PROPOSTE PER LA DIFFERENZIAZIONE DEI
LAVORI NEI GRADI DELL’ORDINE
Mi pare che, da un punto di vista istituzionale e
simbolico, nonché dal tenore del rituale di iniziazione, i tre gradi
dell’Ordine possano essere così precisati:
L’Apprendista, è ovviamente, chi impara. E chi impara
deve soltanto ascoltare quello che vien detto da colui cui spetta (il M.V. o
persona da lui delegata, per es. per la lettura di una tavola) o, al massimo,
richiedere chiarimenti su passi non ben capiti. Ogni altro tipo di discussione,
specie se di impostazione dialettica, è dannoso, a mio parere, per la
formazione dell ‘adepto alle prime sue esperienze iniziatiche.
Non si deve dimenticare che il contenuto dell’insegnamento non dipende dal
grado di cultura o di buona esposizione di chi lo somministra (questo vale nel
profano) ma dalla simbologia e dalla ritualità. Insegnare vuol dire infatti «
dare i segni », ossia i metodi; non il contenuto che è frutto di personali
disposizioni ed acquisizioni. Occorre inoltre riflettere sul significato
simbolico, oltre che effettivo, del silenzio semestrale pensando che sei mesi
sono il periodo minimo per l’accesso al grado superiore.
Il Compagno è posto, al momento dell’iniziazione, di
fronte alle acquisizioni razionali attraverso i richiami ai grandi pensatori,
alle arti e alle scienze. In questo grado dunque mi pare debba svolgersi ogni
discussione di tipo dialettico e anche attraverso obbiezioni o contrapposizioni
di tesi: la valutazione dovendo essere razionale, non se ne deve prescindere,
salva sempre essendo la correttezza e lo spirito fraterno di critica.
Ne verrebbe conseguentemente rivalutato, di fatto, un
grado che viene considerato « di transizione », quasi inutile e che invece
ritroverebbe in questa strutturazione, una sua effettiva e ineliminabile ragion
d’essere.
Il Maestro si trova dinnanzi il valore della
super-razionalità attraverso l’esperienza del mistero, di fronte al quale
l’unica possibile attitudine — attesa la sua ineffabilità — è quella del
silenzio.
Il quale può essere effettivo, dopo l’apertura dei Lavori,
e configurarsi come una specie di « Silent worship » dei Quaccheri o come
meditazione su una lettura o un concetto tratto da scritture esoteriche; ovvero
simbolico, attraverso l’adozione di tecniche che in qualche modo vi si
avvicinano, come la lettura corale di brani in una lingua sacra non conosciuta
ovvero l’uso di un colloquio fondato sull’espressione di idee emergenti alla
coscienza come libere stimolazioni e quindi non razionalmente coordinate fra di
loro. La dimensione della fratellanza, in questo grado, dovrebbe evitare ogni
timore reverenziale, ogni indebita forma di falso pudore, ogni attaccamento ai
formalismi perbenistici: essere insomma veramente « liberatoria » del proprio «
io» o tendere a questo scopo che è, se ho capito bene, il fine
dell’iniziazione.
Le strutture sociali sono attuazioni di modelli
comportamentali, di regolamentazioni e norme di disciplina. Si può argomentare
che la cultura stessa è la conseguenza di norme comportamentali: da una struttura
sociale discende una cultura e non un’altra, e, quando quest’ultima si attua,
essa è l’immediata premessa di una modificazione, a volte già in atto.
L’attività razionale ha determinato delle regole che,
fondandosi sull’interpretazione di esperienze o su astrazioni dalla realtà,
sono generalizzate in Leggi per la costruzione di sistemi, come successione di
atti diretti al raggiungimento di uno scopo, e costituiscono l’indicazione, a
volte cogente, della condotta da seguire.
Lo svolgersi delle civiltà, il loro perfezionamento od aŒnamento, più incisivo
tecnicamente che moralmente, è fondato su una successione di regole che
caratterizzano periodi, costumi, religioni, culture, ecc., nell’alternarsi
delle rispettive reciproche influenze. Il canone comportamentale nasce sia da
un costume di vita che dall’imposizione coattiva.
Nella seconda ipotesi esistono delle differenze dovute alla
struttura sociale, essendo indispensabile distinguere tra la norma cogente nata
dall’iter parlamentare e quella nata dal decisionismo autoritario.
È noto che nei regimi parlamentari l’individuo ha la
possibilità di esprimere il proprio pensiero e d’indicare il cammino
direzionale della società, nei limiti del suffragio elettorale attuato a
determinate scadenze e della sua interpretazione, che assume in concreto
un’importanza determinante.
L’associazione partitica, che interpreta e filtra la
manifestazione di volontà elettorale, assume un’importanza a volte eccessiva.
Nelle società a struttura parlamentare dei Paesi occidentali il concetto «
classista » di origine marxista può ritenersi superato. Il « classismo »,
fondato su motivazioni economiche, se aveva nelle strutture dei secoli scorsi o
dei primi decenni del xx secolo elementi decre7
scenti di giustificazione, assume nella società
attuale significati limitati e semplicistici.
La distinzione in classi limita il concetto
d’individuo, la cui collocazione sociale dipende da elementi esterni alla
personalità, subordina il progresso all’alienazione della ricchezza
dall’individuo a favore della collettività, e confonde realtà con mito perché
la collettività, concetto astratto, non può essere personalizzata. Nella
realtà, degenerando dal significato originario, s’identifica con l’espressione
burocratizzata dello Stato.
Nei sistemi di potere assoluto dei secoli scorsi e
prima di forme pubbliche generalizzate d’intervento economico, il classismo,
coagulando interessi di parte, produceva spontaneamente una sorta di
organizzazione piramidale in cui la base era costituita dai venditori del
proprio lavoro, le parti intermedie erano costituite dai relativi compratori,
quelle superiori dalla nobiltà, dal clero e dai reggitori del potere.
Il concetto di società diviso in classi risale alla Repubblica di Platone ed a
quelle forme sociali che K. Popper ha contrapposto alle società « aperte ».
La libertà d’associazione è la possibilità nella
società « aperta » di tutelare l’interesse particolare nel dibattito tra le
parti.
Se nelle forme più avare e meno illuminate prevale
come interesse generale il particolarismo più diffuso, o l’unione di più
particolarismi, nelle altre è una palestra d’idee, è modo d’illuminazione
reciproca, è la costruzione giorno dopo giorno di una coscienza di libertà che
si diffonde in tutte le persone, creando la tradizione della libertà di
ciascuno nel rispetto della libertà di tutti.
L’associazionismo, come struttura di formazione dello
stato moderno, diventa l’espressione individuale che partecipa alla vita
sociale, inserendosi nella corrente di pensiero e d’interessi liberamente
scelta. La contrapposizione di una classe all’altra, lotta sociale come
procedimento dialettico di eliminazione del contrario, è superata nel dibattito
interassociativo.
I contenuti comportamentali e di regolamentazione
nascono nell’ambito associativo ed assumono fisionomia giuridica nel dibattito
dell ‘organo legislativo.
Le Associazioni, che svolgono la funzione di filtro
e di formazione delle istanze individuali, possono essere organismi preposti
alla conservazione di valori tradizionali od alla ricerca e costituzione di
nuove idee o nuovi modelli di vita.
Il rapporto interindividuale contiene i significati
della natura sociale umana, e costituisce un ostacolo all’affermazione di forme
assolute di potere.
La regolamentazione interna, nata dall’espressione
individuale e spontaneamente accettata, è strumento di vita per l’associazione
ed è modo per formare una coscienza disponibile a soluzioni che presuppongono
l’accettazione del contrario.
Gli elementi sopra delineati sono i seguenti:
inserimento
dell’associazione nel tessuto sociale;
regolamentazione
interna;
contenuto
ideologico;
adesione
spontanea dei soci;
finalità
da conseguire;
disponibilità al dibattito interassociativo.
La critica al sistema partitico, che è una parte del
sistema, come decadimento dell’interassociazionismo non contraddice le
considerazioni precedenti: è chiaro che la pluralità di Associazioni partitiche
ostacola l’avvento di forme dittatoriali, ed è la garanzia minima per il
mantenimento delle libertà civili.
Lo stato moderno funziona a seguito dei rapporti e
delle varie contrattazioni tra le componenti associative: ciascuna svolge il
ruolo richiesto dai relativi aderenti nell’ambito di specifiche finalità
sociali, di lavoro, economiche, agricole, scolastiche, sanitarie, culturali,
religiose, filantropiche, morali, ecologiche, ecc.
È una serie di rapporti che s’intrecciano
interessando individui di condizioni, cultura, costumi ed origini dissimili.
Ciascuno si rivolge ad una serie di enti per le
proprie esigenze che, oggi, sono composite.
Il rapporto elementare individuo-società, se poteva
ieri ridursi ad una definizione classista, assume nella società attuale
configurazioni sfumate, complesse e coordinate le une con le altre.
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Il generale superamento del « bisogno primario » ,
definito rapporto elementare, nelle società del mondo occidentale pone in primo
piano problemi morali, educativi e di formazione culturale.
Il carattere complesso del rapporto sociale,
successivo a quello elementare, considera l’uomo nella totalità delle esigenze
oltre la sfera strettamente animale.
La scuola può svolgere un ruolo importante per la
formazione d’individui consapevoli, moralmente sani e preparati a svolgere i
comPiti che saranno loro richiesti, con l’appoggio delle strutture associative
che hanno finalità di formazione educativa.
Nella società così strutturata l’uomo occupa la
posizione centrale, è il soggetto del rapporto sociale per sé ed i proprii
simili: non al servizio di qualche ideologia ma fine e scopo di ogni forma
ideologica.
Si potrà dire che la società è a misura d’uomo e non
viceversa, capovolgendo il mito « l’uomo per la società » si realizza il
rapporto armonico che potrà unire il genere umano nel cammino che sta
percorrendo.
L’Ordine del Tempio nasce nel 1118, un secolo dopo la I
Crociata, voluta da Urbano Il quando sul trono del Regno di Gerusalemme siede
Baldovino Il. A lui si presentarono 9 cavalieri francesi manifestando il
desiderio di formare una comunità per proteggere i pellegrini cristiani e
sorvegliare le strade di accesso al Santo Sepolcro, missione modesta, cui però
si legano pronunciando davanti al Patriarca della città, Teoclete, voto solenne
di combattere i nemici di Dio nell’obbedienza, nella castità e nella povertà.
Il re li fa alloggiare in un’ala del suo palazzo contiguo alla moschea di
El-Aksa, costruita, secondo la tradizione, sulle rovine del tempio di Salomone.
Da ciò derivò a questo primo nucleo il nome di
Cavalieri del Tempio.
I nove fondatori dell’Ordine erano validi cavalieri, pii e coraggiosi, ma senza
grande istruzione: sembra difficile attribuire ad essi egualmente tutte le
qualità che resero l’Ordine così rimarchevole. Probabilmente solo qualcuno tra
loro, forse Ugo di Payns, il primo Maestro dell’Ordine, e Goffredo di Saint
Omer, erano portatori di conoscenza dell’ermetismo cristiano, dell’architettura
e delle tradizioni compagnone.
I ranghi dell’Ordine si ingrandirono rapidamente di
cavalieri, di scomunicati e di gente che voleva consacrarsi ad una vita
dedicata alla devozione ed al sacrificio.
Nel 1128 Ugo
di Payns torna in Europa con due scopi: il primo di propagandare l’Ordine; il
secondo, più importante, di ottenere il riconoscimento del nuovo Ordine da
parte del Pontefice, ed a questo scopo invia a Roma due dei suoi primi
compagni, André de Montbard e Gondemare.
Bernardo, abate di Chiaravalle, il futuro Santo,
spinto da una lettera del Re di Gerusalemme ed entusiasmato dai racconti dei
pellegrini sulle imprese di questi cavalieri-monaci, così diversi dalla
cavalleria europea, non solo ottenne per gli inviati di Ugo di essere ricevuti
dal Papa, ma anche la convocazione di un concilio a Troyes, nel 1128, in cui
l’Ordine ricevette una regola detta « Latina », non scritta, ma sicuramente
ispirata dal Grande Santo, concepita in modo che, se singolarmente i cavalieri
dovevano far voto di povertà, l’Ordine potesse essere ricco e potente.
