Anche se il pomeriggio era ormai inoltrato, faceva ancora
parecchio caldo e a Kim sembrava che il Maestro fosse non solo stanco, ma
alquanto sofferente.
Avevano camminato quasi tutto il
giorno, un giorno afoso e soffocante troppo per non essere ancora in piena
estate.
Il Maestro, poi, non aveva quasi
mangiato né bevuto. « Come faceva » — si chiedeva Kim che, al contrario, gli
stimoli, anzi i ruggiti dello stomaco li sentiva e come.
Sant’uomo, il Maestro, ma sempre
tanto assorto in chissà quali pensieri da non vedere mai o quasi mai la
ciotola, generosamente offerta, colma di riso e di altre buone cose, o un bel
cesto di frutta da buttarcisi su a piene mani e bocca.
Queste cose, il Maestro non le vedeva, come non vedeva un ciottolo o una radice
sporgente, da evitare, in mezzo al sentiero. « Se non ci fossi io » si diceva
Kim « quante volte il Maestro sarebbe inciampato, quante sarebbe caduto? E le
sue povere ossa non sarebbero andate a pezzi?
Però… era strano: il Maestro, che non vedeva
tutte queste cose, ne vedeva, o meglio ne sentiva o ancor meglio ne « sapeva »
tante altre. Come quella volta che lui, Kim, di nascosto, un mattino, aveva
accettato un pane grosso così, farcito di tante buone cose, e di nascosto — per
necessita prossime future — lo aveva riposto nella sacca che si portava sempre
a tracolla. Più tardi, sentendo quei soliti ruggiti già alla bocca dello
stomaco, arzigogolava come fare a tirarlo fuori. E il Maestro, tutto ad un
tratto, mentre continuava nel suo cammino: « È buona cosa per te mangiare, ne
hai ancora bisogno, tu. Bisogna dare nutrimento al corpo perché da un corpo
sano trae giovamento anche lo spirito e uno spirito rafforzato potrà più
facilmente trovare la Via. Ecco: adesso ci fermiamo e tu, figliolo, mangiati
sereno il tuo buon pane A quel buon pane non era stato per niente difficile, a
Kim, far trovare la via, giù verso lo stomaco affamato.
29
E anche quell’altra volta… Faceva molto caldo
anche quel giorno; erano arrivati sulle sponde di un piccolo lago e Kim moriva
dalla voglia di buttarcisi dentro per rinfrescarsi, ma gli sembrava
sconveniente e poco riguardoso piantare lì il Maestro, spogliarsi dinnanzi a
lui e correre via a farsi una bella nuotata. E anche quella volta, ecco, il
Maestro: « Che buona acqua! Certo non si dispiacerà se tu te ne rinfreschi.
Perché non fai quella buona e sana nuotata che tanto desideri? Vai, figliolo,
vai! Io mi siedo qui e anch’io mi rinfresco ».
Il Maestro, si diceva, Kim, leggeva in lui come in un
libro; « vedeva » i suoi pensieri, i suoi desideri, come « vedeva » le pene,
gli affanni, le gioie, i dolori e le ansie delle persone che incontrava e che a
lui si rivolgevano per averne sollievo, conforto, partecipazione, perché anche
le gioie, quando sono grandi, devono essere spartite.
Mentre così rimuginava fra sé e sé, Kim con il
Maestro si era avvicinato ad un grande albero e Kim pensava che si sarebbero
dovuti fermare.
« Oh! che buon albero. Certo non si dorrà se godremo un po’ della sua ombra e
del fresco che le sue buone fronde ci regaleranno ». « Meno male! » si disse
Kim, che continuava ad essere in apprensione per la salute del suo Maestro, che
vedeva più stanco e sofferente.
Kim, pratico di cose pratiche, con qualche
manciata di muschio aveva fatto una specie di giaciglio sul quale il Maestro
potesse riposare.
Il Maestro si era adagiato e ora teneva gli occhi
chiusi; così fermo, così pallido, a Kim sembrava morto e Kim si era sentito il
cuore farsi piccolo come una prugna secca. Solo osservando attentamente il
Maestro, ne aveva visto il petto Sollevarsi per una quasi impercettibile
respirazione. Il sospiro di sollievo di Kim era stato così grande da sembrare
una folata di vento.
« Ma davvero il Maestro sarebbe potuto morire? »
si chiedeva Kim. « Quanti anni aveva? Ottanta, cento, cinquecento? Forse non
aveva età. Forse era nato da sempre e da sempre era così, con capelli lunghi e
bianchi, con barba lunga e bianca, il volto che sembrava
« Parola bella! Ma vedi, anche con la parola
“fratello” si pensa ad un legame di sangue, che non necessariamente
comporta affetto ed aŒnità di sentimenti. Trovi famiglie in cui le vite di due
fratelli corrono parallele, ma non SI incontrano mai né lo desiderano. Ognuno
per la sua strada, con il suo carattere, la sua indole, i suoi particolari
interessi, come estranei pur portando ognuno in sé qualche cosa dell’altro. Ma
non lo sentono; sentono invece di esser pronti a sbranarsi per un fazzoletto di
terra ricevuto dai geni. tori. Guai alle strade fraterne che si incrociano in
tale modo! ». « Non gli va bene niente, oggi » pensava Kim « E amico? » provò a
dire.
« Parola ricca! Non ha legami di sangue, L’amico non ti viene dato, non te lo
trovi per volontà altrui. L’Amico si sceglie. Ma che scelta difficile! Pronti a
sedersi alla tua tavola imbandita, a condividere il tuo stato di ricchezza, di
potere, di gioia, ne trovi tanti di amici. Ma quando tu fossi malato ed in
miseria, quanti di quegli amici si ricorderanno di te? Troveranno ancora tempo
e voglia per venire a curare le tue piaghe, per regalarti un sorriso, una
parola di conforto? Amici ce ne possono essere tanti, di veri pochi, come pochi
sono i veri Maestri. Forse l’Amico è Uno solo, quello che è anche Fratello, che
è vero Padre e che è il vero Maestro. C’è, ma la via per trovarlo è lunga e
difficile.
Attento, dunque, figliolo, alle parole. Possono essere
solo vento. E non usarle come un vestito. Un vestito può essere indossato da
tutti e a tutti può essere regalato. Se è bello, ognuno che lo indosserà, ne
sarà fiero, se ne pavoneggerà e se ne sentirà gratificato. Ma anche il più bel
vestito, se non se ne avrà avuto cura, si macchierà, si sciuperà, andrà in
pezzi e brandelli. Di quel bel vestito, allora, non resterà nulla se non avrà
racchiuso qualche cosa di importante, se non avrà significato veramente qualche
cosa ».
Nel pomeriggio ormai volto al tramonto, seduto all’ombra
del grande albero, Kim aveva una grande confusione in testa e non gli riusciva
di comprendere proprio tutto quello che il Maestro gli aveva detto.
Quello che sapeva, e con sicurezza, era che a quel
sant’uomo, comunque lo potesse chiamare Maestro-Padre-Fratello-Amico, voleva
un gran bene e, dicesse pure. cose che ora gli riuscivano
più buie della notte, gli avrebbe voluto sempre bene e vederlo ora più riposato
e più in salute, gli dava tanta gioia, tanta che avrebbe voluto cantarla.
« Lascia cantare gli uccelli. Ascolta! Ascolta il loro
cinguettare, ascolta Io stormir del vento tra i rami di questo buon albero.
Ascolta. Anche se non li puoi chiamare con un nome, essi sanno i cori che vanno
eterni fra la terra ed il cielo, Essi, forse, hanno trovato 1a Via!
34
scavato nella corteccia di albero e quegli occhi! ».
Kim era convinto che nessuno al mondo avesse occhi come il suo Maestro: del
cielo avevano il più limpido azzurro e la serenità quale solo l’aurora può
dare. In essi ci si poteva smarrire in un infinito di pace.
Anche le sue parolc davano pace. A dir la verità, non
tutte erano chiare. A volte Kim non le capiva proprio. Il Maestro non se ne
inquietava; aveva tanta pazienza il Maestro! « Vivi, vivi, figliolo, un giorno
capirai, comprenderai ed allora anche tu troverai la Via. Un giorno, senza che
tu ci abbia pensato troppo… quasi all’improvviso… le cose ti saranno
chiare. Sì, senza pensarci. Ma… bisogna volerlo. Volerlo
Kim non aveva ancora ben capito cosa fosse questa «
Via » da cercare e da trovare. Oh! , di vie e di strade ne aveva percorse tante
con il suo Maestro, e tante ne aveva smarrite, per poi ritrovarle, a volte con
parecchia fatica. Il Maestro gli diceva di non preoccuparsi: « Col tempo… col
tempo… ».
Kim riconosceva
di dover al suo Maestro se, tutto solo come si era trovato ancora fanciullo, da
certe strade, brutte, che avrebbe potuto prendere e sulle quali perdersi, si
era tenuto lontano.
Ma che cosa era la « Via »?
II Maestro, frattanto, col riposo sembrava star
meglio. Kim aveva molto temuto; e se il Maestro fosse morto? E fra tanti
pensieri angosciati, uno si era fatto strada, curioso ed assillante: ma come si
chiamava il suo Maestro?
Kim lo aveva sempre e solo chiamato così « Maestro » ,
ma un nome il sant’uomo lo doveva pur avere! Il Maestro lo chiamava « figliolo
» « caro figliolo » e in altri modi ancora, tutti tanto affettuosi, ma lui, il
« figliolo » un nome l’aveva: Kim e gli sembrava pure bello. E poi si sentiva
Kim! Ma il Maestro… senza un nome… Come lo avrebbe chiamato e ricordato,
anche agli altri, il giorno che il Maestro non ci fosse più stato? Doveva
chiederglielo al più presto.
Il Maestro aveva aperto gli occhi. « Stai meglio, Maestro?
Ti occorre qualche cosa. Un po’ d’acqua? ».
31
« Oh! per l’acqua c’è tempo. tempo invece per le tue
domande. Di’ pure, figliolo. È tempo giusto per parlare ».
« Maestro, come ti chiami? Quale è il tuo nome? » domandò
Kim, tutto d’un fiato.
« Ha tanta importanza un nome? Questo albero che ci regala
buona ombra, ha un nome? Non credo. C’è e non domanda altro che di essere,
così, senza un nome, come gli uccelli che giocano e cantano fra i suoi rami.
Gli uomini, sì, si danno un nome e forse ne hanno bisogno per soddisfare il
desiderio di vederlo scritto su un pezzo di carta, sulla porta di casa, sulla
loro tomba. Poi il pezzo di carta si brucia, la porta cade e la tomba si
ricopre di erbe. Ed il nome si smarrisce. Niente era prima e niente tornerà ad
essere, dopo. Un nome! Un po’ di fiato nel vento! Quello che c’è dentro di te,
quello, non sia fiato di vento! ».
« Ma io, un nome ce l’ho: Kim. Mi piace e mi ci sento dentro ». « Sì, Kim è un
bel nome e di Kim forse ce ne sono molti. Potresti confonderti con tutti gli
altri Kim ed esserne confuso. Attento! ». « Se non vuoi avere un nome, allora
continuerò a chiamarti Maestro » disse conciliante Kim.
«Non c’è maestro che non sia stato allievo, o discepolo, se
ti piace di più, e non c’è discepolo che non sia anche maestro. Tutti
impariamolo ed insegniamo allo stesso tempo e così tutti ci aiutiamo
reciprocamente o almeno così dovrebbe essere. Figliolo, tu fa’ che sia così e
più facilmente troverai la Via ».
« Sempre questa benedetta “via” » pensava Kim e
poi chiese: « Potrei chiamarti Padre? »
« Cosa vuol dire Padre? Abitualmente si dice padre colui
che ha generato una creatura. Non è il caso mio. E non è detto che questo procedere
fisico sia anche un procedere sulla via dell ‘amore. Sì, certo è una bella
immagine quella del padre che ha cure e premure per la creatura che ha
generato. Molto spesso, però, la vita ci presenta padri che non si preoccupano
affatto dei figli; a volte non sanno neanche di averli generati; altre volte
non lo vogliono ammettere; altre volte ancora se ne scordano bellamente. E il
legame del sangue tace ».
Chiedere bruscamente all’uomo che passa una definizione dei
tre termini equivale a non attendersi alcuna risposta.
Le intuizioni e le concezioni che si hanno del complesso
problema sono infatti tali e tante che è opportuno chiarire, a logica premessa
di quanto dirò, i punti di vista dai quali cercherò di affrontare le soluzioni.
Il psicologo, il filosofo, il credente e lo scienziato
guarderanno, ognuno con i propri occhiali professionali o intuitivi, le
rappresentazionl che si saranno costruiti di psiche, anima c spirito.
Diceva Jung, nel suo libro Il problema dell’inconscio nella
psicologia moderna, che « ognuno si ritaglia dal mondo il suo proprio settore
ed intuisce per il suo mondo privato il suo sistema privato, sovente con pareti
impermeabili, cosicché dopo qualche tempo gli sembra di avere compreso il senso
e la struttura del mondo ». È intuitivo che ciò è solo « sembrare » perché il
finito non comprenderà mai ciò che è infinito.
Occorre, a questo punto tentare l’impossibile, travalicare i
confini umani per cercare di indagare l’imperscrutabile, dimenticare che le
sole cose del mondo direttamente accessibili sono i contenuti delle esperienze
perché solo pochi avranno vissuto o potranno vivere esperienze di anima e
spirito.
Volutamente ho tralasciato la parola « psiche » perché su
essa mi soffermerò con una fede diversa da quella che mi anima nell’affrontare
gli altri due termini.
2. L’anima
Per Aristotele è il principio della vita, il principio
formale, l’atto, di qualunque organismo.
Per gli Stoici essa si identifica con il principio cosmico
che anima il mondo, il Logos o la Ragione Fuoco.
Nella Scolastica veniva considerata una sostanza semplice e
spirituale ma, sebbene sostanza per se stessa, destinata ad un corpo poiché,
separata da esso, era incompleta. Come sostanza semplice e spirituale essa era
ritenuta immortale.
Pitagora, Platone ed Origene pensavano che essa preesistesse
al corpo al quale si univa al momento della concezione.
Broad, infine, le assegnò un’esistenza indipendente dal
corpo perché esisterebbe tanto prima di esso quanto dopo la sua distruzione.
Ma che cosa è l’anima per un fratello? Un oracolo di
Zoroastro dice:
il numero tre regna dovunque
nell’universo, e la monade è il suo principio ».
Si può affermare che esso è la pietra angolare della scienza
esoterica attraverso la quale l’uomo viene veduto nella sua triplice veste di
corpo, anima e spirito.
Pitagora, forse il più grande degli iniziati, certamente il
più vicino a noi, intuì ciò in maniera incomparabile nella concezione della
Tetrade Sacra; i Padri della chiesa cristiana vi giunsero vicino ma si
lasciarono fuorviare dal buio medioevale del dogma dal quale ancora oggi
stentano ad uscire.
« Come il ternario universale si concreta e si condensa
nella unità di Dio e nella Monade, così il ternario umano si concreta nella
coscienza dell’io e nella volontà, che aduna tutte le facoltà del corpo,
dell’anima e dello spirito nella sua vivente unità » , scrive lo Schuré. Ma che
cosa è questa terza parte dell’uomo? Dove è iniziata la Monade?
« … Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra
somiglianza », recita la Bibbia.
I plurali « facciamo » e « nostra » lasciano chiaramente
intravedere che in Dio ci sono più Persone le quali intervengono a creare
l’uomo e stampano in lui la loro immagine. Non voglio con questo affermare che
noi rassomigliamo a Dio nel corpo in quanto Esso non ha corpo, ma credo che i
versetti vadano interpretati nel senso che Lui fornì all’uomo, oltre al corpo,
l’anima per poter in essa abitare e qualcosa di ancora più grande e puro.
Tutte le religioni, politeiste e monoteiste, hanno
intuitivamente avuto coscienza di questa idea.
Possiamo quindi definire l’anima una piccola parte della
grande Anima del mondo, una scintilla dello spirito Divino, una Monade
immortale.
Capire dove essa ha avuto inizio sarebbe come chiedersi
l’ora in cui si è formata la prima nebulosa o il sole ha irradiato la sua luce
per la prima volta.
Qualcosa dunque fa intuire ad ogni anima la sua origine
divina, quasi un inconscio collettivo le lega tutte insieme al loro Creatore
per cui in ciascun individuo, da[ più modesto al più illuminato intelletto,
esiste una certa aspirazione o il timore del divino.
Ma se il suo possibile domani è rivolto agli splendori
inesplorabili dell’Eterno Verità, la sua misteriosa origine la si può intuire
agli inizi della materia.
« … allora il Signore Iddio formò l’uomo dalla polvere della terra… »,
ma venuta dal cielo al quale aspira dopo la morte del corpo.
A questo punto sorge legittima la domanda: quale è la sua
fine? Un’ipotesi, credo non tanto fantasiosa neppure oggi per un fratello,
potrebbe essere quella intuita già millenni fa in India ed in Egitto: la
reincarnazione.
All’inizio l’anima era un soffio che passa, un seme che
ondeggia, un uccello che migra da vita in vita. La poesia greca, con simbolismo
profondo e luminoso la paragonò ad un insetto alato, ora verme della terra, ora
farfalla celeste. Quante volte è stata crisalide? Quante volte farfalla? Non lo
saprà mai, anche se intuisce di avere
La sua vita di crisalide è strana e tragica: il corpo
terreno l’avvolge con le sue passioni e le sue sensazioni; la sua lotta con lo
spirito, l’altro ospite invisibile, è tremenda. Attirata da questo dimentica il
corpo finché esso la richiama con un imperativo tirannico. In questo contrasto
l’anima cerca invano la Verità.
La risposta che filosofi e teologi hanno dato a questo
problema è sempre stata oscura ed inconcludente ma la dottrina esoterica ci ha
aperto orizzonti assai più vasti e luminosi.
