma temperata da umana e indulgente considerazione dei casi particolari ai quali la legge si deve applicare ] L’equità non offende la Legge né la Giustina, ma interpreta l’una e l’altra nel loro vero significato…”. Più in dettaglio, nel Diritto Internazionale e nei sistemi giuridici di common law, I ‘Equità viene considerata come un criterio di giustizia applicata al singolo caso, che prevede, da parte del giudice non la pura e semplice applicazione di una Legge preesistente, ma piuttosto l’applicazione di una nuova norma inerente il caso singolo”, e ciò a completamento della voce di cui sopra. In senso più ampio, il termine Equità può essere strettamente legato a quello di Giustizia ove questa si identifichi in una norma da seguire costantemente in tutte le attività umane. In altre parole l’uomo “equo” e “giusto”, sia nel governare che nel giudicare, come in qualsiasi altra attività della vita di relazione che lo ponga in rapporto con gli altri esseri umani, deve essere in grado di trattare ognuno riconoscendo sia le colpe che i meriti, con serenità di giudizio e assoluta imparzialità.

Nella “Retorica” Aristotele concepisce I ‘Equità come la forma di Giustizia che va al di là della legge scritta. Il concetto filosofico espresso da Aristotele attribuisce all’Equità una valenza che va oltre l’ambito del diritto, ma che si configura come una vera e propria Virtù di importanza capitale per il comportamento etico dell’uomo Da tutto questo si può intuire come i concetti di Giustizia ed Equità debbano essere considerati come principi che presentano strettissimi legami fra loro. Possiamo considerare I ‘Equità, in relazione al bene comune e a quello individuale, come una giusta proporzione e un punto di equilibrio tra soggetti coinvolti in una determinata azione, di qualsiasi tipo essa sia. Da ciò si intuisce quanto sia fondamentale l’importanza del principio di uguaglianza fra tutti gli esseri umani perché la giustizia sia “giusta”.

Sempre secondo il pensiero della scuola aristotelica, quando si prenda in considerazione la natura della Giustizia e dell ‘Equità, risulta evidente che in senso assoluto esse non sono la stessa cosa ma che non sono neppure diverse per origine, in quanto entrambe strettamente connesse con la natura umana. E equo tutto ciò che è intermedio fra bianco e nero, tra più c meno. Ed è giusto tutto ciò che viene identificato come rispondente al senso di Equità. Appare anche giustificato, a mio avviso, che quando si affronti un qualsiasi argomento di natura etica, si finisca inevitabilmente per considerare i concetti di Equità e Giustizia come un tutto unico e indissolubile tanto da identificare l’Equità come una Virtù indispensabile perché qualsiasi comportamento umano sia al tempo stesso tanto equo quanto giusto.

Senza addentrarmi in questioni di Filosofia del diritto nelle quali non ho alcuna competenza, mi sento tuttavia di poter affermare che il concetto di Equità è stato sicuramente diverso lungo il divenire della storia dell’umanità, come altrettanto diverso è stato sicuramente il concetto di Giustizia. Nella rigida applicazione delle Leggi in particolare, ciò che oggi può apparire iniquo poteva essere considerato giusto ed equo in un determinato periodo storico. Analoga differenza può risultare quando si prendano in esame culture profondamente diverse dalla nostra: addentrarmi in considerazioni di questo tipo porterebbe a lunghe dissertazioni che lascio a coloro che, come ho detto, conoscono profondamente la materia.

Vorrei invece analizzare, secondo una visione del tutto personale, gli stretti legami che intercorrono fra Equità, Giustizia e Massoneria. La Via libero-muratoria, se seguita con scrupolosa costanza, implica un continuo e costante processo di formazione e perfezionamento interiori. Questo significa una faticosa ricerca della parte migliore di ciascun uomo, avente come scopo la liberazione dalla schiavitù del Vizio e la progressiva affermazione interiore delle Virtù. La continua e obiettiva presa di coscienza del male che è in noi ed il tentativo più o meno efficace di vincerlo, sicuramente porta ad un maggior equilibrio e pertanto ad una maggiore equità nel nostro comportamento. Ogni gradino della Piramide del Rito Scozzese Antico ed Accettato, ogni aumento di Lucc ha un effettivo valore e rappresenta una vera conquista solo se si accompagna al superamento progressivo di ostacoli costituiti da tutto ciò che forma la parte peggiore del nostro Sé. Il Vizio va, innanzi tutto, riconosciuto sinceramente, guardando senza timore nella parte più oscura di noi stessi; va poi affrontato con consapevolezza e coraggio, senza tentennamenti o scorciatoie. E la battaglia del Cavaliere contro il Drago con le sole armi della Virtù che traggono origine e forza dalla nostra natura divina. Questa natura è una prerogativa comune a tutti gli esseri umani, ciascuno dei quali costituisce solo un ‘infinitesima parte di un Tutto, identificabile, a parer mio, nel Grande Architetto dell’Universo. L’uomo che riconosce la natura divina nella propria esistenza si sente parte di un Grande Progetto, che può solo intuire, ma che traspare quando egli si addentri nella conoscenza di se stesso e dell’Universo del quale fa parte. Il continuo cammino della Scienza, le sue nuove scoperte e conquiste, e la meravigliosa bellezza che lasciano intravedere, dimostrano come questo Disegno sia universalmente presente.

La progressiva ascesa della Piramide del R.S.A.A. si traduce in un ampliamento dell ‘orizzonte della Conoscenza, ponendo l’uomo nelle condizioni ideali per perfezionarsi in tutte le sue manifestazioni e attività. Il far risplendere l’Occultum Lapidem con la progressiva ricerca interiore rappresenta, a mio avviso, uno dei modi (se non il migliore) per poter giudicare con equità e imparzialità se stessi e, al tempo stesso, mettersi nelle condizioni ideali in tutti i rapporti con i propri simili.

Voglio adesso ritornare alla riflessione personale dalla quale sono partito. Nel confrontarsi con gli altri, come nel caso esaminatore-esaminando, l’equità nell’esprimere un giudizio è requisito etico fondamentale perché questo sia un “giudizio giusto”: per formularlo tale non possono, né devono, intervenire fattori condizionanti. Ovvio che la risposta del medico: “Non troppo, perché lei quel giorno si è dimostrato piuttosto nervoso e, soprattutto, molto esigente.. . .” ha generato in me parecchi dubbi. Perché ho chiesto a me stesso se e quanto il mio stato d’animo, in alcuni momenti come quello in specie, potesse aver influito sul risultato del mio giudizio finale. Ero stato veramente “equo e giusto? “. Oggi, più di allora, ho molti dubbi in proposito, e penso che all’origine di questi dubbi vi sia il progressivo sviluppo della conoscenza di me stesso. Un sereno stato d’animo, l’equilibrio, l’umana comprensione, la capacità di non lasciarsi condizionare da sentimenti  umani istintivi quali simpatia o antipatia, sono una meta che si raggiunge progressivamente grazie alla continua applicazione del metodo libero muratorio. Queste progressive conquiste, secondo me, devono tradursi, per non rimanere fini a se stesse, in comportamenti ispirati a Equità e Giustizia in qualsiasi rapporto con i propri simili.

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CONSIDERAZIONI SULLA HUMANITAS

i Antonio Binni

Sotto quella ciotola piena di stelle che gli uomini chiamano cielo, l’universo è gravido di mistero. L’uomo si fa querens e il querere si fa dovere, necessità, felicità. Dovere, in quanto tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale. Necessità, quale unica forma di consolazione concessa al suo fragile essere mutevole. Al postutto, fonte di autentica felicità per essere l’uomo nato al fine di conseguire una conoscenza stabile e certa del vero, non desumibile dalle tare delle res obscurae del sensibile regno della mutevolezza. Il nostro pensiero interrogante oggi ha come oggetto un tema fra i più complessi e delicati, seppure per certo fra i più affascinanti. Si insegna che il compito e il fine dell’Arte regia sono costituiti dal rendere l’uomo umano, sempre più umano, sempre più pienamente umano. È la nota lezione di Fichte (che può leggersi in Filosofia della Massoneria, nella seconda edizione italiana pubblicata nel 2019 da Mursia editore. Su questo tema cfr. amplius il nostro scritto Fichte. Filosofia della Massoneria comparso nel numero di Officinae del mese di Novembre 2021). Il significato profondo di questo assunto esige però preliminarmente di appurare in che cosa si risolva l’umanità, che cosa la sostanzia, che cosa l’alimenta. All’approfondimento di tutti questi temi saranno pertanto dedicate tutte le successive considerazioni. A questo fine aiuta sicuramente un approccio all’argomento dal profilo storico, sia pure circoscritto all’essenziale. I primi che alla problematica hanno dedicato una specifica attenzione sono stati sicuramente i Greci. Nella loro grande epoca hanno infatti posto l’accento sulla necessità di dare un significato e un senso alla parola umanità, che hanno poi inteso come il punto di arrivo di una educazione necessaria per superare la naturale animalitas dell’uomo. L’uomo, unità di corpo, anima e spirito, sebbene essere razionale è infatti, e rimane pur sempre, un essere animale. Animalità che può essere tuttavia corretta, e perfino completamente eliminata, con la παιδεία, non essendo a questo fine sufficiente la semplice attribuzione all’uomo di una anima immortale o della facoltà della ragione. Troppo noti, per essere elencati singulatim, sono poi gli strumenti dei quali si avvale la παιδεία per contrastare l’arbitrio degli istinti e la barbara brutalità. Valga piuttosto ricordare che la virtus romana altro non è che la incorporazione della παιδεία elaborata dai Greci, pur restando vero che la humanitas viene per la prima volta pensata ed esplicitata con questo nome solo al tempo della Repubblica romana. La parola παιδεία viene infatti tradotta con la parola humanitas. Nella sua essenza, il primo umanesimo resta quindi un fenomeno specificatamente romano che scaturisce dall’incontro della romanità con la cultura della tarda grecità. Il cristianesimo ravvisa invece la humanitas dell’homo nella sua limitazione rispetto alla deitas. L’uomo, in questa prospettiva, non è infatti di questo mondo, inteso invece come un semplice luogo di passaggio transitorio verso l’al di là. È noto che il Rinascimento – tra il XIV e il XVI secolo – celebra la humanitas nella sua latitudine più vasta. L’aforisma del drammaturgo latino Terenzio: Homo sum, humani nihil a me alienum puto (“Sono uomo, nulla di ciò che è umano ritengo a me estraneo”) era infatti il più amato e il più citato dagli umanisti della renascentia romanitatis, nonostante poi che, nel suo contenuto, si continui a intravedere ancora la pratica del vizio come prova di una umanità non ancora del tutto raggiunta. Salda comunque rimane ancora la convinzione che il destino della persona umana sia non soltanto l’autotrascendenza, ma addirittura la divinazione. In questa prospettiva, il modello diventa allora il Salvatore, vero uomo e vero essere divino. Da ultimo, ma non per ultimo, non è inutile ricordare che l’umanesimo rinascimentale ha costituito il movimento culturale e educativo più influente in Europa in tutto quel periodo. Nella funzione educativa si riconosce poi un’importanza decisiva alla cultura, intesa come il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. Alla cultura sottostanno infatti sistemi di valori, significati e visioni del mondo che possono risultare determinanti fino al punto di divenire fonte di divisione sociale. Come accade, ad esempio, nella cultura contemporanea dominante in Occidente, che esclude ogni forma religiosa dai valori riconosciuti perché degradata a mera superstizione o, addirittura, a oscurantismo. Per concludere sul punto, la cultura è come una lente che può chiarire o distorcere convinzioni in apparenza, e non solo, innate. Proprio perché pervasiva – le sue idee riempiono le nostre teste – può essere sana o tossica. Per questo – la ripetizione si impone – costituisce un fattore educativo di portata determinante. (Per un approfondimento di questo argomento ci permettiamo di rinviare al nostro precedente scritto dal titolo Massoneria e cultura pubblicato sul numero di questa Rivista uscito il 23 maggio 2021). Per esaurire questo sommario excursus dell’Umanesimo storicamente considerato, corretto è infine affermare che il fenomeno de quo, considerato nelle sue varie forme, attinge in modo determinato alla antichità, spingendosi talvolta fino a farne un calco integrale. Fatta eccezione per l’umanesimo di Sartre che lo concepisce invece come esistenzialismo. Ciò doverosamente seppur sinteticamente ricordato, al fine di delineare il nostro pensiero sull’argomento va precisato innanzitutto che tutte le forme di umanesimo che si sono via via affermate fino ad oggi presuppongono – come è evidente – l’“essenza” universale dell’uomo. È dunque a questa “essenza” che si deve far capo se s’intende dare, come ci si è proposti, un sicuro fondamento e un preciso contenuto a quella umanità che si vuole costituisca la cifra caratteristica e la peculiarità distintiva dell’uomo UOMO. Secondo l’insegnamento tradizionale inaugurato da Platone, l’essenza dell’uomo deve essere ravvisata nel suo essere una possibilità. Quando si afferma che la humanitas è l’essenza dell’uomo si vuole pertanto dire che l’uomo è arbitro delle sue scelte, potendo diventare umano o in-umano. In-umano, in quanto figlio dell’arbitrio e della sopraffazione, autentico inferno per il tormento di non amare nessuno. Umano perché agli antipodi del negativo, che, in quanto rifiuto della ragione, merita il marchio della riprovazione. Il che, se non andiamo errati, autorizza legittimamente a sostenere che l’umano esiste nell’uomo soltanto in nuce. Infatti, è solo quando da potenza si trasforma in atto che l’umano si dispiega in tutta la sua latitudine per divenire ciò che autenticamente è. Il che postula allora la domanda su cosa consista il contenuto dell’umano, quale sia cioè la sua cifra, ossia la peculiarità che lo caratterizza. A chi scrive queste note l’umano, quale sintesi di valori inalienabili e inespropriabili, va colto essenzialmente nella cura dell’altro come dono da offrire e mettere in comunione con quello di cui ciascun altro è portatore. Una cura aperta in termini universali, perché estesa a livello non solo umano, ma pure sociale, planetario, cosmico. Anche se, in primis, indirizzato all’uomo con la diffusione di semi di verità, di bontà, di bellezza, ma pure di sostegno materiale nei confronti dei più bisognosi, degli umili, dei diseredati, a questi ultimi uniti nel loro rispettivo dolore. Il che – sia detto per incidens – è tanto più urgente in questa attualità connotata dalla indifferenza. Si tratta poi di una cura, dove la sottolineatura è perfino superflua, non nel senso astratto di un impegno generico ma in un senso concreto, indirizzata nei confronti di una persona specifica: impegno duraturo che non deve passare rapido come il soffio di un vento di montagna. Il che postula una generosità coltivata giorno per giorno, come avviene per una piantina a primavera, e nel contempo la forza eterna del bene che si custodisce nel tempo, con radicale esclusione di ciò che soffoca. Altrimenti il negativo strangolerebbe e ucciderebbe lo slancio generoso. Prendersi cura dell’uomo vuol dire, in sintesi, insegnare all’uomo germogli vivi di tenerezza che, una volta coltivati dall’apprendista-uomo, gli consentiranno di donare agli altri la propria autentica essenza, come dire la ricchezza più preziosa del proprio essere, sostanza composita perché in quel contenitore confluiscono logica, generosità, tradizione, valori e, più in generale, lo stesso inconscio collettivo.
Da qui una responsabilità educativa di carattere generale che comporta la messa in atto di una delicata e risoluta paideia secondo la regola pedagogica della gradualità. In ogni caso, una educazione al difficile, tanto per l’educando quanto per l’educatore, posto che un’azione educativa coerente implica l’indicazione di sentieri di vita orientati al bene: un richiamo energico a vivere la vita in pienezza e responsabilità, trasformandola creativamente ogni giorno nell’arte del dono. Fare di se stessi gli artefici del miracolo di trasformare l’altro in una immagine di virtù è la realizzazione del sogno che nutre l’uomo-uomo, l’uomo umano. La non umanità coincide allora con il porsi fuori dell’essenza dell’uomo. Come a dire vittime del dominio dell’istinto, dell’arbitrio, del sopruso, della sopraffazione, della forza e della violenza (purtroppo così attuali mentre scrivo!). Stare dalla parte dell’umano e servirlo con scrupolo e costanza significa conclusivamente contrastare, con ferma determinazione, tutto ciò che anche soltanto appanna la luce che scaturisce dalla ricchezza della cura dell’altrui. Nella nostra società contemporanea significa, in specifico, contrastare tutto ciò che c’è di insidiosamente distruttivo, quali le pressioni competitive, la seduzione del consumismo, l’invadenza della pubblicità e tutti gli altri influssi che modellano negativamente l’attuale modo di vivere. Sul piano intellettuale l’opposizione e il contrasto vanno poi indirizzati a quella corrente culturale, oggi dominante nel mondo occidentale, chiamata postmodernismo, perché filosofia essenzialmente scettica. Il suo principio basilare è infatti questo: la verità è soltanto tutto ciò che è vero “per me”. Con la conseguenza che l’assenza di una verità oggettiva finisce per impoverire l’umano perché, a questa stregua, viene meno un punto di riferimento sicuro nella vita di ciascuno di noi, gioia e guida che tengono lontano dall’insensato vagare tra incertezze e rischi oltremodo pericolosi. Dunque, se si vuole rendere l’abitante di questo mondo, tanto complesso e difficile, sempre più uomo, sempre più umano, sempre più pienamente umano, non solo nella sfera dell’esercizio individuale della speculazione ma proprio nella concretezza del sensibile, occorre, a ben vedere, compiere ogni sforzo nella divulgazione della paideia, posto che quest’ultima fornisce tutti gli strumenti necessari per affinare l’uomo fino a trasformarlo in un uomo autentico. Impresa da compiersi senza posa, perché in questa costruzione lenta, faticosa, sempre soggettivamente appagante, oltre che collettivamente arricchente, non v’è in verità mai fine.

