MASSONERIA, ARCHITETTURA, GEOMETRIA: IL TEMPIO DELL’UMANITAA’di

di Francesco Ventani

“L’Architettura compenetra tutta l’esistenza, e l’esistenza stessa diventa architettura”(B. Taut)

Il rischio della tautologia nell’analisi sincronica di un processo diacronico

Uno degli errori commessi spesso da molti Liberi Muratori, presi dall’entusiasmo della “caccia” ai vari simboli liberomuratori, è quello di voler cercare, e voler trovare, gli stessi ovunque ed ad ogni costo, e ciò avviene soprattutto sui documenti più ricchi di tali tracce, ovvero (chiaramente) gli edifici e le loro varie componenti. Mi spiego: per un Libero Muratore che se ne vada in giro per il mondo con g li occhi nuovi dell’iniziato, è assai piacevole, e in fin dei conti motivo di un malcelato orgoglio misto a un’impressione di immediata familiarità, scoprire una squadra o un compasso, un segno, un simbolo o una scritta legata alla Tradizione Muratoria, proprio su una facciata di una cattedrale o di un palazzo, su un cornicione, una lapide, un dipinto o un bassorilievo. Ma questo non deve indurci all’errore di significare quello che vediamo riempiendolo di ciò che assai probabilmente non ha mai contenuto; cioè non possiamo riversare su quei simboli e segni tutta la storia e la valenza che hanno assunti in tempi moderni e in particolare dopo il ‘700 inglese e l’illuminismo.

Quando noi vediamo una squadra e un compasso, la mente ci porta a tutta una serie di idee, di immagini e di concetti che sono propri della Massoneria come oggi la intendiamo, che ovviamente non è la stessa di quella antica, “operativa”. Questo però non deve portarci su una strada sbagliata: la Massoneria moderna, quella nata alla fine del ‘600 in Inghilterra, benché legata da un cordone ombelicale mai rescisso con la muratoria antica, è comunque un qualcosa di diverso, e che per altro si è mutata continuamente nel corso dei decenni.

Va da sé quindi che non solo i simboli muratori che troviamo negli antichi edifici sono spesso stati messi fi dagli autori con un senso non esattamente massonico modernamente inteso, ma al contempo è assai poco stupefacente, o degno di chissà quale panegirico mentale, il fatto stesso di trovarceli.

ln sintesi, la scoperta di tali segni, forme, archetipi nelle architetture del passato ci espone ovviamente al rischio della tautologia: cioè cercare queste tracce nelle opere architettoniche è operazione chiaramente tautologica, perché non si può che trovare il proprio patrimonio genetico, se lo si va cercare nei propri avi. Tale rischio è assai tipico di un’analisi sincronica (cioè vedere oggi un simbolo e interpretarlo, collegarlo ai suoi attuali

significati) dj un processo diacronico (la formazione del fenomeno Massoneria dalle origini a oggi).

A ben vedere, è sostanziale tracciare una linea di separazione tra due possibilità in questo tipo di ricerca: ovvero da una parte scoprire le tracce della Tradizione Muratoria nei monumenti del passato, con la coscienza che ne troveremo quasi certamente, ma che altrettanto certamente non potremo dar loro un significato modernamente massonico, ma limitarci a inquadrare il loro senso (certamente spesso in iziatico) ed eventuale sviluppo all’interno della storia della nostra istituzione; dall’altra limitare il campo all’influsso che la Massoneria moderna ha operato in campo architettonico, ritrovando le tracce, i simboli, le forme, gli archetipi, questa volta sì, in stretto legame con i valori e gli ideali della Libera Muratoria universale (ovvero la muratoria moderna).

A rèbour: quando la Massoneria finisce per influenzare ciò che le ha dato origine

Negli edifici antichi troviamo molto del bagaglio tipico dell’Arte Edificatoria, tutto quel substrato di saperi tecnico-iniziatici ustoditi e trasmessi dalle corporazioni muratorie e dagli

architetti. Però se vogliamo invece cercare le tracce e i risultati dell’influenza massonica moderna sugli edifici e le città, dobbiamo giocoforza limitarci a prendere in considerazione le opere di quegli autori che hanno fatto parte di logge moderne (cioè dal ‘700 in poi) e sono stati fortemente influenzati culturalmente dal pensiero e dal metodo massonico, o che lo siano stati, se non per appartenenza, in virtù di una vicinanza di pensiero (e talvolta di un legame di amicizia) a tali ideali e valori, Da questo fecondo cross-over culturale è capitato che la Massoneria finisse per influenzare ciò che le aveva dato origine, cioè l’architettura.

Partiamo dalle Costituzioni di Anderson del 1723: in esse l’architettura riveste già un ruolo fondante nella mistica del mito massonico; essa è Opera del Grande Architetto, e questa discendenza divina si trasfigura nell’uomo quale “costruzione del Tempio dell’Umanità”. Le Costituzioni sono evidentemente influenzate dal processo cultu rale che dalla trattatistica vitruviana prosegue la sua infiltrazione palladiana in Inghilterra e si conclama con Inigo Jones; esse delineano chiaramente il culmine della tradizione architettonica nell’epoca classica augustea- Ma questo non è che il primo gradino, perché in questa proiezione idealistica dei modelli antichi, della “tradizione” dell’Arte, pian piano si avvicenderanno, o meglio conviveranno tutti gli stili, anche in una aperta dichiarazione di tolleranza e libertà universali; Io stile dei “Revival”(dal greco, all’egizio, al gotico, ecc.), dell’Eclettismo che durerà per tutto l’Ottocento, sarà espressione concreta, materiale ma anche e soprattutto ideale dei mondo Iatomistico.

È def tutto evidente la capacità evocativa di questo genere di architettura: ci riporta alle virtù civili della democrazia greca, allo splendore della civiltà romana, alle acropoli, ai fori imperiali, verso un tempio laico dell’Umanità; Neoclassicismo quale stile prediletto, “Architettura di Stato” dell’Illuminismo. Molte sedi massoniche sono così costruite negli anni, dal ‘700 e fino al ‘900, seguendo questa mistica evocativa (la sede attuale della Gran Loggia Unita di Inghilterra, quella del Rito Scozzese a Washington, il George Washington Masonic Memorial ad Alexandria).

ln Francia, nel secolo dei Lumi, conosciamo con esattezza i nomi di numerosi architetti settecenteschi che appartennero alla Massoneria, come Vie’, Dumont, Chalgrin, Rondelet, ma non abbiamo totale certezza invece per i tre più famosi, ovvero Boullée, Lequeu e Ledoux; tuttavia al di là della controversia ancora da dirimere, i loro ideali e le loro opere sono così in sintonia con le istanze illuministico•massoniche che se non sono stati affiliati, di certo avevano qualcosa di più di una semplice vicinanza di pensiero.

Lo spazio architettonico viene così concepito nella sua rappresentazione simbolica tipica dell’ideologia della socialità borghese ed aristocratica; un riunirsi civile che mette insieme le menti e le professioni è tipico del pensiero dei philosophes della seconda metà del ‘700. La loggia massonica è lo spazio più indicato per queste finalità, è uno spazio consacrato a creare una comunità felice, verso la realizzazione, all’esterno, del “bene e del progresso dell’Umanità”.

Ricordiamo soprattutto Claude•NicoIas Ledoux (sebbene il suo nome non sia mai stato trovato tra i documenti superstiti del Grande Oriente di Francia, l’appartenenza a società iniziatiche ci è testimoniata dal racconto di un amico inglese): per lui l’architettura è luce, contrapposta indissolubilmente alle tenebre in un equilibrio dinamico di concezione cosmica.

Ma gli esempi di architettura di ispirazione massonica non mancano nemmeno in Italia: ci piace ricordare in particolare

anche il senese Agostino Fantastici, in cui l’influsso massonico è ben evidente già dal linguaggio usato, eclettico certamente neoclassico. ln sintesi: con l’Illuminismo, il Tempio delle Virtù massonica si affianca sempre di più al mito della Cattedrale, essi sono la rappresentazione della “Loggia ideale”.

E così via, i simboli muratori si intridono di significati densi e si manifestano nei monumenti per acclarare le nuove ideologie di progresso dell’umanità.

Città invisibili e Città visibili: l’urbanistica massonica

Interessante è l’influenza massonica in campo urbanistico e nella fondazione e disegno delle città; questo legame lo si legge attraverso l’interpretazione, ormai consolidata, dell’architettura utopica dell’illuminismo come architettura del Progresso, della nuova Socialità. Così si riflette anche in temi urbanistici, con una visione autocratica, se non “aristocratica”, dove convivono talvolta istanze socialiste ed un autoritarismo quasi ancien régime, una ricerca di un Ordine Superiore che esprima una società ordinata tanto nel suo disegno di città quanto nell’organizzazione della componente umana.

Gli stessi Boullée, Lequeu e Ledoux sono tra i massimi esponenti di questa architettura visionaria, con veri e propri contributi alla città utopica; di Ledoux sono da ricordare le rappresentazioni e gli studi sulla Città Ideale delle Saline di Chaux. II tratto di Ledoux è tipicamente e assai chiaramente iniziatico: l’autore si pone quale emulo del Grande Architetto dell’Universo, conducendo a Ordine (insieme architettonico e sociale) il Caos; Ordo ab Chao. l

Dalla parte del socialismo utopico, troviamo invece Charles Fourier, con le sue visioni del Falansterio e di Cosmopoli: visioni cosmologiche e cosmogoniche che rimandano a idee filosofiche da “iniziati”, dove si cerca di raggiungere, attraverso la geometria dello spazio e l’ordine sociale, l’armonia suprema. Fourier, per quanto non si abbia prova certa della sua appartenenza, ha quantomeno un legame importante con la Massoneria; egli scrive: «Al nostro secolo, si propone una questione completamente nuova: esso non ha riconosciuto le preziose forze che la Massoneria gli offre. La Massoneria è come un diamante non levigato che noi disprezziamo perché non ne riconosciamo il valore…» È invece nota l’appartenenza di altre figure del Socialismo Utopico, come Saint-Simon, Godin, Proudhon, Considérant, ed evidente è la coincidenza di certe tematiche massoniche con alcuni degli ideali di questa corrente di pensiero, come l’Amore Fraterno, l’Ordine dal Caos, l’Armonia Universale. Ma le tracce degli ideali massonici le ritroviamo anche nel disegno di città realizzate: una su tutte, Washington. Sin dal suo concepimento essa fu al centro di una querelle non indifferente, che coinvolse vari attori, tra i quali l’omonimo Presidente, il Segretario di Stato Jefferson, e ovviamente l’urbanista che ne redasse il piano, L’Enfant: poiché

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si stava progettando una città ex novo, si voleva che fosse al contempo simbolo degli Stati Uniti e simbolo della Nuova Civiltà, una sorta di esempio programmatico dell’era moderna,  repubblicana, illuministica e massonica; non scordiamoci infatti quanti fratelli contribuirono e influenzarono la Costituzione Americana* e la nuova capitale doveva esserne l’incarnato, la sua rappresentazione materica.

La nuova capitale, non potendo cadere in nessuno degli Stati, fu collocata in un Distretto speciale (District of Columbia) di dieci miglia per lato: il 1 5 aprile del 1791 fu posta la prima pietra di confine, e la cerimonia fu eseguita con un complesso rituale con tanto di sfilata massonica, al termine del quale la posa fu eseguita dal Venerabile della Loggia. E ne furono posate molte altre, ben quaranta, a formare un enorme quadrato (o rombo) simbolico, it cui significato esoterico è evidente nella loro funzione di pietre miliari, di landmarks appunto: capisaldi di un’invisibile recinto sacro, il Distretto, Tempio del Governo Federale; ma anche principi inamovibili che garantiscono l’essenza stessa dell’Istituzione, della Nazione tanto quanto dell’Ordine Iniziatico.

Avanguardia e Tradizione

La sottile linea dell’esoterismo tuttavia attraversa la storia dell’architettura ancora una volta, e in tempi più recenti: dalla fine dell’Ottocento e nel primo Novecento, latente e quiescente nelle istanze avanguardiste del Movimento Moderno.

Singolare come, nonostante il movimento delle avanguardie sia, dal punto di vista stilistico, volutamente di rottura con la Tradizione, esso invece contenga in nuce una forte valenza esoterica che ci riconduce ancora una volta a una visione esoterica dell’Arte e al concepimento della costruzione della Cattedrale dell’Umanità.

