PROPOSTE PER LA DIFFERENZIAZIONE DEI LAVORI NEI GRADI DELL’ORDINE

PROPOSTE PER LA DIFFERENZIAZIONE DEI LAVORI NEI GRADI DELL’ORDINE

Mi pare che, da un punto di vista istituzionale e simbolico, nonché dal tenore del rituale di iniziazione, i tre gradi dell’Ordine possano essere così precisati:

L’Apprendista, è ovviamente, chi impara. E chi impara deve soltanto ascoltare quello che vien detto da colui cui spetta (il M.V. o persona da lui delegata, per es. per la lettura di una tavola) o, al massimo, richiedere chiarimenti su passi non ben capiti. Ogni altro tipo di discussione, specie se di impostazione dialettica, è dannoso, a mio parere, per la formazione dell ‘adepto alle prime sue esperienze iniziatiche.

Non si deve dimenticare che il contenuto dell’insegnamento non dipende dal grado di cultura o di buona esposizione di chi lo somministra (questo vale nel profano) ma dalla simbologia e dalla ritualità. Insegnare vuol dire infatti « dare i segni », ossia i metodi; non il contenuto che è frutto di personali disposizioni ed acquisizioni. Occorre inoltre riflettere sul significato simbolico, oltre che effettivo, del silenzio semestrale pensando che sei mesi sono il periodo minimo per l’accesso al grado superiore.

Il Compagno è posto, al momento dell’iniziazione, di fronte alle acquisizioni razionali attraverso i richiami ai grandi pensatori, alle arti e alle scienze. In questo grado dunque mi pare debba svolgersi ogni discussione di tipo dialettico e anche attraverso obbiezioni o contrapposizioni di tesi: la valutazione dovendo essere razionale, non se ne deve prescindere, salva sempre essendo la correttezza e lo spirito fraterno di critica.

Ne verrebbe conseguentemente rivalutato, di fatto, un grado che viene considerato « di transizione », quasi inutile e che invece ritroverebbe in questa strutturazione, una sua effettiva e ineliminabile ragion d’essere.

Il Maestro si trova dinnanzi il valore della super-razionalità attraverso l’esperienza del mistero, di fronte al quale l’unica possibile attitudine — attesa la sua ineffabilità — è quella del silenzio.

Il quale può essere effettivo, dopo l’apertura dei Lavori, e configurarsi come una specie di « Silent worship » dei Quaccheri o come meditazione su una lettura o un concetto tratto da scritture esoteriche; ovvero simbolico, attraverso l’adozione di tecniche che in qualche modo vi si avvicinano, come la lettura corale di brani in una lingua sacra non conosciuta ovvero l’uso di un colloquio fondato sull’espressione di idee emergenti alla coscienza come libere stimolazioni e quindi non razionalmente coordinate fra di loro. La dimensione della fratellanza, in questo grado, dovrebbe evitare ogni timore reverenziale, ogni indebita forma di falso pudore, ogni attaccamento ai formalismi perbenistici: essere insomma veramente « liberatoria » del proprio « io» o tendere a questo scopo che è, se ho capito bene, il fine dell’iniziazione.

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ASSOCIAZIONE E SOCIETÀ DI CLASSE

ASSOCIAZIONE E SOCIETÀ DI CLASSE

di Umberto Rodda

Le strutture sociali sono attuazioni di modelli comportamentali, di regolamentazioni e norme di disciplina. Si può argomentare che la cultura stessa è la conseguenza di norme comportamentali: da una struttura sociale discende una cultura e non un’altra, e, quando quest’ultima si attua, essa è l’immediata premessa di una modificazione, a volte già in atto.

L’attività razionale ha determinato delle regole che, fondandosi sull’interpretazione di esperienze o su astrazioni dalla realtà, sono generalizzate in Leggi per la costruzione di sistemi, come successione di atti diretti al raggiungimento di uno scopo, e costituiscono l’indicazione, a volte cogente, della condotta da seguire.


Lo svolgersi delle civiltà, il loro perfezionamento od aŒnamento, più incisivo tecnicamente che moralmente, è fondato su una successione di regole che caratterizzano periodi, costumi, religioni, culture, ecc., nell’alternarsi delle rispettive reciproche influenze. Il canone comportamentale nasce sia da un costume di vita che dall’imposizione coattiva.

Nella seconda ipotesi esistono delle differenze dovute alla struttura sociale, essendo indispensabile distinguere tra la norma cogente nata dall’iter parlamentare e quella nata dal decisionismo autoritario.

È noto che nei regimi parlamentari l’individuo ha la possibilità di esprimere il proprio pensiero e d’indicare il cammino direzionale della società, nei limiti del suffragio elettorale attuato a determinate scadenze e della sua interpretazione, che assume in concreto un’importanza determinante.

L’associazione partitica, che interpreta e filtra la manifestazione di volontà elettorale, assume un’importanza a volte eccessiva. Nelle società a struttura parlamentare dei Paesi occidentali il concetto « classista » di origine marxista può ritenersi superato. Il « classismo », fondato su motivazioni economiche, se aveva nelle strutture dei secoli scorsi o dei primi decenni del xx secolo elementi decre7

scenti di giustificazione, assume nella società attuale significati limitati e semplicistici.

La distinzione in classi limita il concetto d’individuo, la cui collocazione sociale dipende da elementi esterni alla personalità, subordina il progresso all’alienazione della ricchezza dall’individuo a favore della collettività, e confonde realtà con mito perché la collettività, concetto astratto, non può essere personalizzata. Nella realtà, degenerando dal significato originario, s’identifica con l’espressione burocratizzata dello Stato.

Nei sistemi di potere assoluto dei secoli scorsi e prima di forme pubbliche generalizzate d’intervento economico, il classismo, coagulando interessi di parte, produceva spontaneamente una sorta di organizzazione piramidale in cui la base era costituita dai venditori del proprio lavoro, le parti intermedie erano costituite dai relativi compratori, quelle superiori dalla nobiltà, dal clero e dai reggitori del potere.


Il concetto di società diviso in classi risale alla Repubblica di Platone ed a quelle forme sociali che K. Popper ha contrapposto alle società « aperte ».

La libertà d’associazione è la possibilità nella società « aperta » di tutelare l’interesse particolare nel dibattito tra le parti.

Se nelle forme più avare e meno illuminate prevale come interesse generale il particolarismo più diffuso, o l’unione di più particolarismi, nelle altre è una palestra d’idee, è modo d’illuminazione reciproca, è la costruzione giorno dopo giorno di una coscienza di libertà che si diffonde in tutte le persone, creando la tradizione della libertà di ciascuno nel rispetto della libertà di tutti.

L’associazionismo, come struttura di formazione dello stato moderno, diventa l’espressione individuale che partecipa alla vita sociale, inserendosi nella corrente di pensiero e d’interessi liberamente scelta. La contrapposizione di una classe all’altra, lotta sociale come procedimento dialettico di eliminazione del contrario, è superata nel dibattito interassociativo.

I contenuti comportamentali e di regolamentazione nascono nell’ambito associativo ed assumono fisionomia giuridica nel dibattito dell ‘organo legislativo.

Le Associazioni, che svolgono la funzione di filtro e di formazione delle istanze individuali, possono essere organismi preposti alla conservazione di valori tradizionali od alla ricerca e costituzione di nuove idee o nuovi modelli di vita.

Il rapporto interindividuale contiene i significati della natura sociale umana, e costituisce un ostacolo all’affermazione di forme assolute di potere.

La regolamentazione interna, nata dall’espressione individuale e spontaneamente accettata, è strumento di vita per l’associazione ed è modo per formare una coscienza disponibile a soluzioni che presuppongono l’accettazione del contrario.

Gli elementi sopra delineati sono i seguenti:

  1. inserimento dell’associazione nel tessuto sociale;
  2. regolamentazione interna;
  3. contenuto ideologico;
  4. adesione spontanea dei soci;
  5. finalità da conseguire;

  6. disponibilità al dibattito interassociativo.

La critica al sistema partitico, che è una parte del sistema, come decadimento dell’interassociazionismo non contraddice le considerazioni precedenti: è chiaro che la pluralità di Associazioni partitiche ostacola l’avvento di forme dittatoriali, ed è la garanzia minima per il mantenimento delle libertà civili.

Lo stato moderno funziona a seguito dei rapporti e delle varie contrattazioni tra le componenti associative: ciascuna svolge il ruolo richiesto dai relativi aderenti nell’ambito di specifiche finalità sociali, di lavoro, economiche, agricole, scolastiche, sanitarie, culturali, religiose, filantropiche, morali, ecologiche, ecc.

È una serie di rapporti che s’intrecciano interessando individui di condizioni, cultura, costumi ed origini dissimili.

Ciascuno si rivolge ad una serie di enti per le proprie esigenze che, oggi, sono composite.

Il rapporto elementare individuo-società, se poteva ieri ridursi ad una definizione classista, assume nella società attuale configurazioni sfumate, complesse e coordinate le une con le altre.

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Il generale superamento del « bisogno primario » , definito rapporto elementare, nelle società del mondo occidentale pone in primo piano problemi morali, educativi e di formazione culturale.

Il carattere complesso del rapporto sociale, successivo a quello elementare, considera l’uomo nella totalità delle esigenze oltre la sfera strettamente animale.

La scuola può svolgere un ruolo importante per la formazione d’individui consapevoli, moralmente sani e preparati a svolgere i comPiti che saranno loro richiesti, con l’appoggio delle strutture associative che hanno finalità di formazione educativa.

Nella società così strutturata l’uomo occupa la posizione centrale, è il soggetto del rapporto sociale per sé ed i proprii simili: non al servizio di qualche ideologia ma fine e scopo di ogni forma ideologica.

Si potrà dire che la società è a misura d’uomo e non viceversa, capovolgendo il mito « l’uomo per la società » si realizza il rapporto armonico che potrà unire il genere umano nel cammino che sta percorrendo.

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L’ORDINE DEL TEMPIO

L’ORDINE DEL TEMPIO di Dafari

L’Ordine del Tempio nasce nel 1118, un secolo dopo la I Crociata, voluta da Urbano Il quando sul trono del Regno di Gerusalemme siede Baldovino Il. A lui si presentarono 9 cavalieri francesi manifestando il desiderio di formare una comunità per proteggere i pellegrini cristiani e sorvegliare le strade di accesso al Santo Sepolcro, missione modesta, cui però si legano pronunciando davanti al Patriarca della città, Teoclete, voto solenne di combattere i nemici di Dio nell’obbedienza, nella castità e nella povertà. Il re li fa alloggiare in un’ala del suo palazzo contiguo alla moschea di El-Aksa, costruita, secondo la tradizione, sulle rovine del tempio di Salomone.

Da ciò derivò a questo primo nucleo il nome di Cavalieri del Tempio.


I nove fondatori dell’Ordine erano validi cavalieri, pii e coraggiosi, ma senza grande istruzione: sembra difficile attribuire ad essi egualmente tutte le qualità che resero l’Ordine così rimarchevole. Probabilmente solo qualcuno tra loro, forse Ugo di Payns, il primo Maestro dell’Ordine, e Goffredo di Saint Omer, erano portatori di conoscenza dell’ermetismo cristiano, dell’architettura e delle tradizioni compagnone.

I ranghi dell’Ordine si ingrandirono rapidamente di cavalieri, di scomunicati e di gente che voleva consacrarsi ad una vita dedicata alla devozione ed al sacrificio.

Nel 1128 Ugo di Payns torna in Europa con due scopi: il primo di propagandare l’Ordine; il secondo, più importante, di ottenere il riconoscimento del nuovo Ordine da parte del Pontefice, ed a questo scopo invia a Roma due dei suoi primi compagni, André de Montbard e Gondemare.