Gli iniziati istruiti dalla tradizione e dalle numerose
esperienze della vita psichica, ci hanno detto che chiamiamo anima il doppio
eterico del nostro corpo; un corpo immortale che la Monade Divina ha dato allo
spirito eterno; quel corpo spirituale che Pitagora chiama il veicolo sottile
dell’anima perché destinato ad innalzarla al cielo dopo la morte.
Mi è doveroso, in merito, riportare una pagina sempre dello
Schuré, perché la sua poesia infinita e la drammaticità sconcertante con cui
vengono descritti il distacco cd il reincarnarsi dell’anima, se non ci
porteranno alla verità, ci faranno certamente meditare a lungo.
« All’avvicinarsi dell’agonia l’anima presente in genere il
suo prossimo
distacco dal corpo, rivede la sua
esistenza terrestre in quadri di scorcio che si succedono rapidamente con una
nettezza mirabile. .. se è un’anima santa e pura, i
suoi sensi spirituali si sono già svegliati con il distaccarsi graduale dalla
materia ed essa ha avuto il sentimento della presenza di un altro mondo. Ai
richiami silenziosi, alle voci lontane, agli incerti raggi dell’Invisibile, la
terra ha perduto la sua consistenza e quando l’anima finalmente si leva dal
freddo cadavere, si sente portata in una grande luce verso la famiglia spirituale
a cui essa appartiene.
L’anima dell’uomo ordinario invece… si sveglia con una
semicoscienza, come nel torpore di un incubo. La sola cosa che vede è la
presenza del cadavere da cui si è staccata ma dal quale si sente
invincibilmente attratta… Si cerca con spavento nelle fibre ghiacciate del
cervello, nel sangue coagulato delle vene… È morto? È vivo quel corpo? … Le
tenebre la circondano… intorno è il caos… incomincia una lotta tremenda…
Questa fase della vita dell’anima ha portato nomi diversi
nelle religioni e nelle mitologie. Mosè la chiama Koreb, Orfeo l’Erebo, il
Cristianesimo il Purgatorio… gli iniziati l’abisso d’Ecate ».
Come la vita terrestre, la vita spirituale dell’anima ha il
suo principio, il suo apogeo ed un suo declinare, e quando è esaurita l’anima
si sente presa dal torpore, da vertigine e malinconia.
« Una forza invincibile l’attrae di nuovo verso le lotte e
verso la sofferenza della terra… la pesantezza aumenta, un oscuramento si è
fatto in lei, essa non vede più le sue compagne se non attraverso un velo…
sempre più denso che le fa presentire la separazione imminente… Il suo
risveglio si compie in un’atmosfera pesante… essa non ha ancora perduto il
ricordo celeste…
Ormai la luce divina non è più che un bagliore languido. Poi
un dolore orribile la comprime, una convulsione sanguinosa la strappa
dall’anima della madre e la configge in un corpo palpitante: il bimbo è nato,
miserabile effgie terrestre e ne grida di spavento.
Il ricordo celeste è rientrato nelle profondità occulte
dell’inconscio: essa non rivivrà che per opera della scienza o del dolore,
dell’amore o della morte ».
3. Spirito
È la terza componente della Monade umana, immortale,
compagno invisibile dell’anima.
Il dubbio sull’espressione verbale che possa definire lo spirito è
antichissimo.
Il problema cominciò nella grigia preistoria »
, afferma Jung, « quando qualcuno fece la sconcertante scoperta che l’alito
vitale, che nell’ultimo rantolo abbandona il corpo del morente, è qualcosa di
più che semplice aria mossa ».
Non è perciò un caso che parole onomatopeiche come « ruach »
, « ruch », « roho » designassero anche lo spirito, non meno chiaramente che «
pneuma » in greco e « spiritus » in latino. « allora il Signore Iddio formò
l’uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale…
».
I versetti ci spiegano, in maniera inequivocabile l’origine
del vento; il simbolismo è centrato; forte e potente è il suo richiamo al Vero
Assoluto.
Solo con questa chiave potremo coltivare la speranza di
riuscire a scoprire qualcosa di fondamentale sopra quella parola vaga, dalle
molteplici iridescenze, che chiamiamo spirito.
Una sola cosa nessuno potrà mai disconoscere e cioè che come
« l’essere vivente » è un concetto che compendia l’esistenza, la vita di un
corpo, così il termine « spirito » sintetizza la essenza dell’anima tanto che
spesso spirito e anima sono termini che vengono usati indifferentemente.
È
suffciente questo concetto a spiegare la parola spirito?
Lo ignoro, e perciò ritengo utile analizzare la probabile
etimologia del nome alla ricerca di possibili connessioni con gli altri ospiti
della Monade terrena: corpo ed anima.
Le parole tedesca « Geist » e anglosassone « ghost » hanno
da sempre designato un essere sopraterreno in contrasto con il corpo, sovente
personificato, quale responsabile di molteplici esperienze psicologiche dirette
o indirette.
L’atmosfera originaria dalla quale sono uscite le parole si
è conservata e continua a vivere in noi.
Se è vera l’etimologia lo spirito sarebbe un’immagine
dell’effetto personificato.
Il
concetto, del resto, si concilia con l’altro, derivato dal tardo latino «
spiritus », attraverso il quale noi definiamo un atteggiamento dell’individuo:
spirito eletto, di poco spirito, ecc.
Le tre definizioni di spirito appena lumeggiate non sono
contrastanti e possono essere sintetizzate, forse un po’ semplicisticamente, in
vento divino, eterno, che condiziona l’anima ed il corpo dell’uomo.
4. Psiche
Tutti concordano nel definire « psiche » l’inconscio e la
nozione di attività psichica inconscia ci è divenuta familiare. L’origine della
parola psiche/inconscio è dibattuta.
Già in Platone, scrive lo Jervis, vi è qualche intuizione
riconducibile a questo tema, ma bisogna attendere fino a Leibniz, Schelling,
Hegel e Schopenhauer per avere un riferimento più chiaro ed alla scuola
francese facente capo a Janet per avere una definizione sintetizzabile in
azione inconscia sull’anima e sul corpo o, ancora più terra terra, il
comportamento umano.
Jung, del resto unico grande discendente moderno dello
gnosticismo medioevale, definisce la psicologia « dottrina della struttura
dell’anima ».
Da questo punto di vista, i fenomeni del « già visto », le «
bestie nere » francesi o « gli scheletri negli armadi » inglesi, trovano una
logica spiegazione in « residui » di precedenti vite dell’anima e in
interazioni tra spirito-anima e corpo.
I termini « sensazione » , « sentimento» e « intuizione »
sono dunque il risultato di un lavoro interno della Monade umana che solo così
ci diventano comprensibili,
L’irrazionalità o l’imperfezione delle nostre definizioni
sono anche esse frutto delle nostre sensazioni ed intuizioni.
5. Conclusione
Trarre delle conclusioni non era nei nostri propositi per
cui ci limitiamo a sintetizzare dei concetti che meriterebbero ben altra estensione•.
La superiorità dello spirito non è un’invenzione cosciente
ma una sua qualità essenziale e razionale, come risulta dai documenti di tutti
i tempi, dalle Sacre Scritture fino al Zarathustra di Nietzsche. L’anima e il
corpo sono una coppia di contrari e, come tali, sono un’espressione di un
Essere sulla cui esistenza possiamo solo possedere « sensazioni » o «
intuizioni ».
La situazione razziale in Sud Africa è tanto grave da
coinvolgere tutti i cittadini del mondo e, per i princìpi che seguiamo, noi
liberi muratori più che altri.
Sull’iniquità del fatto di considerare come una sorta di
Untermenschen (peraltro accuratamente subdivisi) i neri, i meticci e gli
asiatici — praticamente gli indiani — ci pare di non dover insistere. Quella
che forse merita di essere esaminata più da vicino è tutta una serie di aspetti
locali e non che, obiettivamente, rendono molto diffcile una soluzione rapida
ed equa, tanto più che molto, troppo tempo è già stato perso.
Intanto i neri
sono in grande maggioranza: la immediata concessione di una totale uguaglianza
consentirebbe ad essi di ribaltare democraticamente la situazione. Si potrebbe
essere sicuri — al punto cui si è giunti — che il revirement sarebbe di 180
gradi, con i bianchi e gli indiani ridotti nello stato in cui si trovano
attualmente i neri — almeno quelli tra loro che sopravvivrebbero.
Un altro aspetto, tenuto conto che i neri sudafricani
non sono per niente una popolazione omogenea, è dato dai contrasti e conflitti
intraetnici, attuali ma soprattutto latenti che, nel ricordo di recenti
mostruosi genocidi perpetrati da neri su neri, fanno temere il peggio a non
lunga scadenza. Il fatto che poliziotti neri vengano bruciati vivi da altri
neri fa paura, anche se la sorte del vero (o proc[amato a furor di popolo)
Quisling è sempre stata la eliminazione. Altrettanto si deve dire, del pericolo
— temporalmente successivo al primo ma altrettanto reale — dell’insorgenza di
dittature anche nulla meno che allucinanti, di cui pure abbiamo già avuto
concreto esempio. La decolonizzazione violenta o anche solo troppo rapida e non
sufficientemente preparata comporta guerre civili, corruzione,
malamministrazione, bancarotta c soprattutto fame e miseria per gran parte dei
popoli « liberati ».
Giunto in Redazione il 5 settembre 1985.
Perciò dobbiamo tutti auspicare che il governo
sudafricano riesca a trovare, al più presto, la saggezza e la determinazione
necessarie per avviare riforme graduali ma sincere ed effettive, senza
arrièrepensées, sperando che sia ancora in tempo per evitare il peggio e per porre
riparo esso, conservatore, ai guasti provocati (anche) dal suo predecessore,
laburista.
Tutto questo sembra abbastanza ovvio. Un po’ meno lo sono forse due
considerazioni di ordine completamente diverso. La prima è la
strumentalizzazione, palesemente in atto, da parte di certuni, che sfruttando
la reale indignazione dei neri, la incanalano ed utilizzano per fini propri. Ce
ne danno, se non la certezza almeno il fondato sospetto, il saluto a pugno
chiuso con il quale da poco hanno cominciato ad essere ripresi i rivoltosi,
quanto certi tipici aspetti di guerriglia urbana che cominciano a caratterizzare
le « dimostrazioni ». È difficile che, come è avvenuto per la Raf tedesca, per
le BR nostrane, nel Paese Basco, in Irlanda del Nord, in Angola ed in tanti
altri luoghi, dietro le quinte non vi siano precisi interessi stranieri,
direttamente presenti o rappresentati dai soliti compari. L’attacco — la novità
è di questi giorni in cui scriviamo — dei neri agli indiani, con massacri,
saccheggi ed incendi, sa troppo di pogrom per non metterci in sospetto. Gli
indiani, in Sud Africa sono quello che erano gli ebrei in Russia ed in Polonia,
i cinesi in Indonesia: i bottegai quasi in esclusiva, i benestanti piccoli ma
sicuramente creditori di miriadi di famiglie di sottoproletari. Il resto è
ovvio, ma lo è un po’ meno in Sud Africa, dove entrambe le comunità sono
discriminate (sia pure con nuances diverse) dai bianchi epperciò hanno in
comune le aspirazioni anti-apartheid.
Questo può essere un particolare tecnico, di importanza
relativa nel grande quadro della tragedia.
Ma che vi siano interessi precisi per spingere taluno
a soffiare sul fuoco, lo può confermare un semplice sguardo alla carta
geografica: con la base navale già statunitense di Canh Ram in Vietnam ampliata
ed in saldo possesso dell’URSS, con il canale di Suez che può essere reso
impraticabile in un baleno, con i sovietici in grado di arrivare senza troppa
resistenza alle sponde del Golfo Persico, un eventuale punto d’appoggio
nell’Africa australe modificherebbe
radicalmente la situazione strategica mondiale, anche
nell’era dei missili a testata atomica: le 120 guerre combattute dal 1945 ad
oggi sono ben state tutte « convenzionali » anche se ad alçune di esse erano
interessate, direttamente e palesemente o meno, entrambe le grandi potenze
atomiche.
Un indizio a conferma, banale ma non privo di significato,
è dato dall’angolatura con cui riferisce dei fatti sudafricani il 1 0 canale
TV della RAI, notoriamente portavoce dei due principali partiti italiani anzi,
si direbbe, valutando i contributi dello sta’ redazionale, soprattutto del
secondo. Certe insistenze, certe parzialità grossolane (le violenze antindiane
appena riferite e subito dismesse anche se, secondo la stampa internazionale,
continuavano estendendosi, sottolineano i nostri dubbi.
D’altronde nulla di nuovo sul fronte degli sforzi per catturare
in modo subdolo e surrettizio l’opinione pubblica per manipolarla ed ottenere
un acquiescente consenso.
Nessun dubbio sull’esito della manovra, se non vi sarà una rapida, diffusa
presa di coscienza dell’uomo della strada e, soprattutto degli « intellettuali
».
Abbiamo, purtroppo, già altre volte avuto occasione
di richiamare l’attenzione su questa realtà, da cui dipende, dopotutto, anche
la possibilità, per noi, di sopravvivere come uomini liberi.
Questo Natale è stato davvero generoso. Innanzi
tutto, ci ha ridato la Befana, la commovente, decrepita vecchietta che, a
cavallo di una scopa, viene a premiare i bimbi buoni ed a punire i cattivi. Ci
ha proposto una, non ancora ben precisata Festa del Tricolore, ed infine, un
inno nazionale modernizzato, arrangiato dal maestro di « Quelli della notte » ,
a ritmo di tango, dixie e marcia. Come si poteva immaginare un brusìo di
sofferte, illuminate polemiche si è subito levato fra democristiani, socialisti,
comunisti, radicali, misSini, fra tutti i partiti nostri rappresentanti, con
scambio di enfatiche dichiarazioni cui, probabilmente, faranno seguito riunioni
in Parlamento per prendere le gravi decisioni.
Già l’ho detto: i
nostri deputati — anche se non pare — sono dotati di enorme senso dell’umorismo
c trovo naturale che si dilettino con simili bagatelle per diminuire la
tensione del travagliato iter della legge finanziaria, della nuova tassazione
Irpef, della politica estera in Medio Oriente.
Parliamo della Befana. Immagino gli sguardi indignati
degli inguaribili nostalgici. Chiedo venia, sono anch’io fra quelli. Ma esiste
veramente ancora il mondo magico dell’infanzia? O piuttosto non è stato
abbreviato o addirittura spazzato via da questo clima di disincanto e
praticità? Esiste veramente ancora per i bambini quel mondo popolato di sogni,
di fate, gnomi, biff animaletti, orchi, di aspettative misteriose? Quel mondo
che in molti di noi ha lasciato una indelebile poetica impronta? Oggi sono, i
bimbi, la nuova scoperta per gli spots pubblicitari, che sensibilizzano una
Befana Babbo Natale (che a questo punto dovrebbero mutare aspetto), sui doni
che vorrebbero ricevere. Tutto è preordinato, preannunciato, con un valore
immediato e subito dimenticato,
E che dire della Festa del Tricolore? La riscoperta
del sentimento patriottico? Cosa si vuole commemorare? La nascita della
Repubblica Cisalpina, o non piuttosto la Repubblica Cispadana? La presa di
Porta Pia, l’Unità nazionale del 1918? I Carbonari? I Partigiani? Una confusa
carrellata attraverso la storia della nostra Italia, alla ricerca di un punto
su cui far convergere il pensiero ed il sentimento nazionale?
Un sottosegretario ha dichiarato che la festa sarà
dedicata all’Indipendenza, che cadrà in una stagione più clemente di quella
invernale. Grazie ai cielo! Le sfilate, le commemorazioni e, per essere
pratici, le gite verso la montagna o le mete turistiche, potranno forse
avvenire sotto un tiepido sole primaverile. E le arringhe dalle piazze, i
cortei, con lo sventolio del vessillo tricolore, avranno come sfondo il nuovo
inno nazionale, a ritmo di dixie, tango e marcia, che nel frattempo, grazie a «
Quelli della notte », satà diventato un best seller della musica. Tutto ciò
potrebbe anche essere allegro, divertente, se non fosse una grande abbuffata,
nel clima di abbuffate natalizie, di falso sentimentalismo e di dubbio
patriottismo.
17 ottobre
1985
È successo nell’antico paese dei
Samurai, delle garbate gheishe, dei mandorli in fiore, delle soavi melodie del
liuto.
Sul giornale di oggi questa notizia: una rete
televisiva ha mandato in onda, in diretta, un episodio di « teppismo giovanile
», assoldando una cinquantina di giovani delinquenti e due ragazze, una di 16 e
una di 17 anni. Le ignare vittime di questo « spettacolo » sono state cinque
studentesse, invitate per l’occasione ad un barbecue, e che sono state
assalite, picchiate, prese a calci ed a pugni, sfregiate a colpi di lametta. La
madre di una delle ragazze, per il dolore e la vergogna, si è suicidata.
Il Primo Ministro Nakasone ha espresso « il suo
rammarico » ed ha esortato il Ministro delle Poste e Telecomunicazioni ad
esercitare una più severa sorveglianza sulle emittenti private.
Il Giappone, ancora una volta, dimostra di essere
più avanzato di noi. Modestamente, in Italia, ci siamo per ora limitati ad
offrire al pubblico, da un palcoscenico, l’uccisione dal vero di un cavallo.
Ma, in fondo, di che ci meravigliamo? Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.
