Il gruppo di studio si è
preoccupato di individuare la categoria «simbolo» in contrapposizione ad altre
figure conoscitive — come il segno, l’allegoria o la metafora — concludendo che
il simbolo ha una • forza propria, insita nella potenza di ciò che esprime,
comunque al di là della sua capacità di unire un significante con un
significato. La prosecuzione della ricerca si indirizzò poi verso il tentativo
di individuare simboli primordiali, cioè comuni a tutte le civiltà,
identificati nella Pietra, nella Caverna, nella Croce, nel Triangolo, nel
Quadrato e nel Cerchio.
Applicazione pratica della metodologia e dei risultati
conseguiti fu, infine, l’analisi, a tre livelli, della simbologia di alcuni
arcani del Tarocca.
La volontà che sta
alla base di questo lavoro è stata precisamente quella di continuare lo studio
dei simboli primordiali, esaminando la simbologia dei numeri.
Per scelta unanime dei Fratelli si è partiti dallo ZERO.
Questo simbolo, infatti, si manifestò subito con una
potenza ed una ricchezza di immagini tale che il gruppo stabilì la necessità di
un suo esame approfondito. Studio preliminare a quello sui numeri e congruo con
esso, studio che ha prodotto questa tavola.
Data la complessità dell’argomento, per maggiore
chiarezza e facilità di lettura, forniremo immediatamente lo schema del lavoro,
che si compone di due parti.
Nella prima parte, a carattere «polemico», ci si
proverà a confutare le opinioni ed i pregiudizi correnti intorno allo zero.
Esso verrà perciò esaminato:
Nelle
accezioni derivate dal linguaggio e dal pensiero comune.
Dal
punto di vista matematico (lo zero non è un numero).
Dal
punto di vista filosofico (lo zero non è simbolo del nulla).
Nella seconda
parte, a carattere affermativo, si esamineranno invece: 1) La storia e le
rappresentazioni grafiche dello zero.
2) Sulla scorta di ciò, quale possano essere le più corrette
conclusioni sull’interpretazione della sua simbologia.
51
PARTE PRIMA
Lo zero nel linguaggio e nel
pensiero comune
Nelle definizioni fornite dalle enciclopedie, lo zero è
indicato come sinonimo del vuoto, dell’assenza, del nulla.
Abitualmente, la più comune immagine dello zero è quella
aritmetica. Esso è considerato il numero cardinale che esprime la mancanza di
qualsiasi unità e che non è successivo di altri numeri.
ln algebra è anche immagine del limite che divide la serie
dei numeri positivi dai numeri negativi.
Lo zero può anche indicare il termine di un’attesa e l’inizio
di una nuova attività, cosa evidente specialmente nel conto alla rovescia
La sua accezione più comune rimane, tuttavia, quella
di nulla. Ciò che non ha dimensione, peso, valore è definito zero. Non a caso i
Tedeschi lo chiamano «null»,
Tutto ciò è particolarmente evidente se facciamo riferimento
alla cosiddetta saggezza popolare, soprattutto ai detti ed ai proverbi, quali:
L’«ora zero», cioè la mezzanotte.
«Meriti zero», cioè «niente».
«Opinione che vale zero», cioè «nulla».
«Non capisci proprio uno zero», di nuovo: «nulla».
Quanto a voi, siamo rimasti a
zero». «Zero più zero fa nulla».
Detti ripresi anche dalla cultura ufficiale:
«… E tanto più che ‘l lor litigio è un zero.
Né degno in prova d’arme esser rimesso…» (Ariosto)
«E le sue genti, che n’aveva tante, furon stimate
d’Alessandro un zero…» (Berni)
Ma se è opinione diffusa che lo
zero sia un numero, e che simboleggi il nulla, forse che per l’ iniziato le
cose debbono pure stare così? E a questo che cercheremo di
dare una risposta.
52
Anche questa
impostazione non è però una novità. Già Platone aveva introdotto, nella sua
filosofia, un concetto di NULLA non più ASSOLUTO, ma RELATIVO.
Infatti egli diceva — ogni qualità delle cose NON È
un’altra.
E cioè, il movimento è il NON-ESSERE della quiete, la
quiete è il NON-ESSERE del movimento, ecc. 11 NON-ESSERE negato da Parmenide
sembrerebbe per un attimo ricomparire (Platone stesso ironizzava di un suo
«parricidio» nei confronti di Parmenide…).
Ma è evidente che
quest’altro NON-ESSERE non ha più significato assoluto (il NULLA), bensì
relativo: è la negazione di una qualche cosa che implica, nello stesso tempo,
l’affemzazione di un QUALCOSA d’altro. Non c’è una cosa, ma ce n’è un’altra.
La filosofia moderna, pur accettando questa
relatività, va ancora oltre. Negando anche l’esistenza di questo qualcosa
d’altro, dà al NULLA un puro valore logico-linguistico, riducendolo ad ASSENZA
di un qualcosa che ci poteva essere, a NEGAZIONE Dl UNA POSSIBILITÀ Il concetto è molto semplice.
Per il filosofo Henri Bergson si DICE che «non c’è nulla» quando non c’è la
cosa che aspettavamo di trovarci o che poteva esserci. D’altronde anche per
Bergson l’Idea del NULLA ASSOLUTO è altrettanto assurda di quella di un circolo-quadrato:
è una «pseudo-idea»…
Questa tesi è quindi conforme al concetto che della
NEGAZIONE hanno i logici contemporanei. CARNAP afferma che la sola nozione di
NULLA logicamente corretta è appunto la negazione di una possibilità
determinata.
Dire «Non c’è nulla fuori» equivale a dire «Non c’è
qualcosa che sia fuori». Ma dal momento che la negazione che qualcosa sia fuori
implica che qualcosa potesse essere fuori, la negazione, è, in questo senso,
l’esclusione di una possibilità determinata.
Se dunque il NULLA ASSOLUTO non esiste, anche il
NULLA RELATIVO viene contestato nella sua essenza e ridotto al rango di puro
SEGNO LINGUISTICO.
Tornando allo zero, possiamo quindi trarre una
seconda conclusione: oltre a non essere simbolo del NULLA, lo zero si conferma
SOLAMENTE SEGNO DELL ‘ASSENZA Dl QUALCOSA, in perfetto accordo con quanto
dedotto dal suo impiego matematico.
56
Lo zero dal punto di vista matematico
(lo zero non è un numero)
E ovvio come i numeri, proprio perché crescono
all’infinito, non possano concludersi con un «numero infinito».
È, dunque, altrettanto ovvio come i
numeri, che pure all’infinito decrescono, non possano concludersi con un
«numero nullo».
Non è, infatti, ammissibile
l’esistenza di un «numero infinito» (il più grande dei numeri), così come di un
«numero nullo» (il più piccolo di essi). Lo zero, che rappresenta l’assenza di
ogni quantità, non è quindi un numero.
Parlare di «Zero di grandezza» è
perciò contraddittorio, Infatti esso sarebbe ancora una grandezza, e
risulterebbero tanti zeri quante sono le varie specie di grandezza.
In realtà non può esserci che lo zero puro e
semplice, che è la negazione di ogni grandezza e di ogni quantità.
Quanto
allo zero metafisico, che è il Non-essere, esso non è lo zero di quantità più
di quanto l’Unità metafisica che è l’Essere, non sia l’unità aritmetica.
Noi spesso assimiliamo una quantità, per noi
trascurabile, all’assenza di ogni quantità. Ma ciò che è nullo per un aspetto,
può non esserlo per altri. Per esempio il punto, essendo indivisibile è per ciò
stesso non esteso, viene considerato spazialmente nullo: nondimeno è il
principio di ogni estensione.
I matematici considerano lo zero un
puro nulla, ma lo ritengono — per contro — dotato di potenza infinita.
Infatti, posto alla destra di una
cifra «significativa», contribuisce a formare un numero che, per la ripetizione
degli zeri, può crescere indefinitamente. Mentre, posto — in unione con la
virgola — alla sinistra di detta cifra, contribuisce a formare un numero che
può decrescere — per la ripetizione degli zeri — altrettanto indefinitamente.
Lo zero è, quindi, comunque necessario per
indicare — aggiunto alle cifre — dei valori numerici.
Numerosi potrebbero essere gli esempi sulla potenza
dello zero matematico.
53
Lo zero è, dunque un segno convenzionale matematico che
indica solo l’assenza di ana certa quantità: e quindi — per ciò stesso — non è
un numero.
Lo zero dal punto di vista filosofico (lo zero non è simbolo
del NULLA)
La Filosofia, nella sua storia, ha considerato lo zero
sotto due angolazioni:
1). Dal punto di vista matematico.
2). Dal punto di vista metaforico, come sinonimo del
NULLA.
Quanto al primo punto, lo si è appena trattato, per
concludere come lo zero non sia un numero, ma solo un segno convenzionale
matematico.
Per quel che riguarda il secondo, lo zero come metafora
del NULLA, lo chiariremo adesso esaminando quale valore sia da darsi al concetto
stesso di NULLA.
La più antica e conosciuta concezione di NULLA la troviamo
nel greco Parmenide, filosofico vissuto nel v secolo avanti Cristo, che lo
chiama NON.ESSERE.
Egli affermò che «I’ESSERE È e il NON-ESSERE NON È», vale a
dire che il Principio, l’Infinito (l’Essere) esiste, mentre il Nulla (il
Non-Essere) non può esistere.
Ed infatti, se esso esistesse, sarebbe un limite
all’Essere stesso, che quindi non sarebbe più infinito. Gorgia, filosofo greco
sofista, portava il discorso ancora più in là. Se il NON-ESSERE esistesse —
diceva — il Tutto, l’Infinito, risulterebbe composto dalla somma di Essere e di
Non-Essere, cosa che è una contraddizione in termini… Questi semplici
concetti sono rimasti alla base di tutto il pensiero occidentale. Noi stessi,
che crediamo nel G.A.D.U., possiamo immediatamente verificare come
l’affermazione stessa dell’esistenza di Dio, o di un Principio, escluda
automaticamente la possibilità dell’esistenza di un qualsivoglia NULLA
alternativo o limitativo.
54
A questa conclusione arrivano, oltre alle Scuole
Filosofiche, anche le Religioni e le Vie iniziatiche.
Se dunque il NULLA ASSOLUTO, non può esistere, perché
tuttavia è presente nella mente dell’Uomo?
Perché è un’IDEA.
E quello che dice Cartesio quando afferma che il
NULLA è «quella IDEA NEGATIVA DELLA MENTE con la quale ci si rappresenta ciò
che è infinitamente lontano da ogni sorta di perfezione», in opposizione alla
REALTÀ di Dio, «somma di tutte le perfezioni». «CONCETTO VUOTO SENZA OGGETTO»
10 definisce pure Kant. Del NULLA, così inteso come IDEA, è stato fatto uso
prevalentemente teologico e metafisico.
Giocando sulla metafora, si è addirittura talora
affermato che il NULLA è DIO STESSO. Ma ciò è da intendere così: la natura di
Dio è talmente al di là delle cose che qualunque nostro pensiero è inadeguato a
conoscerlo.
Egli è quindi ciò che è oltre il limite della nostra mente. NULLA per la nostra
mente. Si esprime così metaforicamente la negazione di tutte le forme
d’esistenza conosciute, ritenute inadeguate alla natura di Dio. E questo il
motivo per cui nella ZOHAR (il «libro dello Splendore della Kabbalah ebraica)
Dio viene indicato come il « Nulla» o il « Nulla del Nulla» o «Quintessenza del
Nulla».
Un «Nulla super-essente» è definito Dio da Meister Eckart;
un «Nulla Eterno» da Jacob Bôhme.
Posta in tali
termini, la questione è rimasta tale fino ai nostri giorni. IL NULLA ASSOLUTO, non esiste.
Esiste solo un «concetto vuoto», o IDEA del NULLA, di cui si fa ampio uso
metaforico. Questo ci porta subito ad una prima conclusione. LO ZERO NON PUÒ
ESSERE SIMBOLO DEL NULLA, se non nel linguaggio co-
mune.
Infatti il
simbolo è il tramite fra l’ Uomo ed una REALTÀ Superiore. Ma il NULLA non
esiste, e quindi lo zero non può esserne il simbolo.
La filosofia moderna, meno sensibile ai
problemi metafisici, si è orientata a studiare il NULLA maggiormente sotto
l’aspetto logico-linguistico.
Giorni fa mi sono imbattuto per caso in un episodio accaduto tanti
anni fa in Russia ad un nostro soldato. Si chiamava Bruno Bellini ed era
artigliere nel 1210 Rgt. Artiglieria, inquadrato nella gloriosa e
sfortunata divisione «Ravenna», l’unità che sul finire del 1942 fu fortemente
impegnata ad arginare nella grande ansa che compie il Don a Mamon, lo
sfondamento delle linee alleate tedesche. Da lì, infatti, irruppero nella
steppa russa le colonne corazzate di Stalin. Leggendo per pura curiosità il
fascicoletto giudiziario relativo al fatto che narrerò, sfogliando quelle
lettere, quegli appunti, quei verbali; osservando quei vecchi timbri di comandi
militari, quelli con lo stemma sabaudo; toccando quelle veline, rese ancora più
trasparenti dal tempo e stilate a mano perché non sempre in prima linea il
furiere poteva adoperare la macchina da scrivere; riconoscendo quelle località
indicate da un numero e dalla sigla PM, tutto quel sentore di antico trasudante
dai fogli stessi, mi è sembrato quasi che i personaggi della vicenda uscissero
fuori dalla carta e si mettessero tutti in riga con un atteggiamento dolente e
paziente nello stesso tempo, per ricordare a me, rappresentante di un mondo
così lontano da loro nel tempo e nello spazio, che la Giustizia dell’uomo è
spesso e soltanto pura velleità. La vera Giustizia ha la sua sede altrove,
sicuramente in un altro mondo e, certamente, è più giusta.