Bernardo, abate di Chiaravalle, il futuro Santo, spinto da una lettera del Re di Gerusalemme ed entusiasmato dai racconti dei pellegrini sulle imprese di questi cavalieri-monaci, così diversi dalla cavalleria europea, non solo ottenne per gli inviati di Ugo di essere ricevuti dal Papa, ma anche la convocazione di un concilio a Troyes, nel 1128, in cui l’Ordine ricevette una regola detta « Latina », non scritta, ma sicuramente ispirata dal Grande Santo, concepita in modo che, se singolarmente i cavalieri dovevano far voto di povertà, l’Ordine potesse essere ricco e potente.

Scrisse inoltre il « De Laude Novae Militiae » in cui dice, tra l’altro, contrapponendo alla cavalleria del lusso dei nobili e porporati quella dell’umiltà dei Templari « … vanno e vengono a un segnale del loro comandante; portano le vesti che sono loro date; non cercano né altri abiti, né altro cibo… desiderando solo il necessario. Vivono tutti insieme senza donne né bambini… non vi sono tra loro pigri e fannulloni… evitano e disprezzano i mimi, i suonatori e i maghi, le canzoni scurrili e le sciocchezze ».

Louis Charpentier dà un’interpretazione particolare e favolosa della fondazione dell’Ordine. Sostiene infatti che i nove cavalieri furono mandati in Terra Santa con uno scopo preciso, che il capo spirituale cui obbedivano fosse Bernardo di Chiaravalle e che il vero scopo fosse quello di cercare qualcosa di sacro, prezioso e nascosto, l’Arca dell’Alleanza e le Tavole della Legge in essa contenute. Venirne in possesso, egli sostiene, significa conoscere la legge cosmica che regola l’universo.

Non esistono prove né del ritrovamento dell’Arca, né del suo trasporto in Francia; in quegli stessi anni, però, apparve una nuova forma d’arte, il gotico, che si diffuse nello stesso periodo in cui iniziò l’ascesa Temprare. C’è una coincidenza notevole: Bernardo era Cistercense, cistercensi furono le prime abbazie gotiche, di origine cistercense la regola dell’Ordine del Tempio, volute dai Cistercensi la confraternita dei costruttori del gotico « Les Enfants de Salomon » che da essi impararono la geometria descrittiva.

L’Ordine era strutturato in classi diverse: cavalieri « fratres milites », cappellani « fratres capellani », scudieri e valletti d’arme « fratres servientes armigeri », servitori ed artigiani « fratres servientes farnuli ».

Queste quattro categorie erano tutte legate dagli stessi obblighi e godevano degli stessi privilegi.

Fin dalle origini capo dell’Ordine fu il Gran Maestro, con simbolo del potere un bastone con un globo sormontato da una croce

potente; il suo sigillo rappresentava il Tempio di Gerusalemme o due cavalieri sullo stesso cavallo; il suo gonfalone era il famoso « Beaucéant » sulla cui natura si è molto discusso, probabilmente bianco con una croce rossa; la sua bandiera metà bianca e metà nera, con il motto dei cavalieri « Non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam ».

Il Gran Maestro era eletto dal Capitolo di cui probabilmente facevano parte tutti gli alti dignitari e cappellani

Come capo militare aveva uno stato maggiore costituito dal Siniscalco e dal Maresciallo, l’uno che sostituiva il Gran Maestro in sua assenza, l’altro incaricato delle armi e dei cavalli. I Marescialli provinciali erano ai suoi ordini.


ln Terra Santa altri dignitari erano il Commendatore della Terra e del Reame di Gerusalemme, cui erano affidati la tesoreria e l’amministrazione delle Province; il Governatore della Città di Gerusalemme, che era l’Ospitaliere dell’Ordine, incaricato di continuate il compito iniziale di garantire la sicurezza dei pellegrini. Sotto di loro stavano i Commendatori delle case (in Terra Santa fortezze) e dei cavalieri.

I gradi militari comprendevano i Cavalieri, che avevano uno scudiero e tre cavalli, e i Sergenti, con un cavallo, e in genere un garzone.

L’esercito comprendeva inoltre i Turcopoli, truppe leggere ausiliarie reclutate sul posto, comandati da un Turcopolo alle dirette dipendenze del Gran Maestro e del Maresciallo.

I Cappellani furono istituiti in un secondo tempo per garantire i servizi religiosi dell’Ordine e dipendevano direttamente dal Gran Maestro e dal Santo Padre, totalmente indipendenti dalle altre gerarchie ecclesiastiche e dotati di notevoli poteri di assoluzione.

Al successo dell’Ordine contribuirono il sostegno di San Bernardo e del Vaticano, ma soprattutto il confronto fra il loro prestigio, la loro serietà e moralità e i costumi dissoluti di nobiltà e prelati. Molte ricche persone, nobili, anche re e principi, cominciarono a fare all’Ordine doni munifici sia in oro che in terre, doni che essi avrebbero fatto diventare, soprattutto in Occidente, un vero impero indipendente.

Da re Luigi VII di Francia ricevettero un enorme terreno alla periferia Nord di Parigi, dove fecero poi costruire la Fortezza del Tempio, cuore dei domini templari occidentali.

Quando nel 1130 il Gran Maestro Ugo di Payns rientrò in Palestina, già solide erano le sedi dell’Ordine sia in Oriente che in Occidente.

Ma fu soprattutto dopo la sfortunata Il Crociata (1150) che crebbe il loro prestigio ed aumentarono i loro beni e i loro privilegi: il Papa Eugenio III fissò la loro tenuta, il bianco mantello con la croce rossa sul petto e sulla spalla sinistra; permise che riscuotessero le decime e che fossero totalmente indipendenti dal clero secolare.

Si stima che alla fine del XII secolo l’Ordine possedesse circa 1/3 di Parigi.


Lentamente il Tempio diventò una specie di banco di cambio per i pellegrini, poi una banca vera e propria in senso moderno. In effetti, grazie alla struttura internazionale dell’Ordine, chi partiva per la Terra Santa o per altri luoghi, invece di portarsi dietro, con tutti i rischi connessi, il suo denaro, lo depositava in una Commenda e lo riotteneva in altre contro presentazione di una lettera di credito o fede di deposito.

Questo ruolo finanziario doveva condurre l’Ordine ad una funzione propriamente bancaria, come depositario di ingenti risorse, prima facendo, sotto garanzia, degli anticipi di denaro a chi ne chiedesse, poi arrivando a fare prestiti a re e papi, attività che fecero del Tempio una vera e propria potenza economico-finanziaria internazionale.

Già nel XII secolo nel Tempio di Parigi si svolgevano importanti operazioni finanziarie. Se il clero ed il re vedevano di malocchio l’incremento delle ricchezze dell’Ordine, i papi invece lo favorivano con nuovi benefici, vedendo in esso il difensore della Terra Santa. L’Ordine sembra comunque essere stato spinto su questa strada meno per calcolo che per la fiducia che esso universalmente riscuoteva.

Se comunque questa funzione bancaria arricchì l’Ordine, nessuno dei suoi membri sembra averne approfittato diratamente.

In Occidente una delle principali incombenze dei cavalieri era quella di vigilare le strade percorse dai pellegrini per raggiungere i più importanti santuari.

Le donazioni si allargavano a macchia d’olio: il Tempio accettava tutte le proprietà offerte che però, talvolta, consistevano in terre incolte, foreste ed acquitrini che i contadini dell’Ordine facevano fruttare. Nello stesso tempo l’Ordine non esitava a fare scambi e poi acquisti.

La struttura base del Tempio era la Commenda, amministrata da un Commendatore che poteva essere cavaliere, sergente o laico. Le Commende sono descritte talvolta come fortezze, che il Tempio certamente possedeva in Portogallo, Spagna e nel Sud della FranCla, ma la più parte erano semplici fattorie che della fortezza avevano solo un aspetto vagamente guerresco. Ogni Commenda aveva alle sue dipendenze vari poderi o amministrava beni immobili. In Francia l’Ordine arrivò a possederne più di 2000.


La riunione di varie Commende formava la Balìa in cui avevano luogo i Capitoli regionali e venivano ammessi i nuovi membri. Le Balìe, a loro volta, erano riunite sotto la direzione delle Case Provinciali il cui insieme formava una Provincia.

Vi erano 9 Province, 3 semplici, quelle a contatto con i musulmani: Portogallo, Aragona e Maiorca, sede della flotta templare nel Mediterraneo; 6 doppie: Castiglia e Le6n, Francia e Alvernia, Inghilterra e Irlanda, Germania e Ungheria, Italia Sett. e Merid., Puglia e Sicilia.

Le Case del Tempio erano in genere abbastanza vicine tra loro perché i viaggiatori fossero sempre sotto la sorveglianza dei loro uomini d’arme.

Che certe Commende siano state istituite in funzione della sicurezza delle strade è riconoscibile osservando quelle poste in prossimità di guadi e ponti.

Queste « Strade Templari » non sono ovviamente identificabili sul terreno come quelle romane, ma osservando sulla carta le Commende conosciute, una rete si disegna sulla Francia con linee piuttosto impressionanti che partendo dalle coste del Mediterraneo

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raggiungono La Rochelle, Parigi, la costa Nord-Ovest, le frontiere tedesche.

In Terra Santa le Commende erano vere e pròprie fortezze; le più importanti costruzioni erano il Castello Pellegrino, il Castel Bianco, il Castello di Saphet, la Fortezza di Tortosa (l’odierna Tartous, in Siria).

Ben note storicamente sono le imprese orientali dell’Ordine: su 22 Gran Maestri 5 morirono in combattimento, uniti, insieme all’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, nell’epopea del precario regno cristiano di Gerusalemme, esposto agli attacchi dei musulmani che Io circondavano da ogni lato.

L’esercito del Saladino avanzava nei territori del regno saccheggiando ed uccidendo. Il Gran Maestro Odon di Saint-Amond, fatto prigioniero in combattimento nel 1180, morì nelle carceri saracene.


Il 1187 con la battaglia di Huttin, iniziò la fine del regno cristiano di Gerusalemme: i Templari persero 230 dei loro cavalieri ed il Gran Maestro, catturato, fu liberato solo dietro pagamento di un grosso riscatto.

Nel luglio del 1187 caddero Tiberiade ed Acri, nel dicembre il Saladino entrò in Gerusalemme.

Acri fu ripresa nell’89, ma dopo due anni di assedio nel 1191 capitolò nuovamente. Durante la III crociata i Templari si distinsero soprattutto nell’assedio di Damietta.

Nel 1229 Federico Il sbarcò in Palestina; scomunicato da Gregorio IX per gli indugi nel raggiungere la Terra Santa e per gli accordi presi con i Saraceni d’Egitto che gli valsero l’ingresso in Gerusalemme senza lotta, s’incoronò re. I Gran Maestri dell’Ordine del Tempio e degli Ospitalieti si rifiutarono di avallare con la loro presenza l’incoronazione e di riconoscerlo sovrano.

La seconda caduta di Gerusalemme avvenne nel 1244 in seguito ad una terribile disfatta in cui perirono il Gran Maestro Armand de Perigord e 320 Militi del Tempio, sui quali Federico II, ormai nemico dichiarato, fece ricadere la colpa della sconfitta. Dopo aver insultato pubblicamente il Gran Maestro Pierre de Montagne, Federico II scrisse lettere alle corti d’Europa lanciando contro il Tempio le peggiori accuse.

Sicuramente da lui originarono i sospetti, che gravarono sull’Ordine, di intesa con i musulmani e di partecipazione alle cerimonie segrete del sufismo, Anche Luigi TX di Francia non mancò di incolparli di legami segreti con i capi islamici quando il Tempio cercò di modificare il suo atteggiamento nei confronti dei Mamelucchi d’Egitto e dei successori del Saladino in Siria, sulla base delle indicazioni avute dai loro contatti con gli Orientali; tentativo fallito che risultò a posteriori giusto, ma che ottenne solo un’ingiusta punizione.

