MEDICINE E MAGIA ALCHE CONSIDERAZIONI

Medicina e magia – qualche considerazione

Maestro Venerabile, carissimi Fratelli, il lavoro che il Fratello F. Frn, M.’. V.’. della R:.L:.Cavalieri di Scozia ha di recente esposto alla nostra Officina nella Sala dei Passi Perduti dal titolo “Medicina e medici nell ‘Antico Egitto”, mi ha indotto ‘ad alcune riflessioni che vorrei condividere con la Loggia.

Comprendere i modi di pensiero e le azioni proprie delle civiltà tradizionali, è per la mentalità moderna e scientista una impresa alquanto ardua e tantopiù lo diventa quando le civiltà in questione non sono più viventi. In questo caso, non essendoci più interpreti in grado di spiegare i cosiddetti enigmi, ci si approlòria di vestigia per lo più incomplete e lacunose che assai di frequente rischiano di essere male interpretate, soprattutto quando si ha a che fare con lingue di tipo ideografico. Se qualcuno di voi ha qualche dimestichezza con gli ideogrammi ancora in uso ai giorni nostri, per esempio in Estremo Oriente, si renderà certamente conto di quali e quante sfaccettature siano nascoste dietro questi piccoli disegni simbolici che mutano significato a seconda del contesto ed anche a seconda della capacità interpretativa del lettore. L’ideogramma del Sole può contemporaneamente indicare l’astro fisico così come il principio Yang del Cosmo, quello del cuore può essere sia Porgano corporeo conosciuto con tale nome, sia il principio intellettivo che sottende la conoscenza intuitiva, non mediata dalla ragione, che sola può accedere alle realtà di ordine sovrasensibile. Parimenti, dato il carattere universale e metastorico di quest’ultimo simbolismo, non ci si deve affatto stupire se gli antichi egizi consideravano il cuore e non il cervello quale sede dell’intelligenza da essi sicuramente intesa, come fanno gli indù ancora ai nostri giorni, come “Buddhi” (l’intelletto puto, lo Spirito Santo) e non come “Manas” (la ragione discorsiva) la quale, come certamente sapevano anche gli egizi, è localizzata corporalmente nel cervello. Questo è solo uno fra le centinaia, forse migliaia, di esempi che si potrebbero fare circa le confusioni possibili di interpretazione dovute ad una scarsa dimestichezza con il significato dei simboli. Vi possono poi essere delle altre confusioni dovute a modi di espressione convenzionali o traslati spesso utilizzati (talvolta di proposito) nei testi scritti relativi a scienza tradizionali; coloro che si occupano di Alchimia certamente sanno quanta cautela sia necessaria, parlando di testi molto più vicini a noi nel tempo e nello spazio, per tentare I ‘interpretazione; si pensi a parole tipo “mestruo”, “corvo nero”, “salamandra” e molte altre che, in assenza di “chiavi” idonee, non consentono alcuna lettura intelligibile di tali Testi. Si pensi poi a casi molto più banali, frequentissimi in Estremo Oriente, dove i nomi più strani e poetici sono attribuiti a cose, animali o piante, ma di cui, anche nella nostra lingua, abbiano qualche esempio; chi potrebbe ad esempio, conoscendo poco o nulla della nostra lingua, associare l’espressione “non ti scordar di me” al fiorellino azzurro che conosciamo con tale nome?

Tutto questo per dire che, anche da un punto di vista puramente letterale, l’interpretazione dei testi antichi rischia sovente di rimanere âlquanto dubbia quanto al significato reale degli stessi; molti testi massonici, lo sappiamo bene, sono spesso del tutto incomprensibili ai non addetti ai lavori; pensiamo cosa debba essere dei papiri inerenti l’esercizio delle arti sacerdotali degli antichi egizi, i quali fra l’altro pare fossero ben gelosi delle loro scienze segrete.

Si rende a questo punto necessaria qualche parola sulla distinzione che è d’uopo fare fra la cosiddetta Arte Reale (o Regia) e quella Sacerdotale. La prima si riferisce in particolare all’uso di energie appartenenti al cosiddetto “mondo intermediario” e, in Occidente, è nota con il nome generico di Ermetismo nel cui ambito si inseriscono, ad esempio, l’Alchimia e l’Astrologia. Della seconda si può dire che, almeno nel mondo moderno, se ne è persa pressoché totalmente anche solo la nozione, giacché questa si serve di “influenze” provenienti direttamente dal “mondo degli dei”, senza bisogno di altri supporti. Essa veniva un tempo chiamata Teurgia e serviva a richiamare, con l’intermediazione di Oracoli, Profeti e Sacerdoti, le influenze divine direttamente dal Cielo alla Terra. Il carattere sorprendente degli effetti visibili dovuti a questa Scienza è tale che la loro manifestazione viene, per via dell’ignoranza, generalizzata dalle cause, definita come “miracolo”. Applicando questa nozione alla medicina. R. Guénon riporta: “Per la verità, presso i Greci la medicina ad Apollo, cioè al principio solare e a suo figlio Asklepios (trasformato in Esculapio dai Latini); ma nei ‘libri ermetici’ Asklepios diventa figlio di Ermete; si noti poi che il bastone che costituisce il suo attributo ha stretti rapporti simbolici con il caduceo. L’esempio della medicina permette allora di comprendere come una medesima scienza possa avere degli aspetti che si riferiscono in realtà a differenti ordini, dal che derivano corrispondenze egualmente differenti, anche se gli effetti che si producono all ‘esterno sono apparentemente simili, poiché ci è la medicina puramente spirituale o ‘teurgica’, e vi è la medicina ermetica o ‘spagirica’.” (da “Ermete” inserito nel libro “Forme tradizionali e cicli cosmici”, Ed. Mediterranee).

La medicina spariglia si serve di supporti corporei prodotti dalla natura (metalli, pietre preziose, erbe, sostanze animali o quant’altro) per produrre effetti riequilibratori sull ‘organismo del paziente e, pur essendo in genere a carattere risolutivo, comporta spesso cure che, poco o tanto, si profraggono nel tempo (Paracelso ne era capacissimo cultore nel tardo Rinascimento); essa fa anche uso di mezzi che richiamano energie dal mondo sottile o “intermediario” attraverso oggetti “caricati” in modo tale da poter funzionare come accumulatori di tali energie, o sovente con l’imposizione delle mani (metodo usato anche ai tempi nostri in “pranoterapia”) nel qual caso è l’operatore stesso a fungere da accumulatore per poi “proiettare” tali energie benefiche sull ‘ammalato; le “forze” terapeutiche utilizzate sono tuttavia, anche se di natura pranica, sempre appartenenti a questo mondo. Quando si parla invece di teurgia è normalmente il solo tocco o altro tipo di contatto (anche a distanza) con l’officiante che basta a provocare la guarigione immediata del paziente, perché la “forza” messa in gioco attraverso l’Arte Sacerdotale è per definizione di natura divina o celeste e, in quanto tale, sottratta alle leggi del tempo. Il caso storico noto a tutti è rappresentato delle guarigioni miracolose ed istantanee prodotte da Gesù Cristo di cui significativo, fra i tanti, è il caso dell’emorroissa: “Ma Gesù disse ‘qualcuno mi ha toccato, perché io ho sentito che una virtù è uscita da me’. La donna, vedendosi scoperta, si avvicinò tutta tremante e, gettandosi ai suoi piedi, narrò davanti a tutto il popolo perché lo aveva toccato e come fosse stata guarita sull’istante. Ma egli le disse: ‘Figlia, la tua fede ti ha salvata. Vai in pace’!” (S. Luca 8, 46-48).

Sono anche possibili dei “Riti” di tipo teurgico con effetti risanatori la cui tecnica era certamente nota agli antichi Egizi, cosi come ai Druidi, ai Brahmani indù e ad altri rappresentanti della casta sacerdotale in altre tradizioni (un residuo di queste conoscenze è ancora utilizzato con una particolarissima applicazione dai Preti esorcisti); si configurano inoltre “luoghi” che per caratteristiche particolari, il cui studio era l’oggetto di un’altra scienza ormai perduta: la “Geografia Sacra”, sono idonei alla discesa di energie atte, in certe circostanze, a procurare guarigioni apparentemente inspiegabili; in quest’ultimo caso è sovente una apparizione “miracolosa”, dai cristiani spesso percepita come la Madonna, a segnare la presenza di tali energie celesti (non è casuale che la maggior parte dei luoghi consacrati alla Madre di Dio erano in tempi anteriori sacri a qualche equivalente divinità femminile della Tradizione precedente); tuttavia, dato il carattere in qualche modo “spontaneo” di queste manifestazioni, l’energia risanatrice non viene “guidata” da un intermediario umano consapevole, ma viene “attratta” da una particolare disposizione interiore del postulante in un modo simile a quanto sopra descritto nel Caso dell’emorroissa; “la tua fede ti ha salvata”, laddove si deve intendere che una forte “fede” è capace di attirare a sé I ‘influenza spirituale vivificatrice.

Visto il carattere straordinario , sia delle manifestazioni teurgiche, dove questo è del tutto evidente, ma anche sovente di quelle ermetiche o spagiriche, si è sovente attribuito alla Magia la produzione di tali effetti, questo perché si ha la tendenza a definire magico qualunque fenomeno che sembra dovuto a cause “soprannaturali” senza tenere minimamente conto delle forze che sono state messe in gioco. E vero che anche in magia si fa uso di energie provenienti dal mondo intermediario, ma queste sono di solito di qualità alquanto inferiore e, abitualmente, sono bel lungi dall’avere qualsiasi possibilità di applicazione terapeutica; quel che invece è assolutamente certo è l’assenza più totale di “influenze spirituali” nell ‘ambito della magia, essendo queste ultime appannaggio esclusivo delle organizzazioni di tipo iniziatico.

Devo ancora aggiungere qualche considerazione sulla apparente ingenuità di certi metodi antichi di cura, quando non correttamente collocati o intesi. Possono, a questo riguardo, presentarsi numerose casistiche: il testo è male interpretato, il testo prevede l’uso collaterale di strumenti spagirici non di natura corporea, il testo è volutamente espresso in modo velato e suscettibile di essere compreso solo dagli iniziati (chi direbbe che il “Decamerone” di Boccaccio o il “Gargantua e Pantagruele” di Rabelais hanno dei contenuti nascosti di natura iniziatica?), il testo è frutto di traduzione da parte di persone prive delle necessarie conoscenze, il testo è stato redatto in un’epoca in cui le “conoscenze segrete” erano già andate perdute o quantomeno erano alquanto nascoste e riservate a pochi, ecc. Nel tardo Rinascimento abbiamo l’esempio, a volte ridicolo, altre penoso, di certi ignoranti che, venuti a conoscenza delle possibilità di “fare l’oro”, si dedicarono ad una affhnnosa sperimentazione sulla base degli oscuri testi alchemici su cui erano riusciti a mettere le mani, con il risultato, nel migliore dei casi, di aver perso il proprio tempo dietro una chimera. Questi, dai veri Alchimisti, erano dispregiativamente chiamati “soffiatori” e furono gli antesignani dei “Chimici” della Scienza moderna. Qualcosa del tutto analogo deve essere avvenuto per la medicina, per cui non c’è affatto da stupirsi che nel settecento, ai primordi dello scientismo moderno, era meglio non cadere nelle mafii di un “cerusico”. Pensare tuttavia che questo disordinato sperimentalismo, di marca del tutto moderna, possa aver avuto nei tempi antichi una qualche attuazione è comunque del tutto arbitrario; sarebbe assai meglio cercare altrove delle similitudini atte ad una migliore comprensione della scienza antica, per esempio guardando alla antichissima medicina cinese (di cui cominciano a interessarsi anche molti medici occidentali), oppure alla ancor più antica medicina Ayur-Vedica dell ‘India. Bisognerebbe poi acquisire grande dimestichezza con il linguaggio simbolico e con la sua corretta interpretazione, essendo questi, nella maggior parte dei casi, l’unico strumento per la comprensione autentica di testi antichi, in caso contrario si rischia di fare della pura e semplice Archeologia.