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴
Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato
Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi

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LA MASSONERIA, I SOCIALISTI E MUSSOLINI

LA MASSONERIA, I SOCIALISTI E MUSSOLINI

Carlo Felici del 12 Marzo 2019 Cultura

Dalla Grande Guerra alla guerra civile. 

Il rapporto tra Mussolini e la Massoneria fu cruciale ed andrebbe studiato nei dettagli, qui, ovviamente, non possiamo che accennarvi sottolineando però alcuni passaggi emblematici. Mussolini, è bene chiarirlo subito, non fu mai massone né chiese di esserlo. E’ una leggenda il fatto che avesse chiesto di essere iniziato ma venne rifiutato per i suoi precedenti penali o perché troppo irrequieto, non vi sono prove, e le dicerie restano alquanto prive di fondamento. La sua avversione per la Massoneria, invece, fu tanto palese, quanto evidente fu il fatto che se ne servì per raggiungere il potere.

Le origini dello spirito antimassonico di Mussolini risalgono al contrasto tra socialisti e repubblicani all’inizio del XX secolo, i primi di tendenza anarchica e i secondi repubblicani perché massoni. Mussolini si adoperò alacremente per fare espellere i massoni dal Partito Socialista già dal 1914, nel Congresso di Ancona, prima di capire come, però sarà bene ripercorre un po’ le tappe del rapporto tra massoni e socialisti fino al 1914. La Massoneria aveva contribuito validamente alla nascita di un partito socialista in Italia, le sue prime sezioni erano piene dei ritratti del primo Gran Maestro della Massoneria italiana: Giuseppe Garibaldi.

Già alla vigilia della sua morte, nell’autunno del 1881 la massoneria milanese organizzò un congresso fondamentale. Tra i sei temi in discussione, due erano più propriamente “politici”. E il secondo aveva come titolo il seguente: “Dell’atteggiamento della Massoneria di fronte alla questione sociale”. I massoni milanesi erano convinti allora che fosse necessario un forte impegno sociale per affrontare seriamente i problemi del cosiddetto quarto stato, sottraendo alla borghesia il cerchio ristretto dell’influenza massonica, si diceva a chiare lettere: “Il mondo cammina, il quarto stato chiede alla sua volta di entrare. Che la massoneria italiana si ponga quindi all’opera e presto. Bisogna dare al popolo, ai lavoratori delle città e delle campagne, con la scienza, la coscienza di sé stessi. Bisogna educare il legittimo successore al quale i fati destinano la sovranità della terra”.

Come è evidente, questo è un linguaggio che va ben oltre il concetto di democrazia, allora ancora più ristretto da un limitato suffragio, ma che si identifica con la nascente ideologia socialista, teorizzando la nascita di una serie di logge “operaie e campagnole”, che dipendessero dalle logge madri. Non vi era nemmeno discriminazione culturale in tale intento, poiché il fatto che i fratelli fossero analfabeti, non ne inficiava l’appartenenza, anzi la loggia stessa si incaricava di dare loro gli strumenti di emancipazione culturale necessari: “precipuo fine di queste logge massoniche sarebbe quello d’istituire una scuola per insegnare a leggere, a scrivere e far conto non solo ai fratelli ma alle loro famiglie, ai loro amici ed attinenti”. Nessuna tassa o capitazione sarebbe stata prevista per queste logge, avendo esse soltanto “intendimenti progressivi ed umanitari” dell’istituzione massonica.

L’obiettivo era quello di sottrarre, mediante l’istruzione, alla influenza clericale un certo numero di persone che sarebbero state protagoniste a loro volta di una propaganda laica. I rapporti tra Massoneria e Socialismo, dall’inizio del XX secolo, sono improntati a rispetto e collaborazione anche se restano su piani distinti, dato che la prima lavora per il perfezionamento individuale ed il secondo per quello collettivo, non poche però sono le occasioni di convergenza.

Quando la corrente riformista riesce a prevalere, dal 1900 al 1911, il rapporto di reciproca convivenza si rafforza, in particolare con l’emanazione delle Costituzioni massoniche nel 1906, le quali riaffermano che “la Comunione italiana, non discostandosi nei principi e nel fine da quanto l’Ordine mondiale professa e si propone, propugna il principio democratico nell’ordine politico e sociale”. Tale assunto favorisce notevolmente il connubio tra partiti laici e socialisti che hanno modo di affermarsi dal 1907 nei blocchi popolari delle grandi città e nelle loro amministrazioni, contendendo validamente l’egemonia al blocco moderato. Uno degli esempi più eclatanti di questi intenti è il Comune di Roma, amministrato con grande impegno civico e perizia amministrativa dal sindaco Ernesto Nathan, che era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, il quale allargò notevolmente con la sua iniziativa laica la base del consenso.

Tra il 1904 e il 1907 però all’interno dello stesso schieramento socialista le divergenze sulla compatibilità con il percorso massonico si fanno più forti e sono sempre più consustanziali a quelle tra i massimalisti e rivoluzionari che considerano la Massoneria come un retaggio borghese, e i riformisti che, invece, rilevano sempre maggiori compatibilità di intenti con essa nel processo di emancipazione umanitaria.

Nel 1905 la Massoneria venne tacciata di essere, sulle colonne dell’ ”Avanti!” dal sindacalista-rivoluzionario Guido Marangoni, una “quinta colonna” del riformismo piccolo-borghese, e di essere piuttosto accondiscendente verso moderati e clericali. Ci fu una forte reazione del compagno massone Alfredo Poggi e di un Fratello X che replicò testualmente: “Perché dunque combatterla? O non è combattere una forza viva, un ausilio valevole all’opera continua di svolgimento della legge indefinita del progresso umano? I socialisti, più che combattere la Massoneria, dovrebbero conquistarla e trasformarla, e sarebbe una nuova e grande forza al servizio della moderna civiltà”, previa epurazione delle Logge dai massoni filo-clericali e moderati, “trescatori illeciti, profanatori del tempio”.

La Massoneria, d’altro canto, ripudiava i metodi di lotta socialisti basati sulla violenza, ribadendo di essere favorevole ad “un’azione inoltre diretta ad infrenare possibilmente gli eccessi e le violenze, in cui talora quel partito, od almeno una notevole parte di esso, si è abbandonato ed ai quali ci si proclama pure disposti come a metodo di lotta”. Nell’ottobre del 1905 fu lo stesso Turati a prendere posizione, con una intervista rilasciata al Corriere, ribadendo che lui ed il suo partito restavano estranei alla Massoneria; ci furono forti reazioni e prese di posizione e fu deciso pertanto di convocare un referendum tra gli iscritti per stabilire una eventuale compatibilità tra l’essere massoni e l’appartenere al Partito Socialista.

La partecipazione fu scarsa ma significativa, solo il 25% del totale delle sezioni, per una percentuale di iscritti di circa il 30% . Ciò nonostante, la maggioranza che risultò in quelle condizioni per l’incompatibilità fu netta ed arrivò all’85% di quanti si erano espressi. E la proposta di espulsione dei massoni dal partito raccolse il 78% dei consensi. La rappresentatività di tale referendum però risultava troppo scarsa per legittimare un qualsiasi provvedimento.

Il GOI replicò, come nella tradizione massonica, con estrema apertura e tolleranza rimarcando il fatto che si dovevano considerare dimissionari dalle Logge Massoniche solo coloro che avevano già detto che avrebbero accettato l’esito referendario, adeguandosi ad esso. Furono così ritenuti “definitivamente dimissionari dall’Ordine quei Fratelli, i quali, interpellati dai loro Venerabili, risposero che se l’esito del referendum avesse stabilito la incompatibilità tra le qualità di massone e di socialista, si sarebbero ritirati dalla Massoneria; dato che per tutti gli altri non crede doversi prendere qualsiasi risoluzione, lasciando loro giudici e liberi di rimanere o di andarsene, perché la Massoneria che deve accogliere ed accoglie uomini onesti di qualunque fede, scuola o partito, purché sinceramente devoti alla libertà, alla civiltà ed alla patria, non può, senza rinnegare le sue dottrine fondamentali, formulare ostracismi, né assumere atteggiamento d’intolleranza”. Non era una sorpresa, la Massoneria infatti non ha mai imposto alcuna incompatibilità con nessun ambito politico o religioso, dato che per sua tradizione secolare di Loggia, in ogni tornata, non si parla né di politica e né di religione.

Nel febbraio del 1906 l’assemblea costituente massonica ribadì di volere mantenere buoni rapporti con i socialisti. Fu solo stigmatizzato il fatto che “la Santa Inquisizione socialista seguì il suo procedimento, e 9 mila proletari su 37 mila iscritti deliberarono l’indegnità dei socialisti-massoni” Ma, in conseguenza di ciò, pochissimi furono quelli che lasciarono il Partito o la Massoneria, per la maggioranza il referendum non ebbe alcun effetto. Nel 1910 una convergenza sembrava tornare possibile, soprattutto sul piano della laicità dello Stato e delle riforme sociali, ma le diffidenze restavano e ci si limitò «a voler tenere presente che l’opera loro di educazione e disciplinamento e soprattutto quella di opposizione a gretti criteri corporativistici» poteva «essere seriamente compromessa per i dubbi e le diffidenze facilmente suscitabili nei lavoratori dal sospetto che, appartenendo essi ad una associazione segreta, di cui sconosciute sono le regole vincolatrici, la loro azione, anziché dal vero ed unico interesse dei lavoratori, potesse essere ispirata e determinata da quei vincoli segreti ».

Come già detto, l’antagonismo era in gran parte datato e riferito a quello preesistente tra repubblicani e socialisti, soprattutto sul terreno della lotta di classe, non adottata dai primi ed invece ritenuta indispensabile per i secondi. Lo ribadì lo stesso Turati, invitando i socialisti “ogni qualvolta siano chiamati a decidere di tattica elettorale locale, a ricordarsi dell’opera reazionaria e crumira dei repubblicani di Romagna sul terreno economico, non sconfessata né dalla direzione né da una sola Sezione del Partito Repubblicano Italiano, e a regolarsi di conseguenza”. Si tornò a parlare di referendum e di voto di condanna per appello nominale ma le posizioni furono varie e divergenti, tra le altre, ricordiamo quella di Merloni che fu molto applaudita “l’opera singola dei socialisti massoni non ha mai dato occasione a rilievi di sorta in tutto il partito … Donde la proposta della scheda bianca: che non significa disinteresse dal problema massonico, il quale può sempre utilmente discutersi, ma disinteresse dal fatto che ci siano dei socialisti i quali credano utile e benefico di associare anche le loro singole energie a quelle di un’istituzione che si propone di dissodare e di preparare nel campo della cultura, della educazione e delle rivendicazioni laiche, il terreno alle conquiste democratiche e socialiste” Qualcuno chiese se gli esempi personali di Merloni o di singoli altri bastassero a giustificare la penetrazione della Massoneria nel Partito, ma, obiettivamente, almeno sul piano del buon senso e della razionalità, esse apparivano ineccepibili.

