FRATELLANZA: UN METODO DI CLAUDIO FERRARO

FRATELLANZA: UN METODO DI CLAUDIO FERRARO

In un mondo che cambia risolutamente e senza attendere i ritardatari, in una società che nella sua articolazione crea confusione negli spiriti puri, in una realtà che con i suoi squilibri fa nascere impellente nell’uomo equo l’esigenza d’agire per il proprio e l’altrui miglioramento, c’è un toccasana: la fratellanza.

La fratellanza vera, profonda, non sbandierata, ma cementata dal comune sentire; vissuta nel gruppo ristretto di loggia per essere riflessa all’esterno sulla società. Ci è parso opportuno ricordarlo: la vera fratellanza non s’impara con la teoria, ma s’acquisisce con la pratica, vivendola e condividendola con chi ha gli stessi nostri intendimenti. Il gruppo, la loggia, l’obbedienza, rappresentano pertanto un buon mezzo, una giusta palestra in cui rafforzare prima lo spirito fraterno, indi la fratellanza vissuta.

Tutto ciò non è però facile: non sempre il sentire fraternamente corrisponde al vivere fraternamente e troppo spesso il sinistro influsso delle vicende e dei problemi del vivere quotidiano ci porta alla «distrazione» anche nella nostra famiglia. Spesso non riusciamo a praticare una vera e costruttiva fratellanza neppure nei confronti dei fratelli, riproducendo in tono minore ciò che critichiamo nel mondo profano.

Ma da distrazione è solo colposa e non dolosa: deriva dallo scarso esercizio della solidarietà.

Occorre ricordarci che la fratellanza è ben più impegnativa della correttezza, ben più difficile della tolleranza, che pur sappiamo essere pilastri fondamentali della nostra Istituzione.

La fratellanza è attitudine effettiva, concreta che si sostanzia in opere quotidiane, tese in una sola direzione: individuare prima e curare poi i bisogni del nostro fratello creando a lui un reale supporto e dando a lui ed a ognuno di noi l’occasione di gustarne i frutti. Fratellanza quindi come azione e non soltanto come astensione dal fare. E il fratello non vive solo in loggia.

Cementare l’amicizia, cementare l’amore vuol dire creare la fratellanza,

non semplicemente parlarne, essere immersi e coinvolti nel lavoro comune vuol dire fornire un’occasione in più alla fratellanza. Ma a chi un poco è avvezzo ad essa sorge spontanea una domanda. La vera fratellanza può avere un confine, un limite, un nucleo?

No, se la fratellanza è come l’amore essa non può essere limitata, ma deve diffondersi; l’uomo privo di umana solidarietà è un uomo senza speranza.

Certo è che, per diffondersi, deve essere già adulta, esercitata condivisa.

Si potrà essere portati a scoprire che il perfezionamento di noi stessi che perseguiamo indefettibilmente come nostra principale opera e la coesione fraterna con cui svolgiamo il nostro compito dentro i nostri muri, ci renda più esperti per l’esterno.

E nostra reale convinzione che i lavori svolti in loggia servono a rafforzare i nostri convincimenti personali ed a scolpire la pietra grezza che è in noi, ma il nostro «particolare» può e deve aprirsi al profano a testimoniare la validità perenne dei nostri principi rapportati alle aspirazioni del tempo in cui viviamo.

Anche in questo compito la nostra base è la fratellanza, l’intesa, la solidarietà.

«Vi riconosceranno dalle vostre opere», riporta una massima evangelica.

Lord Baden Powell affermava che il compito di ogni uomo è lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ha trovato. Un compito arduo nei fatti anche perché il nuovo non è mai, in ogni caso, migliore dell’antico, anzi una tradizione consolidata e condivisa è una sicurezza.

Settarismi, dogmatismi, intolleranza e strumentalizzazioni non sono certo retaggio più del passato che del presente e la storia insegna gli errori compiuti.

Il nostro impegno, senza retorica, ma con umiltà e tenacia, è quello di perseguire il perfezionamento individuale e contemporaneamente ripristinare e rafforzare i valori in cui crediamo.

Il non trattare né di politica né di religione, non significa che ognuno di noi non sia parte del suo tempo e non debba vigilare su quanto accade intorno. Trascurare questo aspetto sarebbe abdicare al nostro

ruolo di promuovere il bene dell’umanità. Ma l’impegno individuale è gravoso a volte più dell’immaginabile e la fratellanza allarga la base, permette gli appoggi laddove il singolo potrebbe cadere, non solo sulle azioni, ma anche sulle idee.

Combatterò per le Tue idee anche se non le condivido: quale più alta professione della fratellanza. Noi abbiamo un vantaggio, condividiamo le stesse idee.

Il compito è solo conoscerci, amarci e procedere.

 23

Pubblicato in commemorazione | Lascia un commento

VITA MASONICA

ICA

  • Etica politica ed Etica massonica
  • Potere e Massonerza            
  • Fede e Massoneria
  • Massonerza, una scelta di vita?

Etica politica ed Etica massonica di A. R.

Etica è la scienza morale o del dovere. Ha significato vasto e vario rispondente ai diversi sistemi filosofici dai quali viene derivata ma fa sempre riferimento alla condotta umana ed ha inoltre carattere normativo, Spesso è sinonimo di morale: l’etimologia è comune. Con significato di «costume», però, «etica» indica di preferenza la teoria e «morale» la pratica. Più avanti, si vedrà questa distinzione in modo approfondito, specie in relazione alla dottrina che nel periodo medioevale si sviluppò e che ancora oggi nel linguaggio comune e nel linguaggio filosofico ne connota le differenze. Secondo la natura e il fine attribuiti alla vita umana si sono avute varie dottrine etiche. Etica politica è quella parte dell’etica che riguarda il comportamento umano nell’affrontare i problemi politici, legislativi, giuridici o dello Stato. Ho avvicinato il problema da uomo che vive quotidianamente questi risvolti senza essere politico in prima persona. Chi può stabilire inappellabilmente se una scelta politica è giusta o no; se essa corrisponde o no ai dettami della ragione?

I mali politici del nostro tempo talora ci inducono a qualche riflessione. Forse che oggi manchi al mondo occidentale una serie di valori positivi, di fini da  che accomunino gli sforzi dei popoli liberi in una direzione ideale? Qualche volta ci viene da chiederci se gli ideali della dignità della persona umana e dei diritti dell’uomo vengano rispettati. Talora crediamo, forse perché queste espressioni — diritti dell’uomo e dignità della persona umana — sono cariche di equivoci, che questi due ideali siano incapaci, da soli di sostenere il peso di una filosofia politica e di una pace universale.

L’uomo, il singolo individuo, è portatore di valori interiori. Di qui la sua dignità e la sua libertà. Ma la natura umana è tale che il singolo individuo è necessitato e obbligato a vivere in società proprio per sviluppare e realizzare concretamente la sua dignità e i suoi fini. Occorre notare come questa condizione non sia qualcosa di aggiunto alla natura umana, così da dovere considerare la necessità della vita associata come una situazione dolorosa ma storicamente inevitabile, in cui l’individuo è venuto a trovarsi. E invece qualcosa che nasce, per così dire, insieme all’individuo. Non si può perciò parlare di una priorità dei diritti soggettivi dell ‘individuo rispetto al complesso di doveri che regolano il suo vivere sociale. Non si può perciò pensare al diritto oggettivo come qualcosa che purtroppo inevitabilmente viene a limitare i diritti naturali del singolo e che va considerata come il minor male, da rendere più esiguo che sia possibile. Qualche volta poi pensando politicamente al nostro Stato ci viene da chiederci: Ma che cosa si intende per Stato? Il sovrano? Cioè nella fattispecie contemporanea il popolo sovrano oppure gli organi che esercitano i poteri dello Stato? Non dovrebbero i poteri dello Stato, opportunamente separati, essere esercitati nei modi e nei limiti segnati dalla legge, che è l’espressione della volontà sovrana? E in suo nome, infatti, che gli organi esercitano i loro poteri. E ancora qualche volta ci viene da chiederci: la volontà della maggioranza, che viene considerata espressione della volontà generale del corpo sociale, è arbitra del diritto o trova anch’essa dei suoi limiti? E ancora, il popolo sovrano (ovvero, in democrazia, la sua rappresentanza qualificata, anche se pur più ristretta numericamente) nel darsi leggi o nel cambiarle trova degli impedimenti? E perché?

Il mio pensiero è ritornato dal vivere quotidiano al paragone col pensiero di chi nel passato ha già affrontato e vissuto il problema. Perché non ripercorrere assieme alcune tappe fondamentali nella storia dell’etica, costituite da uomini, filosofi e no, che si sono avvicinati col loro pensare a questo problema?

Eraclito di Efeso (500 a. C,) , meglio conosciuto per il suo insegnamento cosmologico (il «continuo fluire è filosofo nel cui insegnamento le idee morali hanno una posizione centrale. Egli concepiva la legge come principio di regolarità presente nei processi naturali, ma era anche cosciente dell’importanza della legge (nomos) in senso politico. Era inoltre convinto che la lotta fra gli opposti (es. amore e odio) dovesse risolversi in conformità ad una misura (metron). Posi42

zione diversa è quella dei sofisti; per essi i principi della giustizia non esistono affatto in natura: essi affermano che il maggior diritto è la forza.

Tra gli altri sofisti Trasimaco di Calcedonia (quinto secolo a. C.) è noto per aver insegnato che «la forza è il diritto». Nel primo libro della Repubblica, Platone presenta Trasimaco come un personaggio che sostiene la tesi secondo cui «giusto o retto significa solo ciò che è nell’interesse del gruppo più forte». Callicle di Acarne (fine del quinto secolo a. C.) è presentato da Platone come sostenitore di un’altra versione della teoria secondo cui «la forza è il diritto». Callicle argomentava dicendo che le leggi sono fatte da moltitudini di uomini deboli, allo scopo di controllare e dominare i pochi che sono forti. Il retto ed il giusto sono quindi mere convenzioni imposte dalla maggioranza popolare. Viene citato il poeta Pindaro, che avrebbe detto che secondo «la giustizia naturale», se non intervenissero le legislazioni popolari, la forza sarebbe il diritto, perché i più forti vorrebbero fare il comodo loro senza impedimenti.

Anche Platone in un gruppo di dialoghi, che vanno dalla metà della vita dello scrittore alla sua vecchiaia, delinea il suo pensiero personale sulla natura e sui problemi dell’etica, ad esempio nel Politico (sulla divisione delle scienze in pratiche e teoriche, sui problemi delle leggi politiche, sulla dottrina del medio, sull’origine delle leggi dello Stato e sull’importanza della ragione in tutti i campi della virtù). Il più lungo e forse l’ultimo dei dialoghi di Platone sono le Leggi, che presentano una considerazione meno idealistica e più pratica della maggioranza delle questioni poste nella Repubblica. Qui la politica (Leggi, I, 650 B) viene identificata con l’arte di trattare le nature e le attitudini degli animi umani. Questo dialogo, scritto negli ultimi anni della vita di Platone, mantiene il parallelismo fra la bontà morale personale ed il buon ordine politico, ma insiste continuamente sulla superiorità della virtù politica su ciò che può essere realizzato individualmente. Nella Repubblica Platone aveva insegnato che i governanti possono mentire, se questo è per il bene dello Stato nel suo insieme. Questo forse è uno degli aspetti meno attraenti dell’etica sociale di Platone, Anche Aristotele affronta più volte il problema di poter sapere che cosa è moralmente buono. Egli non è convinto che il bene sia una realtà unitaria di cui si abbia scienza unitaria o saggezza. Egli costruisce una teoria dell’uomo saggio o prudente quale misura della moralità: la teoria della medietà (mesotés): non un punto preciso a mezza strada fra gli estremi, ma un punto intermedio, a seconda delle persone e delle circostanze, determina la medietà morale.