   

Già a partire dall’Art Nouveau, gli influssi esoterici in architettura sono ben evidenti, e non è un mistero l’appartenenza alla Massoneria di un personaggio di spicco come Victor Horta. Altro teorico cui si devono influenze su molti architetti avanguardisti è l’architetto teosofo J.L.M. Lauweriks, che fu chiamato da Peter Beherens (che nel 1922 progettò la sede massonica di Monaco di Baviera) a insegnare alla scuola di Darmstadt, la famosa Colonia Artistica d’avanguardia dove si svolgevano complessi

rituali di influsso esoterico-iniziatico e ispirati da una concezione di corporazione artistica, quasi medioevale. E proprio dalle logge dei costruttori medioevali prendevano spunto le nuove associazioni artistiche previste dal Novembergruppe, che infatti si chiamavano Bauhütte, che vuol dire appunto “loggia”. E poi come non ricordare Rudolf Steiner, il quale a sua volta fu autore in campo architettonico del famoso Goetheanum, il cui nome è un omaggio al grande scrittore romantico (e massone) Goethe.

Un’ondata di misticismo accomuna tutte le istanze espressionistiche, nella speranza di un rinnovamento sociale e spirituale; l’architettura, attività edificatrice per eccellenza, diventa meta suprema: l’edificazione della Cattedrale di Cristallo corrisponde, come in Massoneria, all’autoedificazione per il bene dell’umanità.

In verità l’Espressionismo non inventa nulla: l’esoterismo, ben lungi dall’essere inventato o re-inventato allora, è presente senza soluzione di continuità nella cultura tedesca, e non solo tedesca.

Tutto si coagula nella “Tradizione” grazie ai gangli con la Massoneria, i’ Rosacrocianesimo, la Teosofia, l’Antroposofia, che convergono su posizioni simili verso il finire dell’Ottocento: lauweriks, Steiner, Beherns, la Colonia di Darmstadt.

 

L’Espressionismo non è un revival, però recupera le istanze storiche a livello di ispirazione: modelli di comportamento che diano un senso alla figura dell’architetto. Sarà questo il tema, nell’architettura moderna, che esprimerà il filone sotterraneo della “Tradizione”, quello della Cattedrale dell’Umanità, ovvero il Tempio del Bene e del Progresso dell’Uomo.

Tentiamo una definizione: Architettura Idealizzante ed Ideologica

 Crediamo che, dovendosi prevedere una sorta di conclusione, o forse meglio un tentativo di estrapolare un fil rouge comune a tutti gli exempla architettonici appena visti, un’affermazione possa essere riassuntiva anche se non certo esaustiva: l’architettura, che di sua stessa natura è legata indiscutibilmente alle origini della Massoneria, ha nei tempi moderni subito, in alcuni autori e in talune correnti artistiche, un feedback significativo dalle istanze massoniche o filo-massoniche o che comunque sono state ispirate dalla Libera Muratoria. E tale influenza, come è d’uopo nella storia della Massoneria, trae fondamento da entrambe le correnti che da sempre la sostanziano e la sostengono, ovvero quella

illuministico•progressista (che è eterno modello della corrente della Aufklàrung) e quella tradizionale-esoterica (che nelle sue frange più estreme ha dato vita alla corrente della Schwârmerei), e che qui, nel campo antico (direi “primitivo” nel senso etimologico del termine) dell’Architettura finalmente si uniscono in un coro unanime. Quello, cioè, di un’Architettura che non esiteremmo a definire idealizzante ed ideologica: ovvero essa è, e rimane talvolta sulla carta nelle sue Utopie, un modello ideale di creazione, di edificazione, di trasformazione dal Caos all ‘Ordine, simbolo e simulacro defl’autoedificazione dell’Uomo, dei Valori e delle Virtù umane e civili, che esso ha riconosciuto e a cui si sforza di elevare Templi; che questi “parlino” per lui (ed a lui), in eterno. È quindi la testimonianza fatta di materia, ovvero “concreta”, del profondo spiritualismo ed idealismo che risulta parte essenziale dell’Uomo e della sua Storia.

Un trait d’union iniziatico: il Compagnonaggio

II Compagnonaggio al giorno d’oggi pare essere probabilmente l’unica realtà lavorativa dove l’avviamento al mestiere è una vera e propria Iniziazione, cioè riveste anche un’importanza spirituale. Naturalmente ai grandi studiosi di storia massonica la cosa non è certo sfuggita; tra questi René Guénon, il quale nelle sue opere ha sempre sostenuto la cosiddetta “teoria del tronco comune”, ovvero che entrambe le realtà derivino da un unico antenato. ln effetti le somiglianze e le vicinanze sono tantissime: basti ricordare che anche i Compagnoni hanno una tradizione legata al Tempio di Gerusalemme, a Salomone e a Hiram, su cui poi si innesta la figura di Maître Jacques, collega di Hiram ed anch’egli partecipe ai lavori del Tempio, che dopo lungo viaggiare per- il mondo si ritira in Provenza, dove finisce ucciso da cinque discepoli compagnoni traditori?

Nondimeno, abbiamo rappresentazioni e allegorie molto esplicite, nei brevetti o nel Rô/e (sorta di piedilista) di società compagnoniche operanti in alcune città francesi, in cui fanno bella mostra di sé emblemi e simboli propriamente massonici. Ma, come giustamente fa notare Mathonière3, molte di queste forme simboliche ed espressive strettamente massoniche, così come le prime tracce della leggenda dell’uccisione di Maître Jacques da parte dei cattivi compagnoni, paiono comparire in documenti pervenutici risalenti a non prima del Sette-0ttocento.

Questo, insieme alla notoria “doppia appartenenza” di molti compagnoni francesi in quei due secoli, spinge Mathonière e altri studiosi a mettere fortemente in dubbio l’affermazione categorica di Guénon, propendendo per una non necessaria identità dei due rami (massonico e compagnonico) nel passato, e spiegando le clamorose somiglianze simbolico-allegoriche con un’operazione di influenza massonica massiccia, diremmo quasi una “massonizzazione”, dovuta alla diffusione enorme che le logge e gli ideali muratori ebbero in quel periodo, anche tra le classi artigiane. Secondo tale ipotesi non si può parlare di un “tronco comune” tra le due istituzioni iniziatiche, ma eventualmente di «…substrati culturali in tutto o in parte comuni e/o simili» 4 Onestamente, ci pare che tale contro-ipotesi sia quasi un tentativo di voler dare un risalto maggiore al compagnonaggio, cercando di sollevarlo dall’appiattimento in cui in effetti la presunta identità protostorica con l’ordine massonico sembra averlo gettato, schiacciato da un’ingombrante coinquilino che calamita forse troppo le attenzioni, quale è la Massoneria.

Una cosa però è certa, la scarsità delle fonti e fa disparità di approfondimento che esiste tra Libera Muratoria e compagnonaggio non permettono al momento di tirare alcuna conclusione e lasciano giustamente interrogativi irrisolti.

A nostro avviso, questa distinzione finisce per divenire, a secoli di distanza dai fatti storici, una questione de lana caprina: quello che a noi interessa fondamentalmente è proprio quel substrato culturale, legato all’Arte della Costruzione, quel senso del Sacro che da tempo immemore ha sempre contraddistinto l’Architetto ICostruttore, figura iniziatica già per sua stessa natura: mestiere che era probabilmente particolarmente ricettivo nei confronti della Tradizione Occidentale, come poi delle istanze Illuministiche. In questo senso, il Compagnonaggio, col suo inscindibile legame, ancor oggi, con la parte “operativa”, rappresenta una prova “vivente” di come il salto verso la Massoneria moderna non sia spiccato casualmente da un universo, quale quello architettonico-muratorio, denso da sempre di spunti filosofici

Una conferma dell’esistenza del GADU: la Sezione Aurea

La Geometria, una delle Sette Arti Liberali, nonché materia attinente la sfera del Sacro e della Creazione divina, è sempre stata un punto imprescindibile della figura dell’Architetto /Costruttore e del substrato culturale protomassonico. Non poteva quindi mancare un accenno al numero che forse più sembra svelare, nelle sue varie ed incredibili manifestazioni, la presenza del GADU dietro alla bellezza del Creato, una sorta di matrice divina che si nasconde come ossatura geometrica sotto fa materia.ll Numero Aureo (in matematica Q) dalla sua scoperta ha rappresentato un punto cruciale nella storia non solo della matematica, ma anche del pensiero dell’uomo; non sappiamo con esattezza se fosse conosciuto anche in civiltà precedenti, ma certamente è giunto a noi tramite la defi nizione della “proporzione estrema e media” di Euclide.

La definizione euclidea ci dice che un segmento AB è diviso in due parti AC e CB, secondo la proporzione estrema e media, quando AB:AC=AC:CB; cioè risulta diviso secondo quello che è stato definito Rapporto Aureo, o Sezione Aurea. Tale rapporto è espresso con il numero (P = 1 ,61803398…, con infinite cifre decimali prive di sequenze ripetitive. Quindi Q è un numero ‘irrazionale’! anzi come qualcuno ha detto, il più irrazionale dei numeri irrazionali.

Quando il concetto dei numeri irrazionali fu sviluppato, nella Grecia classica, anche in termini filosofici pose un serio problema epistemologico al pensiero umano tutto: il mondo, la realtà, non era così più nettamente finita e misurabile.

Si narra, secondo fonti storiche incerte, che il concetto di incommensurabilità creò enormi angosce in particolare ai Pitagorici, che considerarono questa cosa la manifestazione di una imperfezione cosmica, una imprecisione di origine divina. Invero, come vedremo più avanti, il Numero Aureo potrebbe invece racchiudere, forse, la chiave per la lettura defla perfezione e della meraviglia che il Creatore ha nascosto nelle pieghe più profonde del creato. Gli esempi in natura si sprecano, e soprattutto si trovano in campi ed in ordini di grandezza lontanissimi tra loro. La conchiglia di tipo Nautilus si sviluppa lungo un certo tipo di spirale, la spirale logaritmica, che ha una connessione geometrico-matematica strettissima con il Rapporto Aureo. Questo tipo particolare di spirale si ritrova, magicamente, nella disposizione delle foglie delle piante (fitlotassi), dei semi di girasole, nella macroarchitettura

 delle galassie… Matematicamente, la geometria della Sezione Aurea è strettamente legata alla Serie di Fibonacci, ed alle sue incredibili proprietà numeriche: ogni numero della serie, diviso per il predecessore, è una sempre più accurata approssimazione di (P. Lélenco delle implicazioni matematiche dovute alla connessione tra la serie di Fibonacci e il Numero Aureo, è veramente lunga. Basti pensare che una serie lunghissima di matematici e scienziati del passato vi si sono imbattuti, e stupiti di conseguenza (pensiamo a Luca Pacioli ed al suo trattato “De divina proportione”).

Ma allora una domanda si pone necessaria: se «p è manifestazione del Lògos, del Dio come Principio Ordinatore e Regolatore dell’Universo, come si interpreta la sua presenza dal senso metafisico a quello fisico? Qui forse ci viene incontro lo stesso nome di Leonardo Fibonacci, che in realtà aveva altro cognome ma che passò alla storia, grazie alla sua scoperta, come ‘*Figlio dei bonacci” (da cui Fi l bonacci), cioè *’figlio di una buona disposizione’! Cioè fu colta da subito una cosa fondamentale: le proprietà matematiche, che sono astrazione pura, nella reaftà corrispondono, con buona approssimazione, a proprietà fisiche del mondo reale. Quando l’esperienza ci fa notare che la fillotassi delle piante si organizza in un certo modo, quando il girasole, la mela e la conchiglia seguono una determinata geometria, il messaggio che traspare è che evidentemente quella è, in natu ra, la “buona disposizione! cioè probabilmente la migliore per Io sviluppo della vita.

E fi il Grande Architetto dell’Universo ha dato prova delle sue capacità matematiche, che noi ancora non riusciamo a comprendere appieno e probabilmente non ci riusciremo mai; ecco che ne esce una visione della realtà come di un qualcosa che sussiste sopra (e grazie) a una matrice divina, da leggere in filigrana e non solo con gli occhi della ragione, ma anche con quelli dell’intuizione. Ecco come mai l’uomo da millenni considera quindi sacra la Geometria, e perché ha sempre rivestito un carattere sacrale l’atto del costruire, e quindi l’Architettura. E nel momento in cui riconobbe la matrice divina nel Numero Aureo/ ne constatò la sua bontà e al contempo la sua bellezza (secondo un principio caro agli antichi Greci, Kalòs Kai Agathòs): ciò che è buono, funzionale, è anche bello. Cioè la bellezza figlia della proporzione, e quindi dell’armonia, intesa come manifestazione accidentale dell’Armonia Celeste. E se la Bellezza e l’Armonia sono manifestazioni del Divino e dell’atto creativo di Dio, anche l’Uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, quando crea e costruisce tende a riconoscere le leggi e le proporzioni che egli interpreta attraverso il suo intelletto grazie all’astrazione matematica.