Forse che gli antichi romani non deliravano alla vista del gladiatore in
procinto di essere ucciso dall’avversario, e chiede44
vano all’imperatore il pollice verso? E non
troviamo forse sempre, nel corso dei secoli, intorno a capestri ed esecuzioni
capitali, la folla di spettatori avida di sensazioni, spesso donne con bambini
in braccio o intente, nell’attesa, a fare la maglia? E oggi, e sempre, non
troviamo forse sul luogo dell’incidente mortale, la solita folla di curiosi,
che superficialmente commentano, inetti, ingombranti? Oggi la tecnologia ha
fatto passi da gigante, ed i mass-media, nella lotta sempre più spietata ed
accanita contro la concorrenza, non fanno altro, per vincere, che appellarsi e
speculare, con acume psicologico — dopo una ricerca di mercato — su questo
impietoso, sadico, brutale lato della natura umana.
Dell’invidia
« Nel mezzo del cammin di nostra vita » ognuno di noi
ha la faccia che si merita. Possiamo trarre in inganno con le parole, ma non
mentono i segni scolpiti nella nostra fisionomia, sulla nostra stessa struttura
fisica. E se vogliamo parlare dell’invidia, i segni lasciati da questa passione
sono fra i più eloquenti.
Riconosceremmo subito, in una galleria di quadri,
l’invidioso per il suo sguardo obliquo, le labbra serrate non facili al
sorriso, la carnagione opaca. Un misantropo, un bilioso; un invidioso appunto.
Per questo, per sua ulteriore sventura, individuo spesso schivato come un
malato contagioso, sempre sgradito. Non riesce neanche a destare compassione.
Non sempre l’invidioso è uno sciocco: anzi, uomini
famosi ed intelligentissimi ne hanno inguaribilmente sofferto. Direi piuttosto
che è individuo con scarsa immaginazione, puerile. Il suo è un pensiero
abbreviato, una traiettoria che va direttamente all’oggetto invidiato, volendo
ignorare gli sforzi, I impegno che ogni successo spesso richiede. Non pensa,
l’invidioso, che questa fortuna è sovente, in gran parte, merito di un viso
sorridente, di comunicativa, di bontà, disponibilità, di allegria: doti che già
di per sé comportano una serie di piccoli successi.
L’invidia è la più inutile,
negativa delle passioni. La più meschina. L’invidioso non vuole sentire
elogiare gli altri, non riconosce meriti a nessuno, attribuisce ogni successo
al semplice intervento della fortuna.
L’invidia è una disperazione.
L’invidioso si contorce su se stesso, spia e paventa ogni sorriso, ogni buona
notizia che vorrebbe per sé, si compiange. E chi si compiange assume l’aspetto
di un vinto e con questo segna la sua sorte.
Non pensa l’invidioso che è
inutile volere ciò che hanno gli altri, che ogni individuo ha valore solo in
quanto esprime se stesso, ciò che ha dentro di sé. Tutto il resto è apparenza,
improvvisazione. Se fosse possibile dargli dei consigli, gli suggerirei di
mettersi in azione, di tentare di raggiungere i suoi obiettivi; di tentare di
conoscersi a fondo, di comprendere le sue debolezze; di essere più aperto,
socievole, generoso. Di amare la vita e dimenticare se stesso in termini di
paragone.
Molte, molte ombre, quindi, nella passione dell’invidia.
Può condurre ad eccessi, può far compiere gravi ingiustizie, a volte anche dei
crimini. La cronaca e la storia ne sono piene.
Novembre r 985 – Le anatre della Dora
Ogni giorno si legge di attentati
terroristici, dirottamenti, esperimenti nucleari, regolamenti di conti, di
mafia, di droga. E si legge, più modestamente, di animali.
Questa volta, a salire agli onori
della cronaca, sono le duecento anatre della Dora, dove avevano trovato
l’habitat ideale per vivere e procreare, e delle quali vili killers notturni
hanno fatto strage. Forse qualcuno troverà eccessivo che ci si preoccupi di
anatre. Io, no. È un ennesimo episodio, questo, che conferma la latente, e non
latente, diffusa insensibilità verso i così detti « amici dell’uomo », verso la
natura in genere che, troppo spesso lo si vuole ignorare, è sorgente e sostegno
di vita, della nostra vita.
Questo episodio è in stridente
contrasto con quanto ho potuto constatare in un mio recente soggiorno in
Inghilterra. Questo Paese non sta certamente vivendo un momento ideale, ha i
suoi gravi problemi, la sua disoccupazione, i suoi scioperi, i suoi ultras. La
sua decadenza. Ma è rimasta immutata, nella grande potenza di un tempo e nella
più dimessa e tormentata nazione d’oggi, la profonda saggezza anglosassone,
visibile nei suoi parchi e nelle sue campagne, nei suoi splendidi alberi
centenari, come il segno di una civiltà che ha radici profonde in un concetto
di natura ed in un modo di vivere non certo dominante nelle latine contrade.
Le anatre, i cigni, vivono tranquillamente nelle acque
del Tamigi e dei suoi affluenti, per nulla intimorite dal continuo via vai che
le circonda. Non hanno timore dell’uomo perché è sempre stato loro amico. Gli
splendidi parchi, « National Trust » , sono proprietà di tutti e tutti li
devono rispettare e li rispettano. Verde magnifico, alberi secolari, silenziosi
testimoni di un grande passato, lunghi sentieri immersi nella natura
silenziosa. La mia prima reazione è stata di sorpresa, e poi di ammirazione,
cui ha fatto seguito un sentimento di rimpianto, rabbia, impotenza. Non soffro
di esterofilia, al contrario. Amo il mio splendido e, purtroppo, dissestato
paese che, malgrado ciò, continuo a trovare splendido. Tante erano le sue
risorse di bellezza. Mi sovvengo dello struggimento provato nel visitare certi
italici luoghi, la malinconia di certe « rovine » monche testimonianze di
passata grandezza e di storia. Antiche risonanze che dicono di vicende lontane,
di opere d’arte insuperabili che oggi, nel regno del materialismo, sono in
troppi ad ignorare e dimenticare. E a distruggere.
Uomini, animali, terra, acqua, cielo, universo,
foreste, tutto è un insieme in meraviglioso equilibrio che mai nessuno e niente
avrebbe dovuto mutare e oltraggiare. Non ultimo, la loro bellezza che è
nutrimento della nostra anima e gioia dei nostri occhi.
Chi lo dimentica non solo è un ignorante, un maleducato,
un incolto, un incivile, ma uno stolto.
Succedere nella celebrazione del Solstizio d’estate ad
oratori esimi come il Fratello Arnaldo Francia o come gli altri Fratelli che si
sono avvicendati negli anni passati in questo compito onorifico ed oneroso, non
è cosa semplice e facile.
Abituato a scrutare da anni i problemi della
Massoneria con l’occhio dell’ispettore di… lungo corso, ho perso un po’ i
contatti con ciò che è puro esoterismo per accentuare le necessità della
concretezza.
Ma
il Solstizio d’estate, il suo significato simbolico, è qualcosa che nessun
Libero Muratore può ignorare nella pienezza dei suoi contenuti; e poi, l’invito
del Delegato Magistrale è stato così suadente (tanto da apparire categorico!. e
.) che ho sentito il dovere (il famoso «Obbedisco» del Gran Maestro Garibaldi)
di accettare questo onore e di affrontare questo compito.
Eccomi dunque qui, Fratelli e Sorelle, a celebrare
con voi questa ricorrenza che ormai per la Regione Massonica Piemontese, pur
avendo soltanto quattro anni di vita, è già diventata una tradizione ed un
appuntamento che aspettiamo con ansia di rinnovare; dalla prima preoccupata
occasione d’incontro a Belgirate, siamo passati attraverso le tappe di Torre
Pellice e di Sommariva Perno, aumentando sempre il numero dei partecipanti,
scoprendo volti nuovi, rinnovando legami di fraterna amicizia, a dimostrazione
che l’Obbedienza di Piazza del Gesù, e per essa la Massoneria Italiana, è viva
e vitale.
Il Solstizio d’estate è senza dubbio la cerimonia
simbolica più importante della vita massonica; essa cade, da un’epoca che si
perde nella notte dei tempi, nel giorno in cui il Sole, l’astro per
antonomasia, il propulsore dell’intero Universo, è al massimo del suo splendore
e del suo cammino parabolico, sembra fermarsi e invertire il movimento di
scostamento dall’equatore celeste; è stata scelta, e non solo da noi europei
occidentali, la data del 24 giugno per celebrare questa ricorrenza ed è in
questo giorno che, da tempo immemorabile, gli esseri umani degni di questo
nome, dotati di una capacità di riflessione, padroni della propria coscienza e
contemporaneamente liberi da ogni pressione spirituale interna, fermano il
turbinio delle loro attività e si ritrovano per confrontarsi, per esaminare il
viaggio compiuto in un anno, per valutare serenamente i successi e gli errori,
per rivedere — come in un film «a gambero» — i momenti gioiosi e dolorosi,
sereni e burrascosi, allegri e tristi, per riportare alla mente e al cuore
quegli episodi che sembrano archiviati nella memoria e devono invece rimanere
sempre vivi e validi.
Il Solstizio d’estate ci conduce alla purificazione e alla
gioia, ma è proprio in questo giorno radioso che non possiamo e non dobbiamo
dimenticare quei Fratelli, quelle Sorelle che, dopo aver partecipato
materialmente con noi in un passato anche recente alla Festa di San Giovanni,
ci seguono ora dalle Valli Celesti nelle quali il Grande Architetto li ha
chiamati.
Accompagnatemi,
dunque, Sorelle e Fratelli, nel ricordo di quanti in quest’anno sono passati
all’Oriente Eterno e rendiamo ancora un saluto, Uno per Tutti, ad un grande
esponente della Famiglia Massonica Piemontese, a quel Giuliano Pioletti che ci
ha lasciato un segno tangibile della volontà di essere Liberi Muratori, di
costruire un mondo libero, di affrontare le avversità sempre serenamente; a
Lui, che è stato un vero Maestro, ed a tutti coloro che ci hanno indicato in
Vita la strada giusta, offriremo un pensiero alla fine della tornata, nella
Catena d’Unione; ma ora rendiamo Loro l’omaggio impalpabile e tuttavia toccante
di un riconoscente minuto di raccoglimento.
Il Solstizio d’estate è principalmente questo, un
momento di tregua spirituale che da millenni spinge l’Uomo a riflettere sulla
propria presenza nell’Universo e sulla propria utilità ai suoi simili.
Il fenomeno del Sole che — come ho detto — sembra
fermarsi ed invertire il cammino, ha affascinato da sempre l’umanità; in forme
diverse, dettate dai singoli livelli culturali o dalle specifiche tradizioni
religiose, i popoli più diversi hanno adorato il Sole, ritrovando nel suo ciclo
ripetitivo e perfetto quell’armonia di simboli e di presagi, quell’ordine
cosmico che si ribalta nell’ordine naturale delle cose. Dagli antichi Egizi ai
Greci, dalle cerimonie che ancora oggi si celebrano con riti propiziatori in
Irlanda o in Belgio, dall’accensione di fuochi delle tribù africane nella notte
del 24 giugno sino all’anniversario del Nirvana di Budda durante il solstizio
estivo, tutto ci porta a concludere che da sempre la progenie terrestre ha dato
a questo particolare momento astrale un significato di «pausa di riflessione»
(per dirla con un’espressione in voga, anche se con significati a volte
ambigui) e di ripresa del cammino.
Il Sole, l’astro più fulgido, sembra dire all’Uomo:
«Fermati, considera quanto hai fatto, rileva i tuoi errori, ricordati che una
volta raggiunto l’acme devi necessariamente scendere, prepara la strada per chi
ti seguirà».
Come non ritrovare in questa serie di avvertimenti un
parallelo con la parabola che ogni Libero Muratore compie nella sua vita, con
le conclusioni che egli deve raggiungere se crede in ciò che fa come uomo
«libero e di buoni costumi»?
La simbologia del Sole che raggiunge oggi il massimo
splendore e da domani comincia gradualmente a decadere sino al Solstizio
d’inverno e poi riprende a rinascere, per trionfare ancora splendente a
distanza di un anno, non è il segno di una continuità ininterrotta?
Le parole pronunziate or ora dal Maestro Venerabile,
quelle che ci invitano a risorgere se cadiamo e a rinnovarci continuamente,
rimanendo però sempre «puri, onesti, fedeli e giusti» verso noi stessi e gli
altri, sono un chiaro riferimento al Solstizio, alla forza interiore che da
Esso e dal pensiero di Giovanni il Battista dobbiamo trarre per trasformarci da
pietra grezza in pietra levigata e poi raccogliere, a nostra volta, una
semplice pietra grezza e levigarla, consegnando ad essa, non solo
simbolicamente, il testimone dell’eterno scorrere e vivere della Muratoria.
Non è cosa semplice e facile, come non sono cose
semplici e facili l’ascoltare in silenzio, l’accettare le opinioni altrui, il
rispettare sino al limite estremo il giuramento pronunciato sull’Ara.
Ma del resto, chi ha mai detto che la via massonica è
facile?
La Massoneria è una continua costruzione interiore,
una continua ascesa, una continua riflessione, un fermarsi e ripartire con
umiltà, in una perenne parabola che ci riporta sempre ai Solstizi d’estate e
d’inverno. Questa spinta interiore verso l’alto deve essere, Sorelle e
Fratelli, la nostra forza, quella che deve sostenerci nei momenti difficili ed
equi. librarci nei momenti di gloria.
Da più di venti anni, da quando sono entrato a far parte
di questa stupenda Famiglia, sento ripetere, a cicli anche ravvicinati, come un
motivo ricorrente, la frase «stiamo vivendo tempi duri, per noi massoni tutto è
sempre più difficile». E vero, abbiamo passato momenti difficili se non
tragici, siamo stati vilipesi, perquisiti, indagati, violentati spiritualmente:
eppure siamo qui. Abbiamo temuto e temiamo per il nostro lavoro e per le nostre
famiglie: eppure siamo qui, più numerosi di prima, senz’altro più sereni di un
anno fa.
E allora, dobbiamo concludere che siamo masochisti?
No, Sorelle e Fratelli, siamo persone che credono in quello
che fanno quando si raccolgono nei Templi; siamo persone che sanno di non
commettere abusi e soprusi; siamo persone che — come diceva spesso un Grande
Fratello Piemontese, Mario Bogliolo — «non comprano e non vendono» quando si
incontrano.
La Massoneria ha vinto di recente alcune battaglie
giudiziarie, viene finalmente differenziata da quelle organizzazioni che nulla
hanno di massonico e pur tuttavia vengono definite solamente «logge deviate»,
ma non dobbiamo inorgoglirci né abbassare la guardia; dobbiamo semplicemente
vivere serenamente la nostra vita associativa quotidiana, dimostrando che siamo
presenti nella società profana.
In questo senso la Regione Massonica Piemontese è
viva: proprio questa mattina, l’Oriente di Pinerolo ha aggiunto una nuova perla
alla collana di successi, inaugurando una sede degna delle tradizioni muratorie
di questo Circondario, che ci ospita con la solita riconosciuta fratellanza.
Altrove, in altri Orienti, fervono iniziative per consentire alla nostra
Obbedienza di essere conosciuta e valutata nella sua integrità di opinioni e di
costumi. Il proselitismo sta fornendo frutti copiosi, specialmente tra i
giovani, nel segno di un cambiamento generazionale naturale e di un passaggio
del testimone che dovrà essere il futuro vincente della nostra Associazione.
Ecco, Sorelle e Fratelli del Piemonte, il nostro
Solstizio d’estate; viviamolo con l’umiltà del nostro laborioso operare nelle
Officine e con la saldezza della nostra fede nella costruzione di un Tempio
libero da ogni pregiudizio profano.
Nella storia millenaria degli Uomini liberi, oggi anche noi
mettiamo
il suggello ad un anno di crescita e di
perfezionamento; fra poco, quando la pergamena con i nostri nomi brucerà,
cancellando ogni presenza materiale, ripieghiamoci su noi stessi, riflettiamo
sull’anno appena finito e prepariamoci ad aggiungere altri mattoni al Tempio
che appartiene a noi tutti.
Successi ed errori, solerzia e pigrizia, esaltazioni
ed abbandoni sono alle spalle e sono soltanto materia di riflessione sincera;
traiamo nel nostro intimo le conclusioni e costruiamo, ancora e sempre. Che il
Grande Architetto ci protegga!
Etica è la scienza
morale o del dovere. Ha significato vasto e vario rispondente ai diversi
sistemi filosofici dai quali viene derivata ma fa sempre riferimento alla
condotta umana ed ha inoltre carattere normativo. Spesso è sinonimo di morale:
l’etimologia è comune. Con significato di «costume», però, «etica» indica di
preferenza la teoria e «morale» la pratica. Più avanti, si vedrà questa
distinzione in modo approfondito, specie in relazione alla dottrina che nel
periodo medioevale si sviluppò e che ancora oggi nel linguaggio comune e nel
linguaggio filosofico ne connota le differenze. Secondo la natura e il fine
attribuiti alla vita umana si sono avute varie dottrine etiche. Etica politica
è quella parte dell’etica che riguarda il comportamento umano nell’affrontare i
problemi politici, legislativi, giuridici o dello Stato. Ho avvicinato il
problema da uomo che vive quotidianamente questi risvolti senza essere politico
in prima persona. Chi può stabilire inappellabilmente se una scelta politica è
giusta o no; se essa corrisponde o no ai dettami della ragione?
I mali politici del nostro tempo talora ci inducono a
qualche riflessione. Forse che oggi manchi al mondo occidentale una serie di
valori positivi, di fini da perseguire che accomunino gli sforzi dei popoli
liberi in una direzione ideale? Qualche volta ci viene da chiederci se gli
ideali della dignità della persona umana e dei diritti dell’uomo vengano
rispettati. Talora crediamo, forse perché queste espressioni — diritti
dell’uomo e dignità della persona umana – sono cariche di equivoci, che questi
due ideali siano incapaci, da soli di sostenere il peso di una filosofia
politica e di una pace universale.