Alcuni esempi: vergognosità-sfrontatezza-modestia irascibilità-impassibilità-gentilezza

Aristotele usò la stessa nozione di medietà quando trattò la virtù morale della giustizia. Poiché questa virtù riguarda i rapporti fra gli uomini, essa è l’abitudine di fare volontariamente ciò che è bene per gli altri e di evitare atti dannosi per essi (Etica Nicomachea, 1129 a 1/1138 b 12). La giustizia è l’inclinazione ad agire in accordo con le leggi riconosciute: essa mira al bene degli uomini nella loro vita di gruppo. La legge morale altro non è che l’espressione di ciò che si adatta agli agenti umani in funzione delle loro relazioni significative con gli altri esseri. La retta ragione (orthos logos che diventerà poi perno dell’etica medievale) è la maniera retta con cui l’uomo buono procede nei riguardi delle attività che si propone, avendo come fine il giovamento da portare in generale alla natura umana.

Molti riferimenti nella tradizione cristiana  e nella filosofia medioevale partono proprio da Aristotele: influenze anche importanti derivano da altre correnti di pensiero. Basti pensare alla scuola stoica ed al termine synderesis, forse corruzione della parola stoica syneidesis che indica l’intuizione. Per la prima volta usata in latino da San Gerolamo (340-420), in un commento biblico, ebbe il significato di scintilla della coscienza (conscientiae scintilla). All’inizio del tredicesimo secolo questa terminologia fu raccolta dai teologi e sviluppata in una speciale dottrina. Parlando in generale, la sinderesi finì per essere la capacità umana (variamente interpretata) di distinguere in maniera generale il bene dal male morale, mentre la coscienza era intesa come la discriminazione personale fra il bene ed il male nelle azioni singole. In altre parole la sinderesi ha riferimenti universali, mentre la «conscientia» si riferisce ad un ambito più particolare e individuale. Distinzione quindi tra scientia moralis e conscientia. Il processo attraverso il quale con un ragionamento pratico si giunge a decisioni individuali (non universali) su problemi morali non rientra nell’etica; ma, quando è eseguito correttamente, viene chiamato retta ragione (recta ratio). La virtù della prudenza o saggezza pratica (pmdentia), è l’abito buono del ragionare correttamente fino a giungere a giudizi pratici buoni su azioni individuali. Questa virtù termina nelle buone azioni. Scienza morale è ben altra: si tratta di regole, giudizi o leggi generali, colte mediante la sinderesi, che concernono tipi di azioni giuste o ingiuste in generale.

Le influenze di questo procedere? L’etica nicomachea di Aristotele veniva conosciuta nel tredicesimo secolo attraverso le traduzioni di Roberto Grossatesta (1168-1253) che dapprima insegnò teologia ed etica ad Oxford e poi divenne vescovo di Lincoln. E gli sviluppi? Pensiamo a Ruggero Bacone (1214-1292) allievo del Grossatesta. Affrontando la discussione sulla politica, egli, partendo da una tripartizione dei rapporti morali dell’uomo (considerato in relazione a Dio, poi in relazione al suo prossimo, ed infine in relazione a se stesso), applicava Io stesso metodo alla scienza della vita civile (politica) che egli intendeva come parte della filosofia morale: in relazione a ciascuno dei 3 gradi Bacone attribuiva all’uomo livelli diversi di responsabilità e di diritti.

Non mancano altre voci nel tredicesimo secolo ad occuparsi di politica. Per esempio Enrico di Gandt (1217-1293), professore di arti e teologia a Parigi, insegnò che la volontà dell’uomo è, sotto tutti gli aspetti, la facoltà più caratterizzante dell’uomo. Come conseguenza di questa concezione Enrico riteneva che la legge e il dovere morale nascessero direttamente dalla volontà del legislatore. Mentre ancora parlava in termini di «retta ragione», Enrico iniziava a collocarsi in una differente concezione dell’obbligazione morale e legale. Comandare diventa ora una funzione di una volontà che è autonoma e non determinata dai giudizi esterni dell’intelletto. Ciò che il legislatore vuole che si faccia è giusto e non occorre nessun’altra giustificazione. Giungiamo al Rinascimento e l’uomo diventa punto centrale di riferimento, non solo nelle arti ma anche nella filosofia. Etica quindi antropocentrica: non intendiamo con ciò dire che fu un’età irreligiosa o atea, tuttavia i filosofi concentravano il loro interesse sulla persona umana individuale.

Uno degli umanisti più originali del rinascimento inglese fu Thomas More (1478-1535). Era un cattolico, un laico, e divenne lord cancelliere d’Inghilterra; fu condannato a morte perché si rifiutò di riconoscere Enrico VIII come capo della Chiesa d’Inghilterra.. L ‘Utopia di More fu scritta in latino e pubblicata sul Continente quarantacinque anni prima che comparisse postuma in Inghilterra ad opera di un editore londinese. L’opera rivela una ovvia influenza della Repubblica di Platone. Chi di noi non rammenta la vita degli abitanti di questa città ideale dai ricordi scolastici? Può sembrare che intendesse essere una reazione al Principe (1513) di Machiavelli; ma il fatto è che il More non conosceva quest’opera. More procede a proporre una teoria dell’edonismo psicologico limitato solo da una ragionevole preoccupazione per il benessere sociale. Ricordiamo che siamo alla fine del ‘400, ben 100 anni prima di Hobbes!

Vale la pena in questo periodo esaminare anche la figura di Francisco da Vitoria (1480-1546), professore all’Università di Salamanca, non tanto quale espressione di scolasticismo cattolico (il suo Commento alla Seconda Parte della Summa Thoelogiae, mostra una buona conoscenza della dottrina morale di Tomaso d’Aquino), quanto maggiormente per le idee personali e rinnovate sulla vita politica e internazionale esposte nel suo trattato «sul diritto di guerra» (1532). Nel tredicesimo secolo Tomaso aveva stabilito tre condizioni, che dovevano essere soddisfatte prima che un popolo entrasse giustificatamente in guerra: 1) che la guerra sia dichiarata dall’autorità di uno stato sovrano; 2) che sia dichiarata per una causa giusta; 3) che sia dichiarata per promuovere un bene ed evitare un male. Vitoria discusse queste condizioni una per una con notevole ampiezza. Per quanto riguarda la buona ragione per fare guerra, negò che la differenza di religione, l’estensione di territorio o la gloria del principe fossero cause giuste per far guerra. Concluse allora che «c’è solo una causa giusta per cominciare una guerra, cioè un torto ricevuto. .. » Allo stesso modo vengono chiarite da Vitoria le altre due condizioni. Oggi è assai importante il fatto che egli aggiunse una quarta condizione: la guerra giusta deve essere condotta in maniera ragionevole e moderata. Così sollevò l’importante questione etica dell’uso dei mezzi adeguati. In particolare Vitoria insiste che i buoni risultati di una guerra devono essere maggiori dei mali che essa produce. Come conseguenza di concezioni  come questa Vitoria viene considerato da molti come il fondatore della teoria del diritto internazionale. Egli visse in un tempo in cui lo spirito nazionale e la teoria dell’autorità raggiungevano le forme più spinte; nonostante ciò, egli propose l’idea di uno stato mondiale e di un diritto internazionale. Un tale stato ed un tale diritto furono considerati dal Vitoria non come semplici espedienti politici, ma come qualcosa che avesse una portata morale. Egli esprimeva chiaramente la condanna morale per chi si rifiutasse di cooperare ad una organizzazione della vita mondiale secondo regole.

Per contro, nel Rinascimento molti sono gli uomini per i quali non aveva senso cercare di distinguere il bene dal male morale. Nicolò Machiavelli (1469-1527) è uno dei primi nomi che vengono in mente. Il suo trattato «il Principe» (1513) ed i suoi «Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (1517) sono esempi classici della concezione che, se uno vuol fare qualcosa di molto cattivo, può fare qualsiasi cosa, per ottenerla. Egli era suggestionato dal problema del potere politico: la soluzione che dava a questo problema è francamente discutibile come risulta da queste idee. «Per un principe che vuole mantenersi al potere, è necessario che impari a non essere buono e ad usare questa conoscenza o non usarla secondo la necessità dei casi. .. Alcune cose che sembrano virtù, qualora fossero seguite, porterebbero alla rovina ed altre che sembrano vizi producono sicurezza e benessere». Questo cinismo politico sembra fondato su di uno scetticismo etico completo. Le azioni umane sono buone o cattive solo per quanto sono mezzi per raggiungere un dato fine, che in questo caso, è la conservazione del potere politico. Si può pensare che qui si tratti di una anticipazione di uno speciale utilitarismo: il criterio cui bisogna riferirsi è il vantaggio dell’individuo, che riesce ad avere nelle mani il potere civile. Qui non abbiamo un’etica formale, ma forse piuttosto una posizione etica, che non ha mancato di simpatizzanti. In questo periodo Tommaso Hobbes e Giovanni Locke sono due nomi che devono essere tenuti presenti nell’affrontare questioni politiche: solo una loro diretta conoscenza permette di cogliere il pensiero politico moderno nell’atto stesso di scaturire dai suoi presupposti filosofici e teologici. In essi si trova per la prima volta teorizzato a sistema politico e condotto alle sue estreme conseguenze pratiche il netto

taglio fra terra e cielo, fra natura e sopranatura per l’elaborazione dello Stato «moderno», quello cioè in cui i teologi tacciono. Hobbes nega un bene e un male oggettivi: unico bene viene considerato la conservazione della vita. E siccome l’unico garante di essa è lo Stato, esso si costituisce in primo etico, fonte di moralità. Anche la politica di Locke non muove dall’etica, ma dalle verità di fatto, cioè dagli istinti umani, traformati in diritti naturali soggettivi. Solo che in luogo dell’unico diritto alla vita, Locke ammette i tre diritti: alla vita, alla libertà e alla proprietà; e lo Stato assume quindi il ruolo di tutore dei tre diritti. Viene da considerare che l’individuo ignori gli altri individui e si ritenga estraneo ai loro fini, salvo che per difendersene. Si arriva così alla giustificazione dello Stato per mezzo della sua causa efficiente, il contratto, che diviene elemento preminente nelle moderne dottrine politiche. Lo Stato non esiste come unitas ordinis, come portatore di un bene comune; ma come assicuratore in forme diverse della possibilità giuridica di godere al massimo dei beni materiali concepiti come desideri istintivi. Ecco dunque la lezione che i due filosofi ci danno: perduto il concetto di unità di ordine, lo Stato diventa la personificazione di una superiorità rispetto all’individuo (eticità dello Stato). Hobbes ritiene giusto ciò che il sovrano stabilisce e ingiusto ciò che proibisce; purtuttavia egli mantiene, sia pur allo stato di ipotesi e con scarsa coerenza metafisica il germe di un bene e un male indipendenti dal volere sovrano: questo volere sovrano potrà essere malvagio, potrà essere odioso, ma mai ingiusto. Con ciò si lascia aperta la porta a un bene e a un male superiori allo Stato, alla possibilità di un giudizio del singolo sul sovrano: sarà un giudizio inefficace, ma sempre legittimo. Dal momento che per Hobbes ciò che conta è conservare la vita, per questo occorre un sovrano assoluto. E augurabile che si comporti bene, ma che anche se prendesse provvedimenti malvagi non per questo sarebbero meno validi.

I moralisti europei dei secoli diciassettesimo e diciottesimo fecero della filosofia morale un campo di studio importante e ben distinto. L’etica fu argomento di studio universitario ma fu anche oggetto di lavoro per scrittori non accademici. Per coloro che si interessarono di politica e di giurisprudenza si hanno procedimenti che partono da principi generali della legge e del diritto per giungere attraverso ragionamenti a regole specifiche da applicare alla fine, queste regole piuttosto ampie, a casi individuali. Spinoza (1632-77), ad esempio, nel suo « Tractatus theologicus-politicus» afferma che «prima della legge civile non c’è nessuna differenza tra l’uomo pio e l’empio»: «il torto è concepibile solo in una comunità organizzata»; chiama libero l’uomo nei in cui è guidato dalla ragione. Nella società organizzata la legge dello stato determina ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Spinoza menziona spesso l’«utilità», ma solo per riferirsi al benessere umano in generale e senza la connotazione edonistica con cui il termine compare negli scritti inglesi.