Una cosa mi è sembrata che dovessi assolutamente
fare: quegli episodi dovevano essere narrati, portati a conoscenza di altri
uomini in modo che servissero da monito e sprone a migliorarci. Ma andiamo per
un attimo agli anni 1942-43, quando la nostra migliore gioventù, i nati negli anni
dal 1919 al 1923, venivano sparsi su tutti i fronti di guerra.
La partecipazione dell’Italia al conflitto contro
la Russia, come noto, fu voluta espressamente da Mussolini per coerenza alla
propria ideo-
Il suo sentimento antibolscevico e quindi, secondo
lui, quello di tutti i fascisti, era da considerarsi «assoluto, granitico,
inscindibile». In
effetti, anche se non tutti gli
italiani erano fascisti, e quindi una buona parte di essi non condividevano il
suo pensiero, il Duce aveva buon gioco in quanto in quel periodo cavalcava un
diffuso sentimento «anti» nei confronti di Stalin perché gli italiani mal
tolleravano l’invasione della Finlandia. Così la nostra partecipazione al
conflitto fu agevolata e nel giugno del ’41 fu deciso di far partire il CSIR,
corpo di spedizione in Russia. L’esaltazione delle vittorie del momento
inebriarono un po’ tutti, non soltanto Mussolini, certamente il primo, ma non
il solo responsabile del nostro disastro militare. E le facili vittorie
iniziali illusero anche Hitler che non seppe valutare non solo le forze nemiche
che aveva di fronte ma anche il fatto che la ritirata di Stalin era una mossa
strategica in attesa di concentrare le proprie forze in determinati punti del
territorio e quindi, logorati uomini e materiali del nemico, contrattaccare
decisamente in profondità.
Infatti, di lì a pochi mesi,
nella dura e spietata steppa russa verranno sacrificate le migliori forze
operative germaniche e la migliore, in assoluto, nostra Armata in terra
straniera. Premesso ciò, veniamo ai fatti. Il 25 settembre del 1942 (XX
dell’Era Fascista, come si scriveva un tempo), in territorio russo, esattamente
nella zona assegnata alla 8 a Armata sul fronte del Don, il Generale
Procuratore militare del Re Imperatore Vittorio Emanuele III (Dio guardi),
Generale Leone Zingales, emetteva un ordine di comparizione per citazione
diretta a carico di due artiglieri del 121 0 Rgt. A. della divisione
«Ravenna», imputati del reato di BUSCA (art. 188 del Codice Penale militare di
Pace e di Guerra), per essersi impossessati senza necessità od autorizzazione,
1’8 settembre 1942, di una capra mentre era al pascolo nelle campagne tra
Gadiutschie e Filonovo, in danno della suddita russa Maria Petrovna, nonché di
tre capre in danno di Oksarino Markoma e di altre capre in danno di Poroskovie
Martina. In tutto otto capr.e. Questi due artiglieri corrispondevano al nome di
Bruno Bellini da Monzambano (Mn) e Carlo Roversi da Voghenza (Fe). Il primo
classe 1921, il secondo classe 1919.
Sembrerà strano e fuori tempo leggere, oggi, questo
fatto, dopo la fine della guerra, la ricostruzione dell’Italia, gli anni del
boom, il ’68 ed i falsi profeti di quell’anno che portò poi agli anni ’70 ed al
terrorismo, gli anni ’80 e la mafia con il Suo potere opposto a quello legale,
il fatidico 1992. Inoltre, a pensare o cercare di immaginare ciò che accadrà di
lì a pochi mesi, un paio di caprette forse sottratte a contadini evacuati per
ricavarne latte fresco al mattino in prima linea, fa solo tenerezza: due mesi
dopo, una marea di T34 sovietici spazzeranno per sempre dalla faccia della
terra centinaia di migliaia di giovani vite. Ed i pochi sopravvissuti patiranno
fame e freddo, pidocchi e malattie, congelamenti e continue diarree per circa
tre mesi, prima di potersi considerare, si fa per dire, in salvo. Comunque la
giustizia militare era severa in fatto di busca ln territorio occupato, tanto
da prevedere nel peggiore dei casi una reclusione militare fino ad otto anni.
E, come vedremo, non serviranno la ritirata, la disfatta, la morte per lo meno
di un imputato a fermare nel tempo la mano della legge, o comunque la
burocrazia. La busca, in gergo giuridicomilitare, è quel reato in cui incorrono
i militari che in guerra, senza necessità, ordine od autorizzazione, si
impossessano di viveri, oggetti di vestiario od equipaggiamento. Chi non ha
letto i libri di Rigoni Stern, di Bedeschi, di Franco La Guidara? Chi di noi
non si è commosso leggendo dei nostri soldati nel gelo, nella neve, braccati
come bestie dai carri armati e dai partigiani, alla continua ricerca per circa
tre mesi, tanto durò la ritirata, di una qualsiasi cosa da mettere dentro lo
stomaco; di una coperta o capanno con cui vestirsi e ripararsi dal freddo. E
quando qualcuno era così fortunato da togliere ad un morto i «valienki», allora
era sicuro di portare la pelle a casa perché non avrebbe subito il congelamento
ai piedi. Con tutto ciò, dopo circa 47 anni, la giustizia dell’uomo mette in
questi giorni la parola fine ai fatti svoltisi in quei giorni di fine estate
del 1942, in una zona compresa fra Gadiutskie e Filonovo, poco più a sud di
quella grande ansa che compie il placido Don, denominata Mamon.
L’ordine di comparizione era scaturito in seguito
alla denunzia effettuata dalla proprietaria delle capre. Il 9 di settembre, di
buon mattino, infatti, si presentò al Comando distaccamento della 7a sezione
mista rifornimenti, dislocata a G., una contadina di 52 anni, tale Maria
Petrovna, nativa di Kumenkin ma profuga in quel paesino, per denunciare la
scomparsa delle sue capre. C’è da dire a tal proposito che
presso la sezione mista rifornimenti divisionale vi era
la sede dei carabinieri che, come noto, costituiscono da sempre la polizia
militare. Il Maresciallo comandante il distaccamento, accompagnato da un
carabiniere, riuscì a rintracciare una capra della contadina presso le cucine
della batteria contro-carro, reparto dei due giovanotti che verranno incriminati.
Da sempre, e questo vale per tutti i reparti mobilitati, in pace ed in guerra,
quando vi sono militari in giro per esercitazioni, sparisce regolarmente
qualche pollo o coniglio, a volte anche un agnello o maiale e questo i
contadini lo sanno benissimo come pure sanno bene che al termine delle
esercitazioni verranno abbondantemente indennizzati. Ora, non intendo dire che
esista una implicita autorizzazione a buscare, soltanto intendo dire che la
giovinezza e la voglia di vivere, a quell’età, sono a volte incontenibili. E
poi in quel periodo, in zona di operazioni, con i regolamenti e le spettanze
viveri dell’epoca che consentivano di consumare il rancio quando era possibile,
non mi sembra proprio il caso che una o due capre dovessero mettere in croce,
militarmente parlando, non solo gli imputati ma anche i comandanti che per la
verità cercarono di ridurre tutto ad un fatto puramente marginale e senza colpa
alcuna per i diretti interessati. Oltre a tutto si deve considerare che i
civili con le loro cose erano stati evacuati dalla prima linea. Forse qualcuno
di loro non aveva avuto il tempo di radunare tutto il bestiame ed era
plausibile che parte di esso fosse sparpagliato per la steppa intento a
pascolare. Comunque nessuno dei soldati presenti seppe dire a chi appartenesse
la capra. Dissero però che era stata condotta dall’a. Roversi, temporaneamente
assente. La contadina riconobbe la sua capra e se la riprese. La cosa sembrava
chiusa ma per il Maresciallo eravamo in odore di busca anche perché, tornato il
pomeriggio dello stesso giorno per interrogare il Roversi, si imbatté in una
seconda capra. Roversi nella dichiarazione disse che le due capre gli erano
state consegnate dal commilitone Bellini per ricavarne latte dalla più vecchia
ed un bell’abbacchio per la batteria dalla più giovane. Mentre il Maresciallo
requisiva anche la seconda capra e la consegnava in affidamento allo starosta,
ecco arrivare trafelata la Petrovna dicendo (tramite l’interprete) che anche
quella capra era sua; anzi, il giorno prima verso le 13,00, mentre era intenta
con una paesana a mungere le vacche, aveva visto un soldato che portava via sette
capre. Si erano messe ad urlare dicendo al soldato di lasciare le capre, ma non
era valso a nulla urlare. Evidentemente quel militare non conosceva il russo.
Il Maresciallo Pala chiese spiegazioni di ciò al Roversi il quale confermò
solamente che lui aveva avuto solo due capre da Bellini. Dalla versione di
Bellini infine risultò quello che dovrebbe essere la verità e cioè: verso le
ore 14,00 del giorno precedente, 1’8 di settembre, mentre rientrava al proprio
reparto da G., trovò in aperta campagna sette capre incustodite, intente a
pascolare. Credendo di fare cosa buona, pensò di portarle al proprio reparto
per ricavarne latte e carne. Non pensò minimamente di commettere un reato anche
perché era una cosa normale tenere caprette, tant’è che se ne trovavano tante
presso altri reparti in linea. Infatti, vicino alla batteria, in un
avvallamento del terreno, si trovavano già altre quaranta capre incustodite.
Dello stesso parere fu il Col. Comandante del reggimento il quale, nella sua
relazione alla Procura militare del Re Imperatore presso il Tribunale militare
della 8a Armata — PM n. 6 di Millerovo, così ricostruì i fatti,
sentiti tutti i testimoni. Il giorno 8 di settembre l’a. Bellini, di ritorno
alla propria batteria da G. ove aveva portato un plico al Comando di
artiglieria divisionale, notò sette capre incustodite in un campo. Poiché in
quei giorni le popolazioni dei paesi prossimi alle linee erano state sgombrate
nelle retrovie, ritenne che le bestie si fossero smarrite durante l’operazione.
Avendo già visto che presso le postazioni della propria batteria, in una grossa
fenditura del terreno (attraversata anche da un ruscelletto) vi si erano
rifugiate una quarantina di capre, pensò bene di condurvi anche quelle che lui
aveva trovate. Giunto nei pressi, incontrò il Roversi il quale gli chiese se
poteva cedergli una capra. Bellini, naturalmente, gliela diede, tanto ce
n’erano tante. E dichiarò di aver visto il giorno successivo Roversi tornare
nella valletta per prendersi altre due capre. Di quanto si era svolto tra i due
artiglieri non ebbero sentore, naturalmente, gli Ufficiali del reparto. Questi
ultimi avevano notato la presenza di numerose capre in una valletta adiacente
la linea pezzi, ma non vi avevano dato peso, ritenendo che le bestie vi si
fossero rifugiate provvisoriamente. Poiché in quei giorni si erano svolte delle
azioni di guerra che avevano assorbito interamente il loro pensiero, non ci
avevano più pensato anche perché, dopo qualche giorno, le capre erano tutte
sparite. Il Comandante concluse dicendo che «in mancanza di prove certe non
sembra che nella fattispecie ricorrano gli estremi del reato di busca nei
confronti dell’a. Bellini, ritenendosi per il momento prematuro pervenire a
qualsiasi conclusione nei confronti dell’a. Roversi che, essendo assente per
malattia, non era stato possibile interro
gare». Elencava infine tutti i documenti che la burocrazia
imponeva e cioè le dichiarazioni, i verbali di interrogatorio, estratti di
punizioni e rapporti informativi. E cosa poteva fare di più il Comandante? A
parte di scagionare il povero Bellini, tentava una giustificazione, cercando di
minimizzare il fatto, tutto qui.
Perché, secondo la logica, non era possibile che gli
Ufficiali ignorassero il vero motivo delle capre radunate nella valletta,
vicino alla linea pezzi. Nessuno me lo toglie dalla testa, ma in quei giorni,
sicuramente, nelle batterie e nel gruppo, al mattino, circolava latte fresco e,
per lo meno la domenica, l’abbacchio in linea era di prammatica. Ma andiamo
avanti. E interessante leggere le note caratteristiche dei due artiglieri
protagonisti della vicenda, perché delineano perfettamente il carattere ed il
modo di agire di due personalità diverse. Bellini, il maggiore indiziato,
quello che in effetti condusse le sette capre ritenute abbandonate, veniva
definito «un elemento che non ha mai brillato per qualità fisiche ed
intellettuali, ma che non è mai stato sospettato di poca onestà». L’altro, il
Roversi, «un elemento con forte volontà capace di assolvere qualsiasi incarico.
Qualche volta prende iniziative che esorbitano le sue funzioni e bisogna fargli
segnare il passo». Due giovani come tanti, diversi di carattere e personalità,
uno intraprendente e l’altro sempliciotto. Nessuna punizione per tutti e due. E
bisogna dire che tale fatto colpisce poiché quelli erano tempi in cui non si
scherzava nel punire anche per futili motivi. Il giorno 16 ottobre, in
Millerovo, presso il Tribunale di Guerra dell’Armata, veniva effettuato il
processo verbale di interrogatorio del solo Bellini. Roversi, il drittone, era
da tempo degente in ospedale per malattia e si trovava nelle retrovie, ben
lontano dal fronte. Fu deciso, quindi, che sarebbe stato sentito al suo rientro
al reparto. Per quanto riguardava Bellini, fu rispedito in prima linea in
attesa del processo. Processo che non si celebrò mai perché, come sappiamo,
Roversi non tornò mai più in prima linea; questa subì un arretramento di circa
duecen-s to chilometri in seguito alla caduta di Stalingrado e
quindi allo sgretolamento del cardine sud del sistema difensivo alleato; molti
reparti si immolarono inutilmente sul posto per cercare di contenere l’avanzata
sovietica e di conseguenza Bellini, che faceva parte di un reparto di
artiglieria contro-carro, sicuramente fu spazzato via nei primi momenti dello
sfondamento. Intanto le operazioni lungo la linea erano riprese con l’inizio
precoce dell’inverno. Una cosa affliggeva soprattutto i nostri soldati: il
freddo. Con la fine dell’autunno l’inverno russo si era fatto sentire con tutta
la sua sinistra potenza. Il gelo aveva solidificato completamente la superficie
del fiume, tanto da permettere ai mezzi pesanti di passarvi sopra.
