In un mondo che cambia
risolutamente e senza attendere i ritardatari, in una società che nella sua
articolazione crea confusione negli spiriti puri, in una realtà che con i suoi
squilibri fa nascere impellente nell’uomo equo l’esigenza d’agire per il proprio
e l’altrui miglioramento, c’è un toccasana: la fratellanza.
La fratellanza vera, profonda, non
sbandierata, ma cementata dal comune sentire; vissuta nel gruppo ristretto di
loggia per essere riflessa all’esterno sulla società. Ci è parso opportuno
ricordarlo: la vera fratellanza non s’impara con la teoria, ma s’acquisisce con
la pratica, vivendola e condividendola con chi ha gli stessi nostri
intendimenti. Il gruppo, la loggia, l’obbedienza, rappresentano pertanto un
buon mezzo, una giusta palestra in cui rafforzare prima lo spirito fraterno,
indi la fratellanza vissuta.
Tutto ciò non è però facile: non sempre il sentire
fraternamente corrisponde al vivere fraternamente e troppo spesso il sinistro
influsso delle vicende e dei problemi del vivere quotidiano ci porta alla
«distrazione» anche nella nostra famiglia. Spesso non riusciamo a praticare una
vera e costruttiva fratellanza neppure nei confronti dei fratelli, riproducendo
in tono minore ciò che critichiamo nel mondo profano.
Ma da distrazione è solo colposa e non dolosa: deriva
dallo scarso esercizio della solidarietà.
Occorre ricordarci che la fratellanza è ben più
impegnativa della correttezza, ben più difficile della tolleranza, che pur
sappiamo essere pilastri fondamentali della nostra Istituzione.
La fratellanza è attitudine effettiva, concreta che si
sostanzia in opere quotidiane, tese in una sola direzione: individuare prima e
curare poi i bisogni del nostro fratello creando a lui un reale supporto e
dando a lui ed a ognuno di noi l’occasione di gustarne i frutti. Fratellanza
quindi come azione e non soltanto come astensione dal fare. E il fratello non
vive solo in loggia.
Cementare l’amicizia, cementare l’amore vuol
dire creare la fratellanza,
non semplicemente parlarne, essere immersi e
coinvolti nel lavoro comune vuol dire fornire un’occasione in più alla
fratellanza. Ma a chi un poco è avvezzo ad essa sorge spontanea una domanda. La
vera fratellanza può avere un confine, un limite, un nucleo?
No, se la fratellanza è come l’amore essa non
può essere limitata, ma deve diffondersi; l’uomo privo di umana solidarietà è
un uomo senza speranza.
Certo è che, per diffondersi,
deve essere già adulta, esercitata condivisa.
Si potrà essere portati a
scoprire che il perfezionamento di noi stessi che perseguiamo indefettibilmente
come nostra principale opera e la coesione fraterna con cui svolgiamo il nostro
compito dentro i nostri muri, ci renda più esperti per l’esterno.
E nostra reale convinzione che i lavori svolti in loggia
servono a rafforzare i nostri convincimenti personali ed a scolpire la pietra
grezza che è in noi, ma il nostro «particolare» può e deve aprirsi al profano a
testimoniare la validità perenne dei nostri principi rapportati alle
aspirazioni del tempo in cui viviamo.
Anche in questo compito la
nostra base è la fratellanza, l’intesa, la solidarietà.
«Vi riconosceranno dalle vostre opere», riporta una massima
evangelica.
Lord Baden Powell affermava che il compito di ogni uomo è
lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ha trovato. Un compito arduo nei
fatti anche perché il nuovo non è mai, in ogni caso, migliore dell’antico, anzi
una tradizione consolidata e condivisa è una sicurezza.
Settarismi, dogmatismi, intolleranza e strumentalizzazioni
non sono certo retaggio più del passato che del presente e la storia insegna
gli errori compiuti.
Il nostro impegno, senza retorica, ma con umiltà e tenacia,
è quello di perseguire il perfezionamento individuale e contemporaneamente
ripristinare e rafforzare i valori in cui crediamo.
Il non trattare né di politica né di religione, non
significa che ognuno di noi non sia parte del suo tempo e non debba vigilare su
quanto accade intorno. Trascurare questo aspetto sarebbe abdicare al nostro
ruolo di promuovere il bene dell’umanità. Ma l’impegno
individuale è gravoso a volte più dell’immaginabile e la fratellanza allarga la
base, permette gli appoggi laddove il singolo potrebbe cadere, non solo sulle
azioni, ma anche sulle idee.
Combatterò per le Tue idee anche se non le condivido:
quale più alta professione della fratellanza. Noi abbiamo un vantaggio,
condividiamo le stesse idee.
Etica è la scienza morale o del dovere. Ha significato vasto e vario
rispondente ai diversi sistemi filosofici dai quali viene derivata ma fa sempre
riferimento alla condotta umana ed ha inoltre carattere normativo, Spesso è
sinonimo di morale: l’etimologia è comune. Con significato di «costume», però,
«etica» indica di preferenza la teoria e «morale» la pratica. Più avanti, si
vedrà questa distinzione in modo approfondito, specie in relazione alla
dottrina che nel periodo medioevale si sviluppò e che ancora oggi nel
linguaggio comune e nel linguaggio filosofico ne connota le differenze. Secondo
la natura e il fine attribuiti alla vita umana si sono avute varie dottrine
etiche. Etica politica è quella parte dell’etica che riguarda il comportamento
umano nell’affrontare i problemi politici, legislativi, giuridici o dello
Stato. Ho avvicinato il problema da uomo che vive quotidianamente questi
risvolti senza essere politico in prima persona. Chi può stabilire
inappellabilmente se una scelta politica è giusta o no; se essa corrisponde o
no ai dettami della ragione?
I mali politici del nostro tempo
talora ci inducono a qualche riflessione. Forse che oggi manchi al mondo
occidentale una serie di valori positivi, di fini da che accomunino gli sforzi dei popoli liberi in
una direzione ideale? Qualche volta ci viene da chiederci se gli ideali della
dignità della persona umana e dei diritti dell’uomo vengano rispettati. Talora
crediamo, forse perché queste espressioni — diritti dell’uomo e dignità della
persona umana — sono cariche di equivoci, che questi due ideali siano incapaci,
da soli di sostenere il peso di una filosofia politica e di una pace
universale.
L’uomo, il singolo individuo, è portatore di valori
interiori. Di qui la sua dignità e la sua libertà. Ma la natura umana è tale
che il singolo individuo è necessitato e obbligato a vivere in società proprio
per sviluppare e realizzare concretamente la sua dignità e i suoi fini. Occorre
notare come questa condizione non sia qualcosa di aggiunto alla natura umana,
così da dovere considerare la necessità della vita associata come una
situazione dolorosa ma storicamente inevitabile, in cui l’individuo è venuto a
trovarsi. E invece qualcosa che nasce, per così dire, insieme all’individuo.
Non si può perciò parlare di una priorità dei diritti soggettivi dell
‘individuo rispetto al complesso di doveri che regolano il suo vivere sociale.
Non si può perciò pensare al diritto oggettivo come qualcosa che purtroppo
inevitabilmente viene a limitare i diritti naturali del singolo e che va
considerata come il minor male, da rendere più esiguo che sia possibile.
Qualche volta poi pensando politicamente al nostro Stato ci viene da chiederci:
Ma che cosa si intende per Stato? Il sovrano? Cioè nella fattispecie
contemporanea il popolo sovrano oppure gli organi che esercitano i poteri dello
Stato? Non dovrebbero i poteri dello Stato, opportunamente separati, essere
esercitati nei modi e nei limiti segnati dalla legge, che è l’espressione della
volontà sovrana? E in suo nome, infatti, che gli organi esercitano i loro
poteri. E ancora qualche volta ci viene da chiederci: la volontà della
maggioranza, che viene considerata espressione della volontà generale del corpo
sociale, è arbitra del diritto o trova anch’essa dei suoi limiti? E ancora, il
popolo sovrano (ovvero, in democrazia, la sua rappresentanza qualificata, anche
se pur più ristretta numericamente) nel darsi leggi o nel cambiarle trova degli
impedimenti? E perché?
Il mio pensiero è ritornato dal
vivere quotidiano al paragone col pensiero di chi nel passato ha già affrontato
e vissuto il problema. Perché non ripercorrere assieme alcune tappe
fondamentali nella storia dell’etica, costituite da uomini, filosofi e no, che
si sono avvicinati col loro pensare a questo problema?
Eraclito di Efeso (500 a. C,) , meglio conosciuto per il suo
insegnamento cosmologico (il «continuo fluire è filosofo nel cui insegnamento
le idee morali hanno una posizione centrale. Egli concepiva la legge come
principio di regolarità presente nei processi naturali, ma era anche cosciente
dell’importanza della legge (nomos) in senso politico. Era inoltre convinto che
la lotta fra gli opposti (es. amore e odio) dovesse risolversi in conformità ad
una misura (metron). Posi42
zione diversa è quella dei sofisti;
per essi i principi della giustizia non esistono affatto in natura: essi
affermano che il maggior diritto è la forza.
Tra gli altri sofisti Trasimaco di
Calcedonia (quinto secolo a. C.) è noto per aver insegnato che «la forza è il
diritto». Nel primo libro della Repubblica, Platone presenta Trasimaco come un
personaggio che sostiene la tesi secondo cui «giusto o retto significa solo ciò
che è nell’interesse del gruppo più forte». Callicle di Acarne (fine del quinto
secolo a. C.) è presentato da Platone come sostenitore di un’altra versione
della teoria secondo cui «la forza è il diritto». Callicle argomentava dicendo
che le leggi sono fatte da moltitudini di uomini deboli, allo scopo di
controllare e dominare i pochi che sono forti. Il retto ed il giusto sono
quindi mere convenzioni imposte dalla maggioranza popolare. Viene citato il
poeta Pindaro, che avrebbe detto che secondo «la giustizia naturale», se non
intervenissero le legislazioni popolari, la forza sarebbe il diritto, perché i
più forti vorrebbero fare il comodo loro senza impedimenti.
Anche Platone in
un gruppo di dialoghi, che vanno dalla metà della vita dello scrittore alla sua
vecchiaia, delinea il suo pensiero personale sulla natura e sui problemi
dell’etica, ad esempio nel Politico (sulla divisione delle scienze in pratiche
e teoriche, sui problemi delle leggi politiche, sulla dottrina del medio,
sull’origine delle leggi dello Stato e sull’importanza della ragione in tutti i
campi della virtù). Il più lungo e forse l’ultimo dei dialoghi di Platone sono
le Leggi, che presentano una considerazione meno idealistica e più pratica
della maggioranza delle questioni poste nella Repubblica. Qui la politica
(Leggi, I, 650 B) viene identificata con l’arte di trattare le nature e le
attitudini degli animi umani. Questo dialogo, scritto negli ultimi anni della
vita di Platone, mantiene il parallelismo fra la bontà morale personale ed il
buon ordine politico, ma insiste continuamente sulla superiorità della virtù
politica su ciò che può essere realizzato individualmente. Nella Repubblica
Platone aveva insegnato che i governanti possono mentire, se questo è per il
bene dello Stato nel suo insieme. Questo forse è uno degli aspetti meno
attraenti dell’etica sociale di Platone, Anche Aristotele affronta più volte il
problema di poter sapere che cosa è moralmente buono. Egli non è convinto che
il bene sia una realtà unitaria di cui si abbia scienza unitaria o saggezza.
Egli costruisce una teoria dell’uomo saggio o prudente quale misura della
moralità: la teoria della medietà (mesotés): non un punto preciso a mezza
strada fra gli estremi, ma un punto intermedio, a seconda delle persone e delle
circostanze, determina la medietà morale.