Quanto ho accennato, pur essendo suscettibile di ben più ampi sviluppi, ritengo possa già consentire di intravedere quel è il cammino da percorrere per rendere giustizia alla Scienza dei nostri predecessori e per non cadere nella trappola di considerare poco più che “bambini” degli uomini la cui capacità di penetrazione dei misteri dell’universo era forse di gran lunga più avanzata di quanto non potrà mai consentire la Scienza sperimentale moderna, di cui andiamo’ così fieri. E alquanto probabile che. Come Massoni, siamo forse gli ultimi a possedere qualche chiave della “Scienza o Arte Regia” ed è in questa direzione che penso dovremmo volgere i nostri interessi e la nostra ricerca, lasciando ai sofisticati “soffiatori” del XX (quasi XXI) secolo il compito di tentare, laddove ancora possibile, di riparare ai danni ecologici apportati, al mondo che ci circonda, da una scienza cieca che ha creduto di poter fare a meno dello “Spirito che soffia dove vuole, come vuole e quando vuole”.

  1. Orlnd,
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MEDICINA E MEDICI NELL’ANTICO EGITTO

MEDICINA E MEDICI NELL’ANTICO EGITTO

Nell’antichità, i medici egiziani avevano fama di essere i migliori, di tutto il mondo allora conosciuto. Sovrani di tutti i paesi che si affacciavano sul Mediterraneo, inviavano messi al faraone, affinché inviasse loro un medico di palazzo, non fidandosi dei sanitari di casa propria. La medicina egizia fu così rinomata che influenzò anche quella delle civiltà successive, come quella greca, che ebbe la sua punta di diamante nel grande Ippocrate.

La conoscenza della materia ci deriva da fonti indirette, come lo studio degli scritti di storici e viaggiatori del tempo e come l’osservazione di statue, bassorilievi, pitture e ostraca; e da fonti dirette, come la silloge papirea, e dallo studio di mummie e reperti anatomici. E chiaro che se le fonti indirette rivestono notevole interesse, ma vanno sempre analizzate con una certa cautela, le fonti dirette, al contrario, ci permettono di ottenere dati sicuri e inconfutabili.

Fra i principali storici che ci trasmisero notizie sulla medicina egizia, ma che, non dimentichiamolo, visitarono la valle del Nilo in tarda epoca, allorquando l’Egitto classico era già allora materia archeologica, annoveriamo Erodoto, il padre della storia, che descrisse perfettamente le varie tecniche di mummificazione, lasciandoci, inoltre, notizie sulla struttura del corpus sanitario e sull’uso dei farmaci dell’epoca. Notizie ulteriori di farmacopea, ci derivano dalla testimonianza di Diodoro Siculo, mentre Strabone ci descrisse le tecniche chirurgiche dell’epoca. La lettura stessa dell’Antico Testamento, ci consente di avere informazioni su termini medici, su malattie e su tecniche di ostetricia, oltre che a farci sapere che la medicina ebraica assorbì avidamente il sapere egizio in merito.

Ovviamente è cardine fondamentale lo studio dei papiri medici che ci sono giunti nell ‘ordine di una decina. Tutti incompleti, ma ricchi di notizie, anche se restano ancora oscuri, per noi, molti termini soprattutto di natura tecnica, relativi a sintomi, malattie e medicamenti.

La leggenda vuole che i libri medici, che furono all’origine di questi papiri, furono donati all ‘umanità da Thot, il dio dalle sembianze vuoi di ibis, vuoi di babbuino, inventore della scrittura, quindi patrono degli scribi e medico degli dei (salvò la vita ad Horus, guarendolo da una puntura di scorpione). Thot venne assimilato alla figura di Hermes, infatti Galeno ci dice che i medici greci si recavano a Menfi per consultare i libri ermetici di Thot.

Il papiro Ebers è il più completo. Lungo più di venti metri, è composto di 110 pagine, tante quanti sono gli anni di una perfetta longevità, secondo gli Egizi.. Risale alla XVIII dinastia, ma è copia di testi molto più antichi. Tratta le malattie del cuore e dei vasi sanguigni, dà “istruzioni per curare coloro che soffrono di male allo stomaco”; fornisce “principi dei rimedi per la cura delle donne”, tratta inoltre varie patologie internistiche, ci illustra le varie specialità medicinali e le relative formule magiche da affiancare ad esse.

Il papiro Edwin Smith, anch’esso databile alla XVIII dinastia, ma di origine più antica, costituisce un vero e proprio trattato di chirurgia, descrivendo 48 casi di ferite, fratture e lesioni varie. Argomentando di medicina esterna e quindi a causa nota; manca in questo papiro, a differenza del precedente, la componente terapeutica legata alla magia, essendo la chirurgia un campo eminentemente pratico.

Questo documento ci illustra con rigore scientifico la metodologia dell ‘approccio al malato e la semeiotica dell’epoca. Voglio fare un esempio di com’erano articolate le istruzioni per i discenti, sui testi medici di allora. Si iniziava con un titolo del tipo: “Istruzioni riguardanti una ferita aperta della testa, che penetra fino all ‘osso e che perfora la scatola cranica”. Seguiva l’esame obiettivo, che cominciava sempre in questo modo: “Se tu esamini un uomo che ha una ferita aperta nella testa, che penetra fino all ‘osso e che perfora la scatola cranica, devi allora palpare la sua ferita. Noterai la sua incapacità a guardarsi le spalle ed il petto, essendo il suo collo dolorante e rigido (possibili segni meningei o di tetano cefalico)”. Seguiva quindi la diagnosi che ripeteva le parole del titolo, introdotte per lo più da questa frase: “Dirai a questo proposito: si tratta di un individuo che presenta una ferita aperta nella testa, che penetra fino all ‘osso e che perfora la scatola cranica e che soffre di rigidità al collo”.

Dopo la diagnosi veniva emesso il verdetto che equivale alla nostra prognosi: “È un male che tratterÒ”. Infine viene descritto il trattamento: “Ora, dopo aver suturato con un punto, devi applicare carne fresca sulla ferita per il primo giorno. Non devi fasciarlo. Fissalo al suo palo, che lo trattenga fino a quando non sia trascorso tutto il tempo della lesione. Successivamente, ogni giorno, devi medicarlo con grasso, miele e garza”. Al riguardo è da notare che esistevano tre tipi di verdetto: “è una malattia che curerò” (quindi prognosi fausta), “è una malattia contro cui combatterò” (prognosi riservata), “è una malattia per la quale non c ‘è nulla da fare” (prognosi infausta).

Cito per completezza altri papiri interessanti come I ‘Hearst (sui farmaci), quello di Londra (malattie degli occhi, ginecologiche, medicamenti), quello di Berlino (294 ricette, testi di magia, ginecologia), di Kahun (ginecologia), il Cester Beatty (malattie dell ‘anno), eccetera.

Un’idea delle patologie che affliggevano gli Egizi ci deriva dall’osservazione delle arti figurative espresse da questo antico popolo. Se, ad un osservatore superficiale, l’iconografia egizia può sembrare stucchevole e scarsamente differenziata, in virtù della tendenza alla idealizzazione della figura umana, che vincolava gli artisti, un occhio più esperto può invece notare quanto realismo permeava la ritrattistica dell’epoca. E quindi possibile riconoscere malattie o deformazioni fisiche di molti personaggi, crudelmente riprodotte dall ‘artista. Partendo dalla mostruosa lipodistrofia della regina di Punt, evidente in un bassorilievo nel tempio di Hatchepsout, si nota come l’obesità appesantiva molti notabili; apprendiamo che molti arpisti erano ciechi; troviamo figure affette da nanismo di varia etiologia; notiamo poi ernie scrotali o ombelicali, tumefazioni varie, rachitismo derivante da gravi carestie (Saqqara); interessanti poi sono il riscontro di elefantiasi degli arti inferiori in una statua del re Montuhotep (verosimilmente affetto da filariosi) e gli evidenti di poliomielite a carico del siriano Ruma riprodotta sulla sua stele funeraria.

Rilevanti sono poi i ritrovamenti archeologici di strumenti medici, così come la rappresentazione sulla parete del tempio di Kom Ombo, di un intero set di strumenti chirurgici.

Ben più intensi e significativi sono i dati che ci derivano dallo studio delle mummie, la cui osservazione si basa fondamentalmente sull’esame obiettivo macroscopico, sui rilievi radiografici, sulla microscopia ottica ed elettronica, sullo studio dei gruppi sanguigni ed in prospettiva, sulla biologia môlecolare.

Le collezioni egizie sparse per il mondo annoverano ben 8977 mummie, di cui 1 1 18 ospitate e studiate al museo di Antropologia dell ‘Università di Torino, dove tra l’altro si trova la mummia di una donna morta durante il parto, per estroflessione dell’utero (reperto per cui il Museo ha ricevuto offerte miliardarie da parte di altri musei, desiderosi di acquisirlo). Sono noti, poi, 475 resti mummificati, di cui 105 a Torino.

Lo studio radiografico, di cui il Marro fu capostipite a Torino, permette di evidenziare un gran numero di patologie osteo articolari ed odontoiatriche, la presenza di calcoli biliari e renali e di calcificazioni arteriosclerotiche. Interessantissimo al proposito lo studio della mummia del re Sekenenra Tao (che i fantasiosi autori del libro “La chiave di Hiram” pretendono di assimilare alla figura di Hiram stesso) che mise in evidenza le orrende e mortali ferite riportate dal sovrano, combattendo contro gli invasori Hyksos, ferite che per la loro netta conformazione hanno potuto essere messe in relazione con ben precise armi dell ‘epoca.

Altre importanti notizie ci vengono dallo studio bioptico dei tessuti mummificati, riconoscendo in tal modo malattie degenerative, tumorali, cirrosi, silicosi, antracosi, epatiti, parassitosi e molte altre. Possiamo inoltre ottenere notizie del colore della pelle e quindi renderci conto del tipo di razze che abitavano la valle del Nilo nell’antichità.

Dai gruppi sanguigni e dalla genetica siamo in grado oggi di stabilire i legami di parentela, tanto importanti dal punto di vista storiografico.