Quello dei rapporti con i musulmani è sempre stato un punto controverso: nulla indica uno stretto legame tra Templari e sette islamiche, ma è altrettanto certo che alcuni cavalieri dovessero conoscere i riti ed il pensiero religioso locali.

L’Oriente era in quei tempi crogiolo di ebraismo, gnosticismo, materialismo, manicheismo e sufsmo; né del resto il campo cristiano era animato da una fede cattolica senza attriti o influenze arabe e ebraiche: basti pensare ad un manoscritto anonimo del XII secolo di origine spagnola in cui l’autore cita fra i « legislatori giusti, saggi e illuminati da Dio », Mosè, Cristo e Maometto.

Certamente vi furono scambi di idee tra gli iniziati presenti nei due campi, ma la cura posta dai musulmani nel porre a morte i Templari prigionieri basta a dimostrare che l’intesa, talvolta raggiunta a fini diplomatici, non aveva niente di cordiale, così come è indicativa nello stesso tempo la risposta negativa templare al tentativo di accordo del re di Gerusalemme con la setta degli Assassini.

Certo doveva sembrare strano a gente appena sbarcata in Palestina vedere per esempio dei Templari facilitare la preghiera dell’Emiro Qsama, o ricostruire una piccola moschea. Si trattava  evidentemente allora, come in altri momenti, di un tentativo di raggiungere un modus vivendi tra Occidentali e Orientali, di rispettare usi e costumi, oltre che religioni, politica che avrebbe potuto essere fruttuosa se i cristiani avessero potuto restare padroni della Terra Santa.

Nonostante tutto anche nella sfortunata crociata di Luigi IX i Templari pagarono un grosso tributo di sangue: a Mansurah, in Egitto, ne morirono 280 tra cui il Gran Maestro; ne ricavarono nuove accuse di disfattismo e vigliaccheria.

Il destino del dominio cristiano in Oriente eta comunque segnato e con esso la missione storica ed il prestigio del Tempio. Nel 1273 il dominio cristiano si limitava alla fascia costiera con le città di Acri, Tripoli, Beirut e Tortosa ed ai castelli costieri di Athlit e Sayete

Sotto il Gran Maestro Guillaume de Beaujeu si svolse l’atto finale: San Giovanni d’Acri, ultimo baluardo cristiano, cadde nel 1291; nella lotta perirono il Gran Maestro e centinaia di Militi.

Il penultimo Gran Maestro, Thibaud Gaudin, eletto ad Acri alla morte di Beaujeu, si rifugiò con pochi superstiti prima a Sidone e di lì a Cipro con gli archivi dell’Ordine.

Dopo la caduta di Acri il Tempio di Parigi diventò la Casa Generale dell’Ordine.

La Chiesa, prima benevola nei confronti dell’Ordine, ora lo guardava con ostilità, data la preminenza del fattore amministrativo ed economico su quello militare. Il Gran Maestro fu accusato di non aver portato l’Ordine in Spagna a combattere i Mori.

A lui successe Jacques de Molay, uomo, pare, di strette vedute, irresoluto, pieno di amarezza. Egli si trovò a gestire la fase finale della crisi dell’Ordine, coincidente peraltro con la crisi dei rapporti fra il re di Francia Filippo il Bello ed il Papa Bonifacio VIII, incentrata sulla lotta fra potere temporale e spirituale, lotta in cui venne coinvolto il Tempio.

 rapporti del Tempio con la monarchia francese erano quasi come quelli di due potenze vicine obbligate a farsi mutue concessioni: l’Ordine comunque fu mal visto dalla Monarchia da quando questa si rese conto di non poterne fare un suo strumento e vassallo.

Il Tempio era un organismo potente con tre caratteristiche fondamentali: quella di essere una potenza militare, finanziaria ed ecclesiastica, di essere sopranazionale, di avere un governo di tipo collegiale; pet- questo costituiva un intralcio all’affermazione del potere assoluto della monarchia nazionale di Filippo, che per di più vedeva in esso un possibile strumento del Vaticano.

ln effetti in quel momento storico il ruolo politico del Tempio era incerto: cosa fare dell’Ordine era una domanda che sia la Monarchia che il Papato si ponevano; il papa Clemente V cercò di trasformarlo in un suo braccio armato, peraltro senza riuscirvi. L’Ordine poi intralciava i piani di Filippo, sia direttamente che indirettamente.

Per questi motivi l’Ordine fu soppresso, e non soltanto perché Filippo voleva impadronirsi del tesoro del Tempio, di cui era 01trettutto debitore.

L’unica accusa che potesse distruggerlo, era quella di eresia, pur essendo i Templari protetti dall’immunità: consegnati nelle mani dell’lnquisizione era impossibile che venissero assolti; per di più un articolo della legge canonica impediva agli eretici di reclamare i debiti.



Il 13 ottobre 1307 il Gran Maestro Jacques de Molay e il fiore della cavalleria templare vennero catturati a tradimento durante una riunione a Palazzo Reale: contemporaneamente in tutta la Francia si procedeva all’arresto di tutti i Templari del regno ed alla confisca dei beni dell’Ordine. L’Ordine era accusato di eresia, di iniziazione segreta, di soppressione della consacrazione durante la messa celebrata dai cappellani, di rinnegamento del Cristo, di sputare sulla croce, di baci scandalosi, di sodomia obbligatoria, di adorazione di un idolo (il Bafometto), crimini che sarebbero stati imposti da una regola segreta dell’Ordine.

Gli interrogatori vennero condotti da Domenicani e sotto tortura 138 Templari confessarono le loro colpe.

Il debole Clemente V, in primo tempo indignato da simili procedimenti, istigato dal Nogaret, diabolico consigliere del re, ordinò ai sovrani europei di impadronirsi dei Templari e dei loro beni. A Parigi il 26 novembre 1308 vennero processari e confessarono il Gran Maestro ed alti dignitari dell’Ordine. Circa l’accusa di eresie, si è a lungo parlato di manicheismo nell’Ordine del Tempio, ma non vi furono prove, tanto che Clemente V non pronunciò una condanna canonica: abolì de facto l’Ordine con la bolla « Vox in excelso ».

Che peraltro circolassero delle correnti eterodosse nell’Ordine sembra confermato da alcuni documenti pubblicati nel 1877 dal Metzendorff. Si tratta di una copia del 1205 della regola ufficiale dell’Ordine e di un « Libro del Battesimo di Fuoco o degli Statuti Segreti » redatto da Maître Roncelin. L’articolo VIII della II parte dice: « Sappiate che Dio non fa differenza tra Cristiani, Saraceni, Giudei, Greci, Franchi, Bulgari, perché ogni uomo che prega Dio è salvo ». Nel XIX articolo: « Nelle case in cui tutti i fratelli non siano degli eletti è proibito trasmutare metalli vili in argento ».  diffcile pronunciarsi sull’autenticità di questi documenti, anche se riportati da studiosi seri come Gérard de Sède. Certo essi confermerebbero non solo le correnti eretiche, ma anche quel dualismo da molti sostenuto tra iniziati e non, sacro e profano, occidentale e orientale; anche il sigillo del Tempio con i due cavalieri sullo stesso cavallo può essere interpretato nello stesso modo.

Del resto cosa rimane sulle altre accuse?

Solo le confessioni estorte con la tortura e spesso ritrattate in seguito. Nelle tre copie della regola del Tempio che ancora esistono non si parla né di sodomia obbligatoria, che anzi era considerata una colpa grave, né di baci osceni che, se mai esistiti, facevano probabilmente parte di un rituale di iniziazione degenerato. La stessa cosa si può dire per le accuse di triplice sputo sulla croce. Quanto all’adorazione di idoli, non se ne trovÒ traccia in alcuna delle Case Templari. Alcuni conversi raccontarono di aver visto un cavaliere adorare un idolo la cui descrizione era però discordante. Una tradizione popolare ha identificato un piccolo demone, posto nell’ogiva del portale mediano della chiesa di Saint-Merry a Parigi, con il Bafometto dei Templari: non ha sesso, ha testa di uomo con barba e corna, il corpo di donna, le ali di pipistrello, le zampe di caprone.

Questo nome « in figuram Baphometi » saltò fuori durante l’interrogatorio del Template Fratel Gauceront, Sergente a MontPesant, e sopravvisse al Tempio.

È ipotizzabile comunque che i Templari non adorassero un idolo, quanto piuttosto contemplassero in meditazione un simbolo iniziatico.

Il 18 marzo 1314 il Gran Maestro Jacques de Molay ed il Commendatore di Normandia Geofroy de Charny dopo aver atteso 7 anni in carcere di deporre di fronte a Clemente V, condotti davanti a Notre Dame di Parigi, ritrattarono la confessione ai legati del Papa. Ciò segnò la loro condanna perché l’ Inquisizione puniva i relapsi con la morte sul rogo. La sera stessa vennero martirizzati. I beni del Tempio, secondo la bolla « Ad provvidam », vennero annessi a quelli dell’Ordine degli Ospitalieri, ad eccezione di quelli esistenti nei regni di Castiglia, Aragona, Portogallo e Maiorca che furono messi a disposizione della Santa Sede.

L’Ordine del Tempio fu dunque ufficialmente abolito e i suoi più importanti dignitari, soprattutto in Francia, condannati al rogo o imprigionati a vita. In Germania, in Inghilterra e in Italia il comportamento fu in generale più clemente. Li si privò meno radicalmente dei loro averi, furono obbligati a rinunciare al loro abito ed a inserirsi nella società sia come cavalieri o scudieri al servizio di nobili amici, sia come architetti, capmastri, artigiani o operai, secondo il loro status e le loro capacità; alcuni si diedero alla macchia o semplicemente sparirono.

In Portogallo emigrarono molti cavalieri sfuggiti alla cattura dal Midi di Francia e dalla Spagna; qui, protetti dal re Diniz, si ricostituirono in Ordine di Cristo con sede a Thomar, seguendo le regole dell’Ordine di Calatrava.

In Aragona e alle Baleari si fusero con altri ordini religiosi, come i Francescani.

In Italia sembra vi sia stato un ingresso di Templari tra le confraternite ermetiche della « Fede Santa » e dei « Fedeli d’Amore » su cui esercitarono influenza non tanto esoterica quanto per le idee sociali, economiche e politiche.

Argomento controverso e sfuggente sono i rapporti tra Ordine del Tempio e Muratoria Medioevale.

Come abbiamo detto, secondo la leggenda i nove fondatori dell’Ordine del Tempio trovarono tra le fondamenta del Tempio di Gerusalemme, e questa era la loro specifica missione, il manoscritto di come re Salomone avesse realizzato la Grande Opera Alchemica. Poco dopo la sua nascita il Tempio promosse una massiccia ed estesa attività architettonica, stringendo legami con le corpQrazioni di mestiere ed in particolare con quelle muratorie e proteggendone ostentatamente i diritti di immunità: in tutte le Domus Templari si installò un Maestro Architetto; nel 1268 il Maestro Fonques du Temple fu investito della qualifica triplice di Templare, Libero Muratore e Carpentiere del Re, simbolo vivente di questa unione. Nei frammenti rimasti del rituale della iniziazione templare si trovano chiare corrispondenze con il rituale massonico, così come alcuni simboli templari, quale l’Abacus, il bastone sacro dei costruttoti, attributo del Gran Maestro dell’Ordine.


È certo che l’influsso delle crociate sulla cultura europea fu notevole, come non v’è dubbio che vi furono contatti tra l’Ordine e gli adepti di piccole religioni e confraternite dell’Asia Minore da cui esso attinse conoscenze, pratiche, costumi, ed emblemi estranei all’occidente, che trasmise in parte alle associazioni operaie e compagnone.

Secondo l’Ambesi « I Massoni operativi medioevali riuscirono ad infiltrare, nelle raffgurazioni testamentarie ed apocalittiche, allegorie e simboli che nulla avevano a che spartire con l’insegnamento della Chiesa di Roma, ma che si collegavano con segreti nodi al preesistente mondo pagano e alla tematica gnostica, d’elaborazione asiatica, ripudiata dal Cristianesimo ».