Nel 1693 Leibniz preparò e pubblicò un’edizione di documenti concernenti il diritto dei popoli (Codex Juris Gentium Diplomaticus) con una speciale prefazione. Qui il diritto (jus) è definito come «una specie di potere morale e l’obbligazione è una necessità morale». Morale è «qualcosa di equivalente a naturale per un uomo che è buono». Un uomo buono è «uno che ama tutti gli uomini, per quanto lo permette la ragione». Nello stesso posto la saggezza viene descritta come «nient’altro che la stessa scienza della felicità». In un commento successivo a questo Codice (Mantissa codicis juris gentium, 1700), Leibniz formulò ed evidenziò una definizione della giustizia, che aveva data nella prefazione. «La giustizia» diceva, «non è altro che la carità dal saggio». Verso il 1702 Leibniz scrisse un saggio in francese, Riflessioni sul comune concetto di giustizia. Vi si critica la tesi che la legge è semplicemente un imperativo nato dalla volontà. Secondo Leibniz Hobbes ebbe torto a seguire la posizione di Trasimaco, secondo cui la forza ha il diritto, infatti egli «non distingue fra il giusto ed il fatto. Altro è che una cosa può essere, altro è il dover essere». La sua teoria della morale, che procede a partire da una definizione iniziale di bontà sostiene che l’azione retta deve adeguarsi alla natura ed a regole generali di comportamento morale. In un brano particolare di quest’opera Leibniz dice: «Possiamo chiederci quale sia il vero bene. Rispondo che è ciò che giova alla perfezione delle sostanze intelligenti». Uno scrittore di lingua francese di questo periodo a cui molto si deve nel campo dell’etica politica è Gian Giacomo Rousseau (1712-1778) nato in Svizzera e vissuto per molti anni a Parigi. Il famoso «Contratto sociale» (1762) è lo sforzo più ampio fatto da Rousseau per spiegare come nascano la società umana e le sue leggi. In una società bene organizzata, secondo Rousseau, il giudizio delle persone su questioni morali e sociali costituisce la volontà generale o popolare, che ordinariamente si esprime nel voto della maggioranza, ma che non si riduce ad un conteggio di opinioni. In quanto «volontà generale» è retta e pura ed esige obbedienza da tutti i cittadini. Essa è l’espressione sociale di ciò che è retto dal punto di vista morale. Rousseau non sviluppò l’idea di volontà generale in una teoria etica, ma costituì un importante antecedente della dottrina kantiana della volontà autonoma.

Le clausole del patto sociale si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Torna qui il pensiero di Hobbes, solo che al posto del sovrano c’è la communauté, la volontà generale. Questa volontà generale è il perseguimento dell’interesse generale contro tutti gli interessi particolari e nell’interesse di tutti: «Ora, il sovrano (cioè il corpo sociale esprimente la volontà generale), non essendo formato che dai singoli che lo compongono, non ha né può avere interessi contrastanti tra loro ( Il sovrano, per esser colui che definisce ciò che è giusto, definisce automaticamente ciò che è bene; chiunque si rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutto il corpo politico: il che non significa altro se non che lo si costringerà ad esser libero; perché tale è la condizione che, «dando» ogni cittadino alla patria lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione su cui si fondano l’artificio e il funzionamento della macchina politica, e che sola rende legittimi i vincoli civili che altrimenti sarebbero assurdi, tirannici ed esposti agli abusi più enormi. E dunque ormai avvenuto che il bene si è risolto nel giusto, cioè nella volontà generale. Non è più che un interesse generale sia giusto perché corrisponde a certi valori, ma diviene esso stesso valore perché è generale.

Mentre nell’Europa continentale l’etica procedeva secondo questa tendenza razionalista, in Inghilterra si sviluppava secondo quel filone che viene detto «utilitarista». Espressione iniziale e di alto livello è rappresentata da David Hume (1711-76). Alcuni elementi riportati dal suo trattato intitolato «Ricerca sui principi della morale» ci inquadrano le riflessioni sulla politica e sull’etica: il trattamento della giustizia è basato sull’utilità per la società. L’utilità è intesa come tendenza ad un bene ulteriore ed è la base di varie virtù morali, ma non l’unica fonte della virtù; a questa contribuiscono anche altre qualità come la cortesia, la modestia, l’affidabilità. In termini più completi si può parlare di «umanità» come sentimento che hanno in comune tutti gli uomini e che è una sorta di carattere pubblico ed aperto agli atteggiamenti morali. La influenza di Hume nel campo dell etica è stata estesa e profonda. La sua insistenza sull’utilità sociale porta all’utilitarismo inglese secondo le sue varietà diverse. Un altro suo scritto importante sotto il nostro profilo sono i «Saggi di morale e di politica in esso vengono distinti due tipi di doveri morali. Delle due specie di doveri morali uno procede a partire dall’istinto naturale ed è interamente indipendente dalle idee di obbligazione o di utilità pubblica: l’amore dei figli, la gratitudine verso i benefattori e la pietà verso chi subisce una disgrazia ne sono esempi. Un secondo tipo di dovere morale nasce solo da un senso di obbligazione più che da una consapevolezza delle necessità della società umana.

Altro utilitarista inglese fu William Godwin (1756-1836). Partendo dall’etica si occupò di politica e di felicità umana. La sua «Ricerca sulla giustizia politica e la sua influenza sulla morale e nella felicità» fu pubblicato nel 1793: in esso propugnava il principio della più grande felicità per il più gran numero di persone. Fu un acceso difensore della libertà politica e sociale ma non accettava la formulazione (Bentham) del piacere e del dolore individuali come fattori fondamentali del giudizio morale. Piacere e dolore personali non sono moralmente buoni per l’azione stessa: egli riteneva che solo la «ragione» fosse la miglior motivazione morale dell’attività umana (molto simile in questo alla posizione kantiana).

Più avanti, nel secolo diciannovesimo fu John Stuart Mill (1806-1873) che portò avanti con le sue opere «Logica delle scienze morali» (1843) e l’«Utilitarismo» (1863) queste linee di pensiero. L’etica ha alcune premesse generali e da essa scaturiscono alcune principali conclusioni, sicché si forma un «corpo di dottrine» che costituisce l’«arte della vita». Questa «arte della vita» si divide per Mill in 3 parti: morale, politica ed estetica — in corrispondenza rispettivamente col retto, col conveniente e col bello. La formulazione che egli dà dell’«utilità» non ha niente a che fare con la comune eccezione della parola, che è in contrasto con il piacere. Ecco esattamente come egli si esprime: «Il credo che accetto come fondamento della morale, il principio dell’Utile o della Più Grande Felicità, sostiene che le azioni sono rette secondo che tendano a promuovere la felicità e sono cattive secondo che tendano a promuovere l’inverso della felicità. Per felicità si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore e la privazione di piacere». A questo il Mill aggiunge due punti chiarificatori. Ciò che è implicato non è la più grande quantità di felicità di un singolo agente, ma «la più grande quantità di felicità nel suo insieme». Inoltre ci sono diverse specie di piacere; devono essere notate le variazioni di qualità oltre quelle di quantità. Quando si occupa poi di politica e di giustizia Mill ritorna al riconoscimento del più alto interesse collettivo dell’umanità: i doveri imposti dal «giusto» sono semplicemente la più alta specie di utilità sociale. Per Mill gli uomini generalmente amano la felicità e la virtù è quella che conduce l’uomo alla vera felicità. Il quinto capitolo dell’Utilita1ismo associa l’utile con la nozione di giustizia. Mill è ben consapevole che molti hanno pensato che gli uomini hanno un istinto o sentimento naturale del giusto. Egli dà una meditata spiegazione dell’origine storica dell’accettazione della giustizia da parte degli uomini. Qui viene messo l’accento sull’idea che gli esseri Intelligenti tendono a cogliere una «comunità di interessi» ed a sviluppare la capacità di simpatizzare con gli esseri umani in generale.

Può essere utile anche esaminare la politica dal punto di vista dell’etica dell’ idealismo tedesco. Prendiamo ad esempio Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e ricordiamo la sua opera «Sistema di etica» (Das System der Sittenlehre, 1798): la sua metodologia filosofica: io (tesi), non-io (antitesi), io assoluto (sintesi di io e non io) segue la stessa via triadica nell’etica: a) una voce della coscienza che parla chiaramente e inequivocabilmente dentro di noi, b) una scienza filosofica di ciò che è retto (in generale fuori di noi), c) un’azione di sintesi nel realizzarsi della propria volontà e della coscienza morale. La politica poi non è che un’estensione dell’etica. Nella comunità sociale la volontà individuale deve apprendere a limitarsi in relazione agli interessi delle altre volontà individuali. Quindi la società è «la relazione reciproca degli esseri ragionevoli; una libera e reciproca attività fondata su idee». La concezione morale dello Stato in Fichte è legata a ciò che si è detto. La volontà non è solo l’energia mentale tua o mia: c’è una più ampia «volontà» (qui c’è ovviamente una reminiscenza della volontà generale di Rousseau), che si esprime nella vita dello Stato nazionale.

Limiti di spazio non ci consentono di dare un’occhiata, neanche veloce, ad altri importanti contributi sul tema. Ma vogliamo perlomeno accennare a quella importante parte dell’etica politica che è stata sviluppata da pensatori attivi nell’etica sociale: basti pensare a Fourier, a Karl Marx e, per quanto diversamente indirizzati, a Croce e a Gentile.

Nel corso del xx secolo inoltre scuole di pensiero come quella dell’eticaanalitica (o meta-etica del linguaggio) o quella esistenzialista finanche nel suo filone religioso-protestante (Reinhold Niebuhr: «L’uomo morale e la società immorale» 1932) hanno dato ampi spazi di riflessione sulla materia di questo argomento.

Forse però nel giungere ai giorni nostri sono intervenuti spazi troppo ampi nel pensiero umano che talora hanno provocato dei disorientamenti e talora hanno lasciato invero anche dei vuoti di valori interiori e di tensioni ideali dell’uomo.

Passiamo adesso alla seconda parte dell’argomento proposto. E rifacciamoci alle linee guida di pensiero che regolano, che normano il comportamento degli individui che fanno parte dell’Istituzione. In quanto si tratta di un Insieme di persone, che vivono in relazione tra di loro ed in relazione con gli altri uomini, anche qui emerge un comportamento «politico», si configurano delle norme, ed emerge quindi una teoria etica quale risultato del complesso di queste norme, che nascono sulla base di alcuni principi e sono articolate in conformità di alcuni fini.

Dal punto di vista etico, la M. tende a conoscere l’uomo — questo grande sconosciuto — ed a condurlo al perfezionamento attraverso l’educazione; indi alla sua vittoria sul vizio e sulle passioni mediante la conoscenza e l’esercizio delle virtù, la conquista della verità e il culto per la Giustizia. Ricordiamo i significati che sono dentro queste parole.

Virtù. Virtù vuol dire forza, è la forza di fare il bene, assoluto compimento del proprio dovere. Essa è virtù pubblica quando è dedicata alla Patria, allo Stato, alla società; essa è virtù privata quando si esercita senza sforzo, ma con disinteresse in favore degli individui. Essa è virtù domestica quando è rivolta ai doveri familiari. Vizio. Vizio è ogni concessione fatta all’interesse ed alla passione, a spese del dovere. È la soddisfazione dei cattivi desideri dell’uomo.

Ed i principi su cui si basa questo operare sono:

Libertà: cioè il dovere di compiere e di non compiere atti secondo la determinazione della propria volontà. E il diritto di fare tutto ciò che non è contrario alla legge, alla morale e alla libertà altrui. Uguaglianza: «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te stesso».

Fratellanza: «fai agli altri tutto il bene che vorresti gli altri facessero a te».