L’uomo, il singolo individuo, è portatore di valori
interiori. Di qui la sua dignità e la sua libertà. Ma la natura umana è tale
che il singolo individuo è necessitato e obbligato a vivere in società proprio
per sviluppare e realizzare concretamente la sua dignità e i suoi fini. Occorre
notare come questa condizione non sia qualcosa di aggiunto alla natura umana,
così da dovere considerare la necessità della vita associata come una
situazione dolorosa ma storicamente inevitabile, in cui l’individuo è venuto a
trovarsi. E invece che nasce, per così dire, insieme all’individuo. Non si può
perciò parlare di una priorità dei diritti soggettivi dell’individuo rispetto
al complesso di doveri che regolano il suo vivere sociale. Non si può perciò
pensare al diritto oggettivo come qualcosa che purtroppo inevitabilmente viene
a limitare i diritti naturali del singolo e che va considerata come il minor
male, da rendere più esiguo che sia possibile. Qualche volta poi pensando
politicamente al nostro Stato ci viene da chiederci: Ma che cosa si intende per
Stato? Il sovrano? Cioè nella fattispecie contemporanea il popolo sovrano
oppure gli organi che esercitano i poteri dello Stato? Non dovrebbero i poteri
dello Stato, opportunamente separati, essere esercitati nei modi e nei limiti
segnati dalla legge, che è l’espressione della volontà sovrana? E in suo nome,
infatti, che gli organi esercitano i loro poteri. E ancora qualche volta ci
viene da chiederci: la volontà della maggioranza, che viene considerata
espressione della volontà generale del corpo sociale, è arbitra del diritto o
trova anch’essa dei suoi limiti? E ancora, il popolo sovrano (ovvero, in
democrazia, la sua rappresentanza qualificata, anche se pur più ristretta
numericamente) nel darsi leggi o nel cambiarle trova degli impedimenti? E
perché?
Il mio pensiero è ritornato dal vivere quotidiano al
paragone col pensiero di chi nel passato ha già affrontato e vissuto il
problema. Perché non ripercorrere assieme alcune tappe fondamentali nella
storia dell’etica, costituite da uomini, filosofi e no, che si sono avvicinati
col loro pensare a questo problema?
Eraclito di Efeso (500 a. C.), meglio conosciuto per il
suo insegnamento cosmologico (il «continuo fluire»), è filosofo nel cui
insegnamento le idee morali hanno una posizione centrale. Egli concepiva la
legge come principio di regolarità presente nei processi naturali, ma era anche
cosciente dell’importanza della legge (nomos) in senso politico. Era inoltre
convinto che la lotta fra gli opposti (es. amore e odio) dovesse risolversi in
conformità ad una misura (metron). Posizione diversa è quella dei sofisti; per
essi i principi della giustizia non esistono affatto in natura: essi affermano
che il maggior diritto è la forza.
Tra gli altri sofisti Trasimaco di Calcedonia (quinto
secolo a. C.) è noto per aver insegnato che «la forza è il diritto». Nel primo
libro della Repubblica, Platone presenta Trasimaco come un personaggio che
sostiene la tesi secondo cui «giusto o retto significa solo ciò che è
nell’interesse del gruppo più forte Callicle di Acarne (fine del quinto secolo
a. C.) è presentato da Platone come sostenitore di un’altra versione della
teoria secondo cui «da forza è il diritto». Callicle argomentava dicendo che le
leggi sono fatte da moltitudini di uomini deboli, allo scopo di controllare e
dominare i pochi che sono forti. Il retto ed il giusto sono quindi mere
convenzioni imposte dalla maggioranza popolare, Viene citato il poeta Pindaro,
che avrebbe detto che secondo «la giustizia naturale», se non intervenissero le
legislazioni popolari, la forza sarebbe il diritto, perché i più forti
vorrebbero fare il comodo loro senza impedimenti.
Anche Platone in
un gruppo di dialoghi, che vanno dalla metà della vita dello scrittore alla sua
vecchiaia, delinea il suo pensiero personale sulla natura e sui problemi
dell’etica, ad esempio nel Politico (sulla divisione delle scienze in pratiche
e teoriche, sui problemi delle leggi politiche, sulla dottrina del medio,
sull’origine delle leggi dello Stato e sull’importanza della ragione in tutti i
campi della virtù). Il più lungo e forse l’ultimo dei dialoghi di Platone sono
le Leggi, che presentano una considerazione meno idealistica e più pratica
della maggioranza delle questioni poste nella Repubblica. Qui la politica
(Leggi, I, 650 B) viene identificata con l’arte di trattare le nature e le
attitudini degli animi umani. Questo dialogo, scritto negli ultimi anni della
vita di Platone, mantiene il parallelismo fra la bontà morale personate ed il
buon ordine politico, ma insiste continuamente sulla superiorità della virtù
politica su ciò che può essere realizzato individualmente. Nella Repubblica
Platone aveva insegnato che i governanti possono mentire, se questo è per il
bene dello Stato nel suo insieme. Questo forse è uno degli aspetti meno
attraenti dell’etica sociale di Platone. Anche Aristotele affronta più volte il
problema di poter sapere che cosa è moralmente buono. Egli non è convinto che
il bene sia una realtà unitaria di cui si abbia scienza unitaria o saggezza.
Egli costruisce una teoria dell’uomo saggio o prudente quale misura della
moralità: la teoria della medietà (mesotés): non un punto preciso a mezza
strada fra gli estremi, ma un punto intermedio, a secônda delle persone e delle
circostanze, determina la medietà morale.
Alcuni esempi:
vergognosità-sfrontatezza-modestia irascibilità-impassibilità-gentilezza
Aristotele usò la stessa nozione di medietà quando
trattò la virtù morale della giustizia. Poiché questa virtù riguarda i rapporti
fra gli uomini, essa è l’abitudine di fare volontariamente ciò che è bene per
gli altri e di evitare atti dannosi per essi (Etica Nicomachea, 1129 a 1/1138 b
12). La giustizia è l’inclinazione ad agire in accordo con le leggi
riconosciute: essa mira al bene degli uomini nella loro vita di gruppo. La
legge morale altro non è che l’espressione di ciò che si adatta agli agenti
umani in funzione delle loro relazioni significative con gli altri esseri. La
retta ragione (orthos logos che diventerà poi perno dell’etica medievale) è la
maniera retta con cui l’uomo buono procede nei riguardi delle attività che si
propone, avendo come fine il giovamento da portare in generale alla natura
umana.
Molti riferimenti nella tradizione cristiana e nella
filosofia medioevale partono proprio da Aristotele: influenze anche importanti
derivano da altre correnti di pensiero. Basti pensare alla scuola stoica ed al
termine synderesis, forse corruzione della parola stoica syneidesis che indica
l’intuizione. Per la prima volta usata in latino da San Gerolamo (340-420), in
un commento biblico, ebbe il significato di scintilla della coscienza (conscientiae
scintilla). All’inizio del tredicesimo secolo questa terminologia fu raccolta
dai teologi e sviluppata in una speciale dottrina. Parlando in generale, la
sinderesi finì per essere la capacità umana (variamente interpretata) di
distinguere in maniera generale il bene dal male morale, mentre la coscienza
era intesa come la discriminazione personale fra il beng ed il male nelle
azioni singole. In altre parole la sinderesi ha riferimenti universali, mentre
la «conscientia» si riferisce ad un ambito più particolare e individuale.
Distinzione quindi tra scientia moralis e conscientia. Il processo attraverso
il quale con un ragionamento pratico si giunge a decisioni individuali (non
universali) su problemi morali non rientra nell’etica; ma, quando è eseguito correttamente,
viene chiamato retta ragione (recta ratio). La virtù della prudenza o saggezza
pratica (prudentia), è l’abito buono del ragionare correttamente fino a
giungere a giudizi pratici buoni su azioni individuali. Questa virtù termina
nelle bunne azioni. Scienza morale è ben altra: si tratta di regole, giudizi o
leggi generali, colte mediante la sinderesi, che concernono tipi di azioni
giuste o ingiuste in generale.
Le influenze di questo procedere? L’etica nicomachea di Aristotele veniva
conosciuta nel tredicesimo secolo attraverso le traduzioni di Roberto
Grossatesta (1168-1253) che dapprima insegnò teologia ed etica ad Oxford e poi
divenne vescovo di Lincoln. E gli sviluppi? Pensiamo a Ruggero Bacone
(1214-1292) allievo del Grossatesta. Affrontando la discussione sulla politica,
egli, partendo da una tripartizione dei rapporti morali dell’uomo (considerato
in relazione a Dio, poi in relazione al suo prossimo, ed infine in relazione a
se stesso), applicava lo stesso metodo alla scienza della vita civile
(politica) che egli intendeva come parte della filosofia morale: in relazione a
ciascuno dei 3 gradi Bacone attribuiva all’uomo livelli diversi di
responsabilità e di diritti.
Non mancano altre voci nel tredicesimo secolo ad
occuparsi di politica. Per esempio Enrico di Gandt (1217-1293), professore di
arti e teologia a Parigi, insegnò che la volontà dell’uomo è, sotto tutti gli
aspetti, la facoltà più caratterizzante dell’uomo. Come conseguenza di questa
concezione Enrico riteneva che la legge e il dovere morale nascessero
direttamente dalla volontà del legislatore. Mentre ancora parlava in termini di
«retta ragione», Enrico imziava a collocarsi in una differente concezione
dell’obbligazione morale e legale. Comandare diventa ora una funzione di una volontà
che è autonoma e non determinata dai giudizi esterni dell’intelletto. Ciò che
il legislatore vuole che si faccia è giusto e non occorre nessun’ altra
giustificazione. Giungiamo al Rinascimento e l’uomo diventa punto centrale di
riferimento, non solo nelle arti ma anche nella filosofia. Etica quindi
antropocentrica: non intendiamo con ciò dire che fu un’età irreligiosa o atea,
tuttavia i filosofi concentravano il loro interesse sulla persona umana
individuale.
Uno degli umanisti più originali del rinascimento inglese fu
Thomas More (1478-1535). Era un cattolico, un laico, e divenne lord cancelliere
d’Inghilterra; fu condannato a morte perché si rifiutò di riconoscere Enrico
VIII come capo della Chiesa d’Inghilterra. L ‘Utopia di More fu scritta in
latino e pubblicata sul Continente quarantacinque anni prima che comparisse
postuma in Inghilterra ad opera di un editore londinese. L’opera rivela una
ovvia influenza della Repubblica di Platone. Chi di noi non rammenta la vita
degli abitanti di questa città ideale dai ricordi scolastici? Può sembrare che
intendesse essere una reazione al Principe (1513) di Machiavelli; ma il fatto è
che il More non conosceva quest’opera. More procede a proporre una teoria
dell’edonismo psicologico limitato solo da una ragionevole preoccupazione per
il benessere sociale. Ricordiamo che siamo alla fine del ‘400, ben 100 anni
prima di Hobbes!
Vale la pena in questo periodo
esaminare anche la figura di Francisco da Vitoria (1480-1546), professore
all’Università di Salamanca, non tanto quale espressione di scolasticismo
cattolico (il suo Commento alla Seconda Parte della Summa Thoelogiae, mostra
una buona conoscenza della dottrina morale di Tomaso d’Aquino), quanto
maggiormente per le idee personali e rinnovate sulla vita politica e internazionale
esposte nel suo trattato «sul diritto di guerra» (1532). Nel tredicesimo secolo
Tomaso aveva stabilito tre condizioni, che dovevano essere soddisfatte prima
che un popolo entrasse giustificatamente in guerra: 1) che la guerra sia
dichiarata dall’autorità di uno stato sovrano; 2) che sia dichiarata per una
causa giusta; 3) che sia dichiarata per promuovere un bene ed evitare un male.
Vitoria discusse queste condizioni una per una con notevole ampiezza. Per
quanto riguarda la buona ragione per fare guerra, negò che la differenza di
religione, l’estensione di territorio o la gloria del principe fossero cause
giuste per far guerra. Concluse allora che «c’è solo una causa giusta per
cominciare una guerra, cioè un torto ricevuto. ». Allo stesso modo vengono
chiarite da Vitoria le altre due condizioni. Oggi è assai importante il fatto
che egli aggiunse una quarta condizione: la guerra giusta deve essere condotta
in maniera ragionevole e moderata. Così sollevò l’importante questione etica
dell’uso dei mezzi adeguati. In particolare Vitoria insiste che i buoni
risultati di una guerra devono essere maggiori dei mali che essa produce. Come
conseguenza di con-
More (1478-1535). Era un cattolico, un laico, e divenne
lord cancelliere d’Inghilterra; fu condannato a morte perché si rifiutò di
riconoscere Enrico VIII come capo della Chiesa d’Inghilterra. L’Utopia di More
fu scritta in latino e pubblicata sul Continente quarantacinque anni prima che
comparisse postuma in Inghilterra ad opera di un editore londinese. L’opera
rivela una ovvia influenza della Repubblica di Platone. Chi di noi non rammenta
la vita degli abitanti di questa città ideale dai ricordi scolastici? Può
sembrare che intendesse essere una reazione al Principe (1513) di Machiavelli;
ma il fatto è che il More non conosceva quest’opera. More procede a proporre
una teoria dell’edonismo psicologico limitato solo da una ragionevole
preoccupazione per il benessere sociale. Ricordiamo che siamo alla fine del
‘400, ben 100 anni prima di Hobbes!
Vale la pena in questo periodo esaminare anche la figura
di Francisco da Vitoria (1480-1546), professore all’Università di Salamanca,
non tanto quale espressione di scolasticismo cattolico (il suo Commento alla
Seconda Parte della Summa Thoelogiae, mostra una buona conoscenza della
dottrina morale di Tomaso d’Aquino), quanto maggiormente per le idee personali
e rinnovate sulla vita politica e internazionale esposte nel suo trattato «sul
diritto di guerra» (1532). Nel tredicesimo secolo Tomaso aveva stabilito tre
condizioni, che dovevano essere soddisfatte prima che un popolo entrasse giustificatamente
in guerra: 1) che la guerra sia dichiarata dall’autorità di uno stato sovrano;
2) che sia dichiarata per una causa giusta; 3) che sia dichiarata per
promuovere un bene ed evitare un male. Vitoria discusse queste condizioni una
per una con notevole ampiezza. Per quanto riguarda la buona ragione per fare
guerra, negò che la differenza di religione, l’estensione di territorio o la
gloria del principe fossero cause giuste per far guerra. Concluse allora che
«c’è solo una causa giusta per cominciare una guerra, cioè un torto ricevuto.
.. Allo stesso modo vengono chiarite da Vitoria le altre due condizioni. Oggi è
assai importante il fatto che egli aggiunse una quarta condizione: la guerra
giusta deve essere condotta in maniera ragionevole e moderata. Così sollevò
l’importante questione etica dell’uso dei mezzi adeguati. In particolare
Vitoria insiste che i buoni risultati di una guerra devono essere maggiori dei
mali che essa produce. Come conseguenza di con46
cezioni come questa Vitoria viene considerato da molti
come il fondatore della teoria del diritto internazionale. Egli visse in un
tempo in cui lo spirito nazionale e la teoria dell’autorità raggiungevano le
forme più spinte; nonostante ciò, egli propose l’idea di uno stato mondiale e
di un diritto internazionale. Un tale stato ed un tale diritto furono
considerati dal Vitoria non come semplici espedienti politici, ma come qualcosa
che avesse una portata morale. Egli esprimeva chiaramente la condanna morale
per chi si rifiutasse di cooperare ad una organizzazione della vita mondiale
secondo regole.
Per contro, nel Rinascimento molti sono gli uomini
per i quali non aveva senso cercare di distinguere il bene dal male morale.
Nicolò Machiavelli (1469-1527) è uno dei primi nomi che vengono in mente. Il suo
trattato «il Principe» (1513) ed i suoi «Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio» (1517) sono esempi classici della concezione che, se uno vuol fare
qualcosa di molto cattivo, può fare qualsiasi cosa, per ottenerla. Egli era
suggestionato dal problema del potere politico: la soluzione che dava a questo
problema è francamente discutibile come risulta da queste idee. «Per un
principe che vuole mantenersi al potere, è necessario che impari a non essere
buono e ad usare questa conoscenza o non usarla secondo la necessità dei
casi… Alcune cose che sembrano virtù, qualora fossero seguite, porterebbero
alla rovina ed altre che sembrano vizi producono sicurezza e benessere». Questo
cinismo politico sembra fondato su di uno scetticismo etico completo. Le azioni
umane sono buone o cattive solo per quanto sono mezzi per raggiungere un dato
fine, che in questo caso, è la conservazione del potere politico. Si può
pensare che qui si tratti di una anticipazione di uno speciale utilitarismo: il
criterio cui bisogna riferirsi è il vantaggio dell’individuo, che riesce ad
avere nelle mani il potere civile. Qui non abbiamo un’etica formale, ma forse
piuttosto una posizione etica, che non ha mancato di simpatizzanti. In questo
periodo Tommaso Hobbes e Giovanni Locke sono due nomi che devono essere tenuti
presenti nell’affrontare questioni politiche: solo una loro diretta conoscenza
permette di cogliere il pensiero politico moderno nell’atto stesso di scaturire
dai suoi presupposti filosofici e teologici. In essi si trova per la prima
volta teorizzato a sistema politico e condotto alle sue estreme conseguenze
pratiche il netto
taglio fra terra e cielo, fra natura e sopranatura
per l’elaborazione dello Stato «moderno», quello cioè in cui i teologi
tacciono. Hobbes nega un bene e un male oggettivi: unico bene viene considerato
la conservazione della vita. E siccome l’unico garante di essa è lo Stato, esso
si costituisce in primo etico, fonte di moralità. Anche la politica di Locke
non muove dall’etica, ma dalle verità di fatto, cioè dagli istinti umani, trasformati
in diritti naturali soggettivi. Solo che
in luogo dell’unico diritto alla vita, Locke ammette i tre diritti: alla vita,
alla libertà e alla proprietà; e lo Stato assume quindi il ruolo di tutore dei
tre diritti. Viene da considerare che l’individuo ignori gli altri individui e
si ritenga estraneo ai loro fini, salvo che per difendersene. Si arriva così
alla giustificazione dello Stato per mezzo della sua causa efficiente, il
contratto, che diviene elemento preminente nelle moderne dottrine politiche. Lo
Stato non esiste come unitas ordinis, come portatore di un bene comune; ma come
assicuratore in forme diverse della possibilità giuridica di godere al massimo
dei beni materiali concepiti come desideri istintivi. Ecco dunque la lezione
che i due filosofi ci danno: perduto il concetto di unità di ordine, lo Stato
diventa la personificazione di una superiorità rispetto all’individuo (eticità
dello Stato). Hobbes ritiene giusto ciò che il sovrano stabilisce e ingiusto ciò
che proibisce; purtuttavia egli mantiene, sia pur allo stato di ipotesi e con
scarsa coerenza metafisica il germe di un bene e un male indipendenti dal
volere sovrano: questo volere sovrano potrà essere malvagio, potrà essere
odioso, ma mai ingiusto. Con ciò si lascia aperta la porta a un bene e a un
male superiori allo Stato, alla possibilità di un giudizio del singolo sul
sovrano: sarà un giudizio inefficace, ma sempre legittimo. Dal momento che per
Hobbes ciò che conta è conservare la vita, per questo occorre un sovrano
assoluto. E augurabile che si comporti bene, ma che anche se prendesse
provvedimenti malvagi non per questo sarebbero meno validi.