I nostri comandanti avrebbero dovuto valutare con maggiore attenzione
questa nuova insidia perché la compattezza del ghiaccio sicuramente avrebbe
favorito l’attraversamento di mezzi pesanti, E da mesi dalla parte opposta del
grande fiume, veniva un sordo rumore di motori. Puntualmente, dopo le azioni di
logoramento che si protrassero dal 12 al 15 dicembre, i russi attaccarono in massa
per cinque giorni: dal 16 al 21, i fronti della «Ravenna» e della «Cosseria».
Investirono l’ala sinistra del XXXV Corpo d’Armata e quindi tutta l’ala destra
dell’Armata italiana cioè la 298a tedesca, la «Pasubio», la
«Torino», la «Celere» e la «Sforzesca». La tenaglia piano piano si chiuse ed a
nulla valsero i pezzi da 47/32, i mortai e le mitragliatrici contro la marea
dei T34. I carri, pur colpiti, continuavano a venire avanti, travolgendo pezzi
e uomini e poi indugiavano nel «ballo della morte» cioè spianavano con i
cingoli i poveri resti. Sin dalle prime ore del 16 dicembre la «Ravenna» frenò
eroicamente l’offensiva nemica. Sui capisaldi italiani il morale era alto ma le
perdite furono del 75 per cento degli effettivi. ln quel giorno la divisione evidenziò
un coraggio ed eroismo che ha del disumano. Ogni uomo della divisione era
assillato dal gelo, dalla fame (rancio freddo, quando c’era), dai compagni che
cadevano morti ad uno ad uno, dal martellamento continuo, sistematico dei
bolscevichi. Oggi noi sappiamo che anche se tutti fossero morti al loro posto
(l’altro 25 per cento rimasto, si fa per dire, in vita), le posizioni sarebbero
state tenute ancora per cinque ore. L’artigliere Bellini la notte del 16
dicembre era nell’ansa del Mamon, povero soldatino fessacchiotto e di cuore
buono, messo lì a compiere il suo dovere di uomo e di soldato nel nome di
quell’ideale di Patria che sin dall’infanzia gli avevano inculcato i suoi
genitori analfabeti prima, ed il Re Imperatore ed il Duce del fascismo, poi. Aveva
fame e freddo, si capisce, come tutti del resto ed anche un po’ di paura, ma
solo un po’. Solo gli incoscienti non hanno paura. Davanti a sé aveva l’immensa
distesa gelata del Don, il famoso fiume dei cosacchi. Ad un tratto sul fiume
presero a brulicare enormi carri armati, grandi quanto una casa che lui non
aveva mai visto. Venivano dai fitti cespugli dell’altra sponda ed erano dipinti
di bianco. Attorno a sé i pezzi della batteria sparavano e lui, assieme ai
tanti altri compagni, prese la mira e cominciò a rispondere al fuoco, da buon
soldato con il suo fido fucile mod. 91/38. Nelle giberne aveva ancora tre
caricatori e nel cuore la certezza che ce l’avrebbero fatta perché erano nel
giusto. Questo solo avevano nel cuore in quel momento i nostri ragazzi dell’
ARMIR contro il nemico di allora: la certezza di essere nel giusto. Infatti,
oltre alla inutilità dei mezzi e degli armamenti (basti pensare che la «Julia»
un po’ più a nord effettuava azioni di tiro contro-carro con gli obici
someggiati da 75/14 e spostava in epoca di guerra lampo, i materiali con i
muli), i nostri erano scarsamente equipaggiati, poco vestiti e male armati. Le
fanterie russe avevano tute bianche imbottite, valienki ai piedi e
mitragliatori parabellum nelle mani. Inoltre, erano protetti dai T34 che
creavano letteralmente il vuoto nelle nostre file. I nostri combattevano invece
con normali divise grigio-verdi e cappotto di panno, visibilissimi nel biancore
della neve; alle gambe ed ai piedi portavano fasce mollettiere e scarponi chiodati
i cui chiodi favorivano la penetrazione del gelo attraverso il cuoio. In quei
giorni la temperatura oscillava dai 370 ai 45 0 sotto
zero ed il vento della steppa aumentava l’atroce disagio del freddo. E così,
scarsamente armati ed equipaggiati, senza cibo od altra assistenza, in un paese
decisamente ostile, con la prospettiva di subire continue incursioni di piccoli
nuclei di partigiani (quelli od i famigliari di quelli che fino alla settimana
prima si erano rivolti ai nostri carabinieri per avere ragione di piccoli ed
innocenti furtarelli) , iniziò la notte del Natale del 1942, per i pochi
superstiti che non ri-
masero per sempre laggiù, quella che viene ricordata come la
più terribile ritirata militare di tutti i tempi. Poveri nostri soldati: ogni
assente all’appello deve essere considerato, oggi, un eroe perché in terra
straniera, in quelle terribili condizioni, dimostrarono al nemico bene armato,
vestito ed equipaggiato, cosa vuol dire amor di Patria e spirito di corpo.
L’ultimo loro pensiero fu quello di evitare che le bandiere dei reggimenti
cadessero in mano nemica e se oggi, nei musei di guerra di Mosca non si vede
alcun vessillo tricolore, lo dobbiamo a loro. Per i denigratori di oggi sarà
ben poca cosa, ma per la maggior parte degli italiani, la parte sana, l’onore
significa ancora qualcosa. A tal proposito occorre fare una considerazione. Nel
periodo fra le due guerre, i! regime fascista osannò l’ideale guerriero del
popolo italiano come continuatore ed erede di quello «romano». Tuttavia l’addestramento
e l’ armamento delle Forze Armate non subiranno modificazioni. Cosicché con
l’inizio delle ostilità, nel giugno del ’40, l’Italia era ferma al 1920. Gli
uomini ed i comandanti erano validi, i mezzi e la dottrina erano ancora quelli
della 1 a guerra mondiale. Ma la giustizia faceva intanto il suo
corso ed il 16 di marzo del ’43
ad una precisa richiesta del Procuratore militare, così
scriveva il Comandante del reggimento in merito ai due artiglieri:
PM n. 53 datato 16.03.43.
«I militari in oggetto non possono presentarsi
davanti a codesta procura perché:
— Carlo Roversi, si trova in licenza di convalescenza
di gg. 90 in patria; – Bruno Bellini, è assente dal reparto per fatto d’arme».
Dietro quelle due parole fatto d’arme c’era tutta
l’amarezza di un comandante per la tragedia subita dal suo reparto. Il 24
marzo, implacabile, così rispondeva alla lettera del Colonnello il Generale
Procuratore militare in zona di guerra: «Riferimento vostro foglio in data 16
marzo ’43, pregasi comunicare, appena possibile, se Roversi appena ultimata
ficenza di convalescenza debba ritornare al suo reparto in Russia o se resta in
Patria al deposito. Vorrete con l’occasione dare ulteriori ragguagli sul conto
dell’a. Bellini».
Il 3 aprile, la risposta accorata del Comandante del
reggimento: «Questo Comando non è in grado di precisare se allo scadere della
licenza di convalescenza di 90 gg. l’a. Roversi rientrerà al reparto o resta in
Patria. Date le vigenti disposizioni in
corso si presume che il predetto militare resti in Patria. Sede del deposito il
210 Rgt. Art. motorizzato in Piacenza. L’a. Bellini risulta ancora
assente. Appena si avranno notizie ecc…)». Finalmente la burocrazia (ancora
più inesorabile dei T34) aveva recepito il messaggio ed il 22 aprile,
ufficialmente, Bellini Bruno di Santo e di Natali Anna, nato a Monzambano (Mn)
il 23.05.21, veniva dato disperso «per fatto d’arme» sul fronte russo, la notte
del 16 dicembre 1942.
A questo punto la storia
sembrerebbe finita, invece continua fino ai nostri giorni. Vediamo perché. E
estremamente Interessante, intanto constatare come quel fascicoletto
giudiziario abbia seguito una sua strada attraverso la Russia in fiamme degli
anni di guerra, i mille e mille avvenimenti storici che travolsero uomini e
regimi politici, fino ad arrivare a noi in Torino. Milioni di uomini sono
rimasti per sempre laggiù. Il fascicolo, no. C’è da dire, ad onor del vero, che
la giustizia militare ha sempre
funzionato alla perfezione, in pace ed in guerra, in qualsiasi condizione di
tempo e di ambiente. E la dimostrazione sta in quelle paginette sbiadite dal
tempo che narrano, nelle scarne e crude descrizioni burocratiche,
quell’episodio di «naia» successo nel settembre del ’42. E l’evoluzione, se così
possiamo definirla,
dei documenti contenuti
nel fascicolo sono un chiaro esempio delle difficoltà incontrate, e superate,
dagli operatori della giustizia militare dell’epoca (giudici e cancellieri),
mano a mano che le cose prendevano una brutta piega al fronte e quindi anche la
«giustizia» nel suo complesso era costretta a precedere nella ritirata l’
Armata in ripiegamento. Infatti, i fogli su cui sono stati stilati i vari
documenti sono in buone condizioni fino al dicembre ’42. Subito dopo, soprattutto
nel periodo gennaio-aprile ‘4), in piena crisi prima e nel caos delle retrovie
poi, la carta è scadente, gli appunti sono frettolosi anche se precisi e le
lettere, comprese quelle ufficiali, stilate a mano ed in buona calligrafia come
si usava un tempo. Inesorabile, con il foglio n. 32 del fascicolo, nel 1943,
quindi nell’anno in cui si compirà la tragedia politico-militare del popolo
italiano, il Pubblico Ministero del Re Imperatore, quell’ottimo galant’uomo che
fu il Gen. Zingales, decideva di stralciare il procedimento a carico di Roversi
in quanto questi, poteva essere regolarmente processato e disponeva la
remissione degli atti alla Procura Generale di Roma affinché si procedesse. Non
so se Roversi sia mai stato processato e condannato per quel fatto; credo,
comunque, che, se vivo, non l’abbia sicuramente fatta franca. In ogni caso
questa non è la sua storia e non me ne occuperò più.
Nel 1952, a dieci anni dai fatti
narrati, esattamente il 20 aprile, il Giudice Istruttore, su richiesta del
pubblico ministero del Tribunale militare di Torino (il Tribunale di Torino è
competente per territorio in quanto Bellini era di Mantova), pronunciava
un’ordinanza con la quale ordinava la sospensione del procedimento «insorgendo
il fondato dubbio sull’esistenza in vita dell’a. Bellini». Oramai tanti reduci
erano rientrati in Patria, compresi quelli non caduti in combattimento ma
catturati dal nemico durante il ripiegamento, si erano sciroppati anni ed anni
di prigionia nei gulag siberiani. Quindi, se vivo, anche Bellini sarebbe dovuto
rientrare, ma la vicenda non è ancora chiusa e questo a dimostrazione, sempre
che ce ne sia bisogno, che la «giustizia» della neonata Repubblica non è da
meno di quella che fu del Re Imperatore. Il 2 luglio del 1961 il comune di
Monzambano rilasciava un certificato, sempre su richiesta del giudice
istruttore dell’epoca, in cui si dichiarava ancora una volta che Bellini Bruno
non si era più fatto vivo in paese e quindi esistevano fondati dubbi sulla sua
esistenza in vita. D’altro canto la burocrazia è quella che è: per dichiarare
decaduto un procedimento o chiuso un caso giudiziario, ci voleva la morte del
reo. E questa arrivò, burocraticamente parlando, sul finire degli anni ’80.
Tuttavia, non soltanto perché il reo era
morto. Infatti il 23
giugno 1989, il Giudice Istruttore militare presso il Tribunale militare di
Torino, Dott. Mauro De Luca, emetteva la seguente sentenza, che cito
abbreviandola: «Considerato che Bellini risulta disperso in Russia, ma il
comune di Monzambano ha comunicato in data 13.06.89 che “a fianco
dell’atto di nascita non risulta alcuna annotazione di morte “; che rimane
pertanto il fondato dubbio sulla esistenza in vita; che dall’esame delle
risultanze processuali appare non emergere a carico di Bellini nessuna circostanza
che smentisca quanto dal predetto riferito al magistrato inquirente il 16.02.42
(f. 19 degli atti), ove aveva negato l’addebito affermando che si trattava di
bestiame disperso che si era istintivamente rifugiato per sfuggire ai violenti
bombardamenti in una fenditura del terreno esistente nei pressi la linea pezzi
ove vi erano già una quarantina di capre; che pertanto non può condividere la
richiesta del PM in sede che ha chiesto in data 29.01.87 dichiararsi non
doversi procedere nei confronti del Bellini essendo il reato estinto per venuta
prescrizione; che deve invece prosciogliersi il prevenuto con ampia formula,
dichiara non doversi procedere nei confronti di Bruno Bellini in ordine al
reato di busca in rubrica ascrittogli perché il fatto non sussiste».
Sentenza esemplare, lodevole soprattutto per il senso
di umanità che ispira perché, dopo 47 anni, finalmente la giustizia militare
della Repubblica metteva la parola fine su tutto l’episodio e rendeva giustizia
alla memoria terrena di Bruno Bellini.
Povero artigliere italiano in terra di Russia,
polvere nella steppa, che pur portando in cuore il dispiacere di essere
incolpato di qualche cosa che non avevi commesso, continuasti a sparare
tranquillo contro i carri armati, quella notte di dicembre del 1942, riposa in
pace.
Uno dei cardini fondamentali sul
quale ruota l’insegnamento massonico è quello della «tolleranza». Lo si coglie
e sottolinea già nel rito di iniziazione e questa stessa Rivista pone e risalta
come dedica la bellissima frase di Voltaire, che altro non è se non una sublime
definizione di tale concetto.