Prendendo in esame l’Istituzione già all’origine, vediamo che un punto cardine dell’agire e dell’essere ha, sin dall’inizio, una specifica connotazione etica. Infatti negli «Antichi Doveri» (che poi al XXXIX punto dei Regolamenti Generali vengono espressamente dichiarati «land-marks» cioè cippi terminali) si legge al Capo 1 0: Un m. ha l’obbligo, a causa del suo stato, di obbedire alla legge morale. Nel corso dell’ ingresso nell’Istituzione, tra i fondamenti dell’essere e dell’agire viene ricordato che la morale è una scienza che riposa sulla ragione umana. E la legge naturale universale ed eterna che regge tutti gr1 esseri lntelligenti e liberi. E la coscienza scientificamente spiegata, scienza ammirevole che fa conoscere all’uomo i doveri e l’uso ragionato dei propri diritti. Essa si dirige ai più puri sentimenti del cuore per assicurare il trionfo della ragione e della virtù. Ritualmente poi, in occasione di ogni riunione viene ricordata l’essenza stessa della morale, con parole scarne, ma con tono aulico: «Per quale scopo ci riuniamo? Per edificare templi alla virtù, scavare oscure profonde prigioni al vizio e lavorare al bene ed al progresso della Patria e dell’Umanità». L’insieme delle norme morali, l’etica quindi, può sintetizzarsi come lo sforzo continuo e perseverante di migliorare l’umanità attraverso il miglioramento di se stessi. Niente quindi di «rivelato» o di «imposto» ma una continua scelta libera di una vita basata su ragione, tolleranza, altruismo e senso del dovere. La morale dunque inizia dal singolo uomo ed è il processo di avvicinamento di ciascun individuo verso gli altri, in conformità al principio che dice: agisci verso gli altri nel modo in cui essi stessi vorrebbero essere trattati, trattali come tu vorresti essere trattato al loro posto. Siamo persone umane, che vivono insieme, che costituiscono quindi una «polis», che hanno un comportamento «politico»: il vivere insieme, per scelta e per necessità, si basa sul fatto che una scelta, anche etica, presuppone libertà; che inoltre esiste una uguaglianza di fondo nella diversità degli uomini e che la fratellanza umana è una presenza naturale nell’essere uomo

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

I COSTRUTTORI

I COSTRUTTORI di Giovanni Piccolis

Allora Salomone disse: «l’ Eterno ha dichiarato che avrebbe abitato nell’oscurità. Io ho terminato di costruire una casa che sarà Tua residenza, Dio, una dimora dove Tu abiterai eternamente».

Salomone è un re saggio, dotto nelle scienze occulte, Egli può leggere le lettere delle Sacre Scritture, è un esperto del linguaggio esotericokabalistico ed ha così la chiave per leggere le Tavole di Mosè; Egli possiede anche il Bastone-misura di Aronne.

Le chiavi dell’Alchimia e dell’Architettura sacra sono in suo possesso, Egli fa il progetto della costruzione del Tempio. Ma le misure gli vengono trasmesse da un documento il cui contenuto doveva riguardare la conclusione dell’alleanza stabilita da Dio con Israele sul Sinai, con l’intermediazione di Mosè. Il re Salomone conosceva le proporzioni cosmiche e quelle dell’unità di misura, ma per costruirlo dovette rivolgersi, non avendone a disposizione, ad un popolo di Costruttori, Ed Hiram-Abi, il Fenicio, in possesso delle chiavi della «antica misura», costruì il Tempio.

Con la collaborazione della magia manuale che Hiram-Abi aveva ricevuto dai costruttori dei Templi egiziani, non è impossibile che al di sotto del Tempio di Gerusalemme il re Salomone abbia fatto costruire, di nascosto, qualcosa che forse è stata la causa dell’assassinio di Hiram-Abi: un locale difficilmente accessibile e totalmente nascosto ove collocare l’ Arca con il suo contenuto.

Quindi per i Templari, monaci e cavalieri, si trattava della custodia della Terrasanta, ma principalmente della ricerca del Santo Graal. Ma quale era anche lo scopo che questi Cavalieri, custodi dei segreti del Tempio di Salomone, perseguivano?

Era quello di costruire un Luogo terreno, un Regnum, a somiglianza di quello Celeste, che avesse sostituito l’attuale stagnante feudalesimo degli Stati. Un Regnum per il quale era necessario incrementare le attività sociali, promuovere la conoscenza di valori sconosciuti alla società del tempo.

Per realizzare questa «Grande Opera l’Ordine si trasferisce in Occidente con tutte le sue ricchezze ed i suoi beni lasciando in Oriente

una piccola parte della sua Milizia; Gerusalemme assume, fino a quando la storia glielo permette, l’aspetto di una sede simbolica, La disciplina dell’Ordine militare e monastico al quale appartenevano i Templari, anche se innestata nel tronco della tradizione occidentale, non fa loro dimenticare l’organizzazione e l’importanza dell’edificio del Tempio: l ‘ Edificio sacro a Re Salomone. L’organizzazione, la divisione degli operai effettuata dal costruttore Hiram-Abi di Tiro in apprendisti, compagni Maestri, non fa dimenticare loro che l’uomo vale per ciò che è capace di fare. Da operaio ad artista, da artista a maestro tutto ciò comporta una elevazione spirituale dell’uomo verso il suo Risveglio interiore.

Il lavoro materiale, grazie all’accordo che poco a poco si stabilisce tra la materia e l’operaio, può portare a questo risveglio. L’operaio passa allora, insensibilmente, allo stato di artista, poiché ha acquistato quella magia manuale, il cui rituale è stato trasmesso tra gli operai di padre in figlio o da maestro ad apprendista, fin dalle epoche più remote, e che l’Ordine benedettino tanto si era preoccupato di coltivare. Ne consegue che l’opera può provocare nell’uomo il risveglio spirituale e più specialmente l’opera architettonica, nella quale l’uomo può spaziare.

Ecco la ragione per cui in tutte le civiltà una posizione particolare è stata riservata ai costruttori religiosi, il cui apprendistato ha sempre richiesto una forma d’iniziazione.

Si tratta di un aspetto che nessuna opera d’incivilimento può trascurare, senza essere incompleta, ed è questo il motivo per cui documenti e tradizioni ci mostrano i Templari così intimamente legati ai costruttori di Cattedrali.

Ottenuto questo risveglio l’uomo viene in possesso della «Chiave». Quella chiave che permetterà di aprire le Porte del Tempio.

E passando attraverso le due colonne, virtualmente trasportate in occidente, i Templari, sotto la guida dei Cistercensi, possessori di una conoscenza rigorosamente celata riguardante la scienza dei costruttori delle piramidi e l’esoterismo orientale, preparano all’uso della squadra e del compasso quei maestri muratori che in seguito eleveranno verso il cielo quegli esemplari di architettura ogivale che prenderà il none di  gotico.

Dal punto di vista architettonico, tra il Romanico e il Gotico, esiste la medesima differenza che c’è tra la statica e la dinamica, il che si traduce in un’inversione delle forze e dei pesi.

La differenza fondamentale tra i due stili riguarda essenzialmente la forma della volta. Le differenze tra le strutture dei muri, delle finestre ecc., derivano da questa differenza fondamentale e non ne sono la causa.

Tra i due stili un rovesciamento dei principi. La volta romanica è una copertura che pesa sui muri. Di conseguenza, l’elemento principale è il muro, che è reso compatto e spesso, per preoccupazione di sicurezza.


La volta gotica invece è un insieme di spinte della pietra, concepito in modo che la copertura non pesi più sui muri, ma sia «proiettata» verso l’alto. I muri hanno, ormai, solo una relativa importanza e si svuotano, trasformandosi in immense vetrate dalle quali cade una rugiada vivificante e purificatrice. In uno scintillio di colori, rubino, topazio e smeraldo, «quest’acqua che non bagna», quest’acqua celeste, si diffonde trasportando i lontani bagliori del Tempio di Gerusalemme. Nella penombra delle Arcate dei Templi d’Occidente l’anima dei credenti si predispone alla penetrazione di un mistero profondo. Non può esistere una transizione tra il Romanico e il Gotico.

Una volta gotica su muri romanici li squarcerebbe, a meno che lo spessore del pietrame non fosse enorme. Una volta romanica, serrata tra due archi rampanti, si piegherebbe e si spezzerebbe a partire dall’alto. Il Gotico è un sistema completamente nuovo — di esso non si riscontra alcuna traccia anteriore —, in cui la volta, sostenuta da due archi rampanti, si fenderebbe sotto la loro spinta, se non fosse stabilizzata dalla chiave di volta. Il peso stesso degli archi rampanti crea la spinta laterale. Il peso stesso delle pietre della volta crea la spinta verticale, dal basso in alto, della chiave di volta. E quindi il peso stesso delle pietre a lanciare verso l’alto la volta.

Il peso ha la propria negazione in se stesso. Si tratta quasi di un fenomeno di lievitazione.

La crociera delle ogive che è l’elemento tipico del Gotico, costituisce un insieme di nodi di tensione, che sono puntellati dagli archi rampanti, appoggiati ai loro contrafforti e bloccati dal peso dei loro pinnacoli, sovente rappresentato con un’immagine barbuta con ali e corpo femmineo scolpita nella pietra. Il Bafonetto dei Templari, che di lì a poco, doveva rappresentare per l’inquisizione l’idolo demoniaco adorato dai cavalieri nelle segrete cerimonie del Tempio.

Si può immaginare quando le volte sono a diverse decine di metri dal suolo — come in tutte le grandi cattedrali — quale somma di conoscenze fosse richiesta al maestro architetto.

Le dimensioni di Chartres presuppongono una conoscenza esattissima del globo terrestre e delle sue dimensioni — giungendo alla conclusione, in mancanza di altre possibili, che i costruttori ed, ancor più, gli ideatori dovessero essere in possesso di un documento scientifico di qualità eccezionale e che questo non potesse logicamente essere che le Tavole della Legge, riportate dai primi nove cavalieri del Tempio.


E certamente straordinario che sia stato possibile trovare tra la popolazione francese, allora assai ridotta, un numero di maestri muratori, di scalpellini, di falegnami, di vetrai, sufficiente ad intraprendere la costruzione di quell’enorme numero di chiese laiche, per tali intendendo le chiese destinate al pubblico che fu costruito in quel periodo.

La formazione di costoro fu sicuramente dovuta ai benedettini ed ai cistercensi, ma bisogna tener presente che dal 1140 al 1277 si ebbe l’apertura di ben 25 cantieri per la costruzione di Cattedrali.

E questo, solo per limitarci ai principali cantieri.

Quanti maestri muratori! Quanti scalpellini! Quanti falegnami!

E bisognava pagarli!

E allora chi pagava? Chi pagava non solo gli operai, ma i cavatori di pietre, gli addetti ai trasporti, i manovali, i sorveglianti, i terrazzieri, gli acquaioli, coloro che tiravano le corde, ed infine, gli scultori, i vetrai ed i carbonai?

Il popolo certamente. Ma esso era povero ed anche se donava in continuazione non poteva farlo che lentamente.

II re, i feudatari, i vescovi, i canonici — le cui offerte sono state accuratamente annotate e, perciò, sono note — non facevano che doni irrilevanti — un altare, una vetrata, un’immagine…

I Comuni? Non vi erano, allora, che dei piccoli borghi salvo Parigi, del tutto incapaci di affrontare, con la rapidità dovuta, simili spese. Doveva esservi un «finanziatore». Tra i finanziatori, l’unico così ricco da «anticipare» tanto denaro era il Tempio.

58

Pubblicato in massoni famosi | Lascia un commento

RIFLESSIONI DI FINE STAGIONE

RIFLESSIONI DI FINE STAGIONE di E. Enrico Tauber

Nel_le discussioni che hanno accompagnato (e che, se fossero state vissute e sincere non sarebbero cessate di botto appena svoltesi le elezioni amministrative) l’iter legislativo, tuttora in corso, delle nuove disposizioni in materia di commercio, detenzione ed uso di droghe psicoattive, si è detto tutto ed il contrario di tutto. Meno un dettaglio, non proprio trascurabile, che però non è mai stato menzionato né da coloro che sono favorevoli alla posizione più spiccatamente punitivo-repressiva, né da quelli che, all’opposto, ritengono preferibile una posizione più pratica (liberalizzare per capitozzare il traffico illegale): la responsabilità del consumatore di droghe.