Alcuni esempi:
vergognosità-sfrontatezza-modestia irascibilità-impassibilità-gentilezza
Aristotele usò la stessa nozione di medietà quando trattò la virtù morale della
giustizia. Poiché questa virtù riguarda i rapporti fra gli uomini, essa è
l’abitudine di fare volontariamente ciò che è bene per gli altri e di evitare
atti dannosi per essi (Etica Nicomachea, 1129 a 1/1138 b 12). La giustizia è
l’inclinazione ad agire in accordo con le leggi riconosciute: essa mira al bene
degli uomini nella loro vita di gruppo. La legge morale altro non è che
l’espressione di ciò che si adatta agli agenti umani in funzione delle loro
relazioni significative con gli altri esseri. La retta ragione (orthos logos
che diventerà poi perno dell’etica medievale) è la maniera retta con cui l’uomo
buono procede nei riguardi delle attività che si propone, avendo come fine il
giovamento da portare in generale alla natura umana.
Molti riferimenti nella tradizione cristiana e nella filosofia medioevale partono proprio
da Aristotele: influenze anche importanti derivano da altre correnti di
pensiero. Basti pensare alla scuola stoica ed al termine synderesis, forse
corruzione della parola stoica syneidesis che indica l’intuizione. Per la prima
volta usata in latino da San Gerolamo (340-420), in un commento biblico, ebbe
il significato di scintilla della coscienza (conscientiae scintilla).
All’inizio del tredicesimo secolo questa terminologia fu raccolta dai teologi e
sviluppata in una speciale dottrina. Parlando in generale, la sinderesi finì
per essere la capacità umana (variamente interpretata) di distinguere in maniera
generale il bene dal male morale, mentre la coscienza era intesa come la
discriminazione personale fra il bene ed il male nelle azioni singole. In altre
parole la sinderesi ha riferimenti universali, mentre la «conscientia» si
riferisce ad un ambito più particolare e individuale. Distinzione quindi tra
scientia moralis e conscientia. Il processo attraverso il quale con un
ragionamento pratico si giunge a decisioni individuali (non universali) su
problemi morali non rientra nell’etica; ma, quando è eseguito correttamente,
viene chiamato retta ragione (recta ratio). La virtù della prudenza o saggezza
pratica (pmdentia), è l’abito buono del ragionare correttamente fino a giungere
a giudizi pratici buoni su azioni individuali. Questa virtù termina nelle buone
azioni. Scienza morale è ben altra: si tratta di regole, giudizi o leggi
generali, colte mediante la sinderesi, che concernono tipi di azioni giuste o
ingiuste in generale.
Le influenze di questo procedere?
L’etica nicomachea di Aristotele veniva conosciuta nel tredicesimo secolo
attraverso le traduzioni di Roberto Grossatesta (1168-1253) che dapprima
insegnò teologia ed etica ad Oxford e poi divenne vescovo di Lincoln. E gli
sviluppi? Pensiamo a Ruggero Bacone (1214-1292) allievo del Grossatesta. Affrontando
la discussione sulla politica, egli, partendo da una tripartizione dei rapporti
morali dell’uomo (considerato in relazione a Dio, poi in relazione al suo
prossimo, ed infine in relazione a se stesso), applicava Io stesso metodo alla
scienza della vita civile (politica) che egli intendeva come parte della
filosofia morale: in relazione a ciascuno dei 3 gradi Bacone attribuiva
all’uomo livelli diversi di responsabilità e di diritti.
Non mancano altre voci nel
tredicesimo secolo ad occuparsi di politica. Per esempio Enrico di Gandt
(1217-1293), professore di arti e teologia a Parigi, insegnò che la volontà
dell’uomo è, sotto tutti gli aspetti, la facoltà più caratterizzante dell’uomo.
Come conseguenza di questa concezione Enrico riteneva che la legge e il dovere
morale nascessero direttamente dalla volontà del legislatore. Mentre ancora
parlava in termini di «retta ragione», Enrico iniziava a collocarsi in una
differente concezione dell’obbligazione morale e legale. Comandare diventa ora
una funzione di una volontà che è autonoma e non determinata dai giudizi
esterni dell’intelletto. Ciò che il legislatore vuole che si faccia è giusto e
non occorre nessun’altra giustificazione. Giungiamo al Rinascimento e l’uomo
diventa punto centrale di riferimento, non solo nelle arti ma anche nella
filosofia. Etica quindi antropocentrica: non intendiamo con ciò dire che fu
un’età irreligiosa o atea, tuttavia i filosofi concentravano il loro interesse
sulla persona umana individuale.
Uno degli umanisti più originali
del rinascimento inglese fu Thomas More (1478-1535). Era un cattolico, un
laico, e divenne lord cancelliere d’Inghilterra; fu condannato a morte perché
si rifiutò di riconoscere Enrico VIII come capo della Chiesa d’Inghilterra.. L
‘Utopia di More fu scritta in latino e pubblicata sul Continente quarantacinque
anni prima che comparisse postuma in Inghilterra ad opera di un editore
londinese. L’opera rivela una ovvia influenza della Repubblica di Platone. Chi
di noi non rammenta la vita degli abitanti di questa città ideale dai ricordi
scolastici? Può sembrare che intendesse essere una reazione al Principe (1513)
di Machiavelli; ma il fatto è che il More non conosceva quest’opera. More
procede a proporre una teoria dell’edonismo psicologico limitato solo da una
ragionevole preoccupazione per il benessere sociale. Ricordiamo che siamo alla
fine del ‘400, ben 100 anni prima di Hobbes!
Vale la pena in questo periodo esaminare anche la figura di Francisco da
Vitoria (1480-1546), professore all’Università di Salamanca, non tanto quale
espressione di scolasticismo cattolico (il suo Commento alla Seconda Parte
della Summa Thoelogiae, mostra una buona conoscenza della dottrina morale di
Tomaso d’Aquino), quanto maggiormente per le idee personali e rinnovate sulla
vita politica e internazionale esposte nel suo trattato «sul diritto di guerra»
(1532). Nel tredicesimo secolo Tomaso aveva stabilito tre condizioni, che
dovevano essere soddisfatte prima che un popolo entrasse giustificatamente in
guerra: 1) che la guerra sia dichiarata dall’autorità di uno stato sovrano; 2)
che sia dichiarata per una causa giusta; 3) che sia dichiarata per promuovere
un bene ed evitare un male. Vitoria discusse queste condizioni una per una con
notevole ampiezza. Per quanto riguarda la buona ragione per fare guerra, negò
che la differenza di religione, l’estensione di territorio o la gloria del
principe fossero cause giuste per far guerra. Concluse allora che «c’è solo una
causa giusta per cominciare una guerra, cioè un torto ricevuto. .. » Allo stesso
modo vengono chiarite da Vitoria le altre due condizioni. Oggi è assai
importante il fatto che egli aggiunse una quarta condizione: la guerra giusta
deve essere condotta in maniera ragionevole e moderata. Così sollevò
l’importante questione etica dell’uso dei mezzi adeguati. In particolare
Vitoria insiste che i buoni risultati di una guerra devono essere maggiori dei
mali che essa produce. Come conseguenza di concezioni come questa Vitoria viene considerato da molti
come il fondatore della teoria del diritto internazionale. Egli visse in un
tempo in cui lo spirito nazionale e la teoria dell’autorità raggiungevano le
forme più spinte; nonostante ciò, egli propose l’idea di uno stato mondiale e
di un diritto internazionale. Un tale stato ed un tale diritto furono
considerati dal Vitoria non come semplici espedienti politici, ma come qualcosa
che avesse una portata morale. Egli esprimeva chiaramente la condanna morale
per chi si rifiutasse di cooperare ad una organizzazione della vita mondiale
secondo regole.
Per contro, nel
Rinascimento molti sono gli uomini per i quali non aveva senso cercare di
distinguere il bene dal male morale. Nicolò Machiavelli (1469-1527) è uno dei
primi nomi che vengono in mente. Il suo trattato «il Principe» (1513) ed i suoi
«Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio» (1517) sono esempi classici della
concezione che, se uno vuol fare qualcosa di molto cattivo, può fare qualsiasi
cosa, per ottenerla. Egli era suggestionato dal problema del potere politico:
la soluzione che dava a questo problema è francamente discutibile come risulta
da queste idee. «Per un principe che vuole mantenersi al potere, è necessario
che impari a non essere buono e ad usare questa conoscenza o non usarla secondo
la necessità dei casi. .. Alcune cose che sembrano virtù, qualora fossero
seguite, porterebbero alla rovina ed altre che sembrano vizi producono
sicurezza e benessere». Questo cinismo politico sembra fondato su di uno
scetticismo etico completo. Le azioni umane sono buone o cattive solo per
quanto sono mezzi per raggiungere un dato fine, che in questo caso, è la
conservazione del potere politico. Si può pensare che qui si tratti di una
anticipazione di uno speciale utilitarismo: il criterio cui bisogna riferirsi è
il vantaggio dell’individuo, che riesce ad avere nelle mani il potere civile.
Qui non abbiamo un’etica formale, ma forse piuttosto una posizione etica, che
non ha mancato di simpatizzanti. In questo periodo Tommaso Hobbes e Giovanni
Locke sono due nomi che devono essere tenuti presenti nell’affrontare questioni
politiche: solo una loro diretta conoscenza permette di cogliere il pensiero
politico moderno nell’atto stesso di scaturire dai suoi presupposti filosofici
e teologici. In essi si trova per la prima volta teorizzato a sistema politico
e condotto alle sue estreme conseguenze pratiche il netto
taglio fra terra e cielo, fra natura e
sopranatura per l’elaborazione dello Stato «moderno», quello cioè in cui i
teologi tacciono. Hobbes nega un bene e un male oggettivi: unico bene viene
considerato la conservazione della vita. E siccome l’unico garante di essa è lo
Stato, esso si costituisce in primo etico, fonte di moralità. Anche la politica
di Locke non muove dall’etica, ma dalle verità di fatto, cioè dagli istinti
umani, traformati in diritti naturali soggettivi. Solo che in luogo dell’unico
diritto alla vita, Locke ammette i tre diritti: alla vita, alla libertà e alla
proprietà; e lo Stato assume quindi il ruolo di tutore dei tre diritti. Viene
da considerare che l’individuo ignori gli altri individui e si ritenga estraneo
ai loro fini, salvo che per difendersene. Si arriva così alla giustificazione
dello Stato per mezzo della sua causa efficiente, il contratto, che diviene
elemento preminente nelle moderne dottrine politiche. Lo Stato non esiste come
unitas ordinis, come portatore di un bene comune; ma come assicuratore in forme
diverse della possibilità giuridica di godere al massimo dei beni materiali
concepiti come desideri istintivi. Ecco dunque la lezione che i due filosofi ci
danno: perduto il concetto di unità di ordine, lo Stato diventa la personificazione
di una superiorità rispetto all’individuo (eticità dello Stato). Hobbes ritiene
giusto ciò che il sovrano stabilisce e ingiusto ciò che proibisce; purtuttavia
egli mantiene, sia pur allo stato di ipotesi e con scarsa coerenza metafisica
il germe di un bene e un male indipendenti dal volere sovrano: questo volere
sovrano potrà essere malvagio, potrà essere odioso, ma mai ingiusto. Con ciò si
lascia aperta la porta a un bene e a un male superiori allo Stato, alla
possibilità di un giudizio del singolo sul sovrano: sarà un giudizio
inefficace, ma sempre legittimo. Dal momento che per Hobbes ciò che conta è
conservare la vita, per questo occorre un sovrano assoluto. E augurabile che si
comporti bene, ma che anche se prendesse provvedimenti malvagi non per questo
sarebbero meno validi.
I moralisti europei dei secoli
diciassettesimo e diciottesimo fecero della filosofia morale un campo di studio
importante e ben distinto. L’etica fu argomento di studio universitario ma fu
anche oggetto di lavoro per scrittori non accademici. Per coloro che si
interessarono di politica e di giurisprudenza si hanno procedimenti che partono
da principi generali della legge e del diritto per giungere attraverso
ragionamenti a regole specifiche da applicare alla fine, queste regole
piuttosto ampie, a casi individuali. Spinoza (1632-77), ad esempio, nel suo «
Tractatus theologicus-politicus» afferma che «prima della legge civile non c’è
nessuna differenza tra l’uomo pio e l’empio»: «il torto è concepibile solo in
una comunità organizzata»; chiama libero l’uomo nei in cui è guidato dalla
ragione. Nella società organizzata la legge dello stato determina ciò che è
giusto e ciò che è ingiusto. Spinoza menziona spesso l’«utilità», ma solo per
riferirsi al benessere umano in generale e senza la connotazione edonistica con
cui il termine compare negli scritti inglesi.