Tuttavia, questa virtù è colta
quasi esclusivamente nel suo rapporto con il prossimo, come rispetto delle
altrui idee, fedi, opinioni, ecc. Una sorta di mera «indulgenza» in forza della
quale permettiamo che gli altri dicano o facciano cose discordi dal nostro
sentimento o dalla nostra opinione. Ma una tale esclusiva definizione mi
richiama alla mente il sinonimo di « sopportazione» o, peggio, di
«compatimento». Tolleranza è e deve esser qualcosa di più.
Ed allora mi sembra essenziale
ricercare le radici di tale virtù dentro confini più intimi, all’interno cioè della nostra coscienza. Esser
tolleranti con il prossimo significa esser prima tolleranti con se stessi.
Quante volte prima di «ascoltare gli altri» (o, peggio, di parlare «agli
altri»), ascoltiamo invece noi stessi? Quasi mai, almeno in modo autentico. E
sarebbe il primo lavoro che un Massone dovrebbe fare (si pensi al silenzio
dell’ apprendista, al lavoro di levigatura della pietra grezza, ecc.). Questo
non indifferente sforzo introspettivo volto, prima, a riconoscere le nostre più
profonde radici e, poi, a «tollerarle» mi sembra di fondamentale importanza,
La cosiddetta «normalità» spesso
infatti consiste nel poter usare quel tanto di difese inconsce, quel tanto di
negazione e di onnipotenza che permette di non riconoscere la nostra
insufficienza e di nascondere e rifiutare i dati più autentici del nostro lo.
Non è quello che noi facciamo quando inseguiamo fantasie di successo costruendo
fantasmi e mete inconsistenti ed utilizzando soprattutto il lavoro come
tossicomani, un lavoro talora altrettanto mortale e con gli stessi problemi di
overdose e di astinenza?
Inevitabile quindi l’insorgere di quel senso di insicurezza
che così diffusamente disorienta l’uomo contemporaneo. Nel contempo proprio la
società industriale in cui vive tale uomo ha un pessimo rapporto con
che in questa compendiata analisi, esporre la materia
in rigidi comparti: non è infatti della storia procedere alla costruzione di
sistemi, ma fare attenzione alle sfumature. Tuttavia questa pur breve ed
incompleta rassegna di voci e di testi ci permette di conoscere una evoluzione
del significato che l’uomo ha dato al Destino nel corso di qualche secolo,
evoluzione spesso contraddittoria e mai definitiva. Oggi fortuna vuol dire
ricchezza: nel Rinascimento e ancor più nel Medioevo significava forza maligna
da subire o da combattere ed eventualmente avvantaggiarsene. Fortuna era intesa
come «fortunale» (dal francese fortune de mer) vale a dire quel termine faceva
pensare più ai rischi incresciosi della navigazione che non al cumulo di
ricchezze (come, ripeto, oggi noi la intendiamo).
Nelle indicazioni da me date, nei numeri 49 e 50 di
“NuoVa Delta”
su un possibile modo di levigare la pietra, era compresa
l’affermazione che la meditazione era via maestra al lavoro di sgrossatura. Ma,
naturalmente, ogni indicazione circa la meditazione, dissi, resta lettera morta
finché questa non viene conosciuta e praticata. Quest’aspetto esperienziale,
però, nessuna lettura ce lo potrà far vivere. Tuttavia, a volte, capita che un
felice fortuito incontro, fra una lettura adatta e una disposizione
momentaneamente ricettiva dell ‘animo. possa costituire l’evento fecondante per
la nascita di un interesse, e magari di una pratica.
E per questo che provo a proseguire quest’opera
divulgativa sulla rivista, sorretto dalla speranza di “felici fortuiti
incontri”. Ma, anche se potrò tutto al più stimolare, per il momento, solo
una curiosità, riterrò già questo un risultato sufficiente.
Capita raramente di udire raccomandazioni alla pratica meditativa in
massoneria. Io personalmente lo ho trovato solo una volta, in un libro di
Francesco Brunelli, Principi e metodi di massoneria operativa, edito da
Bastogi. Ma so che la pratica, collettivamente, durante le tornate, una R.L.
del GOI della mia città. Li invidio molto. Spiace, infatti, e sorprende, che un
metodo così efficace sia sconosciuto a chi percorre una via di perfezionamento.
Certo la meditazione non è pratica per tutti, anche se è alla portata di tutti.
I massoni sono tuttavia una classe di persone selezionate e questo mi fa
ritenere che almeno la metà degli iniziati avrebbe attitudine a servirsi di
questo strumento, che, ripeto, è alla portata di chiunque abbia la volontà di
intraprenderla.
Per essere più chiaro e convincente in questa sede
farò solo un esempio specifico: illustrerò come opera la meditazione per
rendere l’ adepto (della meditazione) capace di tolleranza. La tolleranza
dovrebbe svolgere un ruolo centrale nella vita massonica. Ritengo inoltre che
la tolleranza non scenda mai dal cielo come una grazia, ma che vada sviluppata
con un lavoro individuale lungo e paziente. Un lavoro di gestione della rabbia.
Ritengo però la rabbia un tema delicato, da non
lasciare ad una gestione sprovveduta o superficiale.
Ci sono infatti tre modi per trattare la rabbia: uno giusto e
due sbagliti
Quelli sbagliati sono: il primo consiste nel
reprimere la rabbia; il secondo nell’ agirla, sfogarla, essendone trascinati
come oggetti in balia.
Quello giusto consiste nell’osservare la rabbia con
i metodi che la meditazione consiglia: ossia con consapevolezza, presenza,
distacco, equanimità, accettazione, resa, nuda attenzione, concentrazione,
retto sforzo, ecc. ‘Quante caratteristiche”, si dirà. E questo che rende
la rabbia un impedimento difficile da superare. Ma, nello stesso tempo, è
ancora questo che rende la rabbia un impedimento da superare assolutamente.
Perché se è difficile da superare vuol dire che svolge una funzione
narcisistica vitale e sempre online quindi che fa danni profondi e continui.
Che fare?
La rabbia va semplicemente osservata. La rabbia va
osservata e annotata, ma senza indulgenza e senza condanna, con gentilezza
verso la rabbia e verso se stessi.
Occorre essere gentili con l’Ombra, quel grande
serbatoio di pulsioni nere cui la rabbia appartiene. Così lo saremo anche con
noi stessi, giacché I ‘Ombra fa parte di noi.
Nella meditazione, accettando di vedere l’Ombra e la rabbia, ci apriamo anche
alla nostra parte oscura, quella che prima non accettavamo di vedere. Aprendoci
alla parte oscura, ci apriamo a tutto il nostro essere, alla pienezza di ciò
che siamo. Veniamo a conoscenza della nostra capacità di arrabbiarci e della
quantità incredibile di rabbia che abbiamo dentro.
Ma esaminiamo prima in che senso lo scarico e la
repressione, i due modi sbagliati, sono difettosi.
Partiamo dalla repressione e diciamo che è proprio
la repressione a far crescere la rabbia. Chi ha sempre represso ne ha
ammucchiata tanta, di rabbia, dentro di sé; chi reprime, dunque, è ovvio che ne
sente tanta, dentro di sé, e tema di traboccare. Così finisce per reprimere
ancora di più, usando gran parte delle proprie energie nel difendere gli altri
dalla propria rabbia. Finirà nell’immobilità. Possiamo trovare questi
comportamenti negli stanchi cronici, nei pigri, nei lenti, negli inibiti, nei
“paralizzati” emotivamente.
Nello sfogo invece percepiamo noi stessi
direttamente come arrabbiati, agiamo la rabbia, ci coinvolgiamo in essa,
identificandoci. Non siamo, tuttavia, in contatto con la nostra rabbia. Non la
vediamo. Non sappiamo da dove nasce. Magari ci svuoteremo anche, ma un attimo
dopo se ne formerà di nuova, avendo noi un’ identità rabbiosa. Dice lo
psicologo Morelli, direttore di “Riza”: “Una volta pensavo che
fosse sempre sano buttare fuori la propria collera [ ] Chi mi ha conosciuto in
quel periodo mi ricorderà come un misto fra il collerico e il giustiziere. [ .
] Eppure avvertivo che c’era qualcosa che non andava: chi si arrabbia sovente
non è mai in pace, non è mai tranquillo, non conosce il riposo della
mente” l .
E allora? Allora dobbiamo ottenere entrambi i
risultati, che sfogo e repressione hanno inseguito senza raggiungerli. Non
dobbiamo lasciare la rabbia dentro e nemmeno agirla. Come si fa? “Non la
si nega, non vi s’ indulge, ma le si permette di entrare pienamente e generosamente
nella mente e nella consapevolezza, cosicché possa essere accdlta,
esaminata’”, vista nella sua transitorietà. “Rapportarsi ad essa
piuttosto che agire a partire da essa”.
Tutto questo ce lo dà la meditazione. Una pratica di
rinuncia allo stOgo che, tuttavia, “non ci chiede di diventare docili,
passivi o senza spina dorsale. Con una comprensione chiara della rabbia,
riusciamo a rispondere con forza a questo sentimento non appena si presenta.
Con discernimento e saggezza potremo guardare lucidamente alla sensazione che
ha causato la rabbia. [ . ] Possiamo scegliere di parlare o di rimanere in
silenzio. Riusciamo ad esaminare ogni aspetto della situazione e a prendere in
considerazione le possibili conseguenze. Poi scegliamo il tipo di risposta che
sia equilibrata, opportuna e vera’ .
Questa consapevolezza cambia la natura della rabbia, le toglie spontaneità, la
disorienta. La pratica della consapevolezza ci fa essere presenti alla reale
natura di ciò che accade. In un certo senso si tratta di fare amicizia con la
rabbia. Questo lungo e paziente lavoro forma lentamente in noi la virtù della
tolleranza. “Verso noi stessi e verso gli altri. Impareremo ad anrdre noi
stessi per come siamo, in ogni momento. Cominciamo con l’ imparare a fermarci C
. . .] e a prestare grande attenzione a ciò che sta accadendo”. Ciò che
accade dobbiamo riconoscerlo c chiamarlo per nome. In modo da poterlo vedere,
accettare, gestire.
La pratica meditativa svolge due compiti favorevoli:
vedere il disagio ed eliminarlo. Il secondo compito, quello di eliminare il
disagio, è secondo solo in ordine di tempo; chiaramente si tratta del nostro
scopo principale. L’altro, primo in ordine di tempo, ha un ufficio diverso,
preparatorio: è una tecnica per farci vedere meglio il disagio, onde eliminarlo.
Il disagio non sopporta di esser visto e
guardato in modo distaccato. Vedere il disagio è come farlo emergere, esporlo
all’aria e al sole, togliergli ogni energia, disseccarlo e renderlo sterile,
inefficace, inerte.
Ne consegue l’equazione: Guardare con
distacco è eliminare.
Nella pratica si parte osservando il respiro.
Osservare il respiro è solo un primo momento per entrare in una condizione di
migliore ascolto. Si dovrebbe restare attenti al respiro. ma non ci si
riuscirà. L’attenzione al respiro resta una concentrazione d’accesso alla vera
meditazione che comincia solo con l’arrivo degli impedimenti, con le
interruzioni, con le distrazioni. La rabbia è una di questi.
Vedere gli impedimenti alla meditazione è come vedere
le varie espressioni concrete dei nostri disturbi, entrare in contatto con
loro, comprenderle e tollerarle. Comprendere la grande utilità del confronto
con gli ostacoli alla meditazione è oltremodo importante, dal momento che gran
parte del tempo in cui lasciamo accadere la meditazione trascorre a confronto
con i cosiddetti impedimenti; la Meditazione si presenta, infatti, per lo più
come una sequenza di impedimenti, separati fra loro da piccole pause di
attenzione al respiro. Abbiamo appena avuto un breve momento m cui siamo stati
attenti al respiro e, subito, ecco che un attaccamento si fa vivo; lo lasciamo
andare a fatica e ci abbandoniamo al respiro ristoratore, quando l’ indolenza
ci coglie. La lasciamo essere come Cl hanno consigliato, portando poi
dolcemente, appena possibile, l’ attenzione al respiro ed ecco che … a brevi
intervalli … prima i dubbi … poi le avversioni e infine … l’agitazione si
fanno vivi a turno.
Va bene così.
Guardiamo questi impedimenti. Sviluppiamo lentamente
un crescente ma sempre più distaccato interesse per i turbamenti che si
avvicendano ln noi.
Ripetiamo in modo incessante:
I pensieri che mi arrivano non mi riguardano,
non sono affar mio.
Le rabbie che mi si presentano non mi riguardano, non sono affar mio.
E così via, per tutti gli impedimenti.
Gradualmente cesserà l’ossessione di sbarazzarcene.
Perché ci riesca più facile, ricordiamo ancora una volta che il nostro vero
problema non è avere degli impedimenti, ma il non riuscire a tollerarli.
Dal momento in cui gli impedimenti cominciano ad
apparirci interessanti, essi cominciano ad indebolirsi. Guardare una rabbia con
interesse è come metterle dentro un gerrne di calore che pian piano ne
provocherà lo scioglimento.
Quello che dobbiamo fare mentre aderiamo al respiro è
“prendere nota”, nello stesso momento in cui si presentano, degli
impedimenti che emergono accanto al respiro. Seguiamo il respiro e insieme
“fotografiamo”, senza giudizio favorevole od ostile, gli impedimenti
che arrivano, In passato eravamo condizionati, obbligati a reagire, con
ostilità o con desiderio, alle emozioni degli impedimenti. Quando, a seguito di
un’offesa, la rabbia si presentava, reagivamo gridando e assalendo o presi
dalla paura ci immobilizzavamo nel nostro gelo. Oggi abbiamo deciso di guardare
la rabbia con interesse distaccato e affettuoso, così come abbiamo imparato a
fare col respiro. Quando la guardiamo con interesse, la rabbia non è più così
nostra come lo era prima. Non è più un “Io”, diventa un
“Lei”. Questo perché, ora, la guardiamo con occhio di
L’UOMO Dl CONFINE
di Roberta Belluati
Se ci fetmiamo ad ascoltare attentamente i contenuti delle notizie o ad
osservare le immagini che quotidianamente ci pervengono dai massmedia, non
possiamo non rilevare, al di là di facili generalizzazioni, degli elementi che
contraddistinguono la nostra attuale condizione sociale. Un affievolimento del
senso d’umanità, per esempio, procurato da una sorta di “anestesia”
collettiva, conseguente una sorta d’ abitudine alla ripetitività costante della
terribilità di certi eventi cui siamo continuamente sottoposti, eventi
spietatamente sviscerati in tutta la loro crudezza visiva e proposti
indifferentemente in tutti i momenti ed in tutti i luoghi, una sorta di
concentrazione negativa che abitua l’uomo all’indifferenza davanti al male,
rendendolo per ciò stesso spesso anche potenziale aggressore del suo simile.