Ancora una volta il referendum riscontrò una minoranza di partecipanti. Ancora nessun effetto, anzi uscì anche un opuscolo a firma “Il Socialista massone” in cui si affermava che “la Massoneria, lasciando, come sempre, totalmente liberi i suoi iscritti di propugnare quella tattica che essi credano migliore, si astiene dall’intervenire nelle lotte elettorali. Insomma, individualmente, i socialisti massoni non contraggono alcun impegno, che possa in qualsiasi modo o misura contrastare coi loro doveri di partito. L’unico impegno che essi assumono, in quanto massoni, è di dare opera attiva all’apostolato anticlericale e laico” La guerra di Libia aprì in seguito contraddizioni e lacerazioni nell’ambito del mondo massonico italiano, scosso tra le rivendicazioni nazionalistiche, sia pure considerate nell’ambito di una missione civilizzatrice e di progresso dell’Italia contro un impero turco autoritario, arretrato e liberticida, e l’impegno per la pace e il disarmo universale, unito al principio dell’autodeterminazione dei popoli.

Tra il 1911 e il 1914 la questione dell’appartenenza alla Massoneria nel Partito Socialista divenne una sorta di terreno di lotta sempre più accesa tra componenti massimaliste e altre riformiste, si andò così delineando una tendenza sempre più antimassonica. non per convinzione particolare ma per convenienza, per esigenza di allineamento con le componenti massimaliste sempre più maggioritarie. Questa sintesi dei rapporti tra socialisti e massoni, grazie anche all’analisi che ne fa Giovanni Artero, consente di capire meglio e a ragione veduta, il Congresso di Ancona nel 1914, quando Mussolini chiese l’espulsione dei massoni dal Partito Socialista, e di inquadrare il suo rapporto particolare con i massoni anche nel suo stesso movimento, dall’inizio alla fine. Mussolini infatti, sarà bene ribadirlo a chiare lettere, fu messo in condizioni di prendere il potere grazie anche alla Massoneria e fu liquidato alla fine, il 25 luglio del 1943, da un gruppo di massoni largamente presenti nel suo stesso Gran Consiglio del Fascismo.

Quando si aprì il Congresso di Ancona dell’aprile del 1914 non aveva la questione della compatibilità tra l’essere massoni ed essere socialisti ai primi punti all’ordine del giorno, ma quella che sembrava dovesse restare una questione marginale ben presto risultò avere un notevole spessore. Fu Bordiga a volerla mettere in primo piano, adducendo la seguente motivazione: “perché non si deve continuare a sospettare che il Partito socialista italiano sia più inquinato di massoneria, o meglio ancora di massonismo, di quello che effettivamente lo sia”.

Si confrontarono così posizioni favorevoli e contrarie a tale compatibilità, Zibordi pose la questione della incompatibilità su vari piani: la Massoneria non era tanto deprecabile per i suoi principi filosofici, quanto piuttosto per la sua azione corruttrice del proletariato che veniva messo sullo stesso piano della classe che lo opprimeva, inoltre i socialisti non potevano sottostare a principi religiosi come quello che imponeva la fede in un Grande Architetto dell’Universo. In conclusione, quindi, i socialisti iscritti alla Massoneria avrebbero dovuto uscire dal Partito e l’incompatibilità avrebbe dovuto essere netta. Seguì l’intervento di Poggi che sottolineò invece come la questione non fosse di particolare rilevanza e che dovesse pertanto essere trascurata dal Congresso, rilevando in particolare che “Nessun vero massone può essere antisocialista perché tende a quella liberazione spirituale che solo sarà possibile col trionfo del socialismo! Nessun vero socialista può essere antimassone perché contraddirebbe ad ideali che sono anche suoi!” Se dunque, aggiunse, vi erano debolezze, esse riguardavano la fede e la tenuta morale di ciascuno, non certo l’appartenenza alla Massoneria, ma erano strettamente inerenti ad una mancata piena coscienza socialista, e quindi se qualcuno doveva essere espulso, ciò si sarebbe reso necessario non in quanto massone, ma piuttosto perché rivelatosi cattivo socialista.

Si decise pertanto di impostare la discussione e i successivi interventi partendo da queste due mozioni, quella di Zibordi e quella di Poggi. Esordì l’onorevole Raimondo che non esitò a definirsi massone di lunga data, per lo meno dai moti di Milano soffocati nel sangue nel 1898, quando tutte le organizzazioni politiche erano state sciolte e ai socialisti non restava che essere massoni per avere scampo, inoltre riaffermò il ruolo internazionalista della Massoneria indispensabile “alla creazione di un’atmosfera pacifica utile alla conciliazione dei contrasti tra i popoli”. Concluse sottolineando come questa doppia appartenenza andava avanti da più di quindici anni e che molto socialisti-massoni avevano nel frattempo acquisito cariche di rilievo e responsabilità istituzionali, chiedendo se a quel punto anche quelle stesse fossero destinate a risultare incompatibili con la linea del Partito.

Seguì l’intervento di Mussolini che fu il più deciso e veemente contro la doppia appartenenza, invitando le sezioni ad espellere immediatamente coloro che non si fossero adeguati alla incompatibilità tra essere socialisti ed essere massoni. A chi replicava che, in tal modo, si sarebbero perse non poche teste pensanti, egli disse con una certa sfacciataggine: «Si è detto che se il Partito provoca un altro esodo dalle sue file, forse rimarrà senza teste pensanti. Questa è una preoccupazione che non deve menomamente turbarci, perché anche la morte a poco a poco ci toglie le teste pensanti». Come a dire che considerava morta e sepolta una intera storia e con essa gli stessi massoni che ne erano stati protagonisti, forse compreso un personaggio che egli disse sempre di ammirare molto: Giuseppe Garibaldi, il cui ritratto riempiva le prime sezioni del Partito Socialista con il suo Sol dell’Avvenire.

Mussolini pose la questione della incompatibilità proprio sul terreno della lotta di classe, specificando che l’umanitarismo massonico era in pieno contrasto con essa, proprio lui che diverrà uno dei più accesi nemici del concetto di lotta di classe, una volta generata la sua “creatura fascista”. La sua conclusione fu quindi che non si dovesse solo considerare l’incompatibilità, ma passare direttamente all’espulsione, per chi ammettesse di essere massone. Matteotti aderì alla tesi di Zibordi ma rifiutò di sostenere la tesi di Mussolini rilevando che ci si dovesse limitare ad una dichiarazione generica di incompatibilità, senza passare però a misure repressive di espulsione come esigeva Mussolini. Disse testualmente che era indegno che fosse chiesto “alle sezioni di prendere per la schiena i massoni e cacciarli fuori…Noi ritorneremo in questo modo alle liste di proscrizione”, e rivolgendosi a Mussolini non esitò a ricordargli che: “Dovunque tu andrai porterai rovina”.

Seguirono poi la dichiarazione di Bedeschi che riaffermava di essere massone e di volere agire secondo coscienza e quella di De Angelis, contrario a Zibordi, non tanto perché massone, ma perché convinto che il Partito Socialista dovesse riconoscere ai suoi iscritti la libertà di appartenere a qualsiasi associazione. Ci furono infine le votazioni e anche questa volta la maggioranza andò a coloro che avrebbero voluto disinteressarsi della questione, uscì seconda la posizione di Zibordi, aggravata da Mussolini che stabiliva l’incompatibilità e l’espulsione, di poco avanti a quella di Matteotti che ribadiva l’incompatibilità senza espulsione e infine quella di Poggi che ribadiva la compatibilità ma che risultò minoritaria.

Tutto questa storia è interessante soprattutto per capire come a tale ribaltamento di posizioni, corrispondesse quello politico, mentre infatti a prevalere, fino ad allora, nel Partito Socialista era stata la corrente riformista filomassonica, da allora in poi, seguita anche dal sindacato, fu la componente massimalista ad essere maggioritaria, proprio in nome non solo del ripudio della Massoneria, ma anche della piena accoglienza delle tesi sulla necessità della lotta di classe. La CGL allora molto contigua al Partito Socialista, nel suo Congresso celebrato a stretto giro rispetto a quello socialista, anche se adottò formalmente una tesi più morbida, nella buona sostanza ribadì i principi che erano già stati già espressi nell’assise socialista, mettendo in guardia gli operai che «non dall’opera di società segrete più o meno filosofiche e filantropiche [poteva]venirne vantaggio all’opera loro di emancipazione, ma solo dalla più forte e cosciente organizzazione loro di classe»

Come reagì a quel punto il Grande Oriente? Subito dopo il Congresso socialista venne diramata una circolare che specificava testualmente: “Dopo il voto del congresso di Ancona non vi può essere dubbio sulla condotta che debbono tenere i massoni iscritti al Partito socialista ufficiale. Se vi è qualcuno fra essi disposto a piegarsi al novissimo dogma del partito, esca senz’altro dalle nostre file. Dove noi vogliamo uomini di fede sicura, coscienze salde e dignitose, volontà libere e forti. Attendo da voi, non oltre i quindici giorni da oggi, l’assicurazione che il pensiero del governo dell’ordine è stato da tutti sentito.” In buona sostanza, si confermava il fatto che non poteva restare in Massoneria solo chi aveva votato la mozione rivolta all’espulsione dei massoni da quel partito, il minimo indispensabile per un po’ di credibilità e coerenza.

Giovanni Lerda che si era dimesso dal partito e Orazio Raimondo che era stato espulso, i quali avevano entrambi difeso a spada tratta la compatibilità e la doppia appartenenza vennero largamente applauditi nell’assemblea generale del GOI che si tenne nel 1914, anche se la situazione non portò per la maggior parte dei massoni socialisti ad esodi di massa dalle logge. Molti socialisti, anzi, protestarono in maniera ferma e decisa contro la posizione antimassonica del Congresso di Ancona, ci furono infatti lettere di protesta di massoni socialisti al segretario del PSI Lazzari, e persino una conferenza che si svolse nella Loggia Italia di Parigi il 15 giugno, da parte del socialista Pietro Mazzini, di ferma condanna di quell’operato liberticida.

Pochi mesi dopo, alla vigilia della guerra, nel luglio 1914, lo stesso Mussolini scriveva come direttore dell’Avanti che “Se non vuole cadere in rovina, l’Italia può adottare solamente un atteggiamento di assoluta neutralità”, dopo soli cinque giorni dall’inizio delle ostilità, Mussolini dichiarava in un manifesto che la guerra era utile soltanto ad aumentare il potere dell’esercito, dello Stato e delle dinastie al potere: tutte istituzioni da combattere. Arrivò addirittura a teorizzare una insurrezione contro la guerra, avvisando i suoi lettori che “Se l’Italia dovesse rompere la neutralità appoggiando gli imperi centrali, tutti i proletari italiani avrebbero il dovere di sollevarsi in rivolta”. Fu persino messo in galera insieme al suo compagno Pietro Nenni perché trovato a sabotare le rotaie dei treni destinati al fronte.

Se Mussolini cambiò nel giro di poco tempo repentinamente idea fu grazie ad un massone: Pietro Naldi, direttore del quotidiano Il Resto del Carlino di Bologna; c’è una testimonianza particolarmente eloquente proprio di un redattore dell’Avanti di allora, Eugenio Guarino che dice: “Pippo Naldi si presentò alla redazione milanese dell’Avanti e chiese di parlare in privato con Mussolini. Poco dopo Mussolini abbandonò il suo classico abbigliamento da persona di sinistra con cappello floscio nero, cravatta lisa e abito logoro, e cominciò a presentarsi con abiti di lusso all’ultima moda” La Massoneria era notoriamente interventista e, come è noto, lo divenne immediatamente anche Mussolini, che si dichiarò ben presto favorevole ad un accordo con l’Intesa e per un intervento dell’Italia in guerra.

Nuovi abiti, nuovo atteggiamento verso la Massoneria, nuovo giornale, perché egli fu evidentemente espulso dalla direzione dell’Avanti e dal Partito Socialista e fondò Il Popolo d’Italia. Mussolini diventava così il terminale di fiducia in Italia della Massoneria internazionale, quella che arrivava a Naldi tramite un altro grande massone come Antonio di San Giuliano e mediante la Massoneria francese la quale, anche passando per la Svizzera, cominciò a finanziarlo a getto continuo, insieme ad industriali italiani, fabbricanti di armi ed equipaggiamenti militari. Il più feroce avversario della Massoneria in Italia ne era diventato, in pochi mesi, il più fedele fiduciario.

La Massoneria che, in ogni caso sostenne ampiamente anche l’impresa fiumana e anche D’Annunzio, pure lui massone, puntavano alla realizzazione di una “democrazia del lavoro” che fosse al contempo anticattolica ed antibolscevica. Lo disse a chiare lettere il Gran maestro Torrigiani nel suo discorso di insediamento nel 1919 : “..noi dobbiamo promuovere in Italia il concetto di una Democrazia del lavoro. Integrare il riconoscimento dei diritti del lavoro con la devozione alla Patria, che è per noi gradino all’Umanità; tale sia il nostro dovere”. Questa divenne la base con cui Mussolini cercò poi anche con la CGL, negli anni successivi e durante la sua affermazione iniziale, una prospettiva di “laburismo” nazionale.