Nel 1693 Leibniz
preparò e pubblicò un’edizione di documenti concernenti il diritto dei popoli
(Codex Juris Gentium Diplomaticus) con una speciale prefazione. Qui il diritto
(jus) è definito come «una specie di potere morale e l’obbligazione è una
necessità morale». Morale è «qualcosa di equivalente a naturale per un uomo che
è buono». Un uomo buono è «uno che ama tutti gli uomini, per quanto lo permette
la ragione». Nello stesso posto la saggezza viene descritta come «nient’altro
che la stessa scienza della felicità». In un commento successivo a questo
Codice (Mantissa codicis juris gentium, 1700), Leibniz formulò ed evidenziò una
definizione della giustizia, che aveva data nella prefazione. «La giustizia»
diceva, «non è altro che la carità dal saggio». Verso il 1702 Leibniz scrisse
un saggio in francese, Riflessioni sul comune concetto di giustizia. Vi si
critica la tesi che la legge è semplicemente un imperativo nato dalla volontà.
Secondo Leibniz Hobbes ebbe torto a seguire la posizione di Trasimaco, secondo
cui la forza ha il diritto, infatti egli «non distingue fra il giusto ed il
fatto. Altro è che una cosa può essere, altro è il dover essere». La sua teoria
della morale, che procede a partire da una definizione iniziale di bontà
sostiene che l’azione retta deve adeguarsi alla natura ed a regole generali di
comportamento morale. In un brano particolare di quest’opera Leibniz dice:
«Possiamo chiederci quale sia il vero bene. Rispondo che è ciò che giova alla
perfezione delle sostanze intelligenti». Uno scrittore di lingua francese di
questo periodo a cui molto si deve nel campo dell’etica politica è Gian Giacomo
Rousseau (1712-1778) nato in Svizzera e vissuto per molti anni a Parigi. Il
famoso «Contratto sociale» (1762) è lo sforzo più ampio fatto da Rousseau per
spiegare come nascano la società umana e le sue leggi. In una società bene
organizzata, secondo Rousseau, il giudizio delle persone su questioni morali e
sociali costituisce la volontà generale o popolare, che ordinariamente si
esprime nel voto della maggioranza, ma che non si riduce ad un conteggio di
opinioni. In quanto «volontà generale» è retta e pura ed esige obbedienza da
tutti i cittadini. Essa è l’espressione sociale di ciò che è retto dal punto di
vista morale. Rousseau non sviluppò l’idea di volontà generale in una teoria
etica, ma costituì un importante antecedente della dottrina kantiana della
volontà autonoma.
Le clausole del patto sociale si
riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ogni associato con
tutti i suoi diritti a tutta la comunità. Torna qui il pensiero di Hobbes, solo
che al posto del sovrano c’è la communauté, la volontà generale. Questa volontà
generale è il perseguimento dell’interesse generale contro tutti gli interessi
particolari e nell’interesse di tutti: «Ora, il sovrano (cioè il corpo sociale
esprimente la volontà generale), non essendo formato che dai singoli che lo
compongono, non ha né può avere interessi contrastanti tra loro ( Il sovrano,
per esser colui che definisce ciò che è giusto, definisce automaticamente ciò
che è bene; chiunque si rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà
costretto da tutto il corpo politico: il che non significa altro se non che lo
si costringerà ad esser libero; perché tale è la condizione che, «dando» ogni
cittadino alla patria lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione su
cui si fondano l’artificio e il funzionamento della macchina politica, e che
sola rende legittimi i vincoli civili che altrimenti sarebbero assurdi,
tirannici ed esposti agli abusi più enormi. E dunque ormai avvenuto che il bene
si è risolto nel giusto, cioè nella volontà generale. Non è più che un
interesse generale sia giusto perché corrisponde a certi valori, ma diviene
esso stesso valore perché è generale.
Mentre nell’Europa continentale
l’etica procedeva secondo questa tendenza razionalista, in Inghilterra si
sviluppava secondo quel filone che viene detto «utilitarista». Espressione
iniziale e di alto livello è rappresentata da David Hume (1711-76). Alcuni
elementi riportati dal suo trattato intitolato «Ricerca sui principi della
morale» ci inquadrano le riflessioni sulla politica e sull’etica: il
trattamento della giustizia è basato sull’utilità per la società. L’utilità è
intesa come tendenza ad un bene ulteriore ed è la base di varie virtù morali,
ma non l’unica fonte della virtù; a questa contribuiscono anche altre qualità
come la cortesia, la modestia, l’affidabilità. In termini più completi si può
parlare di «umanità» come sentimento che hanno in comune tutti gli uomini e che
è una sorta di carattere pubblico ed aperto agli atteggiamenti morali. La
influenza di Hume nel campo dell etica è stata estesa e profonda. La sua
insistenza sull’utilità sociale porta all’utilitarismo inglese secondo le sue
varietà diverse. Un altro suo scritto importante sotto il nostro profilo sono i
«Saggi di morale e di politica in esso vengono distinti due tipi di doveri
morali. Delle due specie di doveri morali uno procede a partire dall’istinto
naturale ed è interamente indipendente dalle idee di obbligazione o di utilità
pubblica: l’amore dei figli, la gratitudine verso i benefattori e la pietà
verso chi subisce una disgrazia ne sono esempi. Un secondo tipo di dovere
morale nasce solo da un senso di obbligazione più che da una consapevolezza
delle necessità della società umana.
Altro utilitarista inglese fu
William Godwin (1756-1836). Partendo dall’etica si occupò di politica e di
felicità umana. La sua «Ricerca sulla giustizia politica e la sua influenza
sulla morale e nella felicità» fu pubblicato nel 1793: in esso propugnava il
principio della più grande felicità per il più gran numero di persone. Fu un
acceso difensore della libertà politica e sociale ma non accettava la
formulazione (Bentham) del piacere e del dolore individuali come fattori
fondamentali del giudizio morale. Piacere e dolore personali non sono
moralmente buoni per l’azione stessa: egli riteneva che solo la «ragione» fosse
la miglior motivazione morale dell’attività umana (molto simile in questo alla
posizione kantiana).
Più avanti, nel secolo
diciannovesimo fu John Stuart Mill (1806-1873) che portò avanti con le sue
opere «Logica delle scienze morali» (1843) e l’«Utilitarismo» (1863) queste linee
di pensiero. L’etica ha alcune premesse generali e da essa scaturiscono alcune
principali conclusioni, sicché si forma un «corpo di dottrine» che costituisce
l’«arte della vita». Questa «arte della vita» si divide per Mill in 3 parti:
morale, politica ed estetica — in corrispondenza rispettivamente col retto, col
conveniente e col bello. La formulazione che egli dà dell’«utilità» non ha
niente a che fare con la comune eccezione della parola, che è in contrasto con
il piacere. Ecco esattamente come egli si esprime: «Il credo che accetto come
fondamento della morale, il principio dell’Utile o della Più Grande Felicità,
sostiene che le azioni sono rette secondo che tendano a promuovere la felicità
e sono cattive secondo che tendano a promuovere l’inverso della felicità. Per
felicità si intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità il dolore
e la privazione di piacere». A questo il Mill aggiunge due punti
chiarificatori. Ciò che è implicato non è la più grande quantità di felicità di
un singolo agente, ma «la più grande quantità di felicità nel suo insieme».
Inoltre ci sono diverse specie di piacere; devono essere notate le variazioni
di qualità oltre quelle di quantità. Quando si occupa poi di politica e di
giustizia Mill ritorna al riconoscimento del più alto interesse collettivo
dell’umanità: i doveri imposti dal «giusto» sono semplicemente la più alta
specie di utilità sociale. Per Mill gli uomini generalmente amano la felicità e
la virtù è quella che conduce l’uomo alla vera felicità. Il quinto capitolo
dell’Utilita1ismo associa l’utile con la nozione di giustizia. Mill è ben
consapevole che molti hanno pensato che gli uomini hanno un istinto o
sentimento naturale del giusto. Egli dà una meditata spiegazione dell’origine
storica dell’accettazione della giustizia da parte degli uomini. Qui viene
messo l’accento sull’idea che gli esseri Intelligenti tendono a cogliere una
«comunità di interessi» ed a sviluppare la capacità di simpatizzare con gli
esseri umani in generale.
Può essere utile anche esaminare
la politica dal punto di vista dell’etica dell’ idealismo tedesco. Prendiamo ad
esempio Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) e ricordiamo la sua opera «Sistema
di etica» (Das System der Sittenlehre, 1798): la sua metodologia filosofica: io
(tesi), non-io (antitesi), io assoluto (sintesi di io e non io) segue la stessa
via triadica nell’etica: a) una voce della coscienza che parla chiaramente e
inequivocabilmente dentro di noi, b) una scienza filosofica di ciò che è retto
(in generale fuori di noi), c) un’azione di sintesi nel realizzarsi della
propria volontà e della coscienza morale. La politica poi non è che
un’estensione dell’etica. Nella comunità sociale la volontà individuale deve
apprendere a limitarsi in relazione agli interessi delle altre volontà
individuali. Quindi la società è «la relazione reciproca degli esseri
ragionevoli; una libera e reciproca attività fondata su idee». La concezione
morale dello Stato in Fichte è legata a ciò che si è detto. La volontà non è
solo l’energia mentale tua o mia: c’è una più ampia «volontà» (qui c’è
ovviamente una reminiscenza della volontà generale di Rousseau), che si esprime
nella vita dello Stato nazionale.
Limiti di spazio non ci
consentono di dare un’occhiata, neanche veloce, ad altri importanti contributi
sul tema. Ma vogliamo perlomeno accennare a quella importante parte dell’etica
politica che è stata sviluppata da pensatori attivi nell’etica sociale: basti
pensare a Fourier, a Karl Marx e, per quanto diversamente indirizzati, a Croce
e a Gentile.
Nel corso del xx secolo inoltre
scuole di pensiero come quella dell’eticaanalitica (o meta-etica del
linguaggio) o quella esistenzialista finanche nel suo filone
religioso-protestante (Reinhold Niebuhr: «L’uomo morale e la società immorale»
1932) hanno dato ampi spazi di riflessione sulla materia di questo argomento.
Forse però nel
giungere ai giorni nostri sono intervenuti spazi troppo ampi nel pensiero umano
che talora hanno provocato dei disorientamenti e talora hanno lasciato invero
anche dei vuoti di valori interiori e di tensioni ideali dell’uomo.
Passiamo adesso alla seconda parte
dell’argomento proposto. E rifacciamoci alle linee guida di pensiero che
regolano, che normano il comportamento degli individui che fanno parte
dell’Istituzione. In quanto si tratta di un Insieme di persone, che vivono in
relazione tra di loro ed in relazione con gli altri uomini, anche qui emerge un
comportamento «politico», si configurano delle norme, ed emerge quindi una
teoria etica quale risultato del complesso di queste norme, che nascono sulla
base di alcuni principi e sono articolate in conformità di alcuni fini.
Dal punto di vista etico, la M.
tende a conoscere l’uomo — questo grande sconosciuto — ed a condurlo al
perfezionamento attraverso l’educazione; indi alla sua vittoria sul vizio e
sulle passioni mediante la conoscenza e l’esercizio delle virtù, la conquista
della verità e il culto per la Giustizia. Ricordiamo i significati che sono
dentro queste parole.
Virtù. Virtù vuol dire forza, è la
forza di fare il bene, assoluto compimento del proprio dovere. Essa è virtù
pubblica quando è dedicata alla Patria, allo Stato, alla società; essa è virtù
privata quando si esercita senza sforzo, ma con disinteresse in favore degli
individui. Essa è virtù domestica quando è rivolta ai doveri familiari. Vizio.
Vizio è ogni concessione fatta all’interesse ed alla passione, a spese del
dovere. È la soddisfazione dei cattivi desideri dell’uomo.
Ed i principi su cui si basa questo
operare sono:
Libertà: cioè il dovere di
compiere e di non compiere atti secondo la determinazione della propria
volontà. E il diritto di fare tutto ciò che non è contrario alla legge, alla
morale e alla libertà altrui. Uguaglianza: «non fare agli altri ciò che non
vorresti fosse fatto a te stesso».