Altro elemento è costituito da una progressiva perdita a livello diffuso
dell’identità profonda della persona, della sua autoconsapevolezza e di
conseguenza un disconoscimento, a partire da sé, del valore dei gesti, delle
azioni. delle parole nonchè dell’alterità circostante. Tale caduta di tono si
traduce conseguentemente nel dilagante conformismo basato sull’esteriorità.
nell ‘omologazione del do ut des con la sua logica del profitto e in una
disumana competitività fondata sul principio “mors tua, vita mea”.
Questi elementi che connotano la cosiddetta “società del benessere”
in cui viviamo, sollecitano fondamentalmente l’individualismo, annullando il
valore dell ‘individualità ed unicità della persona basato sull’importanza
della relazione umana e sull ‘ apertura all’ alterità, producendo in suo luogo
l’ incomunicabilità e la caduta di ogni senso di responsabilità verso i propri
simili e l’ambiente in cui viviamo, fino alla strumentalizzazione stessa
dell’individuo, corredata dai conseguenti fenomeni dell’opponunismo. della
prevaricazione e della violenza.
Davanti a questo squallido panorama cui quotidianamente
assistiamo volenti o nolenti, consapevoli o non, porsi l’ interrogativo
relativo al rapporto di confine tra profano ed iniziatico forse dovrebbe
partire dalla domanda prima: Chi è l’uomo? , premesso che in essa a ben vedere
è già presente in un certo qual modo il concetto dimenticato di persona.
Il “chi” infatti sottende
necessariamente un altro “Chi”. La domanda posta, cioè, ne postula
una precedente: Chi ha voluto ciò? I Qui il Chi originario ha la
funzione di soggetto primo ed il ciò (cosa) quella di oggetto. Ne segue che
“il Chi è l’uomo?” presuppone un passaggio da un ciò-oggetto ad un
chi-soggetto-secondo.
fotografo, anziché reagire ubbidendole.
La elaboriamo anziché agirla, come lei vorrebbe.
Proviamo e resteremo sorpresi delle decisi ve differenze
che intercorrono fra annotare e agire.
Ogni cosa annotata verrà integrata, come ogni cosa su cui
si riflette con interesse rilassato e attento. Integrare un sentimento di
rabbia, provando interesse per lui, produce l’unione di due opposti. Rendendoci
conto della nostra ostilità potremo fonderla con l’amore, …accettandoli
entrambi e guardandoli (e usandoli) contemporaneamente.
Una sera d’estate di tanti anni fa, alle isole Eolie,
ero andato a pesca di totani. Tante altre volte sono uscito in mare, di notte,
per pescare, ma ricordo in modo particolare quella sera per la frase che un
anziano pescatore pronunciò per un mio modo particolare di stare in quel
momento in barca. Eravamo in quattro su un gozzo a remi: due alla voga, uno ad
armeggiare con gli «ontrati» (particolari grossi ami per totani) e le lenze ed
io, a poppa, con le gambe fuori bordo ed i piedi a mollo. Ero intento a godermi
la pace ed il silenzio di quella calma notte senza luna. Il cielo sembrava un
immenso soffitto punteggiato da miliardi di luci che simili a gemme preziose si
riflettevano su un mare liscio e nero. Il gozzo frusciava leggero nell’acqua a
tratti fosforescente, allontanandosi lentamente dalla costa. Ad un tratto il
più anziano dei tre, quello che armeggiava con le lenze, richiamò la mia
attenzione e mi invitò a rientrare con i piedi in barca. «Tenga le gambe
dentro», mi disse, «con questo buio non sappiamo quello che può emergere
dall’acqua. Sotto abbiamo quasi cinquecento metri di fondo». Immediatamente
ritrassi le gambe facendole rientrare in barca, vergognandomi non poco per
quella mia sbadataggine. Mi conoscevano come sommozzatore e valente cacciatore,
quindi in possesso di precise norme di comportamento. La discussione ovviamente
ci portò a parlare di ciò che poteva esserci in mare e quindi, secondo quanto
avevano pescato o visto per anni da quelle parti, non poteva essere infrequente
l’incontro con i grandi predatori carnivori, compresa l’Orca assassina e lo
squalo martello, a loro dire, i più feroci di tutti.
Fino a quel momento non avevo assolutamente pensato, immergendomi con le
bombole o in apnea, che nel mare di casa, nel Mediterraneo, potessero esistere
pericoli ben maggiori della sincope da apnea prolungata o della embolia
gassosa. Gli squali, tanto per parlare fuori dai denti, erano bestie di altri
mari, di altre latitudini. Da noi poteva esserci qualche timida verdesca,
innocui gattucci e palombi,. tra l’altro poco graditi dal punto di vista
culinario in quegli anni di abbondanza di pesce pregiato nelle acque del
Mediterraneo. Per quanto riguardava gli attacchi in mare subiti dai sub,
nemmeno a parlarne in quanto quello presunto contro un fotosub dell’epoca finì
per essere declassato (per lo meno nell’ambiente subacqueo così ancora si dice)
ad incidente da elica di motoscafo. Sicuramente, gli unici veri attacchi da
pescecani sono quelli abbondantemente documentati durante il periodo bellico
contro naufraghi di navi affondate. Ma già siamo lontani nel tempo e la memoria
dell’uomo moderno rifiuta sia la guerra sia quello che poteva capitare ai
naufraghi sballottati come sugheri, in mezzo a centinaia di cadaveri di propri
simili. Ma gli squali nel Mediterraneo ci stanno e ci sono sempre stati. E non
solo loro, visto che è stata documentata la presenza di grossi cetacei, persino
dell’Orcinus Orca. L’intelligente Orca assassina è stata fotografata nel 1985
al largo di Finale Ligure mentre divorava un raro Zifio, ucciso da poco tempo,
in quanto è arcinoto che tale odontoceto non divora carogne, solo carne fresca.
Tornando agli squali, diremo che ne esistono circa 350 specie e solo per una
trentina di esse possediamo notizie certe e documentate di attacchi diretti
contro l’uomo o la sua imbarcazione. Le specie più pericolose sono quelle cui
appartengono il grande squalo bianco, il più grosso e feroce di tutti; lo
squalo tigre; il longimano e il leuca. Possono raggiungere gli otto metri di
lunghezza e le tre tonnellate e mezzo di peso. Abitano tutti i mari del globo
sotto tutte le latitudini e sono presenti quindi, anche se rari, nel
Mediterraneo. Abbiamo notizie certe di catture, di avvistamenti e di attacchi a
Malta, Favignana, isole La Galite, stretto di Messina, mar Ligure e Bocche di
Bonifacio. A Favignana, nella zona delle tonnare, il grande squalo bianco è, si
può dire, di casa. L’ultima cattura è dell’8 maggio 1985: una femmina di
Carcharodon Carcharias, grande squalo bianco, lunga m 5,35 per tre tonnellate
di peso. D’altro canto non dobbiamo meravigliarci per la presenza di tali
bestie nel Mediterraneo. E la loro fame spropositata che li porta a scorrere
tutti i mari in un perenne inseguimento ai grandi banchi di pesce. E il tonno è
una delle sue leccornie preferite e lui lo segue con particolare cu
ara. Sappiamo che il tonno si
riproduce nel mar Caraibico. Da quelle plaghe, seguendo la corrente del golfo,
si dirige nel Nord Atlantico con rotta NE, fino ai banchi di Terranova. Poi
devia ad oriente e quindi verso sud, ridiscendendo l’Atlantico lungo le coste
occidentali dell’Europa e dell’Africa, in direzione del Capo. Da qui si dirige
verso l’Australia ed il Pacifico che risale verso il Giappone e quindi, ad
ovest, verso il continente americano. Ridiscende poi a sud lungo le coste delle
Americhe, doppia capo Horn e risale l’Atlantico, tornando ai luoghi di
riproduzione. Durante questo lungo viaggio, sempre seguito ed a volte attaccato
da ogni tipo di grande predatore, da milioni di anni il tonno entra in
Mediterraneo attraverso lo stretto di Gibilterra. Un tempo le tonnare delle
nostre isole maggiori erano famose per la enorme quantità di tonni catturati.
Nella vecchia tonnara Florio ubicata sullo scoglio di Formica, davanti a
Trapani, è visibile una vecchia lapide commemorativa in cui si legge che in una
sola mattanza furono catturati più di novemila tonni. Ed ecco uno dei più
importanti motivi per cui gli squali entrano in Mediterraneo. Lo squalo è una
perfetta macchina da preda, rimasta immutata nella sua struttura sin dai tempi
della sua evoluzione. E rapido, agile, resistente. Possiede denti triangolari
affilati come rasoi in costante rinnovamento, disposti su più file. E ricoperto
da una pelle durissima e fortemente abrasiva. Ha una vista molto sviluppata ed
un udito sensibilissimo alle basse frequenze. Possiede un sofisticato sistema
sensitivo in grado di consentirgli di individuare una possibile preda in
difficoltà, dentro quello spazio opaco e tridimensionale che è il mare. E come
se non bastasse, nella zona sottocutanea del capo, vicino al muso, possiede le
cosiddette ‘ampolle di Lorenzini’, organo che gli dà l’ulteriore facoltà di
avvertire campi elettrici dell’ordine di 0,01 microvolt per centimetro
quadrato. Un animale così dotato da madre natura è solo e soltanto un
cacciatore. Oltretutto, come già accennato, il suo metabolismo lo tiene in
stato di perenne fame. Ingoia tutto quello che incontra: cose, uomini e bestie
che siano. E cannibale in quanto divora i propri simili in difficoltà e tale
sua brutta abitudine è stata
osservata anche all’interno dell’utero
materno. Gli attacchi contro
l’uomo sono frequentissimi ed è
immancabilmente presente laddove si verificano naufragi o disastri aerei in
mare. Alcune nazioni come l’Australia e l’America del Nord hanno istituito da
tempo sofisticati sistemi di vigilanza lungo le spiagge frequentate da
bagnanti. Sappiamo che sente il sangue, disciolto anche in minima parte
nell’acqua. E attirato dagli scarichi fognari o da movimenti scomposti e non
coordinati e difende molto energicamente il suo territorio contro eventuali
intrusi. Nel suo ventre è stato trovato di tutto: uomini, bestie, bottiglie,
vestiti e cappotti, pezzi di auto, uccelli, orologi a pendolo, scarpe, cassette
di verdura e persino valige ancora chiuse. Il due di febbraio davanti a
Piombino, nel golfo di Baratti, un sub viene attaccato, ucciso e divorato da
uno squalo su di un fondale di ventisette metri. Il sub si chiamava Luciano
Costanzo. Testimoni impotenti ed atterriti, sulla barca, il figlio Gianluca e
l’Ing. Bader, di Napoli. A distanza di qualche mese e mentre l’autorità
giudiziaria ancora indaga, prendono corpo due teorie contrastanti tra di loro e
che non contribuiscono certo a far luce sull’episodio. Di certo esistono le dichiarazioni
dei due testimoni, fino a prova contraria attendibilissimi, e ciò che rimane di
Luciano Costanzo: le bombole con uno spallaccio strappato, la cintura di
zavorra, le pinne, qualche pezzetto di neoprene ed un’ansa intestinale. Ecco i
fatti, le dichiarazioni e le supposizioni.
Dichiarazione dell’ing. Bader rilasciata ad un telegiornale: «Premetto che per
me non si è trattato di un’avventura ma di un tristissimo episodio conclusosi
con la morte di un amico. Nel grosso cabinato del Costanzo eravamo il figlio
Gianluca diciannovenne, io e Costanzo. Luciano si è immerso e noi lo seguivamo
in barca a venti metri di distanza. Ad un certo punto sulle bolle del subacqueo
appaiono due pinne, due pinne nere a circa due metri di distanza l’una
dall’altra. Il ragazzo mi chiede cos’è, io rispondo di colpo, uno squalo. Di
squali ne ho visti in altre occasioni. Sono stato parecchie volte nel mar
Rosso; ma uno squalo del genere, ovviamente, non l’avevo mai visto, però ne
avevo letto più volte sui libri e quindi sono sicuro nella mia versione dei
fatti. D’improvviso lo squalo come era apparso è scomparso e le bolle del sub
si sono radunate in un solo punto aumentando d’intensità, sintomo di una sua
veloce risalita che certamente non avrebbe fatto se non si fosse trovato in
grave difficoltà. E un grosso errore una risalita rapida. Con Costanzo ci
conoscevamo da oltre 15 anni. Era un sub esperto. Ad un certo punto ho visto
Luciano emergere fino a metà del busto ed è ricomparso il pescecane. La bestia
lo ha attaccato frontalmente per due volte, ma senza
successo perché, per il suo abbrivio, lo ha soltanto sospinto con il muso.
