SIBOLOGIA DELLO ZERO

SIBOLOGIA DELLO ZERO

Il gruppo di studio si è preoccupato di individuare la categoria «simbolo» in contrapposizione ad altre figure conoscitive — come il segno, l’allegoria o la metafora — concludendo che il simbolo ha una • forza propria, insita nella potenza di ciò che esprime, comunque al di là della sua capacità di unire un significante con un significato. La prosecuzione della ricerca si indirizzò poi verso il tentativo di individuare simboli primordiali, cioè comuni a tutte le civiltà, identificati nella Pietra, nella Caverna, nella Croce, nel Triangolo, nel Quadrato e nel Cerchio.

Applicazione pratica della metodologia e dei risultati conseguiti fu, infine, l’analisi, a tre livelli, della simbologia di alcuni arcani del Tarocca.

La volontà che sta alla base di questo lavoro è stata precisamente quella di continuare lo studio dei simboli primordiali, esaminando la simbologia dei numeri.

Per scelta unanime dei Fratelli si è partiti dallo ZERO.

Questo simbolo, infatti, si manifestò subito con una potenza ed una ricchezza di immagini tale che il gruppo stabilì la necessità di un suo esame approfondito. Studio preliminare a quello sui numeri e congruo con esso, studio che ha prodotto questa tavola.

Data la complessità dell’argomento, per maggiore chiarezza e facilità di lettura, forniremo immediatamente lo schema del lavoro, che si compone di due parti.

Nella prima parte, a carattere «polemico», ci si proverà a confutare le opinioni ed i pregiudizi correnti intorno allo zero. Esso verrà perciò esaminato:

  1. Nelle accezioni derivate dal linguaggio e dal pensiero comune.
  2. Dal punto di vista matematico (lo zero non è un numero).
  3. Dal punto di vista filosofico (lo zero non è simbolo del nulla).

Nella seconda parte, a carattere affermativo, si esamineranno invece: 1) La storia e le rappresentazioni grafiche dello zero.

2) Sulla scorta di ciò, quale possano essere le più corrette conclusioni sull’interpretazione della sua simbologia.

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PARTE PRIMA

Lo zero nel linguaggio e nel pensiero comune

Nelle definizioni fornite dalle enciclopedie, lo zero è indicato come sinonimo del vuoto, dell’assenza, del nulla.

Abitualmente, la più comune immagine dello zero è quella aritmetica. Esso è considerato il numero cardinale che esprime la mancanza di qualsiasi unità e che non è successivo di altri numeri.

ln algebra è anche immagine del limite che divide la serie dei numeri positivi dai numeri negativi.

Lo zero può anche indicare il termine di un’attesa e l’inizio di una nuova attività, cosa evidente specialmente nel conto alla rovescia

La sua accezione più comune rimane, tuttavia, quella di nulla. Ciò che non ha dimensione, peso, valore è definito zero. Non a caso i Tedeschi lo chiamano «null»,

Tutto ciò è particolarmente evidente se facciamo riferimento alla cosiddetta saggezza popolare, soprattutto ai detti ed ai proverbi, quali:

L’«ora zero», cioè la mezzanotte.

«Meriti zero», cioè «niente».

«Opinione che vale zero», cioè «nulla».

«Non capisci proprio uno zero», di nuovo: «nulla».

Quanto a voi, siamo rimasti a zero». «Zero più zero fa nulla».

Detti ripresi anche dalla cultura ufficiale:

«… E tanto più che ‘l lor litigio è un zero.

Né degno in prova d’arme esser rimesso…» (Ariosto)

«E le sue genti, che n’aveva tante, furon stimate d’Alessandro un zero…» (Berni)

Ma se è opinione diffusa che lo zero sia un numero, e che simboleggi il nulla, forse che per l’ iniziato le cose debbono pure stare così? E a questo che cercheremo di dare una risposta.

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Anche questa impostazione non è però una novità. Già Platone aveva introdotto, nella sua filosofia, un concetto di NULLA non più ASSOLUTO, ma RELATIVO.

Infatti egli diceva — ogni qualità delle cose NON È un’altra.

E cioè, il movimento è il NON-ESSERE della quiete, la quiete è il NON-ESSERE del movimento, ecc. 11 NON-ESSERE negato da Parmenide sembrerebbe per un attimo ricomparire (Platone stesso ironizzava di un suo «parricidio» nei confronti di Parmenide…).

Ma è evidente che quest’altro NON-ESSERE non ha più significato assoluto (il NULLA), bensì relativo: è la negazione di una qualche cosa che implica, nello stesso tempo, l’affemzazione di un QUALCOSA d’altro. Non c’è una cosa, ma ce n’è un’altra.

La filosofia moderna, pur accettando questa relatività, va ancora oltre. Negando anche l’esistenza di questo qualcosa d’altro, dà al NULLA un puro valore logico-linguistico, riducendolo ad ASSENZA di un qualcosa che ci poteva essere, a NEGAZIONE Dl UNA POSSIBILITÀ Il concetto è molto semplice.

Per il filosofo Henri Bergson si DICE che «non c’è nulla» quando non c’è la cosa che aspettavamo di trovarci o che poteva esserci. D’altronde anche per Bergson l’Idea del NULLA ASSOLUTO è altrettanto assurda di quella di un circolo-quadrato: è una «pseudo-idea»…

Questa tesi è quindi conforme al concetto che della NEGAZIONE hanno i logici contemporanei. CARNAP afferma che la sola nozione di NULLA logicamente corretta è appunto la negazione di una possibilità determinata.

Dire «Non c’è nulla fuori» equivale a dire «Non c’è qualcosa che sia fuori». Ma dal momento che la negazione che qualcosa sia fuori implica che qualcosa potesse essere fuori, la negazione, è, in questo senso, l’esclusione di una possibilità determinata.

Se dunque il NULLA ASSOLUTO non esiste, anche il NULLA RELATIVO viene contestato nella sua essenza e ridotto al rango di puro SEGNO LINGUISTICO.

Tornando allo zero, possiamo quindi trarre una seconda conclusione: oltre a non essere simbolo del NULLA, lo zero si conferma SOLAMENTE SEGNO DELL ‘ASSENZA Dl QUALCOSA, in perfetto accordo con quanto dedotto dal suo impiego matematico.

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Lo zero dal punto di vista matematico

(lo zero non è un numero)

E ovvio come i numeri, proprio perché crescono all’infinito, non possano concludersi con un «numero infinito».

È, dunque, altrettanto ovvio come i numeri, che pure all’infinito decrescono, non possano concludersi con un «numero nullo».

Non è, infatti, ammissibile l’esistenza di un «numero infinito» (il più grande dei numeri), così come di un «numero nullo» (il più piccolo di essi). Lo zero, che rappresenta l’assenza di ogni quantità, non è quindi un numero.

Parlare di «Zero di grandezza» è perciò contraddittorio, Infatti esso sarebbe ancora una grandezza, e risulterebbero tanti zeri quante sono le varie specie di grandezza.

In realtà non può esserci che lo zero puro e semplice, che è la negazione di ogni grandezza e di ogni quantità.

Quanto allo zero metafisico, che è il Non-essere, esso non è lo zero di quantità più di quanto l’Unità metafisica che è l’Essere, non sia l’unità aritmetica.

Noi spesso assimiliamo una quantità, per noi trascurabile, all’assenza di ogni quantità. Ma ciò che è nullo per un aspetto, può non esserlo per altri. Per esempio il punto, essendo indivisibile è per ciò stesso non esteso, viene considerato spazialmente nullo: nondimeno è il principio di ogni estensione.

I matematici considerano lo zero un puro nulla, ma lo ritengono — per contro — dotato di potenza infinita.

Infatti, posto alla destra di una cifra «significativa», contribuisce a formare un numero che, per la ripetizione degli zeri, può crescere indefinitamente. Mentre, posto — in unione con la virgola — alla sinistra di detta cifra, contribuisce a formare un numero che può decrescere — per la ripetizione degli zeri — altrettanto indefinitamente. Lo  zero è, quindi, comunque necessario per indicare — aggiunto alle cifre — dei valori numerici.

Numerosi potrebbero essere gli esempi sulla potenza dello zero matematico.

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Lo zero è, dunque un segno convenzionale matematico che indica solo l’assenza di ana certa quantità: e quindi — per ciò stesso — non è un numero.

Lo zero dal punto di vista filosofico (lo zero non è simbolo del NULLA)

La Filosofia, nella sua storia, ha considerato lo zero sotto due angolazioni:

1). Dal punto di vista matematico.

2). Dal punto di vista metaforico, come sinonimo del NULLA.

Quanto al primo punto, lo si è appena trattato, per concludere come lo zero non sia un numero, ma solo un segno convenzionale matematico.

Per quel che riguarda il secondo, lo zero come metafora del NULLA, lo chiariremo adesso esaminando quale valore sia da darsi al concetto stesso di NULLA.

La più antica e conosciuta concezione di NULLA la troviamo nel greco Parmenide, filosofico vissuto nel v secolo avanti Cristo, che lo chiama NON.ESSERE.

Egli affermò che «I’ESSERE È e il NON-ESSERE NON È», vale a dire che il Principio, l’Infinito (l’Essere) esiste, mentre il Nulla (il Non-Essere) non può esistere.

Ed infatti, se esso esistesse, sarebbe un limite all’Essere stesso, che quindi non sarebbe più infinito. Gorgia, filosofo greco sofista, portava il discorso ancora più in là. Se il NON-ESSERE esistesse — diceva — il Tutto, l’Infinito, risulterebbe composto dalla somma di Essere e di Non-Essere, cosa che è una contraddizione in termini… Questi semplici concetti sono rimasti alla base di tutto il pensiero occidentale. Noi stessi, che crediamo nel G.A.D.U., possiamo immediatamente verificare come l’affermazione stessa dell’esistenza di Dio, o di un Principio, escluda automaticamente la possibilità dell’esistenza di un qualsivoglia NULLA alternativo o limitativo.

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A questa conclusione arrivano, oltre alle Scuole Filosofiche, anche le Religioni e le Vie iniziatiche.

Se dunque il NULLA ASSOLUTO, non può esistere, perché tuttavia è presente nella mente dell’Uomo?

Perché è un’IDEA.

E quello che dice Cartesio quando afferma che il NULLA è «quella IDEA NEGATIVA DELLA MENTE con la quale ci si rappresenta ciò che è infinitamente lontano da ogni sorta di perfezione», in opposizione alla REALTÀ di Dio, «somma di tutte le perfezioni». «CONCETTO VUOTO SENZA OGGETTO» 10 definisce pure Kant. Del NULLA, così inteso come IDEA, è stato fatto uso prevalentemente teologico e metafisico.

Giocando sulla metafora, si è addirittura talora affermato che il NULLA è DIO STESSO. Ma ciò è da intendere così: la natura di Dio è talmente al di là delle cose che qualunque nostro pensiero è inadeguato a conoscerlo.

Egli è quindi ciò che è oltre il limite della nostra mente. NULLA per la nostra mente. Si esprime così metaforicamente la negazione di tutte le forme d’esistenza conosciute, ritenute inadeguate alla natura di Dio. E questo il motivo per cui nella ZOHAR (il «libro dello Splendore della Kabbalah ebraica) Dio viene indicato come il « Nulla» o il « Nulla del Nulla» o «Quintessenza del Nulla».

Un «Nulla super-essente» è definito Dio da Meister Eckart; un «Nulla Eterno» da Jacob Bôhme.

Posta in tali termini, la questione è rimasta tale fino ai nostri giorni. IL NULLA ASSOLUTO, non esiste. Esiste solo un «concetto vuoto», o IDEA del NULLA, di cui si fa ampio uso metaforico. Questo ci porta subito ad una prima conclusione. LO ZERO NON PUÒ ESSERE SIMBOLO DEL NULLA, se non nel linguaggio co-

mune.

Infatti il simbolo è il tramite fra l’ Uomo ed una REALTÀ Superiore. Ma il NULLA non esiste, e quindi lo zero non può esserne il simbolo.

 La filosofia moderna, meno sensibile ai problemi metafisici, si è orientata a studiare il NULLA maggiormente sotto l’aspetto logico-linguistico.

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CONSIDERAIONI SU ITAGORA

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LE CAPRE

LE CAPRE                           di G. G.

Giorni fa mi sono imbattuto per caso in un episodio accaduto tanti anni fa in Russia ad un nostro soldato. Si chiamava Bruno Bellini ed era artigliere nel 1210 Rgt. Artiglieria, inquadrato nella gloriosa e sfortunata divisione «Ravenna», l’unità che sul finire del 1942 fu fortemente impegnata ad arginare nella grande ansa che compie il Don a Mamon, lo sfondamento delle linee alleate tedesche. Da lì, infatti, irruppero nella steppa russa le colonne corazzate di Stalin. Leggendo per pura curiosità il fascicoletto giudiziario relativo al fatto che narrerò, sfogliando quelle lettere, quegli appunti, quei verbali; osservando quei vecchi timbri di comandi militari, quelli con lo stemma sabaudo; toccando quelle veline, rese ancora più trasparenti dal tempo e stilate a mano perché non sempre in prima linea il furiere poteva adoperare la macchina da scrivere; riconoscendo quelle località indicate da un numero e dalla sigla PM, tutto quel sentore di antico trasudante dai fogli stessi, mi è sembrato quasi che i personaggi della vicenda uscissero fuori dalla carta e si mettessero tutti in riga con un atteggiamento dolente e paziente nello stesso tempo, per ricordare a me, rappresentante di un mondo così lontano da loro nel tempo e nello spazio, che la Giustizia dell’uomo è spesso e soltanto pura velleità. La vera Giustizia ha la sua sede altrove, sicuramente in un altro mondo e, certamente, è più giusta.