Fratellanza: «fai agli altri
tutto il bene che vorresti gli altri facessero a te».
Prendendo in
esame l’Istituzione già all’origine, vediamo che un punto cardine dell’agire e
dell’essere ha, sin dall’inizio, una specifica connotazione etica. Infatti
negli «Antichi Doveri» (che poi al XXXIX punto dei Regolamenti Generali vengono
espressamente dichiarati «land-marks» cioè cippi terminali) si legge al Capo 1 0:
Un m. ha l’obbligo, a causa del suo stato, di obbedire alla legge morale. Nel
corso dell’ ingresso nell’Istituzione, tra i fondamenti dell’essere e
dell’agire viene ricordato che la morale è una scienza che riposa sulla ragione
umana. E la legge naturale universale ed eterna che regge tutti gr1 esseri lntelligenti
e liberi. E la coscienza scientificamente spiegata, scienza ammirevole che fa
conoscere all’uomo i doveri e l’uso ragionato dei propri diritti. Essa si
dirige ai più puri sentimenti del cuore per assicurare il trionfo della ragione
e della virtù. Ritualmente poi, in occasione di ogni riunione viene ricordata
l’essenza stessa della morale, con parole scarne, ma con tono aulico: «Per
quale scopo ci riuniamo? Per edificare templi alla virtù, scavare oscure
profonde prigioni al vizio e lavorare al bene ed al progresso della Patria e
dell’Umanità». L’insieme delle norme morali, l’etica quindi, può sintetizzarsi
come lo sforzo continuo e perseverante di migliorare l’umanità attraverso il
miglioramento di se stessi. Niente quindi di «rivelato» o di «imposto» ma una
continua scelta libera di una vita basata su ragione, tolleranza, altruismo e
senso del dovere. La morale dunque inizia dal singolo uomo ed è il processo di
avvicinamento di ciascun individuo verso gli altri, in conformità al principio
che dice: agisci verso gli altri nel modo in cui essi stessi vorrebbero essere
trattati, trattali come tu vorresti essere trattato al loro posto.
Siamo persone umane, che
vivono insieme, che costituiscono quindi una «polis», che hanno un
comportamento «politico»: il vivere insieme, per scelta e per necessità, si
basa sul fatto che una scelta, anche etica, presuppone libertà; che inoltre
esiste una uguaglianza di fondo nella diversità degli uomini e che la
fratellanza umana è una presenza naturale nell’essere uomo
Allora
Salomone disse: «l’ Eterno ha dichiarato che avrebbe abitato nell’oscurità. Io
ho terminato di costruire una casa che sarà Tua residenza, Dio, una dimora dove
Tu abiterai eternamente».
Salomone è un re saggio, dotto
nelle scienze occulte, Egli può leggere le lettere delle Sacre Scritture, è un
esperto del linguaggio esotericokabalistico ed ha così la chiave per leggere le
Tavole di Mosè; Egli possiede anche il Bastone-misura di Aronne.
Le chiavi dell’Alchimia e dell’Architettura sacra sono in suo
possesso, Egli fa il progetto della costruzione del Tempio. Ma le misure gli
vengono trasmesse da un documento il cui contenuto doveva riguardare la
conclusione dell’alleanza stabilita da Dio con Israele sul Sinai, con
l’intermediazione di Mosè. Il re Salomone conosceva le proporzioni cosmiche e
quelle dell’unità di misura, ma per costruirlo dovette rivolgersi, non avendone
a disposizione, ad un popolo di Costruttori, Ed Hiram-Abi, il Fenicio, in
possesso delle chiavi della «antica misura», costruì il Tempio.
Con la collaborazione della magia manuale che
Hiram-Abi aveva ricevuto dai costruttori dei Templi egiziani, non è impossibile
che al di sotto del Tempio di Gerusalemme il re Salomone abbia fatto costruire,
di nascosto, qualcosa che forse è stata la causa dell’assassinio di Hiram-Abi:
un locale difficilmente accessibile e totalmente nascosto ove collocare l’ Arca
con il suo contenuto.
Quindi per i Templari, monaci e cavalieri, si
trattava della custodia della Terrasanta, ma principalmente della ricerca del
Santo Graal. Ma quale era anche lo scopo che questi Cavalieri, custodi dei
segreti del Tempio di Salomone, perseguivano?
Era quello di costruire un Luogo terreno, un Regnum,
a somiglianza di quello Celeste, che avesse sostituito l’attuale stagnante
feudalesimo degli Stati. Un Regnum per il quale era necessario incrementare le
attività sociali, promuovere la conoscenza di valori sconosciuti alla società
del tempo.
Per realizzare questa «Grande Opera l’Ordine si
trasferisce in Occidente con tutte le sue ricchezze ed i suoi beni lasciando in
Oriente
una piccola parte della sua Milizia; Gerusalemme
assume, fino a quando la storia glielo permette, l’aspetto di una sede
simbolica, La disciplina dell’Ordine militare e monastico al quale
appartenevano i Templari, anche se innestata nel tronco della tradizione
occidentale, non fa loro dimenticare l’organizzazione e l’importanza
dell’edificio del Tempio: l ‘ Edificio sacro a Re Salomone. L’organizzazione,
la divisione degli operai effettuata dal costruttore Hiram-Abi di Tiro in
apprendisti, compagni Maestri, non fa dimenticare loro che l’uomo vale per ciò
che è capace di fare. Da operaio ad artista, da artista a maestro tutto ciò
comporta una elevazione spirituale dell’uomo verso il suo Risveglio interiore.
Il lavoro materiale, grazie all’accordo che poco a
poco si stabilisce tra la materia e l’operaio, può portare a questo risveglio.
L’operaio passa allora, insensibilmente, allo stato di artista, poiché ha
acquistato quella magia manuale, il cui rituale è stato trasmesso tra gli
operai di padre in figlio o da maestro ad apprendista, fin dalle epoche più
remote, e che l’Ordine benedettino tanto si era preoccupato di coltivare.
Ne consegue che l’opera può provocare nell’uomo il risveglio
spirituale e più specialmente l’opera architettonica, nella quale l’uomo può
spaziare.
Ecco la ragione per cui in tutte le civiltà una
posizione particolare è stata riservata ai costruttori religiosi, il cui
apprendistato ha sempre richiesto una forma d’iniziazione.
Si tratta di un aspetto che nessuna opera
d’incivilimento può trascurare, senza essere incompleta, ed è questo il motivo
per cui documenti e tradizioni ci mostrano i Templari così intimamente legati
ai costruttori di Cattedrali.
Ottenuto questo risveglio l’uomo viene in possesso
della «Chiave». Quella chiave che permetterà di aprire le Porte del Tempio.
E passando attraverso le due colonne, virtualmente
trasportate in occidente, i Templari, sotto la guida dei Cistercensi,
possessori di una conoscenza rigorosamente celata riguardante la scienza dei
costruttori delle piramidi e l’esoterismo orientale, preparano all’uso della
squadra e del compasso quei maestri muratori che in seguito eleveranno verso il
cielo quegli esemplari di architettura ogivale che prenderà il none di gotico.
Dal punto di vista architettonico, tra il Romanico e
il Gotico, esiste la medesima differenza che c’è tra la statica e la dinamica,
il che si traduce in un’inversione delle forze e dei pesi.
La differenza fondamentale tra i due stili riguarda
essenzialmente la forma della volta. Le differenze tra le strutture dei muri,
delle finestre ecc., derivano da questa differenza fondamentale e non ne sono
la causa.
Tra i due stili un rovesciamento dei principi. La
volta romanica è una copertura che pesa sui muri. Di conseguenza, l’elemento
principale è il muro, che è reso compatto e spesso, per preoccupazione di
sicurezza.
La volta gotica invece è un insieme di spinte della pietra, concepito in modo
che la copertura non pesi più sui muri, ma sia «proiettata» verso l’alto. I
muri hanno, ormai, solo una relativa importanza e si svuotano, trasformandosi
in immense vetrate dalle quali cade una rugiada vivificante e purificatrice. In
uno scintillio di colori, rubino, topazio e smeraldo, «quest’acqua che non
bagna», quest’acqua celeste, si diffonde trasportando i lontani bagliori del
Tempio di Gerusalemme. Nella penombra delle Arcate dei Templi d’Occidente
l’anima dei credenti si predispone alla penetrazione di un mistero profondo.
Non può esistere una transizione tra il Romanico e il Gotico.
Una volta gotica su muri romanici li squarcerebbe, a
meno che lo spessore del pietrame non fosse enorme. Una volta romanica, serrata
tra due archi rampanti, si piegherebbe e si spezzerebbe a partire dall’alto. Il
Gotico è un sistema completamente nuovo — di esso non si riscontra alcuna
traccia anteriore —, in cui la volta, sostenuta da due archi rampanti, si
fenderebbe sotto la loro spinta, se non fosse stabilizzata dalla chiave di
volta. Il peso stesso degli archi rampanti crea la spinta laterale. Il peso
stesso delle pietre della volta crea la spinta verticale, dal basso in alto,
della chiave di volta. E quindi il peso stesso delle pietre a lanciare verso
l’alto la volta.
Il peso ha la propria negazione in se stesso. Si
tratta quasi di un fenomeno di lievitazione.
La crociera delle ogive che è
l’elemento tipico del Gotico, costituisce un insieme di nodi di tensione, che
sono puntellati dagli archi rampanti, appoggiati ai loro contrafforti e
bloccati dal peso dei loro pinnacoli, sovente rappresentato con un’immagine
barbuta con ali e corpo femmineo scolpita nella pietra. Il Bafonetto dei
Templari, che di lì a poco, doveva rappresentare per l’inquisizione l’idolo
demoniaco adorato dai cavalieri nelle segrete cerimonie del Tempio.
Si può immaginare quando le volte sono a diverse decine
di metri dal suolo — come in tutte le grandi cattedrali — quale somma di
conoscenze fosse richiesta al maestro architetto.
Le dimensioni di Chartres presuppongono una conoscenza
esattissima del globo terrestre e delle sue dimensioni — giungendo alla
conclusione, in mancanza di altre possibili, che i costruttori ed, ancor più,
gli ideatori dovessero essere in possesso di un documento scientifico di qualità
eccezionale e che questo non potesse logicamente essere che le Tavole della
Legge, riportate dai primi nove cavalieri del Tempio.
E certamente straordinario che sia stato possibile trovare tra la popolazione
francese, allora assai ridotta, un numero di maestri muratori, di scalpellini,
di falegnami, di vetrai, sufficiente ad intraprendere la costruzione di
quell’enorme numero di chiese laiche, per tali intendendo le chiese destinate
al pubblico che fu costruito in quel periodo.
La
formazione di costoro fu sicuramente dovuta ai benedettini ed ai cistercensi,
ma bisogna tener presente che dal 1140 al 1277 si ebbe l’apertura di ben 25
cantieri per la costruzione di Cattedrali.
E questo, solo per limitarci ai principali cantieri.
E allora chi pagava? Chi pagava non solo gli operai, ma
i cavatori di pietre, gli addetti ai trasporti, i manovali, i sorveglianti, i
terrazzieri, gli acquaioli, coloro che tiravano le corde, ed infine, gli
scultori, i vetrai ed i carbonai?
Il popolo certamente. Ma esso era povero ed anche se
donava in continuazione non poteva farlo che lentamente.
II re, i
feudatari, i vescovi, i canonici — le cui offerte sono state accuratamente
annotate e, perciò, sono note — non facevano che doni irrilevanti — un altare,
una vetrata, un’immagine…
I Comuni? Non vi erano, allora, che dei piccoli borghi
salvo Parigi, del tutto incapaci di affrontare, con la rapidità dovuta, simili
spese. Doveva esservi un «finanziatore». Tra i finanziatori, l’unico così ricco
da «anticipare» tanto denaro era il Tempio.