Quando finì la guerra Mussolini stava per emigrare in America, ma il 23 marzo del 1919 con un gruppo di Arditi, compagnia per altro fondata da un generale massone di palazzo Giustiniani, di nome Luigi Capello, in una sala convegni di piazza S. Sepolcro, messa a loro disposizione da un massone ebreo di nome Cesare Goldmann, con una assemblea formata al 70% da massoni, fondò i Fasci di Combattimento. Il programma rivoluzionario di tale movimento era palesemente in linea con le istanze che trovarono risalto a Fiume e di tendenza repubblicana; se lo leggiamo, nei suoi vari punti, poi variamente rinnegati una volta che Mussolini realizzò il suo regime con il sostegno della Monarchia e del Vaticano, esso si può assimilare pienamente alle dichiarazioni che lo stesso Torregiani fece poi nel suo discorso già menzionato nel giugno del 1919 e che proseguivano in tal modo: “Ma la borghesia italiana non deve e non dovrà porsi come nemica di contro al Popolo lavoratore: ella deve fondersi a lui e illuminare generosamente e saggiamente la impreparazione di lui alla gestione della cosa pubblica in una collaborazione che deve essere sincera e piena a qualunque costo. Deve essa avviare tutto il popolo lavoratore alla conquista dello Stato, che a lui spetta e che da lui sarebbe spezzato e travolto se s’intendesse di arrestare o frodare il corso della evoluzione sociale. Soltanto così si difende lo Stato e con lo Stato si difendono i più preziosi beni. Si difende lo Stato liberandolo dal predominio di quei ceti i quali hanno cercato di ridurlo ad uno strumento di protezione dei loro interessi particolari; si difende aprendolo al popolo lavoratore; si difende contrastandone la conquista ad ogni dittatura di classe, più fieramente ed in ogni modo a quella delle classi più impreparate (palese allusione alla dittatura bolscevica n.d.r.), come si difende affermandone nel pensiero e nell’azione il concetto ed i diritti contro l’antica pretesa sopraffattrice della Chiesa, che non disarma”

Allora la Massoneria era divisa in due grandi istituzioni, quella di Piazza del Gesù, più filocattolica e di rito scozzese, e quella di Palazzo Giustiniani, liberale e anticlericale, legata alla Massoneria rivoluzionaria francese ed americana. Mussolini non si fece scrupolo di utilizzarle entrambe per raggiungere il potere.

Si può dire che tra le due la Massoneria Giustinianea aveva adottato seriamente prospettive rivoluzionarie che animarono l’impresa fiumana, la quale non si saldò con il movimento operaio di occupazione delle fabbriche in un esito insurrezionale solo perché il Consiglio nazionale della CGL bocciò nettamente la soluzione rivoluzionaria. Ma che la Massoneria considerasse la nascita dei Fasci di Combattimento come un serio programma per attuare una rivoluzione repubblicana in Italia è fatto acclarato. In special modo dalle dichiarazioni del generale Capello, in un suo articolo pubblicato sulla “Patria” di Roma dove l’alto dignitario massonico, rivolgendosi ai Fasci scrive: “I Fasci di Combattimento non ebbero affatto in origine carattere conservatore e meno ancora reazionario. Furono fondati nel marzo del 1919 per raccogliere le forze superstiti che fecero il movimento interventista rivoluzionario del maggio 1915, allo scopo di opporre un argine alla tracotanza del neutralismo socialista, imbaldanzito dalla timidezza del governo e dalla passività della borghesia che credeva di conservare più agevolmente i profitti realizzati durante la guerra concedendo largamente sugli allora larghissimi margini di lucro delle industrie; ed allo scopo pure di offrire al popolo lavoratore un programma di oneste rivendicazioni economiche, sulla base nazionale, valorizzando la vittoria, invece di demolirla. Il programma politico-sociale dei Fasci fu inizialmente audace: affermava la necessità della Repubblica e prospettava profonde trasformazioni nel campo della proprietà, giungendo perfino a riconoscere la necessità della espropriazione parziale.”

Questa è una ulteriore prova che il movimento fascista nacque e fu ispirato da istanze massoniche, le quali non avevano alcuna velleità reazionaria, ma teorizzavano altresì uno sbocco rivoluzionario di tipo sindacalista e nazionale. Lo conferma lo stesso Capello, dicendo che “Con tutto questo sarebbe un grosso sbaglio interpretare il movimento fascista, pur qual è oggi, come un movimento di “reazione bianca”, fatta nell’interesse del capitalismo. […] Intimamente il Fascismo è una forza rivoluzionaria, forse la sola forza veramente ed attivamente rivoluzionaria che vi sia in Italia – appunto perché combatte la forma “utopistica” della rivoluzione rappresentata dal così detto bolscevismo, per far strada alla forma realistica della rivoluzione che si va concentrando in una sorta di sindacalismo nazionale, non ancora esattamente precisato nei suoi lineamenti, ma già animato da un poderoso soffio di vita”

Fu quindi la Massoneria a far risaltare Mussolini e a spingerlo verso una prospettiva rivoluzionaria, dando ispirazione ed impulso ai suoi Fasci di Combattimento, in una dinamica che va inquadrata nel netto dissidio tra repubblicani contrapposti ai socialisti, sia a quelli che avevano adottato i programmi bolscevichi definiti “utopistici” sia a quelli di orientamento “riformista” ritenuti “neutralisti e passivi”. Era una dialettica che aveva antiche origini, in particolare nella stessa terra di Mussolini: la Romagna. L’obiettivo della Massoneria, come già rilevato, era quello di servirsi di Mussolini per realizzare un programma di attuazione di una “democrazia del lavoro” che avrebbe dovuto tagliare fuori da ogni combinazione di potere gli estremi antimassonici del bolscevismo e dell’Associazione Nazionalistica.

Ma Mussolini era un giocatore d’azzardo abituato a giocare e a puntare su più tavoli, per ottenerne il massimo del vantaggio personale. Da una parte si mostrava pronto a realizzare il programma massonico, dall’altra cercava la “pacificazione” con gli ex compagni socialisti, e infine da un’altra ancora sondava il terreno con il Vaticano per usare anche la Chiesa come strumento di propaganda per i suoi fini.

Egli restò di conseguenza il fiduciario della Massoneria soprattutto durante il biennio rosso, come migliore argine al dilagare del bolscevismo, fino ad essere aiutato da massoni, durante Marcia su Roma, ad avere le porte spalancate dal Re. Fu un grande errore massonico, perché Mussolini non esiterà, dopo essersi impadronito del potere, a fare la sua ennesima giravolta preferendo alla Massoneria gli accordi con il Vaticano e finendo per liquidarla del tutto, mettendola fuori legge, devastando le sue Logge e perseguitando i suoi membri. Contro la Massoneria, dal suo punto di vista, giocarono due fattori essenziali: il primo rappresentato dal fatto che Mussolini era “geloso” di quella che egli considerava una sua creatura politica, di cui intendeva essere il capo assoluto e il secondo un certo disgusto per un anticlericalismo di stampo risorgimentale, da lui ritenuto troppo grossolano e logoro, e in definitiva controproducente per l’obiettivo della conquista e del mantenimento del potere in un paese con masse ancora largamente cattoliche.

Ad onor del vero, se il Gran Maestro Torrigiani si illuse sulla possibilità che Mussolini non andasse verso la dittatura e fu quindi disposto ad aiutarlo e ad incontrarlo, in una misura che potremmo definire “attendista”, non pochi furono i “fratelli” che contestarono questa scelta, il Gran Maestro aggiunto di palazzo Giustiniani, Guido Francocci scrisse in un suo libro “La Massoneria”: “Tale atteggiamento verso il fascismo staccò non pochi spiritualmente dal Gran Maestro. Pareva allora impossibile che egli non comprendesse come una situazione politica, di cui era centro e fulcro un solo uomo – e l’uomo che già aveva dichiarato guerra aperta all’Ordine Massonico quando aveva fatto proclamare l’incompatibilità ideologica e pratica tra Socialismo e Massoneria – rappresentava un pericolo imminente e immanente contro le democratiche libertà. Purtroppo i massoni intransigenti furono facilissimi profeti, e il Gran Maestro dovette subito accorgersi quanto le sue previsioni fossero state fallaci. Un colloquio segreto tenutosi a Roma tra lui e Mussolini, a brevissima distanza dalla “Marcia su Roma”, non poteva che profondamente deluderlo: accettare il fascismo equivaleva a consentire l’esperimento dittatoriale, asservire cioè l’Italia al tiranno, sopprimere le libertà, rinnegare il Risorgimento italiano, far ludibrio dei principi fondamentali, unica ragion d’essere della Libera Muratoria…”

I massoni che puntarono su di lui, in effetti, avrebbero dovuto ricordare bene le sue posizioni nel Congresso socialista di Ancona del 1914.

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TOTO’, MASSONE DAL 1° MAGGIO 1925

TOTO’, MASSONE DAL 1° MAGGIO 1925

Totò, massone dal 1° maggio 1925

Certo la “notizia” non mette sottosopra l’universo, però è significativa e merita spazio. Il 1° maggio 1925 Antonio De Curtis, in arte Totò (Napoli, 15 febbraio 1898-Roma, 15 aprile 1967), solennizzò a modo suo la festa del lavoro: cinse il grembiule di muratore, anzi di libero muratore, e venne registrato massone nella loggia “Nazionale” di Roma, all’obbedienza diretta di Raoul Vittorio Palermi (1864-1948), sovrano e stratega della Gran Loggia d’Italia. Si sapeva da anni del suo ingresso nella “Fulgor” di Napoli nel 1945. La novità sulla sua iniziazione di vent’anni prima è emersa nell’affollato convegno su “L’impresa di Fiume, 1919 1920. Tra leggenda e realtà”, organizzato dalla Delegazione Magistrale friulana della Gran Loggia d’Italia al castello di Villalta (Udine), con la partecipazione del sovrano e gran maestro Antonio Binni e degli storici Enrico Folisi, Lijubinka Toseva Karpowicz e Valerio Perna, presenti “fratelli” di diverse Comunità e molti “profani”. Durante il “Ventennio” Totò conservò sotto la bombetta quel segreto che aiuta a comprenderne meglio la tetragona libertà di pensiero e la distanza siderale dal “regime”. Ma, poiché si parla di un Ordine iniziatico, andiamo per ordine…

Primavera di bellezza?

Roma, primavera 1925. Il 3 gennaio da Capo del governo, Benito Mussolini, Collare della Santissima Annunziata (e quindi “cugino del Re”), con un infuocato discorso alla Camera respinge l’accusa di complicità nel “delitto Matteotti” e sfida il Parlamento a denunciarlo e a tradurlo in giudizio dinnanzi al Senato, costituito in Alta Corte di Giustizia in forza dell’art. 36 della Carta Albertina “per giudicare dei crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato, i ministri accusati dalla Camera dei Deputati”. Nessuno fiata. La maggior parte dei deputati d’opposizione (socialisti, repubblicani, seguaci di Giovanni Amendola e ala sinistra del cattolico partito popolare italiano) dall’estate precedente non partecipano alle sedute, arroccati in un immaginario “Aventino”. Re rigorosamente costituzionale, Vittorio Emanuele III (1869-1947, sul trono dal 1900) a chi gli chiede di revocare Mussolini risponde che i due rami del Parlamento sono i suoi occhi e le sue orecchie. Chi ne vuole la caduta deve farlo alla Camera, ove i deputati iscritti al Partito nazionale fascista sono ancora una minoranza (227 su 545).

Ma tra diserzioni e accelerazioni, il Paese sta rapidamente precipitando dalla democrazia parlamentare, fondata sui collegi uninominali a doppio turno, al governo di partito unico. La svolta ha una premessa strategica: dal 1914-1915 due forze si contendono la primogenitura del Risorgimento e della completa unificazione con la vittoria nella Grande Guerra. Da una parte i nazionalisti (nati intorno al 1908, nel clima rovente dell’annessione di Bosnia ed Erzegovina da parte di Vienna), irrobustiti dalla confluenza nel Partito Nazionale Fascista (febbraio 1923), gonfio di voti ma ancor privo di un progetto politico univoco. Dall’altra la massoneria che non a torto vanta un secolo di lotte per unità, indipendenza e libertà, dalle cospirazioni nel 1820-1848 sino ai governi che in Italia avevano introdotto elettività delle cariche, istruzione obbligatoria e codici d’avanguardia.

Tira vento di tempesta. Il 12 gennaio Mussolini deposita alla Camera la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. Il 14 “L’Idea Nazionale”, organo dei nazionalisti, pubblica un estratto della relazione della “Commissione dei Quindici” distillata dai deputati Gioacchino Volpe e Francesco Ercole. L’obiettivo è esplicito: “Qualsiasi specie di società occulta, anche se per ipotesi il suo fine sia eticamente e giuridicamente lecito, è da ritenersi, pel fatto stesso della segretezza, incompatibile con la sovranità dello Stato e la uguale libertà dei cittadini di fronte alla legge”. Di lì a poco lo slogan sarà: tutto nello Stato, nulla al di fuori dello Stato. Poi diverrà: tutto nel partito, niente al di fuori né contro il partito, cioè l’unico consentito: il Partito nazionale fascista. Il Partito imporrà il colore della camicia, l’ingresso nel lavoro (tramite i sindacati fascistizzati) e intrupperà milioni di italiani nel Dopolavoro per controllare corpo e anime dei cittadini. Una nuova “chiesa”, non meno opprimente dell’altra, con la quale l’11 febbraio 1929 il regime “concorderà”, salvo poi scontrarsi come fatalmente accade tra dogmatismi.

In quel maggio 1925 le due principali Comunità massoniche italiane (Grande Oriente d’Italia, con sede a Palazzo Giustiniani, oggi popolato di uffici del Senato; e Gran Loggia, a Piazza del Gesù 47, nel sontuoso Palazzo Artieri) ormai navigano a vista. Il dibattito sulla legge viene calendarizzato alla Camera dal 16 maggio. Si chiuderà il 19 con approvazione pressoché unanime e alcune significative assenze non giustificate, a cominciare da Italo Balbo, “quadrumviro” della mai avvenuta “marcia su Roma” ma antico “oratore” della loggia Girolamo Savonarola della sua Ferrara e già astenutosi nella dichiarazione del Gran Consiglio del Fascismo che il 23 febbraio 1923 aveva dichiarato l’incompatibilità tra fasci e logge.