Tutti sono d’accordo che la tossicomania non è malattia né dipende (salvo qualche raro caso veramente eccezionale) da uno stato di malattia ma è, fondamentalmente, conseguenza di una scelta personale. Siamo stati addentro alla questione abbastanza per renderci conto che queste scelte, pur non essendo obbligate, tante, tantissime volte non possono neppure essere considerate libere. Intanto il candidato tossicomane è quasi sempre persona caratterialmente debole, frequentemente con deficit culturali e/o intellettuali, carenze affettive, insufficiente capacità di giudizio critico, immerso in quello che i sociologhi chiamano disagio esistenziale — che tante volte è costituito da vere e reali difficoltà, ma tante altre da semplice infingardaggine, da un rifiuto della fatica di (e per) vivere. (E ovvio che i motivi di protesta, ideologici, degli anni sessanta sono lontani anni luce).

Tante volte, veramente, tutto è sbagliato alle spalle del tossicomane: la famiglia, la scuola — e con ciò l’educazione e la formazione del cittadino — il mercato del lavoro e le strutture sociali e di conseguenza, l’inserimento. Ma tutti questi fattori non sono, e non sono mai stati ideali per chicchessia, Ed allora il «chiamarsi fuori», con tutto ciò che può averlo propiziato e per quanto anche pesantemente condizionato quanto si voglia, è e rimane non una fabulata generica «colpa della società», ma una scelta. Scelta, perché oggi nessuno ignora cosa significhi e cosa comporti, scelta di cui nessuno oggi più ignora le implicazioni e conseguenze. Scelta che, per il soggetto che la compie,

potrebbe anche rientrare tra quelle proprie della sfera della libertà individuale di disporre di sé (in Italia il tentativo di suicidio non è reato) se non fosse per un suo particolare aspetto: quello della sua antisocialità. Il tossicomane divenuto tossicodipendente, nella generalità dei casi, non è in grado di guadagnarsi in modo legittimo quanto gli occorre per vivere e soprattutto per finanziare il suo fabbisogno di droga. E di conseguenza viene a pesare sulla collettività con la maggioranza di tutti i reati globalmente commessi nella Repubblica, senza contare quelli non denunciati, come gli abituali depredamenti e maltrattamenti dei genitori. Poi bisogna mettere in conto la prostituzione, la diffusione di virosi (soprattutto, ma non solo, l’epatite e l’ AIDS) ed altre malattie cui consegue un pesante e straordinario consumo di risorse del Sistema Sanitario Nazionale — già insufficiente per le fondamentali esigenze della collettività — consumo destinato a continuare ad incrementarsi in modo esponenziale con il diffondersi dell’AlDS. Ciò si verificherebbe, sia pure forse in forma meno drammatica, anche se la droga fosse disponibile a prezzi controllati I

Questa, della disattesa del principio di responsabilità personale, pare sia diventata una norma della nostra società italiana: la sottomurano le sanatorie, i ripianamenti dei deficit straripanti degli enti pubblici, i periodici condoni ed amnistie, certe depenalizzazioni per politici e pubblici amministratori.

In questo generale ordine di idee siamo giunti al punto — e mi riferisco ad un episodio di questi giorni — in cui dei genitori rifiutano di riconoscere e di occuparsi del loro neonato perché anormale (mongoloide nella fattispecie). La legislazione italiana non ne prevede la possibilità, ovviamente, nel caso di nato da un matrimonio — anche se un caso conclusosi proprio secondo le intenzioni dei genitori ci è noto personalmente ed è avvenuto già parecchi anni fa, e con l’intervento della magistratura minorile, in una città dell’Italia settentrionale.

 Il discorso, ma su un piano molto diverso e limitato, dovrà essere affrontato prima o dopo anche per i fumatori ed i forti bevitori che, come frequentemente esitanti in malattie gravi (cancro del polmone ed epatopatia alcoolica) vengono a pesare sulla collettività, ma praticamente mai sono portati alla delinquenza — mi riferisco ovviamente agli alcolizzati.

Ora nessuno desidera un figlio minorato — anche se l’attesa più razionale e modesta è solo quella di un figlio non eccezionale, ma almeno medio-normale. Si può essere addetti ai lavori e provare ancora dopo decenni un senso del meraviglioso in presenza di un bambino nato senza difetti di formazione e senza segni di sofferenza: Si può aver vissuto tante volte la tragedia di quando non è così, e non si può mai fare a meno di essere emotivamente coinvolti. E si conoscono bene le difficoltà, la solitudine personale e sociale, la disperazione quotidiana e spesso inevitabilmente ingravescente di tanti genitori, specie oggi che si riesce a far vivere (ma tante volte si tratta solo di sopravvivenza piuttosto che di vita nel suo senso pieno) intralciando, sforzando, doverosamente, il corso della natura — molti che ancora pochi anni fa non sarebbero sopravvissuti tanto a lungo.


Vogliamo anche dire che casi estremi da Cottolengo ce ne sono sempre stati, casi in cul un allevamento in famiglia è veramente impossibile. E non vogliamo certo ergerci a giudicare chicchessia. Ma noi che abbiamo raccolto, vissuto la coraggiosa disperazione di tanti genitori, con i loro saltuari desideri di suicidio e di figlicidio — e che li avremmo comunque tenuti in onore in qualsiasi evenienza; a noi che gli abbiamo sempre visto riprendere con coraggio e rassegnazione il loro calvario, ecco, un rifiuto totale, immediato, assoluto, del figlio come di una cosa estranea, indifferente, non ci sentiamo di ritenerlo accettabile. Nessuno, uomo, legge, dio, possono validare un comportamento del genere che può sì avere lontane radici biologiche e forse istintuali, ma a cui appunto si oppone tutto quanto ci differenzia dal resto del regno animale. Conclusioni? Una sola, ed abbastanza breve.

Che ciascuno nella sua sfera personale, familiare, sociale, cerchi di ricordarsi sempre che non vi sarà progresso — su alcuno di questi piani — quando resti disatteso il principio della responsabilità personale; accettata e vissuta con umiltà e consapevolezza e con il maggior rigore di cui si sia capaci. Soprattutto da chi si professa massone. 1 valori fondamentali della vita non sono cambiati neanche alle soglie del XXI secolo: operosità, impegno personale, affidabilità, onestà (intellettuale innanzitutto), senso di appartenenza e solidarietà sociale, disponibilità all’assunzione — ed all’assolvimento — di responsabili61

tà, controllo e contenimento di fatue ambizioni personali e di fuorviante sete di potere, incorruttibilità, tolleranza ed apertura verso i bisogni del prossimo; impegno per la preservazione del nucleo familiare (anche a costo di sacrifici, economici ed affettivi) educazione dei figli intesa come un ‘amorevole, attenta, discreta ma solida e coerente offerta di aiuto nell’acquisizione della autonomia delle scelte, libera, spoglia di pregiudizi e consapevole — soprattutto attraverso l’esempio ancor prima che attraverso le parole.

62

Pubblicato in massoni famosi | Lascia un commento

PER UN INSONNE

Per un insonne

Se riesci a non perdere la testa quando tutti intorno a te la perdono e ti mettono sotto accusa; se riesci ad avere fiducia in te stesso quando tutti

dubitano di te, ma a tenere nel giusto conto il loro dubitare; se riesci ad aspettare senza stancarti di aspettare; o, essendo calunniato, a non rispondere con calunnie, o, essendo odiato, a non abbandonarti all’odio, pur non mostrandoti troppo buono, né parlando troppo da saggio; Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni; se riesci a pensare senza fare dei pensieri il tuo fine; se riesci, incontrando il successo e la sconfitta, a trattare questi due impostori allo stesso modo; se riesci a sopportare di sentire le verità che tu hai detto, distorte da furfanti che ne fanno trappole per sciocchi, o vedere le cose per le quali hai dato la vita, distrutte; e umiliarti; e ricostruirle con i tuoi strumenti ormai logori; Se riesci a fare un solo fagotto delle tue vittorie e rischiarle in un solo colpo a « testa-o-croce », e perdere; e ricominciare da dove iniziasti, senza dire mai una parola su quello che hai perduto; se riesci a costringere il tuo cuore, i tuoi nervi, i tuoi polsi a sorreggerti anche quando ormai in te non c’è più niente tranne la tua volontà che ripete « resisti! »

Se riesci a parlare con la canaglia senza perdere la tua onestà; o a passeggiare con i re senza perdere il senso comune; se tanto nemici che amici non possono ferirti; se tutti gli uomini per te contano, ma nessuno troppo; se riesci a riempire l’inesorabile minuto con un momento fatto di sessanta secondi; tua è la Terra e tutto ciò che è in essa, e, quel che più conta, sarai un Uomo, figlio mio.

Rudyard Kipling (fratello massone, iniziato nel 1886 nella Loggia: « Hope and Perseverance »)

Pubblicato in commemorazione | Lascia un commento

LA MASSONERIA NEL MONDO

LA MASSONERIA NEL MONDO dalle origini ad oggi di Paul Naudon, Editrice Prealpina, 1983


La bibliografia massonica nel mondo è immensa; in Italia lo è forse un po’ meno, anche se Agostino Lattanzi nella sua monumentale, ma pur lacunosa, Bibliografa della Massoneria italiana (Firenze, 1974) ci presenta oltre duemila titoli. Negli ultimi anni poi sono entrate nel mercato librario numerose opere di argomento massonico, arricchendo una letteratura già florida. Si direbbe quindi che per questo argomento sia rimasto ben poco spazio per altre iniziative editoriali. In realtà, se si passa dalle copertine ai contenuti, ci si rende subito conto che gran parte della carta stampata sulla Massoneria è carta da macero. Abbondantissima è la produzione denigratoria, tanto inattendibile quanto quella apologetica; infinite sono le volonterose esercitazioni di modesti artigiani dell’Arte Reale, i quali si improvvisano storici e filosofi per coinvolgere, a loro modo, la Massoneria nel corso degli eventi e nello sviluppo del pensiero.

Fanno eccezione pochi lavori seri, i quali, proprio perché pochi e per lo più di erudizione, sono ben lungi dal colmare le più vaste esigenze informative su una istituzione così importante, qual è stata e quale continua ad essere la Massoneria.

Da questo punto di vista non si può che lodare l’Editrice Prealpina, per aver promosso una stupenda edizione italiana dell’opera di Paul Naudon, curata da Aldo Alessandro Mola, studioso d’indiscusso valore e storico della Massoneria italiana, fra i più stimati.

II Naudon ha condotto il suo lavoro seguendo il concetto che già ispirò l’ormai classico libro di Eugen LennhoŒ (Die Freimaurer, Wien, 1929): quello di condensare in una vasta sintesi i principi fondamentali e la storia complessiva della Massoneria, in modo però da soddisfare anche le esigenze del lettore criticamente più smaliziato. Sono due opere in questo senso parallele, anche se nascono da esperienze culturali profondamente diverse, ed anche se le separa una ragguardevole distanza di anni.

L’opera del Naudon è articolata in dieci capitoli, secondo un ordine

non storico, ma storico-ideologico, atto a dare una visione globale e contestuale dello sviluppo dell’istituzione e delle idee.

Nel primo capitolo si tratta delle origini remote della Massoneria, ben distinguendo fra l’attendibile e il leggendario, e, soprattutto, concedendo giusto rilievo alla ricchezza delle sue fonti spirituali, portatrici di valori eterni e trascendenti, retaggio della religiosità delle confraternite di mestiere e di antichi esoterismi.

Segue il capitolo riguardarrte la Massoneria in Gran Bretagna. Sono le pagine più importanti, non solo perché con esse si inizia la storia della Massoneria, ma perché enunciano i princìpi basici che costituiscono le pietre miliari della vita iniziatica.