Dopo la distruzione dell’Ordine le confraternite operaie (sicuramente nei paesi Fiamminghi ed in Inghilterra) accolsero fra loro membri del Tempio, specie del III ordine, operai altamente specializzati con un bagaglio professionale arricchito da conoscenze acquisite nell’Ordine.

Pare che alcuni Cavalieri, scampati alla distruzione del Tempio, venissero accettati tra le file dei Liberi Muratori.

Alcuni, in Scozia, entrarono tra i Cavalieri del Cardo a Heredom: ad essi si richiama esplicitamente il Rito Scozzese Rettificato come fondatori del Rito Massonico di Heredom, o meglio della Loggia Madre di Heredom di Kilwinning.


Nell’opera « Del regime della stretta osservanza » il suo fondatore, barone von Hund, pone la leggenda in questi termini: « Dopo la catastrofe il Gran Maestro Provinciale d’Alvernia, Pierre D’Aumont, riuscì a fuggire con due Commendatori e sette Cavalieri. Per non essere riconosciuti si erano travestiti da operai massoni e una volta raggiunta un’isola scozzese, colà incontrarono il’ Gran Commendatore Georges de Harris e molti altri fratelli con i quali presero la determinazione di mantenere in vita l’Ordine: essi tennero un Capitolo Generale nel giorno di San Giovanni del 1313 nel quale Aumont fu nominato Gran Maestro. Per sottrarsi a possibili ulteriori persecuzioni, essi presero in prestito i simboli dell’arte massonica e principiarono a farsi chiamare Liberi Muratori ». Nomi e date devono però, da un punto di vista storico, essere presi con precauzione e guardati con dubbio, non essendovi attualmente alcuna prova documentale.

Comunque — e non senza molte profonde e buone ragioni — il ricordo dell’Ordine sopravvive nel Rito Scozzese Antico ed Accettato, nel cui patrimonio spirituale e simbolistico sono integrati importanti elementi templari.

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I GIOVANI E LA MASSONERIA

  • I GIOVANI E LA MASSONERIA
  • Riflessioni da una pagina di un diario

I giovani e la Massoneria di Alberto Del Noce e Maurizio Lucat

E indubbio che negli ultimi decenni lo sviluppo tecnologico e scientifico abbia condotto l’uomo, ed in particolare i giovani, verso un’evoluzione sociale ed ambientale sempre più spinta.

Le mutate condizioni del sistema produttivo, industriale ed urbanistico hanno decisamente (o inesorabilmente) allungato quel segmento di vita che fa da ponte tra l’infanzia e la paternità. Sono lontani i tempi in cui i figli minori erano quelli che godevano vantaggi e facilitazioni a scapito dei maggiori, costretti a lavorare ed a rinunciare alle loro possibilità di istruzione.

Parallelamente a tale evoluzione si è sviluppata anche una notevole emancipazione giovanile rispetto alla precedente condizione di dipendenza dal mondo degli adulti: i giovani possono infatti attualmente accedere a tutti i diritti civili e politici (a quattordici anni un ragazzo può ad esempio testimoniare in giudizio, a sedici può sposarsi, a diciotto votare dei propri rappresentanti in Parlamento).

I giovani sono poi diventati un punto essenziale di riferimento del ciclo produttivo e ad essi si volge lo sguardo del mercato e dei suoi organi di persuasione (da una recente indagine svolta negli Stati Uniti è risultato che essi detengono un potere decisionale di acquisto nell’ambito familiare pari se non addirittura superiore a quello dei genitori stessi).

Questa evoluzione sempre più accelerata e sorretta da una cruda logica di produzione-consumo e di massima espansione dei commerci pone peraltro di fronte agli occhi dei giovani delle mete sempre più effimere e mai veramente raggiungibili: nel momento in cui un benemeta è conquistato-acquistato esso è già obsoleto, quindi inutile.

La vendita di se stessi è più importante dei reali valori morali e si finisce per agire come «prodotti» in uno spot pubblicitario: chi ci comprerà?

La potente macchina produttiva ogni giorno cerca di convincere giovani e adulti che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che tutto

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è acquistabile ed ottenibile. E mentre le foreste del pianeta si sono ridotte del 23% nel giro di vent’anni e l’atmosfera è inquinata da particelle nucleari e presenta vuoti di ozono, il giovane sprofonda nella palude dell’ambizione, dei bisogni crescenti, dell’egoismo più spietato pagando in termini di libertà e dimenticando l’insegnamento di Pitagora: abbi il massimo rispetto di te stesso. Il laicismo, dopo aver celebrato i funerali della religione, ha poi cercato di sopire il sussulto dell’uomo davanti al sacro, al divino, all’esoterico, trasformando la preghiera in frasario, la tensione in nevrosi, la sessualità in igiene, il piacere ln relax, il dolore e la morte in silenzi muti che affondano nell’opaco ciclo della natura. A questo punto l’apporto positivo della Massoneria di fronte all’evoluzione dei tempi appare insostituibile: attraverso la «costruzione del Tempio», inteso sia individualmente sia collettivamente, il recupero delle libertà individuali e delle tradizioni storiche dell’ umanità potranno favorire un’evoluzione più equilibrata ed umana, nonché contribuire a conservare cio che non deve soccombere del passato quale pietra di base per una solida edificazione futura. La capacità introspettiva del massone e la sua attenzione verso le esigenze della propria ed altrui coscienza sono essenziali per affrontare quei problemi dell’esistenza che la pura ragione umana non sa né esprimere né risolvere.

La logica profana di Silicon Valley, imprimendo un’accelerazione impressionante alla vita dei giovani, fa sì che gli stessi non diventino ciò che sono ma che scelgano quanto anticipatamente predisposto. Se la loro scelta non cade nella casella predeterminata le loro azioni non diventano leggibili ed essi vengono esclusi e ghettizzati. La logica massonica invece, valutando le azioni individuali attraverso il filtro dell’uguaglianza, della tolleranza e della fratellanza, le legge come espressioni dell’anima ricreando così ciò che era lo scopo dell’esistenza umana.

La Massoneria offre al giovane un luminoso punto di riferimento sia attraverso la sua metodologia introspettiva sia attraverso la sua esplicazione operativa nel mondo profano rifiutando decisamente l’assioma che l’identità non è del singolo ma del sistema, che l’Io non preesiste al gioco ma si costituisce giocando e che la dimensione collettiva è la forma che lo definisce e cioè la regola ultima del gioco.

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IL FIGLIO DELLA VEDOVA

IL FIGLIO DELLA VEDOVA (Don Pipeta l’Asilé ) di Giacomo Durio

Nel numero 8 di Delta abbiamo pubblicato una presentazione del libro Don Pipeta l’Asilé di Luigi Pietracqua. Oggi viene esaminata un’opera di Augusto Monti, che da quella direttamente deriva * AUGUSTO MONTI, 11 figlio della vedova (Don Pipeta l’Asi1é), Torino 1978, Viglongo Ed

Il libro, nelle stesse dichiarazioni dell’Autore, è definito più che una semplice « traduzione » dell’originale in piemontese di Luigi Pietracqua, un vero e proprio « rinnovamento » fatto per la convinzione della sua attualità in relazione a vari episodi inquadrati dai particolari rapporti tra Inquisizione cruentemente tirannica e anticlericalismo da raffrontare, per analogia, con similari episodi del tempo del fascismo e del Tribunale Speciale, Questa sua attualità e questo suo richiamo sono stati alla base della sua originaria pubblicazione nell’edizione torinese del giornale « l’Unità » come romanzo d’appendice a puntate. Ma questa sua attualità mi è stato agevole intravvederla anche da un diverso angolo visuale e cioè quello massonico e non soltanto perché anche nel romanzo viene affermata la perennità dei principii dell’ideologia nonché dell’essenza e sostanza massonica, ma anche perché vi si possono cogliere spunti di raffronto con figure, problemi, situazioni, aspettative e, purtroppo, anche delusioni del nostro tempo. È proprio a questi aspetti cui dedicherò l’ultima parte di questa discussione, avendo prima descritto tempi e modi di una iniziazione, come sono presentati nel libro.

Alcuni personaggi che più ci interessano direttamente:

Battista, ossia Don Pipeta l’Asilé, così chiamato perché sempre in giro, e specialmente di notte, con la botticella dell’aceto da vendere, aceto ritrovato nelle botti del vino sistemate nel retrobottega della bettola di Caterina, sua madre, in vicolo delle Asine, che univa via

Porta Palatina a Porta Palazzo a Torino. Alcuni lustri prima, infatti, quando Don Pipeta era ancora un ragazzo, la bettola, essendo stata tenuta aperta dalla madre, la quale aveva anche fornito cibo e vino durante Feste di precetto, ed in particolare durante la Festa del Corpus Domini, « quando ogni buon cristiano deve compiere fedelmente le pratiche religiose di Santa Madre Chiesa », era stata chiusa, non solo, d’ordine del Sant’Ufizio, ma la madre con la sorella arrestate e torturate a morte dall’lnquisizione. Il solo Battista, fuggendo attraverso il retrobottega, si era sottratto alla cattura. Tutto questo antefatto, per meglio capire « perché » il ragazzo, fatto uomo, lo ritroviamo Fratello Massone pur senza conoscere il « come Il tintore Stefano Borello uomo dabbene tutto dedito al suo lavoro ed alla famiglia, che, proposto per l’affiliazione alla Massoneria, troveremo protagonista della cerimonia di iniziazione e che unitamente ai componenti della sua famiglia formerà successivamente oggetto della solidarietà dell ‘Istituzione contro le persecuzioni dell’ Inquisizione messa in moto, purtroppo, dalle delazioni di altro Fratello. Quest’ultimo, anteponendo uno smodato affetto per il figlio degenere e soggiacendo al desiderio di vendetta, si ritrova dimentico di tutti i suoi doveri di massone.

Ed abbiamo così conosciuto anche la trista figura del notaio Roggero. Altri personaggi della « Vedova » operano a favore del Borello prima e della sua famiglia poi, salvandoli dai carnefici persecutori della Inquisizione.

Desidero però ricordare particolarmente la figura del professor Parodi.

Egli, arrestato per errore al posto del Borello, durante l’interrogatorio degli Inquisitori, al frate che gli contesta « di ammettere d’essere in stretta relazione coi più perfidi nemici d’ogni ordine sociale, con i più pericolosi fautori d’ogni più infame eresia, con i… » r sponde testualmente continuando: « con i mangiatori di bambini, coi bevitori di sangue umano, con gli uomini dal piede forcuto… che le umili donnette dicano e pensino così, transeat, ma che voi discepoli dell’onnisciente Santo d’Aquino veniate a dipingermi come nemici della società, come infami eretici i discendenti se mai di quei maestri comacini che hanno arricchito l’Europa di tante e leggiadre case di Dio, i membri di una società filantropica la quale può essere maestra a chicchessia di amore e di carità cristiana… ». Difesa dell’Istituzione, di cui non faceva parte, che lo perse e che naturalmente gli fu fatale malgrado l’interessamento a suo favore di persone influenti che chiamarono in causa le più alte autorità civili e cioè il ministro Bogino e suo tramite il Re Carlo Emanuele III.

Nell’edizione piemontese il profano muore sotto o a seguito delle torture, il Monti, invece, lo fa suicida in carcere richiamandosi a « Catone… Uticense… suicida per sfuggire al tiranno… cercando ” Libertà ” ».

È giunto il momento di tratteggiare l’Iniziazione.

L’Autore dopo brevissimi cenni su origini e primi sviluppi della Massoneria in Inghilterra e Francia afferma che all’epoca del racconto anche Torino, dopo Chambéry, aveva la sua brava Loggia all’Obbedienza di una Loggia Madre di Ginevra. L’iniziando è il buon tintore Borello che dispiaciuto di non aver potuto saper nulla « circa le istruzioni preventive per il suo ricevimento » si rassegna a vedere « cosa succederà ».