Scrisse inoltre il « De Laude Novae Militiae » in cui
dice, tra l’altro, contrapponendo alla cavalleria del lusso dei nobili e
porporati quella dell’umiltà dei Templari « … vanno e vengono a un segnale
del loro comandante; portano le vesti che sono loro date; non cercano né altri
abiti, né altro cibo… desiderando solo il necessario. Vivono tutti insieme
senza donne né bambini… non vi sono tra loro pigri e fannulloni… evitano e
disprezzano i mimi, i suonatori e i maghi, le canzoni scurrili e le sciocchezze
».
Louis Charpentier dà un’interpretazione particolare e
favolosa della fondazione dell’Ordine. Sostiene infatti che i nove cavalieri furono
mandati in Terra Santa con uno scopo preciso, che il capo spirituale cui
obbedivano fosse Bernardo di Chiaravalle e che il vero scopo fosse quello di
cercare qualcosa di sacro, prezioso e nascosto, l’Arca dell’Alleanza e le
Tavole della Legge in essa contenute. Venirne in possesso, egli sostiene,
significa conoscere la legge cosmica che regola l’universo.
Non esistono prove né del ritrovamento dell’Arca, né
del suo trasporto in Francia; in quegli stessi anni, però, apparve una nuova
forma d’arte, il gotico, che si diffuse nello stesso periodo in cui iniziò
l’ascesa Temprare. C’è una coincidenza notevole: Bernardo era Cistercense,
cistercensi furono le prime abbazie gotiche, di origine cistercense la regola
dell’Ordine del Tempio, volute dai Cistercensi la confraternita dei costruttori
del gotico « Les Enfants de Salomon » che da essi impararono la geometria
descrittiva.
L’Ordine era strutturato in classi diverse:
cavalieri « fratres milites », cappellani « fratres capellani », scudieri e
valletti d’arme « fratres servientes armigeri », servitori ed artigiani «
fratres servientes farnuli ».
Queste quattro categorie erano tutte legate dagli stessi
obblighi e godevano degli stessi privilegi.
Fin dalle
origini capo dell’Ordine fu il Gran Maestro, con simbolo del potere un bastone
con un globo sormontato da una croce
potente; il suo sigillo rappresentava il Tempio di
Gerusalemme o due cavalieri sullo stesso cavallo; il suo gonfalone era il
famoso « Beaucéant » sulla cui natura si è molto discusso, probabilmente bianco
con una croce rossa; la sua bandiera metà bianca e metà nera, con il motto dei
cavalieri « Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam ».
Il Gran
Maestro era eletto dal Capitolo di cui probabilmente facevano parte tutti gli
alti dignitari e cappellani
Come capo militare aveva uno stato maggiore
costituito dal Siniscalco e dal Maresciallo, l’uno che sostituiva il Gran
Maestro in sua assenza, l’altro incaricato delle armi e dei cavalli. I
Marescialli provinciali erano ai suoi ordini.
ln Terra Santa altri dignitari erano il Commendatore della Terra e del Reame di
Gerusalemme, cui erano affidati la tesoreria e l’amministrazione delle
Province; il Governatore della Città di Gerusalemme, che era l’Ospitaliere dell’Ordine,
incaricato di continuate il compito iniziale di garantire la sicurezza dei
pellegrini. Sotto di loro stavano i Commendatori delle case (in Terra Santa
fortezze) e dei cavalieri.
I gradi militari comprendevano i Cavalieri, che
avevano uno scudiero e tre cavalli, e i Sergenti, con un cavallo, e in genere
un garzone.
L’esercito comprendeva inoltre i Turcopoli, truppe
leggere ausiliarie reclutate sul posto, comandati da un Turcopolo alle dirette
dipendenze del Gran Maestro e del Maresciallo.
I Cappellani
furono istituiti in un secondo tempo per garantire i servizi religiosi
dell’Ordine e dipendevano direttamente dal Gran Maestro e dal Santo Padre,
totalmente indipendenti dalle altre gerarchie ecclesiastiche e dotati di
notevoli poteri di assoluzione.
Al successo dell’Ordine contribuirono il sostegno di
San Bernardo e del Vaticano, ma soprattutto il confronto fra il loro prestigio,
la loro serietà e moralità e i costumi dissoluti di nobiltà e prelati. Molte
ricche persone, nobili, anche re e principi, cominciarono a fare all’Ordine
doni munifici sia in oro che in terre, doni che essi avrebbero fatto diventare,
soprattutto in Occidente, un vero impero indipendente.
Da re Luigi VII di Francia ricevettero un enorme terreno
alla periferia Nord di Parigi, dove fecero poi costruire la Fortezza del
Tempio, cuore dei domini templari occidentali.
Quando nel 1130 il Gran Maestro Ugo di Payns rientrò in
Palestina, già solide erano le sedi dell’Ordine sia in Oriente che in
Occidente.
Ma fu soprattutto dopo la sfortunata Il Crociata (1150)
che crebbe il loro prestigio ed aumentarono i loro beni e i loro privilegi: il
Papa Eugenio III fissò la loro tenuta, il bianco mantello con la croce rossa
sul petto e sulla spalla sinistra; permise che riscuotessero le decime e che
fossero totalmente indipendenti dal clero secolare.
Si stima che alla fine del XII secolo l’Ordine possedesse
circa 1/3 di Parigi.
Lentamente il Tempio diventò una specie di banco di cambio per i pellegrini,
poi una banca vera e propria in senso moderno. In effetti, grazie alla
struttura internazionale dell’Ordine, chi partiva per la Terra Santa o per
altri luoghi, invece di portarsi dietro, con tutti i rischi connessi, il suo
denaro, lo depositava in una Commenda e lo riotteneva in altre contro presentazione
di una lettera di credito o fede di deposito.
Questo ruolo finanziario doveva condurre l’Ordine ad una
funzione propriamente bancaria, come depositario di ingenti risorse, prima
facendo, sotto garanzia, degli anticipi di denaro a chi ne chiedesse, poi
arrivando a fare prestiti a re e papi, attività che fecero del Tempio una vera
e propria potenza economico-finanziaria internazionale.
Già nel XII secolo nel Tempio di Parigi si svolgevano
importanti operazioni finanziarie. Se il clero ed il re vedevano di malocchio
l’incremento delle ricchezze dell’Ordine, i papi invece lo favorivano con nuovi
benefici, vedendo in esso il difensore della Terra Santa. L’Ordine sembra
comunque essere stato spinto su questa strada meno per calcolo che per la
fiducia che esso universalmente riscuoteva.
Se comunque questa funzione bancaria arricchì l’Ordine,
nessuno dei suoi membri sembra averne approfittato diratamente.
In Occidente una delle principali incombenze dei
cavalieri era quella di vigilare le strade percorse dai pellegrini per
raggiungere i più importanti santuari.
Le donazioni si allargavano a macchia d’olio: il
Tempio accettava tutte le proprietà offerte che però, talvolta, consistevano in
terre incolte, foreste ed acquitrini che i contadini dell’Ordine facevano
fruttare. Nello stesso tempo l’Ordine non esitava a fare scambi e poi acquisti.
La struttura base del Tempio era la Commenda,
amministrata da un Commendatore che poteva essere cavaliere, sergente o laico.
Le Commende sono descritte talvolta come fortezze, che il Tempio certamente
possedeva in Portogallo, Spagna e nel Sud della FranCla, ma la più parte erano
semplici fattorie che della fortezza avevano solo un aspetto vagamente
guerresco. Ogni Commenda aveva alle sue dipendenze vari poderi o amministrava
beni immobili. In Francia l’Ordine arrivò a possederne più di 2000.
La riunione di varie Commende formava la Balìa in cui avevano luogo i Capitoli
regionali e venivano ammessi i nuovi membri. Le Balìe, a loro volta, erano
riunite sotto la direzione delle Case Provinciali il cui insieme formava una
Provincia.
Vi erano 9 Province, 3 semplici, quelle a contatto
con i musulmani: Portogallo, Aragona e Maiorca, sede della flotta templare nel
Mediterraneo; 6 doppie: Castiglia e Le6n, Francia e Alvernia, Inghilterra e
Irlanda, Germania e Ungheria, Italia Sett. e Merid., Puglia e Sicilia.
Le Case del Tempio erano in genere abbastanza vicine
tra loro perché i viaggiatori fossero sempre sotto la sorveglianza dei loro
uomini d’arme.
Che certe Commende siano state istituite in funzione
della sicurezza delle strade è riconoscibile osservando quelle poste in
prossimità di guadi e ponti.
Queste « Strade Templari » non sono ovviamente
identificabili sul terreno come quelle romane, ma osservando sulla carta le
Commende conosciute, una rete si disegna sulla Francia con linee piuttosto
impressionanti che partendo dalle coste del Mediterraneo
2
raggiungono La Rochelle, Parigi, la costa Nord-Ovest, le
frontiere tedesche.
In Terra Santa le Commende erano vere e pròprie fortezze;
le più importanti costruzioni erano il Castello Pellegrino, il Castel Bianco,
il Castello di Saphet, la Fortezza di Tortosa (l’odierna Tartous, in Siria).
Ben note storicamente sono le imprese orientali
dell’Ordine: su 22 Gran Maestri 5 morirono in combattimento, uniti, insieme
all’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, nell’epopea del
precario regno cristiano di Gerusalemme, esposto agli attacchi dei musulmani
che Io circondavano da ogni lato.
L’esercito del Saladino avanzava nei territori del regno
saccheggiando ed uccidendo. Il Gran Maestro Odon di Saint-Amond, fatto
prigioniero in combattimento nel 1180, morì nelle carceri saracene.
Il 1187 con la battaglia di Huttin, iniziò la fine del regno cristiano di
Gerusalemme: i Templari persero 230 dei loro cavalieri ed il Gran Maestro,
catturato, fu liberato solo dietro pagamento di un grosso riscatto.
Nel luglio del 1187 caddero Tiberiade ed Acri, nel
dicembre il Saladino entrò in Gerusalemme.
Acri fu ripresa nell’89, ma dopo due anni di assedio nel
1191 capitolò nuovamente. Durante la III crociata i Templari si distinsero
soprattutto nell’assedio di Damietta.
Nel 1229 Federico Il sbarcò in Palestina; scomunicato da
Gregorio IX per gli indugi nel raggiungere la Terra Santa e per gli accordi
presi con i Saraceni d’Egitto che gli valsero l’ingresso in Gerusalemme senza
lotta, s’incoronò re. I Gran Maestri dell’Ordine del Tempio e degli Ospitalieti
si rifiutarono di avallare con la loro presenza l’incoronazione e di
riconoscerlo sovrano.
La seconda caduta di Gerusalemme avvenne nel 1244 in
seguito ad una terribile disfatta in cui perirono il Gran Maestro Armand de
Perigord e 320 Militi del Tempio, sui quali Federico II, ormai nemico
dichiarato, fece ricadere la colpa della sconfitta. Dopo aver insultato
pubblicamente il Gran Maestro Pierre de Montagne, Federico II scrisse lettere
alle corti d’Europa lanciando contro il Tempio le peggiori accuse.
Sicuramente da lui originarono i sospetti, che
gravarono sull’Ordine, di intesa con i musulmani e di partecipazione alle
cerimonie segrete del sufismo, Anche Luigi TX di Francia non mancò di
incolparli di legami segreti con i capi islamici quando il Tempio cercò di
modificare il suo atteggiamento nei confronti dei Mamelucchi d’Egitto e dei
successori del Saladino in Siria, sulla base delle indicazioni avute dai loro
contatti con gli Orientali; tentativo fallito che risultò a posteriori giusto,
ma che ottenne solo un’ingiusta punizione.
Quello dei rapporti con i musulmani è sempre stato
un punto controverso: nulla indica uno stretto legame tra Templari e sette
islamiche, ma è altrettanto certo che alcuni cavalieri dovessero conoscere i
riti ed il pensiero religioso locali.