L’uomo ha così replicato le forme e le proporzioni della Natura nelle sue opere, cosicché spesso ha utilizzato in particolare nell’Epoca Classica, la Sezione Aurea; non a caso la lettera greca (P, corrispondente alla nostra F, è stata utilizzata per indicare il Numero Aureo in onore di Fidia, il grande architetto e scultore greco. Ma egli, e con lui gli autori di meraviglie artistiche ed architettoniche dell’antichità, lo utilizzarono davvero e con coscienza? Molti studiosi oggi Io mettono in dubbio, sostenendo che spesso si è trattato di voler trovare (P in tutti i modi da parte di chi si era invaghito di una teoria da dimostrare, e con i numeri, si sa, si può giocare quanto si vuole… Questo non significa che in molti casi non sia effettivamente stato utilizzato consciamente il Rapporto Aureo in un edificio, però ci deve indurre a valutare con attenzione le tesi, soprattutto quando si ha a che fare con i numeri, che, Io sappiamo, li possiamo sempre manipolare e far tornare a piacere…

Un grande architetto del Novecento, Le Corbusier, sviluppò un sistema proporzionale che chiamò “Modulor”, ovvero la figura stilizzata di un uomo, ogni parte del corpo seguendo la Serie di Fibonacci. Secondo il suo autore, il Modulor permetteva di conferire dimensioni armoniose a tutto ciò che si progetta, dalla cassettiera al palazzo, fino agli spazi urbani, diventando un sistema di standardizzazione con una matrice di armonia naturale che potremmo definire quasi “deistica”.

Per una conclusione: nessuna conclusione?

A fine di questo excursus proviamo a tracciare una possibile conclusione a un’indagine che forse ha spaziato in campi apparentemente distanti, ma che invece sono strettamente correlati ad un’unica visione d’insieme, forse così ampia che la si coglie meglio osservandola da una certa distanza.

Il rapporto tra Massoneria ed Architettura è un qualcosa di viscerale, e non solo per la vexata quaestio delle origini della nostra istituzione, ma a ben vedere, in senso lato ovviamente, essa sprofonda nelle pieghe mirevoli della storia dello scibile umano, laddove lo studio della Geometria, della Fisica e della Matematica tornano al primo interrogativo se Dio si manifesta attraverso la Bellezza del Creato, o se forse è l’uomo che comunque ha bisogno e desiderio di trovare tutta intorno a sé la traccia della scintilla divina, e così si prefigura la divinità, a propria immagine e somiglianza, con in mano un enorme compasso con cui traccia l’armoniosa curva dell’Universo; il GADU quale noumeno di quella cosa in sé inarrivabile e che trascende la ragione umana.

Anche per tutta la complessità dei temi trattati, ma non solo, rimane così volutamente del tutto aperta questa conclusione, che forse tale non è, e non deve essere, visto che il Tempio, come sempre, è ancora in costruzione.

Lasciamo però le ultime righe per un aneddoto su Louis Kahn, uno dei più grandi architetti del XX secolo: americano di origini ebraiche, in realtà si sentiva apolide e spinto da un’universalità che comunque non gli fece dimenticare l’influenza della mistica ebraica, secondo cui il Messia non è ancora venuto, e quindi la presenza di Dio la si può intravedere nelle sue Opere.

Ma in fondo l’Opera di Dio è anche l’Opera dell’Uomo che, nel suo atto creativo che lo congiunge alla divinità, crea l’Opera per Dio, come fece Hiram con il Tempio.

Questo è l’aneddoto, tratto da un racconto autobiografico: da piccolo, in Estonia, era fortemente attratto dalla luce (e le sue opere architettoniche tuttora Io testimoniano), e da qualunque cosa la emettesse, compresi dei tizzoni ardenti, fino al punto, una sera, di metterseli sul grembiule, che prese ovviamente fuoco, ed egli si bruciò così il volto, rimanendo parzialmente sfigurato per tutta la vita.

Non sappiamo se Louis Kahn fosse un Libero Muratore, non avendo trovato notizie in merito, e personalmente ne dubitiamo molto, ma (ed è ciò che più conta) quello che trasmettono la sua architettura e le sue parole sono comunque sensazioni che si collocano su una lunghezza d’onda profondamente universale. Egli amava dire: «Amo gli inizi. Gli inizi mi riempiono di meraviglia. lo credo che sia l’inizio a garantire il proseguimento». Che prosegua, con forza e vigore, fa costruzione del Tempio…

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LA REGIA DELLA MASSONERIA DIETRO LA MARCIA SU ROMA

La regia della massoneria dietro la marcia su Roma e l’ascesa del fascismo

Mussolini e la marcia su Roma, 28 ottobre 1922

Mussolini e la marcia su Roma, 28 ottobre 1922

Grazie a un processo di riconoscimento facciale e a uno studio durato 4 anni, il regista e scrittore Tony Saccucci ha dimostrato la presenza del gran maestro Raoul Vittorio Palermi il 28 ottobre 1922 al fianco di Mussolini. 

C’era la massoneria dietro la marcia su Roma che il 28 ottobre 1922 portò Mussolini al potere in Italia. A 100 anni dalla marcia su Roma sono uscite fuori le prove. Fino ad oggi era noto l’appoggio diretto del gran maestro Raoul Vittorio Palermi a Mussolini, le sue simpatie anche successive al 1922.

Così come, d’altra parte, era noto che il potere dei massoni tout court rappresentava l’ultimo baluardo democratico alla scalata del giovane Mussolini. Proprio per questo nel 1925 il Duce mise fuori legge la massoneria e alcuni esponenti finirono male, qualcuno addirittura ucciso.

Quello di cui nessuno finora ha avuto la prova, era che lo stesso Palermi fosse presente alla marcia su Roma e sfilasse insieme al ristretto gruppo dei futuri ministri e sottosegretari del primo governo Mussolini, che non è superfluo ricordare abbondava di non fascisti (si pensi solo a Gronchi, futuro presidente della Repubblica italiana).

La ‘pistola fumante’, la prova della presenza della massoneria dietro la marcia arriva oggi grazie allo studio durato quattro anni condotto da Tony Saccucci, regista, sceneggiatore, professore (continua tuttora a insegnare Storia e Filosofia al liceo classico Mamiani di Roma), autore di ‘Marcia su Roma’, il film diretto dal regista irlandese Mark Cousins che ha aperto le Giornate degli autori all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e attualmente in sala.

Saccucci ha discusso proprio lo scorso 19 settembre la sua tesi di dottorato in Scienze politiche dal titolo ‘Il film della marcia’. Un Phd che ha ottenuto il massimo dei voti e la lode, alla cui esposizione ha assistito anche il professor Fulvio Conti, uno dei maggiori storici di storia della massoneria in Italia.

“L’uso del cinema come fonte storiografica è il futuro della ricerca storica. Questo è il maggior apporto del mio studio alla scienza storica”, dice Saccucci all’AGI.

La mattina del 28 ottobre 1922 Raoul Palermi insieme a Ernesto Civelli era dal re alle 7.30 del mattino – si legge nel dottorato – e fu lui a convincerlo a non firmare l’ordinanza di stato d’assedio che avrebbe impedito la marcia. Questo è un episodio noto e viene raccontato anche nel film di Cousins, ma ciò che è del tutto inedito è il fatto che Raoul Palermi prese poi parte alla marcia su Roma in prima fila, accanto a quelli che sarebbero poi diventati i ministri del governo fascista.

La scoperta di questa presenza tra i vertici fascisti e liberali di quel primo governo Mussolini è arrivata solo questa estate ed è stata frutto di una complessa operazione di alta tecnologia. Un processo di riconoscimento facciale su poche centinaia di fotogrammi del film di Umberto Paradisi dal titolo ‘A Noi! Dalla sagra di Napoli al trionfo di Roma’ dove ci sono le uniche immagini della manifestazione.

“Ho smontato e rimontato i 64.945 fotogrammi che compongono le 436 scene di ‘A Noi!’ – racconta Saccucci – poi grazie alla Facoltà di Ingegneria dell’università ‘La Sapienza’ di Roma (all’equipe della professoressa Francesca Campana) e a Morgana studio (con il Dop Filippo Genovese), sono stati ‘matchati’ i profili di alcuni manifestanti con foto con didascalia rinvenute su giornali americani ed è stata scoperta la presenza di numerosi massoni noti”.

Tra questi la scoperta più importante riguarda proprio Raoul Palermi. La sua presenza è la cosiddetta ‘pistola fumante’. Una presenza fisica mai provata finora. Eppure era lì, in quei fotogrammi, da un secolo. 

Il gran maestro della massoneria, il cui figlio Amleto Palermi aveva un sodalizio artistico ed era stato socio di Paradisi fino al 13 ottobre 1922, fu la prima persona che Mussolini incontrò dopo aver ricevuto l’incarico di formare il governo da parte del re. Di questo ci sono prove documentali. Così come ci sono prove che con Mussolini sfilarono tanti massoni (il celebre Balbo a parte), tra cui Giacomo Acerbo, sottosegretario e braccio destro del Duce, autore della legge che porta il suo nome che, col 25% dei voti, diede a Mussolini il 66% dei seggi in Parlamento.

Acerbo fu iniziato proprio da Palermi al 32esimo grado del Rito scozzese il 6 novembre, una settimana dopo che aveva assunto la carica di sottosegretario, quando già redigeva i verbali delle riunioni del Consiglio dei ministri.

Dopo cento anni, dunque, grazie a questo monumentale studio e all’ausilio delle moderne tecnologie dell’università di Roma si aggiunge un tassello importante alla storia d’Italia.

Palermi dal re Vittorio Emanuele III per convincerlo a non firmare l’ordinanza di stato d’assedio. Palermi, il primo a incontrare Mussolini dopo che questi ha ricevuto l’incarico. Palermi, in posa per la foto di rito col governo. Uno ‘sponsor’ potente che però, come altri illustri personaggi, primo fra tutti il sovrano, non ha ottenuto quanto sperato.

Per tutta la durata del Fascismo Raoul Palermi scriverà centinaia se non migliaia di lettere al Duce – si può leggere nel lungo lavoro di Saccucci – e, dopo aver tentato il suicidio nel 1929, riceverà una pensione di 3.000 lire al mese fino all’aprile del 1943. All’Archivio di Stato è conservata  una delibera datata 25 luglio 1943, ossia il giorno del Gran consiglio che depose Mussolini, in cui si rinnova il vitalizio per Palermi.

Una fine forse non onorevole per quello che nel 1922 era uno degli uomini più potenti d’Italia (o almeno così sembrava essere in quell’autunno). AGI Read 1141 times

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FICHTE LA FILOSOFIA DELA MASSONERIA