I moralisti europei dei secoli
diciassettesimo e diciottesimo fecero della filosofia morale un campo di studio
importante e ben distinto. L’etica fu argomento di studio universitario ma fu
anche oggetto di lavoro per scrittori non accademici. Per coloro che si
interessarono di politica e di giurisprudenza si hanno procedimenti che partono
da principi generali della legge e del diritto per giungere attraverso
ragiona48
taglio fra terra e cielo, fra natura e sopranatura per
l’elaborazione dello Stato «moderno», quello cioè in cui i teologi tacciono.
Hobbes nega un bene e un male oggettivi: unico bene viene considerato la
conservazione della vita. E siccome l’unico garante di essa è lo Stato, esso si
costituisce in primo etico, fonte di moralità. Anche la politica di Locke non
muove dall’etica, ma dalle verità di fatto, cioè dagli istinti umani, trasformati
in diritti naturali soggettivi. Solo che
in luogo dell’unico diritto alla vita, Locke ammette i tre diritti: alla vita,
alla libertà e alla proprietà; e lo Stato assume quindi il ruolo di tutore dei
tre diritti. Viene da considerare che l’individuo ignori gli altri individui e
si ritenga estraneo ai loro fini, salvo che per difendersene. Si arriva così
alla giustificazione dello Stato per mezzo della sua causa efficiente, il
contratto, che diviene elemento preminente nelle moderne dottrine politiche. Lo
Stato non esiste come unitas ordinis, come portatore di un bene comune; ma come
assicuratore in forme diverse della possibilità giuridica di godere al massimo
dei beni materiali concepiti come desideri istintivi. Ecco dunque la lezione
che i due filosofi ci danno: perduto il concetto di unità di ordine, lo Stato
diventa la personificazione di una superiorità rispetto all’individuo (eticità
dello Stato). Ilobbes ritiene giusto ciò che il sovrano stabilisce e ingiusto
ciò che proibisce; purtuttavia egli mantiene, sia pur allo stato di ipotesi e
con scarsa coerenza metafisica il germe di un bene e un male indipendenti dal
volere sovrano: questo volere sovrano potrà essere malvagio, potrà essere
odioso, ma mai ingiusto. Con ciò si lascia aperta la porta a un bene e a un
male superiori allo Stato, alla possibilità di un giudizio del singolo sul
sovrano: sarà un giudizio inefficace, ma sempre legittimo. Dal momento che per
Hobbes ciò che conta è conservare la vita, per questo occorre un sovrano
assoluto. E augurabile che si comporti bene, ma che anche se prendesse
provvedimenti malvagi non per questo sarebbero meno validi.
I moralisti europei dei secoli diciassettesimo e
diciottesimo fecero della filosofia morale un campo di studio importante e ben
distinto. L’etica fu argomento di studio universitario ma fu anche oggetto di
lavoro per scrittori non accademici. Per coloro che si interessarono di
politica e di giurisprudenza si hanno procedimenti che partono da principi
generali della legge e del diritto per giungere attraverso ragionamenti a
regole specifiche da applicare alla fine, queste regole piuttosto ampie, a casi
individuali. Spinoza (1632-77), ad esempio, nel suo « Tractatus
theologicus-politicus» afferma che «prima della legge civile non c’è nessuna
differenza tra l’uomo pio e l’empio»: «il torto è concepibile solo in una comunità
organizzata»; chiama libero l’uomo nei limiti in cui è guidato dalla ragione.
Nella società organizzata la legge dello stato determina ciò che è giusto e ciò
che è ingiusto. Spinoza menziona spesso l’«utilità», ma solo per riferirsi al
benessere umano in generale e senza la connotazione edonistica con cui il
termine compare negli scritti inglesi.
Nel 1693 Leibniz preparò e pubblicò un’edizione di documenti
concernenti il diritto dei popoli (Codex Juris Gentium Diplomaticus) con una
speciale prefazione. Qui il diritto (jus) è definito come «una specie di potere
morale e l’obbligazione è una necessità morale Morale è «qualcosa di
equivalente a naturale per un uomo che è buono». Un uomo buono è «uno che ama
tutti gli uomini, per quanto lo permette la ragione». Nello stesso posto la
saggezza viene descritta come «nient’ altro che la stessa scienza della
felicità». In un commento successivo a questo Codice (Mantissa codicis juris
gentium, 1700), Leibniz formulò ed evidenziò una definizione della giustizia,
che aveva data nella prefazione. «La giustizia» diceva, «non è altro che la
carità dal saggio». Verso il 1702 Leibniz scrisse un saggio in francese,
Riflessioni sul comune concetto di giustizia. Vi si critica la tesi che la
legge è semplicemente un imperativo nato dalla volontà. Secondo Leibniz Hobbes
ebbe torto a seguire la posizione di Trasimaco, secondo cui la forza ha il
diritto, infatti egli «non distingue fra il giusto ed il fatto. Altro è che una
cosa può essere, altro è il dover essere». La sua teoria della morale, che
procede a partire da una definizione iniziale di bontà sostiene che l’azione
retta deve adeguarsi alla natura ed a regole generali di comportamento morale.
In un brano particolare di quest’opera Leibniz dice: «Possiamo chiederci quale
sia il vero bene. Rispondo che è ciò che giova alla perfezione delle sostanze
intelligenti». Uno scrittore di lingua francese di questo periodo a cui molto
si deve nel campo dell’etica politica è Gian Giacomo Rousseau (1712-1778) nato
in Svizzera e vissuto per molti anni a Parigi. Il famoso «Contratto sociale»
(1762) è lo sforzo più ampio fatto da Rousseau per spiegare come nascano la
società umana e le sue leggi, In una società bene organizzata, secondo
Rousseau, il giudizio delle persone su questioni morali e sociali costituisce
la volontà generalç o popolare, che ordinariamente si esprime nel voto della
maggioranza, ma che non si riduce ad un conteggio di opinioni. In quanto
«volontà generale» è retta e pura ed esige obbedienza da tutti i cittadini.
Essa è l’espressione sociale di ciò che è retto dal punto di vista morale.
Rousseau non sviluppò l’idea di volontà generale in una teoria etica, ma
costituì un importante antecedente della dottrina kantiana della volontà
autonoma.
Le clausole del patto sociale si riducono tutte a una sola,
cioè all’alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta
la comunità. Torna qui il pensiero di Hobbes, solo che al posto del sovrano c’è
la communauté, la volontà generale. Questa volontà generale è il perseguimento
dell’interesse generale contro tutti gli interessi particolari e nell’interesse
di tutti: «Ora, il sovrano (cioè il corpo sociale esprimente la volontà
generale), non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può
avere interessi contrastanti tra .)». Il sovrano, per esser
colui che definisce ciò che è giusto, definisce automaticamente ciò che è bene;
chiunque si rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da
tutto il corpo politico: il che non significa altro se non che lo si
costringerà ad esser libero; perché tale è la condizione che, «dando» ogni
cittadino alla patria lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione su
cui si fondano l’artificio e il funzionamento della macchina politica, e che
sola rende legittimi i vincoli civili che altrimenti sarebbero assurdi,
tirannici ed esposti agli abusi più enormi. E dunque ormai avvenuto che il bene
si è risolto nel giusto, cioè nella volontà generale. Non è più che un interesse
generale sia giusto perché corrisponde a certi valori, ma diviene esso stesso
valore perché è generale.
Mentre nell’Europa continentale l’etica procedeva secondo
questa tendenza razionalista, in Inghilterra si sviluppava secondo quel filone
che viene detto «utilitarista». Espressione iniziale e di alto livello è
rappresentata da David Hume (1711-76). Alcuni elementi riportati dal suo
trattato intitolato «Ricerca sui principi della morale» ci inquadrano le
riflessioni sulla politica e sull’etica: il trattamento della giustizia è
basato sull’utilità per la società. L’utilità è intesa come tendenza ad un bene
ulteriore ed è la base di varie virtù morali, ma non l’unica fonte della virtù;
a questa contribuiscono anche altre qualità come la cortesia, la modestia,
l’affidabilità. In termini più completi si può parlare di «umanità» come
sentimento che hanno in comune tutti gli uomini e che è una sorta di carattere
pubblico ed aperto agli atteggiamenti morali. La influenza di Hume nel campo
dell’etica è stata estesa e profonda. La sua insistenza sull’utilità sociale
porta all’utilitarismo inglese secondo le sue varietà diverse. Un altro suo
scritto importante sotto il nostro profilo sono i «Saggi di morale e di
politica»: in esso vengono distinti due tipi di doveri morali. Delle due specie
di doveri morali uno procede a partire dall’istinto naturale ed è interamente
indipendente dalle idee di obbligazione o di utilità pubblica: l’amore dei
figli, la gratitudine verso i benefattori e la pietà verso chi subisce una disgrazia
ne sono esempi. Un secondo tipo di dovere morale nasce solo da un senso di
obbligazione più che da una consapevolezza delle necessità della società umana.
Altro
utilitarista inglese fu William Godwin (1756-1836), Partendo dall’etica si
occupò di politica e di felicità umana. La sua «Ricerca sulla giustizia
politica e la sua influenza sulla morale e nella felicità» fu pubblicato nel
1793: in esso propugnava il principio della più grande felicità per il più gran
numero di persone. Fu un acceso difensore della libertà politica e sociale ma
non accettava la formulazione (Bentham) del piacere e del dolore individuali
come fattori fondamentali del giudizio morale. Piacere e dolore personali non
sono moralmente buoni per l’azione stessa: egli riteneva che solo la «ragione»
fosse la miglior motivazione morale dell’attività umana (molto simile in questo
alla posizione kantiana).
Più avanti, nel secolo diciannovesimo fu John Stuart Mill
(1806-1873) che portò avanti con le sue opere «Logica delle scienze morali»
(1843) e l’«Utilitarismo» (1863) queste linee di pensiero. L’etica ha alcune
premesse generali e da essa scaturiscono alcune principali conclusioni, sicché
si forma un «corpo di dottrine» che costituisce l’«arte della vita». Questa
«arte della vita» si divide per Mill in 3 parti: morale, politica ed estetica —
in corrispondenza rispettivamente col retto, col conveniente e col bello. La
formulazione che egli dà dell’«utilità»
non ha niente a che fare con la comune eccezione della
parola, che è in contrasto con il piacere. Ecco esattamente come egli si
esprime: « Il credo che accetto come fondamento della morale, il principio
dell’ Utile o della Più Grande Felicità, sostiene che le azioni sono rette
secondo che tendano a promuovere la felicità e sono cattive secondo che tendano
a promuovere l’inverso della felicità. Per felicità si intende il piacere e
l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere». A
questo il Mill aggiunge due punti chiarificatori. Ciò che è implicato non è la
più grande quantità di felicità di un singolo agente, ma «la più grande
quantità di felicità nel suo insieme». Inoltre ci sono diverse specie di
piacere; devono essere notate le variazioni di qualità oltre quelle di
quantità. Quando si occupa poi di politica e di giustizia Mill ritorna al
riconoscimento del più alto interesse collettivo dell’umanità: i doveri imposti
dal «giusto» sono semplicemente la più alta specie di utilità sociale. Per Mill
gli uomini generalmente amano la felicità e la virtù è quella che conduce
l’uomo alla vera felicità. Il quinto capitolo dell’Utilitarismo associa l’utile
con la nozione di giustizia. Mill è ben consapevole che molti hanno pensato che
gli uomini hanno un istinto o sentimento naturale del giusto. Egli dà una
meditata spiegazione dell’origine storica dell’accettazione della giustizia da
parte degli uomini. Qui viene messo l’accento sull’idea che gli esseri
intelligenti tendono a cogliere una «comunità di interessi» ed a sviluppare la
capacità di simpatizzare con gli esseri umani in generale.
Può essere utile anche esaminare la politica dal punto di
vista dell’etica dell’idealismo tedesco. Prendiamo ad esempio Johann Gottlieb
Fichte (1762-1814) e ricordiamo la sua opera « Sistema di etica» (Das System
der Sittenlehre, 1798): la sua metodologia filosofica: io (tesi), non-io
(antitesi), io assoluto (sintesi di io e non io) segue la stessa via triadica
nell’etica: a) una voce della coscienza che parla chiaramente e
inequivocabilmente dentro di noi, b) una scienza filosofica di ciò che è retto
(in generale fuori di noi), c) un’azione di sintesi nel realizzarsi della
propria volontà e della coscienza morale. La politica poi non è che
un’estensione dell’etica. Nella comunità sociale la volontà individuale deve
apprendere a limitarsi in relazione agli interessi delle altre volontà
individuali. Quindi la società è «la relazione reciproca degli esseri
ragionevoli; una libera e reciproca attività fondata su idee». La concezione
morale -dello Stato in Fichte è legata a ciò che si è detto. La volontà non è
solo l’energia mentale tua o mia: c è una più ampia «volontà» (qui c’è
ovviamente una reminiscenza della volontà generale di Rousseau), che si esprime
nella vita dello Stato nazionale.
Limiti di
spazio non ci consentono di dare un occhiata, neanche veloce, ad altri
importanti contributi sul tema. Ma vogliamo perlomeno accennare a quella
importante parte dell’etica politica che è stata sviluppata da pensatori attivi
nell’etica sociale: basti pensare a Fourier, a Karl Marx e, per quanto diversamente
indirizzati, a Croce e a Gentile.
Nel corso del xx secolo inoltre scuole di pensiero come
quella dell’eticaanalitica (o meta-etica del linguaggio) o quella
esistenzialista finanche nel suo filone religioso-protestante (Reinhold
Niebuhr: «L’uomo morale e la società immorale» 1932) hanno dato ampi spazi di
riflessione sulla materia di questo argomento.
Forse però nel giungere ai giorni nostri sono intervenuti spazi troppo ampi nel
pensiero umano che talora hanno provocato dei disorientamenti e talora hanno
lasciato invero anche dei vuoti di valori interiori e di tensioni ideali
dell’uomo.
Passiamo adesso alla seconda parte dell’argomento proposto.
E rifacciamoci alle linee guida di pensiero che regolano, che normano il
comportamento degli individui che fanno parte dell’istituzione. In quanto si
tratta di un insieme di persone, che vivono in relazione tra di loro ed in
relazione con gli altri uomini, anche qui emerge un comportamento «politico»,
si configurano delle norme, ed emerge quindi una teoria etica quale risultato
del complesso di queste norme, che nascono sulla base di alcuni principi e sono
articolate in conformità di alcuni fini.
Dal punto di vista etico, la M. tende a conoscere l’uomo —
questo grande sconosciuto — ed a condurlo al perfezionamento attraverso
l’educazione; indi alla sua vittoria sul vizio e sulle passioni mediante la
conoscenza e l’esercizio delle virtù, la conquista della verità e il culto per
la Giustizia. Ricordiamo i significati che sono dentro queste parole.
Ieranza, altruismo e senso del dovere. La morale dunque
inizia dal singolo uomo ed è il processo di avvicinamento di ciascun individuo
verso gli altri, in conformità al principio che dice: agisci verso gli altri
nel modo in cui essi stessi vorrebbero essere trattati, trattali come tu
vorresti essere trattato al loro posto.
Siamo persone umane, che vivono insieme, che costituiscono quindi una «polis», che hanno un comportamento «politico»: il vivere insieme, per scelta e per necessità, si basa sul fatto che una scelta, anche etica, presuppone libertà; che inoltre esiste una uguaglianza di fondo nella diversità degli uomini e che la fratellanza umana è una presenza naturale nell’essere uomo.
C’è un villaggio come tanti sparsi su questo pianeta, un
capolinea africano dove la vita è infima, le capanne spoglie, la morte
famigliare e la resa data per certa. E un giro di nulla, bambini seduti a
cerchio, mille malati intorno, il caldo che vela le voci e le sbianca. E un
ghetto equatoriale dove un gruppo di sovversivi dal sorriso ostinato e senza
parole, è venuto a condividere le asprezze senza gemito di un pugno di
lebbrosi.