L’Oriente era in quei tempi crogiolo di ebraismo,
gnosticismo, materialismo, manicheismo e sufsmo; né del resto il campo
cristiano era animato da una fede cattolica senza attriti o influenze arabe e
ebraiche: basti pensare ad un manoscritto anonimo del XII secolo di origine
spagnola in cui l’autore cita fra i « legislatori giusti, saggi e illuminati da
Dio », Mosè, Cristo e Maometto.
Certamente vi furono scambi di idee tra gli iniziati
presenti nei due campi, ma la cura posta dai musulmani nel porre a morte i
Templari prigionieri basta a dimostrare che l’intesa, talvolta raggiunta a fini
diplomatici, non aveva niente di cordiale, così come è indicativa nello stesso
tempo la risposta negativa templare al tentativo di accordo del re di
Gerusalemme con la setta degli Assassini.
Certo doveva sembrare strano a
gente appena sbarcata in Palestina vedere per esempio dei Templari facilitare
la preghiera dell’Emiro Qsama, o ricostruire una piccola moschea. Si trattava
evidentemente allora,
come in altri momenti, di un tentativo di raggiungere un modus vivendi tra
Occidentali e Orientali, di rispettare usi e costumi, oltre che religioni,
politica che avrebbe potuto essere fruttuosa se i cristiani avessero potuto
restare padroni della Terra Santa.
Nonostante tutto anche nella sfortunata crociata di
Luigi IX i Templari pagarono un grosso tributo di sangue: a Mansurah, in
Egitto, ne morirono 280 tra cui il Gran Maestro; ne ricavarono nuove accuse di
disfattismo e vigliaccheria.
Il destino del dominio cristiano in Oriente eta
comunque segnato e con esso la missione storica ed il prestigio del Tempio. Nel
1273 il dominio cristiano si limitava alla fascia costiera con le città di
Acri, Tripoli, Beirut e Tortosa ed ai castelli costieri di Athlit e Sayete
Sotto il Gran Maestro Guillaume de Beaujeu si svolse
l’atto finale: San Giovanni d’Acri, ultimo baluardo cristiano, cadde nel 1291;
nella lotta perirono il Gran Maestro e centinaia di Militi.
Il penultimo Gran Maestro, Thibaud Gaudin, eletto ad
Acri alla morte di Beaujeu, si rifugiò con pochi superstiti prima a Sidone e di
lì a Cipro con gli archivi dell’Ordine.
Dopo la caduta di Acri il Tempio di Parigi diventò la Casa
Generale dell’Ordine.
La Chiesa, prima benevola nei confronti dell’Ordine,
ora lo guardava con ostilità, data la preminenza del fattore amministrativo ed
economico su quello militare. Il Gran Maestro fu accusato di non aver portato
l’Ordine in Spagna a combattere i Mori.
A lui successe Jacques de Molay, uomo, pare, di
strette vedute, irresoluto, pieno di amarezza. Egli si trovò a gestire la fase
finale della crisi dell’Ordine, coincidente peraltro con la crisi dei rapporti
fra il re di Francia Filippo il Bello ed il Papa Bonifacio VIII, incentrata
sulla lotta fra potere temporale e spirituale, lotta in cui venne coinvolto il
Tempio.
rapporti del Tempio con
la monarchia francese erano quasi come quelli di due potenze vicine obbligate a
farsi mutue concessioni: l’Ordine comunque fu mal visto dalla Monarchia da
quando questa si rese conto di non poterne fare un suo strumento e vassallo.
Il Tempio era un organismo potente con tre
caratteristiche fondamentali: quella di essere una potenza militare,
finanziaria ed ecclesiastica, di essere sopranazionale, di avere un governo di
tipo collegiale; pet- questo costituiva un intralcio all’affermazione del
potere assoluto della monarchia nazionale di Filippo, che per di più vedeva in
esso un possibile strumento del Vaticano.
ln effetti in quel momento storico il ruolo politico
del Tempio era incerto: cosa fare dell’Ordine era una domanda che sia la
Monarchia che il Papato si ponevano; il papa Clemente V cercò di trasformarlo
in un suo braccio armato, peraltro senza riuscirvi. L’Ordine poi intralciava i
piani di Filippo, sia direttamente che indirettamente.
Per questi motivi l’Ordine fu soppresso, e non
soltanto perché Filippo voleva impadronirsi del tesoro del Tempio, di cui era
01trettutto debitore.
L’unica accusa che potesse distruggerlo, era quella
di eresia, pur essendo i Templari protetti dall’immunità: consegnati nelle mani
dell’lnquisizione era impossibile che venissero assolti; per di più un articolo
della legge canonica impediva agli eretici di reclamare i debiti.
Il 13 ottobre 1307 il Gran Maestro Jacques de Molay e il fiore della cavalleria
templare vennero catturati a tradimento durante una riunione a Palazzo Reale:
contemporaneamente in tutta la Francia si procedeva all’arresto di tutti i
Templari del regno ed alla confisca dei beni dell’Ordine. L’Ordine era accusato
di eresia, di iniziazione segreta, di soppressione della consacrazione durante
la messa celebrata dai cappellani, di rinnegamento del Cristo, di sputare sulla
croce, di baci scandalosi, di sodomia obbligatoria, di adorazione di un idolo
(il Bafometto), crimini che sarebbero stati imposti da una regola segreta
dell’Ordine.
Gli interrogatori vennero condotti da Domenicani e
sotto tortura 138 Templari confessarono le loro colpe.
Il debole Clemente V, in primo tempo indignato da
simili procedimenti, istigato dal Nogaret, diabolico consigliere del re, ordinò
ai sovrani europei di impadronirsi dei Templari e dei loro beni. A Parigi il 26
novembre 1308 vennero processari e confessarono il Gran Maestro ed alti
dignitari dell’Ordine. Circa l’accusa di eresie, si è a lungo parlato di
manicheismo nell’Ordine del Tempio, ma non vi furono prove, tanto che Clemente
V non pronunciò una condanna canonica: abolì de facto l’Ordine con la bolla «
Vox in excelso ».
Che peraltro circolassero delle correnti eterodosse
nell’Ordine sembra confermato da alcuni documenti pubblicati nel 1877 dal
Metzendorff. Si tratta di una copia del 1205 della regola ufficiale dell’Ordine
e di un « Libro del Battesimo di Fuoco o degli Statuti Segreti » redatto da
Maître Roncelin. L’articolo VIII della II parte dice: « Sappiate che Dio non fa
differenza tra Cristiani, Saraceni, Giudei, Greci, Franchi, Bulgari, perché
ogni uomo che prega Dio è salvo ». Nel XIX articolo: « Nelle case in cui tutti
i fratelli non siano degli eletti è proibito trasmutare metalli vili in argento
».
diffcile pronunciarsi
sull’autenticità di questi documenti, anche se riportati da studiosi seri come
Gérard de Sède. Certo essi confermerebbero non solo le correnti eretiche, ma
anche quel dualismo da molti sostenuto tra iniziati e non, sacro e profano,
occidentale e orientale; anche il sigillo del Tempio con i due cavalieri sullo
stesso cavallo può essere interpretato nello stesso modo.
Del resto cosa rimane sulle altre accuse?
Solo le confessioni estorte con la tortura e spesso
ritrattate in seguito. Nelle tre copie della regola del Tempio che ancora
esistono non si parla né di sodomia obbligatoria, che anzi era considerata una
colpa grave, né di baci osceni che, se mai esistiti, facevano probabilmente
parte di un rituale di iniziazione degenerato. La stessa cosa si può dire per
le accuse di triplice sputo sulla croce. Quanto all’adorazione di idoli, non se
ne trovÒ traccia in alcuna delle Case Templari. Alcuni conversi raccontarono di
aver visto un cavaliere adorare un idolo la cui descrizione era però
discordante. Una tradizione popolare ha identificato un piccolo demone, posto
nell’ogiva del portale mediano della chiesa di Saint-Merry a Parigi, con il
Bafometto dei Templari: non ha sesso, ha testa di uomo con barba e corna, il
corpo di donna, le ali di pipistrello, le zampe di caprone.
Questo nome « in figuram Baphometi » saltò fuori
durante l’interrogatorio del Template Fratel Gauceront, Sergente a MontPesant,
e sopravvisse al Tempio.
È ipotizzabile comunque che i Templari non adorassero un
idolo, quanto piuttosto contemplassero in meditazione un simbolo iniziatico.
Il 18 marzo 1314 il Gran Maestro Jacques de Molay ed
il Commendatore di Normandia Geofroy de Charny dopo aver atteso 7 anni in
carcere di deporre di fronte a Clemente V, condotti davanti a Notre Dame di
Parigi, ritrattarono la confessione ai legati del Papa. Ciò segnò la loro
condanna perché l’ Inquisizione puniva i relapsi con la morte sul rogo. La sera
stessa vennero martirizzati. I beni del Tempio, secondo la bolla « Ad provvidam
», vennero annessi a quelli dell’Ordine degli Ospitalieri, ad eccezione di
quelli esistenti nei regni di Castiglia, Aragona, Portogallo e Maiorca che
furono messi a disposizione della Santa Sede.
L’Ordine del Tempio fu dunque ufficialmente abolito e
i suoi più importanti dignitari, soprattutto in Francia, condannati al rogo o
imprigionati a vita. In Germania, in Inghilterra e in Italia il comportamento
fu in generale più clemente. Li si privò meno radicalmente dei loro averi,
furono obbligati a rinunciare al loro abito ed a inserirsi nella società sia
come cavalieri o scudieri al servizio di nobili amici, sia come architetti,
capmastri, artigiani o operai, secondo il loro status e le loro capacità;
alcuni si diedero alla macchia o semplicemente sparirono.
In Portogallo emigrarono molti cavalieri sfuggiti alla
cattura dal Midi di Francia e dalla Spagna; qui, protetti dal re Diniz, si
ricostituirono in Ordine di Cristo con sede a Thomar, seguendo le regole
dell’Ordine di Calatrava.
In Aragona e alle Baleari si fusero con altri ordini
religiosi, come i Francescani.
In Italia sembra vi sia stato un ingresso di Templari
tra le confraternite ermetiche della « Fede Santa » e dei « Fedeli d’Amore » su
cui esercitarono influenza non tanto esoterica quanto per le idee sociali,
economiche e politiche.
Argomento
controverso e sfuggente sono i rapporti tra Ordine del Tempio e Muratoria
Medioevale.
Come abbiamo detto, secondo la leggenda i nove fondatori
dell’Ordine del Tempio trovarono tra le fondamenta del Tempio di Gerusalemme, e
questa era la loro specifica missione, il manoscritto di come re Salomone
avesse realizzato la Grande Opera Alchemica. Poco dopo la sua nascita il Tempio
promosse una massiccia ed estesa attività architettonica, stringendo legami con
le corpQrazioni di mestiere ed in particolare con quelle muratorie e
proteggendone ostentatamente i diritti di immunità: in tutte le Domus Templari
si installò un Maestro Architetto; nel 1268 il Maestro Fonques du Temple fu
investito della qualifica triplice di Templare, Libero Muratore e Carpentiere
del Re, simbolo vivente di questa unione. Nei frammenti rimasti del rituale
della iniziazione templare si trovano chiare corrispondenze con il rituale
massonico, così come alcuni simboli templari, quale l’Abacus, il bastone sacro
dei costruttoti, attributo del Gran Maestro dell’Ordine.
È certo che l’influsso delle crociate sulla cultura europea fu notevole, come
non v’è dubbio che vi furono contatti tra l’Ordine e gli adepti di piccole
religioni e confraternite dell’Asia Minore da cui esso attinse conoscenze,
pratiche, costumi, ed emblemi estranei all’occidente, che trasmise in parte
alle associazioni operaie e compagnone.
Secondo l’Ambesi « I Massoni operativi medioevali
riuscirono ad infiltrare, nelle raffgurazioni testamentarie ed apocalittiche,
allegorie e simboli che nulla avevano a che spartire con l’insegnamento della
Chiesa di Roma, ma che si collegavano con segreti nodi al preesistente mondo
pagano e alla tematica gnostica, d’elaborazione asiatica, ripudiata dal
Cristianesimo ».