La cura delle malattie, specie quelle che oggi chiamiamo internistiche e per quei tempi ad origine sconosciuta, non poteva prescindere dal ricorso alla magia. E una vexata quesito, se sia nata prima la medicina e quindi la farmacia empirica o la magia: attualmente i reperti filologici ci forniscono indirizzi contrastanti. In ogni caso, lo studio dei testi medici egizi ci fa pensare che l’importanza della magia cresca col progredire di questa civiltà.

La magia impiegata dai medici egizi era fondamentalmente quella detta di “tipo simpatico o di trasmissione”, basata su due principi essenziali: la legge della similitudine o rito omeopatico e la legge di contatto o rito di contagio. Ecco un esempio della prima legge: “Istruzioni da seguire qualora una donna sia soggetta a dolori dell ‘utero mentre cammina”. “Tu le domanderai: che odore emani?” Se essa ti risponderà: “l ‘odore della carne bruciata (segno di tumore all’utero)”. Allora tu le dirai: “sono nemsu dell ‘utero”. “Affumicala con ogni sorta di carne bruciata, che corrisponda esattamente all ‘odore che essa emana”.

Meno seguita era quella parte della magia che corrisponde alla legge di contatto, per cui le cose che siano state a contatto una volta continuano ad agire una sull’altra, anche quando questo contatto sia cessato (vedi i vari riti eseguiti sui vestiti, capelli, unghie di una persona che ancora oggi trovano grande seguito tra le persone credulone). Le formule magiche, pronunciate dal medico o dal malato stesso o da parenti, contenevano ingiunzioni, proibizioni, inviti o minacce; talvolta l’officiante affermava addirittura di parlare a nome di una divinità, nel tentativo di scacciare il male. Gli esorcismi dovevano essere effettuati in luoghi e ore precisi e ripetuti più volte in base a numeri magici (per lo più il quattro nell’epoca classica, il sette nell’epoca tolemaica). Numerosissimi erano gli oggetti magici, i cosiddetti amuleti e le statue guaritrici, ma spesso i medicamenti stessi erano substrato su cui gli esorcismi si estrinsecavano. Tipico era anche l’uso dei cosiddetti rimedi repellenti, generalmente derivati fecali, che introdotti nel corpo del paziente avevano il potere di scacciare il male, per repulsione. Un esempio: “preparerai una pozione di semi di papavero e sterco di mosca, per calmare un bambino che strilla”! E intuitivo che Pazione sedativa richiesta era opera degli oppiacei che, come noto, sono contenuti nel seme del papavero.

Ma veniamo a parlare, ora, dei medici stessi, di come agivano, di come erano organizzati. Già allora sussisteva l’attuale divisione in medici generici e specialisti. Di loro Omero diceva: “Terrafertile l’Egitto che produce droghe in abbondanza; alcune sono medicine, altre veleni. E il paese dei medici più sapienti della terra”. Ed Erodoto: “La medicina in Egitto è così ripartita: ogni medico si occupa di una ed una sola malattia. Esiste un ‘infinità di medici; gli uni curano gli occhi, gli altri la testa, altri ancora i denti, altri I ‘addome, altri le malattie ad incerta localizzazione”.

Il geroglifico che noi leggiamo “Sunu” e che traduciamo “medico” era rappresentato da una freccia sovrapposta ad un vasetto rotondo. Tale parola deriva dal verbo “sun”, ovverosia “essere malato”, quindi sunu significa “colui che appartiene a chi è malato”. Quindi ad esempio “sunu irty” era il nostro oculista, “sunu khet” il gastroenterologo, “sunu per aa” il medico reale. Esistevano medici di collettività: medici militari, medici del lavoro, medici della necropoli tebana. sappiamo come erano gerarchicamente strutturati, per cui troviamo lo “Ur sunu”: il più grande dei medici o archiatra. Abbiamo notizie poi di un capo dei medici dell’Alto Egitto e di uno del Basso Egitto, eccetera.

Essi compivano il loro apprendistato nelle università di allora: le case della vita, che sorgevano presso e alle dipendenze dei principali templi, dove apprendevano la materia specifica, ma anche altre dottrine, vuoi esoteriche, vuoi pratiche, per cui la storia ci ha tramandato il nome di grandi medici, ma al tempo stesso anche astronomi e architetti, come Amenhotep, figlio di Hapu, e Imhotep, costruttore della prima grande piramide della storia, quella di Djoser a Saqqara, figura che i Greci identificarono in Esculapio.

Diodoro Siculo ci racconta che i medici assistevano gratuitamente i malati, in quanto pagati dalla società. Ma ciò verosimilmente avveniva in bassa epoca, poiché è noto che nel periodo classico essi venivano remunerati in natura, non esistendo in Egitto la moneta. Leggiamo, a proposito di una partita di semi destinata ai lavoratori della necropoli reale: “Due kar di semi per due scribi, tre kar per un addetto al portale, un kar per un medico”. Ma sappiamo che medici valenti venivano retribuiti in oro e oggetti preziosi, tanto da poter accumulare, nella loro vita, notevoli fortune.

In sostanza i medici egizi erano sicuramente, per l’epoca, molto validi. Seguivano il concetto, poi fatto suo da Ippocrate, “Primum non nocere”. Seguivano ortodossamente la letteratura, lasciando poco spazio all ‘improvvisazione. Erano buoni conoscitori dell’anatomia umana e della fisiologia, ignorando soltanto le funzioni del cervello, da loro attribuite al cuore. Raccomandavano l’igiene come prima fonte di benessere e consideravano l’eccessiva alimentazione come causa della maggior parte dei mali. Conoscevano i farmaci, per lo più di origine vegetale (quasi tutta la flora egizia era sfruttata all’uopo), più raramente minerale; verosimilmente non usavano veleni. Preparavano essi stessi i medicamenti che somministravano come bevanda (in acqua, birra, vino), come pappa (con miele, sangue, grassi, bile, midollo) o come pillole e cataplasmi (con cera o argilla).

Diciamo, infine, che il quadro fisiopatologico dell’Antico Egitto era sovrapponibile a quello dei popoli attuali, a più alto livello civile. È altresì importante rilevare l’assenza quasi certa di malattie veneree, la rarità delle malattie mentali, la frequenza elevata di malattie odontoiatriche (con conseguenti ascessi dentari, talvolta con esito infausto per setticemia), tumori vari (soprattutto ossei), malattie infettive, parassitosi, malformazioni da carenza di calcio, malattie degli occhi (tracoma), artriti, calcoli. , eccetera, fino al mal d’amore.

E concludo descrivendovi quella che è forse la prima documentazione scientifica di uno dei mali attuali più preoccupanti e più frequenti, l’infarto cardiaco: “Se esamini un malato sofferente alla bocca del cuore, mentre ha dolori al braccio, al petto e ad un lato del suo stomaco, puoi dire di lui è la malattia uadj, ed a tal proposito dirai: è qualche cosa che gli è entrata in bocca, è la morte che lo minaccia. Preparerai per lui una medicazione benefica a base di erbe: semi di pisello 1, brionia 1, niuniu 1, innek 1, chicchi rossi di sekhet 1; cuocerai tutto nell’olio e lo farai bere al paziente. Porrai su di lui la tua mano, tenendola distesa, sino a quando il suo braccio andrà meglio, essendosi liberato dal dolore e dirai: questa sofferenza è scesa al retto, all ‘ano. Non ho più alcun bisogno di ripetere la medicazione”. Cari Fratelli, lo stress esisteva anche allora!

R:.L:.  

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RICERCA DELL’ESSENZA DELLA MASSONERIA

RICERCA DELL’ESSENZA DELLA MASSONERIA

 (Ovvero opinioni di un “vecchio Fratello”)

“Secondo la sua essenza la Massoneria non è meno antica della civiltà”.

(I dialoghi di Lessing)

Premessa.

Le opinioni che in appresso manifesterò, peraltro ricorrentemente manifestate anche da altri, scaturiscono da molti anni di soddisfacente appartenenza alla M.a ,dalla frequentazione assidua dei lavori di Loggia che costituiscono un osservatorio privilegiato dal quale, negli anni, ho notato essenzialmente:

 La Loggia ha sempre lavorato regolarmente, secondo tradizione, rituali e regolamenti dell’Ordine, nominando o eleggendo Venerabili e Dignitari che hanno costantemente lavorato affinché i Fratelli avessero a disposizione tutto quanto il necessario per lavorare in modo “giusto e perfetto”;

 Ad ognuno è stata data l’opportunità di ricercare la propria via partendo dalla base comune costituita, appunto, dalla regolarità dei lavori, dal rispetto dei “Landmarks” legittimando:

  1. Il Fratello “A” che privilegia la via “semplice” senza eccessive elucubrazioni mentali bastando (per lui) essere in Tempio a lavori aperti;
  2. Il Fratello “B” che vorrebbe hlscire” per realizzare qualcosa non meglio definito;
  3. Il Fratello “C” al quale bastano poche tornate l’anno per soddisfare le proprie necessità di ricerca;
  4. Il Fratello “D” che ritiene la speculazione l’unica via fruttuosa;
  5. Il Fratello “E” che scolpisce tavole solo quando è per cosi dire in “crisi”;
  6. Il Fratello “F” al quale va bene qualsiasi cosa. (legittima). Basta esserci.

Tutte posizioni legittime. Hanno prodotto qualche passo in avanti verso la Luce? Esiste il modo di verificare?

Tutto ciò premesso, senza voler insegnare la Via a chicchessia, esprimo alcune considerazioni.

L’aspirazione ad essere migliori, ad emergere, a contare nella vita è nella natura dell’uomo. Se si attua nel rispetto della deontologia, della correttezza e nell’osservanza dei principi etici universali è addirittura lodevole. Del resto, nell’insegnamento delle Logge massoniche si stimola, come già detto, l’Iniziato a voler “scavare profonde ed oscure prigioni al vizio ed elevare templi di virtù”. Purtroppo nella società in cui viviamo, povera di ideali e di principi etici, l’aspirazione ad essere migliori è sostituita da un insieme di accorgimenti ipocriti, sleali, finalizzati a farci apparire migliori degli altri e a farci apparire i soli capaci di azioni degne di lode. Ci attribuiamo meriti che non abbiamo, sottraendo agli altri, il frutto del loro lavoro, del loro sacrificio e della loro abnegazione, non perdiamo occasione per metterci al centro di tutto, non perdiamo occasione per calunniare gli altri al fine di diminuire la loro dignità e far emergere la nostra, non perdiamo occasione per ingigantire i difetti altrui in modo da fare rifulgere le nostre “eroiche” qualità.

Oggi tutti questi atteggiamenti ignobili vanno sotto il nome di protagonismo.

Il protagonismo è potrebbe essere considerato colpa massonica perché è la negazione del dovere di lavorare per il Bene dell’Ordine ed a Gloria del Grande Architetto dell’Universo.

Non è forse nei nostri Templi che i Fratelli vengono ad imparare (anche) la tolleranza, a praticare la solidarietà, a sconfiggere l’incertezza, l’ansia, la paura dell’uomo di oggi?