Nel_le discussioni che hanno accompagnato (e che, se
fossero state vissute e sincere non sarebbero cessate di botto appena svoltesi
le elezioni amministrative) l’iter legislativo, tuttora in corso, delle nuove
disposizioni in materia di commercio, detenzione ed uso di droghe psicoattive,
si è detto tutto ed il contrario di tutto. Meno un dettaglio, non proprio
trascurabile, che però non è mai stato menzionato né da coloro che sono
favorevoli alla posizione più spiccatamente punitivo-repressiva, né da quelli
che, all’opposto, ritengono preferibile una posizione più pratica
(liberalizzare per capitozzare il traffico illegale): la responsabilità del
consumatore di droghe.
Tutti sono d’accordo che la tossicomania non è malattia né dipende (salvo
qualche raro caso veramente eccezionale) da uno stato di malattia ma è,
fondamentalmente, conseguenza di una scelta personale. Siamo stati addentro
alla questione abbastanza per renderci conto che queste scelte, pur non essendo
obbligate, tante, tantissime volte non possono neppure essere considerate
libere. Intanto il candidato tossicomane è quasi sempre persona
caratterialmente debole, frequentemente con deficit culturali e/o
intellettuali, carenze affettive, insufficiente capacità di giudizio critico,
immerso in quello che i sociologhi chiamano disagio esistenziale — che tante
volte è costituito da vere e reali difficoltà, ma tante altre da semplice
infingardaggine, da un rifiuto della fatica di (e per) vivere. (E ovvio che i
motivi di protesta, ideologici, degli anni sessanta sono lontani anni luce).
Tante volte, veramente, tutto è sbagliato alle spalle
del tossicomane: la famiglia, la scuola — e con ciò l’educazione e la
formazione del cittadino — il mercato del lavoro e le strutture sociali e di
conseguenza, l’inserimento. Ma tutti questi fattori non sono, e non sono mai
stati ideali per chicchessia, Ed allora il «chiamarsi fuori», con tutto ciò che
può averlo propiziato e per quanto anche pesantemente condizionato quanto si
voglia, è e rimane non una fabulata generica «colpa della società», ma una
scelta. Scelta, perché oggi nessuno ignora cosa significhi e cosa comporti,
scelta di cui nessuno oggi più ignora le implicazioni e conseguenze. Scelta
che, per il soggetto che la compie,
potrebbe anche rientrare tra quelle proprie della
sfera della libertà individuale di disporre di sé (in Italia il tentativo di
suicidio non è reato) se non fosse per un suo particolare aspetto: quello della
sua antisocialità. Il tossicomane divenuto tossicodipendente, nella generalità
dei casi, non è in grado di guadagnarsi in modo legittimo quanto gli occorre
per vivere e soprattutto per finanziare il suo fabbisogno di droga. E di
conseguenza viene a pesare sulla collettività con la maggioranza di tutti i
reati globalmente commessi nella Repubblica, senza contare quelli non
denunciati, come gli abituali depredamenti e maltrattamenti dei genitori. Poi
bisogna mettere in conto la prostituzione, la diffusione di virosi
(soprattutto, ma non solo, l’epatite e l’ AIDS) ed altre malattie cui consegue
un pesante e straordinario consumo di risorse del Sistema Sanitario Nazionale —
già insufficiente per le fondamentali esigenze della collettività — consumo
destinato a continuare ad incrementarsi in modo esponenziale con il diffondersi
dell’AlDS. Ciò si verificherebbe, sia pure forse in forma meno drammatica,
anche se la droga fosse disponibile a prezzi controllati I
Questa, della disattesa del
principio di responsabilità personale, pare sia diventata una norma della
nostra società italiana: la sottomurano le sanatorie, i ripianamenti dei
deficit straripanti degli enti pubblici, i periodici condoni ed amnistie, certe
depenalizzazioni per politici e pubblici amministratori.
In questo generale ordine di idee siamo giunti al
punto — e mi riferisco ad un episodio di questi giorni — in cui dei genitori
rifiutano di riconoscere e di occuparsi del loro neonato perché anormale
(mongoloide nella fattispecie). La legislazione italiana non ne prevede la
possibilità, ovviamente, nel caso di nato da un matrimonio — anche se un caso
conclusosi proprio secondo le intenzioni dei genitori ci è noto personalmente
ed è avvenuto già parecchi anni fa, e con l’intervento della magistratura
minorile, in una città dell’Italia settentrionale.
Il discorso, ma su un
piano molto diverso e limitato, dovrà essere affrontato prima o dopo anche per
i fumatori ed i forti bevitori che, come frequentemente esitanti in malattie
gravi (cancro del polmone ed epatopatia alcoolica) vengono a pesare sulla collettività,
ma praticamente mai sono portati alla delinquenza — mi riferisco ovviamente
agli alcolizzati.
Ora nessuno desidera un figlio minorato — anche se
l’attesa più razionale e modesta è solo quella di un figlio non eccezionale, ma
almeno medio-normale. Si può essere addetti ai lavori e provare ancora dopo
decenni un senso del meraviglioso in presenza di un bambino nato senza difetti
di formazione e senza segni di sofferenza: Si può aver vissuto tante volte la
tragedia di quando non è così, e non si può mai fare a meno di essere
emotivamente coinvolti. E si conoscono bene le difficoltà, la solitudine
personale e sociale, la disperazione quotidiana e spesso inevitabilmente
ingravescente di tanti genitori, specie oggi che si riesce a far vivere (ma
tante volte si tratta solo di sopravvivenza piuttosto che di vita nel suo senso
pieno) intralciando, sforzando, doverosamente, il corso della natura — molti
che ancora pochi anni fa non sarebbero sopravvissuti tanto a lungo.
Vogliamo anche dire che casi estremi da Cottolengo ce ne sono sempre stati,
casi in cul un allevamento in famiglia è veramente impossibile. E non vogliamo
certo ergerci a giudicare chicchessia. Ma noi che abbiamo raccolto, vissuto la
coraggiosa disperazione di tanti genitori, con i loro saltuari desideri di
suicidio e di figlicidio — e che li avremmo comunque tenuti in onore in
qualsiasi evenienza; a noi che gli abbiamo sempre visto riprendere con coraggio
e rassegnazione il loro calvario, ecco, un rifiuto totale, immediato, assoluto,
del figlio come di una cosa estranea, indifferente, non ci sentiamo di
ritenerlo accettabile. Nessuno, uomo, legge, dio, possono validare un
comportamento del genere che può sì avere lontane radici biologiche e forse
istintuali, ma a cui appunto si oppone tutto quanto ci differenzia dal resto
del regno animale. Conclusioni? Una sola, ed abbastanza breve.
Che ciascuno nella sua sfera personale, familiare,
sociale, cerchi di ricordarsi sempre che non vi sarà progresso — su alcuno di
questi piani — quando resti disatteso il principio della responsabilità
personale; accettata e vissuta con umiltà e consapevolezza e con il maggior
rigore di cui si sia capaci. Soprattutto da chi si professa massone. 1 valori
fondamentali della vita non sono cambiati neanche alle soglie del XXI secolo:
operosità, impegno personale, affidabilità, onestà (intellettuale
innanzitutto), senso di appartenenza e solidarietà sociale, disponibilità
all’assunzione — ed all’assolvimento — di responsabili61
tà, controllo e contenimento di fatue ambizioni personali e
di fuorviante sete di potere, incorruttibilità, tolleranza ed apertura verso i
bisogni del prossimo; impegno per la preservazione del nucleo familiare (anche
a costo di sacrifici, economici ed affettivi) educazione dei figli intesa come
un ‘amorevole, attenta, discreta ma solida e coerente offerta di aiuto
nell’acquisizione della autonomia delle scelte, libera, spoglia di pregiudizi e
consapevole — soprattutto attraverso l’esempio ancor prima che attraverso le
parole.
Se riesci a non perdere la testa quando tutti intorno a te la perdono e ti
mettono sotto accusa; se riesci ad avere fiducia in te stesso quando tutti
dubitano di te, ma a tenere nel
giusto conto il loro dubitare; se riesci ad aspettare senza stancarti di
aspettare; o, essendo calunniato, a non rispondere con calunnie, o, essendo
odiato, a non abbandonarti all’odio, pur non mostrandoti troppo buono, né parlando
troppo da saggio; Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni; se
riesci a pensare senza fare dei pensieri il tuo fine; se riesci, incontrando il
successo e la sconfitta, a trattare questi due impostori allo stesso modo; se
riesci a sopportare di sentire le verità che tu hai detto, distorte da furfanti
che ne fanno trappole per sciocchi, o vedere le cose per le quali hai dato la
vita, distrutte; e umiliarti; e ricostruirle con i tuoi strumenti ormai logori;
Se riesci a fare un solo fagotto delle tue vittorie e rischiarle in un solo
colpo a « testa-o-croce », e perdere; e ricominciare da dove iniziasti, senza
dire mai una parola su quello che hai perduto; se riesci a costringere il tuo
cuore, i tuoi nervi, i tuoi polsi a sorreggerti anche quando ormai in te non
c’è più niente tranne la tua volontà che ripete « resisti! »
Se riesci a parlare con la canaglia
senza perdere la tua onestà; o a passeggiare con i re senza perdere il senso
comune; se tanto nemici che amici non possono ferirti; se tutti gli uomini per
te contano, ma nessuno troppo; se riesci a riempire l’inesorabile minuto con un
momento fatto di sessanta secondi; tua è la Terra e tutto ciò che è in essa, e,
quel che più conta, sarai un Uomo, figlio mio.
Rudyard Kipling (fratello massone,
iniziato nel 1886 nella Loggia: « Hope and Perseverance »)
LA MASSONERIA NEL MONDO dalle origini ad oggi di Paul Naudon,
Editrice Prealpina, 1983
La bibliografia massonica nel mondo è immensa; in Italia lo è forse un po’
meno, anche se Agostino Lattanzi nella sua monumentale, ma pur lacunosa,
Bibliografa della Massoneria italiana (Firenze, 1974) ci presenta oltre duemila
titoli. Negli ultimi anni poi sono entrate nel mercato librario numerose opere
di argomento massonico, arricchendo una letteratura già florida. Si direbbe
quindi che per questo argomento sia rimasto ben poco spazio per altre
iniziative editoriali. In realtà, se si passa dalle copertine ai contenuti, ci
si rende subito conto che gran parte della carta stampata sulla Massoneria è
carta da macero. Abbondantissima è la produzione denigratoria, tanto
inattendibile quanto quella apologetica; infinite sono le volonterose
esercitazioni di modesti artigiani dell’Arte Reale, i quali si improvvisano
storici e filosofi per coinvolgere, a loro modo, la Massoneria nel corso degli
eventi e nello sviluppo del pensiero.
Fanno eccezione pochi lavori seri, i quali, proprio
perché pochi e per lo più di erudizione, sono ben lungi dal colmare le più
vaste esigenze informative su una istituzione così importante, qual è stata e
quale continua ad essere la Massoneria.
Da questo punto di vista non si può che lodare
l’Editrice Prealpina, per aver promosso una stupenda edizione italiana
dell’opera di Paul Naudon, curata da Aldo Alessandro Mola, studioso
d’indiscusso valore e storico della Massoneria italiana, fra i più stimati.
II Naudon ha condotto il suo lavoro seguendo il
concetto che già ispirò l’ormai classico libro di Eugen LennhoŒ (Die
Freimaurer, Wien, 1929): quello di condensare in una vasta sintesi i principi
fondamentali e la storia complessiva della Massoneria, in modo però da
soddisfare anche le esigenze del lettore criticamente più smaliziato. Sono due
opere in questo senso parallele, anche se nascono da esperienze culturali
profondamente diverse, ed anche se le separa una ragguardevole distanza di
anni.
L’opera del Naudon è articolata in dieci capitoli,
secondo un ordine
non storico, ma storico-ideologico, atto a dare una
visione globale e contestuale dello sviluppo dell’istituzione e delle idee.
Nel primo capitolo si tratta delle origini remote della
Massoneria, ben distinguendo fra l’attendibile e il leggendario, e,
soprattutto, concedendo giusto rilievo alla ricchezza delle sue fonti
spirituali, portatrici di valori eterni e trascendenti, retaggio della
religiosità delle confraternite di mestiere e di antichi esoterismi.