Dopo la distruzione dell’Ordine le confraternite
operaie (sicuramente nei paesi Fiamminghi ed in Inghilterra) accolsero fra loro
membri del Tempio, specie del III ordine, operai altamente specializzati con un
bagaglio professionale arricchito da conoscenze acquisite nell’Ordine.
Pare che alcuni Cavalieri, scampati alla distruzione del
Tempio,
venissero accettati tra le file dei Liberi Muratori.
Alcuni, in Scozia, entrarono tra i Cavalieri del
Cardo a Heredom: ad essi si richiama esplicitamente il Rito Scozzese
Rettificato come fondatori del Rito Massonico di Heredom, o meglio della Loggia
Madre di Heredom di Kilwinning.
Nell’opera « Del regime della stretta osservanza » il suo fondatore, barone von
Hund, pone la leggenda in questi termini: « Dopo la catastrofe il Gran Maestro
Provinciale d’Alvernia, Pierre D’Aumont, riuscì a fuggire con due Commendatori
e sette Cavalieri. Per non essere riconosciuti si erano travestiti da operai
massoni e una volta raggiunta un’isola scozzese, colà incontrarono il’ Gran
Commendatore Georges de Harris e molti altri fratelli con i quali presero la
determinazione di mantenere in vita l’Ordine: essi tennero un Capitolo Generale
nel giorno di San Giovanni del 1313 nel quale Aumont fu nominato Gran Maestro.
Per sottrarsi a possibili ulteriori persecuzioni, essi presero in prestito i
simboli dell’arte massonica e principiarono a farsi chiamare Liberi Muratori ».
Nomi e date devono però, da un punto di vista storico, essere presi con
precauzione e guardati con dubbio, non essendovi attualmente alcuna prova
documentale.
Comunque — e non senza molte profonde e buone
ragioni — il ricordo dell’Ordine sopravvive nel Rito Scozzese Antico ed Accettato,
nel cui patrimonio spirituale e simbolistico sono integrati importanti elementi
templari.
I giovani e la Massoneria di Alberto Del Noce e Maurizio Lucat
E indubbio che negli ultimi decenni lo sviluppo
tecnologico e scientifico abbia condotto l’uomo, ed in particolare i giovani,
verso un’evoluzione sociale ed ambientale sempre più spinta.
Le mutate condizioni del sistema produttivo,
industriale ed urbanistico hanno decisamente (o inesorabilmente) allungato quel
segmento di vita che fa da ponte tra l’infanzia e la paternità. Sono lontani i
tempi in cui i figli minori erano quelli che godevano vantaggi e facilitazioni
a scapito dei maggiori, costretti a lavorare ed a rinunciare alle loro
possibilità di istruzione.
Parallelamente a tale evoluzione si è sviluppata anche una notevole
emancipazione giovanile rispetto alla precedente condizione di dipendenza dal
mondo degli adulti: i giovani possono infatti attualmente accedere a tutti i
diritti civili e politici (a quattordici anni un ragazzo può ad esempio
testimoniare in giudizio, a sedici può sposarsi, a diciotto votare dei propri
rappresentanti in Parlamento).
I giovani sono poi diventati un punto essenziale di
riferimento del ciclo produttivo e ad essi si volge lo sguardo del mercato e
dei suoi organi di persuasione (da una recente indagine svolta negli Stati
Uniti è risultato che essi detengono un potere decisionale di acquisto
nell’ambito familiare pari se non addirittura superiore a quello dei genitori
stessi).
Questa evoluzione sempre più accelerata e sorretta da
una cruda logica di produzione-consumo e di massima espansione dei commerci
pone peraltro di fronte agli occhi dei giovani delle mete sempre più effimere e
mai veramente raggiungibili: nel momento in cui un benemeta è
conquistato-acquistato esso è già obsoleto, quindi inutile.
La vendita di se stessi è più importante dei reali
valori morali e si finisce per agire come «prodotti» in uno spot pubblicitario:
chi ci comprerà?
La potente macchina produttiva ogni giorno cerca di
convincere giovani e adulti che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che
tutto
71
è acquistabile ed ottenibile. E mentre le foreste del
pianeta si sono ridotte del 23% nel giro di vent’anni e l’atmosfera è inquinata
da particelle nucleari e presenta vuoti di ozono, il giovane sprofonda nella
palude dell’ambizione, dei bisogni crescenti, dell’egoismo più spietato pagando
in termini di libertà e dimenticando l’insegnamento di Pitagora: abbi il
massimo rispetto di te stesso. Il laicismo, dopo aver celebrato i funerali
della religione, ha poi cercato di sopire il sussulto dell’uomo davanti al
sacro, al divino, all’esoterico, trasformando la preghiera in frasario, la
tensione in nevrosi, la sessualità in igiene, il piacere ln relax, il dolore e
la morte in silenzi muti che affondano nell’opaco ciclo della natura. A questo
punto l’apporto positivo della Massoneria di fronte all’evoluzione dei tempi
appare insostituibile: attraverso la «costruzione del Tempio», inteso sia
individualmente sia collettivamente, il recupero delle libertà individuali e
delle tradizioni storiche dell’ umanità potranno favorire un’evoluzione più
equilibrata ed umana, nonché contribuire a conservare cio che non deve
soccombere del passato quale pietra di base per una solida edificazione futura.
La capacità introspettiva del massone e la sua attenzione verso le esigenze
della propria ed altrui coscienza sono essenziali per affrontare quei problemi
dell’esistenza che la pura ragione umana non sa né esprimere né risolvere.
La logica profana di Silicon Valley, imprimendo
un’accelerazione impressionante alla vita dei giovani, fa sì che gli stessi non
diventino ciò che sono ma che scelgano quanto anticipatamente predisposto. Se
la loro scelta non cade nella casella predeterminata le loro azioni non
diventano leggibili ed essi vengono esclusi e ghettizzati. La logica massonica
invece, valutando le azioni individuali attraverso il filtro dell’uguaglianza,
della tolleranza e della fratellanza, le legge come espressioni dell’anima
ricreando così ciò che era lo scopo dell’esistenza umana.
La Massoneria offre al giovane un luminoso punto di
riferimento sia attraverso la sua metodologia introspettiva sia attraverso la
sua esplicazione operativa nel mondo profano rifiutando decisamente l’assioma
che l’identità non è del singolo ma del sistema, che l’Io non preesiste al
gioco ma si costituisce giocando e che la dimensione collettiva è la forma che
lo definisce e cioè la regola ultima del gioco.
IL FIGLIO DELLA VEDOVA
(Don Pipeta l’Asilé ) di Giacomo Durio
Nel numero 8 di Delta abbiamo pubblicato una
presentazione del libro Don Pipeta l’Asilé di Luigi Pietracqua. Oggi viene
esaminata un’opera di Augusto Monti, che da quella direttamente deriva * AUGUSTO MONTI, 11 figlio della
vedova (Don Pipeta l’Asi1é), Torino 1978, Viglongo Ed
Il libro, nelle stesse dichiarazioni dell’Autore, è
definito più che una semplice « traduzione » dell’originale in piemontese di
Luigi Pietracqua, un vero e proprio « rinnovamento » fatto per la convinzione
della sua attualità in relazione a vari episodi inquadrati dai particolari
rapporti tra Inquisizione cruentemente tirannica e anticlericalismo da
raffrontare, per analogia, con similari episodi del tempo del fascismo e del
Tribunale Speciale, Questa sua attualità e questo suo richiamo sono stati alla
base della sua originaria pubblicazione nell’edizione torinese del giornale «
l’Unità » come romanzo d’appendice a puntate. Ma questa sua attualità mi è
stato agevole intravvederla anche da un diverso angolo visuale e cioè quello
massonico e non soltanto perché anche nel romanzo viene affermata la perennità
dei principii dell’ideologia nonché dell’essenza e sostanza massonica, ma anche
perché vi si possono cogliere spunti di raffronto con figure, problemi,
situazioni, aspettative e, purtroppo, anche delusioni del nostro tempo. È
proprio a questi aspetti cui dedicherò l’ultima parte di questa discussione,
avendo prima descritto tempi e modi di una iniziazione, come sono presentati
nel libro.
Alcuni personaggi che più ci interessano direttamente:
Battista, ossia Don Pipeta l’Asilé, così chiamato
perché sempre in giro, e specialmente di notte, con la botticella dell’aceto da
vendere, aceto ritrovato nelle botti del vino sistemate nel retrobottega della
bettola di Caterina, sua madre, in vicolo delle Asine, che univa via
Porta Palatina a Porta Palazzo a Torino. Alcuni lustri
prima, infatti, quando Don Pipeta era ancora un ragazzo, la bettola, essendo
stata tenuta aperta dalla madre, la quale aveva anche fornito cibo e vino
durante Feste di precetto, ed in particolare durante la Festa del Corpus
Domini, « quando ogni buon cristiano deve compiere fedelmente le pratiche
religiose di Santa Madre Chiesa », era stata chiusa, non solo, d’ordine del
Sant’Ufizio, ma la madre con la sorella arrestate e torturate a morte
dall’lnquisizione. Il solo Battista, fuggendo attraverso il retrobottega, si
era sottratto alla cattura. Tutto questo antefatto, per meglio capire « perché
» il ragazzo, fatto uomo, lo ritroviamo Fratello Massone pur senza conoscere il
« come Il tintore Stefano Borello uomo dabbene tutto dedito al suo lavoro ed
alla famiglia, che, proposto per l’affiliazione alla Massoneria, troveremo
protagonista della cerimonia di iniziazione e che unitamente ai componenti
della sua famiglia formerà successivamente oggetto della solidarietà dell
‘Istituzione contro le persecuzioni dell’ Inquisizione messa in moto,
purtroppo, dalle delazioni di altro Fratello. Quest’ultimo, anteponendo uno smodato
affetto per il figlio degenere e soggiacendo al desiderio di vendetta, si
ritrova dimentico di tutti i suoi doveri di massone.
Ed abbiamo così conosciuto anche la trista figura del
notaio Roggero. Altri personaggi della « Vedova » operano a favore del Borello
prima e della sua famiglia poi, salvandoli dai carnefici persecutori della
Inquisizione.
Desidero però ricordare particolarmente la figura del
professor Parodi.
Egli, arrestato per errore al posto del Borello,
durante l’interrogatorio degli Inquisitori, al frate che gli contesta « di
ammettere d’essere in stretta relazione coi più perfidi nemici d’ogni ordine
sociale, con i più pericolosi fautori d’ogni più infame eresia, con i… » r sponde testualmente
continuando: « con i mangiatori di bambini, coi bevitori di sangue umano, con
gli uomini dal piede forcuto… che le umili donnette dicano e pensino così,
transeat, ma che voi discepoli dell’onnisciente Santo d’Aquino veniate a
dipingermi come nemici della società, come infami eretici i discendenti se mai
di quei maestri comacini che hanno arricchito l’Europa di tante e leggiadre
case di Dio, i membri di una società filantropica la quale può essere maestra a
chicchessia di amore e di carità cristiana… ». Difesa dell’Istituzione, di
cui non faceva parte, che lo perse e che naturalmente gli fu fatale malgrado
l’interessamento a suo favore di persone influenti che chiamarono in causa le
più alte autorità civili e cioè il ministro Bogino e suo tramite il Re Carlo
Emanuele III.
Nell’edizione piemontese il profano muore sotto o a
seguito delle torture, il Monti, invece, lo fa suicida in carcere richiamandosi
a « Catone… Uticense… suicida per sfuggire al tiranno… cercando ”
Libertà ” ».
È giunto il momento di tratteggiare l’Iniziazione.
L’Autore dopo brevissimi cenni su origini e primi sviluppi della Massoneria in
Inghilterra e Francia afferma che all’epoca del racconto anche Torino, dopo
Chambéry, aveva la sua brava Loggia all’Obbedienza di una Loggia Madre di
Ginevra. L’iniziando è il buon tintore Borello che dispiaciuto di non aver
potuto saper nulla « circa le istruzioni preventive per il suo ricevimento » si
rassegna a vedere « cosa succederà ».