Una cosa mi è sembrata che dovessi assolutamente fare: quegli episodi dovevano essere narrati, portati a conoscenza di altri uomini in modo che servissero da monito e sprone a migliorarci. Ma andiamo per un attimo agli anni 1942-43, quando la nostra migliore gioventù, i nati negli anni dal 1919 al 1923, venivano sparsi su tutti i fronti di guerra.

La partecipazione dell’Italia al conflitto contro la Russia, come noto, fu voluta espressamente da Mussolini per coerenza alla propria ideo-

Il suo sentimento antibolscevico e quindi, secondo lui, quello di tutti i fascisti, era da considerarsi «assoluto, granitico, inscindibile». In

effetti, anche se non tutti gli italiani erano fascisti, e quindi una buona parte di essi non condividevano il suo pensiero, il Duce aveva buon gioco in quanto in quel periodo cavalcava un diffuso sentimento «anti» nei confronti di Stalin perché gli italiani mal tolleravano l’invasione della Finlandia. Così la nostra partecipazione al conflitto fu agevolata e nel giugno del ’41 fu deciso di far partire il CSIR, corpo di spedizione in Russia. L’esaltazione delle vittorie del momento inebriarono un po’ tutti, non soltanto Mussolini, certamente il primo, ma non il solo responsabile del nostro disastro militare. E le facili vittorie iniziali illusero anche Hitler che non seppe valutare non solo le forze nemiche che aveva di fronte ma anche il fatto che la ritirata di Stalin era una mossa strategica in attesa di concentrare le proprie forze in determinati punti del territorio e quindi, logorati uomini e materiali del nemico, contrattaccare decisamente in profondità.

Infatti, di lì a pochi mesi, nella dura e spietata steppa russa verranno sacrificate le migliori forze operative germaniche e la migliore, in assoluto, nostra Armata in terra straniera. Premesso ciò, veniamo ai fatti. Il 25 settembre del 1942 (XX dell’Era Fascista, come si scriveva un tempo), in territorio russo, esattamente nella zona assegnata alla 8 a Armata sul fronte del Don, il Generale Procuratore militare del Re Imperatore Vittorio Emanuele III (Dio guardi), Generale Leone Zingales, emetteva un ordine di comparizione per citazione diretta a carico di due artiglieri del 121 0 Rgt. A. della divisione «Ravenna», imputati del reato di BUSCA (art. 188 del Codice Penale militare di Pace e di Guerra), per essersi impossessati senza necessità od autorizzazione, 1’8 settembre 1942, di una capra mentre era al pascolo nelle campagne tra Gadiutschie e Filonovo, in danno della suddita russa Maria Petrovna, nonché di tre capre in danno di Oksarino Markoma e di altre capre in danno di Poroskovie Martina. In tutto otto capr.e. Questi due artiglieri corrispondevano al nome di Bruno Bellini da Monzambano (Mn) e Carlo Roversi da Voghenza (Fe). Il primo classe 1921, il secondo classe 1919.

Sembrerà strano e fuori tempo leggere, oggi, questo fatto, dopo la fine della guerra, la ricostruzione dell’Italia, gli anni del boom, il ’68 ed i falsi profeti di quell’anno che portò poi agli anni ’70 ed al terrorismo, gli anni ’80 e la mafia con il Suo potere opposto a quello legale, il fatidico 1992. Inoltre, a pensare o cercare di immaginare ciò che accadrà di lì a pochi mesi, un paio di caprette forse sottratte a contadini evacuati per ricavarne latte fresco al mattino in prima linea, fa solo tenerezza: due mesi dopo, una marea di T34 sovietici spazzeranno per sempre dalla faccia della terra centinaia di migliaia di giovani vite. Ed i pochi sopravvissuti patiranno fame e freddo, pidocchi e malattie, congelamenti e continue diarree per circa tre mesi, prima di potersi considerare, si fa per dire, in salvo. Comunque la giustizia militare era severa in fatto di busca ln territorio occupato, tanto da prevedere nel peggiore dei casi una reclusione militare fino ad otto anni. E, come vedremo, non serviranno la ritirata, la disfatta, la morte per lo meno di un imputato a fermare nel tempo la mano della legge, o comunque la burocrazia. La busca, in gergo giuridicomilitare, è quel reato in cui incorrono i militari che in guerra, senza necessità, ordine od autorizzazione, si impossessano di viveri, oggetti di vestiario od equipaggiamento. Chi non ha letto i libri di Rigoni Stern, di Bedeschi, di Franco La Guidara? Chi di noi non si è commosso leggendo dei nostri soldati nel gelo, nella neve, braccati come bestie dai carri armati e dai partigiani, alla continua ricerca per circa tre mesi, tanto durò la ritirata, di una qualsiasi cosa da mettere dentro lo stomaco; di una coperta o capanno con cui vestirsi e ripararsi dal freddo. E quando qualcuno era così fortunato da togliere ad un morto i «valienki», allora era sicuro di portare la pelle a casa perché non avrebbe subito il congelamento ai piedi. Con tutto ciò, dopo circa 47 anni, la giustizia dell’uomo mette in questi giorni la parola fine ai fatti svoltisi in quei giorni di fine estate del 1942, in una zona compresa fra Gadiutskie e Filonovo, poco più a sud di quella grande ansa che compie il placido Don, denominata Mamon.

L’ordine di comparizione era scaturito in seguito alla denunzia effettuata dalla proprietaria delle capre. Il 9 di settembre, di buon mattino, infatti, si presentò al Comando distaccamento della 7a sezione mista rifornimenti, dislocata a G., una contadina di 52 anni, tale Maria Petrovna, nativa di Kumenkin ma profuga in quel paesino, per denunciare la scomparsa delle sue capre. C’è da dire a tal proposito che

presso la sezione mista rifornimenti divisionale vi era la sede dei carabinieri che, come noto, costituiscono da sempre la polizia militare. Il Maresciallo comandante il distaccamento, accompagnato da un carabiniere, riuscì a rintracciare una capra della contadina presso le cucine della batteria contro-carro, reparto dei due giovanotti che verranno incriminati. Da sempre, e questo vale per tutti i reparti mobilitati, in pace ed in guerra, quando vi sono militari in giro per esercitazioni, sparisce regolarmente qualche pollo o coniglio, a volte anche un agnello o maiale e questo i contadini lo sanno benissimo come pure sanno bene che al termine delle esercitazioni verranno abbondantemente indennizzati. Ora, non intendo dire che esista una implicita autorizzazione a buscare, soltanto intendo dire che la giovinezza e la voglia di vivere, a quell’età, sono a volte incontenibili. E poi in quel periodo, in zona di operazioni, con i regolamenti e le spettanze viveri dell’epoca che consentivano di consumare il rancio quando era possibile, non mi sembra proprio il caso che una o due capre dovessero mettere in croce, militarmente parlando, non solo gli imputati ma anche i comandanti che per la verità cercarono di ridurre tutto ad un fatto puramente marginale e senza colpa alcuna per i diretti interessati. Oltre a tutto si deve considerare che i civili con le loro cose erano stati evacuati dalla prima linea. Forse qualcuno di loro non aveva avuto il tempo di radunare tutto il bestiame ed era plausibile che parte di esso fosse sparpagliato per la steppa intento a pascolare. Comunque nessuno dei soldati presenti seppe dire a chi appartenesse la capra. Dissero però che era stata condotta dall’a. Roversi, temporaneamente assente. La contadina riconobbe la sua capra e se la riprese. La cosa sembrava chiusa ma per il Maresciallo eravamo in odore di busca anche perché, tornato il pomeriggio dello stesso giorno per interrogare il Roversi, si imbatté in una seconda capra. Roversi nella dichiarazione disse che le due capre gli erano state consegnate dal commilitone Bellini per ricavarne latte dalla più vecchia ed un bell’abbacchio per la batteria dalla più giovane. Mentre il Maresciallo requisiva anche la seconda capra e la consegnava in affidamento allo starosta, ecco arrivare trafelata la Petrovna dicendo (tramite l’interprete) che anche quella capra era sua; anzi, il giorno prima verso le 13,00, mentre era intenta con una paesana a mungere le vacche, aveva visto un soldato che portava via sette capre. Si erano messe ad urlare dicendo al soldato di lasciare le capre, ma non era valso a nulla urlare. Evidentemente quel militare non conosceva il russo. Il Maresciallo Pala chiese spiegazioni di ciò al Roversi il quale confermò solamente che lui aveva avuto solo due capre da Bellini. Dalla versione di Bellini infine risultò quello che dovrebbe essere la verità e cioè: verso le ore 14,00 del giorno precedente, 1’8 di settembre, mentre rientrava al proprio reparto da G., trovò in aperta campagna sette capre incustodite, intente a pascolare. Credendo di fare cosa buona, pensò di portarle al proprio reparto per ricavarne latte e carne. Non pensò minimamente di commettere un reato anche perché era una cosa normale tenere caprette, tant’è che se ne trovavano tante presso altri reparti in linea. Infatti, vicino alla batteria, in un avvallamento del terreno, si trovavano già altre quaranta capre incustodite. Dello stesso parere fu il Col. Comandante del reggimento il quale, nella sua relazione alla Procura militare del Re Imperatore presso il Tribunale militare della 8a Armata — PM n. 6 di Millerovo, così ricostruì i fatti, sentiti tutti i testimoni. Il giorno 8 di settembre l’a. Bellini, di ritorno alla propria batteria da G. ove aveva portato un plico al Comando di artiglieria divisionale, notò sette capre incustodite in un campo. Poiché in quei giorni le popolazioni dei paesi prossimi alle linee erano state sgombrate nelle retrovie, ritenne che le bestie si fossero smarrite durante l’operazione. Avendo già visto che presso le postazioni della propria batteria, in una grossa fenditura del terreno (attraversata anche da un ruscelletto) vi si erano rifugiate una quarantina di capre, pensò bene di condurvi anche quelle che lui aveva trovate. Giunto nei pressi, incontrò il Roversi il quale gli chiese se poteva cedergli una capra. Bellini, naturalmente, gliela diede, tanto ce n’erano tante. E dichiarò di aver visto il giorno successivo Roversi tornare nella valletta per prendersi altre due capre. Di quanto si era svolto tra i due artiglieri non ebbero sentore, naturalmente, gli Ufficiali del reparto. Questi ultimi avevano notato la presenza di numerose capre in una valletta adiacente la linea pezzi, ma non vi avevano dato peso, ritenendo che le bestie vi si fossero rifugiate provvisoriamente. Poiché in quei giorni si erano svolte delle azioni di guerra che avevano assorbito interamente il loro pensiero, non ci avevano più pensato anche perché, dopo qualche giorno, le capre erano tutte sparite. Il Comandante concluse dicendo che «in mancanza di prove certe non sembra che nella fattispecie ricorrano gli estremi del reato di busca nei confronti dell’a. Bellini, ritenendosi per il momento prematuro pervenire a qualsiasi conclusione nei confronti dell’a. Roversi che, essendo assente per malattia, non era stato possibile interro gare». Elencava infine tutti i documenti che la burocrazia imponeva e cioè le dichiarazioni, i verbali di interrogatorio, estratti di punizioni e rapporti informativi. E cosa poteva fare di più il Comandante? A parte di scagionare il povero Bellini, tentava una giustificazione, cercando di minimizzare il fatto, tutto qui.

Perché, secondo la logica, non era possibile che gli Ufficiali ignorassero il vero motivo delle capre radunate nella valletta, vicino alla linea pezzi. Nessuno me lo toglie dalla testa, ma in quei giorni, sicuramente, nelle batterie e nel gruppo, al mattino, circolava latte fresco e, per lo meno la domenica, l’abbacchio in linea era di prammatica. Ma andiamo avanti. E interessante leggere le note caratteristiche dei due artiglieri protagonisti della vicenda, perché delineano perfettamente il carattere ed il modo di agire di due personalità diverse. Bellini, il maggiore indiziato, quello che in effetti condusse le sette capre ritenute abbandonate, veniva definito «un elemento che non ha mai brillato per qualità fisiche ed intellettuali, ma che non è mai stato sospettato di poca onestà». L’altro, il Roversi, «un elemento con forte volontà capace di assolvere qualsiasi incarico. Qualche volta prende iniziative che esorbitano le sue funzioni e bisogna fargli segnare il passo». Due giovani come tanti, diversi di carattere e personalità, uno intraprendente e l’altro sempliciotto. Nessuna punizione per tutti e due. E bisogna dire che tale fatto colpisce poiché quelli erano tempi in cui non si scherzava nel punire anche per futili motivi. Il giorno 16 ottobre, in Millerovo, presso il Tribunale di Guerra dell’Armata, veniva effettuato il processo verbale di interrogatorio del solo Bellini. Roversi, il drittone, era da tempo degente in ospedale per malattia e si trovava nelle retrovie, ben lontano dal fronte. Fu deciso, quindi, che sarebbe stato sentito al suo rientro al reparto. Per quanto riguardava Bellini, fu rispedito in prima linea in attesa del processo. Processo che non si celebrò mai perché, come sappiamo, Roversi non tornò mai più in prima linea; questa subì un arretramento di circa duecen-s to chilometri in seguito alla caduta di Stalingrado e quindi allo sgretolamento del cardine sud del sistema difensivo alleato; molti reparti si immolarono inutilmente sul posto per cercare di contenere l’avanzata sovietica e di conseguenza Bellini, che faceva parte di un reparto di artiglieria contro-carro, sicuramente fu spazzato via nei primi momenti dello sfondamento. Intanto le operazioni lungo la linea erano riprese con l’inizio precoce dell’inverno. Una cosa affliggeva soprattutto i nostri soldati: il freddo. Con la fine dell’autunno l’inverno russo si era fatto sentire con tutta la sua sinistra potenza. Il gelo aveva solidificato completamente la superficie del fiume, tanto da permettere ai mezzi pesanti di passarvi sopra.