Rilevato a tarda sera a casa sua dal Notaio Roggero, incontra l’Acetaio nel suo rifugio dove gli vengono fatti posare gli ori e i denari per non dare sospetto in famiglia con un ritorno a casa per lasciarli. Sono sintomatiche le raccomandazioni: « qualunque cosa sentiate o vediate, qualunque cosa vi comandino di fare, dovrete mettervi in testa di prestarvi a tutto, senza fare la più piccola osservazione e senza mostrare, soprattutto, neppure l’ombra della paura. Non vi sarà fatto un male al mondo, ma dovrete sottostare a certe prove che ci vorrà anima buona e fegato sano per sostenerle… ». Malgrado l’oscurità il profano viene bendato e senza parlare si cammina per alcune miglia (sapremo dopo che si è trattato di un’uscita e di un  rientro in Torino) finché un « Chi va là » accompagnato da rumore di maneggio d’armi li ferma.

« Figli della Vedova » è la parola di passo. Dopo poco si sente un rumore sordo come d’acqua d’un fiume che al profano bendato pare un immane fragore di cascata che gli stia per piombare addosso.

Egli ha un momento di debolezza e un mancamento, ma con il sostegno dei due accompagnatori si giunge finalmente ad una stanza illuminata da una lampada d’ottone a tre becchi. Seduto su di una panca e sbendato, egli si ritrova davanti ad un tavolo parato d’un tappeto nero. La vista dei due accompagnatori sun po’ lo rinfranca ed egli si scusa per la sua debolezza. Lasciato solo osserva sul tavolo l’occorrente per scrivere, un teschio, una spada.

Convinto di farlo mentalmente sussurra « Mio Dio dove sono mai adesso?

« Sul limitare del Tempio della Luce » gli risponde una figura incappucciata e armata di spada, che subito incalza « Profano sei veramente deciso a entrare in questo Tempio? ». Malgrado il tremore la risposta è positiva e allora l’ingiunzione: « Ebbene scrivi il tuo testamento ». Sorpresa e spiegazione « L’uomo acquistando la vita contrae tre debiti gravi e sacrosanti, ai quali deve saper soddisfare con tutto l’amore di giustizia e la virtù del sacrificio. Il primo verso Dio; il secondo verso sé medesimo; il terzo verso i suoi fratelli. Scrivi in che maniera intendi soddisfare questi tre debiti. Hai tempo mezz’ora ».

Con una breve parentesi, sottolineo qui, condividendola, la notazione del Boucher sul fatto che la Massoneria modernizzandosi ha soppresso, forse a torto, la interrogazione del dovere verso Dio sostituendola con quella, più limitativa, del dovere verso la Patria. Indubbiamente vi sono state delle motivazioni la cui ricerca rimando all’indagine del lettore.

Riprendendo, bellissima la descrizione dell’imbarazzo del profano e di tutte le strane idee che gli frullano in testa. Lascio un attimo il lettore al ricordo di quelle che sono state le sue nel gabinetto di riflessione.

Bellissime comunque le risposte:

— A Dio, creatore dell’Universo, ogni mortale deve conoscenza e venerazione.

— A me stesso, debbo ogni sforzo per giungere all’acquisizione della vera virtù e quei savi miglioramenti che rendono sempre più onorata l’umana natura.

— Ai miei simili, debbo assistenza, amore, fedeltà.

Dopo che il foglio, piegato in quattro, è stato portato via sulla punta di una spada, un’altra figura incappucciata lo benda di bel nuovo e gli fa iniziare un nuovo viaggio lungo, vario, pieno di peripezie, se pur non gravi, diverse e curiose tutte quante, rumori sordi inesplicabili, invocazioni di aiuto, passaggi a quattro gambe in cunicoli bassi e stretti, ecc. fino ad un secondo alt di una voce che chiede dove vada la carovana:

« ln pellegrinaggio per trovar la luce ed entrar sotto gli auspici della “Vedova”. Ma la gamba sinistra è ancora calzata!! ». « Il profano aspetta solo un ordine del F. Terribile per scalzarsela ». Dopo di che il profano viene seduto sopra una poltrona sostenuta da quattro corde e fatto precipitare come in un pozzo, in un abisso senza fondo, solo, abbandonato e pieno di emozione e di dubbi sul dove sarebbe andato a finire. Un tonfo di contatto e un folto brusìo di voci lo accoglie e tre colpi ripetuti tre volte echeggiano intorno a lui. Segue un serrato interrogatorio condotto magari da « curiali e gente di penna », ma al quale il buon Borello, forte del suo robusto buon senso di popolano lavoratore e soprattutto della sua illibata coscienza di gran galantuomo, risponde con naturalezza e semplicità. Ricondotto alla poltrona dopo vari giri, che l’A. descrive eseguiti sotto la volta di acciaio delle spade, si sente domandare « Cosa desideri più ardentemente in questo istante? »: d’essere liberato da questa benda che mi impedisce di vedere la luce! « Sia esaudito il tuo desiderio ».

Ma il profano non vede nulla perché l’oscurità è profonda. Poi in successione gli vengono presentate due visioni. La prima di maestose figure candide in una nebbia luminosa, che rappresenta i fratelli più cari passati a seconda vita; la seconda di scheletri e macilente figure macchiate di sangue che rappresentano coloro che han ricevuto il meritato castigo dei traditori. « La Verità e la Giustizia, ammonisce una voce, devono essere l’unica nostra guida, guai a chi tradisce i nostri Segreti, guai a chi tenta di violare la santità del nostro Tempio e della nostra Istituzione ».

Tre colpi di martello, ripetuti da due parti opposte, danno inizio al terzo ed ultimo viaggio. Nuovamente bendato riparte all’insù sulla poltrona. Riavuto lo stivale si cammina ancora incontro a quel

terribile e maledetto rumor d’acqua in cascata. Vento umido, spruzzi, uno spintone che pare precipitarlo nel vuoto, una gran paura, al fine si ritrova in piedi e sano, ma l’istinto gli fa chiedere aiuto. Una voce lo invita a proseguire. Procede a stento brancicando finché si sente afferrare per le due braccia. La cerimonia continua con l’ingresso rituale nella sala dei passi perduti e poi nel Tempio, ma poiché prosegue con uno strano intreccio fra formalità e rituali della leggenda di Hiram, lasciamo il neofita al suo giuramento finale, alla vestizione e all’abbraccio fraterno che lo consacra nuovo fratello, finalmente rasserenato dopo tante peripezie.

Una breve considerazione sui luoghi e poi passiamo all’ultima parte. Il rumore dell’acqua, che non è pensabile sia riprodotto, fa ritenere si tratti di sotterranei tra la Cittadella torinese e la via Dora Grossa, l’attuate via Garibaldi, collocazione che può essere confermata dal successivo, relativamente breve, percorso per raggiungere le rispettive case.

La prima considerazione che viene alla mente è quella sul proselitismo. Troviamo infatti tra i Figli della Vedova dal conte Ferdinando (membro di una delle più illustri famiglie della nobiltà piemontese, che ospita nella sua gran fattoria fuori Torino la famiglia Borello in fuga), al notaio, al negoziante di chincaglierie all’ingrosso, al vecchio benestante, all’artista, fino al povero Battista che vive in quel tugurio che è la vecchia bettola della madre, ma che è una delle figure di spicco nel contesto della operatività di allora volta al progresso della vita civile e della libertà di pensiero. Pare davvero non vi sia distinzione di classi sociali o di censo purché il fratello sia effettivamente di buoni costumi e libero ed intenda essere partecipe concretamente delle due principali essenze della Massoneria: quella più propriamente spirituale volta alla ricerca del Vero e quella più particolarmente sociale volta al raggiungimento del Giusto. E mi pare che questo possa e debba essere un criterio tuttora valido.

I Fratelli cioè sono uguali, nel rispetto di uno dei cardini del sacro trinomio, ma in una eguaglianza che non è basata sui diritti, ma essenzialmente sui doveri e sulla capacità dei singoli di una ascesi individuale che si trasforma poi in una ascesi collettiva.

Anche allora, come oggi, vi sono le pecore nere che soggiacciono alle debolezze umane o nel senso di pensare che la Massoneria possa essere uno strumento di forza da poter plasmare per avvalersene a fini particolari o nel senso egoistico che calpesta la fratellanza di fronte al soddisfacimento di sentimenti deteriori e personalistici o settarii.

Ma l’Istituzione ben sapendo che l’inazione è sempre sterile, può e deve reagire con atti di giustizia, che hanno anche una salutare veste ammonitrice, volta a salvaguardare le sue finalità e le sue strutture. La solidarietà si manifesta nel libro nella sua piena concretezza, svolta con atti ed azioni risolute, non scevra da pericoli personali, ma sempre permeata da prudenza, coraggio e tempestività. Essa è veramente emblematica e densa di insegnamenti per tutti noi.

La tutela del segreto appare vitale nel senso più letterale della parola. La delazione o anche soltanto l’imprudenza pone il malcapitato alla mercé dell’inquisizione e della sua macchina che stritola libertà fisica e di pensiero. Oggi le condizioni sono fortunatamente cambiate in meglio e certo noi ci auguriamo che anche in Italia l’evoluzione porti ad una diminuzione sempre più accentuata della necessità di un segreto difensivo contro l’ambiente profano, ma mi piace ricordare qui la conclusione di una tavola di un nostro fratello sul segreto massonico:

« Esiste un segreto che permane tale anche ove la Massoneria possa vivere i fasti della vita pubblica: è quello che racchiude in sé chi ha raggiunte la catarsi e la esoteria, la purificazione interiore e la perfezione. E questo è il segreto che affratella i massoni, quelli veri e correttamente istradati sul cammino iniziatico, rispettosi del monito della Sfinge, simbolo di tale segreto: l’uomo deve osare, volere, sapere e tacersi

Ritornando alla operatività appare essenziale l’azione di Don Pipeta che, mimetizzato nella sua veste di venditore ambulante di aceto, mantiene i collegamenti con l’Ambasciata di Francia presso la Repubblica genovese con azioni pericolose, ma preziose per mantenere

relazioni con gli assertori dei principii di quella Rivoluzione dell’Illuminismo che si stava sviluppando al di là delle Alpi non solo ideologicamente.

Oggi il compito dei singoli Massoni è duplice, all’interno per inserirsi, sia pure non per risolverli direttamente, nei grandi problemi sociali e operare per diffondere in un mondo, dove queste vanno sempre più scomparendo, spiritualità e tranquillità al fine della realizzazione di una maggiore giustizia, della difesa della libertà individuale e collettiva.

All’esterno per favorire, con la collaborazione dei Fratelli di tutte le obbedienze, la realizzazione di quell’unità Europea che appare sempre più l’unico rimedio per tanti mali cui gli Stati nazionali non sono più in grado di porre singolarmente rimedio.

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EPISTEMOLOGIA

EPISTEMOLOGIA

L’Epistemologia è quella « branca della teoria generale della conoscenza che si occupa dei fondamenti, la natura, i limiti e la validità del sapere tanto delle scienze esatte che empiriche. Permette di distinguere i giudizi di tipo scientifico da quelli di opinione (metafisica, religione, etica) » (Encicl. di filos. – Garzanti).

Se applichiamo questo concetto per verificare la validità e i fondamenti della nostra istituzione, per quel che riguarda l’Ordine, non ci sono dubbi, essi sono adeguati a quello che è il nostro fine: il miglioramento della umanità attraverso il miglioramento del singolo individuo anzi attraverso l’automiglioramento.

L’analisi del « conosci te stesso », l’etica dell’« ama il prossimo tuo come te stesso », la ricerca della verità col solo mezzo della ragione, la volontà di realizzare un mondo migliore sulla base di una bene intesa libertà, di una giusta uguaglianza, di una vissuta fratellanza, l’uso appropriato di una tolleranza che non diviene mai sopportazione e di una solidarietà che non diviene mai sopruso o come già abbiamo detto complicità, rappresentano al momento attuale quanto di meglio I uomo abbia prodotto per un mondo migliore.