Rilevato a tarda sera a casa sua dal
Notaio Roggero, incontra l’Acetaio nel suo rifugio dove gli vengono fatti
posare gli ori e i denari per non dare sospetto in famiglia con un ritorno a
casa per lasciarli. Sono sintomatiche le raccomandazioni: « qualunque cosa
sentiate o vediate, qualunque cosa vi comandino di fare, dovrete mettervi in
testa di prestarvi a tutto, senza fare la più piccola osservazione e senza
mostrare, soprattutto, neppure l’ombra della paura. Non vi sarà fatto un male
al mondo, ma dovrete sottostare a certe prove che ci vorrà anima buona e fegato
sano per sostenerle… ». Malgrado l’oscurità il profano viene bendato e senza
parlare si cammina per alcune miglia (sapremo dopo che si è trattato di
un’uscita e di un rientro in Torino) finché un « Chi va là »
accompagnato da rumore di maneggio d’armi li ferma.
« Figli della Vedova » è la parola di passo. Dopo
poco si sente un rumore sordo come d’acqua d’un fiume che al profano bendato
pare un immane fragore di cascata che gli stia per piombare addosso.
Egli ha un momento di debolezza e un mancamento, ma con il
sostegno dei due accompagnatori si giunge finalmente ad una stanza illuminata
da una lampada d’ottone a tre becchi. Seduto su di una panca e sbendato, egli
si ritrova davanti ad un tavolo parato d’un tappeto nero. La vista dei due
accompagnatori sun po’ lo rinfranca ed egli si scusa per la sua
debolezza. Lasciato solo osserva sul tavolo l’occorrente per scrivere, un
teschio, una spada.
Convinto di farlo mentalmente sussurra « Mio Dio dove sono
mai adesso?
« Sul limitare del Tempio della Luce » gli risponde una figura incappucciata e
armata di spada, che subito incalza « Profano sei veramente deciso a entrare in
questo Tempio? ». Malgrado il tremore la risposta è positiva e allora
l’ingiunzione: « Ebbene scrivi il tuo testamento ». Sorpresa e spiegazione «
L’uomo acquistando la vita contrae tre debiti gravi e sacrosanti, ai quali deve
saper soddisfare con tutto l’amore di giustizia e la virtù del sacrificio. Il
primo verso Dio; il secondo verso sé medesimo; il terzo verso i suoi fratelli.
Scrivi in che maniera intendi soddisfare questi tre debiti. Hai tempo mezz’ora
».
Con una breve parentesi, sottolineo qui, condividendola, la
notazione del Boucher sul fatto che la Massoneria modernizzandosi ha soppresso,
forse a torto, la interrogazione del dovere verso Dio sostituendola con quella,
più limitativa, del dovere verso la Patria. Indubbiamente vi sono state delle
motivazioni la cui ricerca rimando all’indagine del lettore.
Riprendendo, bellissima la
descrizione dell’imbarazzo del profano e di tutte le strane idee che gli
frullano in testa. Lascio un attimo il lettore al ricordo di quelle che sono
state le sue nel gabinetto di riflessione.
Bellissime comunque le risposte:
— A Dio, creatore dell’Universo, ogni mortale deve
conoscenza e venerazione.
— A me stesso, debbo ogni sforzo per giungere
all’acquisizione della vera virtù e quei savi miglioramenti che rendono sempre
più onorata l’umana natura.
— Ai miei simili, debbo assistenza, amore, fedeltà.
Dopo che il foglio, piegato in quattro, è stato
portato via sulla punta di una spada, un’altra figura incappucciata lo benda di
bel nuovo e gli fa iniziare un nuovo viaggio lungo, vario, pieno di peripezie,
se pur non gravi, diverse e curiose tutte quante, rumori sordi inesplicabili,
invocazioni di aiuto, passaggi a quattro gambe in cunicoli bassi e stretti,
ecc. fino ad un secondo alt di una voce che chiede dove vada la carovana:
« ln pellegrinaggio per trovar la luce ed entrar sotto gli auspici della
“Vedova”. Ma la gamba sinistra è ancora calzata!! ». « Il profano
aspetta solo un ordine del F. Terribile per scalzarsela ». Dopo di che il
profano viene seduto sopra una poltrona sostenuta da quattro corde e fatto
precipitare come in un pozzo, in un abisso senza fondo, solo, abbandonato e
pieno di emozione e di dubbi sul dove sarebbe andato a finire. Un tonfo di
contatto e un folto brusìo di voci lo accoglie e tre colpi ripetuti tre volte
echeggiano intorno a lui. Segue un serrato interrogatorio condotto magari da «
curiali e gente di penna », ma al quale il buon Borello, forte del suo robusto
buon senso di popolano lavoratore e soprattutto della sua illibata coscienza di
gran galantuomo, risponde con naturalezza e semplicità. Ricondotto alla
poltrona dopo vari giri, che l’A. descrive eseguiti sotto la volta di acciaio
delle spade, si sente domandare « Cosa desideri più ardentemente in questo
istante? »: d’essere liberato da questa benda che mi impedisce di vedere la
luce! « Sia esaudito il tuo desiderio ».
Ma il profano non vede nulla perché l’oscurità è
profonda. Poi in successione gli vengono presentate due visioni. La prima di
maestose figure candide in una nebbia luminosa, che rappresenta i fratelli più
cari passati a seconda vita; la seconda di scheletri e macilente figure
macchiate di sangue che rappresentano coloro che han ricevuto il meritato castigo dei traditori. « La Verità e la
Giustizia, ammonisce una voce, devono essere l’unica nostra guida, guai a chi
tradisce i nostri Segreti, guai a chi tenta di violare la santità del nostro
Tempio e della nostra Istituzione ».
Tre colpi di
martello, ripetuti da due parti opposte, danno inizio al terzo ed ultimo
viaggio. Nuovamente bendato riparte all’insù sulla poltrona. Riavuto lo stivale
si cammina ancora incontro a quel
terribile e maledetto rumor d’acqua in cascata. Vento
umido, spruzzi, uno spintone che pare precipitarlo nel vuoto, una gran paura,
al fine si ritrova in piedi e sano, ma l’istinto gli fa chiedere aiuto. Una
voce lo invita a proseguire. Procede a stento brancicando finché si sente afferrare
per le due braccia. La cerimonia continua con l’ingresso rituale nella sala dei
passi perduti e poi nel Tempio, ma poiché prosegue con uno strano intreccio fra
formalità e rituali della leggenda di Hiram, lasciamo il neofita al suo
giuramento finale, alla vestizione e all’abbraccio fraterno che lo consacra
nuovo fratello, finalmente rasserenato dopo tante peripezie.
Una breve considerazione sui luoghi e poi passiamo
all’ultima parte. Il rumore dell’acqua, che non è pensabile sia riprodotto, fa
ritenere si tratti di sotterranei tra la Cittadella torinese e la via Dora
Grossa, l’attuate via Garibaldi, collocazione che può essere confermata dal
successivo, relativamente breve, percorso per raggiungere le rispettive case.
La prima considerazione che viene alla mente è
quella sul proselitismo. Troviamo infatti tra i Figli della Vedova dal conte
Ferdinando (membro di una delle più illustri famiglie della nobiltà piemontese,
che ospita nella sua gran fattoria fuori Torino la famiglia Borello in fuga),
al notaio, al negoziante di chincaglierie all’ingrosso, al vecchio benestante,
all’artista, fino al povero Battista che vive in quel tugurio che è la vecchia
bettola della madre, ma che è una delle figure di spicco nel contesto della
operatività di allora volta al progresso della vita civile e della libertà di
pensiero. Pare davvero non vi sia distinzione di classi sociali o di censo
purché il fratello sia effettivamente di buoni costumi e libero ed intenda
essere partecipe concretamente delle due principali essenze della Massoneria:
quella più propriamente spirituale volta alla ricerca del Vero e quella più
particolarmente sociale volta al raggiungimento del Giusto. E mi pare che
questo possa e debba essere un criterio tuttora valido.
I Fratelli cioè sono uguali, nel rispetto di uno dei
cardini del sacro trinomio, ma in una eguaglianza che non è basata sui diritti,
ma essenzialmente sui doveri e sulla capacità dei singoli di una ascesi
individuale che si trasforma poi in una ascesi collettiva.
Anche allora, come oggi, vi sono le pecore nere che
soggiacciono alle debolezze umane o nel senso di pensare che la Massoneria
possa essere uno strumento di forza da poter plasmare per avvalersene a fini
particolari o nel senso egoistico che calpesta la fratellanza di fronte al
soddisfacimento di sentimenti deteriori e personalistici o settarii.
Ma l’Istituzione ben sapendo che l’inazione è sempre
sterile, può e deve reagire con atti di giustizia, che hanno anche una salutare
veste ammonitrice, volta a salvaguardare le sue finalità e le sue strutture. La
solidarietà si manifesta nel libro nella sua piena concretezza, svolta con atti
ed azioni risolute, non scevra da pericoli personali, ma sempre permeata da
prudenza, coraggio e tempestività. Essa è veramente emblematica e densa di
insegnamenti per tutti noi.
La tutela del segreto appare vitale nel senso più letterale della parola. La
delazione o anche soltanto l’imprudenza pone il malcapitato alla mercé dell’inquisizione
e della sua macchina che stritola libertà fisica e di pensiero. Oggi le
condizioni sono fortunatamente cambiate in meglio e certo noi ci auguriamo che
anche in Italia l’evoluzione porti ad una diminuzione sempre più accentuata
della necessità di un segreto difensivo contro l’ambiente profano, ma mi piace
ricordare qui la conclusione di una tavola di un nostro fratello sul segreto
massonico:
« Esiste un segreto che permane tale anche ove la
Massoneria possa vivere i fasti della vita pubblica: è quello che racchiude in
sé chi ha raggiunte la catarsi e la esoteria, la purificazione interiore e la
perfezione. E questo è il segreto che affratella i massoni, quelli veri e
correttamente istradati sul cammino iniziatico, rispettosi del monito della
Sfinge, simbolo di tale segreto: l’uomo deve osare, volere, sapere e tacersi
Ritornando alla operatività appare essenziale
l’azione di Don Pipeta che, mimetizzato nella sua veste di venditore ambulante
di aceto, mantiene i collegamenti con l’Ambasciata di Francia presso la
Repubblica genovese con azioni pericolose, ma preziose per mantenere
relazioni con gli assertori dei principii di quella
Rivoluzione dell’Illuminismo che si stava sviluppando al di là delle Alpi non
solo ideologicamente.
Oggi il compito dei singoli Massoni è duplice,
all’interno per inserirsi, sia pure non per risolverli direttamente, nei grandi
problemi sociali e operare per diffondere in un mondo, dove queste vanno sempre
più scomparendo, spiritualità e tranquillità al fine della realizzazione di una
maggiore giustizia, della difesa della libertà individuale e collettiva.
All’esterno per favorire, con la collaborazione dei
Fratelli di tutte le obbedienze, la realizzazione di quell’unità Europea che
appare sempre più l’unico rimedio per tanti mali cui gli Stati nazionali non
sono più in grado di porre singolarmente rimedio.
L’Epistemologia è quella « branca della teoria generale
della conoscenza che si occupa dei fondamenti, la natura, i limiti e la
validità del sapere tanto delle scienze esatte che empiriche. Permette di
distinguere i giudizi di tipo scientifico da quelli di opinione (metafisica,
religione, etica) » (Encicl. di filos. – Garzanti).
Se applichiamo questo concetto per verificare la validità
e i fondamenti della nostra istituzione, per quel che riguarda l’Ordine, non ci
sono dubbi, essi sono adeguati a quello che è il nostro fine: il miglioramento
della umanità attraverso il miglioramento del singolo individuo anzi attraverso
l’automiglioramento.
L’analisi del « conosci te stesso », l’etica dell’« ama il
prossimo tuo come te stesso », la ricerca della verità col solo mezzo della
ragione, la volontà di realizzare un mondo migliore sulla base di una bene
intesa libertà, di una giusta uguaglianza, di una vissuta fratellanza, l’uso
appropriato di una tolleranza che non diviene mai sopportazione e di una
solidarietà che non diviene mai sopruso o come già abbiamo detto complicità,
rappresentano al momento attuale quanto di meglio I uomo abbia prodotto per un
mondo migliore.