La radice della Massoneria è nell’uomo, nella sua ansia di conoscere, di superare il fisico ed il materiale, il provvisorio ed il caduco per giungere a una sintesi, (essenza) attraverso la ricerca esoterica, dei principi generali e universali, eterni ed immutabili che pongono l’uomo al centro del grande crocevia in cui si incontrano e si intersecano i fenomeni religiosi, filosofici, scientifici, storici e culturali. Quale massoneria privilegiare?

Non certo quella che nel Tempio dà spazio ai metalli e alle quotidianità, non quella che porge orecchio e dà ascolto a chi, con la scusa dell’impegno sociale, intende immergere la Loggia nel catino del potere profano, non quella che nel Tempio trascina lavori ripetitivi e monotoni, incontri senza anima, sempre più lontani dalla sacralità e dall’impegno rituale. Non saranno certo i Fratelli assenteisti, né quelli che accettano il rito come manifestazione esteriore e non già come interpretazione e realizzazione del simbolismo e della mitica Tradizione della Massoneria, non saranno costoro a farsi carico dei mali e dei dolori dell’umanità, poiché non si rendono conto che atteggiamenti, atti, pensieri, parole, hanno senso solo se dedicati al Grande Architetto dell’Universo e al bene dell’Umanità. Solo quando tutti i Fratelli avranno l’animo sgombro dai vincoli della profanità e si disporranno a indagare sulle origini dell’uomo e delle cose, sul trinomio “donde veniamo, chi siamo e dove andiamo”, solo allora tutto sarà giusto e perfetto.

Per quanto sia chiaro a tutti che la Massoneria non ha spazio né tempo e che la durata di un lavoro di Loggia è meno di un battito di ciglia dell’Universo, è tuttavia altrettanto vero che la Massoneria nel suo respiro universale è costituita da tutti quegli attimi vissuti in ogni Loggia del mondo. Quando ogni Fratello concentrerà la propria intelligenza e la porrà al servizio delle Luci della Loggia e della Catena d’Unione nel Tempio si sprigioneranno luce ed energia sufficienti ad illuminare i Lavori ed a guidarli verso l’elevazione dell’uomo. Et in quella atmosfera magica e mistica che ogni Fratello comprende il senso della sua appartenenza all’Istituzione.

L’Apprendista impara che saggezza talora vuol dire non parlare; il Compagno assapora la conoscenza e tuttavia si rende conto che la via della verità è lunga e difficile, disponendosi ai lavori con grande umiltà. Il Maestro ha presente il peso e la responsabilità dell’insegnamento e, sentendosi impari, fa propositi di un impegno di lavoro sempre più fermo e tenace.

Le Luci devono reggere, sorreggere, correggere i Fratelli. Gli Ufficiali ed i Dignitari debbono comprendere che la vita della Loggia dipende anche dal loro impegno a penetrare il profondo significato della loro carica ed a interpretare la funzione con dignità, disciplina e sacralità.

Solo il mondo iniziatico ha certezze. E’ l’unico mondò che non sogna rivoluzioni, né violente, né programmatiche, né istituzionali. L’iniziato accetta attivamente e con saggezza la tradizione e cerca di interpretarla sempre più profondamente e sempre più coerentemente.

L’iniziato lavora alla costruzione di una diversa umanità: più giusta, più tollerante, più disponibile a guardare negli occhi il proprio simile, a condividere gioie e dolori.

L’iniziato ha i suoi scampoli di gioia in questa terra ed essi si realizzano ogni volta che, con gli altri Fratelli, lavora in Loggia alla edificazione del tempio della propria personalità, sotto la guida di un Istituzione massonica monda di sospetti e di brutture, protesa all’elevazione materiale, culturale e spirituale dell’intera umanità.

Guai a noi se non elimineremo i maestri di profanità che siedono fra le nostre Colonne, Fratelli che pur cingendo i propri fianchi del grembiule di Maestro sono spiritualmente legati alla Colonna del Nord ed agiscono e si comportano come se la Loggia fosse una pubblica piazza o peggio un club profano.

Bisogna combattere il lassismo, generatore di confusione e disordine. L’urgente ed improcrastinabile instaurare una disciplina esteriore .che produca scrupolosa osservanza della sacralità e ritualità della Loggia.

L’insegnamento e la pratica iniziatica devono accompagnarsi ad una grande disciplina interiore, sicché ogni parola, ogni comportamento, ogni gesto, ogni atteggiamento siano di estrema coerenza con l’assoluta esclusione dei metalli dal Tempio.

Non dimentichiamo che la Massoneria cerca sempre di comprendere, mai di giudicare; che la Massoneria respinge ogni forma di fanatismo ed ogni tentativo aperto o subdolo di emarginazione e di umiliazione dell’uomo. Che la Massoneria vuole la lealtà e la sincerità dell’uomo e ne respinge la doppiezza e l’ipocrisia, il conformismo e la doppia morale.

Al mondo del dolore, al mondo dei vinti, al mondo dei nemici della natura, al mondo degli stolti, al mondo degli atei e dei materialisti noi offriamo la meditazione sul modello di vita della Loggia massonica dove oggi, oltre ai concetti illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza, s’insegnano i concetti di tolleranza e di responsabilità, cosi necessari nei pensieri e negli atti quotidiani di ogni uomo.

La saggezza della Tradizione massonica insegna che si deve lavorare nei tre Gradi: Apprendista, Compagno e Maestro. Avverte anche che a quest’ultimo Grado si deve pervenire, non per anzianità, ma per acquisizione di saggezza massonica e di pienezza iniziatica. Solo così potremo contemplare il cielo da Occidente ad Oriente, da Settentrione a Mezzogiomo e dal Nadir allo Zenit.

Lavoriamo, studiamo e meditiamo con serietà e scrupolo.

Lavoriamo per penetrare lo spirito della nostra ritualità, del nostro simbolismo, affinché ognuno di noi sia più istruito, più tollerante, più disinteressato, più propenso a morire ai difetti, alle incrostazioni, ai condizionamenti del proprio passato profano.

Lavoriamo per insegnare ai Compagni e agli Apprendisti che nella vita iniziatica nulla conta, eccetto ciò che è compiuto con adesione interiore e per insegnare loro che i riti ed i simboli sono stati sempre il sale della sapienza.

Lavoriamo per correggere la presunzione, la frettolosità nel giudicare, senza tenere conto di alcuna autorità; l’intransigenza nel condannare, senza riserva, tutto ciò che non collima con la nostra opinione personale. La superficialità e la leggerezza nel formarci convincimento senza una scrupolosa ricerca ed una seria analisi della complessa realtà che è la vita di ognuno dei nostri simili.

Non affrettiamoci a condannare, Fratelli! Il bianco e il nero dei nostri pavimenti c’insegna che nelle umane cose il bene ed il male, il vero e il falso, amano spesso stare l’uno accanto all’altro. Il profano non sa del bianco e del nero dei nostri Templi, non ne intende il profondo significato ed insegnamento e quindi si confonde e s’inganna nel giudizio.

Riconoscere il bianco e il nero in tutte le cose è prerogativa dell’lniziato, che perciò deve esprimere solo giudizi con indulgenza e con tolleranza.

La Massoneria non richiede ai suoi adepti di imitare i monaci o gli eremiti, i santi o gli stiliti. Essi avevano come obiettivo primario la salvezza della propria anima e l’acquisizione di un posto nel Regno dei Cieli. Ma in fondo erano anche molto egoisti, infatti, essi pensavano solo alla propria salvezza ed al proprio perfezionamento, uscendo così dal mondo, allontanandosene e disinteressandosene il più possibile.

Uno dei capisaldi dell’apprendimento libero-muratorio è che ogni uomo, singolarmente, deve lottare contro l’errore ed avviarsi alla conoscenza con le proprie forze. La verità è cioè conquista del singolo, peraltro mai completa, come insegna la nostra Tradizione, sapendo che la Tavola non è mai completa, né finita.

S. Pnt, 1 0 ottobre 1998 dell’e:.v:. (1 0 grado)

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DIVAGAZIONI

DIVAGAZIONI

Tempo fa, riflettendo sulle mie vicende personali, mi accorsi di quanto potesse cambiare, e in quanto poco tempo, il mio modo di considerare le cose, quelle piccole e insignificanti e pure quelle importanti. Mi accorsi di guardare il mondo con occhiali che passavano dal grigio al colore e viceversa in perfetta correlazione con altre esperienze, la scoperta dell’acqua calda, mi direte. Nei libri che parlano della Tradizione il capitolo sul sesso manca, nella vita invece no.

Sarà che ai tempi di Salomone o delle Cattedrali non conoscevano il Signor Freud, ma mi sembra un tantino strano che si possa pensare di “conoscere se stessi” saltando a pie’ pari la sfera sessuale. In quasi cinque lustri di Massoneria non ne ho mai sentito parlare. Tranquilli, credo di non confondere il Lavoro di Loggia col lettino dello psicanalista, ma qualche considerazione di carattere esoterico sul tema, penso si possa azzardare. Certo non un’analisi sistematica, solo considerazioni alla rifusa, divagazioni appunto. Precisazione: intendo per esoterico il significato più semplice e letterale di interno, intimo, nascosto.

Quando pensiamo in termini astratti possiamo avere il dubbio di non esistere, di essere il sogno di una farfalla addormentata, ma quando i nostri sensi patiscono un dolore fisico acuto oppure stimoli gradevoli, allora la percezione della nostra esistenza è mille volte più evidente e tangibile. La percezione della propria natura corporea è indispensabile per guardarsi allo specchio. Pensare che la materia sia solo una componente accidentale, transitoria e marginale del nostro essere è un po’ come illudersi di assomigliare agli angeli. La materia, intesa come fisicità (brutta parola) è l’aspetto caratterizzante della nostra natura, non a caso siamo pietre. La squadratura della pietra, è un lavoro sulla materia, inventarsi un’immagine più ideale è solo più appagante, ma è ingannevole.

La sessualità ci fa urtare con un mare di divieti. Usualmente i limiti posti dalla morale, anche se sempre scomodi, sono chiarissimi. Impediscono di arrecare danni al prossimo. Non ho mai capito che male possano farsi un uomo ed una donna se desiderano unirsi anche solo saltuariamente. Comunque si voglia girare la questione resta il fatto che la cultura che abbiamo respirato persiste a gettare una luce negativa sulla problematica generando scrupoli e amare perplessità. Il senso di colpa del sesso ha radici misteriose. Vi siete mai chiesti perché, per insultare qualcuno, lo chiamiamo come un organo sessuale?

Tutti gli altri istinti principali dell’uomo sono volti all’autodifesa dell’individuo, alla sopravvivenza, il sesso no, lui lavora per la Specie, non per l’individuo. E come un inquilino che ci abita e ci usa. Quando l’individuo ha procreato, o non serve più a riprodurre, può pure scomparire. E un padrone spietato e cinico, quando lo serviamo siamo riccamente ripagati, se lo contrastiamo siamo puniti. La punizione può essere bruciante o più subdola e sfuggente: insoddisfazione, monotonia, rassegnazione. Limitare la sessualità equivale a spegnere il gusto di vivere. Seguirla può condurre il nostro senno, come quello di Orlando, sulla luna.