In quel punto lontano, ho un amico distrutto nel corpo ed
eletto nello spirito, che torna spesso a visitarmi, come se gli fosse lecito
raggiungermi. Non può. Da ogni aviogetto di linea sarebbe respinto, la gente
griderebbe di orrore. Non ha più mani né volto. E un lebbroso del Centro
Africa, preciso a quelli del Vangelo. Si chiama Renè Oye Mba e quando lo vidi
stava pregando e spalacava quel che gli resta delle braccia. Da anni il corpo
gli cade a pezzi, si dirocca. Eppure s’è cresciuto dentro un cuore così invitto
da mutare in dono la sua miseria. Ci scriviamo ancora nonostante il tempo e la
distanza. Un giorno gli domandai se incontrando Dio faccia a faccia, gli
avrebbe chiesto perché lui, Renè Oye Mba, ex studente alla Sorbona, insegnante,
uomo mite e sensibile, è diventato lebbroso, rinchiuso in una colonia per
relitti viventi. La sua risposta fu: «No, non gli chiederò nulla, ripeterò
soltanto grazie dal profondo. Mi sono sempre fidato». Sono parole che nessuna
brezza, le sorti del tempo e neanche la somma degli eventi incontrati, hanno
più rimosso dal profondo di me, dove ciò che conta è intatto. E stasera, vorrei
che Renè Oye Mba, uomo di fede, fosse qui con noi, sia pure come clandestino.
Vorrei che spiegasse le ragioni della sua fede a coloro che non concepiscono
nulla di questo mondo, che non sia materia di appagamento per loro stessi; a
coloro che non hanno più capacità alcuna da dedicare alla fede, nessuna meta
per cui impegnarsi, e neppure la forza per cercarla; a coloro che si
accontentano delle mezze verità e delle mezze realtà; a coloro che adottano
convinzioni e dogmi che comunità organizzate statali, sociali e religiose,
tengono pronti per chi non ha più pensieri propri.
Vorrei che ci ricordasse che la fede precede ogni
esperienza palpabile, invece di derivare da essa; che la fede è un atto dello
spirito, è fedeltà, lealtà ad un evento, lealtà alle nostre risposte. Vorrei ci
ripe- tesse che la fede è l’inizio in
noi di un desiderio intenso di operare una sintesi con ciò che è al di là del
mistero, desiderio di unire tutta la forza che è dentro di noi con tutto ciò che
di spirituale è al di fuori di noi; è così che la fede diventa una forza che ci
spinge all’azione. L’uomo infatti non basta a se stesso; la vita non assume per
lui alcun significato se non serve ad un fine che la trascende, se non è di
valore per qualcun altro. Per quanto sia alto il tasso di scambio dell’io, gli
uomini non vivono soltanto della moneta corrente, ma del bene ottenibile
spendendola. Certo, ciò che noi siamo capaci di concedere agli altri è
generalmente di meno e raramente di più di una semplice decima. Certo, siamo
abituati a vivere con desideri effimeri, ma sappiamo anche che la vita sta un
po’ più in alto dei nostri interessi quotidiani. E forse, forse è anche per
questa ragione che ci troviamo stasera in un Tempio Massonico; perché la M. non
è soltanto condizione dell’anima, interiorità e sentimento assoluto.
La M. sostiene la necessità di stabilire una unità tra
fede e credenza, tra devozione e atto. La fede è soltanto il seme, mentre
l’atto è la sua crescita oppure la sua decadenza. Come la fede non può essere
separata dalla condotta, così la M. va vissuta negli atti, non solo nei
pensieri. Può diventare modello di vita, un modello di vita che corrisponde
alla dignità dell’uomo, un modello di vita che tende non soltanto a soddisfarne
i bisogni, ma anche a raggiungerne i fini.
In questo Tempio ci siamo detti più volte che la vita è
un mandato e non l’usufrutto di una rendita; un compito e non un gioco; un
comando e non un favore. E qui che l’esperienza di ognuno può aprire la via a
nuovi doveri, è qui che la ricerca del retto vivere, il problema del bene che
deve essere fatto ora, subito, diventa l’autentico punto centrale della nostra
vita massonica.
Dovremo saper cogliere fra queste mura un lascito
che ci riguarda, una traccia da perseguire, attimi di dignità e trasalimenti di
saggezza che altri fratelli hanno provveduto a costruire, pur sapendo che il
loro destino, come il nostro, non era di portare a termine le cose, ma di
contribuirvi.
Dovremo appartenere al gruppo di coloro che non chiedono,
non impongono, non parlano. Fanno. Fanno qualcosa per gli altri senza mai
annunciare o denunciare. Fanno, senza aver alcun rapporto con gli altri che non
sia la comune umanità. Non danno regole, le vivono. E sarà esaltante sapere che
la Massoneria dipende dal carattere individuale di quegli uomini che lavorano
in Tempio, sarà esaltante constatare che la Massoneria va assumendo il colore
delle loro qualità.
Da più parti si va percependo uno strano malessere. Anche in
Massoneria. Tutti conoscono la situazione francese, certo non rosea, ed anche
in Italia — grazie ai buoni uffici della magistratura e del pilotato sentire
collettivo — molti individui che potrebbero trarre immensi benefici personali
ed essere positivamente utili alla società, non si avvicinano alla Muratoria
perché timorosi di perdere il posto di lavoro o la stima di amici e conoscenti.
Al di là delle cause esterne, che pure giocano un ruolo fondamentale,
dobbiamo onestamente constatare, noi che viviamo la vita di loggia, che qualche
cosa di indefinibile alle volte non funziona, che le nostre aspettative un poco
sono andate deluse, che non sempre i lavori proseguono come vorremmo. Dobbiamo
scoprire perché.
Ritengo che
in parte ciò sia dovuto al perdurare, in ognuno di noi, di una profanità che ci
portiamo addosso con pervicacia e che non riusciamo ad abbandonare.
Se studiamo la nostra storia massonica possiamo notare, ad
esempio, che tutte le volte che la Muratoria si è avvicinata troppo alla
politica è stata dilaniata da divisioni, polemiche, assonnamenti in massa,
secessioni, bisticci disonorevoli quanto sterili.
Perché ciò avviene?
Perché non riusciamo a capire l’autentico significato
dell’iniziazione e non facciamo molti sforzi (ed anche sacrifici) per
coerentemente vivere la nostra nuova vita.
Troppe
volte ho tentato di chiarire che cosa significa rinascere iniziaticamente
perché ora mi ripeta.
Desidero invece individuare il fondamento filosofico del
pensiero massonico che, sia pure nel rispetto delle credenze e delle ideologie
di ciascuno, ha una sua particolarità, un suo nucleo comune a tutti i Fratelli.
Platone.
Sì.
Dobbiamo proprio prendere le mosse da una delle figure più
straordinarie della storia del pensiero.
Lungi da me l’idea di impartire una lezione di filosofia. Per
carità. Non ne sarei capace.
Solo voglio tentare un breve ripasso e rileggere, in chiave
muratoria, quelle nozioni che hanno costituito una delle basi del mio modo di
essere. 427-347 a.C.
Questo il tempo in cui visse il filosofo.
Un secolo dopo Pitagora. E vedremo quanto il pitagorismo
contò per Platone.
Ateniese.
Pericle muore quando Platone ha due anni.
Tutti conosciamo il fulgore dell’età di Pericle per il
pensiero, l’arte, ogni aspetto dell’umano sapere.
Platone — soprattutto — ha modo di corioscere e frequentare
Socrate del quale mi preme ricordare qui soltanto una delle sue virtù: l’aver
esaltato il valore della libertà della ricerca. La sola a conferire all’uomo
dignità.
Torniamo all’aristocratico Platone che, giovinetto, è
attratto dalla politica che abbandona dopo poco.
Lo delude l’oligarchia dei trenta tiranni ed ancora di più
(dopo un momento di esaltazione) la restaurazione democratica che condanna il
suo amatissimo maestro Socrate.
Viaggia, ed a Taranto ha il primo contatto con una comunità
pitagorica. Tornato ad Atene fonda l’Accademia, una comunità modellata su
quelle pitagoriche ed erede della tradizione socratica.
Durante questo periodo (siamo nel 387 a. C.) esplode la sua
speculazione.
Una ventina d’anni di studi intensi e di straordinaria
attività letteraria. Nel 367 Dionigi il giovane lo invita a Siracusa dove
Platone ha un grande amico: Dione. Arriva in Sicilia con la speranza di poter
applicare in concreto la sua costituzione politica.
Ma Dione e Dionigi litigano. Dione è condannato all’esilio e
presto muore.
Platone, deluso, abbandona la Sicilia ed alla sua opera «Le
Leggi» affida il suo ultimo insegnamento.
Nei 35 dialoghi e nelle 13 epistole è contenuto il pensiero
di un filosofo che spazia dalla ricerca della vera virtù e della vera sapienza;
al linguaggio, all’amore, all’imrnortalità dell’anima, alla
politica, tutto unificando in un sistema.
È il primo ad usare la forma del Dialogo perché, secondo lui,
il pensiero non può essere cristallizzato, ma si sviluppa continuamente nella
sua dinamicità.
Vorrei che tutti ponessimo molta attenzione a questo aspetto.
I nostri lavori si svolgono dialogando, con la partecipazione corale di tutti.
Se Io spunto è una tavola architettonica che rispecchia il
pensiero di un fratello l’esperienza ci insegna che l’intervento di tutti gli
altri non soltanto chiarisce (il più delle volte allo stesso estensore) il
valore di certe proposizioni, ma arricchisce il pensiero iniziale di elementi
nuovi in modo tale che alla fine della tornata i termini del problema (non
voglio parlare di soluzioni definitive) si sono moltiplicati così da avere a
disposizione, per una ulteriore e personale meditazione, un numero di dati
maggiore che preludono ad una sorta di completezza. A me pare che soltanto per
questo già potremmo essere grati a Platone. Ho accennato alla devota
ammirazione ed all’affetto di Platone verso il maestro Socrate.
Nei primi dialoghi («Apologia di Socrate» e «Critone»)
Platone affronta il tema della « Virtù» e della « Vera sapienza E ancora
imbevuto dell’insegnamento del maestro e quindi conclude che la virtù altro non
è che la scienza del bene e del male che deve essere affrontata razionalmente.
Noi, figli dell’illuminismo, facciamo spesso riferimento alla
ragione anche se andiamo (e dobbiamo farlo) oltre.
Nei dialoghi i Sofisti (che sono gli interlocutori illustri)
sono sempre profondamente sicuri di sé, certissimi delle loro convinzioni.
Somigliano molto a certi profani.
L’opera di Socrate consiste, fingendosi ignorante ed
attraverso una serie incalzante di domande e demolendo dialetticamente le
certezze dei vari Lisia, Menone ed Eutidemo, nell’aiutare ciascuno ad un
«parto» intellettuale consistente nel dare alla luce conoscenze universalmente
valide.
La famosa «maieutica» che Socrate affermava di avere
ereditato dalla madre levatrice.
In che noi massoni possiamo riconoscerci nel pensiero
socratico? Proprio nel procedere allo smantellamento delle nostre presunte
certezze.
Entriamo in massoneria con la tracotanza del sofista, comun
sistema di nostre verità che non abbiamo mai cercato di analizzare con onesta
umiltà.
Perché ce le hanno insegnate, le abbiamo costruite sulla base
della nostra cultura, delle nostre tradizioni familiari, perché nutriamo nei
loro confronti un certo affetto, perché ci identificano.
Il confronto con i fratelli più esperti e l’aiuto dei maestri
svolgono una funzione socratica: debbono indurre ciascuno di noi a partorire un
nuovo se stesso.
Se Socrate afferma il valore di una conoscenza necessaria ed
universale scaturente dall’interno dell’uomo, Platone va oltre.
Vuole dare alla conoscenza un fondamento oggettivo.
Ecco allora che nei dialoghi della maturità, posteriori al
viaggio in Sicilia (il primo) ed alla fondazione dell’Accademia, egli
costruisce il suo sistema, crea la teoria delle idee, traendone le possibili
conseguenze.
Che cosa dice Platone?
Immagina una dualità.
C’è un mondo di concetti universali, immutabili, incorporei
ed eterni. Il mondo delle idee. Esiste un altro mondo, quello sensibile,
imperfetto, contingente, mutevole. Una specie di brutta e sbiadita copia del
mondo delle idee.
Quando noi cerchiamo di capire e stabilire che cosa sia il
bello o il giusto od il buono, non possiamo riferirci alle singole cose che
vediamo e tocchiamo perché esse sono mutevoli, perché sono (anche se della
stessa specie) tutte diverse l’una dall’altra. Dobbiamo necessariamente
riferirci ad un qualche cosa che sia sempre identico a se stesso quindi al bene
in sé, al giusto in sé, al buono in sé, cioè all’essenza.
Platone, tanto per portare un esempio, diceva — «non bisogna
pensare al cavallo, ma alla cavallinità tutti i cavalli partecipano alla
cavallinità, ma non sono la cavallinità —».
Oggetto della filosofia (scienza suprema) è la contemplazione
delle essenze ideali che sono sempre le stesse, che non cambiano mai.
Quindi per Platone la conoscenza vera non può avvenire
attraverso l’esperienza, perché questa si basa sullo studio delle cose
sensibili.
E allora come si fa?
Da dove possiamo trarre la scienza delle idee?
Facendo proprie le risultanze della tradizione
orfico-pitagorica che affermava l’immortalità dell’anima e la sua molteplice
rinascita, Platone dice:
«L’anima ha contemplato le idee in una vita anteriore. Quando
è entrata nel corpo se le è dimenticate. Venendo a contatto con le cose
materiali (che, come ricorderemo sono la brutta copia delle idee) riesce a
ricordare le essenze.
Di conseguenza la conoscenza non deriva dall’esperienza.
E invece una reminiscenza, un ricordo che affiora. E I
anamnesi. Un ricordo, sollecitato dall’esperienza, che assume così un ruolo
puramente strumentale».
Il corpo è
dunque impedimento.
Solo il Savio, che contempla il mondo delle idee, sa che la
vita è preparazione alla morte, intesa quest’ultima come liberazione
dell’anima. Platone — che è scrittore efficace — nella Repubblica, per spiegare
la condizione dell’uomo, ricorre al mito della caverna.
Gli uomini sono come prigionieri incatenati che volgono le
spalle all’ingresso di una caverna e che vedono delle cose solo l’ombra che si
staglia e muove sulla parete. Credono così che l’ombra sia la realtà vera.
Soltanto se riescono a liberarsi dai ceppi ed uscire in piena
luce potranno rendersi conto della realtà vera.
Come si procede conoscitivamente?
Dalle irnmagini delle cose, procedendo con un metodo che
dalla molteplicità tende all’unità usando l’intelligenza intuitiva: il Nûs».
Perno fondamentale è per Platone l’idea del bene che sta al di là di ogni altra
essenza.
Tralascio il pensiero politico del filosofo per soffermarmi
su un dialogo il «Teeteto» che approfondisce la teoria delle idee.
Forse, resosi conto che il distacco netto tra anima e corpo e
quindi il distacco anche dal mondo naturale era eccessivo (nel «Fedone» il fine
dell’uomo era un completo distacco dal corpo e dai sensi), Pla-
tone immagina un procedimento inverso a quello che dalla
molteplicità tende all’unità.
Discendendo dalla unità alla molteplicità (che può anche
essere intesa come differenziazione) si attribuisce valore alle fome miste.
Che cosa vuol dire?
Le cose finite, se vengono intese matematicamente, se cioè
diventano misurabili, governate dal numero, assumono, in relazione ad altre
cose finite, una loro valida proporzione.
Ciò influisce anche sull’etica, che non è più il totale
distacco dal corPO, ma una vita mista e secondo misura.
Cioè un misto tra piacere ed uso dell’intelligenza.
Muta anche
l’atteggiamento nei confronti della natura.
Anche qui
l’artificio di un mito: quello del demiurgo.
Si immagina questo artefice divino che plasma il mondo
prendendo a modello le idee e forgia secondo numeri e misura.
Così anche il mondo naturale diventa misto: alla
razionalità della forma pura ideatrice si mescolano il transeunte ed il
mutabile, ma, poiché il demiurgo ha organizzato tutto secondo un preciso
disegno, anche la natura in fondo ha la sua anima.
Se leggiamo i nostri rituali (e non solo quelli della
massoneria azzurra) per quanto essi siano suscettibili di qualche ritocco, noi
ritroviamo i riferimenti alla luce, alla giustizia, alla dualità intesi in
senso socratico-platonico.
La luce è proprio quella che sta al di fuori della
caverna, è simbolo della verità assoluta, è il fine cui ambisce l’uomo che
riesce a liberarsi dai ceppi.
L’iniziazione
è il mezzo più idoneo per spezzare le catene. Giustizia e verità ricorrono
frequentemente nei nostri rituali, in ogni grado.
Sempre sono concetti intesi al di là del tempo e dello
spazio, al di là cioè dei limiti propri delle cose contingenti.
Attengono al mondo delle idee e possiamo riferirci proprio
alle essenze platoniche.
In massoneria si parla di giustizia in sé e di verità in
se.
In ciò si evidenzia il carattere universale della libera
muratoria. Noi viviamo quotidianamente la libertà della ricerca.
6
E un
concetto tipicamente socratico e delle opere della giovinezza di Platone.
La dualità
e l’essenza del G.A.D U.
Chi crede all’esistenza di Dio, comunque lo chiami,
necessariamente è dualista.
Tutte le religioni infatti propongono due tipi di mondi.
Uno sensibile ed imperfetto, dove viviamo.
Un altro eterno, immutabile, assoluto ed infinito cui
tendiamo.
Poiché, come è noto e come ritualmente ricordiamo, noi
lavoriamo invocando il G.A.D.U. e gli atei, sin dalle costituzioni di Anderson,
non sono ammessi in massoneria, ne consegue che il dualismo fa parte del nostro
pensiero, della nostra filosofia.
Quanto al G.A.D.U. esso come principio ordinatore, come primo
motore, che crea secondo numero e musica, somiglia molto al demiurgo platonico.
Sono infiniti i riferimenti nella nostra ritualistica
all’armonia, alla misura, al numero, alla geometria.
C’è sempre questo filone che, partendo da Orfeo, attraverso
Pitagora e con alcuni elementi socratici, giunge sino a Platone per proseguire
poi, attraverso lo gnosticismo sino al neo-platonismo ed al neognosticismo dei
giorni nostri. Vale la pena di ricordarsene ogni tanto.