I nostri comandanti avrebbero dovuto valutare con maggiore attenzione questa nuova insidia perché la compattezza del ghiaccio sicuramente avrebbe favorito l’attraversamento di mezzi pesanti, E da mesi dalla parte opposta del grande fiume, veniva un sordo rumore di motori. Puntualmente, dopo le azioni di logoramento che si protrassero dal 12 al 15 dicembre, i russi attaccarono in massa per cinque giorni: dal 16 al 21, i fronti della «Ravenna» e della «Cosseria». Investirono l’ala sinistra del XXXV Corpo d’Armata e quindi tutta l’ala destra dell’Armata italiana cioè la 298a tedesca, la «Pasubio», la «Torino», la «Celere» e la «Sforzesca». La tenaglia piano piano si chiuse ed a nulla valsero i pezzi da 47/32, i mortai e le mitragliatrici contro la marea dei T34. I carri, pur colpiti, continuavano a venire avanti, travolgendo pezzi e uomini e poi indugiavano nel «ballo della morte» cioè spianavano con i cingoli i poveri resti. Sin dalle prime ore del 16 dicembre la «Ravenna» frenò eroicamente l’offensiva nemica. Sui capisaldi italiani il morale era alto ma le perdite furono del 75 per cento degli effettivi. ln quel giorno la divisione evidenziò un coraggio ed eroismo che ha del disumano. Ogni uomo della divisione era assillato dal gelo, dalla fame (rancio freddo, quando c’era), dai compagni che cadevano morti ad uno ad uno, dal martellamento continuo, sistematico dei bolscevichi. Oggi noi sappiamo che anche se tutti fossero morti al loro posto (l’altro 25 per cento rimasto, si fa per dire, in vita), le posizioni sarebbero state tenute ancora per cinque ore. L’artigliere Bellini la notte del 16 dicembre era nell’ansa del Mamon, povero soldatino fessacchiotto e di cuore buono, messo lì a compiere il suo dovere di uomo e di soldato nel nome di quell’ideale di Patria che sin dall’infanzia gli avevano inculcato i suoi genitori analfabeti prima, ed il Re Imperatore ed il Duce del fascismo, poi. Aveva fame e freddo, si capisce, come tutti del resto ed anche un po’ di paura, ma solo un po’. Solo gli incoscienti non hanno paura. Davanti a sé aveva l’immensa distesa gelata del Don, il famoso fiume dei cosacchi. Ad un tratto sul fiume presero a brulicare enormi carri armati, grandi quanto una casa che lui non aveva mai visto. Venivano dai fitti cespugli dell’altra sponda ed erano dipinti di bianco. Attorno a sé i pezzi della batteria sparavano e lui, assieme ai tanti altri compagni, prese la mira e cominciò a rispondere al fuoco, da buon soldato con il suo fido fucile mod. 91/38. Nelle giberne aveva ancora tre caricatori e nel cuore la certezza che ce l’avrebbero fatta perché erano nel giusto. Questo solo avevano nel cuore in quel momento i nostri ragazzi dell’ ARMIR contro il nemico di allora: la certezza di essere nel giusto. Infatti, oltre alla inutilità dei mezzi e degli armamenti (basti pensare che la «Julia» un po’ più a nord effettuava azioni di tiro contro-carro con gli obici someggiati da 75/14 e spostava in epoca di guerra lampo, i materiali con i muli), i nostri erano scarsamente equipaggiati, poco vestiti e male armati. Le fanterie russe avevano tute bianche imbottite, valienki ai piedi e mitragliatori parabellum nelle mani. Inoltre, erano protetti dai T34 che creavano letteralmente il vuoto nelle nostre file. I nostri combattevano invece con normali divise grigio-verdi e cappotto di panno, visibilissimi nel biancore della neve; alle gambe ed ai piedi portavano fasce mollettiere e scarponi chiodati i cui chiodi favorivano la penetrazione del gelo attraverso il cuoio. In quei giorni la temperatura oscillava dai 370 ai 45 0 sotto zero ed il vento della steppa aumentava l’atroce disagio del freddo. E così, scarsamente armati ed equipaggiati, senza cibo od altra assistenza, in un paese decisamente ostile, con la prospettiva di subire continue incursioni di piccoli nuclei di partigiani (quelli od i famigliari di quelli che fino alla settimana prima si erano rivolti ai nostri carabinieri per avere ragione di piccoli ed innocenti furtarelli) , iniziò la notte del Natale del 1942, per i pochi superstiti che non ri- masero per sempre laggiù, quella che viene ricordata come la più terribile ritirata militare di tutti i tempi. Poveri nostri soldati: ogni assente all’appello deve essere considerato, oggi, un eroe perché in terra straniera, in quelle terribili condizioni, dimostrarono al nemico bene armato, vestito ed equipaggiato, cosa vuol dire amor di Patria e spirito di corpo. L’ultimo loro pensiero fu quello di evitare che le bandiere dei reggimenti cadessero in mano nemica e se oggi, nei musei di guerra di Mosca non si vede alcun vessillo tricolore, lo dobbiamo a loro. Per i denigratori di oggi sarà ben poca cosa, ma per la maggior parte degli italiani, la parte sana, l’onore significa ancora qualcosa. A tal proposito occorre fare una considerazione. Nel periodo fra le due guerre, i! regime fascista osannò l’ideale guerriero del popolo italiano come continuatore ed erede di quello «romano». Tuttavia l’addestramento e l’ armamento delle Forze Armate non subiranno modificazioni. Cosicché con l’inizio delle ostilità, nel giugno del ’40, l’Italia era ferma al 1920. Gli uomini ed i comandanti erano validi, i mezzi e la dottrina erano ancora quelli della 1 a guerra mondiale. Ma la giustizia faceva intanto il suo corso ed il 16 di marzo del ’43 ad una precisa richiesta del Procuratore militare, così scriveva il Comandante del reggimento in merito ai due artiglieri:

PM n. 53 datato 16.03.43.

«I militari in oggetto non possono presentarsi davanti a codesta procura perché:

— Carlo Roversi, si trova in licenza di convalescenza di gg. 90 in patria; – Bruno Bellini, è assente dal reparto per fatto d’arme».

Dietro quelle due parole fatto d’arme c’era tutta l’amarezza di un comandante per la tragedia subita dal suo reparto. Il 24 marzo, implacabile, così rispondeva alla lettera del Colonnello il Generale Procuratore militare in zona di guerra: «Riferimento vostro foglio in data 16 marzo ’43, pregasi comunicare, appena possibile, se Roversi appena ultimata ficenza di convalescenza debba ritornare al suo reparto in Russia o se resta in Patria al deposito. Vorrete con l’occasione dare ulteriori ragguagli sul conto dell’a. Bellini».

Il 3 aprile, la risposta accorata del Comandante del reggimento: «Questo Comando non è in grado di precisare se allo scadere della licenza di convalescenza di 90 gg. l’a. Roversi rientrerà al reparto o resta in Patria. Date le vigenti disposizioni  in corso si presume che il predetto militare resti in Patria. Sede del deposito il 210 Rgt. Art. motorizzato in Piacenza. L’a. Bellini risulta ancora assente. Appena si avranno notizie ecc…)». Finalmente la burocrazia (ancora più inesorabile dei T34) aveva recepito il messaggio ed il 22 aprile, ufficialmente, Bellini Bruno di Santo e di Natali Anna, nato a Monzambano (Mn) il 23.05.21, veniva dato disperso «per fatto d’arme» sul fronte russo, la notte del 16 dicembre 1942.

A questo punto la storia sembrerebbe finita, invece continua fino ai nostri giorni. Vediamo perché. E estremamente Interessante, intanto constatare come quel fascicoletto giudiziario abbia seguito una sua strada attraverso la Russia in fiamme degli anni di guerra, i mille e mille avvenimenti storici che travolsero uomini e regimi politici, fino ad arrivare a noi in Torino. Milioni di uomini sono rimasti per sempre laggiù. Il fascicolo, no. C’è da dire, ad onor del vero, che la giustizia  militare ha sempre funzionato alla perfezione, in pace ed in guerra, in qualsiasi condizione di tempo e di ambiente. E la dimostrazione sta in quelle paginette sbiadite dal tempo che narrano, nelle scarne e crude descrizioni burocratiche, quell’episodio di «naia» successo nel settembre del ’42. E l’evoluzione, se così possiamo definirla,  dei documenti contenuti nel fascicolo sono un chiaro esempio delle difficoltà incontrate, e superate, dagli operatori della giustizia militare dell’epoca (giudici e cancellieri), mano a mano che le cose prendevano una brutta piega al fronte e quindi anche la «giustizia» nel suo complesso era costretta a precedere nella ritirata l’ Armata in ripiegamento. Infatti, i fogli su cui sono stati stilati i vari documenti sono in buone condizioni fino al dicembre ’42. Subito dopo, soprattutto nel periodo gennaio-aprile ‘4), in piena crisi prima e nel caos delle retrovie poi, la carta è scadente, gli appunti sono frettolosi anche se precisi e le lettere, comprese quelle ufficiali, stilate a mano ed in buona calligrafia come si usava un tempo. Inesorabile, con il foglio n. 32 del fascicolo, nel 1943, quindi nell’anno in cui si compirà la tragedia politico-militare del popolo italiano, il Pubblico Ministero del Re Imperatore, quell’ottimo galant’uomo che fu il Gen. Zingales, decideva di stralciare il procedimento a carico di Roversi in quanto questi, poteva essere regolarmente processato e disponeva la remissione degli atti alla Procura Generale di Roma affinché si procedesse. Non so se Roversi sia mai stato processato e condannato per quel fatto; credo, comunque, che, se vivo, non l’abbia sicuramente fatta franca. In ogni caso questa non è la sua storia e non me ne occuperò più.

Nel 1952, a dieci anni dai fatti narrati, esattamente il 20 aprile, il Giudice Istruttore, su richiesta del pubblico ministero del Tribunale militare di Torino (il Tribunale di Torino è competente per territorio in quanto Bellini era di Mantova), pronunciava un’ordinanza con la quale ordinava la sospensione del procedimento «insorgendo il fondato dubbio sull’esistenza in vita dell’a. Bellini». Oramai tanti reduci erano rientrati in Patria, compresi quelli non caduti in combattimento ma catturati dal nemico durante il ripiegamento, si erano sciroppati anni ed anni di prigionia nei gulag siberiani. Quindi, se vivo, anche Bellini sarebbe dovuto rientrare, ma la vicenda non è ancora chiusa e questo a dimostrazione, sempre che ce ne sia bisogno, che la «giustizia» della neonata Repubblica non è da meno di quella che fu del Re Imperatore. Il 2 luglio del 1961 il comune di Monzambano rilasciava un certificato, sempre su richiesta del giudice istruttore dell’epoca, in cui si dichiarava ancora una volta che Bellini Bruno non si era più fatto vivo in paese e quindi esistevano fondati dubbi sulla sua esistenza in vita. D’altro canto la burocrazia è quella che è: per dichiarare decaduto un procedimento o chiuso un caso giudiziario, ci voleva la morte del reo. E questa arrivò, burocraticamente parlando, sul finire degli anni ’80. Tuttavia, non soltanto perché il reo era  morto. Infatti il 23 giugno 1989, il Giudice Istruttore militare presso il Tribunale militare di Torino, Dott. Mauro De Luca, emetteva la seguente sentenza, che cito abbreviandola: «Considerato che Bellini risulta disperso in Russia, ma il comune di Monzambano ha comunicato in data 13.06.89 che “a fianco dell’atto di nascita non risulta alcuna annotazione di morte “; che rimane pertanto il fondato dubbio sulla esistenza in vita; che dall’esame delle risultanze processuali appare non emergere a carico di Bellini nessuna circostanza che smentisca quanto dal predetto riferito al magistrato inquirente il 16.02.42 (f. 19 degli atti), ove aveva negato l’addebito affermando che si trattava di bestiame disperso che si era istintivamente rifugiato per sfuggire ai violenti bombardamenti in una fenditura del terreno esistente nei pressi la linea pezzi ove vi erano già una quarantina di capre; che pertanto non può condividere la richiesta del PM in sede che ha chiesto in data 29.01.87 dichiararsi non doversi procedere nei confronti del Bellini essendo il reato estinto per venuta prescrizione; che deve invece prosciogliersi il prevenuto con ampia formula, dichiara non doversi procedere nei confronti di Bruno Bellini in ordine al reato di busca in rubrica ascrittogli perché il fatto non sussiste».

Sentenza esemplare, lodevole soprattutto per il senso di umanità che ispira perché, dopo 47 anni, finalmente la giustizia militare della Repubblica metteva la parola fine su tutto l’episodio e rendeva giustizia alla memoria terrena di Bruno Bellini.

Povero artigliere italiano in terra di Russia, polvere nella steppa, che pur portando in cuore il dispiacere di essere incolpato di qualche cosa che non avevi commesso, continuasti a sparare tranquillo contro i carri armati, quella notte di dicembre del 1942, riposa in pace.

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QUALE TOLLERANZA?

QUALE TOLLERANZA?

di Alberto del Noce

Uno dei cardini fondamentali sul quale ruota l’insegnamento massonico è quello della «tolleranza». Lo si coglie e sottolinea già nel rito di iniziazione e questa stessa Rivista pone e risalta come dedica la bellissima frase di Voltaire, che altro non è se non una sublime definizione di tale concetto.