Viene poi affrontato in modo succinto, ma esauriente, il delicato rapporto fra Massoneria e Chiesa cattolica, aggiornato con il nuovo Codice di Diritto Canonico, promulgato il 25 gennaio 1983. Dopo tanta polemica e tante scomuniche vi è quindi pace? Ci piace ricordare le parole con cui termina il capitolo, perché contengono l’essenza di una pacificazione, non soltanto formale e giuridica, ma autentica ed attiva, fra due istituzioni le quali devono « ammettere che le strade che salgono verso la più alta spiritualità sono parallele e convergono all’Infinito ».

Nei capitoli successivi viene esposta l’origine e la storia della Massoneria in ogni paese del mondo. Sono brevi, ma complete, monografie che, considerate nel loro insieme, dall’Europa all’America, dall’Asia all’Oceania, ci danno il senso dell’universalità della veneranda Istituzione; la loro lettura ci offre la testimonianza storiografica che, fatti salvi gli antichi landmarks, la Massoneria possiede una mirabile adattabilità all’ambiente culturale di qualunque tempo e di qualunque luogo. Il suo inesauribile diffondersi su tutta la terra è la miglior prova che essa risponde a profonde esigenze dello spirito umano.

L’Autore giustamente si sofferma più a lungo sulle massonerie francese e germanica, per le grandi innovazioni dottrinarie, rituali ed esoteriche di cui sono state artefici, e per il loro determinante contributo alla nascita degli alti gradi.

Sulle note diatribe di diritto massonico (territorialità, regolarità, sovranità, ecc.) il Naudon ha il merito di non avere assunto posizione,

accontentandosi di registrare i fatti storicamente accertati. Da questa visuale poteva essere insidiosa la tormentata vicenda della massoneria francese, che egli ha saputo illustrare con equanimità. Il suo pensiero conclusivo è anche il nostro: « La molteplicità degli aspetti della Massoneria in Francia, deplorevole per molti versi, ha tuttavia il merito di suscitare viva emulazione e di contribuire al mantenimento e alla diffusione del pensiero francese, erede — nella pluralità feconda delle famiglie dello spirito — della cultura e della civiltà greco-latina ».

La parte che riguarda l’Italia è stata scritta magistralmente da Aldo A. Mola. Si ritorna necessariamente sul tema dei rapporti con la Chiesa cattolica, e viene delineato con onestà il contributo dei liberi muratori alla formazione dello stato italiano. II punto storicamente più controverso, quello dei legami fra la Massoneria e le associazioni carbonare, e quello fra queste e le logge rifiorite nel 1859, è risolto in una continuità, che conferisce alla fratellanza massonica un ruolo primario nella storia del nostro Risorgimento. Meritava forse qualche parola in più la scissione del 1908, sia per le motivazioni che l’hanno determinata, sia per le conseguenze che ha avuto e che ancora dividono i massoni italiani.

Concludendo, crediamo di poter dare di questo libro lo stesso giudizio complessivo che già diede Guido De Ruggiero sull’opera del Lennhoff: « è una delle letture più raccomandabili sull’argomento, per il suo carattere sintetico e per la cura che pone di non isolare lo svolgimento degli istituti massonici dalla storia generale dei tempi ». Una speciale menzione merita l’eccezionale corredo di 183 illustrazioni di cui è dotato il libro, Sono riprodotte stampe rarissime, medaglie, stemmi, sigilli, ornamenti, paramenti massonici e molti volti di liberi muratori. Le illustrazioni sono commentate da ottime didascalie, che rappresentano un’ulteriore fonte di notizie.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

LA FAMIGLIA

LA FAMIGLIA

Cos’è la famiglia? E’ un fatto naturale ed universale, oppure è un’entità astratta suscettibile di assumere delle forme diverse nel tempo e nello spazio? Per noi, membri della civiltà occidentale, la famiglia, intesa come l’unione monogama, socialmente ratificata con il matrimonio, di un uomo ed una donna ed il riconoscimento della filiazione e della trasmissione del nome da parte dell’uomo e l’accettazione, anche se in tono sempre minore, della autorità maschile, viene considerata come l’elemento fondamentale, la cellula vivente di quel complesso e delicato tessuto che è la società umana.

Questa visione, ormai radicata da sempre nella pratica quotidiana, non lascia dubbi sull’aspetto naturale ed universale della famiglia e sulla sua immutabilità nel tempo. Infatti, è sufficiente rammentare come il modello e le tradizioni delle antiche famiglie “patriarcali” , anche se temperato e modificato dall ‘evoluzione naturale della cultura dei popoli, sia rimasto sino quasi ai giorni nostri.

I fattori motivazionali che hanno dato origine alla famiglia, organizzata nelle linee fondamentali che tuttora la caratterizzano sono stati numerosi e complessi; ma due di essi si evidenziano in modo particolare.

Il primo deriva dalla necessità di ostacolare la creazione tra consanguinei, in quanto avrebbe dato origine alla formazione di gruppi chiusi che, perpetuandosi attraverso se stessi, sommersi dai loro odii, dalle loro paure e dalle loro ignoranze, avrebbero impedito qualsiasi forma stabile di società. E’ interessante notare come l’incesto sia sempre stato condannato, sino dall’antichità, per fondamentali motivi di sviluppo sociale e non per motivi biologici o genetici.

Il secondo fattore, non meno importante del primo, deriva dall’esigenza di assicurare alla prole non solamente il raggiungimento della autosufficienza fisica nel seno della famiglia, ma la maturità necessaria e sufficiente ad essere motore di sviluppo culturale nell ‘ambito della società.

Tuttavia, secondo gli studiosi del fenomeno, la consuetudine degli occidentali, e non solo degli occidentali, avrebbe fatto di una scelta dell’uomo, un avvenimento naturale; infatti vi sono esempi di civiltà alta mente elaborati in cui la famiglia non esiste e le funzioni proprie di ciascun nucleo familiare sono assolte dalla comunità nel suo insieme. Peraltro, sono noti i tentativi recenti, verificatisi nel dopoguerra, di comunità che raggruppavano numerosi individui di ambo i sessi ove un certo tipo di ripartizione dei compiti garantiva il soddisfacimento dei bisogni essenziali, ma la formazione delle coppie era casuale e continuamente mutabile e la prole apparteneva a tutta la comunità. Ovviamente queste comunità, già nate ai margini della società per effetto di una contestazioine strumentalizzata prevalentemente dal commercio della droga, si sono praticamente autoestlnte proprio per la mancanza di una loro funzione di sviluppo sociale.

Comunque, anche se la famiglia fosse una forma di organizzazione scelta dell’uomo e non potesse vantare origini dovute al soddisfacimento di bisogni naturali, è purtuttavia stata il motore di tutte le civiltà che si sono succedute nella storia dell’uomo ed è indubbiamente il supporto originario della società moderna, il luogo in cui scaturiscono tutti i ruoli che gli individui assumono nella vita sociale

Ciononostante, la famiglia coniugale è in crisi ed è possibile che non possa sopravvivere nella civiltà industriale; di questa crisi ne abbiamo una riprova ogni giorno e le cause sono molteplici.

La grande dimensione della civiltà industrializzata, l’importanza del modo di vita urbano, la partecipazione alla produzione in clima di competizione e di accentuata conflittualità, la necessità di professionalità sempre più accurata, l’onnipotenza dello Stato nella vita sociale e l’abbandono di taluni tratti caratteristici dell’istituzione familiare, considerati come imbarazzanti o di nessuna importanza, sono fattori che stanno alla base delle tensioni che si riscontrano in seno alla famiglia. La presa di coscienza dell’alienazione femminile che si è inizialmente realizzata con l’ingresso delle donne nel gioco produttivo si è ora proiettata nella famiglia ridimensionando radicalmente il concetto di autorità maschile.

Nel mentre il raggiungimento della parità di diritti e doveri tra uomo e donna, operante almeno sotto l’aspetto giuridico, è stata un’opera di

necessario risanamento sociale, la famiglia si è mostrata completamente impreparata ad accogliere questa nuova ottica dei rapporti nelle proprie strutture.

Non bisogna dimenticare che sino a pochi decenni orsono la costituzione di una famiglia nel contesto urbano richiedeva da parte dei co. niugi una assunzione effettiva di responsabilità in quanto, mentre l’uomo si accollava totalmente l’onere di procacciare i mezzi di sostentamento per tutta la famiglia nell’ambito di una società con scarse risorse sociali, la donna doveva amministrare oculatamente detti mezzi: questa situazione provocava uno stato di dipendenza reciproca tra i coniugi, nel cui ambito l’autorità maschile si esplicava soprattutto nei rapporti che l’uomo aveva, quasi in esclusiva, con l’ambiente esterno alla famiglia

Una assunzione di responsabilità prevalentemente formale e venendo a mancare in massima parte lo stato di dipendenza reciproca dei coniugi, l’autorità maschile ha gratificato uno stato di privilegio nell’uomo e non uno stato di necessità legato al suo ruolo. Questa nuova situazione rende complessa da parte dell uomo, l’accettazione di un ruolo nell ambito familiare, proprio perché comporta la perdita di un privilegio, antico e radicato nella cultura, non più penalizzato da effettive responsabilità.

Ma la crisi della famiglia nella civiltà industriale è dovuta anche ad altri fattori di primaria importanza.

La lotta dei gruppi di potere si svolge senza quartiere e non esita a distruggere la società pur di giungerne al dominio; la famiglia è uno degli obbiettivi di primaria importanza poiché attraverso il suo condizionamento è possibile rimuovere gli ostacoli principali alla conquista del potere. Ed è per questo motivo che vengono esasperate le tensioni che già esistono nell’ambito familiare; è sufficiente ricordare la contestazione dei giovani e la conseguente diffusione della droga, l’esasperazione del femminismo, la stessa pornografia.

Peraltro, questi fenomeni hanno trovato facile esca in aspetti del nucleo familiare superati dall’evoluzione della società c mai adeguati

per molti motivi, non ultimi l’ignoranza e l’egoismo umano spesso camuffati da un falso conservatorismo radicato sulle tradizioni.

In verità, la società ha fatto molto poco, e quel poco in modo disorganico, per favorire il benessere morale della famiglia; ogni azione svolta in questo senso ha sempre avuto secondi fini volti allo sfruttamento della struttura familiare a vantaggio dell’esercizio del potere. Basti rammentare l’attività del clero per il dominio delle anime, Ic campagne demografiche da parte dello Stato.

L’argomento “famiglia” è stato appena accennato; vi sono ancora infinite cose da dire sulla sua storia, sulla sua funzione, sulla sua crisi e sul rimedi che si possono perseguire.

Comunque la carenza fondamentale nei rapporti umani che a mio avviso caratterizza gli aspetti negativi più rilevanti è l’assenza del rispetto per il nostro prossimo, l’incapacità di amare gli altri esseri umani per loro stessi che troppo spesso caratterizza l’uomo.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

IL GRANDE ARCHITETTO DELL’UNIVERSO

IL GRANDE ARCHITETTO DELL’UNIVERSO:

COME NASCE?

di Dighatapassi

Appunti per una ricerca

Abbiamo assistito per qualche anno, in un recente passato, ad una ripresa, diremmo piuttosto evidente, dell’esplorazione dei rapporti tra massoneria e religione, da parte sia massonica sia cattolica.

Le ragioni di questo fenomeno restano ignote, ovviamente, alla base delle rispettive piramidi. Appare tuttavia lecito supporre, poiché d’abitudine nelle due organizzazioni ben poco d’importante avviene casualmente, che dietro all’indiscutibile interesse culturale, ve ne possano essere stati altri, altrettanto validi.

Esula dagli scopi di questo studio e non è nell’intenzione di chi l’ha compiuto, indagare o speculare sulle origini del fenomeno.

Ma al Libero Muratore che, sgrossandosi, impara ad ascoltare e vedere — ed a riflettere su quanto ha visto ed udito — non saranno sfuggiti le conferenze o gli scritti dei Rev. Padri Esposito, Caprile, Bentimeli S. J., improntati tutti ad inedita e viva simpatia per il nostro Ordine.