E stato spesso accostato a Platone. Vedremo perché.
Collochiamolo, prima di tutto,
nel suo tempo, 551-479 a. C. , quindi un secolo prima del filosofo ateniese.
Cinese.
Contemporaneo di Buddha, di
Zarathustra, dei profeti ebraici e dei primi grandi filosofi greci.
Tanto Confucio quanto Platone hanno concorso a dare
una impronta alla civiltà.
Confucio lascia un’eredità basata sulle regole del
comportamento quotidiano e sui rapporti sociali. Platone è più astratto e volge
verso l’utopia e la contemplazione.
Tutti e due coltivarono il sogno di uno stato etico governato da un
Re-filosofo. Per Platone il Re doveva anteporre la conoscenza servendosene per
governare. Per Confucio il Re doveva anteporre la morale e servirsi — come un
educatore — della virtù per trasformare il popolo. Una profonda differenza
possiamo evidenziare tra i due pensatori. Confucio non ha costruito alcuna
teoria e — tanto meno — un sistema. Ricorre a brevi battute, a semplici
apologie, Forse avrebbe amato tacere, come la natura che segue un suo ritmo
silenzioso.
Secondo Confucio la verità si coglie in concreto nelle
singole situazioni. Possiamo, sotto questa angolazione, paragonare Confucio a
Budda e a Gesù che usarono un linguaggio semplice e diretto.
Dobbiamo evidenziare una diversa e sostanziale
differenza cosmologica tra il pensiero orientale e quello occidentale.
Per Confucio l’universo non è stato creato, ma è un
organismo in eterna auto-creazione. Vi sono due poli strettamente
interdipendenti e correlati in una ininterrotta sintesi-antitesi. Da questo
postulato derivano varie conseguenze. Non ultima quella della «complementarietà
inseparabile di polarità». Cosa significa?
A somiglianza di quanto avviene nel cosmo l’uomo singolo si
polarizza con la società. La vita deve essere concepita da ogni individuo come
un organismo in ci le virtù civili e personali
condizionano vicendevolmente e si si armaminzzano..
Anche se il realismo di Confucio è fuori
discussione, per quel suo occuparsi dei comportamenti quotidiani, non è chi non
veda una buona dose di utopia specie quando egli affronta il problema dello
Stato e del principe.
Altro tema della dottrina confuciana è il ruolo che il
filosofo attribuisce alla cultura.
La conoscenza non è di tipo
intellettuale, ma morale.
Lo studio deve condurre alla saggezza. Il saggio,
colui che si rende capace di realizzare la via (che significa sperimentare su
se stessi l’ordine universale) deve coltivare l’umanità (Ren). Rispetto,
lealtà, sincerità, reciprocità, pietà. Questi sono i cardini del comportamento.
Tra le molte massime confuciane ne ho scelta una che vorrei meditare con il
vostro aiuto:
Zengzi disse: ogni giorno esamino me stesso su tre
questioni: 1) Se agendo per gli altri sono state leale. 2) Se, trattando con
gli amici, sono stato sincero. 3) Se metto in pratica ciò che trasmetto agli
altri.
me un organismo in cui le virtù
civili e personali si condizionano vicendevolmente e si armonizzano. Il
concetto chiave di Confucio è questo: coltivando la propria personalità,
affermandola e nobilitandola si giunge a far regnare l’armonia nel corpo
sociale.
Che cosa di diverso c’è tra
l’insegnamento di Confucio ed il fine della Massoneria: migliorare l’individuo
per migliorare l’umanità?
Collimano perfettamente.
Il filosofo cinese dà alla
morale (una morale feudale intendiamoci) un carattere molto elevato che si basa
sull’autodisciplina e sulla sincerità.
Chi era Confucio? Apparteneva ad
una famiglia imparentata ai principi del Sung. Era nato a Shan-Tung.
Praticamente si poteva
considerare un discendente dei Re della dinastia Yin.
Nonostante la nobile nascita, rimasto orfano, visse povero. Lasciò presto il
suo paese e girovagò, accompagnato da alcuni discepoli, offrendo i propri
servizi ai feudatari locali. Si stabilì poi fondando una scuola
Come vedete, anche Confucio,
come Pitagora, Socrate, Platone hanno avuto scuole, hanno creato delle
comunità.
I suoi insegnamenti, impartiti
oralmente, si basavano su alcune opere del passato che divennero poi i classici
Ching di tutta la cultura cinese. Il suo scopo era quello di trasmettere la
tradizione. Non vedo nulla di diverso nella Massoneria che, forgiando ed
indirizzando le coscienze, vuole che l’uomo-iniziato acquisti la consapevolezza
del proprio ruolo, ottenendo ciò con lo studio della tradizione. Le virtù
esaltate da Confucio sono l’amore per l’umanità (Yen) e l’equità (Yi).
Fratellanza significa amore
per l’uomo. Ed equità, concetto superiore a quello di giustizia, non è forse
paragonabile all’uguaglianza ed alla libertà così come sono intese in
Massoneria? Infatti Yen e Yi mirano per Confucio ad instaurare tra gli uonuni
sentimenti di nobiltà, dignità e rispetto.
Si legge, in un qualsiasi trattato su Confucio, che perno
dell’insegnamento suo, è la «rettificazione dei nomi».
72
Che cosa significa?
Il filosofo considerava il suo messaggio come la
trasmissione di verità e di valori passati. Si presentava come un restauratore,
come colui che intendeva «rettificare» (l’ideogramma Zheng è omofono
dell’ideogramma che significa «governare
1 «nomi». Cioè far corrispondere i poteri ed i doveri
dei funzionari alle funzioni originarie. In altre parole l’uomo, sia come
singolo che come cittadino, deve adeguarsi alle realtà indicate dai nomi.
Troviamo qui una somiglianza con Socrate. Il greco si
riferiva ai concetti, Confucio ai nomi. Ma se i nomi (ossia le parole) non sono
altro che il linguaggio dei concetti ecco che è possibile un raffronto
ravvicinato. Tutti e due avevano il senso dell’importanza etica della
conoscenza.
In Confucio coesistono sia la figura del restauratore
che quella del riformatore. Restauratore come depositario delle antiche
tradizioni. Riformatore nel senso che cercherò ora di chiarire.
ln Cina dominavano due concetti fondamentali per la
vita politica ed etica.
«De», che era il potere magico e «Junzi», indicava «il nobile per eredità
Caliamoci in una atmosfera feudale, se no rischiamo di
non capirci. L’uomo che contava o era mago o era nobile.
Confucio opera un passo avanti straordinario. Il potere
magico diviene «virtù» ed il nobile ereditario diviene «uomo superiore».
Attraverso l’istruzione e la cultura si acquista la superiorità etica.
E una rivoluzione vera e propria.
Il confucianesimo ha ormai superato i due millenni ed
ha percorso, sotto varie angolazioni, la storia tormentata della Cina rimanendo
il suo fondatore il sommo maestro della civiltà orientale.
La stessa repubblica popolare cinese, quando inventò la
«rettificazione politica» (un controllo politico e sociale assoluti), volente o
nolente non fece che esasperare certi aspetti del neoconfucianesimo.
Probabilmente anche per ragioni di opportunità: per fare accettare nel modo più
indolore possibile certe riforme.
Oggi — dopo le campagne denigratorie dei comunisti
più accesi che identificavano Confucio con la più bieca delle reazioni — il
filosofo ritorna ad essere venerato.
73
Confucio, nella sua scuola,
svolgendo il ruolo di maestro operava con brevi aforismi molti dei quali si
riferiscono ai riti.
Mi piace rivolgermi ad uno scrittore contemporaneo, Piero
Citati, che così si esprime:
«… i riti che calmano le passioni e le fantasie
degli uomini costringono ogni individuo entro confini fissati, stabiliscono le
distinzioni, le differenze e le gerarchie, senza le quali la grande musica dell’universo
perderebbe il proprio accordo.
Se rinunciassimo ai riti, la prudenza diventerebbe
timore, il rispetto fastidio, il coraggio turbolenza, la sincerità rozzezza:
ogni virtù piomberebbe nel vizio che le sta accanto come compagno sinistro Tutti sanno che la Cina è la
patria della ritualità per eccellenza, che noi occidentali identifichiamo, con
superficialità, nell’infinito numero di inchini e spreco di «onorevole questo
ed onorevole quell’altro » cui la cinematografia ci ha assuefatti.
Ma se leggiamo Confucio ci accorgiamo quanto
complesso sia il sistema rituale cinese e come tutti i riti, le cerimonie, le
tradizionali forme di comportamento, le stesse buone maniere, mirino
essenzialmente ad esaltare la dignità dell’uomo.
Confucio puntualizza l’interdipendenza tra forma e
sostanza raccomandando di non sottovalutare la forma. Al tempo stesso condanna
il puro formalismo e l’ipocrisia,
Ogni manifestazione deve essere sincera ed il rito va
vissuto con rispetto e sacralità. Si è parlato, a proposito di Confucio, di
religiosità laica. II filosofo infatti è molto lontano da ogni forma di
irrazionalità fideistica. Egli ritiene che l’uomo, rispettoso, deferente,
comprensivo ma soprattutto dignitoso, deve autocoltivarsi.
Una particolare attenzione Confucio conferisce all’arte:
specie alla musica.
Astratta ed immediata, la musica è un mezzo
catartico di comunicazione globale. Ma la si può comprendere solo se la si
avvicina con la mente purificata. Il rinvio alla tradizionale ritualità ha per
Confucio una funzione sociale preminente. La legge morale (che fa leva sul
senso di dignità) dovrebbe rendere quasi superflua la legge scritta. Infatti la
legge (specie quella penale) è un rimedio reso necessario dalla mancanza di
educazione dell’uomo che ancora non si è auto-realizzato.
DANTE E LA MUSICA da la Revue
des deux Mondes, 1903 a cura di Amarilli
L’argomento può essere trattato sotto due diversi aspetti:
cercare come e quando la musica sia applicata ai personaggi ed alle parole di
Dante, e percepire quanto ci sia di musicale nella sua opera, nel suo genio,
nel suo stesso animo.
Uno dei primi compositori, il primo forse che si ispirò alla
Divina Commedia, fu Francesco Galilei. Padre dell’illustre astronomo, autore di
un «Discorso sulla musica antica e moderna», che fece ai suoi tempi grande
rumore, fece parte del Cenacolo o della «camerata» fiorentina, ove nacque
l’opera.
Galilei aveva scelto l’episodio di Ugolino. Lo cantò egli stesso, accompagnato
da una orchestra di viole. Si dice che avesse una bella voce e che il suo viso assomigliasse
alla sua voce. La sua opera si è persa e Verdi, pochi anni prima di morire, la
fece ricercare invano. Fu un peccato. Aveva, pare, qualche asprezza e sapeva un
po’ troppo di antico, ma sarebbe stata un esempio, e non dei minori, della
monodia recitativa e dello stile nuovo.
Trascorsero duecento anni senza che la musica abbia fatto eco
alla poesia di Dante. Le cantate e l’oratorio attingevano i soggetti dalle
scritture. Ma il xrx secolo si è qualche volta ricordato di Dante. Uno dei più
bei poemi sinfonici di Liszt si è ispirato alla Divina Commedia. Il teatro fu
meno felice. E tuttavia solo la musica a teatro ci potrebbe far emotivamente
penetrare nei cuori di Paolo e Francesca. Nello stesso Dante, la vita immortale
che per noi anima questa coppia desolata non scaturisce tanto dal vigore
tragico del racconto, né dalla bellezza delle immagini, quanto dalla potente e
sensuale musica con cui il poeta ha saputo animare i suoi versi.
Tuttavia due volte almeno la musica italiana ha ben servito
la parola di Dante: nell’opera di un uomo che fu grande per il suo genio, pur
così diverso da quello del poeta.
Si tratta di Rossini. La sua opera è l’Otello; la sua pagina
più bella è il canto del gondoliere che passa sotto le finestre di Desdemona:
Nessun
maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria
L’effetto drammatico di questo passaggio e di questo canto è
senza pari. Nell’assurdo libretto, che sembra una parodia di Shakespeare, i tre
versi di Dante gettano una luce di straordinaria verità e di vita. Ci scopre,
questa luce, ravvicinate, due eroine diversamente pure, ma ugualmente tristi e
commoventi: Francesca e Desdemona, sorelle nella sfortuna e nella nostra pietà.
Ci voleva proprio una melopea, non una romanza, qualche cosa di vago e soprattutto
di popolare, onde la gente si possa unire e prender parte all’angoscia della
giovane patrizia. E la bellezza umana, drammatica, si accresce della bellezza
dei luoghi, poiché proprio a Venezia essa muore. Questa triste cantilena è una
di quelle che vagano nelle notti veneziane e sulle sue acque. Libera e come
improvvisata. Un canto struggente che ha delle risonanze lontane.
L’altra pagina di musica, anch’essa di musica italiana, ispirata dalla poesia
di Dante e degna di essa, è una delle ultime opere di Verdi. Le Laudi alla
Vergine, recitate da San Bernardo all’inizio dell’ultimo canto del Paradiso. La
preghiera è scritta per quattro voci femminili, senza accompagnamento, «voci
bianche», dice la partitura. Dice male, perché la bellezza di questo quartetto
vocale consiste, al contrario, nella delicatezza e varietà delle sfumature.
«Vergine Madre, figlia del tuo figlio», così comincia la prima terzina, e nella
trasparenza del perfetto accordo, si vede splendere la purezza della «Vergine
Madre, figlia di suo figlio». «Donna, sei tanto grande e tanto vali
Intonata dalle quattro voci una
ad una, l’invocazione irrompe come lo squillo di una fanfara. E un attacco
squillante, raddolcito dal tono minore, e la gloria dell’eletta appare come
mitigata dalla modestia della donna.
Il poema di Dante è un canto. Un mistico ed insondabile
canto. Il linguaggio, la sua semplice terza rima, senza dubbio, sono musica. Lo
si legge come una specie di salmodia, poiché l’essenza e la materia dell’opera
sono esse stesse ritmiche. Andando nel profondo si comprende che vi è musica
ovunque.
Dante è il testimone del Medioevo. Il pensiero di allora si
eleva nella sua opera in musica eterna. Dante, l’uomo italiano, è giunto nel
nostro mondo per incarnare musicalmente la religione del Medioevo, la religione
della nostra moderna Europa e la sua vita interiore. Così dice Carlyle nel suo
volume «Gli Eroi». E così scrive Arrigo Boito, musicista e poeta, ai suoi amici
francesi:
«Dante e la musica, quante volte vi ho pensato! Come
mai non si è trovato finora, attraverso
secoli di letture, un lettore della Divina Commedia tanto musicista da sentire
la bellezza di questo tema e il bisogno di proclamarlo! Attenzione: Dante ha
creato la polifonia dell’idea o, per meglio dire, il sentimento, il pensiero e
la parola si incarnano in lui così miracolosamente che questa trinità diventa
un accordo a tre suoni, perfetto, in cui il sentimento, che è l’elemento
musicale, predomina. La divinazione con cui sceglie la parola, il posto che
questa parola occupa, i suoi legami misteriosi con i vocaboli, i ritmi, le
assonanze, le rime che precedono e che seguono, tutto ciò e qualcosa di più
segreto ancora, danno alla terzina di Dante il valore di una vera musica. Egli
crea con le parole lo stesso prodigio che il divino Mozart e il divino
Sebastian Bach operavano con le note, e nello stesso modo. Ma dei tre egli è il
più divino: Mozart e Bach non hanno oltrepassato la regione della loro arte;
Dante è salito più in alto, egli ha superato i limiti della conoscenza. Nel cenacolo
dei musicisti «in partibus» non c’è posto per questo convitato. Egli è troppo
grande. Uno solo sarebbe degno di sedersi al suo capezzale. E Leonardo, questo
mago che tutto sapeva e che superò, egli pure, le conoscenze del suo secolo e
quasi del nostro.
Non c’è musica nell’Inferno di Dante. E forse perché
nell’Inferno tutto è sofferenza? No, mai la musica fu incompatibile con il
dolore. La ragione vera è che nell’Inferno tutto è disordine.
Il Purgatorio, e più ancora il Paradiso, invece, si immergono
nella musica e nella luce.
Una melodia dolce correva per l’aer luminoso
Ecco il Purgatorio, e soprattutto il Paradiso. Ecco le
impressioni e le delizie provate dal mistico viaggiatore. Le anime gli si
rivelano come voci, come raggi o fiamme, e malgrado ne sia spesso abbagliato,
sembra che egli sia meno colpito dalla luce che dai suoni. Tutto per lui è
melodia. Appena comincia a salire i gradini che conducono al quarto cerchio del
Purgatorio sente intorno a sé come un battito d’ali e il vento che gli aleggia
sul viso:
E ventarmi sul volto e dir: Beati i Pacifici che son senza ira
mala.
Una proporzione costante fra fenomeni luminosi e fenomeni
sonori. Intorno al pellegrino che ascolta tutto canta e tutto è cantato. Le
preci, gli inni, i salmi, le beatitudini sono melodie. Il racconto stesso della
Genesi, la storia del Paradiso terrestre, diventa una «canzone» sulle labbra di
Matelda, la dama gentile che va soletta «come donna innamorata» e cammina lungo
un ruscello, cogliendo fiori e cantando «Beati quorum tecta sunt peccata».
Dante ha fatto cantare principi, re, imperatori, quelli del
Medioevo e quelli dei primi secoli e dell’antichità, ivi compreso Giustiniano.
Ha fatto cantare i profeti, gli apostoli e gli angeli, le virtù cardinali e
teologali. Una almeno fra queste, la carità, perché più ancora delle altre due
è sentimento, e il sentimento è l’essenza della musica. Un concerto si espande
dopo che Dante, interrogato da San Giacomo sulla speranza, e da San Giovanni
Evangelista sull’amore, ha risposto; e San Pietro, che lo interroga sulla fede,
lo illumina della sua propria luce e lo benedice cantando.