Tuttavia, questa virtù è colta quasi esclusivamente nel suo rapporto con il prossimo, come rispetto delle altrui idee, fedi, opinioni, ecc. Una sorta di mera «indulgenza» in forza della quale permettiamo che gli altri dicano o facciano cose discordi dal nostro sentimento o dalla nostra opinione. Ma una tale esclusiva definizione mi richiama alla mente il sinonimo di « sopportazione» o, peggio, di «compatimento». Tolleranza è e deve esser qualcosa di più.

Ed allora mi sembra essenziale ricercare le radici di tale virtù dentro confini più intimi,  all’interno cioè della nostra coscienza. Esser tolleranti con il prossimo significa esser prima tolleranti con se stessi. Quante volte prima di «ascoltare gli altri» (o, peggio, di parlare «agli altri»), ascoltiamo invece noi stessi? Quasi mai, almeno in modo autentico. E sarebbe il primo lavoro che un Massone dovrebbe fare (si pensi al silenzio dell’ apprendista, al lavoro di levigatura della pietra grezza, ecc.). Questo non indifferente sforzo introspettivo volto, prima, a riconoscere le nostre più profonde radici e, poi, a «tollerarle» mi sembra di fondamentale importanza,

La cosiddetta «normalità» spesso infatti consiste nel poter usare quel tanto di difese inconsce, quel tanto di negazione e di onnipotenza che permette di non riconoscere la nostra insufficienza e di nascondere e rifiutare i dati più autentici del nostro lo. Non è quello che noi facciamo quando inseguiamo fantasie di successo costruendo fantasmi e mete inconsistenti ed utilizzando soprattutto il lavoro come tossicomani, un lavoro talora altrettanto mortale e con gli stessi problemi di overdose e di astinenza?

Inevitabile quindi l’insorgere di quel senso di insicurezza che così diffusamente disorienta l’uomo contemporaneo. Nel contempo proprio la società industriale in cui vive tale uomo ha un pessimo rapporto con

che in questa compendiata analisi, esporre la materia in rigidi comparti: non è infatti della storia procedere alla costruzione di sistemi, ma fare attenzione alle sfumature. Tuttavia questa pur breve ed incompleta rassegna di voci e di testi ci permette di conoscere una evoluzione del significato che l’uomo ha dato al Destino nel corso di qualche secolo, evoluzione spesso contraddittoria e mai definitiva. Oggi fortuna vuol dire ricchezza: nel Rinascimento e ancor più nel Medioevo significava forza maligna da subire o da combattere ed eventualmente avvantaggiarsene. Fortuna era intesa come «fortunale» (dal francese fortune de mer) vale a dire quel termine faceva pensare più ai rischi incresciosi della navigazione che non al cumulo di ricchezze (come, ripeto, oggi noi la intendiamo).

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RABBIA E TOLLERANZA

RABBIA E TOLLERANZA

di Luciano Rossi

Nelle indicazioni da me date, nei numeri 49 e 50 di “NuoVa Delta” su un possibile modo di levigare la pietra, era compresa l’affermazione che la meditazione era via maestra al lavoro di sgrossatura. Ma, naturalmente, ogni indicazione circa la meditazione, dissi, resta lettera morta finché questa non viene conosciuta e praticata. Quest’aspetto esperienziale, però, nessuna lettura ce lo potrà far vivere. Tuttavia, a volte, capita che un felice fortuito incontro, fra una lettura adatta e una disposizione momentaneamente ricettiva dell ‘animo. possa costituire l’evento fecondante per la nascita di un interesse, e magari di una pratica.

E per questo che provo a proseguire quest’opera divulgativa sulla rivista, sorretto dalla speranza di “felici fortuiti incontri”. Ma, anche se potrò tutto al più stimolare, per il momento, solo una curiosità, riterrò già questo un risultato sufficiente.


Capita raramente di udire raccomandazioni alla pratica meditativa in massoneria. Io personalmente lo ho trovato solo una volta, in un libro di Francesco Brunelli, Principi e metodi di massoneria operativa, edito da Bastogi. Ma so che la pratica, collettivamente, durante le tornate, una R.L. del GOI della mia città. Li invidio molto. Spiace, infatti, e sorprende, che un metodo così efficace sia sconosciuto a chi percorre una via di perfezionamento. Certo la meditazione non è pratica per tutti, anche se è alla portata di tutti. I massoni sono tuttavia una classe di persone selezionate e questo mi fa ritenere che almeno la metà degli iniziati avrebbe attitudine a servirsi di questo strumento, che, ripeto, è alla portata di chiunque abbia la volontà di intraprenderla.

Per essere più chiaro e convincente in questa sede farò solo un esempio specifico: illustrerò come opera la meditazione per rendere l’ adepto (della meditazione) capace di tolleranza. La tolleranza dovrebbe svolgere un ruolo centrale nella vita massonica. Ritengo inoltre che la tolleranza non scenda mai dal cielo come una grazia, ma che vada sviluppata con un lavoro individuale lungo e paziente. Un lavoro di gestione della rabbia.

Ritengo però la rabbia un tema delicato, da non lasciare ad una gestione sprovveduta o superficiale.

Ci sono infatti tre modi per trattare la rabbia: uno giusto e due sbagliti

Quelli sbagliati sono: il primo consiste nel reprimere la rabbia; il secondo nell’ agirla, sfogarla, essendone trascinati come oggetti in balia.

Quello giusto consiste nell’osservare la rabbia con i metodi che la meditazione consiglia: ossia con consapevolezza, presenza, distacco, equanimità, accettazione, resa, nuda attenzione, concentrazione, retto sforzo, ecc. ‘Quante caratteristiche”, si dirà. E questo che rende la rabbia un impedimento difficile da superare. Ma, nello stesso tempo, è ancora questo che rende la rabbia un impedimento da superare assolutamente. Perché se è difficile da superare vuol dire che svolge una funzione narcisistica vitale e sempre online quindi che fa danni profondi e continui.

Che fare?

La rabbia va semplicemente osservata. La rabbia va osservata e annotata, ma senza indulgenza e senza condanna, con gentilezza verso la rabbia e verso se stessi.

Occorre essere gentili con l’Ombra, quel grande serbatoio di pulsioni nere cui la rabbia appartiene. Così lo saremo anche con noi stessi, giacché I ‘Ombra fa parte di noi.


Nella meditazione, accettando di vedere l’Ombra e la rabbia, ci apriamo anche alla nostra parte oscura, quella che prima non accettavamo di vedere. Aprendoci alla parte oscura, ci apriamo a tutto il nostro essere, alla pienezza di ciò che siamo. Veniamo a conoscenza della nostra capacità di arrabbiarci e della quantità incredibile di rabbia che abbiamo dentro.

Ma esaminiamo prima in che senso lo scarico e la repressione, i due modi sbagliati, sono difettosi.

Partiamo dalla repressione e diciamo che è proprio la repressione a far crescere la rabbia. Chi ha sempre represso ne ha ammucchiata tanta, di rabbia, dentro di sé; chi reprime, dunque, è ovvio che ne sente tanta, dentro di sé, e tema di traboccare. Così finisce per reprimere ancora di più, usando gran parte delle proprie energie nel difendere gli altri dalla propria rabbia. Finirà nell’immobilità. Possiamo trovare questi comportamenti negli stanchi cronici, nei pigri, nei lenti, negli inibiti, nei “paralizzati” emotivamente.

Nello sfogo invece percepiamo noi stessi direttamente come arrabbiati, agiamo la rabbia, ci coinvolgiamo in essa, identificandoci. Non siamo, tuttavia, in contatto con la nostra rabbia. Non la vediamo. Non sappiamo da dove nasce. Magari ci svuoteremo anche, ma un attimo dopo se ne formerà di nuova, avendo noi un’ identità rabbiosa. Dice lo psicologo Morelli, direttore di “Riza”: “Una volta pensavo che fosse sempre sano buttare fuori la propria collera [ ] Chi mi ha conosciuto in quel periodo mi ricorderà come un misto fra il collerico e il giustiziere. [ . ] Eppure avvertivo che c’era qualcosa che non andava: chi si arrabbia sovente non è mai in pace, non è mai tranquillo, non conosce il riposo della mente” l .

E allora? Allora dobbiamo ottenere entrambi i risultati, che sfogo e repressione hanno inseguito senza raggiungerli. Non dobbiamo lasciare la rabbia dentro e nemmeno agirla. Come si fa? “Non la si nega, non vi s’ indulge, ma le si permette di entrare pienamente e generosamente nella mente e nella consapevolezza, cosicché possa essere accdlta, esaminata’”, vista nella sua transitorietà. “Rapportarsi ad essa piuttosto che agire a partire da essa”.

Tutto questo ce lo dà la meditazione. Una pratica di rinuncia allo stOgo che, tuttavia, “non ci chiede di diventare docili, passivi o senza spina dorsale. Con una comprensione chiara della rabbia, riusciamo a rispondere con forza a questo sentimento non appena si presenta. Con discernimento e saggezza potremo guardare lucidamente alla sensazione che ha causato la rabbia. [ . ] Possiamo scegliere di parlare o di rimanere in silenzio. Riusciamo ad esaminare ogni aspetto della situazione e a prendere in considerazione le possibili conseguenze. Poi scegliamo il tipo di risposta che sia equilibrata, opportuna e vera’ .


Questa consapevolezza cambia la natura della rabbia, le toglie spontaneità, la disorienta. La pratica della consapevolezza ci fa essere presenti alla reale natura di ciò che accade. In un certo senso si tratta di fare amicizia con la rabbia. Questo lungo e paziente lavoro forma lentamente in noi la virtù della tolleranza. “Verso noi stessi e verso gli altri. Impareremo ad anrdre noi stessi per come siamo, in ogni momento. Cominciamo con l’ imparare a fermarci C . . .] e a prestare grande attenzione a ciò che sta accadendo”. Ciò che accade dobbiamo riconoscerlo c chiamarlo per nome. In modo da poterlo vedere, accettare, gestire.

La pratica meditativa svolge due compiti favorevoli: vedere il disagio ed eliminarlo. Il secondo compito, quello di eliminare il disagio, è secondo solo in ordine di tempo; chiaramente si tratta del nostro scopo principale. L’altro, primo in ordine di tempo, ha un ufficio diverso, preparatorio: è una tecnica per farci vedere meglio il disagio, onde eliminarlo. Il disagio non sopporta di esser visto e guardato in modo distaccato. Vedere il disagio è come farlo emergere, esporlo all’aria e al sole, togliergli ogni energia, disseccarlo e renderlo sterile, inefficace, inerte.

Ne consegue l’equazione: Guardare con distacco è eliminare.

Nella pratica si parte osservando il respiro. Osservare il respiro è solo un primo momento per entrare in una condizione di migliore ascolto. Si dovrebbe restare attenti al respiro. ma non ci si riuscirà. L’attenzione al respiro resta una concentrazione d’accesso alla vera meditazione che comincia solo con l’arrivo degli impedimenti, con le interruzioni, con le distrazioni. La rabbia è una di questi.

Vedere gli impedimenti alla meditazione è come vedere le varie espressioni concrete dei nostri disturbi, entrare in contatto con loro, comprenderle e tollerarle. Comprendere la grande utilità del confronto con gli ostacoli alla meditazione è oltremodo importante, dal momento che gran parte del tempo in cui lasciamo accadere la meditazione trascorre a confronto con i cosiddetti impedimenti; la Meditazione si presenta, infatti, per lo più come una sequenza di impedimenti, separati fra loro da piccole pause di attenzione al respiro. Abbiamo appena avuto un breve momento m cui siamo stati attenti al respiro e, subito, ecco che un attaccamento si fa vivo; lo lasciamo andare a fatica e ci abbandoniamo al respiro ristoratore, quando l’ indolenza ci coglie. La lasciamo essere come Cl hanno consigliato, portando poi dolcemente, appena possibile, l’ attenzione al respiro ed ecco che … a brevi intervalli … prima i dubbi … poi le avversioni e infine … l’agitazione si fanno vivi a turno.

Va bene così.

Guardiamo questi impedimenti. Sviluppiamo lentamente un crescente ma sempre più distaccato interesse per i turbamenti che si avvicendano ln noi.

Ripetiamo in modo incessante:

I pensieri che mi arrivano non mi riguardano, non sono affar mio.


Le rabbie che mi si presentano non mi riguardano, non sono affar mio.

E così via, per tutti gli impedimenti.

Gradualmente cesserà l’ossessione di sbarazzarcene. Perché ci riesca più facile, ricordiamo ancora una volta che il nostro vero problema non è avere degli impedimenti, ma il non riuscire a tollerarli.

Dal momento in cui gli impedimenti cominciano ad apparirci interessanti, essi cominciano ad indebolirsi. Guardare una rabbia con interesse è come metterle dentro un gerrne di calore che pian piano ne provocherà lo scioglimento.