di Antonio Binni

Nella mia operosa giovinezza ho frequentato assiduamente i testi dei filosofi idealisti e, fra questi, l’opera di Johann Gottlieb Fichte, preso e ammirato, oltre che dalla sua idea di libertà, soprattutto dalla natura pratica della sua filosofia. Nel pensiero del Nostro la filosofia avrebbe dovuto infatti avere unicamente il compito di essere efficace strumento per cambiare il mondo e l’uomo. Dunque non spiegare come il mondo è, ma come potrebbe diventare attraverso l’azione dell’uomo, senza dare per scontata la immodificabilità della situazione esistente. Parimenti non per descrivere la vita delle persone ma per cambiarle, per essere attribuito alle stesse il compito di operare attivamente per incidere sulla società. Nato in una famiglia poverissima, si narra che da fanciullo lavorasse come guardiano di oche per aiutare i genitori. Per sostenersi, da giovane, fu costretto a mille lavori che via via detestava; ma la natura lo aveva creato pensatore. Fu così che costruì un pensiero compiuto che è erroneo degradare – come taluni sostengono – a mero terreno preparatorio del pensiero di Hegel, che fu, quantomeno, ingeneroso quando accusò la filosofia di Fichte di risolversi in un idealismo soggettivo e in un pensiero vuoto e formale. Alla fama del Nostro non hanno poi sicuramente giovato i Discorsi alla nazione tedesca, tenuti a Berlino nel 1807–1808, durante l’occupazione napoleonica, nei quali il filosofo riaffermò il primato della nazione tedesca, considerata la guida degli altri popoli per avere mantenuto in tutte le epoche storiche la purezza della lingua, del carattere e della religione. Tesi questa, come noto, sciaguratamente ripresa e diffusa dalla ideologia nazista. Da qui, in principalità, un giudizio immeritatamente negativo, quando, all’opposto, quelle orazioni altro non erano che un accorato appello al popolo tedesco di riscossa contro l’occupazione napoleonica. Nelle mie modenesi calde e afose vacanze estive di liceale mi è stata silenziosa compagna e fedele amica la lettura di molte pagine della Missione del dotto, dalla quale trascrivo questo pensiero ancora nitido nel ricordo: “L’uomo esiste per migliorarsi sempre più dal punto di vista morale e per rendere migliore tutto ciò che lo circonda” (testo pubblicato dalle Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1991, pag 94). Una volta entrato nella Comunione, ho scoperto l’appartenenza all’Ordine di Fichte, mai rinnegata, seppur breve. Ne nacque così una affezione al filosofo ancora maggiore. L’opera di Fichte a me più cara divenne però ben presto quella intitolata Filosofia della Massoneria (in Italia, edita da Bastogi, Foggia, 1995; ma l’edizione italiana più recente è quella edita da Mursia, Milano, 2019, a cura dell’Amico C. Bonvecchio). Col tempo, il volume, di fatto, è andato in pezzi per eccesso di uso. Da qui la necessità di farlo rilegare. Oggi l’opera è nelle mie mani, in una nuova veste elegante che mi ha indotto alla ennesima rilettura, dalla quale estraggo alcuni dei punti più salienti, mosso dalla convinzione che quella lezione è, ancor oggi, preziosa a quanti praticano l’Arte regia, e non solo. Insegna il Nostro che la Massoneria non può proporsi nessuno degli scopi ai quali si dedica generalmente l’impegno intellettuale degli uomini, perché già tutti realizzati. Sicché, laddove perseguisse codesta finalità, diverrebbe inutilmente superflua e perfino “sommamente nociva”. E per difetto di competenze (non ogni massone è architetto, filosofo, giurista, ecc.), e per la natura riservata in cui la Massoneria opera, visto che – appunto – dovrebbe fare in segreto ciò che, di norma, avviene invece in pubblico. Ciò acclarato, secondo Fichte rimane allora a chiedersi quale possa essere codesto scopo. Domanda alla quale il Nostro risponde secondo ragione e, perciò, in termini del tutto persuasivi: lo scopo della Massoneria non può essere altro che quello di realizzare una perfezione umana maggiore di quella che ciascun individuo avrebbe raggiunto fuori dalla Associazione. Scopo da una parte troppo ampio e dall’altra troppo stretto. Troppo ampio perché codesto fine può essere conseguito anche altrimenti (ad esempio con la meditazione). Troppo ristretto perché nessuna società di qualsiasi specie può, per sua natura, operare il suo perfetto raggiungimento. Sicché la maggiore umanità conseguita rimarrà per sempre una perfezione umana, squisitamente umana, dunque mai superiore alla stessa. Questa educazione, che ha il suo approdo nella acquisizione di una specifica competenza in umanità, secondo il Nostro filosofo deve poi avvenire in una “piccola comunità”, che è centrale non solo per la funzione che assolve, ma pure per la sua lingua. Per la funzione perché, nella “piccola comunità”, si impara a comunicare il proprio sapere e ad acquisire quello degli altri in modo del tutto diverso per la natura eterogenea dei presenti-partecipanti. Per la sua lingua perché, anziché l’estrema specializzazione dei linguaggi professionali degli adepti, è adottata, e parlata, una lingua condivisa, che è quella dei simboli. Fichte non si nasconde poi il pericolo della esistenza di uomini scaltri e disonesti che indirizzano adepti ingenui verso propri fini personali: critica abituale all’istituto massonico. Parimenti è del tutto consapevole della esistenza, all’interno della “piccola comunità”, di uomini che, per soddisfare il proprio orgoglio personale, fallito nel mondo profano, talora pure ripetutamente si impegnano a dirigere, e a prevaricare, chi per cultura o per posizione sociale li sopravanza nella società civile. Né trascura di prendere in considerazione chi è entrato nel sodalizio massonico per semplice curiosità, o per capriccio, o con la speranza di accrescere la propria modestissima clientela. A tutte codeste pur frequenti censure, volte a svilire l’Ordine, Fichte obietta però di avere personalmente conosciuto uomini saggi e onesti che si sono affratellati per un fine sublime, quale quello di essere educati da capo a fondo per divenire “uomini”, uomini veri e autentici. Anche se poi, per raggiungere codesto scopo, sono stati costretti a sacrificare non poco della loro vita e dei loro beni personali. In merito al tanto vituperato “segreto massonico” Fichte dichiara che quello più noto, e a un tempo nascosto, è che i massoni esistono e continuano a esistere malgrado siano vittime abituali di aggressioni, di infamie e calunnie, oltre che delle loro stesse sciagurate scissioni e delle loro reali manchevolezze. Secondo il Nostro, a indubbio merito della Massoneria vanno comunque ascritti, e soprattutto riconosciuti, l’educazione dello spirito, l’aspirazione alla sensibilità morale, l’imposizione di corretti comportamenti e l’osservanza delle leggi che, sia permessa l’integrazione, nei relativi contenuti l’Istituzione ha spesso ispirato, divulgando una cultura politica totalmente umana, perciò universale, elaborata all’interno delle Logge, dove si sono radicati i principi della libertà, della uguaglianza, della fratellanza, della tolleranza e degli stessi diritti umani, oltre che del merito. Una eredità che per certo non merita di morire. Come tutte le epitomi, anche quella che abbiamo presentato altro non è che un semplice compendio del pensiero fichtiano, per definizione privo di ogni reale approfondimento. Temi, invece, affrontati con particolare acume e una dotta e documentata analisi nell’accurato volume di Valerio Meattini intitolato Storicismo e Massoneria. Libertà, uguaglianza e strategia di convivenza da Lessing a Croce (Carrocci Editore, 2021); testo nato in confutazione del duro giudizio formulato da Croce nei confronti della “mentalità” massonica: critica alta, mai astiosa, per certo la più severa contro la libera muratoria. Tuttavia indifendibile una volta dimostrata la incondivisibilità dello “storicismo” posto da Croce a fondamento della sua critica, come Meattini ha argomentato in termini del tutto fondati e, perciò, persuasivi. I temi in precedenza richiamati, sia pure con tutti i limiti propri di ogni sintesi e di ogni brevità, nell’ottica di chi ha scritto queste note sono tuttavia funzionali a segnare un distacco e soprattutto una netta contrapposizione all’indirizzo denominato postumanesimo, ossia a quella crescente sfiducia negli esseri umani nei confronti dell’umano, sul presupposto che le macchine stanno diventando umane (… anche se poi non si sposano!) e gli uomini macchine. Inspiegabile tesi paradossale visto che, in questi ultimi strani giorni, l’uomo è il padrone incontrastato del pianeta. Sicché non si comprende davvero come possa essere sfiduciato proprio verso se stesso! Da qui l’importanza del richiamato pensiero di Fichte e di quanti si pongono a difesa dell’umano nell’uomo e del suo sviluppo integrale fino a dove è consentito alla umana finitudine. Anche se poi occorre riempire di contenuto quella bella, ma oscura parola, visto che, a fronte del termine “umano”, è indispensabile chiedersi cosa sia lo specifico che lo caratterizza e nel contempo lo differenzia, ad esempio, dal corpo, dall’intelletto analitico, dalla ragione sintetica, dalla passione del cuore. A nostro sommesso ma meditato parere, l’umano non può essere altro che la libertà. Non però una libertà qualsiasi, quanto invece quella che è indirizzata al bene, alla giustizia e alla bontà. Il compito principale della esistenza di ciascun uomo è dunque quello di imparare a navigare nello spazio aperto della libertà al fine di diventare liberi, giusti e buoni. Non è poi per nulla detto che questo lavoro sia coronato da successo. Chi non accende dentro di sé l’umano, inteso così come proposto, resterà però privato della sua più autentica natura, quanto dire del tesoro più prezioso dell’esistenza, che è armonia con il mondo e con gli altri uomini. Mentre su ogni cosa sovrasta quel dolore dal quale “si impara”, come ci ha insegnato Eschilo (Agamennone, versi 176-178, in tutte Le tragedie, Mondadori, Milano, 2003, pag. 407). Solo chi ha provato e pensato il dolore si è infatti impadronito della vera conoscenza, il cui nome è saggezza. L’umano nell’uomo, per ripetere ancora una volta la bella espressione di Vasilij Grossman (dal testo La Madonna Sistina [1955] ora in Il bene sia con voi!, Adelphi, Milano, 2014, 2ª Ed., pag. 51) coincide allora con la gioia di vivere la libertà così come dianzi prefigurata: impegno che si costruisce giorno per giorno, senza mai stancarsi, su misura di ciascun uomo e di ciascuna singola esistenza.

TRATTO DALLA RIVISTA MASSONICA “OFFICINAE”

GRAN LOGGIA D’ ITALIA

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FARE LA LIBERTA’

FARE LA LIBERTA’

di Antonio Binni

Questo testo è dedicato ai «veritatis cultores, fraudis inimici». L’espressione «fare la verità» ha varie attestazioni nei Vangeli e nelle Lettere. In quanto tale, è oggetto di una ermeneutica biblica. Agostino la fa propria a sua volta nel primo paragrafo del Libro X delle Confessioni. Il che non deve destare affatto meraviglia, perché il testo che ha reso celebre il Vescovo di Ippona altro non è che un intreccio di citazioni tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. L’espressione «fare la verità» è formula suggestiva e intrigante, dal momento che già prima facie l’accento posto sulla azione rende palese l’allusione a qualcosa che in precedenza non c’era, a un’opera materialmente fabbricata. Il che a sua volta sottende che la verità non si può acquistare sul banco di un mercato, perché non è un dato di fatto esistente in natura, come i lampi e i tuoni, considerato che va appunto «fatta», cioè realizzata. Il che, com’è evidente, implica un processo, alla cui origine c’è la volontà di verità, che solo dopo una lunga e faticosa rielaborazione raggiunge la verità, intesa come risultato ed epilogo di un percorso lastricato di non verità. Solo superando la non verità si consegue infatti la verità intesa come l’alloro che incorona il vincitore. L’espressione «fare la verità» rivela inoltre, da subito, che quel fare ha un costo che si deve essere disposti ad accollarsi. Un costo spesso eroico, dal momento che talvolta comporta una lotta corpo a corpo, talaltra invece del tutto lieve, risolvendosi l’operazione di verità in un semplice accertamento, come avviene, ad esempio, per le c.d. verità evidenti, del tipo «la pioggia bagna». Nella moderna filosofia il soggetto ha una importanza decisiva. Non v’è tuttavia necessità di far ricorso a questo insegnamento, del tutto consolidato, per comprendere il fatto che «fare la verità» postula un soggetto. Un soggetto dal cuore puro che si fa carico del processo veritativo, quanto dire una parte diligente nella operazione di «fare la verità». La verità comporta però un indirizzo, e non avrebbe senso se, oltre al soggetto agente, non registrasse un soggetto destinatario, che potrebbe essere anche lo stesso operatore di verità, come avviene quando si apre il colloquio con la propria coscienza. Ciò posto, dobbiamo ora chiederci cosa si intenda per verità. Secondo l’insegnamento tradizionale, la verità è corrispondenza della proposizione alla cosa. Accogliere questa teoria, per quanto difficile a precisarsi, diviene poi inevitabile, avuto riguardo alla sede alla quale sono destinate le nostre odierne riflessioni. Ad altrimenti contenersi si finirebbe infatti inevitabilmente per uscire dal seminato. Siamo poi del tutto consapevoli che la scienza è la migliore approssimazione della verità. La realtà è però enormemente più vasta degli ambiti trattati dalla scienza della natura. Si deve pertanto riconoscere che la verità non coincide necessariamente con le verità scientifiche. Ci sono infatti moltissime forme di verità perfettamente legittime che non hanno niente a che fare con la scienza. Per concludere: la realtà non è necessariamente qualcosa di raro, per essere invece il più delle volte una esperienza comune. Quando si fa la verità, all’evidenza, non si fabbrica la verità ma, all’opposto, il modo del suo farsi. Come a dire che vanno indagati gli atti che si compiono quando viene attuato il processo veritativo. Non si deve, tuttavia, pensare alla esistenza di un qualche mitologico «metodo scientifico», come se ce ne fosse uno soltanto, per di più infallibile e perciò idoneo ex se ad escludere tutti gli altri. L’idea di un metodo destinato a ottenere con certezza risultati veri è un sogno della prima modernità, da cui ci siamo svegliati da tempo. È vero invece che quello dei mezzi, al fine veritativo perseguito, è tema di libertà e fantasia, non esistendo una ars inveniendi universale. Per concludere sull’argomento si deve così dire: il metodo, per definizione, è ciò che indica la via che occorre calpestare in vista dello scopo avuto di mira. Come tale è ripetibile, mentre il risultato di ciò che viene prodotto attraverso il metodo è molto meno ripetibile di quanto non si desidererebbe, perché il metodo è un «fare», mentre il risultato (che non sempre si ottiene) è un «sapere». Sempre sul piano fattuale è da ultimo opportuno sottolineare che la verità, se non è scritta su di un documento, è destinata a non sopravvivere. Un’ultima chiosa: non è inopportuno sottolineare un dato di fatto inoppugnabile, ossia che ogni verità nasconde un silenzio che va squarciato. Da questo punto di vista la conoscenza altro non è che il passaggio dalla realtà alla verità, fatto in vista degli umani obiettivi. Appurato che la verità abbisogna di un soggetto agente, di una azione, di una documentazione, se non si vuole farla fagocitare dall’oblio, rimane infine da chiedersi a che scopo facciamo la verità, ossia quale sia il suo fine. Così rispondiamo al pensiero interrogante: lo scopo della verità è fare luce non solo nel soggetto che la cerca, ma pure nella comunità dove la verità viene all’evidenza, qui dovendosi rimarcare lo stretto legame fra verità e comunità. Per inciso sottolineiamo che la solidarietà non ha nulla a che fare con la verità. Né si può surrogare la verità con la democrazia, che tanta cattiva prova di sé ha dato allorquando si è tentato di esportarla, né la democrazia con la verità. Oggi si è perso il culto della verità perché si è finito con il considerarla come uno strumento di potere. Il vizio storico che inficia questa opinione è evidente. Ravvisare nella verità un effetto del potere significa infatti delegittimare la tradizione che culmina con l’Illuminismo, un’epoca storica nella quale invece sapere e verità sono stati veicoli di emancipazione, di contropotere, di virtù. Avere affrontato il tema prescelto da quest’ultimo angolo prospettico assume allora un valore ancora maggiore e ancora più significativo, perché si restituisce al vero ciò che è stato travisato. Del resto, una vita senza verità finirebbe per essere noiosa oltre che scomoda, più di un mondo saturo di banconote false. Per finire. Abbiamo volutamente affrontato il tema trattato in termini del tutto diversi da quello tradizionale, completamente incentrato sulla caduta del «velo di Maia», per fare emergere la nascosta verità. Il benevolo lettore vorrà pertanto perdonare l’azzardo, frutto unicamente del desiderio di evitare inutili, noiose, ripetizioni.