Il buon selvaggio, più vicino di noi all’età dell’oro, come possiamo ancora vederlo in remote parti della terra, si abbandona senza alcuna remora alla propria inclinazione naturale. È forse la morale che frena lo sviluppo della vitalità, la vera responsabile della nostra era di decadenza? Il vero peccato originale?

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Il nostro tappeto a scacchi dovrebbe insegnarci il rapporto, l’equilibrio fra bene e male. Quale rapporto può esservi fra bene e male? Nessuno, uno andrebbe perseguito e l’altro evitato, uno schema semplicissimo, banale in teoria. O forse i quadri bianchi e neri, tra cui cercare l’equilibrio, significano altro?

La realizzazione coincide con il dissolvere l’individuale nel generale. Un animale che evita le scelte personali e si abbandona alla superiore volontà della specie, si realizza?

Il saggio, che con la forza della sua volontà e del suo intelletto, riesce a vincere la propria natura, abbandona i metalli e vive nella purezza più assoluta, è un realizzato o un folle arrogante che sfida I ‘armonia disegnata dal Grande Architetto?

L’illusione della “realizzazione” è forse una delle idee più infauste prodotte dal nostro pensiero e dalla nostra cultura, una grande invasione dei tartari, nella cui vana attesa spendiamo buona parte delle nostre migliori energie.

Un architetto disegna, inventa strutture, col proprio pensiero e la propria cultura traccia un disegno. Se il progetto obbedisce alle leggi naturali della gravità e dell’equilibrio, se tiene nel debito conto la pesantezza e la qualità dei materiali, allora è realizzabile, diversamente è destinato a rimanere sulla tavola da disegno, se realizzato produce macerie. Una costruzione troppo ardita, come una torre che unisca la terra al cielo, è destinata a produrre solamente danni.

La cultura degli ultimi secoli, rivoluzione scientifica, riforma, controriforma hanno dilatato la sfera del pratico, del conveniente, del dovuto, del lecito, del buon senso applicato a tutto. Per esempio la sessualità è lecita solo se giustificata dall’amore come suo completamento. E una penosa bugia, la realtà indica l’esatto contrario, un buon rapporto può generare amore mentre un rapporto non buono consuma ed esaurisce l’amore. Sovente ci inganniamo scambiando l’amore con l’affetto e l’abitudine. Dalla lettura degli scritti degli antichi mi sembra che il mondo classico avesse raggiunto un miglior equilibrio fra il pensato e l’istintivo, fra apollineo e dionisiaco. Anche se oggi pensiamo di essere in crisi di valori e ci sentiamo trasgressivi, in realtà il dionisiaco è tutto catalogato nel non consentito, tutto biasimevole. Più che i valori, secondo me, si sono smarriti il senso della misura, la percezione della nostra vera natura, la necessità di uno spazio per ciò che è naturale ed istintivo. Per produrre una pietra cubica occorre lavorarla secondo i piani e gli angoli della sua struttura cristallina, cioè in armonia con la sua natura più intima.

Terminando vi ricordo un saggio consiglio degli antichi: “Semel in anno licet insanire …”.

G. B. Plin, 24 settembre 1998 dell’e.•.v  (1 0 grado)

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IL SILENZIO

IL SILENZIO

In occasione di una recente riunione tra amici, accomunati dagli stessi interessi, ho provato ad evidenziare alcuni aspetti di quella Scuola Iniziatica alla quale siamo tutti iscritti.

In particolare vorrei, questa sera, proporre alla vostra attenzione un particolare che fa parte integrante del metodo proposto dalla scuola fino dall ‘ingresso dell’allievo: il silenzio.

Ho inteso molte volte, nell’ambito delle nostre discussioni, sottolineare il significato morale, relativo al comportamento che deve tenere il “nuovo allievo”, il quale deve imparare a tacere, modestamente, ascoltando con umiltà quanto viene detto e dibattuto da persone con maggiore anzianità ed esperienza.

Vorrei provare a dimostrate che significati assai più profondi sono collegabili a questa esperienza più o meno lunga del silenzio.

La metodologia che userò per la dimostrazione, a parte alcune considerazioni iniziali, è legata al suggerimento che viene dalla Tradizione: “ascoltate ciò che dicono i grandi maestri e confrontatelo meticolosamente; quando troverete delle ripetute coincidenze, sappiate che vi trovate di fronte a frammento della Verità”.

Il profano confonde il mondo con la propria attività e con il tentativo costante di trarre vantaggi dal mondo; secondo questa prospettiva, ci si rappresenta il mondo con una propria visione che è anche quella che suggerisce ciò che è buono e ciò che è cattivo per noi stessi, quindi quale è il nostro vantaggio, in una rappresentazione arbitraria, creduta “vera”.

Noi impariamo a pensare tutte le cose e addestriamo i nostri occhi a guardare le cose che vediamo, nel modo in cui le abbiamo pensate. I nostri atti ci sembrano importanti perché abbiamo imparato a pensare che siano importanti.

Inoltre noi parliamo continuamente di noi stessi. Parliamo del nostro mondo, della rappresentazione che abbiano fatto di lui: attraverso il nostro continuo discorso interno manteniamo vivo il nostro mondo.

L’iniziato è consapevole di tutto ciò e cerca si smettere di parlare a se stesso, ma è anche perfettamente consapevole che quando smetterà di parlare a se stesso il mondo cambierà e il colpo sarà terribile.

Egli sa che il mondo è questo o è quello, è cosi e così solo perché noi diciamo a noi stessi che quello è il mondo esistente. Se smettessimo di parlare a noi stessi, il mondo non sarebbe più cosi.

La scuola ci propone immediatamente, tra gli aspetti più caratteristici del suo metodo, il silenzio per un anno almeno, sperando che la lezione impartita attraverso una imposizione fisica serva a questo apprendimento.

Non credo che sia un caso che uno dei più famosi testi di Alchimia si intitoli “Mutus Liber nel quale, tuttavia, tutta la filosofia ermetica è dipinta per figure geroglifiche …” e nel quale le uniche parole scritte sono il famoso invito “ora, lege, lege, relege, labora et invenies”, prega, leggi, leggi, rileggi, lavora e troverai. Il Maestro sconosciuto non trasmette nella, né a voce, né per scritto: l’invito al silenzio e alla meditazione sui simboli non potrebbe essere più esplicito.

“Pensi e parli troppo. Devi smettere di parlare a. te stesso” afferma il vecchio saggio all ‘allievo Carlo De Castaneda, e aggiunge “ogni volta che smettiamo di parlare a noi stessi il mondo è sempre come dovrebbe essere. Noi to rinnoviamo, lo

accendiamo di vita, lo sosteniamo nel nostro discorso interiore. Non solo, ma mentre parliamo a noi stessi scegliamo anche i nostri sentieri. Perciò ripetiamo continuamente le stesse scelte fino al giorno della nostra morte, perché continuiamo a ripetere sempre lo stesso discorso interiore”.

“11 guerriero ne è consapevole e cerca di smettere di parlare.” (C. De Castaneda, Una Realtà Separata, pag. 191).

“Tutto ha il suo momento e ogni cosa ha la sua ora sotto il sole . . tempo di lacerare e tempo di cucire. Tempo di tacere e tempo di parlare” afferma Cohèleth, figlio di David nell ‘Ecclesiaste.

Un giorno, il governatore locale stava passando nei paraggi dell’abitazione di un maestro Zen, considerato un uomo santo e molto saggio. Incontrò il maestro e iniziò a parlare con lui chiedendogli di spiegare il significato della religione in una sola frase.

“Posso fare di meglio. Te lo posso dare in un sola parola” rispose il maestro. “Si può riassumere nella parola: Silenzio”.

“Ma come posso ottenere il silenzio?”, chiese il governatore.

“Silenzio”, disse il maestro Zen.

Ermete, nel Pimandro, rivolgendosi a suo figlio, afferma: “riposati, figlio, e intendi la benedizione perfetta, l’inno di rigenerazione che io non ho voluto rivelare tanto facilmente se non a te, in fine di tutto. Poiché esso non si insegna, ma si nasconde nel silenzio. Così, figlio mio, mettiti in luogo scoperto, e guardando verso il vento di sud, prosternati al cadere del sole e, al suo levare, prosternati dalla parte del vento di est.” (Ermete Trismegisto, Il Pimandro, Ed. Atanor, pag. 87).

“E cosi l’anima non deve attaccarsi a niente, né a meditazione, né a gusto sia sensibile che spirituale, né ad operazione alcuna; tale stato esige infatti lo spirito, tanto libero e annichilito che qualunque pensiero, discorso o gusto di cui ella (l’anima n.d.r.) si volesse appoggiare, le sarebbe di impedimento e di inquietudine e produrrebbe del rumore nel profondo silenzio che le conviene, secondo il senso e lo spirito per una profonda e delicata audizione di Dio” il quale, come dice Osea (2, 14) “parla al cuore in questa solitudine, mentre l’anima ascolta” (S. Giovanni della Croce, Fiamma viva d’amore, 3, 34).

“Le parole della sapienza si ascoltano in silenzio” (Ecclesiaste, 9, 17).

“Un guerriero della luce sa che, nel silenzio del suo cuore, c’è un ordine che lo guida.” (Paulo Coelho, Manuale del guerriero della luce, Ed. Bompiani, pag. 47).

Il guerriero della luce conosce il silenzio che precede un combattimento importante. E questo silenzio sembra dire: “le cose si sono fermate. E meglio lasciare la lotta e divertirsi un po”‘. A questo punto i combattenti senza esperienza abbandonano le armi e si lamentano della noia.

“11 guerriero presta attenzione al silenzio. In qualche luogo qualcosa sta accadendo. Egli sa che i terremoti devastanti giungono senza preavviso.” (Idibem, pag. 75).

“vorrei iniziare con il silenzio e vi dico subito il perché: ogni cammino che conduce a Dio deve essere un cammino che conduce al silenzio. Se un giorno volete arrivare all ‘unione con Dio, dovete iniziare con il silenzio.

Cosa è il silenzio?

Silenzio significa andare oltre le parole e i pensieri, lasciarseli alle spalle. Cosa hanno di sbagliato le parole ed i pensieri? Sono limitati.” (A, De Mello, Quebre o idolo, pag. I l).

F. Clnn,

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SULLA BELLEZZA ED ALTRE CONSIDERAZIONI .

SULLA BELLEZZA ED ALTRE CONSIDERAZIONI …

“Siate solleciti nell ‘ascoltare profondi nel riflettere e lenti nel parlare.

Carissimi fratelli, le due tavole lette in altra tornata dai fratelli Scch e d SIV hanno scatenato in me una fortissima sensazione di piacere ed uno stimolo altrettanto forte nel trasmettervi quanto c’è non nella mia mente, ma nel mio cuore: cercherò quindi, con queste poche righe ed a distanza di anni dalla mia ultima tavola, di farlo.