L’iniziazione massonica di un “uomo di mondo”

Malgrado tutto, mentre la massoneria è sotto assedio e le libertà individuali stanno per essere soffocate, qualcuno nuota impavido controcorrente. È il caso di Totò. È un uomo sofferente. Mentre il Tempio sta per crollare decide di passare tra le sue colonne e di sedere in silenzio fra gli apprendisti, proprio lui, parlatore forbito, mago della parola, principe dello scilinguagnolo. È tempo di guardare all’Oriente prima che la Luce venga spenta a Occidente. Il marchese De Curtis non è affatto uno sprovveduto. Sa benissimo di compiere un passo rischioso. Conta sulla riservatezza della Fratellanza. Offre la sua “testimonianza” a quel che resta dell’Italia nella quale si riconosce: quella degli uomini liberi. L’attore vive una tra le stagioni più angustiate della sua travagliata esistenza terrena. Ha ventisette anni. La madre, Anna Clemente, lo voleva prete. Lo aveva avuto dal marchese Giuseppe De Curtis, frutto di una relazione extraconiugale, e lo aveva fatto registrare all’anagrafe come Antonio Clemente “di N.N.”. Chierichetto di passo come tanti coetanei, più malinconico che giocoso, lasciata alle spalle infanzia e adolescenza tristissime, Totò fece i conti col servizio militare tra Pisa, Pescia, Alessandria e Livorno. A Cuneo non mise mai piede, ma coniò il celebre motto “Sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a Cuneo”… cioè “in capo al mondo”, in un angolo sperduto, “ai confini dell’Impero”. Si compiacque anche di dire che vi era stato seminarista. Cuneo era un “tòpos”. Anche se aveva dato e continuava a dare i natali a politici, scienziati, storici, scrittori e militari di primaria grandezza (bastino i nomi di Vittorio Bersezio, Giovanni Giolitti, Marcello Soleri, Vittorio Cian, Ettore Pais, Balbino Giuliano, Pietro Gazzera…) era dipinta come “Beozia d’Italia”. Proprio perché non lo è e sa sorridere di sé e delle leggende che la circondano, su impulso di Gianni Vercellotti, avvocato e profeta del turismo in plaghe povere di vere autostrade, ferrovie, strade, aree attrezzate ma ricche di umanità, la “Provincia Granda” è stata al gioco e da molti anni ha costituito l’Associazione “Uomini di Mondo a Cuneo”, brevius “UdM di Cuneo”. Ora presieduta dall’esilarante vignettista Danilo Paparelli, con tanto di Totò quale emblema, viatico e “angelo protettore”, l’UdM ha appena celebrato l’ennesima edizione dedicata a D’Artagnan, il più celebre dei Quattro Moschettieri di Alexandre Dumas, che si ispirò al conte Charles di Batz-Castelmore, fuggevolmente ma effettivamente militare a Cuneo. “Uomo di mondo”, dunque. Già. Ma come era il mondo conosciuto e vissuto da Totò, uomo e non “caporale”, sino al fatidico 1° maggio 1925? Una sequenza di umiliazioni e di speranze, di sogni e di delusioni. Navigazione tra i flutti della vita con la barra a dritta ma con l’occhio alla sua Stella Polare: la libertà di pensiero (e anche un po’ di costumi). Sin da ragazzo voleva divertirsi e far divertire, procurarsi piacere e dispensarne. Intraprese la carriera di attore nella sua città, che presto però gli divenne stretta. Tardivamente riconosciuto dal padre e passato a Roma in cerca di miglior fortuna, si esibì in una “compagnia” di second’ordine, senza fisso compenso. Spiantato, spesso alla “fame nera” (come egli stesso narrò), fu licenziato in tronco quando osò chiedere all’impresario, Umberto Capece, almeno gli spiccioli per il tram da casa al teatro. Gli si spalancò dinnanzi l’abisso dell’isolamento. Optò per il varietà, di gran lunga più congeniale con le due anime che convivevano nella sua persona, il sorriso scherzoso (ma quanta malinconia nei suoi occhi) e lo sconforto più cupo. Totò divenne “la Maschera”. Incarnò gli italiani che uscivano feriti dalla Grande Guerra e si inabissavano in un regime liberticida che li avrebbe precipitati in un secondo irreparabile disastro.

La Gran Loggia dal tramonto…

Il suo nome fu iscritto nel repertorio degli “apprendisti” della Gran Loggia, annotati con la grafia tipica degli scritturali del tempo: uno svolazzante corsivo pulito pulito con cognome, nome, data e loggia di appartenenza. Gli iniziati/affiliati della Gran Loggia avevano superato largamente quota 28.000. Altri ne vennero segnati lo stesso 1° maggio. Il 19 accanto a un numero matricolare in uno spazio bianco compare la formula arcana: “Segreto”. Era il giorno dell’approvazione della nefasta legge “contro la massoneria”. Gli ingressi continuarono sino al 17 novembre 1925, cioè alla vigilia del forzato autoscioglimento decretato da Raoul Palermi mentre era in viaggio negli Stati Uniti d’America per ottenere la solidarietà dei Supremi Consigli di rito scozzese antico e accettato di cui la Gran Loggia faceva parte dal Convento mondiale di Washington (dal 1912): riconoscimento solennemente confermato a Losanna nel 1922. In Italia le logge erano perseguitate, invase, incendiate. I loro arredi e archivi venivano dispersi (anche per iniziativa di transfughi decisi a cancellare le tracce della loro affiliazione), ma all’estero l’Acacia continuava a fiorire. Il regime stesso non poté fare a meno di confrontarsi con massoni di spessore culturale e patriottismo indiscutibile: da Vittorio Valletta, Ugo Cavallero, futuro maresciallo d’Italia, Luigi Mascherpa, ammiraglio, Edmondo Rossoni (capo dei sindacati fascisti), Curzio Malaparte (tutti della Gran Loggia), Giuseppe Belluzzo, Balbino Giuliano e Alberto Beneduce (del Grande Oriente).

… alla Palingenesi e al Fulgore

Chi sapeva sapeva. Il massonismo non andava sbandierato ma vissuto. Fu quanto fece Totò. Alternò la rivendicazione del titolo nobiliare (Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito, Duca Comneno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, Dardania, Tessaglia, Ponto, Moldava, Illiria, Peloponneso, duca di Cipro e di Epiro..: d’altronde anche il Re d’Italia si rivendicava Re di Cipro e Gerusalemme, al pari di tanti altri sovrani in Europa) alle tournées dai successi crescenti e all’esercizio della beneficenza, praticata con discrezione e senza mai chieder conto del frutto della sua proverbiale generosità, proprio perché aveva conosciuto la miseria, la fame, il freddo, l’amore senza speranza, il dolore (anche negli affetti più cari), la prepotenza esosa degli impresari, l’arroganza dei “potenti” antichi e nuovi.

Di quest’ultima ebbe un saggio nel gennaio 1945 durante una tournée in Toscana in cui presentava “Imputati, alziamoci”, un sorridente invito a un “esame di coscienza” da parte di quanti stavano rapidamente cambiando il colore della camicia, dal nero al rosso fiammante. Come in “Totò massone. Il principe Antonio De Curtis e la massoneria del suo tempo” (ed, Atanor) narra Ruggiero di Castiglione (autore di dottissimi saggi e repertori) gli si presentò nel camerino un energumeno che gli domandò a bruciapelo: “Veramente per lei camerata e compagno è la stessa cosa?” e alla risposta “Mah, non so” gli sferrò in faccia un pugno partigiano che gli spaccò le labbra”. “Spaventatissimo” per il clima di odio dilagante Totò riparò a Roma e poi a Capri.

“Resurrexit… sino al grado 33°”

Il 9 aprile seguente il “Marchese De Curtis Gagliardi Antonio” sottoscrisse il Testamento massonico nel “gabinetto di riflessione” della loggia “Fulgor” di Napoli (Gran loggia d’Italia) per l’accettazione tra i Fratelli. Alla domanda: “Che cosa dovete a voi stesso” rispose “Niente all’infuori del miglioramento spirituale”. Chi ritiene che il “re della risata” si esaurisse nell’esibizione nei teatri di tutta Italia, in un centinaio di films, spesso a costi irrilevanti, e in un profluvio di presenze televisive, non ne coglie la profondità umana, fatta di riservatezza, riflessione, tormenti appena leniti dalla compagna, Franca Faldini e dalla figlia, Liliana, che gli furono a fianco negli anni difficili dell’incipiente vecchiezza e delal cecità. Proprio alla compagna una volta accennò quasi distrattamente ai segni di riconoscimento in uso tra massoni.

Secondo Giordano Gamberini, gran maestro del GOI e collettore di memorie e confidenze di massoni di antica data e di varie Obbedienze (come Dunstano Cancellieri), nel 1944 Totò fu iniziato (o più correttamente si ridestò dal forzato “sonno”) nella loggia “Palingenesi” di Napoli per transitare poi nella citata “Fulgor”, che aveva sede in via Monte di Dio, sulla quale si affaccia Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta e ora da suo figlio, Massimiliano. Lì Totò presenziò all’iniziazione di Mario Castellani e Vittorio Caprioli. Come documentano le carte che da Piazza del Gesù migrarono al Grande Oriente con Francesco Bellantonio quando gran maestro era Lino Salvini, Totò fondò poi una loggia in Roma, la “Fulgor Artis” mentre poche e vaghe voci rimangono sulla “Ars et Labor” , forse sua reincarnazione.

Gli impegni “professionali” e qualche delusione per i poco fraterni dissensi tra la diverse Comunità liberomuratòrie e per le gare tra i diversi aspiranti a cariche apicali (quant’è difficile deporre i metalli al di fuori dei Templi) coincisero con il suo definitivo assonnamento. Aveva raggiunto il grado 30° del Rito scozzese. Il 19 ottobre 2012 la Gran Loggia gli conferì il grado 33° “alla memoria”, presente sua figlia, Liliana.

“’A Livella”

Il suo più autentico testamento massonico rimane la celebre raccolta di poesie intitolata “’A livella” (1964). Totò scelse per insegna l’attrezzo del lavoro di loggia. Sormontata dal compasso, la livella, simbolo di equilibrio, armonia e uguaglianza, forma un triangolo equilatero attraversato longitudinalmente dall’archipendolo, che coniuga il piano “terraqueo” con lo Spirito. Nel film “Letto a tre piazze” (1960) Totò si rivolse a Peppino De Filippo: durante un’immaginaria quanto allusiva “scalata” gli disse: “professò’ , la lego ad un masso…, n’ho trovato uno magnifico, questo resiste, è un bel massone, un massone”. Con una delle sue ultime partecipazioni filmiche in “Uccellacci, uccellini” di Pier Paolo Pasolini (1966), stupì tutti per la sua drammatica forza interpretativa, che gli meritò anche una menzione speciale e un nastro d’argento al Festival di Cannes. Precocemente invecchiato ma indomito, generoso con tutti (consigliò a Pasquale Zagaria di mutare il nome d’arte da Lino Zaga in Lino Banfi…), non dimenticò l’amarezza per la sua esclusione dalla televisione per aver entusiasticamente esclamato “Viva Lauro” durante una puntata del Musichiere di Gigi Riva (1958). Non era una ingenua captatio di voti pro-monarchia ma un omaggio a Napoli che, disse una volta, è l’unica vera grande città d’Italia. Roma ne è solo una “periferia”.

Si avviò alla fine senza rimpianti ma col timore di essere presto dimenticato. Invece il pubblico gli si affezionò ancor più. Capì la sua libertà di spirito. L’Italia ne aveva e ne ha bisogno. A nessuno verrebbe in mente di ignorarlo per la sua scelta del 1° maggio 1925, ribadita vent’anni dopo, il 9 aprile 1945. D’altronde nella sua originaria “Fulgor”, nella “Fulgor Artis” o nell’officina intitolata al celebre Gustavo Modena o in altre ancora delle due diverse liberomuratorie italiane si raccolsero nel tempo attori, cantanti, scrittori quali Gino Cervi, Carlo Dapporto, Aldo Fabrizi, Giovacchino Forzano, Silvio Gigli, Francesco Gorni Kramer, Amedeo Nazari, Tito Schipa, Odardo Spadaro, Paolo Stoppa, Johnny Dorelli e il Claudio Pica, noto come Claudio Villa, membro della “Propaganda massonica” n. 2, come il grande e sfortunato Alighiero Noschese: un patrimonio morale del Paese Italia. Allora, proprio l’Associazione cuneese Uomini di Mondo potrebbe forse promuovere una rivisitazione di quell’Universo in omaggio al principe Antonio De Curtis, il Totò del quale ben si può dire “semel abbas, semper abbas”.

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ERMENEUTICA E TRASCENDENZA IN MASSONERIA

ERMENEUTICA E TRASCENDENZA IN MASSONERIA

Francesco Angioni

Il pensiero teleologico massonico e la sua tensione ontologica alla Verità

Inizio chiarendo il significato della parola “ermeneutica”. Questa è la metodologia della interpretazione, del chiarire, dello spiegare. Nasce in ambito religioso per definire la corretta interpretazione dei testi sacri e poi, nell’età del Rinascimento italiano, si amplia all’analisi dei testi tout court, in qualsiasi ambito. Dicendo corretta interpretazione dei testi sacri, evidentemente mi riferisco a due modalità interpretative: la prima è l’interpretazione linguistica atta a riconoscere la validità d’origine di un testo, dunque l’esatta attribuzione a un autore o a una corrente di pensiero e di cultura. L’altra modalità, specifica per i testi sacri, è l’interpretazione fideistica o, in senso più generale, spiritualistico-religiosa (interna alla teologia) del contenuto del testo.

Non è questa sommaria distinzione da confondere con quella tra forma e sostanza;

infatti, l’interpretazione del testo in quanto tale, nella sua forma linguistica, non è rivolta alla pura espressione formale, essa al contrario si volge alla forma per riconoscerne la sostanza nascosta nella forma. Ad esempio, se un termine ha un certo significato in un ambito ben definito, quel termine ci svela, essendo stato usato in quella frazione di testo, non solo che appartiene ad un determinato periodo storico e a un preciso ambito culturale, ma anche svela il vero significato dell’intero frammento di testo. In italiano, ad esempio, usiamo il termine Illuminismo per una specifica corrente di pensiero dai forti connotati culturali e civili, mentre il termine tedesco Aufklarung, che potrebbe essere tradotto sempre con Illuminismo, all’analisi ermeneutica svela un diverso significato che, purgato di connotati ideologico- politici, ha valenze più letterarie e culturali; quindi più opportunamente è da tradurre con “rischiaramento“. Il primo ci dice che illumina le genti verso un cambiamento sociale, il secondo che rischiara le menti verso la comprensione della realtà. Allora è ben evidente che con l’ermeneutica si parte dalla forma, come figliastra, per giungere alla sostanza, come genitrice indiretta.

L’altro livello o dimensione dell’interpretazione ricerca i sensi nascosti che determinano una fede, in altri termini, si interpreta dando dei significati d’ordine spirituale che non necessariamente collidono con il significato semantico della parola stessa o della frazione di testo in cui essa è contenuta.

La prima modalità appartiene più all’ambito della filosofia mentre la seconda a quello dell’esegesi.