Quindi si è allontanato leggermente, ha preso un certo abbrivio e, compiendo un
arco di circa sette metri, ha attaccato ancora Costanzo azzannandolo
all’emitorace sinistro e trascinandolo sott’acqua. Durante gli attacchi ho
visto chiaramente la bocca della bestia ed il suo ventre bianco. Tutto ciò è
successo in 30, 40 secondi. Non ho visto sangue in superficie, Siamo rimasti
ancora in zona per circa mezz’ora nella speranza assurda di un miracolo. Avevo
dato per scontata la morte del sub perché l’avevo visto esattamente tra le
fauci del pescecane. E non siamo andati a Baratti bensì a Piombino per due
motivi. Il primo perché la differenza tra i due approdi è di circa mezz’ora; il
secondo perché a Piombino c’è l’approdo per la barca, nonché un’autorità
marittima. E poi, il porto di Baratti non ha un approdo per una barca delle
dimensioni del grosso cabinato su cui eravamo imbarcati. A Piombino mi conoscono
bene perché frequento quella città da 25 anni in quanto tratto metalli
elettrici che congiungono il continente italiano con la Sardegna. Chi mi
conosce, crede a quanto dico. Chi non conosce né me né Costanzo, fa delle
illazioni. Costanzo non ha mai pescato con le bombe, era una persona per bene.
Sono convinto che in questo caso intervengono interessi turistici e
commerciali».
Quindi per l’ingegner Bader esistono altri motivi portati avanti da chi cerca
di confutare quanto lui, e soprattutto il figlio di Costanzo, hanno visto. E
evidente che la presenza di uno squalo in una qualsiasi parte di una qualsiasi
costa porta lo scompiglio turistico, nel senso che la gente, quella zona, la
diserta sicuramente in estate. Del resto, convinti che lo squalo ci sia sono il
Pretore di Piombino ed il Comandante del porto, anche se una delle tante
perizie dovrà stabilire ed accertare se la morte possa essere stata provocata
da una esplosione. Per Guido Picchetti, subacqueo esperto oltreché giornalista
e fotosub di valore, il killer esiste. Ecco la sua intervista rilasciata al
redattore capo dei servizi subacquei della Rai TV, durante il telegiornale. «In
questi ultimi tempi sono affiorati dubbi e perplessità sulla faccenda Costanzo
ma in realtà non ci sono elementi per avvalorare una ipotesi diversa da quella
accreditata fin dal primo giorno, cioè l’attacco dello squalo. Qui si parla
addirittura di montatura delle prove. Io ho visto il filmato dei rilevamenti
con la posizione dei reperti e mi sembra che proprio la loro posizione sia la
prova migliore che non ci sia stata montatura. Se si avesse voluto montare un
incidente si sarebbe fatto, io ritengo, in modo più intelligente. Avrebbero
aperto la cintura di zavorra; avrebbero sganciato la cintura delle bombole, che
è stata trovata chiusa, e avrebbero rotto o rovinato le pinne. Esiste la
faccenda della bomba. Ma quando è stata tirata? Quando era in acqua? E perché,
se la bomba è stata tirata prima, in acqua non ci sono pesci? Non dico in
superficie, ma sul fondo. Ma poi, per quale ragione tirare bombe su quei
fondali? Non sono rocciosi o particolarmente ricchi di pesce. Ritengo la
questione bomba fondata sulla volontà di ricreare un ” mostro “.
Tutto sommato è un episodio che non deve meravigliare. Sì, certo, è straordinario
che sia accaduto. E rarissimo che accada, però la presenza di questi squali in
tutte le acque del mondo è documentata, come pure in Mediterraneo».
Di parere decisamente opposto è Enrico Cappelletti,
esperto giornalista subacqueo, fotosub di valore, redattore capo di Aqua: «Le
pinne. La probabilità che cadano sullo stesso punto è assurda. Sott’ acqua
queste pinne pesano 100 gr, quindi con un filo di corrente si spostano nella
caduta e vanno a posarsi in posti molto lontani l’una dall’altra. Questo è
stato il primo dubbio. Poi la cintura dei piombi. Il secondo dubbio è che la
cintura è chiusa, come pure la cintura delle bombole. E rotto solo uno
spallaccio. E come se lo squalo si fosse risucchiato il sub. Preciso una cosa.
Io non sono un esperto come altri hanno tentato di presentarsi. Sono una
persona che va da tanti anni sott’acqua; ho visto gli squali sott’acqua, come
mordono e come mangiano, cosa combinano. Mi sembra inconsueto che uno squalo
possa avere risucchiato un sub lasciando tanti pezzetti in un solo punto.
Veniamo alla misura della cintura. Quella è la cosa che mi ha praticamente
messo un dubbio fortissimo sin dal primo momento. E impossibile che un uomo
della taglia di Costanzo, un 52, possa avere indossato quella cintura. Non sta
a me che ho taglia 46. E poi, i tagli impressi dai denti dovrebbero essere sui
fianchi della cintura». Ma allora, cosa potrebbe essere successo, chiede Mino
D’Amato, l’intervistatore. «Non lo so, non riesco a capire. E un dubbio che
deve risolvere l’autorità giudiziaria». Il Direttore di Aqua, Mario Oriani, non
ha dubbi: «Io ho chiamato i miei redattori, ho chiamato il mio miglior
specialista che è Cappelletti ed ho dato loro disposizione di condurre una
inchiesta. Non dico i fatti appurati nell’inchiesta, ma sono almeno 12 le
ragioni fondamentali, alcune apparse sui giornali, per le quali è impossibile
che sia avvenuto ciò che è stato raccontato dal figlio della presunta vittima,
diciamo, e dal signore svizzero. Tutto si contraddice, non c’è un punto che
funzioni. Difendo lo squalo. Sono sicuro che lo squalo non c’entra niente».
Ma allora, se non è stato lo squalo; se non può
essere stata la bomba, in quanto avrebbe dovuto avere una potenza dirompente
enorme per fare disintegrare un uomo e contemporaneamente la facoltà di non fare
esplodere le bombole, caricate ad un paio di centinaia di atmosfere; chi è
stato? Ed il figlio di Costanzo, che figlio è, per avere detto tale bugia? Non
ha una coscienza, una madre, dei parenti? Infine un’ultima domanda: se non è
stato lo squalo e non è stata la bomba, dov’è Costanzo?
Nessun ‘altro era presente tranne i due testimoni. A
questo punto il nostro pensiero è sostenuto da una sola certezza: la
consapevolezza che in mare vi sono ancora tanti e tali fenomeni, in parte
ancora da penetrare, che la nostra immaginazione fa fatica a contenerli tutti.
Qualunque manuale che parla di subacquea, alla voce «pericoli oltre ad elencare meduse,
murene e razze, accenna anche agli squali. Certo, dice pure che gli incontri in
Mediterraneo sono rari e che la bestia, in genere, è timida. Ma non nega che si
possano incontrare.
Il nostro raziocinio, comunque, ci deve condurre ad una sola considerazione
certa: Luciano Costanzo non esiste più su questa terra perché, sia pure per un
caso eccezionale e fortuito (diciamo pure un caso su dieci milioni), è stato
attaccato, ucciso e divorato, forse da uno squalo, in un giorno di febbraio,
nel golfo di Baratti, davanti a Piombino.
Le considerazioni che seguono non vogliono né possono
essere un’analisi compiuta del tema in oggetto; spero tuttavia che riescano a
costituire uno stimolo di discussione fra i fratelli in grado ‘di fornire un
po’ di luce allo scrivente.
Perché questo tema?
Sono padre di un bimbo di 8 anni che è appena uscito dal
primo ciclo della scuola elementare e che comincia ad esprimere in maniera
netta, chiara e cosciente una «domanda» di istruzione che, mi sembra, non trova
una risposta opportuna.
Dopo anni di interesse «accademico» per i problemi della
scuola, attraverso agli occhi, alle orecchie, alle emozioni di mio figlio,
sento questi come fondamentali per la vita dell’uomo.
Un articolista qualche tempo fa, durante alcune
riflessioni sullo stato di pace quasi globale del mondo di questi ultimi tempi,
affermava che in una società globale futura ove guerra, fame e povertà fossero
sconfitte, quattro grandi sfide rimarrebbero agli uomini: la scuola, la difesa
della salute, la condizione di vita degli anziani e la conservazione
dell’ambiente.
Vorrei soffermarmi un attimo a considerare questi quattro
elementi richiamando l’attenzione su come siano in fondo strettamente correlati
e come la scuola sia la vera fonte di soluzione per gli altri: solo attraverso
la scuola è possibile creare la cultura di base e quella specialistica per
giungere alla vera conservazione dell’ambiente; lo stesso dicasi per quanto
riguarda lo stato di salute fisica delle persone. La condizione di vita degli
anziani poi in sostanza dipende non solo dalla cura per la salute o per
l’ambiente ma anche da quanto la scuola riuscirà ad allargare una cultura di
rivalutazione «democratica» delle persone anziane.
Pertanto la prima delle grandi sfide da intraprendere
sarebbe proprio quello della scuola.
Ma quale è il punto di partenza?
Qui lo sconforto cresce immediatamente a livelli
indescrivibili.
La sensazione più immediata (e qui parlo
di sensazione perché non sono in grado di fornire analisi quantitative o di
dettaglio) è che l’istruzione in generale stia
subendo una involuzione in senso negativo con una velocità superiore a
qualsiasi altro fenomeno di tipo socioeconomico.
Paragonando scuole elementari, medie e licei di non
più di 30 anni fa con quelli di oggi mi sento quasi di affermare che un
licenziando della scuola elementare della fine degli anni ’50 aveva conoscenze
di base ed aveva acquisito mezzi di espressione e di calcolo se non superiori,
identici a quelli di un allievo delle scuole medie di oggi, cito a questo
proposito solo qualche elemento che costituiva materia di esame per
l’ammissione alla scuola media quali l’analisi grammaticale, la soluzione di
problemi matematici con una incognita, il dominio del calcolo delle frazioni ed
ancora la geografia a livello europeo ecc. Ma ciò che rende ancora più
sconcertati è che, nonostante la riduzione in sostanza dei programmi, chi
finisce un ciclo di istruzione possiede in minima parte quel livello di cultura
che può essere definito sufficiente per il ciclo stesso.
Impressionanti i risultati ad esempio di un’inchiesta
compiuta per conto del Ministero della Pubblica Istruzione Francese su un
campione di scolari giunti alla fine dei 5 anni della scuola elementare: l’ 80%
dei ragazzi ha collezionato in un dettato di 8 righe più di 25 errori gravi di
ortografia!
Anche se non dispongo di informazioni relative alle
scuole italiane presumo che gli alunni delle scuole italiane non siano poi
tanto meno somari dei loro coetanei francesi.
In compenso qualche tempo fa in una scuola superiore
americana alla domanda dove si trova l’Italia l’unico allievo che non rispose
«non so» collocò l’Italia «dalle parti del Nicaragua»!
Per esperienza personale posso poi assicurare che anche
le scuole di tipo tecnico professionale sfornano più dell’80% di allievi che
non sono in grado di risolvere problemi in cui è necessario applicare l’ABC
delle relative specializzazioni. Ai periti in telecomunicazioni che negli
ultimi anni ho intervistato per l’assunzione al primo impiego ponevo un
semplicissimo problema basato sull’uso di 3 interruttori per l’ accensione di
normali lampade da illuminazione; ebbene il 50% forniva delle risposte che se
applicate da un elettricista avrebbero creato dei terribili corto circuiti!
La considerazione più sconvolgente è che questi bei
risultati sono ottenuti in un ambiente, la società odierna, ricchissima di
mezzi tecnici di ogni tipo in una attività in cui sono impegnati moltissimi
insegnanti in una percentuale insegnanti/alunni estremamente più alta di quella
degli anni ’50.
Anche i supporti culturali per gli insegnanti sono diventati
più disponibili ma in sostanza la sensazione è che siano meno usati.
Un’altra cartina di tornasole mi pare costituita, almeno a
livello italiano, dal fatto che 30 anni fa, con alcune prestigiose eccezioni,
la scuola privata costituiva il refugium per coloro che non riuscivano a
superare le difficoltà della scuola pubblica mentre oggi tutti pensiamo
l’opposto.
Perché avviene tutto ciò?
A volte si chiamano in causa, ad esempio in Italia,
presunti interessi particolari che guiderebbero questo sfacelo.
Personalmente ritengo che non sia così altrimenti non mi
spiegherei come in tanti paesi con situazioni storiche tanto diverse la
situazione sia praticamente la stessa.
Tenterò di darne qui una spiegazione diversa. Come già
accennato in precedenza la scuola è comunque un qualcosa che rinchiude in sé il
possibile orientamento della storia futura; qui forse sono le radici del
problema: faticare per avere una buona scuola significa investire risorse in
qualcosa che servirà a chi viene dopo di noi per vivere e soprattutto per
plasmare un mondo che, se siamo fortunati, vivremo come anziani.
Ora quale può essere la spinta ad interessarsi di una cosa
tanto lontana con un mondo votato al profitto ed al ritorno immediato di
qualsiasi fatica?
La mentalità dell’investimento con ritorno in breve tempo,
tipico delle attività industriali e finanziarie della società occidentale, in
questi ultimi anni è diventata habitus mentale nelle manifestazioni sociali
degli individui. Se talvolta viene spinta allo sviluppo intellettuale ciò è nel
senso strettamente utilitaristico acritico nei confronti del sistema di valori
imperante.
Riusciremo quindi a vincere la sfida della scuola? Sì, forse
per il rotto della cuffia.
Tavola di
Loggia tracciata in occasione della tomata comune delle RR.LL. gemellate
l’Espérance Savoisienae di Chambéry (G.O.D.F.) e Augusta, a Torino il 21
ottobre 1990
L ‘età
dell’Aquario
Essere massoni oggi e particolarmente in Italia
di
Adele Menzio
Uno strano Paese dove il gay si esibisce con piena approvazione ma il
massone deve nascondersi, dove al villano Sgarbi va il plauso del pubblico che
più si entusiasma quanto peggio egli si comporta, dove i «furbi» sono additati
ad esempio ai pargoletti e tutto va, in una certa sostanziale indifferenza,
alla malora. Un paese tuttavia dove, per stornare l’attenzione del popolo
quand’esso si fa un po’ troppo curioso su certi fatti che il Palazzo non ha
nessuna intenzione di chiarire, si fa ricorso alla Massoneria per indicare un
«potere» misterioso, infido, equivoco che sarebbe, alla resa dei conti, la vera
e sola causa di tutti i mali e le deviazioni.