Segue il capitolo riguardarrte la Massoneria in Gran
Bretagna. Sono le pagine più importanti, non solo perché con esse si inizia la
storia della Massoneria, ma perché enunciano i princìpi basici che
costituiscono le pietre miliari della vita iniziatica.
Viene poi affrontato in modo succinto, ma esauriente, il delicato rapporto fra
Massoneria e Chiesa cattolica, aggiornato con il nuovo Codice di Diritto
Canonico, promulgato il 25 gennaio 1983. Dopo tanta polemica e tante scomuniche
vi è quindi pace? Ci piace ricordare le parole con cui termina il capitolo,
perché contengono l’essenza di una pacificazione, non soltanto formale e
giuridica, ma autentica ed attiva, fra due istituzioni le quali devono «
ammettere che le strade che salgono verso la più alta spiritualità sono
parallele e convergono all’Infinito ».
Nei capitoli successivi viene esposta l’origine e la
storia della Massoneria in ogni paese del mondo. Sono brevi, ma complete,
monografie che, considerate nel loro insieme, dall’Europa all’America,
dall’Asia all’Oceania, ci danno il senso dell’universalità della veneranda
Istituzione; la loro lettura ci offre la testimonianza storiografica che, fatti
salvi gli antichi landmarks, la Massoneria possiede una mirabile adattabilità
all’ambiente culturale di qualunque tempo e di qualunque luogo. Il suo
inesauribile diffondersi su tutta la terra è la miglior prova che essa risponde
a profonde esigenze dello spirito umano.
L’Autore giustamente si sofferma più a lungo sulle
massonerie francese e germanica, per le grandi innovazioni dottrinarie, rituali
ed esoteriche di cui sono state artefici, e per il loro determinante contributo
alla nascita degli alti gradi.
Sulle note diatribe di diritto massonico
(territorialità, regolarità, sovranità, ecc.) il Naudon ha il merito di non
avere assunto posizione,
accontentandosi di registrare i fatti
storicamente accertati. Da questa visuale poteva essere insidiosa la tormentata
vicenda della massoneria francese, che egli ha saputo illustrare con
equanimità. Il suo pensiero conclusivo è anche il nostro: « La molteplicità
degli aspetti della Massoneria in Francia, deplorevole per molti versi, ha
tuttavia il merito di suscitare viva emulazione e di contribuire al
mantenimento e alla diffusione del pensiero francese, erede — nella pluralità
feconda delle famiglie dello spirito — della cultura e della civiltà
greco-latina ».
La parte che riguarda l’Italia è stata scritta
magistralmente da Aldo A. Mola. Si ritorna necessariamente sul tema dei
rapporti con la Chiesa cattolica, e viene delineato con onestà il contributo
dei liberi muratori alla formazione dello stato italiano. II punto storicamente
più controverso, quello dei legami fra la Massoneria e le associazioni
carbonare, e quello fra queste e le logge rifiorite nel 1859, è risolto in una
continuità, che conferisce alla fratellanza massonica un ruolo primario nella
storia del nostro Risorgimento. Meritava forse qualche parola in più la
scissione del 1908, sia per le motivazioni che l’hanno determinata, sia per le conseguenze
che ha avuto e che ancora dividono i massoni italiani.
Concludendo, crediamo di poter dare di questo libro
lo stesso giudizio complessivo che già diede Guido De Ruggiero sull’opera del
Lennhoff: « è una delle letture più raccomandabili sull’argomento, per il suo
carattere sintetico e per la cura che pone di non isolare lo svolgimento degli
istituti massonici dalla storia generale dei tempi ». Una speciale menzione
merita l’eccezionale corredo di 183 illustrazioni di cui è dotato il libro,
Sono riprodotte stampe rarissime, medaglie, stemmi, sigilli, ornamenti,
paramenti massonici e molti volti di liberi muratori. Le illustrazioni sono
commentate da ottime didascalie, che rappresentano un’ulteriore fonte di
notizie.
Cos’è la famiglia? E’ un fatto naturale ed
universale, oppure è un’entità astratta suscettibile di assumere delle forme
diverse nel tempo e nello spazio? Per noi, membri della civiltà occidentale, la
famiglia, intesa come l’unione monogama, socialmente ratificata con il matrimonio,
di un uomo ed una donna ed il riconoscimento della filiazione e della
trasmissione del nome da parte dell’uomo e l’accettazione, anche se in tono
sempre minore, della autorità maschile, viene considerata come l’elemento
fondamentale, la cellula vivente di quel complesso e delicato tessuto che è la
società umana.
Questa visione, ormai radicata da sempre nella pratica quotidiana, non lascia
dubbi sull’aspetto naturale ed universale della famiglia e sulla sua
immutabilità nel tempo. Infatti, è sufficiente rammentare come il modello e le
tradizioni delle antiche famiglie “patriarcali” , anche se temperato
e modificato dall ‘evoluzione naturale della cultura dei popoli, sia rimasto
sino quasi ai giorni nostri.
I fattori motivazionali che hanno dato origine alla
famiglia, organizzata nelle linee fondamentali che tuttora la caratterizzano
sono stati numerosi e complessi; ma due di essi si evidenziano in modo
particolare.
Il primo deriva dalla necessità di ostacolare la
creazione tra consanguinei, in quanto avrebbe dato origine alla formazione di
gruppi chiusi che, perpetuandosi attraverso se stessi, sommersi dai loro odii,
dalle loro paure e dalle loro ignoranze, avrebbero impedito qualsiasi forma
stabile di società. E’ interessante notare come l’incesto sia sempre stato
condannato, sino dall’antichità, per fondamentali motivi di sviluppo sociale e
non per motivi biologici o genetici.
Il secondo fattore, non meno importante del primo,
deriva dall’esigenza di assicurare alla prole non solamente il raggiungimento
della autosufficienza fisica nel seno della famiglia, ma la maturità necessaria
e sufficiente ad essere motore di sviluppo culturale nell ‘ambito della
società.
Tuttavia, secondo gli studiosi del fenomeno, la
consuetudine degli occidentali, e non solo degli occidentali, avrebbe fatto di
una scelta dell’uomo, un avvenimento naturale; infatti vi sono esempi di
civiltà alta mente elaborati in cui la
famiglia non esiste e le funzioni proprie di ciascun nucleo familiare sono
assolte dalla comunità nel suo insieme. Peraltro, sono noti i tentativi
recenti, verificatisi nel dopoguerra, di comunità che raggruppavano numerosi
individui di ambo i sessi ove un certo tipo di ripartizione dei compiti
garantiva il soddisfacimento dei bisogni essenziali, ma la formazione delle
coppie era casuale e continuamente mutabile e la prole apparteneva a tutta la
comunità. Ovviamente queste comunità, già nate ai margini della società per
effetto di una contestazioine strumentalizzata prevalentemente dal commercio
della droga, si sono praticamente autoestlnte proprio per la mancanza di una
loro funzione di sviluppo sociale.
Comunque, anche se la famiglia fosse una forma di
organizzazione scelta dell’uomo e non potesse vantare origini dovute al
soddisfacimento di bisogni naturali, è purtuttavia stata il motore di tutte le
civiltà che si sono succedute nella storia dell’uomo ed è indubbiamente il
supporto originario della società moderna, il luogo in cui scaturiscono tutti i
ruoli che gli individui assumono nella vita sociale
Ciononostante, la
famiglia coniugale è in crisi ed è possibile che non possa sopravvivere nella
civiltà industriale; di questa crisi ne abbiamo una riprova ogni giorno e le
cause sono molteplici.
La grande dimensione della civiltà industrializzata,
l’importanza del modo di vita urbano, la partecipazione alla produzione in
clima di competizione e di accentuata conflittualità, la necessità di
professionalità sempre più accurata, l’onnipotenza dello Stato nella vita
sociale e l’abbandono di taluni tratti caratteristici dell’istituzione
familiare, considerati come imbarazzanti o di nessuna importanza, sono fattori
che stanno alla base delle tensioni che si riscontrano in seno alla famiglia.
La presa di coscienza dell’alienazione femminile che si è inizialmente realizzata
con l’ingresso delle donne nel gioco produttivo si è ora proiettata nella
famiglia ridimensionando radicalmente il concetto di autorità maschile.
Nel mentre il raggiungimento della parità di diritti
e doveri tra uomo e donna, operante almeno sotto l’aspetto giuridico, è stata
un’opera di
necessario risanamento sociale, la famiglia si è mostrata
completamente impreparata ad accogliere questa nuova ottica dei rapporti nelle
proprie strutture.
Non bisogna dimenticare che sino a pochi decenni orsono la
costituzione di una famiglia nel contesto urbano richiedeva da parte dei co.
niugi una assunzione effettiva di responsabilità in quanto, mentre l’uomo si
accollava totalmente l’onere di procacciare i mezzi di sostentamento per tutta
la famiglia nell’ambito di una società con scarse risorse sociali, la donna
doveva amministrare oculatamente detti mezzi: questa situazione provocava uno
stato di dipendenza reciproca tra i coniugi, nel cui ambito l’autorità maschile
si esplicava soprattutto nei rapporti che l’uomo aveva, quasi in esclusiva, con
l’ambiente esterno alla famiglia
Una assunzione di responsabilità prevalentemente formale e venendo a mancare in
massima parte lo stato di dipendenza reciproca dei coniugi, l’autorità maschile
ha gratificato uno stato di privilegio nell’uomo e non uno stato di necessità
legato al suo ruolo. Questa nuova situazione rende complessa da parte dell
uomo, l’accettazione di un ruolo nell ambito familiare, proprio perché comporta
la perdita di un privilegio, antico e radicato nella cultura, non più
penalizzato da effettive responsabilità.
Ma la crisi della famiglia nella civiltà industriale è
dovuta anche ad altri fattori di primaria importanza.
La lotta dei gruppi di potere si svolge senza quartiere e
non esita a distruggere la società pur di giungerne al dominio; la famiglia è
uno degli obbiettivi di primaria importanza poiché attraverso il suo
condizionamento è possibile rimuovere gli ostacoli principali alla conquista
del potere. Ed è per questo motivo che vengono esasperate le tensioni che già
esistono nell’ambito familiare; è sufficiente ricordare la contestazione dei
giovani e la conseguente diffusione della droga, l’esasperazione del
femminismo, la stessa pornografia.
Peraltro, questi fenomeni hanno trovato facile esca in
aspetti del nucleo familiare superati dall’evoluzione della società c mai
adeguati
per molti motivi, non ultimi l’ignoranza e l’egoismo umano
spesso camuffati da un falso conservatorismo radicato sulle tradizioni.
In verità, la società ha fatto molto poco, e quel
poco in modo disorganico, per favorire il benessere morale della famiglia; ogni
azione svolta in questo senso ha sempre avuto secondi fini volti allo
sfruttamento della struttura familiare a vantaggio dell’esercizio del potere.
Basti rammentare l’attività del clero per il dominio delle anime, Ic campagne
demografiche da parte dello Stato.
L’argomento “famiglia” è stato appena
accennato; vi sono ancora infinite cose da dire sulla sua storia, sulla sua
funzione, sulla sua crisi e sul rimedi che si possono perseguire.
Comunque la carenza fondamentale nei rapporti
umani che a mio avviso caratterizza gli aspetti negativi più rilevanti è
l’assenza del rispetto per il nostro prossimo, l’incapacità di amare gli altri
esseri umani per loro stessi che troppo spesso caratterizza l’uomo.
Abbiamo assistito per qualche anno, in un recente
passato, ad una ripresa, diremmo piuttosto evidente, dell’esplorazione dei
rapporti tra massoneria e religione, da parte sia massonica sia cattolica.
Le ragioni di questo fenomeno restano ignote,
ovviamente, alla base delle rispettive piramidi. Appare tuttavia lecito
supporre, poiché d’abitudine nelle due organizzazioni ben poco d’importante
avviene casualmente, che dietro all’indiscutibile interesse culturale, ve ne
possano essere stati altri, altrettanto validi.
Esula dagli scopi di questo studio e non è nell’intenzione
di chi l’ha compiuto, indagare o speculare sulle origini del fenomeno.
Ma al Libero Muratore che, sgrossandosi, impara ad ascoltare e vedere — ed a
riflettere su quanto ha visto ed udito — non saranno sfuggiti le conferenze o
gli scritti dei Rev. Padri Esposito, Caprile, Bentimeli S. J., improntati tutti
ad inedita e viva simpatia per il nostro Ordine.