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi

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ANTICHI DOVERI

ANTICHI DOVERI

ANTICHI  DOVERI

Carissimi Fratelli

La fase storica che l’Umanità sta vivendo è innegabilmente difficile e piena di tristi eventi che minacciano le libertà e i diritti umani, l’esistenza stessa dell’Uomo.                                                       

A cominciare dalla terribile e sanguinosa guerra nel cuore dell’Europa fra Russia e Ucraina che dura ormai da più di un anno senza che soffino gli auspicati venti di pace anzi il conflitto rischia di allargarsi e divenire mondiale. E, oggi più che mai, dai tempi della guerra fredda, tutti siamo preoccupati e consapevoli di essere seduti su una vera e propria polveriera atomica se non prevarrà la ragione sulla follia.

È un mondo pieno di diseguaglianze e contraddizioni, perché l*uomo stesso a causa della sua natura dualista, della sua brama di potere, dell’uso dissennato della forza, è una contraddizione. E per questo che milioni di uomini, di donne e di bambini continuano a morire in nome della brutalità, della fame in cerca di quella libertà che ancora oggi non è per tutti e manca in tante parti dela cominciare dall’Africa.

Nondimeno anche nei Paesi cosiddetti civilizzati i valori democratici sono messi a dura prova. La Massoneria da oltre trecento anni, dalla sua nascita in Inghilterra, lavora senza sosta e si batte per l’elevazione spirituale di ogni singolo individuo, perché ritiene che questa sia la strada per arrivare all’utopico ideale di un mondo in cui tutti gli uomini siano fratelli, liberi ed eguali sia pure con tutte le specifiche diversità.

Per fare tutto questo e realizzare questa insegnativa e difficile Opera

occorrono uomini illuminati e saggi. Uomini coraggiosi e responsabili con alle spalle una lunga Tradizione e solidi valori.

Valori forti e radicati come quelli della Massoneria che sono eterni nel Dna, immutabili, aurei e inattaccabili. E si fondano sugli Antichi Doveri – di cui quest’anno ricorrono i 300 anni che saranno il motivo dominante dell’annuale nostra Gran Loggia di Rimini.

Ad essi anche il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani si ispira come recita l’articolo 4 della Costituzione dell’Ordine: “Il Grande Oriente d’Italia, fatti propri gli Antichi Doveri, persegue la ricerca della verità ed il perfezionamento dell’Uomo e dell’umana Famiglia; opera per estendere a tutti gli uroniani i legami d’amore che uniscono i Fratelli; propugna la tolleranza, il rispetto di sé e degli altri, la libertà di coscienza e di pensiero. Presta la dovuta obbedienza e la scrupolosa osservanza alla Carta istituzionale dello Stato democratico italiano ed alle Leggi che ad essa si ispirino’.

Non è un caso che oltre ai principi morali ai quali deve ispirarsi ogni massone, una parte degli Antichi Doveri, il reverendo Andersont l’a abbia dedicata al comportamento nei con. fronti dell’Autorità civile suprema e subordinata, ovverosia lo Stato e i suoi rappresentanti.

I massoni sono uomini liberi e di buoni costumi che forgiano il loro spirito all’interno delle officine e portano all’esterna le loro qualità migliori per contribuire da solerti cittadini al bene e al progresso della società e detto Stato in cui vivano.

Questi principi non ammettono deroghe e devianze all’iniziato. E con questi eterni valori che anche il Grande Oriente d’Italia è andato avanti e continuerà a farlo in futuro.

Forte di quello che ha fatto in passato e delle solide relazioni massoniche internazionali che hanno sempre contraddistinto il nostro Ordine. un operato che non è passato inosservato e che ha portato 1’8 Marzo scorso la Gran Loggia Unita d’Inghilterra a ripristinare il riconoscimento nei confronti della nostra Comunione. Un atto che viene a colmare dopo trent’anni un provvedimento di ritiro che per noi fu ingiusto, ma che deve servire da sprone a tutti noi per il futuro. E lavorando bene, con pazienza e vigore che di ottengono i risultati. E noi dobbiamo andare avanti nella nostra infaticabile Emissione che ci è stata data con l’obiettivo di conseguire altri importanti obiettivi per edificare i’ luminoso tempio universale della Libertà.

Dobbiamo e possiamo farlo von la forza che ci viene dagli Antichi Doveri, Antichi ma sempre al passo con i tempi. Moderni. Dobbiamo e sapremo farlo nel rispetto di tutti: con Tolleranza, Dialogo, Solidarietà e Amore. E con la Bellezza nel cuore di essere delle persone speciali al servizio dell’Umanità.

Stefano Bisi

Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia

Palazzo Giustiniani

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CONOSCENZA INGENUA

CONOSCENZA INGENUA            di Roberto Rossini

Vociare di bambini per strada, un grande rettangolo disegnato col gesso sul marciapiede, suddiviso in sei quadrati vistosamente numerati e coronato da un semicerchio contraddistinto dal numero sette. E’ il gioco della “Settimana”; il giocatore di turno lancia un sassolino sulla prima casella, quindi, saltellando su un piede, percorre di seguito tutte le caselle fino alla settima, per poi tornare indietro e fermarsi a raccogliere, sempre su un piede, il sassolino lanciato. Quindi continua partendo dalla seconda casella, e poi dalla terza, nello schiamazzo generale teso a farlo sbagliare. Più in là un ragazzino spinge con una bastoncino un cerchio di bicicletta, un altro insegue una palla di gomma, due bambine si lanciano un cerchietto di legno con due bacchette. Com’erano belli i giochi di una volta: “Stai-là”, che poi i bambini chiamavano “Stella”, “La palla avvelenata”, “La bandiera”, e poi i pupazzi di stoffa, il teatrino ricavato da uno scatolone, dove vivevano burattini di cartoncino vestiti di carta colorata. Quei giochi erano una valigia di simboli che diventavano conoscenza e comprensione della vita, una costellazione di forme, segni e colori da decifrare, che hanno avuto il potere di renderci curiosi per sempre. Tutto quello che chiamiamo gioco non è solamente l’attività ludica ma anche l’insieme delle figure, dei simboli o degli strumenti necessari al funzionamento di questa attività, complessa come la vita reale. Il gioco riunisce in sé i concetti di totalità, di regola ma anche di libertà; infatti le diverse combinazioni di gioco non sono altro che modelli di vita, tendenti a sostituire un certo ordine all’anarchia dei rapporti, passando dallo stato di natura a quello di cultura, dallo spontaneo al voluto. Certi giochi celano misteri, avvincenti narrazioni di un sapere antico: l’albero della cuccagna si collega ai valori del trascendente, il gioco della palla richiama la disputa del globo solare, le sei facce dei dadi evocano i simboli del mondo nei suoi sei aspetti: minerale, vegetale, animale, umano, psichico e divino. Insomma i giochi lanciano messaggi all’umanità, e le dottrine esoteriche vi hanno scoperto una vera scienza iniziatica. La Settimana è un gioco colmo di messaggi che creano un percorso che si snoda verso una conoscenza pure incompleta, come suggerisce il semicerchio in alto, e forse mai completamente raggiungibile. Un atto di sviluppo personale non intenzionale, volto alla costruzione della personalità. Intanto lo stesso nome del gioco ricorda i giorni della settimana, che sono sotto il segno di sette pianeti. Il rettangolo e l’arco che lo sormonta materializzano la dialettica del terrestre e del celeste, dell’imperfetto e del perfetto. Questa forma complessa provoca una rottura del ritmo che invita alla ricerca del movimento, del cambiamento e di un nuovo equilibrio, esprimendo l’aspirazione ad una vita superiore. Il cerchio rappresenta la perfezione, l’omogeneità; è segno d’armonia, simbolo di protezione e rappresentazione della ruota del cielo. Sia il sole che l’oro vengono indicati con un cerchio, e molte danze ne assorbono l’essenza. La danza circolare dei dervisci mawlaiyya, per esempio, è ispirata a un simbolismo cosmico: essi ruotano intorno ad un centro come i pianeti intorno al sole, e richiamano la Trottola e il vecchio e caro Girotondo, fanciullesco precursore della massonica “Catena d’Unione”. Il cerchio combinato col quadrato richiama l’idea del movimento, immagine dinamica di una dialettica fra il celeste trascendente, al quale aspira l’uomo, e la terra in cui si trova. Jung ha più volte ribadito che il cerchio è un’immagine archetipica della totalità della psiche ed esprime l’illimitato mentre il quadrato, simbolo della realtà, descrive un limite. Quindi la corsa su una sola gamba, quasi una danza, è un faticoso deambulare per arrivare a comprendere il cosmo, come il gioco dei Cerchietti richiama il concetto di uno scambio di conoscenza tra i giocatori, allorché i cerchietti di legno assumono il senso di simbolici messaggi. Ma torniamo alla Settimana. All’interno del rettangolo ci sono sei quadrati numerati, e il quadrato esprime lo sviluppo completo della manifestazione, ottenuto partendo dal centro immobile secondo la croce delle direzioni cardinali. Questo sviluppo segue quello delle civiltà sedentarie, mentre gli accampamenti e le tende dei popoli nomadi sono generalmente rotondi. Nel linguaggio dei simboli il quadrato è riferito alla materializzazione delle idee: mentre il tre esprime lo spirito il quadrilatero esprime la materia, rappresentando la sintesi degli elementi. Pitagora sosteneva che tutto è organizzato secondo il numero: i numeri sono il miglior mezzo per avvicinarsi alla verità divina, poiché possiedono rilevanza cosmica. Oltre ai giochi di gruppo è il caso di considerare anche quelli che si possono giocare restando comodamente seduti, tra questi la Dama e l’intrigante gioco degli Scacchi. Ci giungono da una antichissima India ed hanno entrambi la scacchiera come campo del gioco. In particolare gli Scacchi rappresentano una sfida intellettuale che mette in campo matematica, costruzione del pensiero, logica e filosofia. Questo ne fa un gioco internazionale che suscita ammirazione e considerazione presso tutte le culture. Le ragioni storiche e culturali che spiegano la consonanza tra gli Scacchi e la condizione umana sono oggetto di numerosi studi. La scacchiera comprende le forze contrarie che si contrappongono nella lotta per la vita, è il campo della conflittualità della ragione contro l’istinto, dell’ordine contro il caos. Questa è la rappresentazione del mondo, i pezzi sono i fenomeni dell’universo e le regole sono quelle che appartengono alla natura. Una attenzione particolare merita anche il Gioco dell’oca, che ha scatenato una messe sconfinata di interpretazioni ed ha impegnato penne di livello, come Fulcanelli, Borges ed Eco. Per Fulcanelli questo gioco è “un labirinto popolare dell’arte sacra” e ancora: “la sua struttura a spirale conduce verso il raggiungimento del centro, del giardino dell’oca, meta di un cammino sapienziale iniziatico”. Appare interessante notare che la spirale del gioco si svolge costantemente in senso antiorario, quasi ad indicare che il raggiungimento del centro va inteso nel senso di una risalita verso l’origine, verso l’Uno. L’oca, da cui il gioco prende il nome, ha sempre goduto di particolare considerazione presso molti popoli, dagli Egizi ai Greci, ai Romani. In Egitto i Faraoni erano identificati con il sole e la loro anima veniva mostrata sotto forma di un’oca, che rappresentava il sole uscito dall’uovo primordiale. Nella tradizione celtica questo animale era il simbolo dell’aldilà ma anche della Grande Madre dell’Universo, mentre il labirinto svolgeva una funzione magica. A sua volta per gli alchimisti il labirinto era un’immagine del lavoro interno dell’Opera, dove la difficoltà di raggiungere il centro, dove avviene il combattimento tra le due nature, è pari solo a quella del cammino da seguire per uscirne. Hermann Kern nel suo libro “Labirinti” fornisce forme e interpretazioni di questo archetipo nell’arco di 5000 anni. Aprendo la tabella del Gioco dell’Oca appare il percorso da seguire per raggiungere la meta, composto da una serie di caselle tracciate su un serpente che si snoda su tutto il piano del gioco. In molte stampe appare chiaramente l’Ouroboros, il serpente che si morde la coda. Altro archetipo fondamentale legato alle origini della vita e dell’immaginazione, il serpente ha conservato ovunque espressioni simboliche apparentemente in contraddizione. Guénon osservava che il simbolismo del serpente è in effetti legato all’idea stessa della vita. Keyserling affermava che è lo stato più profondo della vita, la riserva, il potenziale da cui provengono tutte le manifestazioni. Molte sono le culture che hanno attribuito al serpente grande valore simbolico: a Roma rappresentava lo spirito guardiano, nel II secolo gli Ofiti lo veneravano in quanto causa della gnosi per l’umanità, riscontrando che le nostre interiora riproducono la figura del serpente. L’Ouroboros, il serpente che si morde la coda, era considerato la descrizione dell’universo e le sue scaglie simboleggiavano gli astri. Simbolo di unità, continuità del tempo ed anche di silenzio, Fulcanelli lo segnala, insieme al sigillo di Salomone, come il degno distintivo della Grande Opera, geroglifico dell’unione assoluta dei quattro elementi e dei due principi ricondotti all’unità nella pietra filosofale. In Massoneria l’Ouroboros è rappresentato dalla Nappa a frastagli, il cordone rosso con sette nodi che circonda il tempio massonico, come l’Ouroboros contorna tutto l’universo creato, simbolo di unità e continuità nel tempo. L’interpretazione alchemica, esoterica e cabalistica usa i simboli del proprio linguaggio come chiavi per aprire anche il senso nascosto dei giochi, delle fiabe, delle leggende, dei miti, nei quali individua il dramma delle incessanti trasformazioni dell’anima e il destino della creazione. C’era una volta un viaggio verso la luce che, attraverso le fiabe ed i giochi di una volta, svelava ai bambini un immenso orizzonte. Nella classica fiaba di “Biancaneve e i sette nani”, che W. Disney conosceva bene e ripropose, Biancaneve è la giovane vergine, la miniera d’oro, mentre i sette nani o gnomi (dal greco gnosis, conoscenza) rappresentano la materia minerale (lavorano in una miniera) nei suoi sette prolungamenti, i sette metalli. Ogni gnomo ha l’aspetto e un carattere di un pianeta che lo domina, ma è il saturnino Brontolo a fornire i migliori consigli al gruppo ed a salvare in molti casi le situazioni difficoltose. Caduta in uno stato di morte apparente per aver assaggiato la mela avvelenata, Biancaneve viene svegliata dal principe, simbolo del mercurio filosofale che, unendosi all’oro, lo estrae dalla materia. Amore e conoscenza camminano insieme; dice Bertrand Russell: “… la vita retta è quella ispirata dall’amore e guidata dalla conoscenza. Conoscenza e amore non hanno confini, cosicché una vita è sempre suscettibile di miglioramento”. E ancora: “Benché amore e conoscenza siano necessari, l’amore è in un certo senso più fondamentale perché spinge l’intelligenza a scoprire sempre nuovi modi di giovare ai propri simili”. E qui non resta che augurarci che in futuro dire “c’era una volta” non rappresenti il naufragio di un tempo lontano e sfumato, per un mondo che non ha bisogno di dogmi ma di libera e concreta ricerca. Ci vuole molto talento per invecchiare senza diventare adulti (J. Brel).