Al di là la ragione umana non può andare anche se questi limiti ab initio si sono sempre venuti spostando ma il limite è come l’orizzonte che più cerchiamo di avvicinarlo più si sposta.

Di qui la necessità che alla ragione si sovrapponga l’intelletto, l’intuizione o la fede ma noi, a livello di Ordine, Cl accontentiamo dell’hic et nunc, ci limitiamo al mondo ed all’umano, non ci poniamo il problema del poi, del dopo o dell’al di là; cerchiamo di aiutare l’uomo a migliorarsi per vivere in un mondo migliore e nel migliore dei modi quegli anni, pochi o tanti che siano, che è destinato a passare sulla terra.

Vogliamo essere un modo di vita, una scuola di pensiero e di vita, anzi una scelta di vita e non già una religione, noi accettiamo il detto « la verità vi farà liberi » e lasciamo ad una scelta individuale il « credi e sarai salvo» e per concludere con Fromm a noi L.M. « non interessa sapere se l’uomo torna alla religione e

crede in Dio, ma se vive con amore e pensa secondo verità. Se la risposta è sì, i sistemi che adopera hanno poca importanza, Se è no, non ne hanno alcuna ».

Ecco io qui ho concluso: siamo partiti dai fondamenti della nostra istituzione, abbiamo esaminato i mezzi, i metodi e siamo arrivati al fine: il cerchio si è chiuso. Ho detto cerchio perché esoterica. mente rappresenta la perfezione ma appunto per questo non ha inizio né fine. Così per noi il nostro lavoro sulla pietra grezza non ha avuto forse un inizio ma di certo non avrà mai fine; così come i nostri discorsi…

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MAIEUTICA

MAIEUTICA

Come tutti ben sanno una volta era solo l’arte dell’ostetricia; da Socrate in poi (400 a.C.) è considerata « un metodò scientifico — cito dal Palazzi — di discussione, col quale, per mezzo di successive interrogazioni si conduce a poco a poco l’avversario a scoprire da sé le verità che esistevano latenti nel suo spirito ». Ora si chiama metodo socratico e si basa sulla ragione e sulla logica conseguente. A qualcuno piacerà ricordare come Socrate, figlio di Fenarete che era una levatrice, oggi ostetrica, diceva che come questa aiutava le donne a partorire così lui aiutava gli uomini a ragionare e quindi a scoprire quelle verità che già erano in loro. Tutto questo lo sappiamo da Platone, nel Teeteto, poiché di Socrate non abbiamo niente in quanto pare non sapesse scrivere o per lo meno non ha scritto niente.

La ragione è una facoltà dell’intelletto che ci permette di conosce re le cose e i fatti e di discernere e giudicare. È la facoltà che distingue l’uomo, animale razionale, dagli altri animali.

« La ragione è la facoltà che cerca il vero e penetra dalla superficie dei fenomeni alla loro realtà intima » ed ancora « la ragione che è la facoltà più pregiata e più singolare dell’uomo è sottoposta all’effetto deformante delle passioni » (Fromm E. in Psicanalisi e religione).

A chi interessa preciso che deriva da ratio usato da Cicerone per tradurre logos che però vuol dire anche discorso e non solo ragione; in seguito con la scolastica si precisò come traduzione di dianoià in opposizione a noüs che è l’intelletto. Si arriva così alla ragione come mezzo della conoscenza discorsiva o umana e all’intelletto come conoscenza intuitiva o divina e quindi ai problemi del rapporto tra ragione e fede. Rimando ai problemi tra ragione e discorso di cui si sono ampiamente occupati Aristotele, Platone, Sant’Agostino, ecc., e a quelli tra ragione e calcolo, tra ragione ed evidenza di cui si sono occupati Hobbes, Hume, Leibniz, Cartesio, ecc. Ricordo il contrasto tra razionalismo continentale ed empirismo inglese nei secoli XVII e XVIII. Sconsiglio di addentrarvi con Kant, Hegel, Bergson e amici sul problema ragione e intelletto dove compare an40

che, a complicare le cose, l’intuizione ma vorrei ricordare che ancora oggi il problema è aperto e che ad esempio 1a famosa scuola di Francoforte riprende direttamente da Hegel l’opposizione tra ragione e intelletto.

Ma torniamo a quel perdigiorno di Socrate che a mio avviso è l’ini- ziatore della filosofia come scienza, con tutto il rispetto per i predecessori che pure erano del calibro di Talete, Anassimene, Anassimandro, Pitagora, Eraclito, Parmenide, Zenone, Democrito ecc. per citare solo i più noti: Socrate infatti è colui che per primo prende per mano l’uomo e gli insegna a ragionare.

E la ragione per noi L.M. è il mezzo più importante per avvicinarci alla verità questo per quel che riguarda l’Ordine.

Ogni iniziazione e ogni passaggio sono un comandamento più che un invito alla ragione. La ricerca della luce e della verità sia pur sempre limitata e incompleta sono merito della ragione.

Quando si arriverà al rito verranno chiamate in aiuto altre facoltà intellettive per procedere nella ricerca della verità, ma rimaniamo a livello d’Ordine.

Quindi la maieutica, I arte di ragionare, di scoprire la verità che già abbiamo percepito ma non riconosciuta è a mio avviso un’arte squisitamente muratoria e Socrate per me è il prototipo del perfetto muratore.

La ragione in conclusione ha aiutato il progresso dell’uomo traendolo dalla superstizione, dall’ignoranza, dal dogmatismo, dal pregiudizio ma non lo può rendere felice.

Se la ragione è il mezzo, in Massoneria vi è anche un metodo di lavoro che a mio modo di vedere è molto importante e si basa sul rituale, sull’atteggiamento ed il comportamento da tenere e che io ritengo si avvicini molto a quello che è il « training autogeno» e questo per chi ha voglia potrebbe essere un bel tema di discussione. D’altra parte molto delle nostre cerimonie è mutuato da liturgie sia religiose che di ordini cavallereschi o simili che avevano intuito ed applicato quello che poi Schultz ha esposto in termini scientifici agli albori di questo secolo.

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SIMPLICI MYRTO…

SIMPLICI MYRTO…

di M. O.

Ritrovarsi un paio d’ore da dedicare alla lettura in un pomeriggio di domenica piovosa, è un dono inaspettato, da godere ed assaporare subito, ampiamente. Mi invitano « I Dialoghi » di Confucio e, per una lettura comparata di indubbio ausilio a maggiori approfondimenti, Lao-tze con il « Tao-te-king ».

 un invito allettante… e mi immergo nella lettura.

Ne vengo distolta da una visita, non prevista, di una amica. Anche un po’ di tempo da trascorrere con una persona cara è dono prezioso. « Stavi leggendo… Oh! , guarda, Confucio, Lao-tze. Interessanti? Quando li avrai finiti, me li impresti? ».

Prometto.

Rimasta sola, ripenso alle considerazioni che dai due libri sono scaturite.

I Dialoghi sono attribuiti a Confucio come a Lao-tzc il Tao-te-king. Loro non hanno scritto niente e se lo hanno fatto, nulla di autentico è giunto sino a noi. Altri paralleli vengono alla mente. Nulla ha scritto Socrate che, anzi, della scrittura diffidava profondamente come risulta dalla favola che Platone gli fa raccontare nel Fedro e che termina con le parole di Thamus, re dell’Alto Egitto: «O ingegnoso Theuth,… gli uomini, fidandosi del tuo alfabeto e di quanto scritto, non eserciteranno più la memoria e richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, come dovrebbero, ma dal di fuori, attraverso segni estranei ».

Del pensiero socratico possiamo sapere solo attraverso i suoi allievi, principalmente Platone, così come solo dagli Apostoli, attraverso i Vangeli sinottici o apocrifi che siano, conosciamo la predicazione di Gesù di Nazareth. Altrettanto si può dire di Siddharta. Tutti uomini che non hanno scritto un rigo e che pure tanto hanno insegnato da mutare, influenzare, permeare il pensiero e il comportamento umano. Di tanto in tanto, sulla terra nascono uomini di questa levatura, uomini senza i quali — dice P. Citati — noi tutti saremmo un po’ diversi. E forse un po’ peggiori, oso aggiungere io. Budda, Lao, Confucio, Socrate, Gesù hanno parlato, sì, dialogato molto, con tutti. Essi hanno avuto bisogno solo del dialogo, che è poi la capacità di improvvisare un discorso che diventa insegnamento a seconda degli stimoli che offre l’interlocutore.

Ed hanno insegnato, così, in tutta semplicità, esteriore ed interiore. Socrate se ne andava in giro, facesse caldo o freddo, con il suo chitone, o tutt’al più con il tribòn, disdegnando abiti eleganti ed ogni altro genere di lusso. Con una semplice veste se ne andavano Lao, Budda, Gesù che anche di quella si spogliò, per morire vestito del solo legno di una croce. Confucio, durante i grandi caIori estivi, indossava una semplice tunica di lino grezzo; d’inverno una casacca nera o bianca o gialla.

Sempre Socrate, fermatosi un giorno davanti ad un negozio, in Atene, e guardando tutta la merce esposta, esclamò stupito: « Ma guarda di quante cose hanno bisogno gli Ateniesi per campare! » (da Diogene Laerzio).

E forse non è male ricordare qui a quanto poco avesse ridotto le sue necessità Diogene di Sinope: proprio al minimo indispensabile! Per casa una botte, un mantello come abito e come letto, un catino per mangiare e una ciotola per bere, disfacendosi poi sia dell’uno sia dell’altra dopo aver visto un ragazzo mettere le lenticchie direttamente sul pane e bere nel cavo della mano.

Altri, al suo posto, che cosa avrebbe  chiesto ad Alessandro il Grande il quale, stimandolo molto, desiderando vivamente di poterlo conoscere e finalmente incontratolo, gli aveva detto: « Chiedimi quello che vuoi »? Ma… forse un bel quartierino vicino all’Acropoli e una seconda casa (possibilmente villetta mono-familiare) a Capo Sunion con vista sul mare? E poi… già aveva così ampio campo di richiesta, forse una pensioncina di qualche invalidità, a spese di Corinto o di Atene e, perché no? , anche un posticino da segretario di un Arconte o di un Pritano per un lontano parente? …

No, non ci siamo… Diogene che se ne stava lietamente godendo il sole sulle scale del Craneo, disse: « Ti prego, spostati che mi togli il sole! ». Semplicità. E modestia.

Nessun titolo accademico da sfoggiare, nessuna collezione di lauree comprese quelle ad honoris causam, niente specializzazioni o superspecializzazioni, stages, performances.., Mai andati a ritirare premi o medaglie, a partecipare a tavole rotonde, congressi, meetings..

« Scusi, professore Socrate, desideriamo congratularci con Lei per l’assegnazione della Palma, Andrà a Delfi a ritirarla? ».

« Oh! , professor Gesù, abbiamo saputo che si recherà a Gerusalemme in Sinedrio, ove terrà una conferenza, da tutti attesa con il più vivo interesse. Ci potrebbe anticipare, in sintesi, il contenuto della Sua dotta relazione? ».

« Ecco, abbiamo l’onore di presentarvi l’illustre professore Lao, conosciuto e famoso in tutte le terre di Cina… ».

« Non La vorremmo disturbare, esimio professor Confucio, sapendoLa pronta a partire per Lu dove parteciperà ad una tavola rotonda, la decima vero, nel volger di questa luna… ».