Quello che dobbiamo fare mentre aderiamo al respiro è “prendere nota”, nello stesso momento in cui si presentano, degli impedimenti che emergono accanto al respiro. Seguiamo il respiro e insieme “fotografiamo”, senza giudizio favorevole od ostile, gli impedimenti che arrivano, In passato eravamo condizionati, obbligati a reagire, con ostilità o con desiderio, alle emozioni degli impedimenti. Quando, a seguito di un’offesa, la rabbia si presentava, reagivamo gridando e assalendo o presi dalla paura ci immobilizzavamo nel nostro gelo. Oggi abbiamo deciso di guardare la rabbia con interesse distaccato e affettuoso, così come abbiamo imparato a fare col respiro. Quando la guardiamo con interesse, la rabbia non è più così nostra come lo era prima. Non è più un “Io”, diventa un “Lei”. Questo perché, ora, la guardiamo con occhio di

L’UOMO Dl CONFINE

di Roberta Belluati


Se ci fetmiamo ad ascoltare attentamente i contenuti delle notizie o ad osservare le immagini che quotidianamente ci pervengono dai massmedia, non possiamo non rilevare, al di là di facili generalizzazioni, degli elementi che contraddistinguono la nostra attuale condizione sociale. Un affievolimento del senso d’umanità, per esempio, procurato da una sorta di “anestesia” collettiva, conseguente una sorta d’ abitudine alla ripetitività costante della terribilità di certi eventi cui siamo continuamente sottoposti, eventi spietatamente sviscerati in tutta la loro crudezza visiva e proposti indifferentemente in tutti i momenti ed in tutti i luoghi, una sorta di concentrazione negativa che abitua l’uomo all’indifferenza davanti al male, rendendolo per ciò stesso spesso anche potenziale aggressore del suo simile. Altro elemento è costituito da una progressiva perdita a livello diffuso dell’identità profonda della persona, della sua autoconsapevolezza e di conseguenza un disconoscimento, a partire da sé, del valore dei gesti, delle azioni. delle parole nonchè dell’alterità circostante. Tale caduta di tono si traduce conseguentemente nel dilagante conformismo basato sull’esteriorità. nell ‘omologazione del do ut des con la sua logica del profitto e in una disumana competitività fondata sul principio “mors tua, vita mea”. Questi elementi che connotano la cosiddetta “società del benessere” in cui viviamo, sollecitano fondamentalmente l’individualismo, annullando il valore dell ‘individualità ed unicità della persona basato sull’importanza della relazione umana e sull ‘ apertura all’ alterità, producendo in suo luogo l’ incomunicabilità e la caduta di ogni senso di responsabilità verso i propri simili e l’ambiente in cui viviamo, fino alla strumentalizzazione stessa dell’individuo, corredata dai conseguenti fenomeni dell’opponunismo. della prevaricazione e della violenza.

Davanti a questo squallido panorama cui quotidianamente assistiamo volenti o nolenti, consapevoli o non, porsi l’ interrogativo relativo al rapporto di confine tra profano ed iniziatico forse dovrebbe partire dalla domanda prima: Chi è l’uomo? , premesso che in essa a ben vedere è già presente in un certo qual modo il concetto dimenticato di persona.

Il “chi” infatti sottende necessariamente un altro “Chi”. La domanda posta, cioè, ne postula una precedente: Chi ha voluto ciò? I Qui il Chi originario ha la funzione di soggetto primo ed il ciò (cosa) quella di oggetto. Ne segue che “il Chi è l’uomo?” presuppone un passaggio da un ciò-oggetto ad un chi-soggetto-secondo.

fotografo, anziché reagire ubbidendole. La elaboriamo anziché agirla, come lei vorrebbe.

Proviamo e resteremo sorpresi delle decisi ve differenze che intercorrono fra annotare e agire.

Ogni cosa annotata verrà integrata, come ogni cosa su cui si riflette con interesse rilassato e attento. Integrare un sentimento di rabbia, provando interesse per lui, produce l’unione di due opposti. Rendendoci conto della nostra ostilità potremo fonderla con l’amore, …accettandoli entrambi e guardandoli (e usandoli) contemporaneamente.

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UOMINI, SQUALI E CHIACCHIERE

 

UOMINI, SQUALI E CHIACCHIERE di G. G.

Una sera d’estate di tanti anni fa, alle isole Eolie, ero andato a pesca di totani. Tante altre volte sono uscito in mare, di notte, per pescare, ma ricordo in modo particolare quella sera per la frase che un anziano pescatore pronunciò per un mio modo particolare di stare in quel momento in barca. Eravamo in quattro su un gozzo a remi: due alla voga, uno ad armeggiare con gli «ontrati» (particolari grossi ami per totani) e le lenze ed io, a poppa, con le gambe fuori bordo ed i piedi a mollo. Ero intento a godermi la pace ed il silenzio di quella calma notte senza luna. Il cielo sembrava un immenso soffitto punteggiato da miliardi di luci che simili a gemme preziose si riflettevano su un mare liscio e nero. Il gozzo frusciava leggero nell’acqua a tratti fosforescente, allontanandosi lentamente dalla costa. Ad un tratto il più anziano dei tre, quello che armeggiava con le lenze, richiamò la mia attenzione e mi invitò a rientrare con i piedi in barca. «Tenga le gambe dentro», mi disse, «con questo buio non sappiamo quello che può emergere dall’acqua. Sotto abbiamo quasi cinquecento metri di fondo». Immediatamente ritrassi le gambe facendole rientrare in barca, vergognandomi non poco per quella mia sbadataggine. Mi conoscevano come sommozzatore e valente cacciatore, quindi in possesso di precise norme di comportamento. La discussione ovviamente ci portò a parlare di ciò che poteva esserci in mare e quindi, secondo quanto avevano pescato o visto per anni da quelle parti, non poteva essere infrequente l’incontro con i grandi predatori carnivori, compresa l’Orca assassina e lo squalo martello, a loro dire, i più feroci di tutti.

Fino a quel momento non avevo assolutamente pensato, immergendomi con le bombole o in apnea, che nel mare di casa, nel Mediterraneo, potessero esistere pericoli ben maggiori della sincope da apnea prolungata o della embolia gassosa. Gli squali, tanto per parlare fuori dai denti, erano bestie di altri mari, di altre latitudini. Da noi poteva esserci qualche timida verdesca, innocui gattucci e palombi,. tra l’altro poco graditi dal punto di vista culinario in quegli anni di abbondanza di pesce pregiato nelle acque del Mediterraneo. Per quanto riguardava gli attacchi in mare subiti dai sub, nemmeno a parlarne in quanto quello presunto contro un fotosub dell’epoca finì per essere declassato (per lo meno nell’ambiente subacqueo così ancora si dice) ad incidente da elica di motoscafo. Sicuramente, gli unici veri attacchi da pescecani sono quelli abbondantemente documentati durante il periodo bellico contro naufraghi di navi affondate. Ma già siamo lontani nel tempo e la memoria dell’uomo moderno rifiuta sia la guerra sia quello che poteva capitare ai naufraghi sballottati come sugheri, in mezzo a centinaia di cadaveri di propri simili. Ma gli squali nel Mediterraneo ci stanno e ci sono sempre stati. E non solo loro, visto che è stata documentata la presenza di grossi cetacei, persino dell’Orcinus Orca. L’intelligente Orca assassina è stata fotografata nel 1985 al largo di Finale Ligure mentre divorava un raro Zifio, ucciso da poco tempo, in quanto è arcinoto che tale odontoceto non divora carogne, solo carne fresca. Tornando agli squali, diremo che ne esistono circa 350 specie e solo per una trentina di esse possediamo notizie certe e documentate di attacchi diretti contro l’uomo o la sua imbarcazione. Le specie più pericolose sono quelle cui appartengono il grande squalo bianco, il più grosso e feroce di tutti; lo squalo tigre; il longimano e il leuca. Possono raggiungere gli otto metri di lunghezza e le tre tonnellate e mezzo di peso. Abitano tutti i mari del globo sotto tutte le latitudini e sono presenti quindi, anche se rari, nel Mediterraneo. Abbiamo notizie certe di catture, di avvistamenti e di attacchi a Malta, Favignana, isole La Galite, stretto di Messina, mar Ligure e Bocche di Bonifacio. A Favignana, nella zona delle tonnare, il grande squalo bianco è, si può dire, di casa. L’ultima cattura è dell’8 maggio 1985: una femmina di Carcharodon Carcharias, grande squalo bianco, lunga m 5,35 per tre tonnellate di peso. D’altro canto non dobbiamo meravigliarci per la presenza di tali bestie nel Mediterraneo. E la loro fame spropositata che li porta a scorrere tutti i mari in un perenne inseguimento ai grandi banchi di pesce. E il tonno è una delle sue leccornie preferite e lui lo segue con particolare cu

ara. Sappiamo che il tonno si riproduce nel mar Caraibico. Da quelle plaghe, seguendo la corrente del golfo, si dirige nel Nord Atlantico con rotta NE, fino ai banchi di Terranova. Poi devia ad oriente e quindi verso sud, ridiscendendo l’Atlantico lungo le coste occidentali dell’Europa e dell’Africa, in direzione del Capo. Da qui si dirige verso l’Australia ed il Pacifico che risale verso il Giappone e quindi, ad ovest, verso il continente americano. Ridiscende poi a sud lungo le coste delle Americhe, doppia capo Horn e risale l’Atlantico, tornando ai luoghi di riproduzione. Durante questo lungo viaggio, sempre seguito ed a volte attaccato da ogni tipo di grande predatore, da milioni di anni il tonno entra in Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra. Un tempo le tonnare delle nostre isole maggiori erano famose per la enorme quantità di tonni catturati. Nella vecchia tonnara Florio ubicata sullo scoglio di Formica, davanti a Trapani, è visibile una vecchia lapide commemorativa in cui si legge che in una sola mattanza furono catturati più di novemila tonni. Ed ecco uno dei più importanti motivi per cui gli squali entrano in Mediterraneo. Lo squalo è una perfetta macchina da preda, rimasta immutata nella sua struttura sin dai tempi della sua evoluzione. E rapido, agile, resistente. Possiede denti triangolari affilati come rasoi in costante rinnovamento, disposti su più file. E ricoperto da una pelle durissima e fortemente abrasiva. Ha una vista molto sviluppata ed un udito sensibilissimo alle basse frequenze. Possiede un sofisticato sistema sensitivo in grado di consentirgli di individuare una possibile preda in difficoltà, dentro quello spazio opaco e tridimensionale che è il mare. E come se non bastasse, nella zona sottocutanea del capo, vicino al muso, possiede le cosiddette ‘ampolle di Lorenzini’, organo che gli dà l’ulteriore facoltà di avvertire campi elettrici dell’ordine di 0,01 microvolt per centimetro quadrato. Un animale così dotato da madre natura è solo e soltanto un cacciatore. Oltretutto, come già accennato, il suo metabolismo lo tiene in stato di perenne fame. Ingoia tutto quello che incontra: cose, uomini e bestie che siano. E cannibale in quanto divora i propri simili in difficoltà e tale sua brutta abitudine è stata

 osservata anche all’interno dell’utero materno. Gli attacchi contro

 l’uomo sono frequentissimi ed è immancabilmente presente laddove si verificano naufragi o disastri aerei in mare. Alcune nazioni come l’Australia e l’America del Nord hanno istituito da tempo sofisticati sistemi di vigilanza lungo le spiagge frequentate da bagnanti. Sappiamo che sente il sangue, disciolto anche in minima parte nell’acqua. E attirato dagli scarichi fognari o da movimenti scomposti e non coordinati e difende molto energicamente il suo territorio contro eventuali intrusi. Nel suo ventre è stato trovato di tutto: uomini, bestie, bottiglie, vestiti e cappotti, pezzi di auto, uccelli, orologi a pendolo, scarpe, cassette di verdura e persino valige ancora chiuse. Il due di febbraio davanti a Piombino, nel golfo di Baratti, un sub viene attaccato, ucciso e divorato da uno squalo su di un fondale di ventisette metri. Il sub si chiamava Luciano Costanzo. Testimoni impotenti ed atterriti, sulla barca, il figlio Gianluca e l’Ing. Bader, di Napoli. A distanza di qualche mese e mentre l’autorità giudiziaria ancora indaga, prendono corpo due teorie contrastanti tra di loro e che non contribuiscono certo a far luce sull’episodio. Di certo esistono le dichiarazioni dei due testimoni, fino a prova contraria attendibilissimi, e ciò che rimane di Luciano Costanzo: le bombole con uno spallaccio strappato, la cintura di zavorra, le pinne, qualche pezzetto di neoprene ed un’ansa intestinale. Ecco i fatti, le dichiarazioni e le supposizioni.

Dichiarazione dell’ing. Bader rilasciata ad un telegiornale: «Premetto che per me non si è trattato di un’avventura ma di un tristissimo episodio conclusosi con la morte di un amico. Nel grosso cabinato del Costanzo eravamo il figlio Gianluca diciannovenne, io e Costanzo. Luciano si è immerso e noi lo seguivamo in barca a venti metri di distanza. Ad un certo punto sulle bolle del subacqueo appaiono due pinne, due pinne nere a circa due metri di distanza l’una dall’altra. Il ragazzo mi chiede cos’è, io rispondo di colpo, uno squalo. Di squali ne ho visti in altre occasioni. Sono stato parecchie volte nel mar Rosso; ma uno squalo del genere, ovviamente, non l’avevo mai visto, però ne avevo letto più volte sui libri e quindi sono sicuro nella mia versione dei fatti. D’improvviso lo squalo come era apparso è scomparso e le bolle del sub si sono radunate in un solo punto aumentando d’intensità, sintomo di una sua veloce risalita che certamente non avrebbe fatto se non si fosse trovato in grave difficoltà. E un grosso errore una risalita rapida. Con Costanzo ci conoscevamo da oltre 15 anni. Era un sub esperto. Ad un certo punto ho visto Luciano emergere fino a metà del busto ed è ricomparso il pescecane. La bestia lo ha attaccato frontalmente per due volte, ma senza successo perché, per il suo abbrivio, lo ha soltanto sospinto con il muso. Quindi si è allontanato leggermente, ha preso un certo abbrivio e, compiendo un arco di circa sette metri, ha attaccato ancora Costanzo azzannandolo all’emitorace sinistro e trascinandolo sott’acqua. Durante gli attacchi ho visto chiaramente la bocca della bestia ed il suo ventre bianco. Tutto ciò è successo in 30, 40 secondi. Non ho visto sangue in superficie, Siamo rimasti ancora in zona per circa mezz’ora nella speranza assurda di un miracolo. Avevo dato per scontata la morte del sub perché l’avevo visto esattamente tra le fauci del pescecane. E non siamo andati a Baratti bensì a Piombino per due motivi. Il primo perché la differenza tra i due approdi è di circa mezz’ora; il secondo perché a Piombino c’è l’approdo per la barca, nonché un’autorità marittima. E poi, il porto di Baratti non ha un approdo per una barca delle dimensioni del grosso cabinato su cui eravamo imbarcati. A Piombino mi conoscono bene perché frequento quella città da 25 anni in quanto tratto metalli elettrici che congiungono il continente italiano con la Sardegna. Chi mi conosce, crede a quanto dico. Chi non conosce né me né Costanzo, fa delle illazioni. Costanzo non ha mai pescato con le bombe, era una persona per bene. Sono convinto che in questo caso intervengono interessi turistici e commerciali».