Non gli saranno neppure sfuggiti i telegrammi regolarmente inviati dal Gran Maestro in occasione delle morti ed elevazioni al soglio degli ultimi pontefici e la tanto cordiale quanto, penso, inattesa risposta all’ultimo, per l’elezione dell’attuale papa.

Avrà esso pure considerato con attenzione la conferenza tenuta da F. E. ad Udine nel 1978 e poi opportunamente diffusa, dal titolo « Massoneria e Cattolicesimo Romano ».

CATENA ha fatto di « Massoneria e Religione » il suo tema per l’anno 1980 ed anche in qualche officina torinese se ne è discusso.

Non crediamo che gli Orienti di Udine e Torino e la stessa CATENA abbiano particolari vocazioni archeologiche. Se si riprende ora un  argomento vecchio probabilmente quanto la massoneria stessa, vi deve essere un’esigenza che rende attuale e necessario il suo recupero. Tanto più che questo avviene in un mondo ed in un’epoca in cui certe tematiche non godono di particolari attenzioni ed in

 cui neppure la vita della massoneria universale sembra porre problemi o esigenze nuovi ed urgenti in questo settore.

Il presente lavoro vuole offrire un piccolo contributo propedeutico al tema, giusto per evitare che non vengano considerati alcuni dati di fatto importanti, ma ormai coperti dalla polvere dei decenni, se non dei secoli.

La nostra ricerca, storica più che speculativa, non può iniziare che da quel centinaio di manoscritti — libri o rotoli di pergamena — che ci sono giunti materialmente dalla massoneria operativa. Nel loro insieme formano le cosiddette Costituzioni Gotiche ed i varî volumi non pare presentino notevoli differenze né di forma né di sostanza.

Su questo materiale Anderson (o, forse più esattamente, quel gruppo di lavoro del quale il pastore presbiteriano — peraltro all’epoca neofita ma pur sempre uomo di penna — era segretario ed estensore) si basò per redigere le famose Costituzioni del 1717-

Queste, che non sono riportate dal Gorel Porciatti integralmente, come generalmente si crede, consistono di una parte storica, dei Charges of a Freemason (o Antichi Doveri), del Regolamento Generale e terminano con una serie di canzoni. La prima frase della parte storica è la seguente:

« Adamo, il nostro progenitore, creato ad immagine di Dio, il Grande Architetto dell’Universo, doveva avere inciso nel cuore le Arti Liberali…

Possiamo allora cominciare con il dire che il concetto di G.A.D.U. ci viene direttamente dalla massoneria operativa e nasce a quella speculativa nel momento stesso della sua fondazione formale. Il Grande Architetto non viene più menzionato né negli Old Charges né nei Regolamenti Generali.

Tuttavia, negli Antichi Doveri (che poi al XXXIX ed ultimo punto dei Regolamenti Generali vengono espressamente dichiarati landmarks ovvero cippi terminali, da « conservarsi accuratamente » ) si legge al capo 1 0 :

« Un Massone ha l’obbligo, in virtù del suo Titolo, di obbedire

Legge morale; e se egli ben Comprende l’arte non sarà mai uno stupido Ateo né un Libertino senza Religione.

Negli antichi tempi i Massoni erano obbligati in ogni paese di professare la Religione della loro Patria o Nazione, qualunque essa fosse; ma oggi, lasciando a loro stessi le particolari opinioni, si trova più a proposito di obbligarli soltanto a seguire la Religione sulla quale tutti gli Uomini sono d’accordo. Essa consiste nell’essere buoni, sinceri, modesti e persone d’onore qualunque sia il credo che li distingue; da ciò si deduce che la Massoneria è il Centro di Unione ed il Mezzo atto a conciliare una sincera Amicizia fra Persone che non avrebbero mai potuto senza di ciò divenire componenti della stessa Famiglia ».

Abbiamo qui, in campo religioso, una visione apertissima per l’epoca, anzi, concettualmente rivoluzionaria — tant’è che fu aspramente criticata dai Fratelli più tradizionalisti. ln essa si è voluto perfino vedere un tentativo di decristianizzazione della massoneria, così come in precedenza essa era stata deromanrzzata e decattolicizzata.

« Decristianizzazione » è termine forse improprio e sarebbe, penso, un’insinuazione offensiva attribuire velleità acristiane ad un estensore che comunque era pastore di una chiesa cristiana, anche se non munito sacramentalmente del carisma sacerdotale come altre confessioni cristiane lo conoscono. Ma è altrettanto vero che, pur lontani da posizioni irreligiose, si è voluta aprire la massoneria ad uomini degni, anche se non cristiani — forse con ciò riconducendola all’essenza del messaggio cristiano.

 forse proprio per questo spirito aconfessionale che nelle Costituzioni non ritroviamo nemmeno altri riferimenti cristiani se non in funzione di segnatempo, come usava allora (ed ancor oggi in certe nostre campagne): il giorno di Nostra Signora, di S. Michele, di S. Giovanni Battista, ecc.

Nel 1730 fu creato Massone il primo Fratello di religione ebraica.  Gli seguirono altri e poi parsi, maomettani e, solo nel 1871, il primo indù.

Gli inglesi sono in genere considerati alieni da colpi di testa o azioni inconsulte: come il primo profano non cristiano entrò nell’Ordine solo 7 anni dopo 1a pubblicazione delle Costituzioni, così ci mise del tempo a maturare, in buon numero di Fratelli, l’opposizione a questo atteggiamento liberale in campo religioso. Ma questa opposizione divenne poi talmente importante che nella 2a ed. delle Costituzioni, che uscì nel 1738, troviamo già così modificata la frase iniziale della parte storica, innanzi riportata:

« L’Onnipotente Architetto e Grande Maestro dell’Universo, avendo creato tutte le cose seguendo la Geometria… ».

Tuttavia questo richiamo più preciso al Dio creatore non soddisfece i Fratelli tradizionalisti: già nel 1739 si ha lo scisma degli Ancients dai Moderns che durò fino al 1813-1815, anni in cui fu rispettivamente siglata e portata ad effetto la riunione delle due Obbedienze, con la creazione della Gran Loggia Unita d’Inghilterra.

La vittoria arrise agli Ancients e la loro « ortodossia » ebbe sopravvento al punto che dalle Costituzioni del 1815 scomparve persino la frase « lasciando a ciascuno le sue libere opinioni », che era ancora presente nel testo dell’Atto d’Unione del 1813.

Il paragrafo che ci interessa suona ora (1815) così:

« Per obbligazione del suo stato un Massone è tenuto ad obbedire alla Legge Morale e, se comprende bene l’Arte, non sarà mai uno stupido ateo o libertino irreligioso. Tra tutti gli uomini egli dovrà meglio comprendere che la volontà di Dio non è quella dell’uomo, perché questi vede l’aspetto esteriore, mentre Dio vede il cuore. Di conseguenza un Massone è obbligato in particolare a non agire giammai contro i comandi della sua coscienza. Quale sia la religione d’un uomo o il suo modo di adorare, egli non sarà escluso dall’Ordine, ammesso ch’egli creda nel Glorioso Architetto del Cielo e della Terra o ch’egli pratichi i sacri doveri della Morale…

Da quel lontano 1815 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra non ha liberalizzato la sua posizione per la quale il G.A D.U. non poteva essere che il Dio delle religioni monoteistiche — in pratica: ebraismo, cristianesimo, islam, mazdaismo.

Con l’andar del tempo, anzi, la sua posizione si è precisata nel senso di un ulteriore irrigidimento che viola in modo palese pro70

prio quanto stabilito al Capo I degli Old Charges nella loro prima stesura.

Nel 1929, il 4 settembre, essa pubblicò i « Principi fondamentali per il riconoscimento delle Grandi Logge » che specificano che la credenza nel G.A.D.U. e nella sua volontà rivelata sono una delle condizioni essenziali per l’ammissione dei membri. Inoltre il giuramento sarà prestato sul Libro Sacro nel quale è espressa la Rivelazione. E dovranno sempre essere esposti in Loggia, durante i Lavori, lo stesso Libro Sacro, la Squadra ed il Compasso.

Tutto questo è stato ancora ribadito nel 1950 in quella lettera con la quale venne comunicata la rottura dei rapporti alla Loggia dell’Uruguay: vi si esprime la certezza che la Massoneria è un culto fondato su una credenza religiosa, fra i cui scopi vi è quello di conservare e diffondere la credenza nell’esistenza di Dio — che deve essere quello di una religione monoteistica… ecc. Sul Continente le cose andarono, in parte, diversamente.

Il Grande Oriente (G.O.) di Francia, che fino al 1849 non ebbe una sua Costituzione (ma solo dei Regolamenti Generali), non imponeva, per l’ammissione di un postulante, nessuna particolare credenza religiosa. Esso, comunque, intestava la sua corrispondenza, o certi atti, alla gloria del G.A.D.U.

In quell’anno, tuttavia, nel 10 paragrafo della Costituzione che sarebbe poi stata approvata, venne inserita la frase: « La Massoneria ha per base la esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima ».

Nel 1865 venne aggiunta la proposizione che il G. O. considerava la libertà di coscienza come un diritto proprio di ogni uomo e che esso non escludeva alcuno per le sue credenze.

Nel 1872 il G. O. del Belgio, oppresso dal clericalismo, tolse il G.A.D.U. dai suoi Rituali (senza apparente reazione da parte in-

Questo fatto incoraggiò a loro volta i Fratelli francesi liberali — e nel 1877 il G. O. di Francia eliminò dall’art. 1 0 l’obbligo di credere in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ma sul G.A.D.U. non si prese alcuna decisione. Esso scomparve dal Rituale di quell’Obbedienza nel 1884.

Questa, a brevissime linee, la nascita storica del G.A.D.U. nella

G. O. di Francia e sarebbero Massoni esattamente come lo sono oggi. Non per questo peggiori o migliori.

In questo spirito — crediamo — si è recentemente prospettato da parte autorevolissima (ottobre 79) il possibile ingresso nei nostri Templi di simboli rituali appartenenti a culture africane.

73

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

STORIA E DOCUMENTI

STORIA E DOCUMENTI

  • Illuminismo Rivoluzione – Massoneria. Le idee
  • I rituali mafiosi
  • Maometto, la Rivoluzione Islamica e il Sufismo
  • Confucio e la morale cinese

Illuminismo – Rivoluzione – Massoneria. Le idee di A. Menzio Egalité.

1831. Esce «Lo spirito della Rivoluzione» di Roederer che individua la maggior parte dei problemi che saranno poi dibattuti nel XIX secolo, quando si vorrà chiarire quale idea della eguaglianza ebbero gli uomini della Rivoluzione.

Secondo l’autore l’uguaglianza nell’opinione pubblica era già ben radicata prima ancora che la Rivoluzione la imponesse. Derivava dalla decadenza della nobiltà che sempre si accompagna all’elevazione materiale, morale e spirituale delle altre classi. Non solo. Ma essendo in Francia l’élite profondamente delusa e mortificata, l’eguaglianza assunse l’aspetto di una passione tanto impetuosa da giustificare persino le eccezioni fatte a danno della libertà.

  1. rivoluzionari hanno sempre diffidato della eguaglianza di fatto che, livellando, non tiene conto degli «spiriti superiori», ma hanno invece privilegiato l’eguaglianza dei diritti che consente a ciascuno tutte le possibilità.

Sulla idea dell’uguaglianza ha molto influito il pensiero giansenista che vede nella eguaglianza delle persone della Trinità il fondamento della eguaglianza fra i cristiani. Uguaglianza che si manifesta (come predicava Bossuet) nella morte che annulla ogni privilegio. La morte confonde il principe ed il suddito.

Pur avendo giocato un ruolo sovversivo contro la «grandezza delle istituzioni» il giansenismo non corrisponde alla eguaglianza prediletta dal XVIII secolo. E un secolo troppo edonistico per apprezzare l’etica della privazione.