Quando, dopo anni di Massoneria, ancora guardo il mio io ardire ed amare, piangere e ridere, passare dallo sconforto profondo alla gioia sfrenata, allora mi chiedo: è giusto tutto ciò? Cos’è la passione che mi prende, mi avvolge e mi lusinga? Che sia solamente MAYA?

Facilmente, leggendo testi tradizionali, c’è il rischio di avventurarsi in una visione teorico/fideista o, ancor peggio, in una presunzione settaria ed intrisa di manicheismo.

Facilmente, leggendo testi diversi, si può vedere tutto in modo scientista, progressista, animista e, chi più ne ha, più ne metta.

In altre parole, ognuno di noi, in base ad esperienze, studi, abitudini sociali e famigliari, quando entra in Massoneria vede, e soprattutto sente, la via iniziatica in modo diverso: è forse il vero vantaggio di essere in questa Istituzione perché, nei limiti delle regole massoniche e grazie alla TOLLERANZA, tutti possono procedere nella loro ricerca interiore (V.I.T.R.I.O.L), tutti possono creare o crearsi il dubbio (altra sana necessità), tutti possono mettere sul pavimento a scacchi del Tempio il loro lavoro affinché gli altri ne assaggino l’amaro o il dolce calice come vedete ho scritto assaggino e non bevano, ed è proprio questo un punto importante, perché NESSUNO potrai mai bere veramente nel calice di un altro fratello, ognuno di noi nella sua normale solitudine prenderà, con il tempo, consapevolezza in se stesso allargando la sua visuale senza pregiudizi si sorta ed abbattendo il castello dei preconcetti mentali. Nel Tempio ognuno dà quello che può e come può e non deve essere sindacato da nessuno se dà di più o di meno degli altri: forse che anche qui si debba valutare e giudicare gli altri con i parametri della vita profana? Qui tutti partecipano ognuno nel proprio modo di essere, ognuno con la sua presunta o vera semplicità, Ying e Yang, principio di passività e d attività, maschile e femminile, coagulazione di elementi diversi per raggiungere forme di armonia misteriose e divine, scintilla per “ricordare” e lavorare.

Tempi, insomma, come fulgido esempio di microcosmo rappresentante il più grande Tempio del G:.A:.D:. U :. ; officina di anime del relativo e del duale che con la partecipazione al lavoro di gruppo, comunque estremamente variegata e personalmente insindacabile, cercano l’assoluto in se stesse.

Io ho cercato e sto continuando a cercare. Nel Tempio ho capito la validità del silenzio e mi sforzo a volte di non parlare per impedire al mio IO razionale e mentale di farsi felice di crogiolarsi nel suo egoismo, nella sua ambizione di apparire, di sentirsi amico e partecipe degli altri. Certamente anche ciò è discutibile, ma questo è quanto io sento di fare con la presunzione che mi contraddistingue come uomo libero e di ancora poche virtù.

Un sano egoismo a volte mi distanzia e, purtroppo, solo ancora in pochissime occasioni mi fa intravedere qualcosa, è il mio cuore che vede e trasmuta le mie azioni nella convinzione di essere io una parte di voi, una parte del tutto: ecco ciò che mi succede quando l’intuito prevarica ormai sull’analisi e diventa una sintesi immediata, flash di un RICORDO, vera voce di me.

In questo contesto il concetto di bellezza assume una valenza importante rappresentando, esotericamente, un mezzo spirituale in mio aiuto per giungere alla contemplazione, al ricordo, all ‘estasi.

Sono d’accordo quando il fratello Scch dice: espressione artistica forse significa proprio armonizzarsi per via intuitiva con misteriosi parametri di valore assoluto. Per questo possiamo pensarla come una via di realizzazione.”

Quindi è bello per me ciò che esprime, al di là delle dualità, un aspetto divino. Non esistono più oggetto e soggetto; la percezione della bellezza comporta slancio ed equilibrio, sensazioni musicali d’armonia, cibo per la mia intelligenza ed amore per il mio cuore: è mirabilmente bello qualsiasi strumento che permetta il risveglio della coscienza, della consapevolezza di essere IO in me stesso, così si scostano i veli che mi impediscono di vedere dentro il mio cuore.

La bellezza è individualmente oggettiva: scatena in ognuno di noi sensazioni e sentimento. A me da pace perché libera le mie energie positive, mi toglie i dubbi e mi aiuta a ricordare, come in un attimo di sintesi, di unione, il ritorno nell’UNO cosmico sia possibile. Anche questo è solo un esempio di come tutti i lati del caleidoscopio delle verità relative ed individuali iniziando a girare diventino UNO, o meglio si reintegrino nell ‘unità.

Nella Tavola Smeraldina si legge: “il più basso è simile in tutto al più alto ed il più altro è simile in tutto al più basso e questo perché si compiano i miracoli di una sola cosa”.

Ho riportato questa frase per spiegare con altre parole da prima la vera valenza della bellezza. Essa rappresenta, in tutti i suoi aspetti terreni ed umani, il simbolo che ha mantenuto parte della potenza dell’archetipo e permette il ricordo: da qui, nel momento in cui sono in armonica meditazione e spiritualmente concentrato, qualsiasi strumento (di bellezza) utilizzato, sia esso il tramonto del sole nel bosco, sia esso il quadro particolare o sia il corpo della persona che giace con me, sia insomma qualsivoglia altro elemento, mi permette di fissare in me il mio stato primordiale, mi permette di raggiungere la consapevolezza della solitudine in me, di essere in mezzo a voi ed in voi, di essere IO al di fuori del mondo del cambiamento.

Tutto si chiarisce ed il mio corpo/mente deve vivere nell’illusorio reale e dibattersi ogni giorno per le reciproche dipendenze fra attivo e passivo, fra spinte materiali ed aneliti spirituali.

IO invece, o meglio il SÉ che è dentro di me, o meglio È me SONO/SIAMO. IO eterno dualismo ed immutabile oltre ad ogni dualismo.

Ho ripetuto nei capitoli precedenti diversi concetti con alcuni esempi e vorrei ancora cercare di trasmettervi una sensazione provata per lungo tempo in passato. C’era, nel mio cuore, un dolore forte, conseguenza intensa e necessaria dello strappo fra corpo/anima e puro spirito/Assoluto, dove i primi ricevono la malinconia della solitudine ed i secondi la calma e la consapevolezza. Ora questo dolore sta svanendo perché anche Maya si sta allontanando e la battaglia che giornalmente combatto è condotta con distacco e serenità.

Ecco, cari fratelli, questi sono i miei campi di ricerca e ricucire lo strappo mi ha provocato e continua a provocarmi stati d’animo diversi sui quali a volte sorrido; “gli altri” possono vedere nella mia forma apparente ed esteriore un essere o molto superficiale o molto presuntuoso: che sia giusto che quanto è dato a vedere sia solo ciò che gli altri riescono a vedere?!

Nel mondo si ritiene il bello per il bello,

ed è male;

si ritiene il bene per il bene,

ed è male.

L ‘Essere e il Non-Essere si generano

 il difficile ed il facile si perfezionano;

 il lungo ed il corto si adeguano;  

l ‘alto ed il basso si rovesciano;

il suono e la voce si armonizzano;

il prima ed il dopo si seguono.

Perciò l ‘uomo saggio

attua il non agire nelle cose,

 pratica il non dire nell’insegnamento.

Compie ogni cosa e non dice niente.

 Produce e non possiede,

agisce e non pretende,

realizza l ‘opera e non vi si affeziona.

E proprio perché non vi si affeziona,

 non se ne allontana

(Tao Te Ching)

S. Frrnt,

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L’ESAME DI CISCIENZA DE MASSONE

L’esame di coscienza del Massone

Venerabile Maestro, cari Fratelli,

un giomo bussai anch’io alle porte dell’istituzione, ritenendo utile inserirmici, per migliorare la mia intellettualità. Ho cercato, sollecitato solo dal mio desiderio di conoscere. La mia ricerca era ed è indirizzata, come penso succeda a molti, all ‘introspezione, a trovare i principi regolatori della vita, quella vita interiore alla base di tutto che, se ben coltivata, ha i suoi riflessi nella vita esteriore con pregevoli risultati.

Questo processo avviene con l’aiuto dei fratelli, con gli insegnamenti indirizzati all’elevazione di ogni uomo, e culminati nella saggezza, Ho trovato, nei lavori dei fratelli, idee, simbologie, formalità e procedure tradizionali, virtualità e potenzialità atte a ordinare il mentale e l’intelletto verso quei principi che cerco. Non ho ancora trovato, però, quelle risposte sostanziali o, meglio, essenziali, che però potrei trovare in seguito; è infatti per questo che continuo a frequentare l’Istituzione; durante i lavori emergono disquisizioni ideologiche che sospingono alla superficie convinzioni personali, la cui validità può essere messa in discussione, accettata o respinta con approvazioni o critiche sempre costruttive. Il vero senso dell ‘esistenza di un’Istituzione come la Massoneria è senza dubbio quello di confrontarsi con i fratelli, imparare l’autocritica, la riflessione, rinunciare ai propri irrigidimenti individuali. Questo Magistero della Massoneria, però, è attualmente, secondo me, soffocato dai fumi del cosiddetto progresso, e ha perso di vista il compito di insegnarci a ricostruire il nostro Tempio personale, secondo l’ottica del  La stessa Tradizione Salomonica, di cui peraltro il massone moderno mette in dubbio le origini, se addirittura non le nega totalmente, tra manipolazioni dei rituali e della relativa simbologia, in favore di un progresso e di un evoluzionismo che hanno la pretesa di spiegare tutto e a tutto sostituirsi scientemente, compresa l’origine divina di tutte le cose, questa Massoneria che mira sempre più alle distinzioni umane anziché a quelle spirituali, è sempre più vittima delle spire del mondo profano e dei suoi impegni, non in quanto Istituzione Divina, ma in quanto composto di massoni. Io penso che ogni loggia, in generale, debba dare, in quanto assemblea, qualcosa, un soffio forse, che provoca reazioni nella coscienza del massone, inducendolo a comprendere, a elaborare, ad ampliare e in seguito a restituire questo qualcosa con validi risultati per se stesso e per chi gli sta attorno. Nel mio caso considero questo soffio uno stimolo personale per una sacra lotta ai fini della ricerca dei veri valori dentro me stesso e nei miei fratelli, a cui compete maggiormente la funzione, oltre che la responsabilità, di un ‘equa distinzione tra un iniziato e un profano. Non mi considero un fratello esimio e integerrimo, sono però certo della mia onestà d’intenti nei confronti della loggia e nella qualità della ricerca da me perseguita. La nostra loggia ha prospettive di ricerca esoterica, sebbene molti lavori suoi abbiano deviato non poco da tali prospettive. Pare quasi che la paura di affrontare argomenti non aventi attinenza con il materialismo o sganciati dalla realtà moderna, respinga e accantoni tutto ciò che sa d’esoterismo da vicino e da lontano. Ci si potrebbe allora chiedere quali rimedi a tutto ciò? Io credo che vi sia già implicitamente una risposta, il timore della quale, però, la fa ignorare o accantonare. Nei rituali e nella simbologia, avremmo quanto ci occorre e anche di più;

basterebbe solo, invece di alterare tutto per comodità al fine di adattarlo ai nostri intelletti come errate affermazioni di evoluzionismo, trasparenza, progresso e cambiamenti, adattare invece i nostri intelletti a tutto quanto è già appannaggio tradizionale dell ‘Istituzione. Il credente vero, qualsiasi fede professi, facendo riferimento a una tradizione e alla relativa rivelazione profetica, non riterrebbe scandalosa o sacrilega una riedizione riveduta e corretta, e in ogni caso non ispirata dai testi sacri ai quali si riferisce, adattai anziché compresi per farli quadrare con la mentalità dell’epoca e all’epoca stessa? Sono dunque scritti come gli Antichi Doveri, le Tavole Smeraldine, il Poema Regio, i Manoscritti o il Manava Dharmasastra, che i massoni ben posseggono, a essere privi d’insegnamenti, oppure siamo noi che in questi antichi e altissimi documenti tramandatici non siamo capaci di vedere questi simboli e insegnamenti e altresì di interpretarli?