Quindi per l’ingegner Bader esistono altri motivi portati avanti da chi cerca di confutare quanto lui, e soprattutto il figlio di Costanzo, hanno visto. E evidente che la presenza di uno squalo in una qualsiasi parte di una qualsiasi costa porta lo scompiglio turistico, nel senso che la gente, quella zona, la diserta sicuramente in estate. Del resto, convinti che lo squalo ci sia sono il Pretore di Piombino ed il Comandante del porto, anche se una delle tante perizie dovrà stabilire ed accertare se la morte possa essere stata provocata da una esplosione. Per Guido Picchetti, subacqueo esperto oltreché giornalista e fotosub di valore, il killer esiste. Ecco la sua intervista rilasciata al redattore capo dei servizi subacquei della Rai TV, durante il telegiornale. «In questi ultimi tempi sono affiorati dubbi e perplessità sulla faccenda Costanzo ma in realtà non ci sono elementi per avvalorare una ipotesi diversa da quella accreditata fin dal primo giorno, cioè l’attacco dello squalo. Qui si parla addirittura di montatura delle prove. Io ho visto il filmato dei rilevamenti con la posizione dei reperti e mi sembra che proprio la loro posizione sia la prova migliore che non ci sia stata montatura. Se si avesse voluto montare un incidente si sarebbe fatto, io ritengo, in modo più intelligente. Avrebbero aperto la cintura di zavorra; avrebbero sganciato la cintura delle bombole, che è stata trovata chiusa, e avrebbero rotto o rovinato le pinne. Esiste la faccenda della bomba. Ma quando è stata tirata? Quando era in acqua? E perché, se la bomba è stata tirata prima, in acqua non ci sono pesci? Non dico in superficie, ma sul fondo. Ma poi, per quale ragione tirare bombe su quei fondali? Non sono rocciosi o particolarmente ricchi di pesce. Ritengo la questione bomba fondata sulla volontà di ricreare un ” mostro “. Tutto sommato è un episodio che non deve meravigliare. Sì, certo, è straordinario che sia accaduto. E rarissimo che accada, però la presenza di questi squali in tutte le acque del mondo è documentata, come pure in Mediterraneo».

Di parere decisamente opposto è Enrico Cappelletti, esperto giornalista subacqueo, fotosub di valore, redattore capo di Aqua: «Le pinne. La probabilità che cadano sullo stesso punto è assurda. Sott’ acqua queste pinne pesano 100 gr, quindi con un filo di corrente si spostano nella caduta e vanno a posarsi in posti molto lontani l’una dall’altra. Questo è stato il primo dubbio. Poi la cintura dei piombi. Il secondo dubbio è che la cintura è chiusa, come pure la cintura delle bombole. E rotto solo uno spallaccio. E come se lo squalo si fosse risucchiato il sub. Preciso una cosa. Io non sono un esperto come altri hanno tentato di presentarsi. Sono una persona che va da tanti anni sott’acqua; ho visto gli squali sott’acqua, come mordono e come mangiano, cosa combinano. Mi sembra inconsueto che uno squalo possa avere risucchiato un sub lasciando tanti pezzetti in un solo punto. Veniamo alla misura della cintura. Quella è la cosa che mi ha praticamente messo un dubbio fortissimo sin dal primo momento. E impossibile che un uomo della taglia di Costanzo, un 52, possa avere indossato quella cintura. Non sta a me che ho taglia 46. E poi, i tagli impressi dai denti dovrebbero essere sui fianchi della cintura». Ma allora, cosa potrebbe essere successo, chiede Mino D’Amato, l’intervistatore. «Non lo so, non riesco a capire. E un dubbio che deve risolvere l’autorità giudiziaria». Il Direttore di Aqua, Mario Oriani, non ha dubbi: «Io ho chiamato i miei redattori, ho chiamato il mio miglior specialista che è Cappelletti ed ho dato loro disposizione di condurre una inchiesta. Non dico i fatti appurati nell’inchiesta, ma sono almeno 12 le ragioni fondamentali, alcune apparse sui giornali, per le quali è impossibile che sia avvenuto ciò che è stato raccontato dal figlio della presunta vittima, diciamo, e dal signore svizzero. Tutto si contraddice, non c’è un punto che funzioni. Difendo lo squalo. Sono sicuro che lo squalo non c’entra niente».

Ma allora, se non è stato lo squalo; se non può essere stata la bomba, in quanto avrebbe dovuto avere una potenza dirompente enorme per fare disintegrare un uomo e contemporaneamente la facoltà di non fare esplodere le bombole, caricate ad un paio di centinaia di atmosfere; chi è stato? Ed il figlio di Costanzo, che figlio è, per avere detto tale bugia? Non ha una coscienza, una madre, dei parenti? Infine un’ultima domanda: se non è stato lo squalo e non è stata la bomba, dov’è Costanzo?

Nessun ‘altro era presente tranne i due testimoni. A questo punto il nostro pensiero è sostenuto da una sola certezza: la consapevolezza che in mare vi sono ancora tanti e tali fenomeni, in parte ancora da penetrare, che la nostra immaginazione fa fatica a contenerli tutti. Qualunque manuale che parla di subacquea, alla voce «pericoli oltre ad elencare meduse, murene e razze, accenna anche agli squali. Certo, dice pure che gli incontri in Mediterraneo sono rari e che la bestia, in genere, è timida. Ma non nega che si possano incontrare.

Il nostro raziocinio, comunque, ci deve condurre ad una sola considerazione certa: Luciano Costanzo non esiste più su questa terra perché, sia pure per un caso eccezionale e fortuito (diciamo pure un caso su dieci milioni), è stato attaccato, ucciso e divorato, forse da uno squalo, in un giorno di febbraio, nel golfo di Baratti, davanti a Piombino.

Perlomeno, fino a prova contraria certa.

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LA SCUOLA OGGI

LA SCUOLA OGGI

Le considerazioni che seguono non vogliono né possono essere un’analisi compiuta del tema in oggetto; spero tuttavia che riescano a costituire uno stimolo di discussione fra i fratelli in grado ‘di fornire un po’ di luce allo scrivente.

Perché questo tema?

Sono padre di un bimbo di 8 anni che è appena uscito dal primo ciclo della scuola elementare e che comincia ad esprimere in maniera netta, chiara e cosciente una «domanda» di istruzione che, mi sembra, non trova una risposta opportuna.

Dopo anni di interesse «accademico» per i problemi della scuola, attraverso agli occhi, alle orecchie, alle emozioni di mio figlio, sento questi come fondamentali per la vita dell’uomo.

Un articolista qualche tempo fa, durante alcune riflessioni sullo stato di pace quasi globale del mondo di questi ultimi tempi, affermava che in una società globale futura ove guerra, fame e povertà fossero sconfitte, quattro grandi sfide rimarrebbero agli uomini: la scuola, la difesa della salute, la condizione di vita degli anziani e la conservazione dell’ambiente.

Vorrei soffermarmi un attimo a considerare questi quattro elementi richiamando l’attenzione su come siano in fondo strettamente correlati e come la scuola sia la vera fonte di soluzione per gli altri: solo attraverso la scuola è possibile creare la cultura di base e quella specialistica per giungere alla vera conservazione dell’ambiente; lo stesso dicasi per quanto riguarda lo stato di salute fisica delle persone. La condizione di vita degli anziani poi in sostanza dipende non solo dalla cura per la salute o per l’ambiente ma anche da quanto la scuola riuscirà ad allargare una cultura di rivalutazione «democratica» delle persone anziane.

Pertanto la prima delle grandi sfide da intraprendere sarebbe proprio quello della scuola.

Ma quale è il punto di partenza?

Qui lo sconforto cresce immediatamente a livelli indescrivibili.

La sensazione più immediata (e qui parlo di sensazione perché non sono in grado di fornire analisi quantitative o di dettaglio) è che l’istruzione in generale stia subendo una involuzione in senso negativo con una velocità superiore a qualsiasi altro fenomeno di tipo socioeconomico.

Paragonando scuole elementari, medie e licei di non più di 30 anni fa con quelli di oggi mi sento quasi di affermare che un licenziando della scuola elementare della fine degli anni ’50 aveva conoscenze di base ed aveva acquisito mezzi di espressione e di calcolo se non superiori, identici a quelli di un allievo delle scuole medie di oggi, cito a questo proposito solo qualche elemento che costituiva materia di esame per l’ammissione alla scuola media quali l’analisi grammaticale, la soluzione di problemi matematici con una incognita, il dominio del calcolo delle frazioni ed ancora la geografia a livello europeo ecc. Ma ciò che rende ancora più sconcertati è che, nonostante la riduzione in sostanza dei programmi, chi finisce un ciclo di istruzione possiede in minima parte quel livello di cultura che può essere definito sufficiente per il ciclo stesso.

Impressionanti i risultati ad esempio di un’inchiesta compiuta per conto del Ministero della Pubblica Istruzione Francese su un campione di scolari giunti alla fine dei 5 anni della scuola elementare: l’ 80% dei ragazzi ha collezionato in un dettato di 8 righe più di 25 errori gravi di ortografia!

Anche se non dispongo di informazioni relative alle scuole italiane presumo che gli alunni delle scuole italiane non siano poi tanto meno somari dei loro coetanei francesi.

In compenso qualche tempo fa in una scuola superiore americana alla domanda dove si trova l’Italia l’unico allievo che non rispose «non so» collocò l’Italia «dalle parti del Nicaragua»!

Per esperienza personale posso poi assicurare che anche le scuole di tipo tecnico professionale sfornano più dell’80% di allievi che non sono in grado di risolvere problemi in cui è necessario applicare l’ABC delle relative specializzazioni. Ai periti in telecomunicazioni che negli ultimi anni ho intervistato per l’assunzione al primo impiego ponevo un semplicissimo problema basato sull’uso di 3 interruttori per l’ accensione di normali lampade da illuminazione; ebbene il 50% forniva delle risposte che se applicate da un elettricista avrebbero creato dei terribili corto circuiti!

La considerazione più sconvolgente è che questi bei risultati sono ottenuti in un ambiente, la società odierna, ricchissima di mezzi tecnici di ogni tipo in una attività in cui sono impegnati moltissimi insegnanti in una percentuale insegnanti/alunni estremamente più alta di quella degli anni ’50.

Anche i supporti culturali per gli insegnanti sono diventati più disponibili ma in sostanza la sensazione è che siano meno usati.

Un’altra cartina di tornasole mi pare costituita, almeno a livello italiano, dal fatto che 30 anni fa, con alcune prestigiose eccezioni, la scuola privata costituiva il refugium per coloro che non riuscivano a superare le difficoltà della scuola pubblica mentre oggi tutti pensiamo l’opposto.

Perché avviene tutto ciò?

A volte si chiamano in causa, ad esempio in Italia, presunti interessi particolari che guiderebbero questo sfacelo.

Personalmente ritengo che non sia così altrimenti non mi spiegherei come in tanti paesi con situazioni storiche tanto diverse la situazione sia praticamente la stessa.

Tenterò di darne qui una spiegazione diversa. Come già accennato in precedenza la scuola è comunque un qualcosa che rinchiude in sé il possibile orientamento della storia futura; qui forse sono le radici del problema: faticare per avere una buona scuola significa investire risorse in qualcosa che servirà a chi viene dopo di noi per vivere e soprattutto per plasmare un mondo che, se siamo fortunati, vivremo come anziani.

Ora quale può essere la spinta ad interessarsi di una cosa tanto lontana con un mondo votato al profitto ed al ritorno immediato di qualsiasi fatica?

La mentalità dell’investimento con ritorno in breve tempo, tipico delle attività industriali e finanziarie della società occidentale, in questi ultimi anni è diventata habitus mentale nelle manifestazioni sociali degli individui. Se talvolta viene spinta allo sviluppo intellettuale ciò è nel senso strettamente utilitaristico acritico nei confronti del sistema di valori imperante.

Riusciremo quindi a vincere la sfida della scuola? Sì, forse per il rotto della cuffia.

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ESSERE MASSONI OGGI E PARTICOLARMENTE IN ITALIA

  • ESSERE MASSONI OGGI E PARTICOLARMENTE IN ITALIA
  • Tavola di Loggia tracciata in occasione della tomata comune delle RR.LL. gemellate l’Espérance Savoisienae di Chambéry (G.O.D.F.) e Augusta, a Torino il 21 ottobre 1990
  • L ‘età dell’Aquario

Essere massoni oggi e particolarmente in Italia

di Adele Menzio

Uno strano Paese dove il gay si esibisce con piena approvazione ma il massone deve nascondersi, dove al villano Sgarbi va il plauso del pubblico che più si entusiasma quanto peggio egli si comporta, dove i «furbi» sono additati ad esempio ai pargoletti e tutto va, in una certa sostanziale indifferenza, alla malora. Un paese tuttavia dove, per stornare l’attenzione del popolo quand’esso si fa un po’ troppo curioso su certi fatti che il Palazzo non ha nessuna intenzione di chiarire, si fa ricorso alla Massoneria per indicare un «potere» misterioso, infido, equivoco che sarebbe, alla resa dei conti, la vera e sola causa di tutti i mali e le deviazioni.