Al di là la ragione umana non può andare anche se questi
limiti ab initio si sono sempre venuti spostando ma il limite è come
l’orizzonte che più cerchiamo di avvicinarlo più si sposta.
Di qui la necessità che alla ragione si sovrapponga
l’intelletto, l’intuizione o la fede ma noi, a livello di Ordine, Cl
accontentiamo dell’hic et nunc, ci limitiamo al mondo ed all’umano, non ci
poniamo il problema del poi, del dopo o dell’al di là; cerchiamo di aiutare
l’uomo a migliorarsi per vivere in un mondo migliore e nel migliore dei modi
quegli anni, pochi o tanti che siano, che è destinato a passare sulla terra.
Vogliamo essere un modo di vita, una scuola di pensiero e
di vita, anzi una scelta di vita e non già una religione, noi accettiamo il
detto « la verità vi farà liberi » e lasciamo ad una scelta individuale il «
credi e sarai salvo» e per concludere con Fromm a noi L.M. « non interessa
sapere se l’uomo torna alla religione e
crede in Dio, ma se vive con amore e pensa secondo
verità. Se la risposta è sì, i sistemi che adopera hanno poca importanza, Se è
no, non ne hanno alcuna ».
Ecco io qui ho concluso: siamo partiti dai fondamenti della nostra istituzione,
abbiamo esaminato i mezzi, i metodi e siamo arrivati al fine: il cerchio si è
chiuso. Ho detto cerchio perché esoterica. mente rappresenta la perfezione ma
appunto per questo non ha inizio né fine. Così per noi il nostro lavoro sulla
pietra grezza non ha avuto forse un inizio ma di certo non avrà mai fine; così
come i nostri discorsi…
Come tutti ben sanno una volta era solo l’arte
dell’ostetricia; da Socrate in poi (400 a.C.) è considerata « un metodò
scientifico — cito dal Palazzi — di discussione, col quale, per mezzo di
successive interrogazioni si conduce a poco a poco l’avversario a scoprire da
sé le verità che esistevano latenti nel suo spirito ». Ora si chiama metodo
socratico e si basa sulla ragione e sulla logica conseguente. A qualcuno
piacerà ricordare come Socrate, figlio di Fenarete che era una levatrice, oggi
ostetrica, diceva che come questa aiutava le donne a partorire così lui aiutava
gli uomini a ragionare e quindi a scoprire quelle verità che già erano in loro.
Tutto questo lo sappiamo da Platone, nel Teeteto, poiché di Socrate non abbiamo
niente in quanto pare non sapesse scrivere o per lo meno non ha scritto niente.
La ragione è una facoltà
dell’intelletto che ci permette di conosce re le cose e i fatti e di discernere
e giudicare. È la facoltà che distingue l’uomo, animale razionale, dagli altri
animali.
« La ragione è la facoltà che cerca il vero e penetra dalla superficie dei
fenomeni alla loro realtà intima » ed ancora « la ragione che è la facoltà più
pregiata e più singolare dell’uomo è sottoposta all’effetto deformante delle
passioni » (Fromm E. in Psicanalisi e religione).
A chi interessa preciso che deriva da ratio usato da
Cicerone per tradurre logos che però vuol dire anche discorso e non solo
ragione; in seguito con la scolastica si precisò come traduzione di dianoià in
opposizione a noüs che è l’intelletto. Si arriva così alla ragione come mezzo
della conoscenza discorsiva o umana e all’intelletto come conoscenza intuitiva
o divina e quindi ai problemi del rapporto tra ragione e fede. Rimando ai
problemi tra ragione e discorso di cui si sono ampiamente occupati Aristotele,
Platone, Sant’Agostino, ecc., e a quelli tra ragione e calcolo, tra ragione ed
evidenza di cui si sono occupati Hobbes, Hume, Leibniz, Cartesio, ecc. Ricordo
il contrasto tra razionalismo continentale ed empirismo inglese nei secoli XVII
e XVIII. Sconsiglio di addentrarvi con Kant, Hegel, Bergson e amici sul
problema ragione e intelletto dove compare an40
che, a complicare le cose, l’intuizione ma vorrei
ricordare che ancora oggi il problema è aperto e che ad esempio 1a famosa
scuola di Francoforte riprende direttamente da Hegel l’opposizione tra ragione
e intelletto.
Ma torniamo a quel perdigiorno di Socrate che a mio
avviso è l’ini- ziatore della filosofia come
scienza, con tutto il rispetto per i predecessori che pure erano del calibro di
Talete, Anassimene, Anassimandro, Pitagora, Eraclito, Parmenide, Zenone,
Democrito ecc. per citare solo i più noti: Socrate infatti è colui che per
primo prende per mano l’uomo e gli insegna a ragionare.
E la ragione per noi L.M. è il mezzo più importante
per avvicinarci alla verità questo per quel che riguarda l’Ordine.
Ogni iniziazione e ogni passaggio sono un comandamento
più che un invito alla ragione. La ricerca della luce e della verità sia pur
sempre limitata e incompleta sono merito della ragione.
Quando si arriverà al rito verranno chiamate in aiuto
altre facoltà intellettive per procedere nella ricerca della verità, ma
rimaniamo a livello d’Ordine.
Quindi la maieutica, I arte di ragionare, di scoprire la verità che già abbiamo
percepito ma non riconosciuta è a mio avviso un’arte squisitamente muratoria e
Socrate per me è il prototipo del perfetto muratore.
La ragione in conclusione ha aiutato il progresso
dell’uomo traendolo dalla superstizione, dall’ignoranza, dal dogmatismo, dal
pregiudizio ma non lo può rendere felice.
Se la ragione è il mezzo, in Massoneria vi è anche
un metodo di lavoro che a mio modo di vedere è molto importante e si basa sul
rituale, sull’atteggiamento ed il comportamento da tenere e che io ritengo si
avvicini molto a quello che è il « training autogeno» e questo per chi ha
voglia potrebbe essere un bel tema di discussione. D’altra parte molto delle
nostre cerimonie è mutuato da liturgie sia religiose che di ordini
cavallereschi o simili che avevano intuito ed applicato quello che poi Schultz
ha esposto in termini scientifici agli albori di questo secolo.
Ritrovarsi un paio d’ore da dedicare alla lettura in un
pomeriggio di domenica piovosa, è un dono inaspettato, da godere ed assaporare
subito, ampiamente. Mi invitano « I Dialoghi » di Confucio e, per una lettura
comparata di indubbio ausilio a maggiori approfondimenti, Lao-tze con il «
Tao-te-king ».
un invito allettante… e mi immergo nella
lettura.
Ne vengo distolta da una visita, non prevista, di una amica.
Anche un po’ di tempo da trascorrere con una persona cara è dono prezioso. «
Stavi leggendo… Oh! , guarda, Confucio, Lao-tze. Interessanti? Quando li
avrai finiti, me li impresti? ».
Prometto.
Rimasta sola, ripenso alle considerazioni che dai due libri
sono scaturite.
I Dialoghi sono
attribuiti a Confucio come a Lao-tzc il Tao-te-king. Loro non hanno scritto
niente e se lo hanno fatto, nulla di autentico è giunto sino a noi. Altri
paralleli vengono alla mente. Nulla ha scritto Socrate che, anzi, della
scrittura diffidava profondamente come risulta dalla favola che Platone gli fa
raccontare nel Fedro e che termina con le parole di Thamus, re dell’Alto
Egitto: «O ingegnoso Theuth,… gli uomini, fidandosi del tuo alfabeto e di
quanto scritto, non eserciteranno più la memoria e richiameranno le cose alla
mente non più dall’interno di se stessi, come dovrebbero, ma dal di fuori,
attraverso segni estranei ».
Del pensiero socratico possiamo sapere solo attraverso i suoi
allievi, principalmente Platone, così come solo dagli Apostoli, attraverso i
Vangeli sinottici o apocrifi che siano, conosciamo la predicazione di Gesù di
Nazareth. Altrettanto si può dire di Siddharta. Tutti uomini che non hanno
scritto un rigo e che pure tanto hanno insegnato da mutare, influenzare, permeare
il pensiero e il comportamento umano. Di tanto in tanto, sulla terra nascono
uomini di questa levatura, uomini senza i quali — dice P. Citati — noi tutti
saremmo un po’ diversi. E forse un po’ peggiori, oso aggiungere io. Budda, Lao,
Confucio, Socrate, Gesù hanno parlato, sì, dialogato molto, con tutti. Essi
hanno avuto bisogno solo del dialogo, che è poi la capacità di improvvisare un
discorso che diventa insegnamento a seconda degli stimoli che offre
l’interlocutore.
Ed hanno insegnato, così, in tutta semplicità, esteriore ed
interiore. Socrate se ne andava in giro, facesse caldo o freddo, con il suo
chitone, o tutt’al più con il tribòn, disdegnando abiti eleganti ed ogni altro
genere di lusso. Con una semplice veste se ne andavano Lao, Budda, Gesù che
anche di quella si spogliò, per morire vestito del solo legno di una croce.
Confucio, durante i grandi caIori estivi, indossava una semplice tunica di lino
grezzo; d’inverno una casacca nera o bianca o gialla.
Sempre Socrate, fermatosi un giorno davanti ad un negozio, in
Atene, e guardando tutta la merce esposta, esclamò stupito: « Ma guarda di
quante cose hanno bisogno gli Ateniesi per campare! » (da Diogene Laerzio).
E forse non è male ricordare qui a quanto poco avesse ridotto
le sue necessità Diogene di Sinope: proprio al minimo indispensabile! Per casa
una botte, un mantello come abito e come letto, un catino per mangiare e una
ciotola per bere, disfacendosi poi sia dell’uno sia dell’altra dopo aver visto
un ragazzo mettere le lenticchie direttamente sul pane e bere nel cavo della
mano.
Altri, al suo posto, che cosa avrebbe chiesto ad Alessandro il Grande il quale,
stimandolo molto, desiderando vivamente di poterlo conoscere e finalmente
incontratolo, gli aveva detto: « Chiedimi quello che vuoi »? Ma… forse un bel
quartierino vicino all’Acropoli e una seconda casa (possibilmente villetta
mono-familiare) a Capo Sunion con vista sul mare? E poi… già aveva così ampio
campo di richiesta, forse una pensioncina di qualche invalidità, a spese di
Corinto o di Atene e, perché no? , anche un posticino da segretario di un
Arconte o di un Pritano per un lontano parente? …
No, non ci siamo… Diogene che se ne stava lietamente
godendo il sole sulle scale del Craneo, disse: « Ti prego, spostati che mi
togli il sole! ». Semplicità. E modestia.
Nessun titolo accademico da sfoggiare, nessuna collezione di lauree
comprese quelle ad honoris causam, niente specializzazioni o
superspecializzazioni, stages, performances.., Mai andati a ritirare premi o
medaglie, a partecipare a tavole rotonde, congressi, meetings..
« Scusi, professore Socrate, desideriamo congratularci con
Lei per l’assegnazione della Palma, Andrà a Delfi a ritirarla? ».
« Oh! , professor Gesù, abbiamo saputo che si recherà a
Gerusalemme in Sinedrio, ove terrà una conferenza, da tutti attesa con il più
vivo interesse. Ci potrebbe anticipare, in sintesi, il contenuto della Sua
dotta relazione? ».
« Ecco, abbiamo l’onore di presentarvi l’illustre professore
Lao, conosciuto e famoso in tutte le terre di Cina… ».
« Non La vorremmo disturbare, esimio professor Confucio,
sapendoLa pronta a partire per Lu dove parteciperà ad una tavola rotonda, la
decima vero, nel volger di questa luna… ».
Di tutto questo,
Budda, Lao, Confucio, Socrate, Gesù avrebbero non riso, ma solo sorriso,
semplicemente e modestamente. Come il sorriso di Orazio:
« Persicos
odi, puer, adparatus, displicent nexae philyra coronae, mitte sectari rosa
quo locorum seta moretur.