Di tutto questo, Budda, Lao, Confucio, Socrate, Gesù avrebbero non riso, ma solo sorriso, semplicemente e modestamente. Come il sorriso di Orazio:

« Persicos odi, puer, adparatus, displicent nexae philyra coronae, mitte sectari rosa quo locorum seta moretur. Simplici myrto… ». (Lo sfarzo persiano, ragazzo, io lo detesto; non mi piacciono le corone intrecciate di filo di tiglio; tu desisti dai tuoi tentativi di ricercare dove indugi a fiorire la rosa tardiva. Al semplice mir-

Che lo dica per ognuno di noi? Forse sì, per farci memoria della modestia e della semplicità di cui hanno fatto professione nella loro vita gli Spiriti Grandi.

Maestri, Rabbi, Gotama, così li hanno chiamati gli altri, e giustamente perché, come dice Han Yu, « Maestri sono coloro che trasmettono le dottrine, spiegano i dubbi; sono coloro che hanno il sapere, lo conservano, lo custodiscono »

Ma loro, gli Spiriti Grandi, tutti questi appellativi non li hanno mai sollecitati. Anzi…

Lao dice di sé: « Tutti sono intelligenti, io solo sono stupido. Mi pare di essere trascinato dalle onde e non so dove vado. Tutti sono pieni di talento, io solo sono limitato come un selvaggio ».

Siddharta, vicino a morire, così riprende un discepolo: « Tu dici: il Maestro che c’insegnò la dottrina è scomparso: non abbiamo più Maestro. Ma non dovete, Ananda, pensare così. La dottrina e la regola che insieme abbiamo imparato e divulgato, ecco i vostri Maestri quando io non ci sarò più ».

Di sé Socrate, uomo che non lanciava programmi di redenzione né pretendeva di trascinarsi dietro torme di seguaci, diceva: « Io so di non sapere né poco né molto. Tutto quello che posso fare è esercitare la maieutica » e per tutta la sua vita ha posto domande, ha ascoltato risposte, ha chiesto precisazioni per « tirar fuori » la vera conoscenza, aiutando sé e gli altri.

E di sé Confucio disse: Io tramando solo, non creo ». « Forse in letteratura sono pari agli altri, ma a comportarmi da saggio non sono ancora riuscito ». « Non mi affliggo di non essere conosciuto dagli uomini, mi affliggo di non conoscere gli uomini Ma… è tempo di riprendere la lettura dei Dialoghi:

« La via è in noi — disse Confucio — e la cercate lontana; sta nelle cose facili c la cercate nelle difficili ».

Rincontro dopo qualche tempo l’amica che non ha dimenticato la mia promessa: « Hai finito di leggere i tuoi cinesi? ».

Il mio è un « no » alquanto timido e vergognato.

« Non ancora!? Ma se sono due libriccini… piccoli così… Beh! , quando li avrai finiti… Ma… non metterci una vita! ».

Già… sono proprio solo due libriccini, è vero. Non hanno apparenza di tomi importanti per veste tipografica o… per peso (qualcuno giudica i libri anche dai loro etti o chili…!).

Sono in quarto, in ottavo e le pagine neanche molte. E se i Dialoghi si presentano abbastanza decorosi, il Tao-te-king è in veste, ahimé, assai dimessa, per una più lunga frequentazione…

Ma… tutto questo importa?

Vengon da ricordare le sequenze finali di Fahrenheit 45 T. La « Guardia del Regime » convinto e fervido esecutore delle ferree disposizioni che proibiscono ai « sudditi » di leggere, rimane profondamente scosso quando vede un’anziana signora scegliere di rimanere con i propri libri amati (da lui stesso dati alle fiamme) e di morire bruciando con loro.

Ciò che sino a quel momento era stato ritenuto giusto e perfetto, ora appare alla Guardia del Regime in tutta la sua nefandezza; si ravvede (si pente, si direbbe oggi) e scappa in quei boschi fuori confine dove sa essersi rifugiati tutti coloro che hanno amato e continuano ad amare i libri e la loro lettura. Lì, purtroppo, i libri non hanno potuto essere trasportati né possono venire ristampati, ed allora, perché non vadano definitivamente perduti, ogni « rifugiato » ne ha imparato uno a memoria che tramanderà poi, sempre a voce, a figli e nipoti.

Alla Guardia si fanno incontro due fratelli, assai male in arnese, in abiti stinti e sdrusciti. Uno di loro si presenta: « Sono il primo volume dei Fratelli Karamazov, mio fratello ne è il secondo volume. Non ci voglia giudicare dalle copertine… ».

É un monito. Anche noi non siamo forse troppo spesso attratti dall’apparenza che se ricca, ornata, fastosa, ci porta subito a giudizi favorevoli? Ma al di là della piacevole apparenza che tanto facilmente prendiamo per « realtà », sappiamo o almeno tentiamo di vedere, di capire per cercare di giungere al vero « contenuto » ?

Forse solo dietro ed oltre il velo dell apparenza si nasconde e attende che noi lo scopriamo, il « vero » della nostra vita, di noi stessi, di tutti gli altri che ci sono fratelli. I valori, come i tesori, si celano. Richiedono di essere cercati con perseveranza, volontà, consapevolezza. La « Via » per giungervi non è facile e neppure trovarla.

E se provassimo, perintanto, a ritagliarci anche noi un abitino più confacente, di linea semplice a tre bottoni, orlato di modestia? Tu dici, Fratello, che forse risulterà di foggia un po’ vecchiotta, demodée ?

Non credo, sai! Forse che noi che diciamo di essere — e dovremmo esserlo veramente — tutti uniti e uguali nel libero spirito di fratellanza, siamo demodées? I veri valori non hanno stagione… No, Fratello, anzi credo che se ancora non ho trovato il quarto « pomello », tu e gli altri Fratelli mi aiuterete a trovarlo e mi fornirete gli utensili per applicarlo e rendere così il mio abitino più completo.

Quanto all’amica, per non venir meno alla promessa, comincio a prendere in considerazione l’opportunità di provvederle una copia dei due « libriccini », perché se leggere vuol dire capire, ricordare (eh sì, « non fa scienza senza lo ritener aver inteso »), meditare, approfondire, andare oltre il significato apparente delle parole, temo molto che per leggere quei due « libriccini » non mi basterà la vita per quanto lunga mi sia concessa. Capire la « Via » non è cosa da poco…

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LA MORTE NEL MEDIOEVO

LA MORTE NEL MEDIOEVO di Giulio Ferratini

Ritengo che l’immagine che otteniamo della tradizionale iconografia del Medioevo sia distorta e caricaturale: troppe epoche lo hanno riutilizzato deformandone l’assetto storico, dipingendolo spesso grottescamente, permeandolo di misticismo a volte, di romanticismo altre.

Le stesse Cronache del basso Medioevo già risentono pesantemente dei primi pedanti classicismi, in cui l’eloquenza aulica della tarda epoca altera già lo spirito ed il senso della Storia.

Oggi, alcuni storiografi di grande rilievo, hanno riportato alla luce esatta lo scenario sociale, oltre che quello storico, del Medioevo, divulgando così una inedita fotografia. L’atmosfera, se così possiamo definirla, in cui si è svolta l’avventura dei secoli bui della nostra storia, è estremamente significativa ed indicativa di alcune profonde motivazioni e sensazioni che tutt’oggi agitano, sotto altre forme, il nostro pensiero.

La Morte ha un ruolo di rilievo nel pensiero medievale: per capire quanto essa sia compenetrata in ogni azione, in ogni aspetto interiore ed esteriore della vita dell’uomo di quel periodo, si devono fare alcune necessarie puntualizzazioni. La vita quotidiana era scandita da ore molto più pesanti delle nostre: la notte era completamente nera, come certamente poche volte a noi è capitato di vedere, l’inverno era spaventoso, il freddo un pericolo mortale, la violenza era brutale, la devastazione era totale, un bicchiere di vino era qualcosa di estremamente prezioso, le malattie una maledizione. Non esiste nella realtà medievale che un’unica e piatta dimensione: una emotività esasperata dovuta ai fortissimi contrasti che ne dominavano la scena.

Il violentissimo pathos che ha caratterizzato la vita medievale ha lasciato traccia di sé nella musica, nella pittura, nella cronaca: la stessa storiografia si compiace nella descrizione di atrocità di ogni sorta come di episodi di tenerezza indicibile, di fedeltà amorevole, cieca ed assoluta. ln questo quadro dobbiamo cercare di comprendere quale enorme importanza rivestisse la parola.

Essa è praticamente l’unico sistema di comunicazione, essendo la scrittura sconosciuta alle masse, la letteratura limitatissima e nota solo a una ristrettissima cerchia di nobili, religiosi o ricchi borghesi.

La parola, l’enfasi retorica, hanno un effetto enorme, ingigantito dall’arte figurativa, sempre delineata nei suoi aspetti marcatamente essenziali presenti tra le navate delle chiese, sotto le arcate dei cimiteri: luoghi questi di comunicazione per eccellenza. Veicolo di diffusione della cultura del periodo sono essenzialmente le corti ed i centri di culto.

Ci interessa sottolineare, nella ricerca della cultura della Morte nel Medioevo, come il memento mori » divenga uno dei punti centrali della coscienza popolare: « E quando si mette a letto, egli si ricordi che, come ora si corica da sé sul letto, presto il suo corpo sarà messo da altri nella tomba È Dionigi il Certosino che in poche righe riassume una filosofia divenuta popolare e diffusa da un fenomeno peculiare del Medioevo: quello dei predicatori pellegrini. Pensiamo che la parola del predicatore è l’unica forma di comunicazione che raggiungesse gli strati più umili della popolazione dell’Europa nel Medioevo. Sono gli ordini mendicanti che spargono la cultura della morte: l’immagine che ne deriva è nitida, efficace, sanguinaria, cruda, tutta tesa ad ammonimento violento sulla caducità di tutte le cose.

Ne sono ancora oggi testimonianza pitture e sculture macabre nelle cattedrali e nei cimiteri: corpi putrefatti, scheletri avvinghiati a corpi femminili, visioni apocalittiche e spettrali di ogni tipo. Il monaco predicatore sembra aver elaborato nei secoli dell’Alto Medioevo, in piena solitudine, negli eremi, al sicuro da pestilenze e guerre che insanguinavano l’Europa, quanto nella Bassa Epoca viene poi diffuso a livello di predicazione alle masse, dagli ordini mendicanti: il Medioevo esprime il tema della morte solamente concentrandosi sul memento mori: è la caducità delle cose terrene la vera filosofia della morte medievale.

Questo concetto, il tema della caducità della vita, assolve a due ordini di funzioni: è un sistema primitivo di persuasione nei confronti delle masse ignoranti circa il bisogno immediato di un pentimento necessario alla redenzione, ed è un moderatore politico, utile all’alleanza del potere civile col potere ecclesiastico, teso alla eliminazione di ogni emotività sociale.

Ritornando alla tematica relativa al forte pathos di cui era impregnata la vita nel Medioevo, accostiamola ora al pensiero vivo, immediato, lapidario della caducità della vita, così come tradotto in termini semplici e vigorosi dagli ordini mendicanti• e da una iconografia variopinta: ne traiamo uno scenario semplicemente spaventoso.

Il terrore della morte così si trasforma in paura della vita: negazione di ogni bellezza e felicità, come concetti temporali, caduchi, contrari all’etica religiosa quindi assimilabili al peccato. La vita è una prova tremenda a cui si viene sottoposti, il cedimento ai suoi piaceri comporta sicuramente una pena apocalittica nell’Aldilà, un mondo di morte che può essere vicinissimo.