C’è una concezione che in un certo periodo si è andata affermando riguardo alla filosofia come scienza dal rigore ineccepibile, ovvero della filosofia come modalità del pensare umano in grado di rappresentare la realtà.

Ai Massoni queste concezioni lasciano alquanto distratti e disattenti. Infatti, non sono queste le condizioni che possono essere definite come necessarie per il percorso massonico d’elevazione umana e spirituale. Tutto ciò che tenta di porre un termine allo sviluppo del pensiero e dell’elevazione spirituale umana appare autolimitante, sembrano un colpo di freno allo sviluppo della Gnosi umana. Per questo le ideologie al Massone non possono che apparire una castrazione del pensiero, dell’evoluzione progressiva del pensare e del sentire dell’Uomo.

Un Massone dovrebbe partecipare alla nostra società universale, per superare le limitazioni del pensare, per dare spazi e dimensioni altri da quelli che il mondo profano riesce ad elaborare e che poi traumaticamente è costretto periodicamente a negare e reinventare. Lo scopo della Massoneria è quello di fornire uno sviluppo senza traumi, senza una presunzione gnoseologica che dall’ontologia profana verrebbe limitata. Ciò implica il

riconoscimento che la Verità è un concetto trascendente e non immanente, ma su questo ritornerò.

Il pensiero umano, pensiero simbolico, filosofico, teologico e scientifico, con Tommaso, Galilei, Descart, Kant e altri sommi, si è posto l’obiettivo di essere garante della rappresentazione fedele della realtà e, sicuramente, sugli aspetti fenomenici ne ha svolto il compito con esemplare maestria. Tale visione pone quindi il pensiero filosofico come specchio in cui la realtà, la Natura si rispecchia o almeno, come Kant meditava, ne riconosce le strutture di base.

Oggi, l’idea che questo indirizzo sia definibile come metafisico, e su ciò non si può essere che d’accordo ignorando il senso negativo che tanti filosofi odierni tendono a dare del termine metafisica, ci deve indurre a riscoprire i sensi nascosti del pensiero metafisico, in termini moderni e con analisi ermeneutica, anche se in questo scritto preferisco usare il termine trascendente.

Quando Heidegger riduce il pensiero metafisico alla contemplazione della verità oggettiva o tutt’al più all’osservarla, e quindi a riscoprirne le norme che nella realtà sono insite, egli rifiuta la realtà come insieme sistemico di cui l’uomo è elemento partecipativo e lo estranea dalla realtà, più precisamente dalla Natura, configurando quella scissione che già la religione positiva aveva posto, estendendo tale scissione a tutto l’essere cosmico, uomo, natura e aspetti sovradimensionali dello stesso e della stessa natura.

Il Massone, superato l’apprendistato, come Compagno incomincia a sviluppare un’osservazione ermeneutica della Natura nei termini della scoperta dei suoi significati misterici, quelli nascosti nell’intimo della Natura, quelli che non vengono svelati neppure dall’individuazione delle leggi fenomeniche che controllano gli accadimenti, sempre fenomenici, della stessa Natura. La Natura, in una visuale esoterica, è da scoprire non nei suoi accadimenti appariscenti, epifenomenici, che di ciò la scienza con i suoi attuali sofisticatissimi metodi e strumenti è in grado di fare meglio, ma con una visione altra, nella sua sostanzialità metastorica e metafisica. Il pensiero materialistico, positivistico, scientista ci descrive la Natura nel suo apparire, nei suoi aspetti discorsivi, ma nulla può dire sulla sua sostanzialità, su ciò che il senso del sacro e della spiritualità umana possono dire ed intuire. Anche se c’è da ammettere che questo pensiero non si pone altro scopo che osservare, descrivere e spiegare ciò che accade nella Natura lasciando ad altri di enucleare i perché degli accadimenti.

La Massoneria, proprio perché non è metodo gnoseologico, si oppone alla ipostatizzazione di una via prestabilita; essa non è “la via” e neppure “una via” essa supera il concetto di via, quindi di metodo e di metodologia, e si pone come “tensione” ontologica alla Verità“. L’epistemologia filosofica ci ha insegnato che ogni legge scientifica è tale nella misura in cui può dimostrare la sua fallacia e quindi superare se stessa con un modello interpretativo maggiormente esplicativo. Ciò che non è dimostrabile come errato, parziale, limitato al contingente storico non è scienza ma è fede, è cristallizzazione del sapere e della conoscenza scambiata come Verità.

La concezione della Massoneria come “metodo di vita“, in particolare in una certa corrente del pensiero massonico italiano, vorrebbe dire come affermano certi alti esponenti di Gran Loggia che «La Massoneria non esprime, invero, una particolare filosofia o ideologia, ma un metodo di convivenza tra tutte le filosofie e le ideologie possibili». Un’idea che sorvola sulla rappresentazione della Massoneria come associazione iniziatica e separata dal mondo profano ed anche “laicamente” sincretica, di modo che in essa potrebbe confluire qualunque pensiero umano senza discriminazione. È evidentemente una concessione all’uso indiscriminato di pensieri esoterici, religiosi, filosofici e anche ideologici di ogni epoca e cultura senza che essi passino nel filtro di una ermeneutica massonica. apparentemente alternativo è l’idea della Massoneria come “ortoprassi”. Questo è un concetto ripreso dal pensiero teologico volendo superare la distinzione tra dottrina e morale;

la prima implica il pericolo del dogmatismo, la seconda dà priorità al retto comportamento sotto la supremazia del bene universale. L’ortoprassi, corretto modo di agire, limita tanto il pensiero che l’azione massonica ad un “essere per fare” (comportarsi) e necessariamente rischia di confluire nella corrente di pensiero del pragmatismo anglosassone. È sostanzialmente una visione immanentista, di cifra comportamentale, che mette in secondo piano ogni espressione spirituale umana. A ben vedere ambedue le visioni soffrono della stessa unidimensionalità che Marcuse, tanti anni fa, denunciava nell’immagine dell’uomo unidimensionale.

Ambedue le elaborazioni evidenziano, la prima più della seconda, la carente elaborazione del pensiero massonico, l’adeguamento a logiche del passato, a filosofie del pensiero che la stessa filosofia oggi ha superato.

L’idea del “metodo” massonico, di matrice cartesiana, da una parte non prende posizione su una elaborazione squisitamente massonica degli esoterismi, filosofie e ideologie, dall’altra parte vorrebbe opporsi all’idea pragmatica, comportamentale, del fare massonico, però contraddicendosi quando s’immerge nel vissuto collettivo profano adottando filosofie, indirizzi culturali e ideologie sociali. In definitiva questa massoneria metodologica si rende più pragmatica di un’ortoprassi che almeno cerca di definire una morale massonica.

Il pragmatismo anglosassone, con i suoi epigoni l’inglese John Dewey e l’austriaco Ludwig Wittgenstein, mira a considerare l’uomo non come osservatore ed esploratore della sostanzialità della realtà, ma come produttore e imprenditore di conoscenza che trasforma la realtà. Non c’è bisogno di grandi meditazioni filosofiche per capire ciò, è evidente che, fin dai suoi  primordi, l’umanità si è posta pragmaticamente in  questi termini,  ma non solo.   È questo “non solo” che rende carente e svela la soffocante autosufficienza del pensiero pragmatico, il suo porsi in un vicolo cieco al quale, giunti alla fine, si osserva impotenti la nebbiosa imperscrutabilità della fine del cammino. Se la realtà è da considerare solo nella sua accezione di causa produttiva, che trasforma la realtà, che ne è del pensiero non produttivo quello che la realtà non vuol trasformare ma coglierne le sue intime essenze? Però, è questo cogliere le essenze che infastidisce il pragmatico, perché le essenze non sono di per sé produttive, non modificano la realtà ma la definiscono in un’altra dimensione che esce dal controllo dell’Uomo. Il pragmatico, dicendo che osservare la realtà vuol dire osservare per trasformare, non dice nulla di errato, così come non si erra dicendo di considerare la Massoneria come ortoprassi, cioè dicendo di osservare la realtà per definire un corretto comportamento, oppure considerandosi come sincretismo a tutto spazio. Queste due sono visioni parziali e unidimensionali. Manca l’altra parte, quella fondante, quella del discorso che è dell’osservare per scoprire le norme regolative dell’essere umano nella sua dimensione spirituale. In termini semplici, metodologismo pragmatico ed ortoprassi sono due modalità del pensiero amorale, che nega ogni dimensione spirituale all’Uomo e alla Natura.

Scindere le conseguenze morali1 dall’agire comporta necessariamente i guasti di un produrre concettualistico giunto alla sua autogiustificazione, così come un comportamento corretto senza definire i principi morali a cui riferirsi è affermazione general-generica che non distingue la Massoneria da una qualunque altra forma di approccio spirituale; anzi, questo ne è escluso per la riduzione ai soli comportamenti senza considerare l’essenza del sussistere umano.

L’essere umano quando incominciò a mescolare due diversi metalli per produrne un terzo, ad esempio il bronzo, non si spiegava la modificazione in terza molecola di altre due mescolate tra loro, non ne aveva le conoscenze scientifiche. E su questa parziale conoscenza però sviluppò un sistema di rituali, di miti, di elaborazioni trascendentali che per lui davano un senso alla Natura nel suo insieme, ponendosi sul piano della sapienza, anche nel verso di farlo sentire componente vitale della Natura. Poi, viene lo scienziato, che spiega

la fusione molecolare dei metalli e ignora il pensiero sul trascendente. Ora sappiamo del potenziale conoscitivo della materia, ma abbiamo perduto tutto del potenziale sapienziale della Natura, del Cosmo, del Creato, comunque lo si metta.

Le religioni vorrebbero superare questa frattura e dare una spiegazione in termini fideisti e finalisti del creato, ma così facendo, riportando tutto ad un ente creatore. non spiegano l’essenza della Natura; dicono chi la guida e la giustifica, ma senza rispondere alle domande: come e perché? Infatti, quel come e perché è nella mente divina, imperscrutabile all’uomo. Oggi alcuni avventurosi teologi sono disposti a credere che il Creato sia un Atto divino e che le leggi della Natura siano effetti e non conseguenze dell’Atto divino, per cui queste leggi non sono direttamente controllate e gestite dal pensiero divino. In tal modo si pone all’interno della Natura una capacità di autorganizzazione ed autoregolamentazione scissa dal divino, in altri termini non c’è nulla di trascendente nel creato, nella Natura, se non il solo atto creativo. Pur se affascinante in sé, questa spiegazione della sussistenza intrinseca della Natura e dei suoi accadimenti non dà risposta al perché dell’atto creativo, se non nei termini, neoplatonici, di  una “esigenza” autosussistente della creazione rispetto al divino. In tutto ciò è impossibile, per il pensiero umano, pervenire ad una Verità in sé esplicativa dei massimi sistemi posti dal pensiero teologico.

Dunque, anche in questo si evidenzia la limitatezza di certi grandi del pensiero massonico, come Lessing e Goethe, che ripongono la Verità ultima nel pensiero divino, come indicibile ed inconoscibile, essendo troppo compresi in una visione apofasica del divino stesso. Il pensiero massonico non può porsi in questo spazio autocensorio, anzi deve avere il coraggio di andare oltre, altrimenti non si distinguerebbe né dal pensiero scientifico né da quello religioso e, ciò è più importante, non si definirebbe come pensiero altro, pensiero sapienziale teleologico. La Massoneria se è altro, ha come necessità epistemologica ed ermeneutica quella di coniugare il discorso sulla materia e quello sulla sovramateria, ovvero il pensiero sulla struttura materica e sulla sovrastruttura spirituale, sul sensibile e sul extrasensibile.

Sempre riguardo all’ortoprassi, questa non aiuta a definire la Massoneria come pensiero soprasensibile, non fa riconoscere una sua visione d’ermeneutica esoterica. L’esoterismo non trova lo spazio di giustificazione di sé nella concezione dell’ortoprassi, che è concezione di comportamenti umani, pur considerandoli nella loro apparenza extra-storica ed extra-culturale. Se intendiamo l’esoterismo, visione riservata e dunque essenzialmente massonica senza inquinamenti estranei, come strumento essenziale del pensiero massonico è necessario scandagliarne i suoi peculiari significati non in termini puramente di perfezionamento spirituale, che non lo distinguerebbe da altre pratiche spirituali, ma ripeto in peculiari termini massonici. L’esoterismo in quanto strumento massonico, dal pensiero massonico deve trarre il proprio significato e non può configurarsi in se stesso, ovvero limitare il suo sviluppo all’interno di un pensiero avulso da una causalità esplicativa e da un percorso ben coordinato e indirizzato, altrimenti una qualunque persona fortemente interessata allo esoterismo potrebbe benissimo cercare il proprio sviluppo spirituale nell’esoterismo in sé e non avrebbe la necessità di entrare nella Massoneria. Addirittura, potrebbe cercare una propria speciale forma d’iniziazione dentro la via esoterica, ignorando l’iniziaticità massonica. Questo è proprio il termine ultimo di un pensiero herderiano che in definitiva toglie alla Massoneria ogni carattere di esclusività, riducendola a mera forma umanitaria, alla pari di un qualunque umanesimo modernista.

Il Massone, sensibilmente determinato considera l’esistenza come progetto, alla stregua di un Heidegger, e vuol condividere questo progetto con altri sotto il riparo della loggia. In questa Loggia il Massone non trova la spiegazione di come stanno le cose, di

come l’esistere si spiega. La sua concezione di Verità è diversa da quella giuridica, civile e religiosa e pure scientifica.

La filosofia moderna tende a depennare la Verità, intesa come descrizione oggettiva, dai propri discorsi. È difficile contestare chi afferma che la razionalità di un discorso se è ridotta alla sua presentazione decorosa è accettabile dai più. Però, ciò non vuol dire che la felicità umana risieda nell’essere tutti d’accordo, nella comune ricerca di una felicità data dall’accordo, come sembra di sentire nelle parole di un Herder.