In un clima così direi che essere massone non è facile ed anche che si è fortemente tentati di assumere un atteggiamento non soltanto critico, ma astensionista.

Mi spiego.

L’iniziato, se vuole proseguire nella via intrapresa, deve liberarsi di molte chiamiamole «contingenze», deve elevarsi in un mondo diverso da quello normale, deve giudicare attraverso una scala di valori tutta particolare che nulla ha a che vedere con quella comune.

Il procedimento di spiritualizzazione allontana fatalmente dai problemi di tutti i giorni e la vita sognata dall’adepto è decisamente utopica. Gli utopisti, si sa, non sono molto aderenti alla realtà. Tuttavia lo scopo della Massoneria non è soltanto individuale.

Noi giuriamo di agire per il bene ed il progresso dell’umanità che è costituita da uomini deboli, corrotti, coraggiosi, onesti, ladri, assasSini, vigliacchi, buoni, generosi, invidiosi, inetti, attivi sempre in bilico tra il Male ed il Bene.

L’iniziato massone si trova egli stesso in una situazione psicologica e spirituale molto ardua da sostenere.

Il massone non si è ritirato in un eremo, ma continua la sua vita profana in mezzo alle situazioni più turpi ed a quelle più entusiasmanti. La massoneria non lo mantiene. Anzi è il massone a dotare l’organizzazione dei beni materiali necessari.

Praticamente il massone si trova, diverso sotto molti aspetti dagli altri, a lavorare, guadagnare, vivere con il prossimo. Il quale prossimo, data la filosofia oggi dominante, è sollecitato dal successo, dal guadagno, dal consumismo, e per raggiungere livelli di vita che egli giudica i soli possibili e gratificanti, è disposto a scendere a compromessi, a violare le più elementari norme morali, a fare, come si dice «carte false».

Questo il contesto nel quale il massone si trova a dover operare.

Tanto profondo è il divario tra il suo modo di concepire l’esistenza e quello degli altri che, spesso, egli usa un linguaggio ed un atteggiamento che non solo non vengono capiti, ma gli creano dei disagi. Rischia spesso di essere scambiato per uno sciocco, dato che non adora gli dei comuni, che non si vendica, che perdona, riconosce le ragioni degli altri, tollera gli errori e le intemperanze del suo occasionale interlocutore.

Il massone, quello autentico, dico, si rende conto che la società da lui vagheggiata è molto lontana da quella concretamente posta in essere da politici, managers e comuni cittadini.

Tuttavia egli continua, da sempre, a lavorare. Perché?

Ho spesso pensato che la contemporaneità gioca brutti scherzi.

Ti fa vedere un mondo particolarmente brutto che confronti (senza avere dati sperimentati) con quello passato, a tutto vantaggio di quest’ultimo.

E un atteggiamento sbagliato, dovuto in parte anche all’insegnamento storico tradizionale che, creando dei miti, ha distorto totalmente la realta dei fatti quale è possibile invece ricostruire attraverso la comparazione dei documenti, la loro interpretazione, i rilevamenti archeologici, la disamina attenta delle opere d’arte e di tutto quanto ci perviene dal tempo trascorso. Che è breve.

Credo si possa affermare che l’umanità ha fatto molti passi avanti. Oggi sembra assodato (anche per via della elevata qualità della co16

municazione che, in un certo senso ha rimpicciolito il globo) che l’uomo ha diritto alla libertà.

Peccato che molti abbiano della libertà un concetto errato e la scambino, anche per loro comodità e profitto, con la più sfrenata licenza. Ecco un primo, fondamentale compito demandato al massone di oggi. Chiarire il concetto di libertà come sistema di limiti. Libertà con rispetto e tolleranza.

Dimostrarlo in ogni occasione, anche minima, in ogni momento con il proprio comportamento e le proprie azioni sempre coerenti. Oggi stiamo distruggendo il mondo naturale dal quale traiamo tutto ciò che è indispensabile alla vita. Per denaro.

Compito del massone è dimostrare che il legame tra i regni della natura (vegetale, minerale, animale) è così intimo e che la correlazione tra l’uno e gli altri tanto indefettibile da non poter essere mai scissi né mutati.

Oggi viviamo un curioso fenomeno storico. Mentre da un lato sono ormai una realtà l’Europa, il disgelo, l’alleanza tra le più grandi potenze e si potrebbe quindi sostenere che il fenomeno nazione è agli sgoccioli, dall’altro canto assistiamo al sorgere di feroci campanilismi, di regionalismi esasperati, di eccessivi particolarismi.

Noi operiamo in Italia ed il fenomeno del divario tra Sud e Nord, la vittoria delle leghe ci deve far riflettere.

Tutti sappiamo che l’Italia Una è relativamente giovane ed anche che è stata voluta, in fondo, da una minoranza.

Constatiamo come diverse culture, lingue, usi e tradizioni coesistono. Pare sia stata la TV , sia pure con i suoi programmi scadenti, ad aver operato una sorta di unità linguistica e ad aver assuefatto l’orecchio di molti al dialetto, prima ostico, di altri.

Possiamo anche dire — e tra noi lo possiamo — che un vero, autentico Stato non esiste, se buona parte del Paese è in mano alla mafia e ad organizzazioni consimili, se la giustizia non funziona (l’episodio del timbro duro e molle è una beffarda quanto tragica prova dell’inefficienza delle nostre corti di giustizia), se gli sprechi e le operazioni economiche costano al contribuente molto di più di quel che possano rendere in utilità pubblica e sociale. Uno Stato allo sfascio.

Che può fare il massone?

Dato che alla radice del male c’è una profonda diseducazione, può cominciare a comportarsi da buon cittadino esigendo quanto gli è dovuto ma al tempo stesso dando ciò che è obbligato a dare.

Educando i figli al rispetto verso la legge e le autorità, votando saggiamente e non per abitudine. Comportandosi in ogni occasione nel modo più rispettabile e morale. In modo da costituire un esempio.

Anche da noi si va avviando il fenomeno della società multinazionale che sta provocando tristi fenomeni di intolleranza.

E ovvio che un massone non può sottoscrivere l’atteggiamento di rifiuto verso persone di altre razze. Ma concretamente che cosa può fare?

Moltissimo. Dare lavoro, abitazione, assistenza medica e di ogni altro genere.

E ogni volta che, in una occasionale conversazione, è costretto a sentire le lamentazioni dei benpensanti, deve pacatamente fare osservare che ogni uomo è libero di vivere dove meglio crede e che il colore della pelle è un caso, non una discriminazione.

Non ho volutamente fatto ricorso a paroloni altisonanti perché ritengo che il massone oggi debba soprattutto essere un esempio. Questo è il suo ruolo. Non è poi molto difficile. E’ sufficiente che il Massone sia coerente.

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SPERANZA E FIFUCIA

SPERANZA E FIDUCIA

di  F. E.

Se ancora da qualche parte dovessero conservarsi dubbi sulla esistente crisi totale della società in genere, la definitiva messa a fuoco da Bologna alla Turchia, da Danzica alla Bolivia, dalla Palestina al Cile cancella ogni falsa verità sui mali che stanno distruggendo, nelle società in crisi, l’uomo.

Inutili sono le lacrime dei coccodrilli di diverse estrazioni così come sono inutili le parate con bandiere, le sfilate dei personaggi dalle alte cariche, i telegrammi e le corone di fiori destinate a coprire comunque le continue violazioni dei diritti umani.


La sfiducia ed il disprezzo per la continua destabilizzazione dei valori, destabilizzazione voluta con intenti diversi da tutte le componenti responsabili della società-che-conta, quella ufficiale, con più o meno mala fede per più o meno diverse speculazioni, hanno messo in risalto le verità spietate che colpiscono anche materialmente vittime innocenti.

Non è una intenzionale presentazione di un quadro a fosche tinte la nostra, bensì la necessaria premessa ad un tentativo di proporre un discorso che nasce dallo sconforto.

Il silenzio, la presunta impotenza, il ritenersi estranei può divenire complicità oltreché colpa grave epperciò desideriamo riproporre il nostro ruolo che non può più consentirci di fermarci a ritenere fatale la china. Siamo troppo abituati, attraverso il metodo di lavoro massonico, a distinguere la sostanza dalla forma, la verità dall’ipocrisia.

Con la convinzione di operare per vocazione esoterica non possiamo oggi trascurare il conseguente impegno essoterico per una responsabile assunzione di quel ruolo pluralistico che la massoneria ha sempre naturalmente svolto.

 postulati massonici indicano chiaramente agli iniziati le origini del male per pervenire alla verità. « Una verità sul male, se detta male, irrobustisce il male » ha detto Karl Krauss ed ha aggiunto: « Può capitare che ci voglia più coraggio e temperamento nell’attaccare un carrettiere che un re ».

Tutta questa premessa è dettata dal legittimo dubbio che, spesso, ci assale. È vero che per attaccare il re non abbiamo mancato di coraggio ma ne abbiamo altrettanto e siamo abbastanza preparati per estendere l’attacco al carrettiere qualora venisse dimostrata la sua corresponsabilità nella crisi etico-politica?

Dubbio e sconforto ci assalgono per l’indifferenza dell’uomo moderno e per il cinismo con cui vanta una libertà equivoca limitandosi a dividere gli « altri » in innocenti e colpevoli, estraniandosi dalla rovina che è stata ed è alimentata collettivamente. Non è certo questo tipo di libertà che rivendica il massone come parte del trinomio del tempio, non è questa Libertà che può generare fratellanza ed eguaglianza anche contro una classe dirigente prepotente ed arrogante; non è questa Libertà-eguaglianza-fratellanza su cui abbiamo giurato per la costruzione di un tempio universale, per il rinnovo della quantità dell’esistenza.

Gli interrogativi della disperazione non chiedono false consolazioni epperciò non dobbiamo o possiamo rassegnarci alla non-speranza; semmai dobbiamo o possiamo riflettere per operare. Non bastano atti formali per realizzare la premessa per un autentico progresso, per una maggiore fiducia in una Giustizia che la società massificata non ha saputo tutelare.

Certo la Speranza non può essere riposta nei valori di una furbizia politica fallita; può materializzarsi nel continuo tentativo ed impegno per una profonda riforma etico-morale che solo i membri del corpo massonico possono affrontare con priorità, oggi, su tutti gli altri problemi.

Riforme di strutture, divisioni dei poteri, prevalenza dei meriti e delle qualità possono porre fine alle lottizzazioni abusive ed abusate dal potere. Tutto questo è possibile attraverso quella rivoluzione morale cui i massoni non possono rimanere estranei divenendone semmai i protagonisti così come è avvenuto nei momenti in cui la Civiltà, ovvero l’uomo civile è stato in pericolo, rivoluzione morale da operarsi a tutti i livelli, dentro tutte le classi sociali, masse o élite.

Siamo stati iniziati alla Morale che riposa sulla ragione umana qua le legge universale ed eterna e dobbiamo guardare al futuro meditando e proiettando nel mondo profano i veri significati di Democrazia che si oppongono alle immanenti demagogie e dittature. Quando si travalica e si travolgono i valori del moralismo, la società costruita sull’immoralismo violenta l’uomo ed il pericolo corre verso la sottocultura, il cinismo e l’indifferenza, elementi cullati nel collettivismo. L’uomo ha bisogno di riporre la propria fiducia nel suo simile, vuole incontrare la propria moralità, di qui la necessità di una valida presenza massonica. Il simile può essere un profano da iniziare, un cittadino onesto e coinvolto, l’uomo che al nostro fianco può rafforzare la fiducia in una società nuova.

Basta rifarsi ai Templari che attorno al millecento diedero i primi insegnamenti massonici: osmosi e sincretismo fecero convivere lavoratori della pietra e cavalieri da severa disciplina interiore. Le corporazioni dei Liberi Muratori si proposero delle vere e proprie norme rigorose etiche e professionali e già nel millequattrocento, i centoquindici documenti della Magna Chatta e le Old Charges ricapitolavano princìpi di lealtà, capacità nel lavoro, giusto salario, mutuo soccorso tra fratelli.

In tempi così lontani e difficili appaiono già definiti gli elementi essenziali della nostra scelta: recuperare l’uomo e la società attraverso il mutuo soccorso a livello speculativo ed iniziatico. Predicando libertà, eguaglianza e fratellanza si condannava già allora ogni forma di autoritarismo, terrorismo ideologico e religioso, già allora si rivendicavano la libertà associativa, di parola, di stampa, l’abolizione della censura laica ed ecclesiastica, la libertà della servitù della gleba; allora si lottava contro le prevaricatorie condanne senza regolari processi, si richiedeva infine cultura e cultura laica nel significato più ampio di ricerca e gnosticismo. Desaguliers, antipapista, si battè per la tolleranza della libertà di coscienza, condannò l’ateismo e definì Dio « Grande Architetto dell’Universo ».

Se ci riportiamo ad oggi, i fatidici corsi e ricorsi storici sono più che mai attuali! Il dubbio riaffiora solamente quando impietosamente ci guardiamo dentro per chiederci se siamo sempre preparati, se abbiamo bene impiegato il nostro tempo con squadra e livella per essere sempre pronti a difendere quanto abbiamo, per giuramento, scelto.

possiamo tentare di controbattere l’azione di coloro che rivendica. no posizioni di potere in nome di falsi progressismi, legalitarismi, in nome di false eguaglianze e fratellanze e di falsi ordini sociali. È ancora il singolo fratello che deve, con la propria formazione e posizione, vivere quotidianamente la vita massonica intesa come ripresa di movimento universale. A queste condizioni la massoneria può riproporre le proprie rigorose norme etiche, professionali e morali: lealtà, capacità, mutuo soccorso. Il Libero Muratore deve inserirsi o reinserirsi nei problemi attuali e vivi, nella Scuola, nei rapporti tra Stato Chiesa e cittadini, nelle rivendicazioni per gli ordinamenti a tutela delle libertà sociali e della giustizia. Può e deve affrontare la moralizzazione della società, rispettando le esigenze, le realtà etiche e razziali dei singoli paesi ed ordinamenti dei gruppi etnici e delle nazionalità. Rilevante dovrebbe essere l’impegno per una difesa da ogni e qualsiasi compromesso con ogni politica improvvisata, possibilistica, aleatoria ed opportunista, priva di morale, le cui riserve si riassumono in quel tipo di potere che è forza e violenza, sopraffazione ed egemonia, disprezzo per l’individuo.