Non poteva che essere vissuto così il pensiero della morte, in considerazione proprio della violenta passionalità dell’ambiente sociale del Medioevo: è un vero e proprio compiacimento, da parte dell’espressione filosofica medievale, quel sottolineare l’orrore ed il ribrezzo verso le malattie, i vermi, le interiora, la paura. Citiamo: « La bellezza del corpo si limita alla pelle… tutta quella grazia consiste di mucosità e di sangue, di umori e di bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola o nel ventre, non si troverà che lordume… ». Odone di Cluny. E ancora: « La donna concepisce con immondezza e fetore, partorisce con tristezza e dolore, nutre il figlio con peso ed angustia » è Innocenzo III. Il concetto, così utile agli scopi del pensiero corrente, della dissoIuzione del corpo, si accompagna spesso con disgustoso e morboso compiacimento al corpo femminile, rappresentante una delle più tremende vie del demonio per trascinare il fedele nell’inferno: ne parlano non solo i moralisti, ma anche i letterati ed i poeti cosiddetti cortesi; fino a Villon che canta della bella Heaulmière, la cortigiana:

« che cosa è diventata quella fronte liscia, quei capelli biondi, le sopracciglia arcuate, l’ampio spazio fra gli occhi,

il grazioso sguardo con cui mi prendevo i più furbi, quel bel naso diritto, né grande né piccolo, quegli orecchi piccolini, ben uniti, il mento forcuto il bel viso ovale e le labbra rosse? La fronte rugosa, i capelli grigi le sopracciglia cadute, gli occhi spenti… ».

Esiste in effetti una vera e propria familiarità quotidiana col cadavere, oggi sconosciuta. Basti ricordare come spesso, per personaggi di riguardo morti lontano da casa, si usasse tagliarne a pezzi i cadaveri, bollirli, dissecare accuratamente lo scheletro dalla carne e spedire poi colla dovuta pompa le ossa in una urna, a destinazione per una degna sepoltura.

La seconda funzione del concetto del Memento mori, il compito di moderatore sociale, non è di secondaria importanza: praticamente in tutta Europa, è presente il concetto della Morte come grande livellatrice, colei che fa giustizia, colei che riduce tutti al medeSimo denominatore. Si compiace il popolo di vedersi accomunato nell’orrore al Principe. È la grande epopea iconografica del Totentanz, la dance macabre, la danza della Morte. È definita un grande fatto culturale dagli storici del Medioevo. Dal punto di vista pittorico è un cedimento ad elementi popolareschi, in cui lo spettrale, la remmescenza antica del phantasma, si fonde con lo spirito religioso più « nero » , del tardo Medioevo.

Il Totentanz è presente in Francia, nel Nord Italia, in Germama ed in Spagna; rappresentazioni grafiche, in luoghi di culto (sono privilegiati i cimiteri), in cui si era soliti ascoltare le prediche dei monaci mendicanti: il cimitero degli Innocenti, a Parigi ospitava la Dance macabre forse più famosa del Medioevo.

Il Totentanz vedeva la Morte sotto le sembianze di scheletro paludato di un sudario macchiato dalla sua carne sfatta. A dire il vero nelle rappresentazioni più antiche i versi che accompagnano il dipinto indicano il danzatore come « Le mort », il morto, non « La morte », come appare invece più tardi: è il morto che viene ad accogliere se stesso e si trascina danzando la propria copia ancora viva nell’inferno. La Danza era dunque sempre condotta dal cadavere che cantando tiene per mano se stesso Imperatore, che trascina se stesso Papa, Vescovo, Principe, nobile, banchiere, mercante, bambino, e via fino all’ultimo gradino della scala sociale: una catena umana che cantando e ballando viene trascinata dalla Morte verso la fine. «Yo so la muerte cierta a’ todas criaturas » — e l’inizio della ballata i cui versi sono dipinti in una danza della morte spagnola.

La morte danzante: uno spaventoso specchio dell ‘uomo vivente che vede se stesso già decomposto venire a prendersi e trascinarsi via: « Siete voi stesso » ammonisce in versi la pittura — mai come in questo concetto il Memento mori è così terrificante: tu sei già morto, il tuo cadavere sta per venirti a prendere, le cose terrene, che tu sia l’Imperatore o l’ultimo dei sudditi, non ti servono a nulla; di fronte alla Morte si è tutti uguali. Non manca, in Germania una danza della morte tutta femminile, curiosa attenzione al sesso debole in un’epoca in cui godeva di scarso credito. Dice Huizinga « nella danza macabra femminile riappare l’elemento sensuale che attraversa anche il tema sulla bellezza trasformata in putredine »: da notare che in tutte le Dances macabres i personaggi sono sempre una quarantina; per questo motivo, nella espressione femminile, la Danza vede trascinate via, una avvinghiata all’altra, oltre a poche figure di mestieranti, come l’Imperatrice, la badessa, la cortigiana, la monaca, la levatrice, anche gli stadi di vita della condizione femminile: la vergine, la gravida, la vecchia, la fidanzata, ecc.

La cultura della morte non concede praticamente nulla alla delicatezza di un sentimento di vivo dolore per la scomparsa della persona cara; mi piace riportare però due spunti che derivano sempre dai versi dipinti che accompagnano la danza macabra che mi hanno colpito.

È la morte che cerca di consolare il contadino, spezzato da una vita di fatiche, che pur non vuole farsi trascinare verso la fine:

— O tu che hai lavorato con fatica e affanno, hai vissuto tutto il tuo tempo; ora devi morire, è cosa certa; tornare indietro non serve e non si può.

Della morte devi essere contento, poiché ti libero da un grande affanno ».

Ancora, i versi fanno dire al bambino portato via dalla morte, alla madre — bada ai miei giocattoli, alla mia bambola ed al mio bel vestitino —. E ancora, l’invocazione del bambino morto alla madre, perché smetta di piangere, il suo camicino si possa asciugare. Concludo con una osservazione: la Morte non è un fenomeno osservabile dal punto di vista scientifico, un fatto naturale come un’eruzione, una malattia. La Morte è un concetto immanente che ha condizionato l’esistenza stessa dell’uomo in modo differente: in funzione della sua capacità di vivere la Morte l’uomo si è dotato in maggiore o minor misura di strumenti per sopportarne il pensiero. Sulla tremenda esasperazione dell ‘angoscia per la fine, che il Medioevo ha costruito su di sé per esorcizzare la Morte, nasce una forza nuova: una autocoscienza consapevole della possibilità di affrontare la fine più serenamente, non tanto fidando su di una resurrezione incerta e comunque spaventosa, quanto sulla certezza di aver vissuto in una società di uguali e collaborato a costruirne una migliore: quello che poi abbiamo chiamato Rinascimentale.

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DELL’INTELLIGENZA

DELL’INTELLIGENZA di Amarilli

Sembra facile dire di una persona « è intelligente, è sciocca, è buona ». Ma un giudizio di questo tipo non può mai essere così categorico. Ben più sfumata è la materia. Definire un carattere, una personalità non è così semplice. Richiede la conoscenza dell’individuo, una indagine sul suo comportamento, senso psicologico, intuito, onestà di giudizio non deviati da un sentimento di simpatia o di antipatia preconcette.

Non esiste neppure un metodo scientifico per classificare l’intelligenza. Ciò può essere possibile con le piante, ma l’essere umano è assai più complesso dl un vegetale. ln esso esiste un certo che di indefinibile, di infinitamente particolare, che fa di ciascun individuo una eccezione.

Da cosa è formata la nostra intelligenza, la nostra capacità di giudizio, la nostra logica? L’intelligenza umana è in continua evoluzione, si forma, si trasforma e si deforma ogni giorno, senza mai raggiungere un equilibrio stabile. Le idee che vi germogliano, le teorie che vi si sviluppano, raramente si combinano in un insieme armonioso. Entrano invece in conflitto tra di loro. Siamo gli esseri più discordanti dell’universo. La complessità della nostra natura è determinata dagli eterni sussulti dei nostri sensi, della nostra immaginazione, della ragione, delle nostre tendenze innate — eredità ataviche, i nostri desideri, affetti, antipatie, i casi della vita, i casi fortuiti, le esperienze felici o deludenti, certe gioie, certi dolori che non dimenticheremo mai — se lasciano nella nostra mente la loro impronta incancellabile. E che dire delle contraddizioni della società in cui viviamo? Noi oggi constatiamo il costante affievolirsi di quelle tradizioni che già costituivano un richiamo sicuro, di princìpi che sembravano inalienabili, il cambiamento di costumi e il crearsi di una nuova morale, offerta con incessante martellamento dai « massmedia » , instancabili nel proporre una linea di vita nuova, un nuovo modo di pensare e di ragionare.

Dalla nascita abbiamo un numero infinito di precettori, educatori e corruttori. E poi ci siamo noi, come siamo fatti. Luci e ombre.

Senza una precisa volontà siamo come foglie al vento, possiamo orientare la nostra capacità di logica verso falsi obiettivi, o pigramente accettarci così come siamo, acriticamente, anzi con soddisfazione. Non vogliamo conoscere il nostro intimo caos.

Nelle passioni tutti gli uomini si somigliano. I loro pensieri diventano incoerenti quando sono impossessati da sentimenti come l’amore, l’odio, la collera. Senza accorgersene peccano mille volte contro la logica. E l’incapacità di interrogarsi, una certa pigrizia, costringono spesso l’uomo a vivere nelle contraddizioni, a non liberarsi da certe convinzioni preconcette, senza prova e senza esame. Un libero pensatore che non ha l’abitudine di pensare, si dichiara contro i preti, ma fa educare i suoi figli dai gesuiti. Vi sono poi individui che usano la loro intelligenza per riuscire nella professione e spesso lo fanno benissimo. Tuttavia, qualsiasi altro argomento li lascia indifferenti, non hanno dubbi o perplessità. La loro mente è a compartimenti stagni. Vi sono studiosi che, in fatto di scienza, applicano il metodo più severo, spingono l’analisi con scrupolo esasperato. Ma, usciti dal loro laboratorio, se si discute di storia, di religione, di politica, diventano approssimativi, superficiali.

Per una natura forte l’ordine, l’armonia sono esigenze imperiose. Per conoscersi a fondo l’uomo non deve avere una volontà fluttuante, confusa. Per essere dei grandi capi è necessario avere questo tipo di intelligenza, con il supporto di un animo nobile.

Ripeto, definire un carattere e, nel caso presente, misurarne l’intelligenza, è estremamente diŒcile. Sono considerazioni che si possono fare nei confronti delle persone che ci vivono accanto, o che dirigono la vita pubblica e incidono sul nostro sistema di vita. Ma, per citare un personaggio celebre, J. J. Rousseau, l’autore del « Contratto Sociale » e delle « Confessioni », rammento, proprio leggendo quest’ultima opera, nell’analizzare certi suoi comportamenti, il contrasto fra le idee dello scrittore e la consistenza dell’uomo. E poi ho compreso: gloria frammista a miseria. Era vissuto in una città in cui il dogma di Calvino aveva esasperato l’austerità e la disciplina ugonotte; l’atteggiamento mentale era rimasto ancorato a pregiudizi immutabili, un’esistenza meschina, un poco

triste della quale si vantava, fra piccoli borghesi che però si consideravano dei superuomini.

Quindi un nuovo ambiente, un prigioniero che prende il volo, fa un salto nel buio, la vita errante, l’amore per la natura fra le montagne, le grandi strade, un’immaginazione in continuo fermento, la Savoia, il Piemonte, un’abiura, un’apostasia, i figli naturali mandati in un orfanotrofio, la signora di Warens, i suoi capelli biondi, le sue lezioni e le sue concessioni, la Charmette, qualche anno di paradiso. Quanti elementi si sono combinati! Con suo padre, orologiaio, passava le notti in letture. Così realtà e fantasia convivevano.

E ancora: gli oltranzisti, chi non si contraddice mai, hanno spesso delle vedute limitate. E non sempre la logica è la parte migliore dell’intelligenza: esistono verità di sentimento che la ragione non conosce.

Riepilogando: incoscienti, pigri, indifferenti, improvvisatori, forti, coraggiosi, instabili, oltranzisti, genii, scettici, in questa interminabile ed affascinante galleria, per l’uomo comune, per lo psichiatra, per lo psicologo, quale materia di studio, quale impossibilità (o almeno diffcoltà), a catturare, e decifrare la linea retta dell’intelligenza!

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