Dante vaga fra queste ombre salmeggianti. A detta dei suoi
biografi egli aveva conosciuto i migliori musicisti del suo tempo. «Dante
sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovinezza, e chiunque in
quei tempi fosse ottimo cantore e musicista fu suo amico ed ebbe sua usanza»
(Boccaccio, Vita di Dante).
Nel Purgatorio e nel Paradiso — poiché non ne mette neppure
uno nell’Inferno, Dante è felice di incontrarli e salutarli ancora. Ecco
Belacqua, il famoso liutaio, la cui abilità fu pari alla sua pigrizia. Sulla
soglia del Paradiso attende la salute eterna, le cui cure ha troppo differito
quando si trovava sulla terra. Più fortunato e già salvo ecco Forchetto,
l’amoroso trovatore di Provenza, la cui voce rallegra il cielo, unita ai canti
dei Serafini. Nel Purgatorio c’è ancora un altro trovatore, Arnaldo Daniello,
che si nomina a Dante con questi versi provenzali, adorabili di musica e di
malinconia: «Jeu sui Arnaut, que plore et vai chantan».
E esiste, nella Divina Commedia, una figura più dolce e
melodiosa di Casella? Quanto meno non ve n’è alcuna che Dante incontri con più
piacere ed emozione, tanto egli amò il musicista e tanto ne fu amato.
«Casella mio se nuova legge non ti toglie memoria o uso a
l’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie, di ciò ti piaccia
consolare alquanto l’anima mia, che, con la sua persona venendo qui, è
affannata tanto. AMOR CHE NE LA MENTE Ml RAGIONA cominciò elli allor si
dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona»,
Casella si mette a cantare, ed il canto di quest’anima
cortese non è che la meravigliosa canzone dello stesso Dante. «Amor che nella
mente mi ragiona». Casella, senza dubbio, l’aveva musicata e anche dopo la
morte non l’aveva potuta dimenticare. Lo squisito incontro avviene nel secondo
canto del Purgatorio.
Non c’è espressione d’arte che Dante non conoscesse.
L’orientamento musicale del XIII secolo tendeva eminentemente all’arte del
Canto. Fra il 1200 e il 1350 venne prodotta una grande quantità di canzoni.
Sono, con le «cantigas» del re di Castiglia Alfonso il Saggio, i più antichi
autentici esemplari di melodie profane pervenutici fino ai nostri giorni. Si
possono trovare nella Divina Commedia esempi tanto di armonia vocale che di
monodie, E un «a solo» senza accompagnamento la canzone di Casella. Matelda
canta un «a solo» fra i fiori, e il poeta, sensibile tanto alla dizione che
alla musica, la prega di avvicinarsi onde poter meglio afferrare le parole e
che «il dolce suono giunga alle sue orecchie coi suoi intendimenti». Ma Dante
gusta ugualmente il fascino che gli strumenti aggiungono alla voce. «Voce mista
al dolce suono».
«E come a
buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, che in più di
piacer lo canto acquista» (Par. XX)
E pure nel canto IX del Purgatorio giustamente nota il
sentimento che gli procura l’accompagnamento musicale. «Quando il canto si
unisce all’organo, quando le parole ora si sento ora svaniscono».
Si possono ancora citare due ammirevoli esempi. Nel Il canto
del Purgatorio, su un mare agitato che l’alba colora, Dante vede avvicinarsi
una barca leggera. Un angelo di luce e che sembra un «uccello divino» non
avendo come remi e vele che le sue ali, la conduce. Più di cento anime vi sono
assise e tutte cantano in coro, ad una voce, il salmo «ln exitu Israel de
Aegypto». Ancora, al XVI canto del Purgatorio, il poeta ode delle voci «e
ciascuna pareva pregar per pace e per misericordia l’Agnel di Dio che le
peccata leva».
«Agnus Dei, così cominciano tutte le loro invocazioni; una
sola parola è su tutte le labbra, con un solo ritmo, di modo che fra tutte
quelle anime la concordia sembrava perfetta».
«Pur
Agnus Dei eran le loro essordia; una parola in tutte era e un modo, sì che
parea tra esse ogni concordia»
ln poche parole, ecco tutta la psicologia di una delle
categorie dell’ideale sonoro. L’animo del Medioevo si esprime con essa e Dante
fu testimone della sua gloria: è il canto gregoriano, più unanime di quanto
sarà la polifonia del XVI secolo, poiché nella prima più voci cantano insieme,
mentre nella seconda il canto è monodico.
Ecco ora vere cantate per soli e coro. Pietro d’Aragona e
Carlo di Provenza hanno terminato il Salve Regina. Nel silenzio, il poeta
ascolta invano, sente l’inutilità di ascoltare:
Quand’io incominciai a render vano l’udire.
Parole più di musicista che di poeta, come se il suo orecchio
fosse fatto soltanto per la musica, e che solo questa dovesse essere ascoltata.
Subito ricomincia, un’anima si è alzata, le mani giunte verso l’Oriente. L’inno
«Te lucis ante» esce devotamente dalle sue labbra, e altre anime, simili a
corifee, anime di principi e di re, le rispondono con la stessa devozione e
dolcezza. E avviene anche, come nella lirica corale dei Greci, che il canto si
unisca alla danza:
Tre donne in giro
Venian danzando
Tre donne avanzano danzando: una vestita di rosso fuoco,
l’altra di smeraldo e la terza d’un bianco di neve. Sono le virtù teologali.
Tutte tre danzano, ma solo la carità canta. E altrove ancora: ai suoni seguono
dei movimenti, e la musica fissa figure femminili in atteggiamenti leggiadri.
Mute, in ascolto, esse sospendono i loro passi per riprenderli subito,
regolandoli sulla melodia che avevano perduto e che ora ritrovano:
Donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che
s’arrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte
(Paradiso X)
Al XX canto
del Purgatorio un «Gloria in excelsis» non è cantato ma gridato: «Poi cominciò
da tutte parti un grido…» L’intera montagna trema. Qualche secolo più tardi
il Gloria della Messa in si minore di Bach, e quello della Messa in re di
Beethoven cominceranno più che con dei canti con delle grida.
La musica dantesca non ha nulla di monotono. Essa
abbonda continuamente di effetti imprevisti.
E’ntanto per la costa di traverso venivan genti innanzi a noi
un poco, cantando «Miserere» a verso a verso Quando s’accorser ch’i non dava
loco per lo mio corpo al trapassar d’i raggi, mutar lor canto in un «oh»! lungo
e roco. (Purgatorio V)
Dove potremmo trovare una tale interruzione, un tale
punto d organo. Dante avrebbe potuto dire di questa esclamazione «lunga e roca»
ciò che Wagner fa dire a Beethoven dei punti d’organo che trapassano le prime
battute della sinfonia in do minore: «Tenete il mio punto d’organo lungamente e
tragicamente. Non ho scritto punti d’or-
gano per scherzare o per incertezza, ma per avere il tempo di
riflettere su ciò che segue… Allora la durata del suono deve essere aspirata,
fino ad estinguersi. Allora io fermo le onde del mio oceano e lascio vedere sin
nel profondo degli abissi, io sospendo il volo delle nuvole, faccio penetrare
nell’occhio scintillante del sole». (L ‘arte di dirigere l’orchestra, Maurice
Kufferath)
E lo stesso sentimento che si trova in Dante. Il lamento dei
lussuriosi, tormentati dalle fiamme, è ancora un canto frammisto a grida.
(Purgatorio XXV). Sembra che la trama vi sia stata regolata da un musicista
superiore, e il genio di Dante ha qui intuito dei contrasti di toni e voci,
tessiture e timbri, in una parola forme musicali che i più grandi secoli della
musica dovevano poco a poco scoprire.
L’insieme che irrompe nel XXX canto del Purgatorio, intorno a
Beatrice che appare. Essa sta in piedi su carro simbolico, i profeti e gli
apostoli la circondano,
E un
di loro, quasi da ciel messo, «Veni Sponsa de Libano», cantando gridò tre
volte, e tutti li altri appresso…
Come nel giorno delle ultime assise, i fortunati si levarono
agili ciascuno dalla propria fossa, esalando un Alleluia dalle loro voci
risuscitate. Così, alla voce del grande vecchio, si levarono sul carro divino
più di cento ministri e messaggeri della vita eterna. Tutti dicevano:
«Benedictus, qui venis» e
fior gittando al di sopra e dintorno «Manibus, oh,
date lilia plenis»!
Poesia ebraica, virgiliana, dantesca, tutta la poesia si
condensa in questa scena. Tutto è ugualmente musica. Un verso in particolare, e
in questo l’ultima parola, è di una musicalità difficile a tradursi: La
rivestita voce alleluiando.
In queste sole quattro sillabe la gioia, il giubilo di tutti
gli Alleluia gregoriani sembrano divampare e fiorire. E un musicista non può
non associare questo magnifico periodo a molti capolavori: al Benedictus della
Messa in re, il cui ritmo è proprio quello di una eterna effusione di fiori; ai
celebri cori di Schumann per certe parti del secondo Faust, sicuramente
ispirati dalla Divina Commedia. Così la poesia dantesca ha delle radici
profonde nel campo intero della musica. Se si esclude la sinfonia orchestrale,
non c’è nulla nella nostra arte che Dante non abbia intuito. E non c’è nulla
che egli non abbia compreso e amato. Se la parola cantata lo inebria, sente
anche la bellezza della musica pura di una melodia, in un
accordo: Una melode che mi rapiva, senza intender l’inno
(Paradiso XIV)
Ad ogni ora del giorno Dante dona una voce. Al mattino
sente «la rondine intonare le sue tristi canzoni, forse ricordando i suoi primi
dolori», e fra le tante «sere» che la musica ha celebrato, nulla è più musicale
delle due famose terzine con cui si apre l’VIII canto del Purgatorio:
Era
già l’ora che volge il disio ai navicanti e ntenerisce il core lo dì c’han
detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode
squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more…
Il poeta poteva ben associare la musica all’ora dolce fra
tutte, poiché la musica fu per lui solo dolcezza. Non c’è passaggio del
Purgatorio e del Paradiso che non lo provi. Tanto la soavità dei canti divim lo
illanguidisce, tanto lo immerge in un estasi che è simile al sonno. Al solo
ricordo dei cantici celesti il suo animo si scioglie e per ripeterli, dice, la
sua immaginazione sarebbe troppo poco vivace, la sua parola non abbastanza
dolce.
Dolce, dolcemente, ecco le parole che tornano di continuo.
Ecco, secondo Dante, il carattere generale della musica. Egli preferibilmente
l’associa a sentimenti teneri e benevoli. Ma, come spesso si esprime nella
poesia, ne fa anche l’interprete dell’odio, della collera e della disperazione.
E per questa ragione che la si incontra solo nel Purgatorio e nel Paradiso,
nella regione dove si prepara la felicità o in quella dove si realizza.
Elemento di pace e non di passione.
Quest’arte, che egli tanto amava, ha reso egli stesso più
amabile. Quando parla della musica, e a suo modo, si scopre un Dante troppo
poco conosciuto. «Chiunque, ha detto bene il Montégut, legga soltanto
l’Inferno, correrà il rischio di avere di Dante un’idea errata. E tuttavia è
sull’Inferno che la natura morale del grande poeta è stata giudicata. Se il
Purgatorio avesse un maggior numero di lettori, questa falsa immagine di Dante
che si è imposta all’immaginazione dei posteri non esisterebbe più da lungo
tempo. Per noi, continua l’acuto critico, se abbiamo una particolare predilezione
per questa parte della Divina Commedia, è perché è la più completa apologia del
poeta e distrugge un’immagine formata sul modello delle passioni infernali —
orgoglioso, atrabiliare, collerico e vendicativo, fatto interamente di
giustizia e odio. Qui non è che una parte del suo animo. Perché l’altra ci sia
rivelata bisogna seguire il poeta nella sua faticosa salita lungo la strada
della penitenza, profondendo parole affettuose e saluti cortesi, rispondendo
con lacrime di pietà ai racconti che ascolta, offrendo e ricevendo amore». (E. Montégut,
Poètes et artistes d’Italie).
Montégut avrebbe potuto aggiungere che di questo amore
reciproco la musica è spesso la causa, la messaggera e l’interprete. Per la
musica e per coloro che l’hanno amata, il poeta serba il fiore della sua
tenerezza.
La musica, secondo Dante, calma e consola. Ma fa di più: per
un suo potere superiore, purifica e libera l’animo. Si trova, nel trentesimo
canto del Purgatorio, dopo la severa reprimenda di Beatrice, un mirabile
esempio dell’effetto della musica sullo spirito: «Guardami, io sono Beatrice,
come dunque ti sei creduto degno di avvicinare la montagna? Non sapevi che qui
l’uomo è felice? I miei occhi si abbassaron verso la chiara fontana; ma
vedendovi la mia immagine, li volsi verso l’erba, tanto la vergogna aveva appesantito
la mia fronte. Come la madre appare severa al figlio, così mi apparve Beatrice,
perché la pietà che punisce lascia un sapore amaro.
Ella tacque, e subito gli angeli cantarono In te, Domine,
speravi, ma non andarono oltre ” pedes meos ” … Così io restavo,
senza lacrime e sospiri fino al canto di queste anime che misurano i loro
accordi sugli accordi delle sfere eterne. Ma dopo che nei loro dolci concerti
compresi la loro compassione per me, il ghiaccio che si era indurito intorno al
mio cuore divenne sospiri e pianto»,
E la stessa emozione che Sant’Agostino prova ascoltando i
canti della chiesa ambrosiana: «Le mie lacrime colavano, e io stavo bene con le
mie lacrime». Altrove la musica appare ancora più liberatrice; più mistica e
veramente divina è l’opera che essa compie.
La musica, infine, sarà compagna dell’eterna beatitudine. «La
dolce sinfonia di Paradiso» che comincia con il soave Ave Maria di Piaccarda
Donati, cresce e si purifica man mano che il poeta sale, guidato da Beatrice.
Giungono entrambi al cielo di Saturno. La divina accompagnatrice che spesso,
attraversando cieli meno sublimi aveva sorriso, ora non sorride più: «S’io
ridessi mi cominciò, tu ti faresti quale fu Semelé quando di cener fessi»
(Paradiso XII)
A loro volta le musiche tacciono. Dante se ne stupisce e si addolora che l’una
e l’altra gioia gli siano tolte. «Perché, domanda, perché tace la dolce
sinfonia del Paradiso». E l’anima interrogata, che è quella di Pietro Damiano,
gli risponde:
«Tu hai l’udir mortal sì come il viso rispuose a me: onde qui
non si canta per quel che Beatrice non ha riso».
(Paradiso XXI)
Subito, fra nubi d’angeli, Cristo e la Vergine appaiono e noi
penetriamo nel centro del divino splendore. Il sorriso è ritornato sulle labbra
di Beatrice. Anche i concerti ricominciano, e il poeta, più forte, più puro,
può sopportarne l’incanto senza morire. Una melodia intonata dall’Arcangelo
Gabriele e ripresa dai cori celesti, nasce e si chiude, per così dire, in un
circolo perfetto,
Tutto è musica, ormai. L’impressione ricevuta è così
profondamente emozionante, che nasce molto meno dalla poesia che dalla musica.
In questa regione superiore del Paradiso i Te Deum e i Salve
Regina, i Sanctus e gli Osanna si confondono e si rispondono. Dapprima una voce
e poi tutte le gerarchie in coro intonano un supremo Ave Maria. La dolce
sinfonia termina come era cominciata: rafforzato all’infinito da innumerevoli
voci, irrompe come un tuono e riempie i cieli. È l’epilogo.
Nel corso dei suoi studi sul Purgatorio Emile Montégut ha
provato malinconia, «Tutte queste anime, si chiede, con cui il poeta si
intrattiene, dove si trovano ora? Hanno salito la montagna della purificazione,
sono infine entrate nel regno di Dio? «Se non hanno raggiunto la vetta come
deve essere lenta oggi la loro ascesa! Tanti secoli sono trascorsi dalla visita
del poeta, i loro nomi sono entrati nell’oblio, il ricordo delle loro buone
azioni dimenticato, il dolore di sapere che nessun soccorso sarebbe ormai
venuto dalla terra. Esiste oggi un romano, un toscano, un lombardo che si
interessi ad un Corrado Malaspina, ad un Forchetto? C’è su tutta la terra
d’Italia un animo femminile che si commuova sulla sorte di Pia de’ Tolomei o di
Sapia la Senese? C’è un artista o un poeta che si preoccupi di Casella il
musicista, di Belacqua il liutaio?»
Ma se non conosciamo il destino dei musicisti, come ci appare splendido quello
della musica! Dante ce ne è garante, essendo stato un testimone della sua
immortalità. «E credibile, ha detto S. Tommaso, che dopo la resurrezione i
Santi canteranno le lodi a Dio». In molte parti della Divina Commedia il poeta
conferma la certezza del sublime Dottore. Egli ci assicura che la voce dei
fortunati, «la rivestita voce alleluiando» sarà ancor più viva di quella dei
vivi. «In voce, assai più che la nostra viva!»
Dante ebbe della musica un’idea così alta che egli, uno dei
maestri del verbo, non lo ha ritenuto capace di tutto esprimere. Egli ha
sentito che la musica sfida la parola e la sorpassa infinitamente. Nel XII
Canto del Purgatorio:
«Beati pauperes spiritu! voci cantaron si, che noi diria
sermone».
Così, il verbo che si è fatto carne quaggiù, lassù si farà
canto, e sola, fra tutte le arti, in cielo sopravviverà e si idealizzerà.
Spoglia di tutto ciò che poteva contenere di umano e transitorio: sensualità,
passione, dolore, rimarrà in essa quanto ha di divino: ordine, ragione, amore.
Questa è la concezione dantesca della musica.