Non gli saranno neppure sfuggiti i telegrammi
regolarmente inviati dal Gran Maestro in occasione delle morti ed elevazioni al
soglio degli ultimi pontefici e la tanto cordiale quanto, penso, inattesa
risposta all’ultimo, per l’elezione dell’attuale papa.
Avrà esso pure considerato con attenzione la
conferenza tenuta da F. E. ad Udine nel 1978 e poi opportunamente diffusa, dal
titolo « Massoneria e Cattolicesimo Romano ».
CATENA ha fatto di « Massoneria e Religione » il suo
tema per l’anno 1980 ed anche in qualche officina torinese se ne è discusso.
Non crediamo che gli Orienti di
Udine e Torino e la stessa CATENA abbiano particolari vocazioni archeologiche.
Se si riprende ora un argomento vecchio probabilmente quanto la
massoneria stessa, vi deve essere un’esigenza che rende attuale e necessario il
suo recupero. Tanto più che questo avviene in un mondo ed in un’epoca in cui
certe tematiche non godono di particolari attenzioni ed in
cui neppure la vita della massoneria
universale sembra porre problemi o esigenze nuovi ed urgenti in questo settore.
Il presente lavoro vuole offrire un piccolo contributo
propedeutico al tema, giusto per evitare che non vengano considerati alcuni
dati di fatto importanti, ma ormai coperti dalla polvere dei decenni, se non
dei secoli.
La nostra ricerca, storica più che speculativa, non può
iniziare che da quel centinaio di manoscritti — libri o rotoli di pergamena —
che ci sono giunti materialmente dalla massoneria operativa. Nel loro insieme
formano le cosiddette Costituzioni Gotiche ed i varî volumi non pare presentino
notevoli differenze né di forma né di sostanza.
Su questo materiale Anderson (o, forse più esattamente,
quel gruppo di lavoro del quale il pastore presbiteriano — peraltro all’epoca
neofita ma pur sempre uomo di penna — era segretario ed estensore) si basò per
redigere le famose Costituzioni del 1717-
Queste, che non sono riportate dal Gorel Porciatti integralmente, come
generalmente si crede, consistono di una parte storica, dei Charges of a
Freemason (o Antichi Doveri), del Regolamento Generale e terminano con una
serie di canzoni. La prima frase della parte storica è la seguente:
« Adamo, il nostro progenitore, creato ad immagine di Dio,
il Grande Architetto dell’Universo, doveva avere inciso nel cuore le Arti
Liberali…
Possiamo allora cominciare con il dire che il concetto di
G.A.D.U. ci viene direttamente dalla massoneria operativa e nasce a quella
speculativa nel momento stesso della sua fondazione formale. Il Grande
Architetto non viene più menzionato né negli Old Charges né nei Regolamenti
Generali.
Tuttavia, negli Antichi Doveri (che poi al XXXIX ed ultimo
punto dei Regolamenti Generali vengono espressamente dichiarati landmarks
ovvero cippi terminali, da « conservarsi accuratamente » ) si legge al capo 1 0
:
« Un Massone ha l’obbligo, in virtù del suo Titolo, di
obbedire
Legge morale; e se egli ben Comprende l’arte non sarà mai
uno stupido Ateo né un Libertino senza Religione.
Negli antichi tempi i Massoni erano obbligati in ogni
paese di professare la Religione della loro Patria o Nazione, qualunque essa
fosse; ma oggi, lasciando a loro stessi le particolari opinioni, si trova più a
proposito di obbligarli soltanto a seguire la Religione sulla quale tutti gli
Uomini sono d’accordo. Essa consiste nell’essere buoni, sinceri, modesti e
persone d’onore qualunque sia il credo che li distingue; da ciò si deduce che
la Massoneria è il Centro di Unione ed il Mezzo atto a conciliare una sincera
Amicizia fra Persone che non avrebbero mai potuto senza di ciò divenire
componenti della stessa Famiglia ».
Abbiamo qui, in campo religioso, una visione apertissima per l’epoca, anzi,
concettualmente rivoluzionaria — tant’è che fu aspramente criticata dai
Fratelli più tradizionalisti. ln essa si è voluto perfino vedere un tentativo
di decristianizzazione della massoneria, così come in precedenza essa era stata
deromanrzzata e decattolicizzata.
« Decristianizzazione » è termine forse improprio e
sarebbe, penso, un’insinuazione offensiva attribuire velleità acristiane ad un
estensore che comunque era pastore di una chiesa cristiana, anche se non munito
sacramentalmente del carisma sacerdotale come altre confessioni cristiane lo
conoscono. Ma è altrettanto vero che, pur lontani da posizioni irreligiose, si
è voluta aprire la massoneria ad uomini degni, anche se non cristiani — forse
con ciò riconducendola all’essenza del messaggio cristiano.
forse proprio per questo spirito
aconfessionale che nelle Costituzioni non ritroviamo nemmeno altri riferimenti
cristiani se non in funzione di segnatempo, come usava allora (ed ancor oggi in
certe nostre campagne): il giorno di Nostra Signora, di S. Michele, di S.
Giovanni Battista, ecc.
Nel 1730 fu creato Massone il primo
Fratello di religione ebraica. Gli seguirono altri e poi parsi, maomettani e,
solo nel 1871, il primo indù.
Gli inglesi sono in genere considerati alieni da colpi di
testa o azioni inconsulte: come il primo profano non cristiano entrò nell’Ordine
solo 7 anni dopo 1a pubblicazione delle Costituzioni, così ci mise del tempo a
maturare, in buon numero di Fratelli, l’opposizione a questo atteggiamento
liberale in campo religioso. Ma questa opposizione divenne poi talmente
importante che nella 2a ed. delle Costituzioni, che uscì nel 1738,
troviamo già così modificata la frase iniziale della parte storica, innanzi
riportata:
« L’Onnipotente Architetto e Grande Maestro dell’Universo,
avendo creato tutte le cose seguendo la Geometria… ».
Tuttavia questo richiamo più preciso al Dio creatore non
soddisfece i Fratelli tradizionalisti: già nel 1739 si ha lo scisma degli
Ancients dai Moderns che durò fino al 1813-1815, anni in cui fu rispettivamente
siglata e portata ad effetto la riunione delle due Obbedienze, con la creazione
della Gran Loggia Unita d’Inghilterra.
La vittoria arrise agli Ancients e la loro « ortodossia »
ebbe sopravvento al punto che dalle Costituzioni del 1815 scomparve persino la
frase « lasciando a ciascuno le sue libere opinioni », che era ancora presente
nel testo dell’Atto d’Unione del 1813.
Il paragrafo che ci interessa suona ora (1815) così:
« Per obbligazione del suo stato un Massone è tenuto ad
obbedire alla Legge Morale e, se comprende bene l’Arte, non sarà mai uno
stupido ateo o libertino irreligioso. Tra tutti gli uomini egli dovrà meglio
comprendere che la volontà di Dio non è quella dell’uomo, perché questi vede
l’aspetto esteriore, mentre Dio vede il cuore. Di conseguenza un Massone è
obbligato in particolare a non agire giammai contro i comandi della sua
coscienza. Quale sia la religione d’un uomo o il suo modo di adorare, egli non
sarà escluso dall’Ordine, ammesso ch’egli creda nel Glorioso Architetto del
Cielo e della Terra o ch’egli pratichi i sacri doveri della Morale…
Da quel lontano 1815 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra
non ha liberalizzato la sua posizione per la quale il G.A D.U. non poteva
essere che il Dio delle religioni monoteistiche — in pratica: ebraismo,
cristianesimo, islam, mazdaismo.
Con l’andar del tempo, anzi, la sua
posizione si è precisata nel senso di un ulteriore irrigidimento che viola in
modo palese pro70
prio quanto stabilito al Capo I degli Old Charges nella
loro prima stesura.
Nel 1929, il 4 settembre, essa
pubblicò i « Principi fondamentali per il riconoscimento delle Grandi Logge »
che specificano che la credenza nel G.A.D.U. e nella sua volontà rivelata sono
una delle condizioni essenziali per l’ammissione dei membri. Inoltre il
giuramento sarà prestato sul Libro Sacro nel quale è espressa la Rivelazione. E
dovranno sempre essere esposti in Loggia, durante i Lavori, lo stesso Libro
Sacro, la Squadra ed il Compasso.
Tutto questo è stato ancora ribadito nel 1950 in quella
lettera con la quale venne comunicata la rottura dei rapporti alla Loggia
dell’Uruguay: vi si esprime la certezza che la Massoneria è un culto fondato su
una credenza religiosa, fra i cui scopi vi è quello di conservare e diffondere
la credenza nell’esistenza di Dio — che deve essere quello di una religione
monoteistica… ecc. Sul Continente le cose andarono, in parte, diversamente.
Il Grande Oriente (G.O.) di Francia, che fino al 1849 non ebbe una sua
Costituzione (ma solo dei Regolamenti Generali), non imponeva, per l’ammissione
di un postulante, nessuna particolare credenza religiosa. Esso, comunque,
intestava la sua corrispondenza, o certi atti, alla gloria del G.A.D.U.
In quell’anno, tuttavia, nel 10 paragrafo
della Costituzione che sarebbe poi stata approvata, venne inserita la frase: «
La Massoneria ha per base la esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima ».
Nel 1865 venne aggiunta la proposizione che il G. O.
considerava la libertà di coscienza come un diritto proprio di ogni uomo e che
esso non escludeva alcuno per le sue credenze.
Nel 1872 il G. O. del Belgio, oppresso dal clericalismo,
tolse il G.A.D.U. dai suoi Rituali (senza apparente reazione da parte in-
Questo fatto incoraggiò a loro volta i Fratelli
francesi liberali — e nel 1877 il G. O. di Francia eliminò dall’art. 1 0 l’obbligo
di credere in Dio e nell’immortalità dell’anima. Ma sul G.A.D.U. non si prese
alcuna decisione. Esso scomparve dal Rituale di quell’Obbedienza nel 1884.
Questa, a brevissime linee, la nascita storica del G.A.D.U.
nella
G. O. di Francia e sarebbero
Massoni esattamente come lo sono oggi. Non per questo peggiori o migliori.
In questo spirito — crediamo — si è recentemente
prospettato da parte autorevolissima (ottobre 79) il possibile ingresso nei
nostri Templi di simboli rituali appartenenti a culture africane.
Illuminismo –
Rivoluzione – Massoneria. Le idee di A. Menzio Egalité.
1831. Esce «Lo spirito della Rivoluzione» di Roederer
che individua la maggior parte dei problemi che saranno poi dibattuti nel XIX
secolo, quando si vorrà chiarire quale idea della eguaglianza ebbero gli uomini
della Rivoluzione.
Secondo l’autore l’uguaglianza nell’opinione pubblica era già ben radicata
prima ancora che la Rivoluzione la imponesse. Derivava dalla decadenza della
nobiltà che sempre si accompagna all’elevazione materiale, morale e spirituale
delle altre classi. Non solo. Ma essendo in Francia l’élite profondamente
delusa e mortificata, l’eguaglianza assunse l’aspetto di una passione tanto
impetuosa da giustificare persino le eccezioni fatte a danno della libertà.
rivoluzionari hanno sempre diffidato della eguaglianza
di fatto che, livellando, non tiene conto degli «spiriti superiori», ma hanno
invece privilegiato l’eguaglianza dei diritti che consente a ciascuno tutte le
possibilità.
Sulla idea dell’uguaglianza ha molto influito il
pensiero giansenista che vede nella eguaglianza delle persone della Trinità il
fondamento della eguaglianza fra i cristiani. Uguaglianza che si manifesta
(come predicava Bossuet) nella morte che annulla ogni privilegio. La morte
confonde il principe ed il suddito.
Pur avendo giocato un ruolo sovversivo contro la «grandezza
delle istituzioni» il giansenismo non corrisponde alla eguaglianza prediletta
dal XVIII secolo. E un secolo troppo edonistico per apprezzare l’etica della
privazione.
concetto privilegiato è quello meritocratico. Il che
provoca delle ineguaglianze che tuttavia sono accettate, ad esempio da
Voltaire, per cui è giusto che i primi posti spettino agli illuminati. E una
diseguaglianza che nasce, come dice Montesquieu, dalla eguaglianza stessa.