Simplici myrto… ».
(Lo sfarzo persiano, ragazzo, io lo detesto; non mi
piacciono le corone intrecciate di filo di tiglio; tu desisti dai tuoi tentativi
di ricercare dove indugi a fiorire la rosa tardiva. Al semplice mir-
Che lo dica per ognuno di noi? Forse sì, per farci memoria
della modestia e della semplicità di cui hanno fatto professione nella loro
vita gli Spiriti Grandi.
Maestri, Rabbi, Gotama, così li hanno chiamati gli altri, e
giustamente perché, come dice Han Yu, « Maestri sono coloro che trasmettono le
dottrine, spiegano i dubbi; sono coloro che hanno il sapere, lo conservano, lo
custodiscono »
Ma loro, gli Spiriti Grandi, tutti questi appellativi non li
hanno mai sollecitati. Anzi…
Lao dice di sé: « Tutti sono intelligenti, io solo sono
stupido. Mi pare di essere trascinato dalle onde e non so dove vado. Tutti sono
pieni di talento, io solo sono limitato come un selvaggio ».
Siddharta, vicino a morire, così riprende un discepolo: « Tu
dici: il Maestro che c’insegnò la dottrina è scomparso: non abbiamo più
Maestro. Ma non dovete, Ananda, pensare così. La dottrina e la regola che
insieme abbiamo imparato e divulgato, ecco i vostri Maestri quando io non ci
sarò più ».
Di sé Socrate, uomo che non lanciava programmi di redenzione
né pretendeva di trascinarsi dietro torme di seguaci, diceva: « Io so di non
sapere né poco né molto. Tutto quello che posso fare è esercitare la maieutica
» e per tutta la sua vita ha posto domande, ha ascoltato risposte, ha chiesto
precisazioni per « tirar fuori » la vera conoscenza, aiutando sé e gli altri.
E di sé Confucio disse: Io tramando solo, non creo ». « Forse
in letteratura sono pari agli altri, ma a comportarmi da saggio non sono ancora
riuscito ». « Non mi affliggo di non essere conosciuto dagli uomini, mi
affliggo di non conoscere gli uomini Ma… è tempo di riprendere la
lettura dei Dialoghi:
« La via è in noi — disse Confucio — e la cercate lontana;
sta nelle cose facili c la cercate nelle difficili ».
Rincontro dopo qualche tempo l’amica che non ha dimenticato
la mia promessa: « Hai finito di leggere i tuoi cinesi? ».
Il mio è un « no » alquanto timido e vergognato.
« Non ancora!? Ma se sono due libriccini… piccoli così…
Beh! , quando li avrai finiti… Ma… non metterci una vita! ».
Già… sono proprio solo due libriccini, è vero. Non hanno
apparenza di tomi importanti per veste tipografica o… per peso (qualcuno giudica
i libri anche dai loro etti o chili…!).
Sono in quarto, in ottavo e le pagine neanche molte. E se i
Dialoghi si presentano abbastanza decorosi, il Tao-te-king è in veste, ahimé,
assai dimessa, per una più lunga frequentazione…
Ma… tutto
questo importa?
Vengon da ricordare le sequenze finali di Fahrenheit 45 T. La
« Guardia del Regime » convinto e fervido esecutore delle ferree disposizioni
che proibiscono ai « sudditi » di leggere, rimane profondamente scosso quando
vede un’anziana signora scegliere di rimanere con i propri libri amati (da lui
stesso dati alle fiamme) e di morire bruciando con loro.
Ciò che sino a quel momento era stato ritenuto giusto e
perfetto, ora appare alla Guardia del Regime in tutta la sua nefandezza; si
ravvede (si pente, si direbbe oggi) e scappa in quei boschi fuori confine dove
sa essersi rifugiati tutti coloro che hanno amato e continuano ad amare i libri
e la loro lettura. Lì, purtroppo, i libri non hanno potuto essere trasportati
né possono venire ristampati, ed allora, perché non vadano definitivamente
perduti, ogni « rifugiato » ne ha imparato uno a memoria che tramanderà poi,
sempre a voce, a figli e nipoti.
Alla
Guardia si fanno incontro due fratelli, assai male in arnese, in abiti stinti e
sdrusciti. Uno di loro si presenta: « Sono il primo volume dei Fratelli
Karamazov, mio fratello ne è il secondo volume. Non ci voglia giudicare dalle
copertine… ».
É un monito. Anche noi non siamo forse troppo spesso attratti
dall’apparenza che se ricca, ornata, fastosa, ci porta subito a giudizi
favorevoli? Ma al di là della piacevole apparenza che tanto facilmente
prendiamo per « realtà », sappiamo o almeno tentiamo di vedere, di capire per
cercare di giungere al vero « contenuto » ?
Forse solo dietro
ed oltre il velo dell apparenza si nasconde e attende che noi lo scopriamo, il
« vero » della nostra vita, di noi stessi, di tutti gli altri che ci sono
fratelli. I valori, come i tesori, si celano. Richiedono di essere cercati con
perseveranza, volontà, consapevolezza. La « Via » per giungervi non è facile e
neppure trovarla.
E se provassimo, perintanto, a ritagliarci anche noi un
abitino più confacente, di linea semplice a tre bottoni, orlato di modestia? Tu
dici, Fratello, che forse risulterà di foggia un po’ vecchiotta, demodée ?
Non credo, sai! Forse che noi che diciamo di essere — e
dovremmo esserlo veramente — tutti uniti e uguali nel libero spirito di
fratellanza, siamo demodées? I veri valori non hanno stagione… No, Fratello,
anzi credo che se ancora non ho trovato il quarto « pomello », tu e gli altri
Fratelli mi aiuterete a trovarlo e mi fornirete gli utensili per applicarlo e
rendere così il mio abitino più completo.
Quanto all’amica, per non venir meno alla promessa, comincio
a prendere in considerazione l’opportunità di provvederle una copia dei due «
libriccini », perché se leggere vuol dire capire, ricordare (eh sì, « non fa
scienza senza lo ritener aver inteso »), meditare, approfondire, andare oltre
il significato apparente delle parole, temo molto che per leggere quei due «
libriccini » non mi basterà la vita per quanto lunga mi sia concessa. Capire la
« Via » non è cosa da poco…
Ritengo che l’immagine che otteniamo della tradizionale
iconografia del Medioevo sia distorta e caricaturale: troppe epoche lo hanno
riutilizzato deformandone l’assetto storico, dipingendolo spesso
grottescamente, permeandolo di misticismo a volte, di romanticismo altre.
Le stesse Cronache del basso Medioevo già risentono
pesantemente dei primi pedanti classicismi, in cui l’eloquenza aulica della
tarda epoca altera già lo spirito ed il senso della Storia.
Oggi, alcuni storiografi di grande rilievo, hanno riportato alla luce esatta lo
scenario sociale, oltre che quello storico, del Medioevo, divulgando così una
inedita fotografia. L’atmosfera, se così possiamo definirla, in cui si è svolta
l’avventura dei secoli bui della nostra storia, è estremamente significativa ed
indicativa di alcune profonde motivazioni e sensazioni che tutt’oggi agitano,
sotto altre forme, il nostro pensiero.
La Morte ha un ruolo di rilievo nel pensiero medievale: per
capire quanto essa sia compenetrata in ogni azione, in ogni aspetto interiore
ed esteriore della vita dell’uomo di quel periodo, si devono fare alcune
necessarie puntualizzazioni. La vita quotidiana era scandita da ore molto più
pesanti delle nostre: la notte era completamente nera, come certamente poche
volte a noi è capitato di vedere, l’inverno era spaventoso, il freddo un
pericolo mortale, la violenza era brutale, la devastazione era totale, un
bicchiere di vino era qualcosa di estremamente prezioso, le malattie una
maledizione. Non esiste nella realtà medievale che un’unica e piatta
dimensione: una emotività esasperata dovuta ai fortissimi contrasti che ne
dominavano la scena.
Il violentissimo pathos che ha caratterizzato la vita
medievale ha lasciato traccia di sé nella musica, nella pittura, nella cronaca:
la stessa storiografia si compiace nella descrizione di atrocità di ogni sorta
come di episodi di tenerezza indicibile, di fedeltà amorevole, cieca ed
assoluta. ln questo quadro dobbiamo cercare di comprendere quale enorme
importanza rivestisse la parola.
Essa è praticamente l’unico sistema di comunicazione, essendo
la scrittura sconosciuta alle masse, la letteratura limitatissima e nota solo a
una ristrettissima cerchia di nobili, religiosi o ricchi borghesi.
La parola, l’enfasi retorica, hanno un effetto enorme, ingigantito
dall’arte figurativa, sempre delineata nei suoi aspetti marcatamente essenziali
presenti tra le navate delle chiese, sotto le arcate dei cimiteri: luoghi
questi di comunicazione per eccellenza. Veicolo di diffusione della cultura del
periodo sono essenzialmente le corti ed i centri di culto.
Ci interessa sottolineare, nella ricerca della cultura della Morte nel
Medioevo, come il memento mori » divenga uno dei punti centrali della coscienza
popolare: « E quando si mette a letto, egli si ricordi che, come ora si corica
da sé sul letto, presto il suo corpo sarà messo da altri nella tomba È Dionigi
il Certosino che in poche righe riassume una filosofia divenuta popolare e
diffusa da un fenomeno peculiare del Medioevo: quello dei predicatori pellegrini.
Pensiamo che la parola del predicatore è l’unica forma di comunicazione che
raggiungesse gli strati più umili della popolazione dell’Europa nel Medioevo.
Sono gli ordini mendicanti che spargono la cultura della morte: l’immagine che
ne deriva è nitida, efficace, sanguinaria, cruda, tutta tesa ad ammonimento
violento sulla caducità di tutte le cose.
Ne sono ancora oggi testimonianza pitture e sculture macabre
nelle cattedrali e nei cimiteri: corpi putrefatti, scheletri avvinghiati a
corpi femminili, visioni apocalittiche e spettrali di ogni tipo. Il monaco
predicatore sembra aver elaborato nei secoli dell’Alto Medioevo, in piena
solitudine, negli eremi, al sicuro da pestilenze e guerre che insanguinavano
l’Europa, quanto nella Bassa Epoca viene poi diffuso a livello di predicazione
alle masse, dagli ordini mendicanti: il Medioevo esprime il tema della morte
solamente concentrandosi sul memento mori: è la caducità delle cose terrene la
vera filosofia della morte medievale.
Questo concetto, il tema della caducità della vita, assolve a
due ordini di funzioni: è un sistema primitivo di persuasione nei confronti
delle masse ignoranti circa il bisogno immediato di un pentimento necessario
alla redenzione, ed è un moderatore politico, utile all’alleanza del potere
civile col potere ecclesiastico, teso alla eliminazione di ogni emotività
sociale.
Ritornando alla tematica relativa al forte pathos di cui era
impregnata la vita nel Medioevo, accostiamola ora al pensiero vivo, immediato,
lapidario della caducità della vita, così come tradotto in termini semplici e
vigorosi dagli ordini mendicanti• e da una iconografia variopinta: ne traiamo
uno scenario semplicemente spaventoso.
Il terrore della morte così si trasforma in paura della vita:
negazione di ogni bellezza e felicità, come concetti temporali, caduchi,
contrari all’etica religiosa quindi assimilabili al peccato. La vita è una
prova tremenda a cui si viene sottoposti, il cedimento ai suoi piaceri comporta
sicuramente una pena apocalittica nell’Aldilà, un mondo di morte che può essere
vicinissimo.