Ugualmente, si sente la necessità di superare certe posizioni del XVIII secolo e di quelli successivi, ove la Verità è lo “specchio della Natura” e che la conoscenza dei dati di fatto e delle norme che li regolano sia la via alla Verità. I Massoni settecenteschi cercavano ciò, trovandosi come Lessing, ad essere costretti a negare ogni validità ai plurimi esoterismi come strumento di conoscenza. È difficile infatti dichiarare che ogni esoterismo conduce alla Verità, se non appellandosi in modo fideistico a un’idea di astratta spiritualità non definita. Questo perché all’epoca, non differentemente da oggi, quello era un esoterismo che dall’esterno veniva inglobato nel pensare massonico, senza saperlo integrare, senza saperlo ripensare nei soli termini massonici, facendo del pensiero massonico un confuso ed incoerente agglomerato dei più disparati esoterismi, con la tiepida ed inconcludente giustificazione che ogni forma di esoterismo umano è definibile come ” Tradizione“. Solo Goethe provò a coniugare massoneria, spiritualità ed esoterismo extramassonico usando plurime arti, comprese quelle scientifiche, ma con grande sofferenza e senza giungere ad una conclusione2

Nel linguaggio massonico non appare la parola “felicità”. Il Massone non cerca la felicità, si distingue dall’accezione moderna della morale intesa come aiuto reciproco per soddisfare “felicemente“ i desideri personali e collettivi. Una tale concezione, presente ad esempio in Stuart Mill e in una certa visuale anche nell’idea di ortoprassi, non rientra nello schema di perfezionamento spirituale; al più in quello civile e privato del mondo profano. Una tale concezione parte dal presupposto che non esiste nella natura umana alcuna struttura sostanziale e ciò è inaccettabile dal pensiero massonico.

Non si deve però pensare che l’accezione trascendentale del pensiero massonico voglia dire fondarsi su qualcosa di già esistente, di una trascendenza che trascende persino l’uomo. L’unica trascendenza concepibile per un Massone potrebbe essere quella di scoprire nella sostanzialità umana un senso del sacro che lo connota come ente umano e come essere vivente teso allo spirituale, al metafisico; tutto il resto è prodotto storico e culturale dell’agire umano. Il pensiero massonico, depurato dalle connotazioni che gli sono estranee, come quelle ideologicamente e teologicamente fondate così come quelle di un esoterismo estraneo alla tradizione massonica, concepisce la morale come pura espressione umana ed il senso del sacro come propria sostanzialità. La morale umana, nell’accezione massonica, non discende dall’extraumano, essa è elaborazione progressiva della pulsione umana al superamento dei limiti umani, non in senso materiale, civile, religioso che sono compito e scopo di istituzioni che appartengono all’ambito del mondo profano. Da parte sua, il senso del sacro è la trascendenza che appartiene all’uomo e in senso massonico è la sostanzialità che lo innalza oltre il suo essere produttivo, oltre la sua materialità, oltre i suoi comportamenti pur moralmente ed eticamente guidati.

Nella Massoneria non si può cercare ciò che Heidegger chiamava ontoteologia, la ricerca sull’origine e la fondatezza dell’idealità umana in una sfera extraumana e sulla certezza del possesso di un ideale giusto e vero. Ciò è rintracciabile solo nel pensiero teologico e a questo ci si deve rivolgere se quella è la ricerca. Ma, se qualcuno volesse ridurre il pensiero e la prassi massonica a relativismo, farebbe un’operazione di mistificazione inaccettabile.

In una società iniziatica, spiritualmente connotata, il relativismo è cosa estranea. Né può essere considerata come relativistica l’affermazione che la Massoneria è ricerca di una

Verità, di una Morale, di un Senso del Sacro che fanno parte della sostanzialità dell’Uomo. Questi concetti hanno valore di assolutezza dentro la sfera dell’umano. Sono essi che si connotano come veicoli al superamento della condizione materiale per accedere a quella spirituale. Se la Massoneria è concepibile come progetto di elevazione dal materiale allo spirituale, in ciò non sussiste nulla di relativistico. Ma non solo, infatti, tale rappresentazione è coerente col pensiero platonico che richiedeva a un progetto di essere affrontato con volontà superiore. Se una definizione può essere data alla Massoneria è quella di “fondamentalista”, nel senso di ricerca dei “fondamenti dell’essere umano e della Natura“, con un proprio  metodo  e  propri  strumenti  che  non  fanno  parte  della  realtà  profana. In certe critiche che vengono dal mondo religioso si tende a stigmatizzare la Massoneria come relativistica perché essa non riconosce alcuna cosa come definitiva, perché l’uomo è in una condizione di continuo sviluppo spirituale Ciò, se non è travisamento voluto, è mancato approfondimento del pensiero massonico.

La Massoneria fonda la propria tradizione sul riconoscimento di un Ente Supremo, però senza dare definizione di questo Ente e senza farne discendere altro che il suo riconoscimento, perché ogni Massone è libero di dare la sua definizione nel rispetto di tutte le fedi. È prassi tradizionale della Massoneria nel suo insieme il rendersi estranea agli ambiti religiosi e politici e dunque a non chiudersi dentro un unico credo o ideologia. La vocazione della Massoneria è quella di essere universalistica e ancor prima cosmopolitica e di trovare nell’Uomo, a prescindere dalla sua razza, credo religioso, condizione sociale e idealità politica le condizioni sostanziali per elevarsi spiritualmente. Ciò implica non di affermare che per un Massone ogni via da percorrere sia giusta, bensì di lasciare aperte le porte ad una ricerca la più ampia possibile e che la sua elevazione spirituale nasce dall’uomo e non da un qualcosa a lui estraneo. La Massoneria si pone dunque rispetto all’Uomo come definizione di un ambito spirituale, sacrale, insito nell’essere umano.

Il fatto che la Massoneria consideri che si possa discutere su tutto non vuol dire che tutto viene desacralizzato, ma al contrario che nel tutto si può trovare il senso del sacro e a ciò, a questo senso del sacro, si sposta la ricerca massonica. In realtà, la critica al relativismo è puntata verso quel pensiero che non sostiene che la Verità possa essere detenuta da qualcuno perché a quel qualcuno un Ente superiore ha rivelato la Verità e che solo quella Verità sia giusta, mentre tutto il resto, tutte le altre ricerche e vie sono conseguentemente fallaci ed inutili, che alla “vera” spiritualità non si possa giungere se non con il proprio credo; anche se oggi teologi spericolati incominciano a chiedersi con finezza di ragionamento se una tale concezione possa avere diritto d’esistenza nell’ambito di una religione3 tesa al bene concepito come libertà che a sua volta necessariamente implica il senso del rispetto verso le altre vie spirituali e religiose4.

La corrente pragmatista e relativista del pensiero filosofico moderno ritiene, sulla falsariga di Nietzsche, che l’uomo è animale intelligente e che la sua intelligenza si esplica nella collaborazione degli uomini per la migliore realizzazione dei propri desideri. Questo modo di vedere la realtà non è in sé errato ma è certamente parziale, perché volutamente ignora sia il senso del sacro che spinge l’uomo a vivere pure una vita spirituale, sia la sua connotazione non riducibile al materiale, la sua sostanzialità metafisica; ignora che l’uomo prima di sviluppare il senso del sacro ha, come base di partenza, sviluppato il pensiero simbolico.

Nell’ontoteologia questa unitarietà tra materialità e spiritualità, che si concretizza nell’essere umano, viene spezzata tra una parte limitata nella sua finitudine e una parte che anela all’infinito. La Massoneria, invece, riconosce nel senso di sacro e quindi di infinito la sostanza che giustifica la parte finita, sensibile. A differenza di Peter Singer, filosofo americano odierno, la Massoneria non aspira ad “ampliare la cerchia del noi”, piuttosto tende a considerare l’uomo solo alla luce della sua appartenenza all’umanità e quindi come

singolo rappresentante di un “noi assoluto”, come dire che nel singolo uomo esiste l’intera umanità.

Il Massone porta avanti un progetto che ipotizza un futuro possibile per l’umanità fondato sul riconoscimento del valore trascendentale insito nell’uomo. Pertanto, la Massoneria si appella tanto alla ragione quanto al senso del sacro, ove l’uno è ragione d’essere dell’altro e l’insieme dei due è teleologicamente teso al  perfezionamento,  giacché la Massoneria non pensa teologicamente, non concepisce la Verità come qualcosa di superiore all’uomo e quindi ricerca la Verità dentro la sostanzialità dell’uomo, della Natura. Non viene ricercato, in altri termini, un qualcosa che è fuori dall’uomo, a lui superiore, che è compito teologico, ma vuol scrivere il poema dell’universalità dell’uomo come percorso di perfezionamento materiale e spirituale, lasciando al mondo profano il perfezionamento materiale e riservandosi quello spirituale, inteso come spirituale meramente umano.

Sul piano religioso il misticismo è la via dell’accesso al trascendente, ma, fuori dall’ambito religioso, può anche essere concepito un misticismo che del trascendente è azione e pensiero assieme, nel senso che scopre il trascendente presente nell’uomo o più precisamente nella determinazione dell’uomo come insieme sistemico di materia e di spirito. Quest’affermazione che può apparire un paradosso, un gioco semantico, invece è il percorso non lineare che compie il Massone. Qualità materiale e qualità trascendentale sono i due distinti livelli che compongono l’unitarietà dell’essere umano ed il misticismo è la via che consente di far comunicare i due livelli e farli interagire sinergicamente, dando luogo ad un superiore essere umano, né solo materiale né solo spirituale, ma altro da sé.

Richard Rorty, altro filosofo americano pur di pensiero pragmatico e relativista, pone il misticismo come una superiore forma di linguaggio che porterebbe al progresso materiale e morale. In una logica massonica è preferibile parlare di perfezionamento piuttosto che di progresso, infatti, il perfezionamento è uno scopo mentre il progresso è un effetto. È però corretto definire il misticismo come linguaggio speciale che fa comunicare l’uomo sia con la sua parte sensibile sia con la sua parte spirituale, attuando con questa comunicazione il percorso di perfezionamento. La via massonica al perfezionamento, in ultima analisi alla Verità, è raffigurabile come una vite senza fine, che gira senza mai serrare, che ha la funzione di avvio di un meccanismo che conduce ad altri risultati che non sono il serrare. La Massoneria può benissimo concepire una propria forma peculiare di misticismo, estranea alla religione, proprio partendo da ciò che Rorty definisce come misticismo, ma superando la sua limitazione al progresso materiale e morale, con il concetto di perfezionamento spirituale. Come già accennato, Goethe tentò la ricomposizione dei due livelli della sostanzialità umana; egli aveva una visione essenzialmente mistica della Massoneria, ma non sviluppò una mistica massonica e fallì perché volle applicare due strumenti esoterici, come l’ermetismo e l’alchimia, estranei alla via massonica: egli, in ultima analisi, fu esoterista perché ermetico e alchimista e non perché Massone.

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LE ORIGINI DELLA LOGGIA MASSONICA ED I COSTRUTTORI MEDIEVALI DI CATTEDRALI.

LE ORIGINI DELLA LOGGIA MASSONICA ED I COSTRUTTORI MEDIEVALI DI CATTEDRALI.

Durante il Medio Evo l’umanità fu capace di realizzare le più grandi opere della storia: in tutta Europa furono movimentati, in poco meno di tre secoli, milioni di tonnellate di pietra per la costruzione di circa 130 edifici fra cattedrali e grandi chiese. Tali opere impegnarono una quantità di risorse da far impallidire l’antico Egitto con le sue piramidi.

Per una tale mole di lavoro furono necessari migliaia di uomini che, operando all’unisono, compirono il miracolo nel nome ed alla gloria di Dio e della Vergine Maria.

Le opere che si andavano realizzando richiesero certamente enormi risorse, ma questo non era sufficiente a garantirne il successo: la sfida da affrontare richiese qualità umane non così comuni.

Organizzazione, comunicazione e competenze necessarie, richiesero un modello senza precedenti; fu tale spinta a generare la formazione delle antenate delle moderne Logge Massoniche: praticamente, in tutte le opere di un certo rilievo, esisteva una loggia a lato della cattedrale; gli operai ammessi non vi abitavano, ma la utilizzavano per cibarsi o per riposarsi durante la giornata di lavoro; in più veniva utilizzata per custodire la cassa con gli utili.

Esisteva poi una differenza di rango fra gli operai, basata sulle rispettive specializzazioni. Ad esempio, nell’Inghilterra del XIV secolo, coloro che lavoravano la pietra (ovvero gli “hewers”) percepivano un salario maggiore rispetto ai posatori (chiamati “layers”); un secolo prima (1212) alcuni documenti londinesi distinguevano tra categorie di operai “cementarii”, “scultores lapidum liberorum” e gli altri operai generici.

Come si vede non era ancora apparsa la definizione di “freestone-mason” poi abbreviato con free-mason, che ritroviamo documentata solamente dalla metà del ‘300.

Con Maestro artigiano (o massone) della pietra “libera”, si intendeva coloro che lavoravano le pietre più malleabili, facili a lavorare (ovvero i cosiddetti “artisti” che avevano il compito di produrre i vari ornamenti quali statue, capitelli, etc.), rispetto a coloro che dovevano sgrossare la pietra, più dura e difficile, di cava e infine coloro che avevano il solo compito di posarla e che quindi si trovavano al livello più basso.

Fra i primi statuti di Loggia medievali, troviamo un estratto tramandatoci dal canonico Ph. A. Grandidier [su_tooltip style=”bootstrap” position=”north” content=”Che si occupò con successo della storia della Cattedrale di Strasburgo, tramandandoci l’opera “Ensayo històrico y topografico de la Iglesia Catedral de Estrasburgo”, Lerrault, 1782, Strasburgo.”][1][/su_tooltip] . Riassumendo, si trovano interessantissimi spunti: scrive che, davanti alla Cattedrale, esisteva un edificio contiguo chiamato Maurer-Hoff, dove si riunivano gli operai del cantiere; tale antica confraternita di massoni liberi aveva avuto origine in Germania ed era composta da maestri, compagni e apprendisti.