Questo tipo di eguaglianza meritocratica è contro il privilegio, l’ereditarietà
che, secondo Mirabeau, è un vero mostro. L’uguaglianza dovuta ai meriti spazza
via le prerogative della nascita e consente un miglior reggimento della cosa
pubblica, dove ognuno, secondo le proprie capacità, svolge un ruolo utile
Ruoli diversi e diversi trattamenti economici. Maggior
capacità, maggiori guadagni. Si innesta qui il problema della proprietà che lo
stesso Rousseau non vuole distruggere, ma solo contenere.
Possiamo dire che la rivoluzione sembra illustrare nelle
sue fasi i diversi pensieri del secolo:
prima si propugna una
eguaglianza di diritti che apre al merito le cariche. In un secondo momento si
preoccupa dell’eguaglianza dei beni. Alla fine si riconcilza con la proprietà e
le disuguaglzanze sociali.
Fraternité.
Dal punto di vista cronologico la fraternité è la più
tardiva. Sino al 1792 trionfa la Liberté, poi è la volta dell’egalité e
soltanto con la dittatura montagnarda arriva il momento della fraternité.
Negli scritti dell’epoca la Fraternité è associata o al
cristianesimo o alla massoneria, ma non compare, ad esempio, nei cahiers de
doleances. Essa non venne mai identificata come un diritto, ma solo come
obbligo o raccomandazione morale.
Nella dichiarazione dei diritti non viene nominata.
Il termine compare in un testo ufficiale solo in un
articolo aggiuntivo alla Costituzione che nel ’91 la considera nelle future
feste nazionali che vengono istituite per «coltivare» la fratellanza. Essa non
è intesa come una immediata rivendicazione, ma come elemento di una formazione
civica a lungo termine.
Bisogna arrivare al 1848 perché la fratellanza compaia
accanto alla libertà ed alla uguaglianza.
26
Il concetto però, già nel 1789, è presente tra i
rivoluzionari. La riunione degli Ordini si pone sotto il segno della «unione
fraterna». Quando La Fayette giura al Campo di Marte promette di restare unito
a tutti i Francesi con i legami indissolubili della Fraternità.
La festa del 14 luglio (lo dice Camille Desmulines)
«ci porta a guardare, se non il Signar Capeto come un nostro amico, almeno
tutti gli uomini e tutti i popoli come fratelli».
Non è in fondo importante che la parola Fraternité
compaia nei testi legislativi. Tutta la Rivoluzione è permeata da questo
concetto. Roederer, incaricato di formare l’elenco dei giurati del Tribunale
dipartimentale di Parigi, sceglie cattolici, protestanti ed ebrei per
dimostrare «la fratellanza degli uomini quale che fosse il loro credo» ed un
uomo di colore «per consacrare la fratellanza dei colori». Nel costume
rivoluzionario la Fratellanza è alla base di tutti i nuovi comportamenti.
Le «società» (tipo
quella che ha sede presso i Giacobini e che si de. nomina «Amici della Libertà
e della Eguaglianza») si chiamano «fraterne». Ci si saluta come fratelli, si
firmano le lettere con «salute e fratellanza», ci si dà del tu perché questo sviluppa
la fratellanza.
Uno degli slogans fu «Fratellanza o morte! » da
intendersi anche nel senso che il venir meno del patto di Fratellanza ha come
conseguenza quella estrema. Qualcuno, a questo proposito, ha parlato di «
Fratellanza-Terrore
In realtà è semplicemente la necessità della
sicurezza del sodalizio ad imporre tanta severità.
Certo durante il periodo del Terrore bisognava dare
una giustificazione alle violenze di Stato. Così si disse che se il senso della
Repubblica era quello di camminare verso la fratellanza con la dedizione ed il
sacrificio, allora era necessario «eliminare uno dopo l’altro tutti gli
ostacoli».
Già durante il periodo rivoluzionario si ebbero due
opposti concetti della fratellanza. Per alcuni essa è il fondamento stesso
della Repubblica; per altri essa ha origini divine ed è perciò essenziale.
Nonostante i «distinguo» tutte e due le tesi convengono sulla indefettibilità
della Fratellanza.
Liberté.
Durante la Costituente i rivoluzionari si trovarono a
dover risolvere una grave dicotomia tra l’uomo di «natura» e l’uomo dello
«stato civile».
Infatti si resero conto immediatamente che la
libertà individuale, basata sul diritto naturale, ostacolava la libertà
pubblica e dovettero ammettere che l’uomo in società deve «sostituire dei doveri
ai dlritti».
Qualche esempio.
L’appropriazione dei beni del clero è una deroga al
diritto di proprie tà che i fisiocratici avevano
dichiarato essere anteriore allo stato sociale e diritto naturale ed
inalienabile. O ancora. Nel dibattito sulla libertà di emigrazione, che si apre
nel ’91 dopo la partenza delle mesdames (le zie del Re), si riconosce il
diritto di andare e venire ma, si precisa, in momenti straordinari nessuno deve
poter dubitare della necessità di sospendere la libertà dei cittadini di uscire
dal Paese. Mentre in un primo entusiastico momento tutti inneggiano alla
libertà più assoluta, ben presto si rendono conto che essa è un sistema di
limiti.
La grande innovazione della Rivoluzione è quella
della Libertà concessa a tutti di partecipare alla vita pubblica. E il
principio fonda mentale della democrazia.
I Costituenti, impegnati nel difficile compito di
conciliare il principio della libertà individuale con quella dello Stato,
dovettero dimostrare la compatibilità dello Stato con la libertà.
E ricorsero a Rousseau.
Essi non cessarono di ripetere che passando allo
stato sociale, facendo entrare nel «contratto» i propri diritti il cittadino
non li sacrifica, ma da uomo si trasforma in cives ed il suo interesse
particolare deve cedere di fronte all’interesse generale.
Il Giacobinismo, che alcuno vuole interpretare come
una sbandata tirannica imprevedibile, di fronte alle oscillazioni tra
preminenza dei diritti naturali e volontà generale, inventa formule come:
«Nessuna libertà per i nemici della libertà».
28
L’aggravarsi delle circostanze (come la guerra) dà
una certa logica sia alla salute pubblica, sia alle principali deroghe ai
principi generali, deroghe che divengono presto la norma.
Robespierre dice: «Sotto il regime costituzionale è
sufficiente proteggere i cittadini dall’abuso dei poteri pubblici; sotto il
regime rivoIuzionario il potere è obbligato a difendersi contro le fazioni che
lo minacciano
Si identifica anche il potere con il popolo, con una indubbia finzione, in
quanto è una minoranza quella che legifera e, soprattutto, condanna.
Dopo il Terrore il Termidoro scoppia come una
esplosione di libertà e si teorizza contro il dogma della sovranità illimitata
del popolo, si oltrepassa il sogno utopistico dello Stato che dispensa la
felicità, si ritorna alla idea della preminenza del sociale sul politico.
Constant pone le basi del concetto di libertà moderna
quando distingue tra libertà antica (piccoli stati dove il governo del popolo
può essere diretto) e libertà «d’oggi», adatta al mondo della fabbrica e del
commercio, ad una società articolata dove un sistema di limiti rende possibile
a tutti una sfera di tranquilla e protetta autonomia.
Or che la calda estate è trascorsa è momento di
riflessione, di bilanci consci ed inconsci. Consci per il giudizio che possiamo
dare su avvenimenti realmente accaduti, inconsci per quel sentimento
indefinibile fatto di sensazioni, suggestioni — gioia, oppure tristezza,
disagio, rassegnazione, persino rabbia — che le vacanze, l’atmosfera delle
vacanze, ci ha lasciato.
Le nostre certezze su ciò che è bello o brutto, accettabile o inaccettabile,
sono oggi sottoposte a continui attentati. Si cerca di minimizzare,
mimetizzare, narcotizzare ogni evento anomalo che possa colpire negativamente
l’opinione pubblica, complici stampa e mass media. Una strategia che coinvolge
interessi che nulla hanno a che vedere con previsioni, rispetto dell’individuo
e della natura. Interessi enormi, che pretendono tutto e subito, amorali,
volutamente ciechi, con totale cinismo, sulle conseguenze future. E noi cadiamo
in trappola. L’oceano non è più quella limpida distesa azzurra, l’habitat
perfetto di una guizzante fauna marina? E pur tuttavia ancora abbastanza
azzurro; se qui ci appare torbido, cinquanta metri più in là è «limpidissimo,
si vede il fondo». L’atmosfera è grigia, fumosa, Irrespirabile? Non abbiamo
ancora, pur tuttavia, casi palesi di asfissia per le strade. I roghi distruggono
boschi e colture? Non preoccupiamoci, è un evento annunciato, inevitabile.
Intere pinete vengono rase al suolo per lasciar posto a sciovie? Interi
litorali, già verdi e lussureggianti, sono oggi colate di cemento? Non
lamentiamoci, l’industria dello sport ha pur le sue esigenze, non si può
fermare il corso del progresso. Così, poco a poco, una tavolozza splendente di
colori, si è mgrigita, come quegli affreschi antichi che nessun restauro potrà
riportare all’antico splendore. Così, beni preziosi, fonte e alimento della
nostra stessa vita materiale e spirituale, se ne sono andati per sempre.
Quest’estate, sull’Adriatico, l’ Apocalisse.
L’invasione delle alghe e della mucillagine. Tutti abbiamo letto quei titoli
sui giornali: «Palude per cinquanta chilometri. Quintali di pesci morti. E
disastro ecologico Tutti abbiamo potuto vedere quelle immagim tragiche, oscene.
Una desolazione.
23
Qualsiasi commento, oggi, è
ripetitivo. Le alghe e la mucillagine fanno ormai parte del passato, superati
da nuovi eventi. E stato allora un brulicare di ipotesi, astuzie verbali, fuga
da responsabilità, pareri scientifici pro o contro la pericolosità delle acque
(ma chi avrebbe voluto immergervisi?). Un altro titolo — ecco spuntare il
solito mai sopito umorismo dei nostri amministratori — «Centomila lire a chi
torna in Adriatico». Dunque vogliamo una massa di turisti accattoni. Non mi
risulta ci siano stati dei «mea culpa».
L’amara morale che possiamo
trarre da questo disastro è che non sortirà alcuna morale. Non un programma
generale, coordinato, che dovrebbe andare ben oltre ristretti confini, ma
soltanto proposte di finanziamenti dissennati per piscine sostitutive (che
tonfo di qualità!), finanziamenti che andrebbero ad impinguire i conti
miliardari di coloro che per decenni sono statl, e continueranno ad essere,
autori e complici di questo disastro ecologico. Nessuna strategia di incastri,
coordinata in tutti i particolari — cause ed effetti — per ottenere un
risultato finale, condotta con onestà, competenza ed umiltà. Continuerà ad
imperare la malafede, l’ avidità di guadagno, l’impudente amministrazione, i
poteri occulti, l’ incompetenza, la superficialità, la litigiosità politica,
che sono i maggiori responsabili, ciechi e sordi, di disastri passati, presenti
e futuri. E dello spreco del pubblico denaro. Non mi sento retrograda se
affermo che una società sempre piu basata sui consumi è malata di megalomania.
Una rincorsa continua a produrre sempre di più, invitare a consumare sempre di
più, distruggere sempre di più. Una società inqurnata ed inquinante, nella
quale terra, cielo, fauna, flora, acqua, colture, le sorgenti stesse della
nostra vita vengono assurdamente distrutti per lasciar posto alle cattedrali
nel deserto, al vuoto, alla desolazione.
Potremo mai far marcia indietro?
Ritornare alla ragione? Avremo mai un mecenate illuminato, potente, che con
amore, intelligenza, desiderio di continuità, rispetto per la vita, pensi di
difendere i valori che oggi ancora abbiamo, lasciando un segno ed un monito per
coloro che verranno dopo di noi?
Un simile uomo non può far parte dei comuni mortali,
dovrebbe essere un dio.