Tempo fa, senti un fratello affermare che non si possono spiegare i simboli; evidentemente l’informazione sua in merito era tale per cui mancò di consideraœ che in realtà la loro funzione, di per se già implicita, è proprio la spiegazione di particolari realtà che ci consentono la ricongiunzione con esse, dato che, fra l’altro, il significato di simbolo, nonché la sua funzione, è proprio “ciò che unisce”.

Dovremmo forse condannare tutto quanto è appannaggio tradizionale dell’Istituzione e costruirne uno nuovo ed affermare che I ‘abbiamo fatto noi?

Se la risposta a tale interrogativo fosse affermativa, addio allora ai sani e onesti principi di ricerca della Luce, che si propongono tutti coloro che chiedono di far parte dell ‘Istituzione.

L. Orlnd,

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IL PREGIUDIZIO

Il Pregiudizio

. il seme della sapienza, è l’ignoranza”

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

da qualche tempo, mi ritrovo con periodicità a riflettere su quanto il pregiudizio sia parte integrante della natura umana.

Nasce quindi da queste riflessioni, la volontà di tentare di comprendere la natura e le molteplici ripercussioni che si riflettono sulla vita di tutti noi.

Recenti vicende di carattere personale, nelle quali il pregiudizio ricopriva la parte del leone, in buona compagnia dell’intolleranza, mi hanno visto mio malgrado costretto a subire atteggiamenti e pensieri lontani dalla mia ottica e a confrontarmici.

Io, per primo, devo costantemente redarguirmi in alcuni momenti durante i quali mi rendo conto che il personale e affrettato giudizio di circostanze o individui mi porti con estrema facilità a giungere ad affrettate conclusioni.

Quale quindi il confine, tra il “buon” uso che se ne può fare e il passo che ci porta inevitabilmente verso la discriminazione irrazionale?

Complesso il cammino di chi si addentra in tali pensieri, oggi, infatti, si rischia di ricevere influenze di carattere sociale e dogmatico, che mass media e poteri socioeconomici utilizzano ad arte per tentare di indottrinarci.

In quanto Massone, ripugno il pregiudizio poiché inconciliabile con la mia volontà di comprendere le cose nella loro vera natura, ma contemporaneamente devo combattere con il mio essere profano che con periodicità mi spinge nel senso contrario.

Eppure, mi ripeto, deve pur esserci una scappatoia ad un tale ingarbuglio di concetti, la verità si dice abbia diverse facce, ed il mio orientamento mentale si sposta sempre più verso la mediazione, seppur consapevole che ciò potrebbe essere un segno di pigrizia mentale.

La nostra Istituzione, che di certo non può sentirsi estranea alle discriminazioni e agli attacchi alimentati da pregiudizi ipocriti e di parte, persegue la propria strada con tenacia, tessendo con pazienza certosina la strada per il raggiungimento del proprio obiettivo.

Pregiudizio: giudizio falso perché formulato senza la necessaria cognizione o perché dettato da superstizione (Niccoli – Dizionario della lingua italiana).

Il nostro patrimonio più grande è la libertà, che difendiamo costantemente da soprusi, rimanendo sempre all’erta, affinché nessuno possa riuscire nell’intento di privarci di un bene tanto agognato.

Ritengo però che tutti abbiano anche il diritto di non subire gratuite discriminazioni, seppure lontani per. atteggiamenti, pensieri e convinzioni da stereotipi e formalismi ormai consolidati.

La stupidità o la furbizia di chi tenta con l’arbitrario utilizzo del pregiudizio di camuffare verità, o realtà apparentemente diverse, commette a mio parere un gesto oltre che d’ignoranza anche di violenza.

Platone, ne la Repubblica sosteneva: “conosci te stesso e conoscerai il mondo “.

Più rifletto su questo pensiero e più mi sento ipocrita, io non conosco neanche me stesso, sono cosi presuntuoso e arrogante da pensare di conoscere e giudicare gli altri!

Il dono della sintesi, che solitamente apprezzo in modo particolare, in questo specifico caso risulta essere carico di significati intrinseci a me ancora oscuri.

Non sono allora i falsi “valori” che la società che la società ci trasmette ad influenzarci in direzioni errate?

Chi di noi non si fa condizionare o distorcere la visione da false apparenze e facili considerazioni?

Alcuni esempi: al giorno d’oggi, se non si possiede una “bella” autovettura, una “bella” casa, un buon posto di lavoro o anche solo di un posto di lavoro, dei bei vestiti, una discendenza altisonante, etc. , si Tischia con una facilità disarmante di essere catalogati, o peggio ancora etichettati da pregiudizi futili e presuntuosi.

Cito a tal proposito, un passo dell’art. 3 della Costituzione italiana: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, d’opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’

Pare quasi un passo degli Antichi Doveri della Libera Muratoria, eppure i suddetti Valori, che noi per primi ricerchiamo e nei quali crediamo, nella società vogliono dire poco o nulla.

Paradossalmente, infatti, pare sia più semplice seguire il comune pensiero piuttosto che formularne uno proprio; inconsapevoli forse di commettere un atto di cieca fiducia nel prossimo.

Probabilmente allora le indicazioni che ci giungono, dettate dal così detto “parer vivere”, altro non sono che delle immagini sfocate di una realtà che per opportunismo gli uomini si sono nel tempo creati.

Forse però, anzi a questo punto ne sono certo, sono altri i valori che si devono cercare e altri gli strumenti da adottare per riuscire al di fuori delle altrui convinzioni o idee a ricercare la verità.

Ecco quindi che un’altra delle battaglie più vivaci si possono combattere e vincere, nuovamente è con noi stessi, per concentrarci su un percorso di disciplina e coerenza, combattendo l’ignoranza e la presunzione di chi si eleva a giudicare gli uomini, discriminando il diritto di ognuno ad esistere.

Socrate sosteneva che nessuno è cattivo volontariamente, “il Malvagio si allontana dal Bene solo perché di esso non ha alcuna conoscenza”.

In realtà colui che si affida al pregiudizio, utilizzandolo come uno strumento di valutazione ordinaria, si pone nelle condizioni di essere cieco, uno che non ha assolutamente idea di che cosa sia la luce, perché non l’ha mai conosciuta e probabilmente mai gli sarà dato di incontrarla.

Vale però la pena essere un poco retorico, sono convinto che valga di più “essere ” che “apparire’ .

Quale quindi la retta cognizione, la rotta da seguire per la ricerca, poiché alla resa dei conti siamo tutti degli avventurieri alla ricerca.

Mi conforta ancora credere che “chi cerca trova” e che, alla fine, la verità trionfi.

Ognuno di noi cerca la propria strada, il proprio Oro Alchemico e, probabilmente, il Piombo riuscirà nel suo intento, solo noi saremo capaci di ascoltare il nostro cuore, egli, infatti, conosce la verità di ogni cosa poiché è anche lui opera del Grande Architetto dell ‘Universo.

C. Blb,  

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CREDERE E CAPIRE

Crederc e capirc

Il mio intervento sulla tavola del Fratello Emilio “Prashanti Nilayan” ha suscitato una certa disapprovazione soprattutto quando, in chiusura, sostenevo che, se si fossero accettato certi presupposti, era praticamente inutile la nostra presenza in Tempio.

Ho pensato di ritornare sull’argomento per meglio chiarire il mio pensiero che, purtroppo, non mi è mai facile sviluppare verbalmente vista “l ‘emozione” che ancora, dopo oltre 20 anni, mi attanaglia ogniqualvolta prendo la parola in Tempio a lavori aperti.

In sostanza in quell’intervento davo due diverse interpretazioni della tavola del fratello Emilio: la prima basata su sensazioni, la seconda su ragionamenti.

Una prima lettura aveva destato in me profonda emozione per la serenità e la pace che essa trasmetteva, al punto di presentarci un Emilio molto “diverso” dal solito caustico ed ironico fratello che comunicava con metafore di non sempre facile comprensione.

Una tavola “a colori” l’aveva definita il fratello Pgll e, una volta tanto, concordavo con lui.

Quella tavola dava la sensazione di una qualche conquista, di una qualche comprensione da parte di chi l’aveva scolpita ed è per questo che mi aveva colpito.

Il rammarico fu quello di non avere il conforto di una replica da parte del fratello Emilio che, quella sera, non prese la parola.

Una seconda e più ragionata lettura mi aveva portato però a considerazioni del tutto diverse.

Lo splendido messaggio che trasmetteva la tavola era del tutto estraneo alla vita massonica in quanto, un qualche modo, suggeriva un percorso devozionale, un percorso di annullamento si se stessi per dedicarsi agli altri, una via d’amore che difficilmente può prescindere dalla fede quando è totale ed assoluta.

E tanto più bella era la tavola quanto più fuorviante il suo messaggio nei confronti di un percorso muratorio.

Se quella è la strada, dicevo a me stesso, non c’è bisogno di capire, non c’è bisogno di meditare sui simboli, sui riti, sull’iniziazione e sul suo significato.

Non c’è bisogno di trovarci il Giovedì sera in definitiva.

La dimostrazione più evidente di quanto sostenevo ce la fornisce il ricordo di Mario Bianco che, una volta abbracciata la via devozionale, di fatto abbandonò la Massoneria.

Spero con questi chiarimenti di essere riuscito a spiegare il mio punto di vista per quanto riguarda l’intervento da me fatto sulla tavola del fratello Emilio.

Ma nello scrivere queste note è nata in me l’esigenza di approfondire un discorso, antico forse, ma che non ha mai trovato, né mai forse troverà, una risposta razionale definitiva.

È dunque insormontabile la dicotomia fra la via devozionale assistita dalla fede e la via della ricerca assistita dalla ragione?

O per dirla in altri termini: il “credere” è indispensabile al fine di “capire” o è necessario che io “capisca” prima di poter “credere”.

La questione è stata già affrontata dal fratello Lino che nel ’93 sosteneva infine che, siccome la via della fede gli era preclusa, si poneva come obiettivo quello di

capire pur riconoscendo che la cultura, comunque, non lo avrebbe portato molto lontano.

Ma siamo proprio sicuri che la via della fede sia preclusa all ‘iniziato?