Gran Loggia d’Italia degli A∴L∴A∴M∴

Massoneria Universale di Rito Scozzese Antico e Accettato

Obbedienza di Piazza del Gesù – Palazzo Vitelleschi

Via San Nicola de’ Cesarini 3 (Roma)

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L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Carissimi Fratelli

Tutta la Storia Umana è contrassegnata da fasi di grande progresso e sviluppo socio- politico-conotTlicoscientifico e da altrettanti periodi d’oscurantismo in cui emergono forti tensioni, divisioni, intolleranze, cadute di valori* crisi democratiche e luttuosi conflitti tra nazioni.

E innegabile came tutto il Mondo stia vivendo da troppo tempo una fase estremarnente delicata e piena di folti interrogativi e d’incognite relative al futuro che ci aspetta e che coinvolgerà tutti i nnornenti della nostra vita quotidiana.

Un’epoca che appare caotica e irnprevedibile e sempre più caratterizzata da profondi cambiannenti a tutti

La pandernia, la crisi energetica* i muta:nenti climatici, le conseguenze della guerra fra Russia e Ucraina, e la rivoluzione digitale hanno prodotto e continueranno a produrre scenari variabili e condizioni che muteranno il nostro modo di vita quotidiano e influenzeranno anche in maniera significativa il mondo del lavoro e l’attività produttiva affidata ora alla persona.

ln particolare il ricorso alla cosid„ detta Intelligenza Artificiale è desti* nato ad aurnentare in Inodo esponenziale in un futuro prossimo modificando il concetto stesso di tanti lavori che saranno affidati a macchine pensanti, a robot in grado di sostituire l’uomo e di interagire sotto il suo controllo.

Da quando il geniale matematico in• giese Alan Turing nel 1 950 creò la sua U macchina*’ di calcolo logico, in pratica il primo computer, aprendo la strada a tutto quello che vediamo oggi, il progresso è stato costante

“vigilare e partecipare alle scelte che influenzeranno il nostro futuro…”

2 – Hiram n.2/2023                                                                                                      grandeoriente.it

come la domanda “ma le macchine possono pensare?” che Turing si pose allora e che continua far riflettere e discutere.

L’Intelligenza Artificiale sarà motivo di benessere ed ulteriore sviluppo della nostra prosperità oppure potrà, se non usata in modo equilibrato, generare ulteriori conflitti occupazionali? E questo l’interrogativo e al ternpo stesso anche la sfida più importante che ci tende „ di cui abbiamo discusso nel dibattito al Vascello durante le celebrazioni del XX Settern• bre – e sulla quale tutti dobbiamo a lungo riflettere essendo in gioco la centralità dell F Uomo, di questo meraviglioso essere pensante e cam pace di creare formidabili invenzioni rna anche capace di compiere criminali, orrende nefandezze.

Nessuna macchina, per quanto sofisticata, potrà mai sostituire il cervello umano, il pensiero e la coscienza della persona. Nessun robot verserà mai una lacrima. Ma che farà l’Uomo per migliorare le attuali condizioni di vita? Come agirà per salvaguardare il pianeta su cui vive alle prese con c.ataclismi sempre più frequenti? Verso dove va I t Umanita È che deve fare i conti con il rischio di un potenziale conflitto atomico?

lo credo che noi Massoni, da uornini liberi, pensanti e responsabili, abbiamo di fronte un impegnativo compito: quello di vigilare e quello di partecipare alle scelte che influenzeranno il nostro futuro e ancor di più quello dei nostri figli, dei nostri nipoti e delle generazioni che

L’uonqo d’oggi è vittima di un ambiente che non tiene più conto della sua anima, che esalta l’apparenza a scapito dell’interiorità.

E questa realtà è sempre più estesa, Si avverte e si sente il bisogno di un ritorno alta spiritualità che eleva l’Uomo datte cose materiali e lo rende libero e pronto per la sua missione terrena.

Altro che intelligenza Artificiale! Sono i valori, te virtù, la qualità e le azioni dell’Uamo che faranno sempre la differenza. Ecco perche il nostro cornpito è stato, è e sarà sempre que\lo di operare nei nostri templi per far “ri-nascere” uornini migliori in grado di sviluppare a fondo {a propria spirit’uajit.à nel percorso iniziaticomassonico e di mettere il proprio talento acii„ sposizione di tutti, per il Bene Comune. Uomini fratetii degli uomini, saggi maestri di vita e luminosi esennpi di Tolleranza, Solidarietà, Amore.

Esseri coscienti in grado di affrontare con coraggio il presente e il futuro, irruent.o sviluppo deil*lntelligenza Artificiale con la forza e la piena consapevolezza che nulla, Ina pron prio nulla, d’importante si crea e si conclude senza l’uomo presente con il suo genio, il suo sguardo, il suo cuore, la sua personale unicità a rendere straordinaria la Grande Opera della vita.

Stefano Bisi

Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia

Palazzo Giustiniani

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IL SIGNIFICATO SIMBOLICO DEI TRE ASSASSINI DI HIRAM

Il significato simbolico dei tre assassini di Hiram Abif

Il significato simbolico dei tre assassini di Hiram Abif costituisce una valenza fondamentale nella nostra vita di iniziati. La figura dei tre assassini è elemento centrale nella leggenda di Hiram Abif, base del terzo Grado in Massoneria e primo punto di approdo del percorso massonico.

Perché è così importante la figura dei tre assassini? Comprenderne il ruolo è cosa indispensabile al fine dell’interiorizzazione del Grado di Maestro Massone. Questo Grado si differenzia in modo sostanziale dai primi due. Se possiamo infatti dire che il Grado di Compagno sia conseguente a quello di Apprendista, continuandone e sviluppandone i significati in una chiara e palese progressione logica, il Grado di Maestro rompe gli schemi, puntando su vie nuove, su aspetti che fino a quel momento erano restati solo accennati. La morte, che fin dall’iniziazione ci viene presentata, sotto forma di “memento mori”, col teschio nel gabinetto di riflessione, nell’Elevazione al terzo Grado diviene tangibile, palpabile. Non c’è più un accenno moralistico e rappresentativo della fine della vita, c’è una morte violenta, truce e tragica. Ci viene raccontato un omicidio odioso, ancor più odioso in quanto ingiusto e determinato da stupida ambizione.

La prima domanda che mi feci, la sera stessa della mia Elevazione, fu: perché? Che necessità c’è di una leggenda così forte nella via iniziatica della Massoneria? Analizzando la leggenda, leggendola e rileggendola ho cercato di comprenderla a fondo, di coglierne il significato andando oltre il velo superficiale che lo nasconde. Mi sembrava che gli assassini dovessero rappresentare i vizi e Hiram la virtù, che si narrasse la lotta tra il bene e il male, tra il bianco e il nero che ogni volta vedevo sul pavimento dei nostri Templi Augusti. Questa interpretazione si adattava alla narrazione ed era confermata inoltre dalle parole del rituale stesso. Eppure non mi convinceva. Ero sicuro della giustezza delle mie osservazioni, ma ero altresì certo che ci fosse un altro modo di vedere le cose. Un aiuto insperato è venuto dal rituale di passaggio al secondo Grado. In esso sta scritto che nulla di ciò che esiste è estraneo alla Libera Muratoria.

Mi chiedevo come ciò fosse possibile. Una visione dualistica delle cose, come quella manichea, impone una scelta fra gli opposti. Se concepiamo l’esistenza di due assoluti come il bene e il male, la virtù e il vizio, il bianco e il nero, ci si pone l’obbligo morale di scegliere l’uno o l’altro. Se così fosse la Massoneria non potrebbe tutto comprendere come dice. Non si può essere nel bianco e nel nero contemporaneamente. Dunque il pavimento non è simbolo di dualismo, ma dell’unità degli opposti che pur presentandosi come forme diverse non possono che essere una sola cosa e quindi uniti. Per questo l’iniziato si muove sul limite tra la piastrella bianca e quella nera. Virtù e vizio divengono quindi solo indicativi, non più di due assoluti, ma di due forme che l’iniziato usa come fari per dirigersi sulla strada che conduce oltre le forme stesse.