In un clima così direi che essere massone non è facile
ed anche che si è fortemente tentati di assumere un atteggiamento non soltanto
critico, ma astensionista.
Mi spiego.
L’iniziato, se vuole proseguire nella via intrapresa,
deve liberarsi di molte chiamiamole «contingenze», deve elevarsi in un mondo
diverso da quello normale, deve giudicare attraverso una scala di valori tutta
particolare che nulla ha a che vedere con quella comune.
Il procedimento di spiritualizzazione allontana
fatalmente dai problemi di tutti i giorni e la vita sognata dall’adepto è decisamente
utopica. Gli utopisti, si sa, non sono molto aderenti alla realtà. Tuttavia lo
scopo della Massoneria non è soltanto individuale.
Noi giuriamo di agire per il bene ed il progresso
dell’umanità che è costituita da uomini deboli, corrotti, coraggiosi, onesti,
ladri, assasSini, vigliacchi, buoni, generosi, invidiosi, inetti, attivi sempre
in bilico tra il Male ed il Bene.
L’iniziato massone si trova egli stesso in una
situazione psicologica e spirituale molto ardua da sostenere.
Il massone
non si è ritirato in un eremo, ma continua la sua vita profana in mezzo alle
situazioni più turpi ed a quelle più entusiasmanti. La massoneria non lo
mantiene. Anzi è il massone a dotare l’organizzazione dei beni materiali
necessari.
Praticamente il massone si trova, diverso sotto
molti aspetti dagli altri, a lavorare, guadagnare, vivere con il prossimo. Il
quale prossimo, data la filosofia oggi dominante, è sollecitato dal successo,
dal guadagno, dal consumismo, e per raggiungere livelli di vita che egli
giudica i soli possibili e gratificanti, è disposto a scendere a compromessi, a
violare le più elementari norme morali, a fare, come si dice «carte false».
Questo il
contesto nel quale il massone si trova a dover operare.
Tanto profondo è il divario tra il suo modo di concepire
l’esistenza e quello degli altri che, spesso, egli usa un linguaggio ed un
atteggiamento che non solo non vengono capiti, ma gli creano dei disagi.
Rischia spesso di essere scambiato per uno sciocco, dato che non adora gli dei
comuni, che non si vendica, che perdona, riconosce le ragioni degli altri,
tollera gli errori e le intemperanze del suo occasionale interlocutore.
Il massone,
quello autentico, dico, si rende conto che la società da lui vagheggiata è
molto lontana da quella concretamente posta in essere da politici, managers e
comuni cittadini.
Tuttavia egli continua, da sempre, a lavorare. Perché?
Ho spesso
pensato che la contemporaneità gioca brutti scherzi.
Ti fa vedere un mondo particolarmente brutto che
confronti (senza avere dati sperimentati) con quello passato, a tutto vantaggio
di quest’ultimo.
E un atteggiamento sbagliato, dovuto in parte anche
all’insegnamento storico tradizionale che, creando dei miti, ha distorto
totalmente la realta dei fatti quale è possibile invece ricostruire attraverso
la comparazione dei documenti, la loro interpretazione, i rilevamenti
archeologici, la disamina attenta delle opere d’arte e di tutto quanto ci
perviene dal tempo trascorso. Che è breve.
Credo si possa affermare che
l’umanità ha fatto molti passi avanti. Oggi sembra assodato (anche per via
della elevata qualità della co16
municazione che, in un certo senso ha rimpicciolito il
globo) che l’uomo ha diritto alla libertà.
Peccato che molti abbiano della libertà un concetto errato
e la scambino, anche per loro comodità e profitto, con la più sfrenata licenza.
Ecco un primo, fondamentale compito demandato al massone di oggi. Chiarire il
concetto di libertà come sistema di limiti. Libertà con rispetto e tolleranza.
Dimostrarlo in ogni occasione, anche minima, in ogni
momento con il proprio comportamento e le proprie azioni sempre coerenti. Oggi
stiamo distruggendo il mondo naturale dal quale traiamo tutto ciò che è
indispensabile alla vita. Per denaro.
Compito del massone è dimostrare che il legame tra i regni
della natura (vegetale, minerale, animale) è così intimo e che la correlazione
tra l’uno e gli altri tanto indefettibile da non poter essere mai scissi né
mutati.
Oggi viviamo un curioso fenomeno storico. Mentre da un lato sono
ormai una realtà l’Europa, il disgelo, l’alleanza tra le più grandi potenze e
si potrebbe quindi sostenere che il fenomeno nazione è agli sgoccioli,
dall’altro canto assistiamo al sorgere di feroci campanilismi, di regionalismi
esasperati, di eccessivi particolarismi.
Noi operiamo in Italia ed il
fenomeno del divario tra Sud e Nord, la vittoria delle leghe ci deve far
riflettere.
Tutti sappiamo che l’Italia Una è relativamente giovane ed
anche che è stata voluta, in fondo, da una minoranza.
Constatiamo come diverse culture, lingue, usi e tradizioni
coesistono. Pare sia stata la TV , sia pure con i suoi programmi scadenti, ad
aver operato una sorta di unità linguistica e ad aver assuefatto l’orecchio di
molti al dialetto, prima ostico, di altri.
Possiamo anche dire — e tra noi lo possiamo — che un vero,
autentico Stato non esiste, se buona parte del Paese è in mano alla mafia e ad
organizzazioni consimili, se la giustizia non funziona (l’episodio del timbro
duro e molle è una beffarda quanto tragica prova dell’inefficienza delle nostre
corti di giustizia), se gli sprechi e le operazioni economiche costano al
contribuente molto di più di quel che possano rendere in utilità pubblica e
sociale. Uno Stato allo sfascio.
Che può
fare il massone?
Dato che alla radice del male c’è una profonda
diseducazione, può cominciare a comportarsi da buon cittadino esigendo quanto
gli è dovuto ma al tempo stesso dando ciò che è obbligato a dare.
Educando i figli al rispetto verso la legge e le
autorità, votando saggiamente e non per abitudine. Comportandosi in ogni
occasione nel modo più rispettabile e morale. In modo da costituire un esempio.
Anche da noi si va avviando il fenomeno della società
multinazionale che sta provocando tristi fenomeni di intolleranza.
E ovvio che un massone non può sottoscrivere
l’atteggiamento di rifiuto verso persone di altre razze. Ma concretamente che
cosa può fare?
Moltissimo. Dare lavoro, abitazione, assistenza medica e di
ogni altro genere.
E ogni volta che, in una occasionale conversazione, è
costretto a sentire le lamentazioni dei benpensanti, deve pacatamente fare
osservare che ogni uomo è libero di vivere dove meglio crede e che il colore
della pelle è un caso, non una discriminazione.
Non
ho volutamente fatto ricorso a paroloni altisonanti perché ritengo che il
massone oggi debba soprattutto essere un esempio. Questo è il suo ruolo. Non è
poi molto difficile. E’ sufficiente che il Massone sia coerente.
Se ancora da qualche parte dovessero conservarsi dubbi
sulla esistente crisi totale della società in genere, la definitiva messa a
fuoco da Bologna alla Turchia, da Danzica alla Bolivia, dalla Palestina al Cile
cancella ogni falsa verità sui mali che stanno distruggendo, nelle società in
crisi, l’uomo.
Inutili sono le lacrime dei coccodrilli di diverse
estrazioni così come sono inutili le parate con bandiere, le sfilate dei
personaggi dalle alte cariche, i telegrammi e le corone di fiori destinate a
coprire comunque le continue violazioni dei diritti umani.
La sfiducia ed il disprezzo per la continua destabilizzazione dei valori,
destabilizzazione voluta con intenti diversi da tutte le componenti
responsabili della società-che-conta, quella ufficiale, con più o meno mala
fede per più o meno diverse speculazioni, hanno messo in risalto le verità
spietate che colpiscono anche materialmente vittime innocenti.
Non è una intenzionale presentazione di un quadro a
fosche tinte la nostra, bensì la necessaria premessa ad un tentativo di
proporre un discorso che nasce dallo sconforto.
Il silenzio, la presunta impotenza, il ritenersi
estranei può divenire complicità oltreché colpa grave epperciò desideriamo
riproporre il nostro ruolo che non può più consentirci di fermarci a ritenere
fatale la china. Siamo troppo abituati, attraverso il metodo di lavoro
massonico, a distinguere la sostanza dalla forma, la verità dall’ipocrisia.
Con la convinzione di operare per vocazione
esoterica non possiamo oggi trascurare il conseguente impegno essoterico per
una responsabile assunzione di quel ruolo pluralistico che la massoneria ha
sempre naturalmente svolto.
postulati massonici
indicano chiaramente agli iniziati le origini del male per pervenire alla
verità. « Una verità sul male, se detta
male, irrobustisce il male » ha detto Karl Krauss ed ha aggiunto: « Può capitare che ci voglia più coraggio e
temperamento nell’attaccare un carrettiere che un re ».
Tutta questa premessa è dettata
dal legittimo dubbio che, spesso, ci assale. È vero che per attaccare il re non
abbiamo mancato di coraggio ma ne abbiamo altrettanto e siamo abbastanza
preparati per estendere l’attacco al carrettiere qualora venisse dimostrata la
sua corresponsabilità nella crisi etico-politica?
Dubbio e sconforto ci assalgono
per l’indifferenza dell’uomo moderno e per il cinismo con cui vanta una libertà
equivoca limitandosi a dividere gli « altri » in innocenti e colpevoli,
estraniandosi dalla rovina che è stata ed è alimentata collettivamente. Non è
certo questo tipo di libertà che rivendica il massone come parte del trinomio
del tempio, non è questa Libertà che può generare fratellanza ed eguaglianza
anche contro una classe dirigente prepotente ed arrogante; non è questa Libertà-eguaglianza-fratellanza
su cui abbiamo giurato per la costruzione di un tempio universale, per il
rinnovo della quantità dell’esistenza.
Gli interrogativi della
disperazione non chiedono false consolazioni epperciò non dobbiamo o possiamo
rassegnarci alla non-speranza; semmai dobbiamo o possiamo riflettere per
operare. Non bastano atti formali per realizzare la premessa per un autentico
progresso, per una maggiore fiducia in una Giustizia che la società massificata
non ha saputo tutelare.
Certo la Speranza non può essere
riposta nei valori di una furbizia politica fallita; può materializzarsi nel
continuo tentativo ed impegno per una profonda riforma etico-morale che solo i
membri del corpo massonico possono affrontare con priorità, oggi, su tutti gli
altri problemi.
Riforme di strutture, divisioni
dei poteri, prevalenza dei meriti e delle qualità possono porre fine alle
lottizzazioni abusive ed abusate dal potere. Tutto questo è possibile
attraverso quella rivoluzione morale cui i massoni non possono rimanere
estranei divenendone semmai i protagonisti così come è avvenuto nei momenti in
cui la Civiltà, ovvero l’uomo civile è stato in pericolo, rivoluzione morale da
operarsi a tutti i livelli, dentro tutte le classi sociali, masse o élite.
Siamo stati iniziati alla Morale che riposa sulla ragione
umana qua le legge universale ed eterna e dobbiamo guardare al futuro meditando
e proiettando nel mondo profano i veri significati di Democrazia che si
oppongono alle immanenti demagogie e dittature. Quando si travalica e si
travolgono i valori del moralismo, la società costruita sull’immoralismo
violenta l’uomo ed il pericolo corre verso la sottocultura, il cinismo e
l’indifferenza, elementi cullati
nel collettivismo. L’uomo ha bisogno di riporre la propria
fiducia nel suo simile, vuole incontrare la propria moralità, di qui la
necessità di una valida presenza massonica. Il simile può essere un profano da
iniziare, un cittadino onesto e coinvolto, l’uomo che al nostro fianco può
rafforzare la fiducia in una società nuova.
Basta rifarsi ai Templari che attorno al millecento
diedero i primi insegnamenti massonici: osmosi e sincretismo fecero convivere
lavoratori della pietra e cavalieri da severa disciplina interiore. Le
corporazioni dei Liberi Muratori si proposero delle vere e proprie norme
rigorose etiche e professionali e già nel millequattrocento, i centoquindici
documenti della Magna Chatta e le Old Charges ricapitolavano princìpi di
lealtà, capacità nel lavoro, giusto salario, mutuo soccorso tra fratelli.
In tempi così lontani e difficili appaiono già definiti gli elementi
essenziali della nostra scelta: recuperare
l’uomo e la società attraverso il mutuo soccorso a livello speculativo ed
iniziatico. Predicando libertà, eguaglianza e fratellanza si condannava già
allora ogni forma di autoritarismo, terrorismo ideologico e religioso, già
allora si rivendicavano la libertà associativa, di parola, di stampa,
l’abolizione della censura laica ed ecclesiastica, la libertà della servitù
della gleba; allora si lottava contro le prevaricatorie condanne senza regolari
processi, si richiedeva infine cultura e cultura laica nel significato più
ampio di ricerca e gnosticismo. Desaguliers, antipapista, si battè per la
tolleranza della libertà di coscienza, condannò l’ateismo e definì Dio « Grande Architetto dell’Universo ».
Se ci
riportiamo ad oggi, i fatidici corsi e ricorsi storici sono più che mai
attuali! Il dubbio riaffiora solamente quando impietosamente ci guardiamo
dentro per chiederci se siamo sempre preparati, se abbiamo bene impiegato il
nostro tempo con squadra e livella per essere sempre pronti a difendere quanto
abbiamo, per giuramento, scelto.
possiamo tentare di controbattere l’azione di coloro che rivendica.
no posizioni di potere in nome di falsi progressismi, legalitarismi, in nome di
false eguaglianze e fratellanze e di falsi ordini sociali. È ancora il singolo
fratello che deve, con la propria formazione e posizione, vivere quotidianamente la vita massonica intesa come ripresa di
movimento universale. A queste condizioni la massoneria può riproporre le
proprie rigorose norme etiche, professionali e morali: lealtà, capacità, mutuo
soccorso. Il Libero Muratore deve inserirsi o reinserirsi nei problemi attuali
e vivi, nella Scuola, nei rapporti tra Stato Chiesa e cittadini, nelle
rivendicazioni per gli ordinamenti a tutela delle libertà sociali e della
giustizia. Può e deve affrontare la moralizzazione della società, rispettando
le esigenze, le realtà etiche e razziali dei singoli paesi ed ordinamenti dei
gruppi etnici e delle nazionalità. Rilevante dovrebbe essere l’impegno per una
difesa da ogni e qualsiasi compromesso con ogni politica improvvisata,
possibilistica, aleatoria ed opportunista, priva di morale, le cui riserve si
riassumono in quel tipo di potere che è forza e violenza, sopraffazione ed
egemonia, disprezzo per l’individuo.