Sentendo aggettivare la parola Libertà (democratica, progressista legittimista e chi più ne ha più ne metta) il Libero Pensatore deve reagire ricordando che libertà e lealtà sono quelle richiamate da un certo giuramento. Il resto è equivoco!

Se non possiamo realizzare Giustizia, quasi utopistica aspirazione umana, potremo almeno fare in modo che la violenza e la forza, più che mai sostenitrici dell’ingiustizia, trovino contrapposizione nella Morale.

Abbiamo fiducia nelle parole del vecchio Seneca: Homo sacra lex homini! Fino a quando il nostro simile ci sarà sacro e sapremo rispettare le Sue libertà, Noi resteremo uomini liberi e cioè liberi pensatori e potremo fare argine ai negatori delle libertà. E da  uomini liberi potremo scongiurare e combattere roghi, emarginazioni, torture, oppressioni, genocidi, violenze, dogmi e immoralità. Vogliamo concludere citando le parole del Gran Maestro riportate in una recente balaustra.

Dobbiamo aver fede nell’umano Evoluzionismo, che consegue al Progressivismo della nostra grande Dottrina. E raccoglierne ogni sforzo, nostro ed altrui, affinché l’attuale convulso ed anarchico pluralismo si muti in una ordinata Armonica articolazione, rispettosa dei diritti di tutti e di ognuno non meno che ossequiente agli insopprimibili doveri, che presuppone una ordinata convivenza sociale.

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VIGILANZA E PERSEVERANZA

VIGILANZA E PERSEVERANZA

All’interno del Gabinetto di Riflessione compaiono numerosi disegni, oggetti e scritte che rispondono a diverse funzioni simboliche.

In particolare questa sera ci limiteremo ad approfondire il contenuto delle due frasi poste sulla parete EST:

  • VIGILANZA E PERSEVERANZA
  • SE PERSEVERI SARAI PURIFICATO DAGLI ELEMENTI, USCIRAI DALL’ ABISSO DELLE TENEBRE: VEDRAI LA LUCE

La loro lettura ci comunica i compiti del futuro massone. Ovvero i doveri di colui che vorrebbe essere iniziato.

Perseverare: il termine, ripetuto due volte, è molto indicativo del tipo di strada che si dovrà percorrere, una strada in cui occorrerà “tenere duro”, superare ostacoli, forze ostili, prove che metteranno in luce tutta la forza d’animo di cui dispone l’iniziando.

Essa si esplica nella misura necessaria a fronteggiare momenti di sconforto e di disillusione, momenti di cedimento e di insicurezza. E il necessario antidoto che ci si autoprescrive per vincere le tentazioni che tendono ad allontanarci dai propositi assunti.

Una via in cui occorre perseverare non è sicuramente una via facile né rapida e noi, che iniziandi non dovremmo più essere, sappiamo bene come sia semplice perdersi, o fermarsi, accontentandosi dei primissimi risultati, gabellandoli per grandi ed importanti.

Il rischio è evidentemente duplice; c’è chi abbandona la strada, sceglie altre vie, o si ritira nel suo orticello fatto di famiglia, lavoro e amici. Andare “in sonno” ci sembra, in questo caso, un termine particolarmente azzeccato.

Ma esiste un rischio più subdolo che corrono coloro che in sonno non sono: la “veglia apparente”. Ovvero frequentare, seguire con interesse, esprimere in Loggia commenti centrati ed intelligenti, ma non riuscire a cambiare in nulla, a modificare se stessi. Senza quindi avanzare lungo quel cammino di crescita, unica vera ragione della nostra presenza in questo Tempio.

Essere insomma dei perfetti massoni il giovedì sera e perfetti profani gli altri giorni della settimana.

Questa situazione rappresenta un vero e proprio nodo che, in misura diversa e con tonalità differenti, prima o poi dobbiamo affrontare e superare.

Una delle cause, forse la principale, è la mancanza di consapevolezza; noi siamo convinti che la Massoneria sia una strada che porta alla Luce: “uscirai dall’abisso delle tenebre e VEDRAI LA LUCE”; la frase è molto chiara, tuttavia sembra che questa convinzione non raggiunga realmente il profondo del nostro animo, tanto da convincerci a modificare i nostri ragionamenti e comportamenti.

In questo ambito ecco I ‘importanza della VIGILANZA.

Riteniamo corretto considerare questo termine come sinonimo di attenzione, concentrazione, prudenza, ma anche furbizia.

Mentre la perseveranza intervienc soprattutto in maniera episodica e cioè nel momento della sua necessità, la vigilanza deve agire in maniera dinamica e continuativa. Deve funzionarc come una regia, per monitorare il nostro comportamento,

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modificandolo di continuo, adattandolo, variandolo, per renderlo il più possibile aderente alle esigenze del percorso intrapreso.

Il tipo di vita che svolgiamo è un sintomo evidente di mancanza di Vigilanza.

Molti anni fa, in Cina, un giovane monaco chiese al suo maestro zen: “che cos’è l’illuminazione? A cosa assomiglia secondo te?”. Il maestro rispose. “Quando mangio, mangio. Quando dormo, dormo”.

Quando mangiamo stiamo davvero mangiando? O come spesso capita pensiamo a tutt’altro? Sovente siamo troppo occupati, a correre di qua e di là, in fretta, dimenticando di restare in contatto con quello che siamo e che stiamo facendo. A volte inseguiamo mere illusioni che ci appaiono reali e viceversa rimuoviamo il fine vero della nostra esistenza che percepiamo con visioni da sognatore.

Questo capovolgimento di valori è causato da mancanza di attenzione e di consapevolezza; tale mancanza provoca ripercussioni dirette su tutti gli aspetti dell’esistenza umana, dalle chiavi smarrite, alle vite sbagliate, all’assenza di crescita spirituale.

La consapevolezza di essere massoni ogni giorno, ogni ora, forse può essere una tappa importante del nostro cammino.

Fratelli e se cominciassimo “adesso”?

Perseverare e vigilare in ogni “nanosecondo” della nostra esistenza; questo è quello che ci viene chiesto, in fondo è molto semplice, senza deprimersi per ostacoli, difficoltà e debolczze, ma senza mai abbandonare la Via con la serenità di chi sa che solo il “crescere” da un senso alla nostra vita.

Per meglio chiarire il significato di Vigilanza e Perseveranza si allegano ala Tavola alcuni brani tratti da testi tradizionali. Abbiamo preferito far parlare direttamente coloro che, avendo speso una vita intera di ricerca, hanno potuto e voluto condensare in poche righe il frutto di una conoscenza sapienziale che le nostre parole non avrebbero saputo trasmettere.

18 febbraio 1999 dell’e:.v:. (1 0 grado)

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Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà svegli. In verità vi dico che si cingerà, li farà accomodare a tavola e si metterà a servirli. Che se ne dovesse arfivare anche alla seconda o alla terza vigilia e li trovasse così, beati loro. Sappiate però anche questo: che se il padrone di casa sapesse in che ora viene il ladro, non gli lascerebbe aprire un buco nella sua casa. Voi dunque tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo viene in un’ora che voi neppure supponete.

Luca 12, 35

Per quanto, poi, riguarda il tempo ed il momento preciso, voi fratelli, non avete bisogno che vi scriva. Voi stessi, infatti, sapete molto bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro di notte. Proprio quando la gente dirà “pace e sicurezza”, improvvisa piomberà su di essa la rovina allo stesso modo in cui arrivano alla donna incinta i dolori del parto. E non ci sarà scampo. Ma voi, però, fratelli non siete nelle tenebre perché quel giomo vi possa sorprendere come un ladro; voi tutti infatti siete figli della luce del giorno. Noi non siamo figli della notte e delle tenebre. Non stiamo, dunque, a dormire come gli altri, ma vigiliamo nella sobrietà. Paolo, Prima lettera ai tessalonicesi 5,1

Come il fabbro ha bisogno di portare sempre il martello in mano, per via della materia che lavora, così purc l’uomo virtuoso ha bisogno della fortezza, come un martello spirituale per via delle difficoltà insite nella via della virtù. Luis De Granada, mistico spagnolo del XVI secolo

Non sarebbe sciocco colui che, uscito con altri per correre la giostra, per essere caduto nel meglio della corsa, se ne stesse per terra piangendo ed affliggendosi a ragionare della caduta?

Su, non perdere tempo, gli direbbero, alzati e riprendi a correre, perché chi con rapidità si rialza e continua la sua corsa è come se non fosse caduto. Miguel De Molinos, mistico spagnolo del XVI secolo

Credere con leggerezza è leggerezza di cuore.

Promettere facilmente è perdere la libertà.

Concedere facilmente è avere di che pentirsi.

Decidere facilmente è mettersi in pericolo di sbagliare.

Faciloneria nel conversare è causa di disprezzo.

Facilità nell’ira è indizio di follia.

Miguel De Molinos

Prudenza è anche saper temere e saper attaccare. Sapere quando è guadagno il perdere e quando è perdita il vincere. Saper disprezzare i giudizi e le opinioni del mondo ed i latrati dei cagnolini che non smettono mai di abbaiare indiscriminatamente e senza proposito. Luis De Granada

Prudenza è non fidarsi di tutti, né rovesciare subito il proprio spirito nel calore della conversazione, né dire subito tutto quello che si pensa delle cose. Chi si fida di colui di cui non deve fidarsi vivrà sempre nel pericolo e ne sarà schiavo.

Luis De Granada

Le citazioni di Luis De Granada e Miguel De Molinos sono tratte dal libro “La saggezza dei Mistici spagnoli” Ed. Guanda 1990

Ascolta adesso la descrizione di quello yoga che pcrrncttc di agire senza essere legati alle azioni. Quando questa intelligenza ti guiderà, o figlio, potrai spezzare la catene del karma. Per chi segue questa via, nessuno sforzo è vano, nessun vantaggio acquisito sarà mai perduto; il minimo passo ci libera dalla paura più temibile.

Chi marcia su qucsta via è risoluto è risoluto nel suo sforzo ‘e persegue un unico scopo; invece, o figlio amato dei Kuru, l’intelligenza di chi è privo di questa fermezza si perde in molti sentieri obliqui.

Bhagavad-Gita Cap. 2, 36-41

Che si faccia o no della propria vita qualcosa di buono e di degno, il tempo non attende, continua a scorrere. E non solo il tempo scorre senza posa, ma di conseguenza anche la nostra vita continua ad avanzare, Se qualcosa non è andato come doveva, non possiamo tornare indietro e ricominciare da capo. In questo senso, non ci è mai data una seconda possibilità. È dunque essenziale che il praticante di una vita spirituale esamini costantemente i suoi atteggiamenti e le sue azioni. Se sorvegliamo noi stessi ogni giorno con mente attenta e vigile, controllando i nostri pensieri, le nostre motivazioni e le loro manifestazioni nel comportamento esteriore, possiamo aprire dentro di noi una possibilità di mutamento e miglioramento.

Dalai Lama “La via del buddhismo tibetano” Mondadori 1996 pag. 4

II nobile ottuplice sentiero è il sentiero di una vita consapevole. È basato sull’attenzione. Praticando l’attenzione, puoi potenziare la concentrazione che ti permette di an-ivare a capire. Grazie alla retta concentrazione, realizzi la retta consapevolezza, retti pensieri, parole, azioni, mezzi di sostentamento e sforzi. Arrivando a capire puoi liberarti da tutti i ceppi della sofferenza e generare pace e gioie autentiche. Thich Nhat Hanh, Old Path With Clouds citato da Lama Surya Das “gli otto gradini” Mondadori 1998 pag. 239

Nell’ambito de “I King, il libro dei mutamenti” le frasi “propizia e perseveranza” “perseveranza reca salute” sono presenti in almeno 30 dei 64 esagrammi. A titolo di esempio riportiamo:

Esagramma no 1

KKIENN – IL CREATIVO

SOPRA KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO

SOTTO KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO

LA SENTENZA Il creativo opera sublime riuscita, Propizio per perseveranza

L’IMMAGINE

Il moto del cielo è vigoroso.

Così il nobile rende se stesso forte ed instancabile.

Esagramma no 13

TTUNG JENN – LA COMPAGNA FRA UOMINI SOPRA KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO

SOTTO LI, IL RISALTANTE, IL FUOCO

LA SENTENZA

Compagnia fra uomini all’aperto: riuscita.

Propizio è attraversare la grande acqua. Propizia è la perseveranza del nobile.

L’IMMAGINE

Il cielo insieme al fuoco.

L’immagine della compagnia fra uomini.

Così il nobile ripartisce le stirpi e distingue le cose.

Esagramma no 58

TUI, IL SERENO, IL LAGO SOPRA TUI, IL SERENO, IL LAGO SOTTO TUI, IL SERENO, IL LAGO

LA SENTENZA

Il sereno. Propizia è perseveranza.

L’IMMAGINE

Laghi poggiati l’uno sull’altro.

L’immagine del sereno.

Così il nobile si riunisce con i suoi amici Per discutere e per imparare.

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