Gli assassini non potevano quindi essere l’incarnazione del male, o, meglio, lo sono solamente in quanto simboli, in quanto forme. Il male in sé, come essenza e realtà tangibile, non esiste e quindi non può essere incarnato. Stessa cosa vale per il bene.

Tornando alla leggenda e al ruolo dei tre assassini possiamo dire che essi rappresentano una parte di noi tanto quanto il Maestro Hiram Abif. Se Hiram è la parte più nobile del nostro Spirito, essi sono gli istinti più bassi, le pulsioni della bruta emotività animale. Ciò che però fa più riflettere è che sono utili, anzi, necessari. L’utilità è una delle cose più importanti nel percorso massonico. A differenza di altre vie, come quelle religiose, la Massoneria si pone come percorso di perfezionamento attraverso un lavoro su noi stessi. Per farlo abbiamo bisogno di agire usando gli strumenti che la Liberia Muratoria ci dona. Ciò che vediamo nel Tempio non è mero simbolo, ma reale attrezzo, strumento di lavoro. Se uno strumento è inutile al perfezionamento, non va mantenuto, ma gettato. Dopo secoli la Massoneria ha raggiunto il giusto equilibrio nei suoi rituali tra la semplicità e la complessità degli strumenti tanto da non dover più pensare a cosa scartare, ma la stessa cosa non vale per noi.

Ognuno di noi ha degli aspetti, dei desideri, delle ambizioni o anche solo delle piccole manie che a nulla gli servono e che magari lo mantengono fermo, immobile. A volte perfino ciò che ci può sembrare il massimo apice della nostra scala può divenire in realtà la fine della nostra evoluzione. La soddisfazione si può trasformare in auto glorificazione fino a farci dimenticare che il percorso non è finito, ma continua senza sosta. Questo aspetto è ben rappresentato dai numeri pari nei tarocchi. Il quattro significa stabilità, ma anche staticità. Il limite tra le due cose è lieve e facile è finire dalla parte sbagliata.

Ecco dunque che proprio quando eravamo divenuti esperti delle scienze liberali, conoscevamo gli stili architettonici e il pensiero dei grandi saggi dell’antichità, quando avevamo imparato a usare i nostri sensi per creare il bello, quando, insomma, ci poteva sembrare di essere divenuti dei Maestri, la nostra morte (perché non va dimenticato che noi siamo Hiram) pone fine a tutto ciò per regalarci una vita nuova. Ma in questo processo non tutto si salva. La Parola è perduta. Perché? Semplicemente perché non serve più. Il nostro percorso è una continua morte e rinascita, un continuo abbandonare parole e idee che non fanno più parte di noi, che non sono più utili alla nostra crescita, per cercarne delle nuove, più grandi, più forti. Hiram giunge al suo massimo punto di grandezza con l’edificazione del Tempio di Salomone. Cosa avrebbe potuto realizzare di più grande? Nulla. Ecco perché la morte lo reclama, ecco perché egli diviene leggenda. Perché la sua fine, la fine della sua vita in questo mondo, lo porta in un piano superiore dove può ricominciare essendo ciò che ha raggiunto ormai fatto e scontato. Se non fosse morto la sua persona, la sua gloria sarebbero divenute solo effimere ombre di ciò che erano, sarebbero decadute poiché una volta raggiunto il massimo grado due sole cose sono possibili: decadenza o morte. Naturalmente all’iniziato non è richiesto di morire fisicamente, ma di abbandonare la propria identità attuale per una nuova, per divenire più perfetto.

Hiram Abif viene ucciso perché la morte dell’iniziato è sempre in qualche modo violenta. Abbandonare ciò che ci trattiene è spesso faticoso e accompagnato da sofferenza. È difficile abbandonare le cose e le idee che ci rendono sicuri, felici di quel che siamo. È necessario quindi divenire assassini di noi stessi, usare violenza su di noi distruggendo quel che siamo per divenire altro, per ricostruire un nuovo edificio più grande e glorioso di prima.

Anche su questo aspetto la riflessione non può procedere per assoluti. Si deve valutare la possibile ambivalenza di ogni cosa, la sua capacità di simboleggiare e significare più aspetti, più sfumature. Come si può infatti dire che ambizione e orgoglio sono sempre negativi? Non è ambizione il desiderare il proprio miglioramento? Non è orgoglio il pensare di poter raggiungere l’obiettivo prefissato? Non è forse l’orgoglio che ci trattiene spesso dal cedere al vizio per mantenere la nostra onorabilità, la nostra dignità? Ciò che dobbiamo evitare è permettere che tali vizi divengano i nostri padroni, che possano distruggere il nostro percorso, il nostro miglioramento in nome dell’autocelebrazione e della soddisfazione del nostro bisogno di riconoscimento. Al contempo sono proprio l’ambizione di elevarsi e l’orgoglio di esserne degni che ci spingono ad affrontare le difficoltà e le prove per superarci. Dove sta il limite, la differenza? Sta nella misura. Del resto basta dare un’occhiata veloce alla simbologia massonica per vedere come molti dei simboli richiamino in diverso modo la misura stessa. Basti ricordare il compasso che misura e riporta le misure di angoli e distanze, il regolo, la riga, la squadra: tutti attrezzi che pongono limiti e danno la precisa grandezza delle cose. È dunque la mancanza di misura, in eccesso o in difetto, che porta certi aspetti dell’uomo a divenire vizi. Se un uomo non ha ambizione non può crescere, semplicemente perché non lo desidera. Se ne ha troppa si lascerà trascinare dal desiderio, dall’emozione che lo porterà a volere titoli e onori senza merito e soprattutto senza comprensione.

I tre assassini sono quindi dannosi o utili in virtù di quanto noi li valutiamo, di quale misura il nostro ego dà loro e dell’importanza che essi assumono per noi. Essi divengono orribili aguzzini che uccidono l’iniziato quando il vizio prende il sopravvento, ma divengono strumento di auto modificazione se sappiamo usarli come e quanto serve. Oterfut, Eterkin e Mohabon dunque sono lo strumento principale della nostra crescita. Dobbiamo conservarli dentro di noi, saperli usare quando ci servono e cacciarli quando sono dannosi. L’iniziato deve imparare a non attaccarsi all’esteriorità e all’aspetto, per quanto bello, di ciò che ha raggiunto, ma deve cercare di migliorarlo anche a costo di distruggere completamente ciò che ha fatto.

Anche sull’utilità, come dicevo prima, ho riflettuto parecchio. In particolare mi sono chiesto a cosa servisse la leggenda e in particolare i tre assassini per la mia crescita. Purtroppo, o forse per fortuna, la vita profana (sempre che veramente esista la profanità per un iniziato), mi ha messo davanti a delle prove forti, in cui ho dovuto abbandonare le idee che avevo prima, ho dovuto rendermi conto che il mondo non era come l’avevo pensato fino ad allora. Queste esperienze sono state spesso improvvise come delle slavine e le ritrovo molto nell’assassinio di Hiram e nella sua rinascita simbolica. Una delle esperienze, positiva questa, che mi ha costretto a cambiare parametri e misure di giudizio è stata la mia permanenza in Africa. Prima di andare avevo un’idea forse buonista e idilliaca del continente nero, avevo tante belle ideologie a tal proposito che si sono rivelate semplicemente errate al confronto della realtà.

L’amore viscerale che ho per l’Africa e per l’Etiopia in particolare è potuto nascere solo grazie allo sforzo di distruzione che ho dovuto fare su me stesso per eliminare i miei pregiudizi e sostituirli con dei dati di fatto non inquinati da ideologie e credenze errate. Anche grazie a questo ho potuto avere una visuale non canonica sulla leggenda di Hiram. Me ne rendo conto ora, a due anni di distanza, perché le esperienze e le parole della leggenda hanno dovuto maturare lentamente dentro di me. Oggi, in tutto quello che faccio, cerco di valutare la situazione e soprattutto di capire se veramente il mio essere è in sintonia col mondo in quel momento o se invece devo abbattere e ricostruire o magari solo limare un po’ gli spigoli. Di sicuro non do più nulla per scontato, non interpreto i fatti semplicemente attraverso i miei schemi predefiniti. Se mi accorgo di avere certezze assolute, pregiudizi di ogni sorta, cerco di abbatterli anche se a volte mi costa, se per far questo devo ricredermi su cose che mi rendevano più sicuro, tranquillo o anche se per ricostruire devo prima ammettere la mia iniquità e il mio errore. Questo è forse l’aspetto che più ho fatto fatica ad apprendere. Ho faticato ad accettare l’arrivo dei tre assassini forieri di morte, ma anche della certezza del mio torto e della possibilità del superamento. A questo si è sommata certamente la paura dell’ignoto, del vuoto lasciato dal crollo e dall’incertezza della ricostruzione. Continuo a faticare, continuo ad aver paura, ma sempre più, soprattutto grazie al percorso massonico, riesco ad accettare quello che forse è inevitabile e che sicuramente è utile e necessario alla mia crescita.

In questo io trovo l’utilità dei tre assassini, li ritengo una parte di me e forse, anche se primitiva, bestiale, violenta e irrazionale, una parte dotata di una sua nobiltà data dalla funzione distruttrice, ma anche in certo qual modo salvifica.

Ho impiegato quasi due mesi a scrivere questa tavola. Solitamente impiego molto meno: il tempo di fare le opportune ricerche su libri vari, meditarle e rielaborarle per esprimere la conoscenza del grado che avevo. Per questa non ho fatto ricerche. Non sui libri. Ho riguardato i rituali, ovviamente, ma a poco mi è servito. Quel che mi serviva lo sapevo già. La fase difficile è stata la ricerca interiore, il tentativo di capire, perché conoscere e comprendere sono cose ben diverse. Per la prima basta leggere dei buoni testi, per la seconda bisogna impegnarsi nella riflessione e nella ricerca interiori. Non so se ho compreso, non sta a me dirlo, ma sicuramente ho fatto un piccolo passo in quella direzione capendo come dovevo agire. In passato alcuni Fratelli, che ringrazio moltissimo, mi hanno criticato dicendo che i miei interventi e le mie tavole soffrivano di accademismo. Avevano ragione.

Pensavo che bastasse conoscere simboli e rituali per sapere cosa fosse la Massoneria. Non è così e, anche grazie alle critiche ricevute, ho cambiato visione. Fare una tavola del tenore di questa è per me molto più faticoso che fare ricerche dotte citando autori esimi.

Spero di essere riuscito nella mia impresa.

Enrico Proserpio

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CATTOLICI E MASSONERIA

Cattolici e Massoneria ovvero la scomunica dei Massoni

Su Civiltà Cattolica del 19/11/1974 (anno 125 – quaderno no 2984), a pagina 159, viene riportata la lettera del Cardinale Seper inviata ai presidenti di alcune Conferenze Episcopali.

Redatta in latino in data 19/7/1974 essa dice:

molti vescovi hanno interpellato questa Sacra Congregazione circa la portata e l’interpretazione del Canone 2335 del codice di Diritto Canonico il quale, sotto pena di scomunica, proibisce ai cattolici di iscriversi alle associazioni massoniche o altre associazioni del genere …” e prosegue.

Ora io non voglio parlawi del problema sollevato dalla lettera del Cardinale Scper, che in verità riveste una specifica posizione in Seno alla Chiesa Cattolica, né dell’importanza dogmatica che può avere per noi una bolla di scomunica; questo perché credo essere di estrema validità quella grande verità detta dal Cristo: “chi veramente crede sarà salvato”.

Ed allora, se la Chiesa Cattolica sente ora il bisogno di rivedere le sue posizioni verso la nostra Istituzione, se oggi per la Chiesa di Roma i Massoni non sono più quei nemici che ha sempre, e sino ad oggi, dichiarato essi siano o siano stati, quale valore dogmatico può avere la scomunica e quale l’infallibilità di chi Iha pronunciata?

La lettera dell’eminente prelato ammette che ‘ .. quanto noi sappiamo oggi della Massoneria non consente più accuse indiscriminate, né processi portati avanti sulla base di luoghi comzmi ..

Questa dichiarazione ammette implicitamente che accuse e processi passati furono portati avanti sulla base di luoghi comuni e sulla scorta di conoscenze puramente superficiali. No comment.