Non poteva che essere vissuto così il pensiero della morte,
in considerazione proprio della violenta passionalità dell’ambiente sociale del
Medioevo: è un vero e proprio compiacimento, da parte dell’espressione
filosofica medievale, quel sottolineare l’orrore ed il ribrezzo verso le
malattie, i vermi, le interiora, la paura. Citiamo: « La bellezza del corpo si
limita alla pelle… tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di
umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola o
nel ventre, non si troverà che lordume… ». Odone di Cluny. E ancora: « La
donna concepisce con immondezza e fetore, partorisce con tristezza e dolore,
nutre il figlio con peso ed angustia » è Innocenzo III. Il concetto, così utile
agli scopi del pensiero corrente, della dissoIuzione del corpo, si accompagna
spesso con disgustoso e morboso compiacimento al corpo femminile,
rappresentante una delle più tremende vie del demonio per trascinare il fedele
nell’inferno: ne parlano non solo i moralisti, ma anche i letterati ed i poeti
cosiddetti cortesi; fino a Villon che canta della bella Heaulmière, la
cortigiana:
« che cosa è diventata quella fronte liscia, quei
capelli biondi, le sopracciglia arcuate, l’ampio spazio fra gli occhi,
il grazioso sguardo con cui mi prendevo i più furbi, quel bel
naso diritto, né grande né piccolo, quegli orecchi piccolini, ben uniti, il
mento forcuto il bel viso ovale e le labbra rosse? La fronte rugosa, i capelli
grigi le sopracciglia cadute, gli occhi spenti… ».
Esiste in effetti una vera e propria familiarità quotidiana
col cadavere, oggi sconosciuta. Basti ricordare come spesso, per personaggi di
riguardo morti lontano da casa, si usasse tagliarne a pezzi i cadaveri,
bollirli, dissecare accuratamente lo scheletro dalla carne e spedire poi colla
dovuta pompa le ossa in una urna, a destinazione per una degna sepoltura.
La seconda funzione del concetto del Memento mori, il compito di moderatore
sociale, non è di secondaria importanza: praticamente in tutta Europa, è presente
il concetto della Morte come grande livellatrice, colei che fa giustizia, colei
che riduce tutti al medeSimo denominatore. Si compiace il popolo di vedersi
accomunato nell’orrore al Principe. È la grande epopea iconografica del
Totentanz, la dance macabre, la danza della Morte. È definita un grande fatto
culturale dagli storici del Medioevo. Dal punto di vista pittorico è un
cedimento ad elementi popolareschi, in cui lo spettrale, la remmescenza antica
del phantasma, si fonde con lo spirito religioso più « nero » , del tardo
Medioevo.
Il Totentanz è presente in Francia, nel Nord Italia, in
Germama ed in Spagna; rappresentazioni grafiche, in luoghi di culto (sono
privilegiati i cimiteri), in cui si era soliti ascoltare le prediche dei monaci
mendicanti: il cimitero degli Innocenti, a Parigi ospitava la Dance macabre
forse più famosa del Medioevo.
Il Totentanz vedeva la Morte sotto le sembianze di scheletro
paludato di un sudario macchiato dalla sua carne sfatta. A dire il vero nelle
rappresentazioni più antiche i versi che accompagnano il dipinto indicano il
danzatore come « Le mort », il morto, non « La morte », come appare invece più
tardi: è il morto che viene ad accogliere se stesso e si trascina danzando la
propria copia ancora viva nell’inferno. La Danza era dunque sempre condotta dal
cadavere che cantando tiene per mano se stesso Imperatore, che trascina se
stesso Papa, Vescovo, Principe, nobile, banchiere, mercante, bambino, e via
fino all’ultimo gradino della scala sociale: una catena umana che cantando e
ballando viene trascinata dalla Morte verso la fine. «Yo so la muerte cierta a’
todas criaturas » — e l’inizio della ballata i cui versi sono dipinti in una
danza della morte spagnola.
La morte danzante: uno spaventoso specchio dell ‘uomo vivente
che vede se stesso già decomposto venire a prendersi e trascinarsi via: « Siete
voi stesso » ammonisce in versi la pittura — mai come in questo concetto il
Memento mori è così terrificante: tu sei già morto, il tuo cadavere sta per
venirti a prendere, le cose terrene, che tu sia l’Imperatore o l’ultimo dei
sudditi, non ti servono a nulla; di fronte alla Morte si è tutti uguali. Non
manca, in Germania una danza della morte tutta femminile, curiosa attenzione al
sesso debole in un’epoca in cui godeva di scarso credito. Dice Huizinga « nella
danza macabra femminile riappare l’elemento sensuale che attraversa anche il
tema sulla bellezza trasformata in putredine »: da notare che in tutte le
Dances macabres i personaggi sono sempre una quarantina; per questo motivo,
nella espressione femminile, la Danza vede trascinate via, una avvinghiata
all’altra, oltre a poche figure di mestieranti, come l’Imperatrice, la badessa,
la cortigiana, la monaca, la levatrice, anche gli stadi di vita della
condizione femminile: la vergine, la gravida, la vecchia, la fidanzata, ecc.
La cultura della morte non concede praticamente nulla alla
delicatezza di un sentimento di vivo dolore per la scomparsa della persona
cara; mi piace riportare però due spunti che derivano sempre dai versi dipinti
che accompagnano la danza macabra che mi hanno colpito.
È la morte che cerca di consolare il contadino, spezzato da
una vita di fatiche, che pur non vuole farsi trascinare verso la fine:
— O tu che hai lavorato con fatica e affanno, hai vissuto
tutto il tuo tempo; ora devi morire, è cosa certa; tornare indietro non serve e
non si può.
Della morte devi essere contento, poiché ti libero da un
grande affanno ».
Ancora, i versi fanno dire al bambino portato via dalla
morte, alla madre — bada ai miei giocattoli, alla mia bambola ed al mio bel
vestitino —. E ancora, l’invocazione del bambino morto alla madre, perché
smetta di piangere, il suo camicino si possa asciugare. Concludo con una
osservazione: la Morte non è un fenomeno osservabile dal punto di vista
scientifico, un fatto naturale come un’eruzione, una malattia. La Morte è un
concetto immanente che ha condizionato l’esistenza stessa dell’uomo in modo
differente: in funzione della sua capacità di vivere la Morte l’uomo si è
dotato in maggiore o minor misura di strumenti per sopportarne il pensiero.
Sulla tremenda esasperazione dell ‘angoscia per la fine, che il Medioevo ha
costruito su di sé per esorcizzare la Morte, nasce una forza nuova: una
autocoscienza consapevole della possibilità di affrontare la fine più
serenamente, non tanto fidando su di una resurrezione incerta e comunque
spaventosa, quanto sulla certezza di aver vissuto in una società di uguali e collaborato
a costruirne una migliore: quello che poi abbiamo chiamato Rinascimentale.
Sembra facile dire di una persona « è intelligente, è
sciocca, è buona ». Ma un giudizio di questo tipo non può mai essere così
categorico. Ben più sfumata è la materia. Definire un carattere, una
personalità non è così semplice. Richiede la conoscenza dell’individuo, una
indagine sul suo comportamento, senso psicologico, intuito, onestà di giudizio
non deviati da un sentimento di simpatia o di antipatia preconcette.
Non esiste neppure un metodo scientifico per classificare
l’intelligenza. Ciò può essere possibile con le piante, ma l’essere umano è
assai più complesso dl un vegetale. ln esso esiste un certo che di
indefinibile, di infinitamente particolare, che fa di ciascun individuo una
eccezione.
Da cosa è formata la nostra intelligenza, la nostra capacità di giudizio, la
nostra logica? L’intelligenza umana è in continua evoluzione, si forma, si
trasforma e si deforma ogni giorno, senza mai raggiungere un equilibrio
stabile. Le idee che vi germogliano, le teorie che vi si sviluppano, raramente
si combinano in un insieme armonioso. Entrano invece in conflitto tra di loro.
Siamo gli esseri più discordanti dell’universo. La complessità della nostra
natura è determinata dagli eterni sussulti dei nostri sensi, della nostra
immaginazione, della ragione, delle nostre tendenze innate — eredità ataviche,
i nostri desideri, affetti, antipatie, i casi della vita, i casi fortuiti, le
esperienze felici o deludenti, certe gioie, certi dolori che non dimenticheremo
mai — se lasciano nella nostra mente la loro impronta incancellabile. E che
dire delle contraddizioni della società in cui viviamo? Noi oggi constatiamo il
costante affievolirsi di quelle tradizioni che già costituivano un richiamo
sicuro, di princìpi che sembravano inalienabili, il cambiamento di costumi e il
crearsi di una nuova morale, offerta con incessante martellamento dai «
massmedia » , instancabili nel proporre una linea di vita nuova, un nuovo modo
di pensare e di ragionare.
Dalla nascita abbiamo un numero infinito di precettori,
educatori e corruttori. E poi ci siamo noi, come siamo fatti. Luci e ombre.
Senza una precisa volontà siamo come foglie al
vento, possiamo orientare la nostra capacità di logica verso falsi obiettivi, o
pigramente accettarci così come siamo, acriticamente, anzi con soddisfazione.
Non vogliamo conoscere il nostro intimo caos.
Nelle passioni tutti gli uomini si somigliano. I
loro pensieri diventano incoerenti quando sono impossessati da sentimenti come
l’amore, l’odio, la collera. Senza accorgersene peccano mille volte contro la
logica. E l’incapacità di interrogarsi, una certa pigrizia, costringono spesso
l’uomo a vivere nelle contraddizioni, a non liberarsi da certe convinzioni
preconcette, senza prova e senza esame. Un libero pensatore che non ha
l’abitudine di pensare, si dichiara contro i preti, ma fa educare i suoi figli
dai gesuiti. Vi sono poi individui che usano la loro intelligenza per riuscire
nella professione e spesso lo fanno benissimo. Tuttavia, qualsiasi altro
argomento li lascia indifferenti, non hanno dubbi o perplessità. La loro mente
è a compartimenti stagni. Vi sono studiosi che, in fatto di scienza, applicano
il metodo più severo, spingono l’analisi con scrupolo esasperato. Ma, usciti
dal loro laboratorio, se si discute di storia, di religione, di politica, diventano
approssimativi, superficiali.
Per una natura forte l’ordine, l’armonia sono
esigenze imperiose. Per conoscersi a fondo l’uomo non deve avere una volontà
fluttuante, confusa. Per essere dei grandi capi è necessario avere questo tipo
di intelligenza, con il supporto di un animo nobile.
Ripeto, definire un carattere e, nel caso presente,
misurarne l’intelligenza, è estremamente diŒcile. Sono considerazioni che si
possono fare nei confronti delle persone che ci vivono accanto, o che dirigono
la vita pubblica e incidono sul nostro sistema di vita. Ma, per citare un
personaggio celebre, J. J. Rousseau, l’autore del « Contratto Sociale » e delle
« Confessioni », rammento, proprio leggendo quest’ultima opera, nell’analizzare
certi suoi comportamenti, il contrasto fra le idee dello scrittore e la
consistenza dell’uomo. E poi ho compreso: gloria frammista a miseria. Era
vissuto in una città in cui il dogma di Calvino aveva esasperato l’austerità e
la disciplina ugonotte; l’atteggiamento mentale era rimasto ancorato a
pregiudizi immutabili, un’esistenza meschina, un poco
triste della quale si vantava, fra piccoli borghesi che però
si consideravano dei superuomini.
Quindi un nuovo ambiente, un prigioniero che prende
il volo, fa un salto nel buio, la vita errante, l’amore per la natura fra le
montagne, le grandi strade, un’immaginazione in continuo fermento, la Savoia,
il Piemonte, un’abiura, un’apostasia, i figli naturali mandati in un
orfanotrofio, la signora di Warens, i suoi capelli biondi, le sue lezioni e le
sue concessioni, la Charmette, qualche anno di paradiso. Quanti elementi si
sono combinati! Con suo padre, orologiaio, passava le notti in letture. Così realtà
e fantasia convivevano.
E ancora: gli oltranzisti, chi non si contraddice mai,
hanno spesso delle vedute limitate. E non sempre la logica è la parte migliore
dell’intelligenza: esistono verità di sentimento che la ragione non conosce.
Riepilogando: incoscienti, pigri, indifferenti,
improvvisatori, forti, coraggiosi, instabili, oltranzisti, genii, scettici, in
questa interminabile ed affascinante galleria, per l’uomo comune, per lo
psichiatra, per lo psicologo, quale materia di studio, quale impossibilità (o
almeno diffcoltà), a catturare, e decifrare la linea retta dell’intelligenza!