  1. concetto privilegiato è quello meritocratico. Il che provoca delle ineguaglianze che tuttavia sono accettate, ad esempio da Voltaire, per cui è giusto che i primi posti spettino agli illuminati. E una diseguaglianza che nasce, come dice Montesquieu, dalla eguaglianza stessa. Questo tipo di eguaglianza meritocratica è contro il privilegio, l’ereditarietà che, secondo Mirabeau, è un vero mostro. L’uguaglianza dovuta ai meriti spazza via le prerogative della nascita e consente un miglior reggimento della cosa pubblica, dove ognuno, secondo le proprie capacità, svolge un ruolo utile

Ruoli diversi e diversi trattamenti economici. Maggior capacità, maggiori guadagni. Si innesta qui il problema della proprietà che lo stesso Rousseau non vuole distruggere, ma solo contenere.

Possiamo dire che la rivoluzione sembra illustrare nelle sue fasi i diversi pensieri del secolo:

prima si propugna una eguaglianza di diritti che apre al merito le cariche. In un secondo momento si preoccupa dell’eguaglianza dei beni. Alla fine si riconcilza con la proprietà e le disuguaglzanze sociali.

Fraternité.

Dal punto di vista cronologico la fraternité è la più tardiva. Sino al 1792 trionfa la Liberté, poi è la volta dell’egalité e soltanto con la dittatura montagnarda arriva il momento della fraternité.

Negli scritti dell’epoca la Fraternité è associata o al cristianesimo o alla massoneria, ma non compare, ad esempio, nei cahiers de doleances. Essa non venne mai identificata come un diritto, ma solo come obbligo o raccomandazione morale.

Nella dichiarazione dei diritti non viene nominata.

Il termine compare in un testo ufficiale solo in un articolo aggiuntivo alla Costituzione che nel ’91 la considera nelle future feste nazionali che vengono istituite per «coltivare» la fratellanza. Essa non è intesa come una immediata rivendicazione, ma come elemento di una formazione civica a lungo termine.

Bisogna arrivare al 1848 perché la fratellanza compaia accanto alla libertà ed alla uguaglianza.

26

Il concetto però, già nel 1789, è presente tra i rivoluzionari. La riunione degli Ordini si pone sotto il segno della «unione fraterna». Quando La Fayette giura al Campo di Marte promette di restare unito a tutti i Francesi con i legami indissolubili della Fraternità.

La festa del 14 luglio (lo dice Camille Desmulines) «ci porta a guardare, se non il Signar Capeto come un nostro amico, almeno tutti gli uomini e tutti i popoli come fratelli».

Non è in fondo importante che la parola Fraternité compaia nei testi legislativi. Tutta la Rivoluzione è permeata da questo concetto. Roederer, incaricato di formare l’elenco dei giurati del Tribunale dipartimentale di Parigi, sceglie cattolici, protestanti ed ebrei per dimostrare «la fratellanza degli uomini quale che fosse il loro credo» ed un uomo di colore «per consacrare la fratellanza dei colori». Nel costume rivoluzionario la Fratellanza è alla base di tutti i nuovi comportamenti.

Le «società» (tipo quella che ha sede presso i Giacobini e che si de. nomina «Amici della Libertà e della Eguaglianza») si chiamano «fraterne». Ci si saluta come fratelli, si firmano le lettere con «salute e fratellanza», ci si dà del tu perché questo sviluppa la fratellanza.

Uno degli slogans fu «Fratellanza o morte! » da intendersi anche nel senso che il venir meno del patto di Fratellanza ha come conseguenza quella estrema. Qualcuno, a questo proposito, ha parlato di « Fratellanza-Terrore

In realtà è semplicemente la necessità della sicurezza del sodalizio ad imporre tanta severità.

Certo durante il periodo del Terrore bisognava dare una giustificazione alle violenze di Stato. Così si disse che se il senso della Repubblica era quello di camminare verso la fratellanza con la dedizione ed il sacrificio, allora era necessario «eliminare uno dopo l’altro tutti gli ostacoli».

Già durante il periodo rivoluzionario si ebbero due opposti concetti della fratellanza. Per alcuni essa è il fondamento stesso della Repubblica; per altri essa ha origini divine ed è perciò essenziale. Nonostante i «distinguo» tutte e due le tesi convengono sulla indefettibilità della Fratellanza.

Liberté.

Durante la Costituente i rivoluzionari si trovarono a dover risolvere una grave dicotomia tra l’uomo di «natura» e l’uomo dello «stato civile».

Infatti si resero conto immediatamente che la libertà individuale, basata sul diritto naturale, ostacolava la libertà pubblica e dovettero ammettere che l’uomo in società deve «sostituire dei doveri ai dlritti».

Qualche esempio.

L’appropriazione dei beni del clero è una deroga al diritto di proprie tà che i fisiocratici avevano dichiarato essere anteriore allo stato sociale e diritto naturale ed inalienabile. O ancora. Nel dibattito sulla libertà di emigrazione, che si apre nel ’91 dopo la partenza delle mesdames (le zie del Re), si riconosce il diritto di andare e venire ma, si precisa, in momenti straordinari nessuno deve poter dubitare della necessità di sospendere la libertà dei cittadini di uscire dal Paese. Mentre in un primo entusiastico momento tutti inneggiano alla libertà più assoluta, ben presto si rendono conto che essa è un sistema di limiti.

La grande innovazione della Rivoluzione è quella della Libertà concessa a tutti di partecipare alla vita pubblica. E il principio fonda mentale della democrazia.

I Costituenti, impegnati nel difficile compito di conciliare il principio della libertà individuale con quella dello Stato, dovettero dimostrare la compatibilità dello Stato con la libertà.

E ricorsero a Rousseau.

Essi non cessarono di ripetere che passando allo stato sociale, facendo entrare nel «contratto» i propri diritti il cittadino non li sacrifica, ma da uomo si trasforma in cives ed il suo interesse particolare deve cedere di fronte all’interesse generale.

Il Giacobinismo, che alcuno vuole interpretare come una sbandata tirannica imprevedibile, di fronte alle oscillazioni tra preminenza dei diritti naturali e volontà generale, inventa formule come: «Nessuna libertà per i nemici della libertà».

28

L’aggravarsi delle circostanze (come la guerra) dà una certa logica sia alla salute pubblica, sia alle principali deroghe ai principi generali, deroghe che divengono presto la norma.

Robespierre dice: «Sotto il regime costituzionale è sufficiente proteggere i cittadini dall’abuso dei poteri pubblici; sotto il regime rivoIuzionario il potere è obbligato a difendersi contro le fazioni che lo minacciano

Si identifica anche il potere con il popolo, con una indubbia finzione, in quanto è una minoranza quella che legifera e, soprattutto, condanna.

Dopo il Terrore il Termidoro scoppia come una esplosione di libertà e si teorizza contro il dogma della sovranità illimitata del popolo, si oltrepassa il sogno utopistico dello Stato che dispensa la felicità, si ritorna alla idea della preminenza del sociale sul politico.

Constant pone le basi del concetto di libertà moderna quando distingue tra libertà antica (piccoli stati dove il governo del popolo può essere diretto) e libertà «d’oggi», adatta al mondo della fabbrica e del commercio, ad una società articolata dove un sistema di limiti rende possibile a tutti una sfera di tranquilla e protetta autonomia.

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento

UNA MORTE ANNUNCIATA

Settembre 1989. UNA MORTE ANNUNCIATA. di Amarilli

Or che la calda estate è trascorsa è momento di riflessione, di bilanci consci ed inconsci. Consci per il giudizio che possiamo dare su avvenimenti realmente accaduti, inconsci per quel sentimento indefinibile fatto di sensazioni, suggestioni — gioia, oppure tristezza, disagio, rassegnazione, persino rabbia — che le vacanze, l’atmosfera delle vacanze, ci ha lasciato.

Le nostre certezze su ciò che è bello o brutto, accettabile o inaccettabile, sono oggi sottoposte a continui attentati. Si cerca di minimizzare, mimetizzare, narcotizzare ogni evento anomalo che possa colpire negativamente l’opinione pubblica, complici stampa e mass media. Una strategia che coinvolge interessi che nulla hanno a che vedere con previsioni, rispetto dell’individuo e della natura. Interessi enormi, che pretendono tutto e subito, amorali, volutamente ciechi, con totale cinismo, sulle conseguenze future. E noi cadiamo in trappola. L’oceano non è più quella limpida distesa azzurra, l’habitat perfetto di una guizzante fauna marina? E pur tuttavia ancora abbastanza azzurro; se qui ci appare torbido, cinquanta metri più in là è «limpidissimo, si vede il fondo». L’atmosfera è grigia, fumosa, Irrespirabile? Non abbiamo ancora, pur tuttavia, casi palesi di asfissia per le strade. I roghi distruggono boschi e colture? Non preoccupiamoci, è un evento annunciato, inevitabile. Intere pinete vengono rase al suolo per lasciar posto a sciovie? Interi litorali, già verdi e lussureggianti, sono oggi colate di cemento? Non lamentiamoci, l’industria dello sport ha pur le sue esigenze, non si può fermare il corso del progresso. Così, poco a poco, una tavolozza splendente di colori, si è mgrigita, come quegli affreschi antichi che nessun restauro potrà riportare all’antico splendore. Così, beni preziosi, fonte e alimento della nostra stessa vita materiale e spirituale, se ne sono andati per sempre.

Quest’estate, sull’Adriatico, l’ Apocalisse. L’invasione delle alghe e della mucillagine. Tutti abbiamo letto quei titoli sui giornali: «Palude per cinquanta chilometri. Quintali di pesci morti. E disastro ecologico Tutti abbiamo potuto vedere quelle immagim tragiche, oscene. Una desolazione.

23

Qualsiasi commento, oggi, è ripetitivo. Le alghe e la mucillagine fanno ormai parte del passato, superati da nuovi eventi. E stato allora un brulicare di ipotesi, astuzie verbali, fuga da responsabilità, pareri scientifici pro o contro la pericolosità delle acque (ma chi avrebbe voluto immergervisi?). Un altro titolo — ecco spuntare il solito mai sopito umorismo dei nostri amministratori — «Centomila lire a chi torna in Adriatico». Dunque vogliamo una massa di turisti accattoni. Non mi risulta ci siano stati dei «mea culpa».

L’amara morale che possiamo trarre da questo disastro è che non sortirà alcuna morale. Non un programma generale, coordinato, che dovrebbe andare ben oltre ristretti confini, ma soltanto proposte di finanziamenti dissennati per piscine sostitutive (che tonfo di qualità!), finanziamenti che andrebbero ad impinguire i conti miliardari di coloro che per decenni sono statl, e continueranno ad essere, autori e complici di questo disastro ecologico. Nessuna strategia di incastri, coordinata in tutti i particolari — cause ed effetti — per ottenere un risultato finale, condotta con onestà, competenza ed umiltà. Continuerà ad imperare la malafede, l’ avidità di guadagno, l’impudente amministrazione, i poteri occulti, l’ incompetenza, la superficialità, la litigiosità politica, che sono i maggiori responsabili, ciechi e sordi, di disastri passati, presenti e futuri. E dello spreco del pubblico denaro. Non mi sento retrograda se affermo che una società sempre piu basata sui consumi è malata di megalomania. Una rincorsa continua a produrre sempre di più, invitare a consumare sempre di più, distruggere sempre di più. Una società inqurnata ed inquinante, nella quale terra, cielo, fauna, flora, acqua, colture, le sorgenti stesse della nostra vita vengono assurdamente distrutti per lasciar posto alle cattedrali nel deserto, al vuoto, alla desolazione.

Potremo mai far marcia indietro? Ritornare alla ragione? Avremo mai un mecenate illuminato, potente, che con amore, intelligenza, desiderio di continuità, rispetto per la vita, pensi di difendere i valori che oggi ancora abbiamo, lasciando un segno ed un monito per coloro che verranno dopo di noi?

Un simile uomo non può far parte dei comuni mortali, dovrebbe essere un dio.

24

Pubblicato in Lavori di Loggia | Lascia un commento