Ciò nonostante la posizione non cambia, pur dando atto di un errore di valutazione, poiché essa ammette implicitamente una diversità fra le stesse associazioni massoniche, come se il Massone europeo fosse differente da quello asiatico, da quello americano, da quello africano. Ed aggiunge la lettera che giudicare di esse, associazioni massoniche, spetterà, per quanto riguarda la condotta dei cattolici, alle autorità religiose dei singoli paesi.

Come ciò sia possibile a me sembra essere cosa arcana. Come possa il Nunzio Apostolico del paese “X” dire che il cattolico massone sia da mettere all’indice quando il suo collega del paese “Y” decide di poter andare a braccetto con lui? Per una associazione iniziatica o si è o non si è; infatti noi o siamo Massoni o siamo profani. Come può dunque essere caro alla Chiesa Cattolica il Massone del Mozambico e non quello del Canada?

Questa posizione, a mio avviso, maschera un tranello, ha in se una certa ambiguità. Non è questo il problema con cui si debba cercare di salvare capra e cavoli. O i Massoni, per la loro posizione specifica, per la loro qualifica, per il segreto che li circonda, per le accuse cui sono stati oggetto, per la loro posizione umanistica, pcr il loro specifico atteggiamento di ricerca, per la loro accettazione ampia di calore umano, per il loro scetticismo dogmatico, sono dei buoni elementi per la Chiesa oppure sono seguaci di Satana che vogliono sconvolgere il cielo.

. Possono esistere ed esistono di fatto delle associazioni massoniche le quali nulla hanno di cospiratorio contro la Chiesa e contro la fede dei loro membri cattolici …”. Dunque ancora esistono per la Chiesa dei Massoni di serie “A” o di serie “B”. Esiste sempre una differenziazione.

Come possa esistere una tale situazione è un mistero. Non sono i Massoni proiettati verso la ricerca della Luce? Perché questa Luce non possa essere raggiunta attraverso le indicazioni del Cristo, per i Massoni cattolici, o quelle del Nirvana, per gli orientali, questo è un mistero inconcepibile. Non ha forse Cristo stesso indicato nella fcdc più pura il suo raggiungimento? E allora come può il Massone cattolico essere un nemico potenziale di questa fede quando in essa può identificare il suo intento? Un luogo comune dice: “le vie del Signore sono infinite”. Luogo comune di grande saggezza perché ogni essere umano può scegliere la via che più gli è consona per tale finalità.

Se possono esistere delle associazioni massoniche che non siano cospiratrici contro la Chiesa, quale valore può avere una scomunica generica? Se ne deduce che essa è stata, in illo tempore, dettata non da fini fideistici o morali, ma solo da timori temporali. Si ricade quindi nella scomunica politica che il fascismo o altre correnti politiche hanno comminato o comminano nei nostri riguardi perché non possono controllarci.

Diventa pertanto palese chc un valore morale della scomunica pontificia verso i Massoni cattolici non ha alcun significato e ciò è chiaramente dichiarato nella lettera del Cardinale Seper poiché viene confermato nel punto cinque delle considerazioni: come devono regolarsi coloro che finora si consideravano ed erano considerati scomunicati per il solo fatto di essere iscritti alla Massoneria? Nessuno meglio di loro, in coscienza ed in piena lealtà, può giudicare della natura e dell’attività del gruppo massonico cui appartiene. Se la sua fede di cattolico non vi riscontra nulla di sistematicamente ostile e organizzato contro la Chiese ed i suoi principi dottrinali, morali, eccetera, egli può rimanere nell’Associazione “. E chiaramente una dichiarazione di decadenza della scomunica, anche sc non confortata da una bolla pontificia.

Questi commenti, se pur oggettivi, se pur nati da un’antica convinzione che la Massoneria può c deve esistere a fianco di ogni fede, deve tollerare in sé, promuovere in sé, il continuo confronto di ogni ideologia, di ogni credo, di ogni tendenza, sempre espletato nella più libera considerazione della libertà umana, questi commenti alla lettera del Cardinalc Seper non hanno fatto che confortare il mio pensiero di Massone cattolico.

Ed ancora, se il sottoscritto Massone può ancora avvicinarsi al confessionale tacendo l’anatema della sua posizione, se può avvicinarsi alla mensa divina senza alcuno scrupolo per la sua appartenenza alla Famiglia Massonica, questo è tutto chiarito nei commenti alla Icttera del Cardinale Seper, solo perché la sua coscienza lo ritiene degno; orbene Fratelli miei quale significato può avere la scomunica della Massoneria?

Fra di noi può benissimo esserci, o esserci stato, chi ha seguito in nome massonico spirituali non concepiti ortodossi dalla Chiesa, ma se egli li reputa validi può tacerli ed accostarsi al pane divino. Si ricade qui in una assoluzione generica dello stesso valore della scomunica generica.

A questo punto non riesco più a capire quale sia la posizione del Vaticano. Basilare per un buon cristiano è il pentimento della mala azione, la sua sincera confessione; però io, Massone, reputo il mio agire, anche se difforme dai dettami cattolici, perfettamente aderente al credo e tranquillamente mi avvicino alla particola divina.

Sarà questione di coscienza, sarà superficialità, sarà persuasione mia, ma non può giustificare la linea di condotta di una istituzione che si definisce iniziatica.

Iniziatica è una scuola che indirizza su basi ben definite, secondo determinate concezioni e finalità. Ora se la condanna comminata agli iniziati è basata su fatti e concetti ben definiti essa è valida oggi quanto era valida ieri, a meno che il colpito vada a Canossa.

Ma se oggi si sente il bisogno di rivedere una posizione presa, se oggi si sente la necessità di dichiarare che certi fedeli possono, pur mantenendo intatta la loro posizione, rientrare in seno della predetta scuola iniziatica, se si lascia ad essi stessi l’opportunità di valutare il fallo per cui, allora, sono stati colpiti, ebbene ciò vuol dire che l’errore, l’eresia, non sussisteva,

Ecco dunque o Fratelli quale per me è il valore che ha sempre avuto la scomunica papale nei confronti della Massoneria e mi auguro che l’apertura iniziata dal Cardinale Seper porti abbondanti frutti permettendo che profani, tutt’ora legati da posizioni fideistiche di fedeltà, possano vedere in noi quell’alternativa, quel completamento cui anelano.

Durante l’inaugurazione della casa massonica di Aosta, il Gran Maestro Lino Salvini riferì che in una riunione, non so più dove e a quale livello, vide che sull’Ara erano contemporaneamente posati diversi libri sacri, salvo quello cattolico. Ebbene auguriamoci che questa apertura faccia si che agli altri libri si unisca anche il Vangelo.

6 dicembre 1974 dell’e.•. v

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CHI ERO, CHI SONO, CHI ….

Chi ero, chi sono, chi …

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

questa mia tavola è il tentativo di analizzare, attraverso la introspczionc, il mio passato nell’Istituzione al fine di verificare, se possibile, il cammino percorso dal lontano 1962.

Essa è nata in un momento particolare, momento che ha sollecitato la verifica cosciente che desidero portare a voi tutti.

Non presumo, nemmeno per un istante, che possa. essere un modello didattico che la mia deformazione professionale potrebbe mettere in luce, né, tanto meno, un atto di presunzione; è soltanto ciò che una sera ho sentito e che tento di comunicare.

Tra il mezzogiorno e la mezzanotte di una recente tornata, mentre il carissimo Fratello Mario esponeva una sua tavola, il pensiero mi prese la mano, come un cavallo imbizzarrito, c mi costrinse a ripercorrere il tempo.

Ricoprivo la carica di Secondo Sorvegliante proprio mentre il Fratello Mario scolpiva un suo lavoro e mi ricordo che alcune sue osservazioni non erano gradite al mio sentire e mi arrecavano un senso di disagio.

Non ero dunque allora disponibile ad accettare un mio Fratello, con i suoi pregi, con i suoi difetti, con le sue convinzioni e forse lo respingevo, allontanandolo dal partecipare al mio convivio spirituale.

Certamente un schermo, una paratia, era calato a separare il mio dal suo lavoro di ncerca.

Le nostre vie erano assolutamente diverse anche se tendenti ad uno stesso fine; e ciò non è un male, non è il lato negativo; mentre è assolutamente grave il fhtto che io fossi recalcitrante nell’accettare, nel tollerare, nell’essere veramente Fratello.

La mia vita cingeva il grembiule del 3 0 grado, ma inopinabilmente la maturazione mia non era quella che si addice al Maestro; nel profondo del mio “io” ero certamente ancora carico di metalli.

Lungo la via della ricerca il passo era ancora incerto, pesante, faticoso, come quello dell’atleta che stenta nel coordinare e rendere sincrono il respiro e il movimento.

Molti gli ostacoli da superare, ma in primis occorreva liberarsi da quello che più di ogni altro si oppone alla ricettività, quello che spinge l’uomo a rinchiudersi nel suo bozzolo, quello che fa sollevare gli scudi e gridare allo scandalo: “la supervalutazione di se stessi”; la mancanza di umiltà, di carità, il peccato di vanagloria che spinge al compiacimento di noi stessi, il rifiutare amore all’umanità.

E tutto ciò è segno di ignoranza che caratterizza nell’individuo le stigmate di una inferiorità psichica e psicologica, tanto da renderlo giustamente inviso ai propri simili.

IO, il Fratello Augusto, colui al quale l’Officina aveva affidato il compito di sorvegliare e garantire la bellezza del lavoro, ero confinato in questa profonda prigione del vizio.

Non ero ancora riuscito a concepirc che da ogni parola, da ogni gesto, dall’agire dei miei Fratelli, convinti, entusiasti e pieni d’amore, si partiva un messaggio, veniva lanciata la gomena che il naufrago anela ricevere.

Tutte queste riflessioni arrovellavano la mia mente e pesavano sul mio cuorc mentre il Fratello Mario leggeva ed illustrava col suo dire.

Ma quella famosa sera, durante la veloce introspezione, ho rivisto l’iter della mia vita nell’Istituzione e mentre progredivo nel tempo sentivo che il concerto nascente dall’armonia del lavoro nell’Officina diventava sempre più gradito al mio udire; sentivo

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che le emozioni provate dai Fratelli miei erano sempre più le mie emozioni, provavo gli stessi entusiasmi, concepivo gli stessi dolori, le medesime frustrazioni, le esaltazioni c le gioie, mentre il cosmo del tempio perdeva ogni dimensione temporale e svaniva nell’intangibile.

Questo novello “status” che colmava, se pur in esasperante lentezza, gli spazi imperfetti del più intimo essere mio, donava a tutto me stesso una nuova dimensione sulla concezione dell’essere, del vivere, del porsi nei confronti del prossimo, dal più intimo al più remoto; dimensione che si faceva sempre più aderente a quei canoni di fratellanza, di uguaglianza, di tolleranza che da soli dovrebbero governare la pace spirituale e materiale dell’Umanità.

Oggi, nel rivolgermi a considerare il cammino percorso, nel constatare la gravosa imperfezione che ancora regna nel mio “Tempio”, rivedo la desolata plaga che fu la base di partenza del mio viaggio, riconosco le tappe chc diedero fiato al mio cammino furono solo oasi ristoratrici -, prendo coscienza che l’orizzonte si è appena fatto più vasto ed in me sento fremere un quid che mi sollecita, che mi sospinge, chi mi pungola, che mi si rivolge in un continuo sussurrio di suoni, a volte intangibili, a volte arcani.

Forse ora sono più fratello, poiché riesco a balbettare nel lavoro comunitario cercando di comunicare, di recepire, di analizzare, di comparare, ma Io sono soprattutto per la presa di coscienza di una prima realizzazione, quella che mi consente di riconoscere i miei simili come fratelli, come coloro che con me necessitano dell’opera altrui, come coloro che con me anelano lavorare nella totalità degli insiemi al solo fine di realizzare sempre più profondamente ed intimamente se stessi.

“La gloria di Colui che tutto muove” vuole l’Umanità scientemente avvinta dal vincolo della discendenza divina e tendente con costante ascesa verso la costruzione del Tempio, di quel Tempio che dal singolo trae le pietre erigenti, ma che dalla fraterna operosità trae quelle angolari che rendono incrollabile la costruzione.

Fui Apprendista, sono Compagno, cingo il grembiule di Maestro, riuscirò ad esserlo veramente? Saprò unirmi al coro degli eletti che percepiscono imminente la Luce?

Forse un giorno!

Quel giorno mi dirà la tua mente è vicina, la pace dello spirito è in te, la conoscenza ti appartiene.

Quel giorno sarò Maestro.

Che il Grande Architetto dell’Universo guidi il mio agire e voglia mantenere in me la sua immagine sempre meno latente, sempre più viva e splendente.

Anno Massonico 5985 di V L

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