O meglio, siamo proprio sicuri che l’iniziato non faccia professione di fede?

Tra la teoria scientifica del “big bang”, la pulsione metafisica verso un Dio creatore e la convinzione interiore che con il rito di apertura dei lavori si evochi la discesa di un’influenza spirituale qual è la differenza?

Sono o non sono tutti atti di fede?

Teoria scientifica e pulsione metafisica sono dunque due atti di fede che, come diceva Eistein, sono indispensabili l’uno all ‘altro.

“La scienza senza religione è zoppa e la religione senza scienza è cieca”

Questa frase mi ha colpito anche se tenderei a rovesciare il concetto di base e cioè che è la scienza, senza religione, ad essere cieca, ma ciò che conta è l’instaurarsi di una connessione fra scienza (ragione) e fede (religione).

A ben pensare credo che la squadra ed il compasso, sovrapposti al libro sacro, possano molto bene simboleggiare questo connubio.

E quindi possibile ipotizzare che, compito della ragione, sia quello di portare I ‘uomo verso la fede?

Tanto più l’uomo acquisisce attraverso la ragione il controllo sul mondo fisico, tanto più dovrebbe convincersi che solo un atto di fede può aprirlo, forse, alla comprensione di ciò che è oltre il mondo sensibile.

Atto di superbia è quello di credere che la nostra mente, con le sue sole forze, possa concepire l’assoluto.

“In verità vi dico: se non cambiate, e non venite come bambini, non entrerete nel regno dei cieli”.

“Perché se la ragione domina da sola è una forza che imprigiona”.

In queste due frasi tratte, una dal “Vangelo di Matteo”, l’altra dal “Profeta” di Kahlil Gibrain, sono racchiuse le tematiche della mia tavola.

Quindi la strada della fede non solo non è preclusa all’iniziato, ma rappresenta una conquista significativa, una tappa importante nel suo cammino.

Acquisire la fede è come ritornare bambini aperti e disponibili a recepire, senza condizionamenti e infrastruttura intellettuali, i messaggi che solo a queste condizioni possono arrivare.

Non più dicotomia quindi fra strada devozionale e ricerca, ma solo due momenti dello stesso percorso: il mistico ha avuto in dono la fede e può aprirsi al tentativo di comprendere; l’iniziato, questa fede, deve andarsela a conquistare.

Al termine di queste mie riflessioni posso tornare, con un ardito tentativo di interpretazione, di cui chiedo anticipatamente venia, a quanto avevo detto sulla tavola del fratello Emilio, così diversa e così lontana dai suoi abituali modi di esprimersi.

Forse il fratello Emilio sta scoprendo la fede.

Ultima notazione che, per correttezza, sento il dovere di esternarvi: tutto immaginavo al momento di iniziare questa tavola, tranne le conclusioni a cui sarei approdato.

Anche di questa “follia” chiedo venia a tutti i fratelli

G.F.CNMRCE

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ESISTE LA BELLEZZA?

Esiste 1a Bellezza?

Fratelli carissimi, anni fa un mio eminente collega, in una conferenza dedicata ai parchi naturali, disse che certi oggetti geologici, ovvero, certi prodotti di processi geologici, devono essere tutelati perché sono intrinsecamente belli. Gli scrissi facendo delle obiezioni. Ritrovata la lettera, mi sono accorto che il discorso era interessante. A cuor leggero, quella volta mi ero avventurato in un grande problema: praticamente, avevo abbozzato una tavola sulla Bellezza. Ho pensato di sottoporvi quelle considerazioni, aggiungendovi il frutto di qualche ulteriore riflessione. Dopo tutto, l’argomento della Bellezza è centrale nella visione massonica del mondo. Eppure se ne parla poco. Pensiamo ai nostri molti trinomi: la bellezza non compare mai. Ma ecco quanto scrivevo.

“La mia obiezione è che non esistono oggetti intrinsecamente belli, perché la bellezza non è un valore oggettivo. Certe combinazioni e proporzioni di lunghezze, angoli, frequenze, colori, filtrate dalla nostra esperienza, ci danno un’emozione che chiamiamo estetica. Noi, cioè la varietà indoeuropea dell’homo sapiens, sulla base delle nostre esperienze, abbiamo fissato delle tavole di valori, che usiamo per dare valutazioni di un parametro che chiamiamo bellezza. Quanto alla natura, non è ne bella né brutta. Chi (se non noi) ha deciso che l’aquila è bella e lo scarafaggio brutto? O che un sacchetto di plastica è meno bello di un fiore? E’ facile immaginare (basta un piccolo incidente cromosomico) un’altra umanità con un’altra cultura, per la quale il culmine dei valori estetici è rappresentato da una lattina arrugginita o da un vecchio pneumatico.

LUomo occidentale ha deciso che i Faraglioni di Capri sono belli: ma è poi proprio così? Sarebbe d’accordo un Boscimano? Un Van Gogh autentico mi dà una emozione estetica, mentre uno falso, se so che è falso, non mi fa ne caldo né freddo, anche se è indistinguibile. La meraviglia davanti al Van Gogh autentico è legata alla sua rarità: lo trovo bello perché so che è raro, non diversamente da un certo francobollo delle isole Mauritius. E bello per la corporazione di quelli che sanno che è raro.

Un altro esempio. Le bellissime incisioni rupestri della Val Camonica sono spesso coperte da un tappeto di sottobosco, che le ha protette per millenni. Per una persona che non abbia interessi paletnologici, quei disegni infantili possono apparire meno belli del tappeto vegetale, che solleviamo per ammirarli.

La visione ‘naturo-centrica’ del mondo, può portare a atteggiamenti aberranti. La funivia del Monte Bianco, che Reinhold Messner e i suoi amici ambientalisti vorrebbero abolire perché ‘brutta’, dà alla gente la possibilità di accedere a una bellezza grandiosa, altrimenti inaccessibile, e quindi inesistente: questo è il punto. Il Monte Bianco è bello solo se io lo guardo, altrimenti non è altro se non un mucchio di silicati.

Conclusione: massimo rispetto per la natura, perché la natura è l’ambiente nel quale dobbiamo vivere. Ci stanno a cuore il nostro mondo e certe nostre gratificazioni intellettuali: smettiamo quindi di mascherare tutto ciò con motivazioni mistificanti: noi amiamo la natura perché amiamo noi stessi. Proteggiamo pure i versanti ‘deturpati ‘ dall’erosione, dato che l’erosione ci crea dei problemi, ma non parliamo di bellezza

intrinseca, per carità. Anche gli splendidi Faraglioni sono solo un prodotto di quella stessa erosione che deturpa i versanti.”

Rileggendo dopo dieci anni ho avuto l’impressione che in quella lettera avevo dato sfogo ad una vocazione per il paradosso, ma è proprio così? Il problema per me è irrisolto. Ho provato a elucubrare ulteriormente.

Chiaramente la bellezza è una di quelle che Cartesio chiamava “qualità secondarie” ovvero non scientificamente quantificabili. Eppure ci sono un paio di esempi che non quadrano.

Uno è quello della musica. Gli intervalli delle note musicali, scelti dall’uomo per soddisfare una sua esigenza estetica, in realtà, come sappiamo, corrispondono a rapporti matematici semplici delle frequenze. Ecco un caso nel quale la nostra valutazione estetica si rivela ancorata ad un riscontro oggettivo. L’altro esempio si incontra in pittura. I pittori del rinascimento, usavano spesso nei loro quadri una certa proporzione gratificante al nostro occhio, che chiamiamo sezione aurea, e che oggi sappiamo essere la soluzione di una equazione elementare, peraltro già nota ai costruttori delle cattedrali. Ma quei pittori con ogni probabilità ignoravano l’aspetto matematico e disegnando, senza far misure, seguivano semplicemente il loro istinto ovvero la loro pulsione estetica. Comunque, anche qui la valutazione estetica trova un riscontro oggettivo.

Il legame tra numero e bellezza resta misterioso. Dipingere proporzioni auree e scegliere intervalli musicali che corrispondono a rapporti matematici semplici è una forma di conoscenza intuitiva. Una delle poche che ci sono date.

Con questi due esempi, comunque, ci siamo spostati su un altro terreno ed un’altra forma di bellezza. Se esiste una bellezza che ci è data, quella della natura, esiste anche una bellezza che uomini creano, quella dell’arte. Per entrambe vale l’obiezione che ho già fatto. Il Boscimano, se ascolta Mozart, probabilmente non prova nessuna emozione estetica. La sua espressione artistica non ci emoziona, ma forse anche essa risponde a parametri di perfezione, che noi non conosciamo.

Espressione artistica forse significa proprio armonizzarsi, per via intuitiva, con misteriosi parametri di valore assoluto. Per questo possiamo pensarla come una via di realizzazi one.

Col che, lascio la penna al Fr. G.D.S.

La Bellezza

La tavola del Fratello Rosalino evidenzia bene che qualsiasi dibattito in merito a valori relativi, idee, simboli, forme, pensieri, principi universali, non porta mai a conclusioni, punti di vista comuni, integrali, omogenei e che nel determinato la certezza è un poi, una evoluzione mentale che non ha traguardo.

La realizzazione secondo la tradizione iniziatica non è nella visione, nel percepito e viene prima delle elaborazioni pensiero dell’intelletto nella mente. Riguarda proprio noi persona interiore unico cuore, centro. Sta nella comprensione che la nostra reale natura è una costante che non cambia, non duale al di là della contrapposizione soggetto oggetto e che la ricerca di questa costante, sostegno del relativo, è lo scopo per il quale ci ritroviamo. Va da se che una volta giunti a questa determinazione non c’è più da dibattere niente, ad ogni contrapposizione perché ogni opinione è visione parziale, giusta, corretta, parte necessaria di tutto – pensiero La realizzazione della pura bellezza non dipende da meccanismi mentali, culturali, eruditivi, è intuitiva e alla portata di tutto e di tutti dal verme all’uomo tecnologico perché la verità identità è uguale in tutti e gli enti possono accedere ad essa in quanto già Essa.

Noi oggettivati possiamo essere solamente quello che pensiamo:

Uomo animale, se la mostra coscienza conoscenza, io sono, si immedesima con attività, concetti, pensieri di natura umana animale.

Uomo divino, se la nostra coscienza consapevolezza si identifica a livello sottile di conseguenza materiale con concetti di natura spirituale e ai principi divini.

Uomo universale, se la nostra coscienza si coglie unica autoidentica, autorivelata riflessa in tutto.

Molto semplicemente siamo l’assoluto, quindi realizzati, solo nel momento in cui non ci uniamo più al percepito o meglio quando in noi sparisce il dualismo soggetto conoscenza oggetto: sonno profondo veglia.

Questa è la via che sto seguendo. Non devo fare altro che cogliermi ora e subito pura identità assoluta: io non sono questo corpo questa mente: l’assoluto non sono questo io sono.

Appena ci si pone dal punto di vista metafisico il problema realizzativo diventa concetto inconsistente; perché risulta evidente che la consapevolezza aseità – puro percepire – è la costante invariante Sé stesso.

R. scch – G. d Siv,

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