Sentendo
aggettivare la parola Libertà (democratica, progressista legittimista e chi più
ne ha più ne metta) il Libero Pensatore deve reagire ricordando che libertà e
lealtà sono quelle richiamate da un certo giuramento. Il resto è equivoco!
Se non possiamo realizzare Giustizia, quasi
utopistica aspirazione umana, potremo almeno fare in modo che la violenza e la
forza, più che mai sostenitrici dell’ingiustizia, trovino contrapposizione
nella Morale.
Abbiamo fiducia nelle parole del
vecchio Seneca: Homo sacra lex homini! Fino a quando il nostro simile ci sarà
sacro e sapremo rispettare le Sue libertà, Noi resteremo uomini liberi e cioè
liberi pensatori e potremo fare argine ai negatori delle libertà. E da
uomini liberi potremo
scongiurare e combattere roghi, emarginazioni, torture, oppressioni, genocidi,
violenze, dogmi e immoralità. Vogliamo concludere citando le parole del Gran Maestro riportate in una recente
balaustra.
Dobbiamo aver fede nell’umano Evoluzionismo, che
consegue al Progressivismo della nostra grande Dottrina. E raccoglierne ogni
sforzo, nostro ed altrui, affinché l’attuale convulso ed anarchico pluralismo
si muti in una ordinata Armonica articolazione, rispettosa dei diritti di tutti
e di ognuno non meno che ossequiente agli
insopprimibili doveri, che presuppone una ordinata convivenza
sociale.
All’interno del Gabinetto di
Riflessione compaiono numerosi disegni, oggetti e scritte che rispondono a
diverse funzioni simboliche.
In particolare questa sera ci limiteremo
ad approfondire il contenuto delle due frasi poste sulla parete EST:
VIGILANZA
E PERSEVERANZA
SE
PERSEVERI SARAI PURIFICATO DAGLI ELEMENTI, USCIRAI DALL’ ABISSO DELLE TENEBRE:
VEDRAI LA LUCE
La loro lettura ci comunica i compiti
del futuro massone. Ovvero i doveri di colui che vorrebbe essere iniziato.
Perseverare: il termine, ripetuto due
volte, è molto indicativo del tipo di strada che si dovrà percorrere, una
strada in cui occorrerà “tenere duro”, superare ostacoli, forze
ostili, prove che metteranno in luce tutta la forza d’animo di cui dispone
l’iniziando.
Essa si esplica nella misura necessaria
a fronteggiare momenti di sconforto e di disillusione, momenti di cedimento e
di insicurezza. E il necessario antidoto che ci si autoprescrive per vincere le
tentazioni che tendono ad allontanarci dai propositi assunti.
Una via in cui occorre perseverare non è
sicuramente una via facile né rapida e noi, che iniziandi non dovremmo più
essere, sappiamo bene come sia semplice perdersi, o fermarsi, accontentandosi
dei primissimi risultati, gabellandoli per grandi ed importanti.
Il rischio è evidentemente duplice; c’è
chi abbandona la strada, sceglie altre vie, o si ritira nel suo orticello fatto
di famiglia, lavoro e amici. Andare “in sonno” ci sembra, in questo
caso, un termine particolarmente azzeccato.
Ma esiste un rischio più subdolo che
corrono coloro che in sonno non sono: la “veglia apparente”. Ovvero
frequentare, seguire con interesse, esprimere in Loggia commenti centrati ed
intelligenti, ma non riuscire a cambiare in nulla, a modificare se stessi.
Senza quindi avanzare lungo quel cammino di crescita, unica vera ragione della
nostra presenza in questo Tempio.
Essere insomma dei perfetti massoni il
giovedì sera e perfetti profani gli altri giorni della settimana.
Questa situazione rappresenta un vero
e proprio nodo che, in misura diversa e con tonalità differenti, prima o poi
dobbiamo affrontare e superare.
Una delle cause, forse la principale, è
la mancanza di consapevolezza; noi siamo convinti che la Massoneria sia una
strada che porta alla Luce: “uscirai dall’abisso delle tenebre e VEDRAI LA
LUCE”; la frase è molto chiara, tuttavia sembra che questa convinzione non
raggiunga realmente il profondo del nostro animo, tanto da convincerci a
modificare i nostri ragionamenti e comportamenti.
In questo ambito ecco I ‘importanza della VIGILANZA.
Riteniamo corretto considerare questo
termine come sinonimo di attenzione, concentrazione, prudenza, ma anche
furbizia.
Mentre la perseveranza intervienc
soprattutto in maniera episodica e cioè nel momento della sua necessità, la
vigilanza deve agire in maniera dinamica e continuativa. Deve funzionarc come
una regia, per monitorare il nostro comportamento,
5
modificandolo di continuo, adattandolo, variandolo,
per renderlo il più possibile aderente alle esigenze del percorso intrapreso.
Il tipo di vita che svolgiamo è un sintomo evidente di
mancanza di Vigilanza.
Molti anni fa, in Cina, un
giovane monaco chiese al suo maestro zen: “che cos’è l’illuminazione? A
cosa assomiglia secondo te?”. Il maestro rispose. “Quando mangio,
mangio. Quando dormo, dormo”.
Quando mangiamo stiamo davvero
mangiando? O come spesso capita pensiamo a tutt’altro? Sovente siamo troppo
occupati, a correre di qua e di là, in fretta, dimenticando di restare in
contatto con quello che siamo e che stiamo facendo. A volte inseguiamo mere
illusioni che ci appaiono reali e viceversa rimuoviamo il fine vero della
nostra esistenza che percepiamo con visioni da sognatore.
Questo capovolgimento di valori è
causato da mancanza di attenzione e di consapevolezza; tale mancanza provoca
ripercussioni dirette su tutti gli aspetti dell’esistenza umana, dalle chiavi
smarrite, alle vite sbagliate, all’assenza di crescita spirituale.
La consapevolezza di
essere massoni ogni giorno, ogni ora, forse può essere una tappa importante del
nostro cammino.
Fratelli e se cominciassimo “adesso”?
Perseverare e vigilare in ogni
“nanosecondo” della nostra esistenza; questo è quello che ci viene
chiesto, in fondo è molto semplice, senza deprimersi per ostacoli, difficoltà e
debolczze, ma senza mai abbandonare la Via con la serenità di chi sa che solo
il “crescere” da un senso alla nostra vita.
Per meglio chiarire il
significato di Vigilanza e Perseveranza si allegano ala Tavola alcuni brani
tratti da testi tradizionali. Abbiamo preferito far parlare direttamente coloro
che, avendo speso una vita intera di ricerca, hanno potuto e voluto condensare
in poche righe il frutto di una conoscenza sapienziale che le nostre parole non
avrebbero saputo trasmettere.
18 febbraio 1999 dell’e:.v:. (1 0 grado)
6
Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà
svegli. In verità vi dico che si cingerà, li farà accomodare a tavola e si
metterà a servirli. Che se ne dovesse arfivare anche alla seconda o alla terza
vigilia e li trovasse così, beati loro. Sappiate però anche questo: che se il
padrone di casa sapesse in che ora viene il ladro, non gli lascerebbe aprire un
buco nella sua casa. Voi dunque tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo
viene in un’ora che voi neppure supponete.
Luca 12, 35
Per quanto, poi, riguarda il tempo ed il momento preciso,
voi fratelli, non avete bisogno che vi scriva. Voi stessi, infatti, sapete
molto bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro di notte. Proprio
quando la gente dirà “pace e sicurezza”, improvvisa piomberà su di
essa la rovina allo stesso modo in cui arrivano alla donna incinta i dolori del
parto. E non ci sarà scampo. Ma voi, però, fratelli non siete nelle tenebre
perché quel giomo vi possa sorprendere come un ladro; voi tutti infatti siete
figli della luce del giorno. Noi non siamo figli della notte e delle tenebre.
Non stiamo, dunque, a dormire come gli altri, ma vigiliamo nella sobrietà.
Paolo, Prima lettera ai tessalonicesi 5,1
Come il fabbro ha bisogno di portare sempre il martello in
mano, per via della materia che lavora, così purc l’uomo virtuoso ha bisogno
della fortezza, come un martello spirituale per via delle difficoltà insite
nella via della virtù. Luis De Granada, mistico spagnolo del XVI secolo
Non sarebbe sciocco colui che, uscito con altri per
correre la giostra, per essere caduto nel meglio della corsa, se ne stesse per
terra piangendo ed affliggendosi a ragionare della caduta?
Su, non perdere tempo, gli direbbero, alzati e riprendi a
correre, perché chi con rapidità si rialza e continua la sua corsa è come se
non fosse caduto. Miguel De Molinos, mistico spagnolo del XVI secolo
Credere con leggerezza è leggerezza di cuore.
Promettere facilmente è perdere la libertà.
Concedere facilmente è avere di che pentirsi.
Decidere facilmente è mettersi in pericolo di sbagliare.
Faciloneria nel conversare è causa di disprezzo.
Facilità nell’ira è indizio di follia.
Miguel De Molinos
Prudenza è anche saper temere e saper attaccare. Sapere
quando è guadagno il perdere e quando è perdita il vincere. Saper disprezzare i
giudizi e le opinioni del mondo ed i latrati dei cagnolini che non smettono mai
di abbaiare indiscriminatamente e senza proposito. Luis De Granada
Prudenza è non fidarsi di tutti, né rovesciare subito il
proprio spirito nel calore della conversazione, né dire subito tutto quello che
si pensa delle cose. Chi si fida di colui di cui non deve fidarsi vivrà sempre
nel pericolo e ne sarà schiavo.
Luis De Granada
Le citazioni di Luis De Granada e Miguel De Molinos sono
tratte dal libro “La saggezza dei Mistici spagnoli” Ed. Guanda 1990
Ascolta adesso la descrizione di quello yoga che pcrrncttc
di agire senza essere legati alle azioni. Quando questa intelligenza ti
guiderà, o figlio, potrai spezzare la catene del karma. Per chi segue questa
via, nessuno sforzo è vano, nessun vantaggio acquisito sarà mai perduto; il
minimo passo ci libera dalla paura più temibile.
Chi marcia su qucsta via è risoluto è risoluto nel suo
sforzo ‘e persegue un unico scopo; invece, o figlio amato dei Kuru,
l’intelligenza di chi è privo di questa fermezza si perde in molti sentieri
obliqui.
Bhagavad-Gita Cap. 2, 36-41
Che si faccia o no
della propria vita qualcosa di buono e di degno, il tempo non attende, continua
a scorrere. E non solo il tempo scorre senza posa, ma di conseguenza anche la
nostra vita continua ad avanzare, Se qualcosa non è andato come doveva, non
possiamo tornare indietro e ricominciare da capo. In questo senso, non ci è mai
data una seconda possibilità. È dunque essenziale che il praticante di una vita
spirituale esamini costantemente i suoi atteggiamenti e le sue azioni. Se
sorvegliamo noi stessi ogni giorno con mente attenta e vigile, controllando i
nostri pensieri, le nostre motivazioni e le loro manifestazioni nel
comportamento esteriore, possiamo aprire dentro di noi una possibilità di
mutamento e miglioramento.
Dalai Lama “La via del buddhismo tibetano” Mondadori 1996
pag. 4
II nobile ottuplice sentiero è il sentiero di una vita
consapevole. È basato sull’attenzione. Praticando l’attenzione, puoi potenziare
la concentrazione che ti permette di an-ivare a capire. Grazie alla retta
concentrazione, realizzi la retta consapevolezza, retti pensieri, parole,
azioni, mezzi di sostentamento e sforzi. Arrivando a capire puoi liberarti da
tutti i ceppi della sofferenza e generare pace e gioie autentiche. Thich Nhat
Hanh, Old Path With Clouds citato da Lama Surya Das “gli otto
gradini” Mondadori 1998 pag. 239
Nell’ambito de “I King, il libro dei mutamenti” le
frasi “propizia e perseveranza” “perseveranza reca
salute” sono presenti in almeno 30 dei 64 esagrammi. A titolo di esempio
riportiamo:
Esagramma no 1
KKIENN – IL CREATIVO
SOPRA KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO
SOTTO KKIENN, IL CREATIVO, IL CIELO
LA SENTENZA Il creativo opera sublime riuscita, Propizio per
perseveranza
L’IMMAGINE
Il moto del cielo è vigoroso.
Così il nobile rende se stesso forte ed instancabile.
Esagramma no 13
TTUNG JENN – LA COMPAGNA FRA UOMINI SOPRA KKIENN, IL
CREATIVO, IL CIELO
SOTTO LI, IL RISALTANTE, IL FUOCO
LA SENTENZA
Compagnia fra uomini all’aperto: riuscita.
Propizio è attraversare la
grande acqua. Propizia è la perseveranza del nobile.
L’IMMAGINE
Il cielo insieme al fuoco.
L’immagine della compagnia fra uomini.
Così il nobile ripartisce le stirpi e distingue le cose.
Esagramma no 58
TUI, IL SERENO, IL LAGO SOPRA TUI, IL SERENO, IL LAGO SOTTO
TUI, IL SERENO, IL LAGO
LA SENTENZA
Il sereno. Propizia è perseveranza.
L’IMMAGINE
Laghi poggiati l’uno sull’altro.
L’immagine del sereno.
Così il nobile si riunisce con
i suoi amici Per discutere e per imparare.