Pian piano, nel corso di due-tre secoli, dal tipo di massoneria, definita operativa, si giunse a quella di carattere speculativo, la cui data di fondazione ufficiale risale al 1717 [su_tooltip style=”bootstrap” position=”north” content=”Benché esistano prove documentali che attestino l’esistenza di massoni speculativi operanti già dalla prima metà del secolo precedente: Elias Ashmole riporta nei suoi diari di esser stato iniziato in una Loggia il 16 ottobre 1646: «Sono stato fatto Massone a Warrington, nel Lancashire, insieme al Col. Henry Mainwaring, di Karincham, nel Cheshire.»”][2][/su_tooltip] in Inghilterra, ad opera di quattro logge londinesi, The Goose and Gridiron, The Crown, The Apple Tree e The Rummer and Grapes che si costituirono nella Gran Loggia di Londra. Successivamente nel 1723, un gruppo di pensatori e scienziati fra cui spiccavano numerosi membri della Royal Society, primo fra tutti il pastore anglicano Jean-Théophile Désaguliers, ne redassero le Costituzioni, mentre il pastore presbiteriano James Anderson ne fu il firmatario. Così la massoneria divenne il “fulcro d’unione” tra gli uomini, sulla sola base delle loro qualità morali. In un momento travagliato della storia inglese, ove regnavano le divisioni religiose a livello dinastico, politico e sociale, la massoneria si erse a simbolo di unione e fratellanza umana a dispetto della religione professata e dello status sociale dei singoli adepti. Queste idee, poste a fondamento delle Costituzioni del 1723, divennero la base per la diffusione dei valori di uguaglianza, libertà e fratellanza che funsero da innesco per la rivoluzione francese prima e quella americana poi.

Che cos’è una Loggia Massonica?

Come abbiamo verificato dai documenti storici pervenutici, la “loggia” ai tempi dei massoni operativi era il luogo ove facevano base gli operai medievali, ovvero una costruzione ubicata nei pressi del cantiere che permetteva alle maestranze impegnate nei lavori di avere una sede per riposare, riporre i propri oggetti, fare riunioni e decidere il da farsi…

La Loggia Massonica moderna, ossia quella speculativa, non è un luogo identificato nello spazio o nel tempo, ma è, più precisamente, uno stato mentale; quando i massoni si riuniscono in Loggia significa che attraverso opportune e precise movenze dettate da antichi rituali si trasportano su un diverso piano spirituale, utile a dimenticare, ossia mettere da parte, tutto il bagaglio (o fardello) che ciascuno di noi si porta appresso, durante il vivere quotidiano.

Generalmente i massoni si ritrovano per giungere a questo stato in uno spazio con delle determinate caratteristiche, chiamato appunto “tempio” che, comunque, non è strettamente necessario ad “aprire” i lavori di una Loggia.

Da questa premessa è facile comprendere come la Loggia non sia un luogo fisico, ma sia, più propriamente, un’entità completamente avulsa dalla materialità terrena; più facilmente potremmo definirla come la dimensione dello “spirito”.

Infatti ciò che rende “rispettabile” una loggia è la capacità dei propri componenti di elevarsi ad un livello superiore; debbono cioè riuscire ad abbandonare i “metalli” fuori dal tempio; dove, simbolicamente, con il termine “metalli” si tende ad indicare l’insieme dei vizi, pregiudizi, stato socio-economico e così via di ciascun individuo…

Da questa prerogativa, è chiara l’intenzione di eliminare non solamente le differenze di casta, ma anche quelle politiche e religiose, fonti inesauribili di guai e contrasti fra gli uomini.

Coloro che intendono “lavorare” in Loggia debbono quindi tentare di operare “liberamente ed onestamente” con i propri fratelli, partendo ogni volta da zero; senza preconcetto alcuno si stimola il ragionamento favorendo la possibilità di seguire la propria “intuizione”, parte fondante del lavoro di Loggia.

Queste caratteristiche, indispensabili al Libero Pensiero, permettono a questo variegato consesso di elevarsi ad ideale via di integrazione fra gli uomini: basti pensare che esistono Logge in cui ebrei, musulmani e cristiani si chiamano, e soprattutto si comportano da Fratelli.

A tal proposito, è sufficiente ricordare il primo degli “Antichi Doveri” tramandatici da Anderson nel 1717:

“I. Concernente Dio e la religione.

Un muratore è tenuto per la sua condizione a obbedire alla legge morale; e se intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore ed onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti.”

Per comprendere la portata di un tale precetto, basti richiamare alla memoria il particolare momento vissuto dall’Inghilterra – ma anche dal resto d’Europa – agli inizi del XVIII sec. quando lo scontro religioso aveva raggiunto il suo apice: anglicani, luterani e cattolici erano profondamente divisi e la convivenza si era fatta difficile; fu allora che queste menti illuminate vollero cambiare il corso della storia, cercando di elevarsi al di sopra delle differenze e concentrandosi piuttosto sui punti di interesse comuni a tutti gli uomini. Da questa volontà nacquero affermazioni come quella notissima espressa da Evelyn Beatrice Hall che riassume così il pensiero di Voltaire: “Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo.”

(fonte: Gianmichele Galassi, Apprendista Libero Muratore, Secreta Ed. 2013)

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NEL SENSO ESTETICO

NEL SENSO ESTETICO

E un giorno di inizio primavera, sono in campagna. Di fronte a me l’orizzonte è grandioso, e posso ammirare le onde di verdi colline e più in là la maestosa catena di montagne, molto innevate, sublimi, uno stimolo per la mia immaginazione. Il cielo è intensamente azzurro, non offuscato dallo smog.

Di fronte ad un simile spettacolo viene spontaneo riflettere sulla bellezza, sul senso estetico. Riflessione sollecitata, acuita dalle macchie di colore rosso, rosa, giallo, dei primi tulipani, eleganti sul loro stelo verde pallido, dalle modeste commoventi pratoline bianche, da questo verde ancora intatto e fresco di inizio primavera.


Le città in cui oggi viviamo sono ormai invivibili: contaminate dallo smog, dall’intenso traffico, dall’incuria della gente che molto spesso non le ama abbastanza, soltanto le usa, che non sa e non vuole vedere. Città che sono pur scrigni di bellezza, ma nelle quali questa bellezza è tenuta nascosta, è ignorata. Come accade in certe abitazioni nelle quali splendidi mobili e ornamenti sono nascosti da inutili e banali suppellettili, che le involgariscono, le imbruttiscono.

Il senso estetico è molto spesso un innato dono di natura, e il fortunato mortale che lo possiede può godere di gioie infinite. Un chimico sa come manipolare e trasformare i prodotti, l’economista elabora grafici e dal loro zig-zag prevede crisi monetarie o lo sviluppo della ricchezza di un paese. Professioni indubbiamente utili, come lo sono tutte le professioni che aiutano il progresso. Ma la ricerca della bellezza non è ricerca di guadagno, è un dono del tutto gratuito, infinitamente prezioso per chi la sa trovare, la vuole trovare. La gioia che ci può dare la vista di un fascio di rose elegantemente sistemate in un vaso, un raggio di sole attraverso i vetri della finestra, l’azzurro intenso del cielo, il volo di un uccello, un bosco verde cupo, tutto lo spettacolo grandioso, variopinto, Intenso della natura.

Il senso estetico. In alcuni è istintivo, in altri più nascosto, assopito e che pur può essere improvvisamente risvegliato in una felice pausa nella corsa sfrenata della vita.

E un dono dell’anima. Non si sofferma sulla composizione chimica degli oggetti, ma vede la forma, il colore, la luce. Non indaga sulle leggi della creazione ma indugia sulle gioie della creazione. E una ricerca artistica e intuitiva, che non richiede il sapere, ma il saper vedere. Un geologo, uno scienziato che studia la composizione delle piante e delle rocce non è sempre in grado di rendere artisticamente; poeticamente le forme, i colori come invece hanno saputo superlativamente fare Leonardo, Tintoretto, Turner con qualche colpo di pennello. Penso che le sensazioni così dette inutili siano le più potenti, le più squisite.

I nostri sensi• — il tatto, l’olfatto, il gusto, la vista, l’udito — sono serVitori della nostra vita e strumenti per preservarla. Hanno una funzione fisiologica e ci guidano alla ricerca di quanto ci è necessario. Ma questi strumenti ci regalano anche sensazioni profonde e raffinate che spesso, inconsciamente, ci accompagnano per tutta la vita e rimangono parte del nostro essere, della nostra sensibilità.

Con il ragionamento filosofi, psicologi possono spiegare molte cose, l’universo, la sua evoluzione. Ma definiscono apparenze il fremito delle foglie, i limpidi ruscelli scroscianti, la fiamma dello sguardo, il palpito delle palpebre. Apparenze a cui tuttavia noi dobbiamo molte nostre sensazioni. E anche molte nostre decisioni e debolezze. L’apparenza della gloria, l’apparenza dell’amore.

Il filo dei miei pensieri potrebbe continuare a lungo. Il contrasto fra corpo e anima, fra concretezza ed intuizione, fra logica, ricerca e sentimento. Il nostro complicato io che deve cercare e possibilmente trovare un ampio sbocco di liberazione, come il fiume che sfocia nell’ immenso oceano. Un oceano dove può trovare poesia, bellezza, sentimento, pace, liberazione, conciliazione.

Fortunato chi tutto questo tenta di trovare. Fortunato chi lo trova

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LA RUOTA E LA ROSA NELLE ANTICHE RELIGIONI

LA RUOTA E LA ROSA NELLE ANTICHE RELIGIONI

di L. M.

La ruota è forse, insieme con la croce, il simbolo più ricorrente nelle religioni antiche sia occidentali che orientali.

Diffusissima nelle rappresentazioni celtiche rappresenta la divinità creatrice (il perno immobile) intorno alla quale tutto gira. È il dio druidico Dagda al quale Mag è servitore o meglio «servitore della ruota».

Nella piastra di Gundestrug un uomo gira la ruota cosmica mentre il dio, le braccia levate in alto, è impassibile fermo nel tempo e nello spazio, perno di un moto che è insieme avanzamento e ritorno proiettato all’infinito, simbolo quindi dell’eternità.

La ruota di Mag è fatta di legno di tasso, albero della morte (i suoi archi si piegano nel dare la morte ma indefinitivamente ritornano nella loro posizione di partenza). Questa ruota è una ruota cosmica.

Quando apparirà sulla terra ne seguirà la fine: chi la toccherà morrà, chi la vedrà perderà la luce, chi ne udrà il rumore perderà l’udito. Arianrhod, dea gallese, è la ruota d’argento.

Essa ha due figli, uno si chiama Dylan eil Ton e nuota rapidissimo nell’acqua, l’altro è Llew ed è un guerriero invincibile.

Riti e danze di queste popolazioni sono tutte improntate al moto rotatorio e si perpetuano ancor oggi nel folklore inglese, bretone, normanno e nel nord in genere. Ruote alate, ruote infiammate di Daniele, ruote dei cherubini di Ezechiele nella religione ebraica.

Le ruote infiammate girano perpetuamente intorno al Bene immutabile; sono ruote rivelatrici ed elevano l’intelligenza dell’uomo abbassandosi nel loro movimento fino ai più umili. Esse sono portatrici dell’ illumlnazione divina.

Le ruote alate girano eternamente su un perno senza declinazione: rappresentano la verità, unica ed assoluta, verità che può lambire il mondo ma non pervaderlo completamente in quanto imperfetto. La perfezione è unicamente cosa divina e quindi totalmente ultramondana.

La cintura di Ishtar (casa della luna per gli antichi babilonesi) è per gli arabi la ruota dello Zodiaco. Zodiaco significa ruota della vita, Primitivamente con significazione lunare si trasforma nel tempo in significazione solare.

I limiti dell’orizzonte sono circolari, il firmamento è emisferico, gli astri si muovono con moto circolare, la perfezione filosofico-matematica è nel cerchio, sublimazione divina del quadrato, limite dello spazio umano.

Nell’iconografia indiana la ruota ha spesso dodici raggi: sono il ciclo lunare ed il ciclo solare espressi nei mesi.

La ruota cinese ha trenta raggi; sono i giorni approssimati del ciclo lunare.

La ruota dell’esistenza buddista ha sei raggi, cioè quante sono le classi di esseri o Ioka: è la ruota della Legge volta in un movimento in unico senso. La ruota del Dharma, con i suoi otto raggi simbolizza gli otto sentieri della vita.

Il perno della ruota è sempre la Divinità, il Sovrano, l’Uomo univerSale. Il Chakra è attributo peculiare di Vishnu e non è altro che un disco solare.

Nel mondo occidentale, medioevale la ruota è attraverso il rosone delle cattedrali il simbolo del centro cosmico e del centro mistico ricongiunti in una sola figura.

I raggi vanno dal centro alla periferia e da questa ritornano al centro: unità nella totalità.

RUOTA – ROSONE – ROSA

La fiamma che, sotto il crogiolo dell’Alchimista, fonde la croce di vile metallo e la trasforma in metallo perfetto ed incorruttibile è la rosa. E essa mistica rigenerazione nel mondo greco.

Apuleio nel suo «Asino d’oro» fa mangiare, con l’aiuto di un sacerdote di Iside, a Lucio un serto di rose vermiglie: solo così egli potrà riacquistare le sue sembianze umane.

Nell’antica Grecia i roseti erano dedicati ad Afrodite ed in certi casi anche ad Atena, dea dell’ulivo. Sulle tombe venivano poste le rose: i «rosalia» dei latini che, nel mese di maggio simbolizzavano in que53

sto modo la rigenerazione della natura. Da ciò derivava un simbolo di resurrezione e quindi di immortalità.

Centro mistico, perfezione assoluta, anima, cuore ed amore della coppa della vita: ecco gli aspetti simbolici della rosa indiana.

Nell’iconografia cristiana la rosa è la coppa che raccoglie il Sangue di Cristo (il Santo Graal) ma anche con i suoi petali vermigli, la trasfigurazione di questo sangue.

L’erta per giungere al Santo Graal è piena di spine e di triboli. Persino il peccato si dovrà commettere per potervisi avvicinare. Peccato e redenzione, terra e cielo.

«Rosa candida», «rosa mistica», «rosa aurea», ecco tre simboli cristiano-medioevali con significati che spaziano dalla purezza assoluta alla potenza spirituale.

La Riforma protestante si fregia di una rosa apposta sulla croce. Analogo emblema è dei Rosa-Croce. In questi due casi la rosa non è che il Cuore del Cristo.

Rosa è purezza, amore, sofferto amore, sublimato attraverso la sofferenza che ne arrecano le spine. Giardino dell’anima, giardino del cuore, tramite di elevazione: Rosa dei Cavalieri, Giardino dell’Amore, Romanzo della Rosa…

Perfezione umana mai perfetta, perfezione divina sempre perfetta. L’eterno slancio dell’Uomo, che cosciente della sua razione rna anche impotente nei suoi limiti cerca nel Trascendente di raggiungere quella perfezione che intuisce ma che non sarà mai sua. La rosa e la ruota: identificazione ma non totale.

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