I MISTERI DI BUSH BARROW

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I MISTERI DI BUSH BARROW
e del Tall Stout Man, il “gigante” di Stonehenge
(di Marisa Uberti)

Settembre1808, tumuli di Normanton Down Barrows, una necropoli britannica del Bronzo Antico (2.200- 1.500 a.C.) situata a sud del complesso megalitico di Stonehenge nella contea del Wiltshire, in Inghilterra.

Un intrepido archeologo dilettante, William Cunnington (1754-1810) e il suo mecenate Sir Richard Colt Hoare (1758-1838), antiquario, archeologo, artista e viaggiatore inglese, stanno da anni scavando centinaia di tumuli in tutto il Wiltshire meridionale. A livello scientifico, i loro scavi sono molto poveri, tuttavia la loro vasta campagna di indagini (450 tumuli, di cui 24 a Normanton Down) li farà annoverare come pionieri. Il loro lavoro è condotto con l’intento di restituire alla loro patria un’origine ben più antica di quella romana, di recuperare una storia pre-romana e “pagana” di quei luoghi “magici” che nel Medioevo erano stati associati con diavoli, streghe e quant’altro. Il sito di Normanton Down, con i suoi otto tumuli funerari, è uno dei più ampi del genere.

Bush Barrow sta per donare loro (1) grandi soddisfazioni. Tale nome, al luogo, è stato conferito nel 1720 da William Stukeley per via della presenza di cespugli che crescevano ai lati (bush=cespuglio) (2). Nessuno, fino all’arrivo di Cunnington e Colt Hoare, aveva però intrapreso un’indagine sistematica del sito. Eppure il tumulo parla da solo: lì sotto -pensano i due archeologi – nasconde sicuramente qualcosa di importante! Le dimensioni sono notevoli: 40 m di diametro per 3 m di profondità. Inoltre da questo tumulo si può vedere molto bene il complesso megalitico di Stonehenge, che dista mezzo miglio, perciò riservato alle persone importanti.

Il tumulo di Bush Barrow

Dagli scavi emerge una straordinaria sepoltura primaria con uno scheletro di sesso maschile inumato in essa, disposto su un asse sud- nord (capo verso sud) con un corredo di grande prestigio sociale, che ha fatto da subito ritenere che egli non fosse un personaggio qualunque ma di alto rango: la sua statura era decisamente superiore alla norma ed era stato adagiato sul pavimento anzichè nella fossa, cosa piuttosto insolita. Il femore dell’individuo era di 20 pollici, che corrispondono a circa 50 cm.

Il corredo

Quello che emerse alla vista di Cunnington lo possiamo soltanto immaginare. Poco oltre la testa erano sparsi pezzetti di legno frapposti a rivetti di bronzo, che hanno fatto ipotizzare la presunta presenza di un elmetto o scudo (ma non è certo), nel tempo disfattosi. Originariamente il defunto doveva avere tre pugnali, di cui solo due sopravvissuti fino a noi. I due pugnali con lama in bronzo hanno grandi dimensioni e sono stati classificati come appartenenti alla cultura Armorico-Britannica tipo A e B (Sabine Gerloff, 1976). Sarebbero elementi di rilevante importanza che indicano il momento in cui pugnali bretoni iniziarono ad essere prodotti nel sud della Gran Bretagna, mentre la produzione indigena di pesanti pugnali di tipo C doveva ancora cominciare. Il pugnale di bronzo più ricco era ornato con oltre 140.000 rivetti in oro minuti, disposti in modo da formare un percorso a zig-zag in fondo.
Ogni rivetto – sottile come un capello umano e non più lungo di un millimetro – era stato meticolosamente messo in minuscoli fori praticati singolarmente. Questo pugnale era unico e certamente degno di un re. Nella mano destra il misterioso uomo doveva avere un piccolo coltello-pugnale ma non è rimasta nemmeno la lama, che potrebbe essere stata di un materiale scadente, imparagonabile a quello dei pugnali. Le parti in legno delle armi erano andate completamente polverizzate mentre sono rimasti dei perni d’oro che avevano tenuto insieme i manici di legno e le lame. Al di sopra dei pugnali, per terra, vi era un gancio (resto di fibbia per cintura?) ricoperto d’oro. Un’ascia di bronzo era appoggiata sulla parte destra del petto come uno scettro e presentava lungo il manico degli anelli ossei a incastro; per terra, all’altezza delle cosce, vi era una mazza forata, in pietra di forma ovale, con con manico di osso su legno intarsiato dove, stando alla descrizione di Cunnington, c’erano dei piccoli serpenti decorati; la pietra in realtà lui non la definiva una mazza, ma una pietra perforata molto curiosa che non presentava tracce di usura o logoramento. Sul petto, come diremo tra poco in modo approfondito, era appoggiata una sorprendente losanga d’oro di circa 18 cm x 15 cm, e un’altra piccola losanga in foglia d’oro morfologicamente simile era situata per terra, quasi vicino alla mazza.

bush-01.jpg (72079 byte) Ricostruzione della sepoltura di Bush Barrow (3)

Fu trovato davvero in questa posizione, il defunto? Nella descrizione della scoperta, pare che questo non sia chiaro perchè mancano del tutto i disegni! Potrebbe invece essere stato in posizione raccolta o flessa su un lato, il sinistro (posizione considerata “normale” per un maschio anziano di quel periodo, deposto con dei pugnali) di conseguenza la posizione dei reperti cambierebbe. Ci sarebbe poi stata una quarta lama o un quarto pugnale messo deliberatamente in disparte oppure, secondo alcune ipotesi, poteva appartenere ad una sepoltura più antica!? Non va escluso che i tumuli in questione possano essersi sovrapposti, se così si può dire, a sepolture già esistenti e questo non è ancora stato indagato. C’è qualcuno che vorrebbe venissero fatti altri scavi perchè ci sono ancora dei misteri da chiarire, che rendono Bush Barrow più complesso di quanto si ritenga (4).

bush-02.jpg (120112 byte) Disegno del corredo ritrovato nella sepoltura (Annable e Simpson, 1964). Si ringrazia Wim van Mourik per la cortese segnalazione.

I gioielli ritrovati nella tomba vennero dapprima conservati, come sembrerebbe di capire, da Cunnington e in seguito nella collezione antiquaria di sir Colt Hoare, il quale li vendette poi all’allora Museo Archeologico del Wilthsire a Devizes. Ma qui si apre una parentesi alquanto oscura poichè la struttura, non disponendo di un sistema di sicurezza idoneo, non avrebbe esposto gli originali ma delle copie. I manufatti autentici vennero concessi in prestito al British Museum di Londra, che li espose a partire dal 1922. Solo nel 1985 i preziosi reperti vennero restituiti al Museo di Devizes ma furono conservati per decenni nel caveau di una banca perchè il Museo stesso non disponeva dei fondi per realizzare un’apposita galleria espositiva dotata di adeguati sistemi di sicurezza. Superati i problemi, oggi si possono ammirare al Wiltshire Heritage Museum di Devizes.

I reperti scoperti nel tumulo dove riposava il “gigante”, più alto della norma di 6 pollici (ovvero oltre 15 cm ma non conosciamo comunque la sua reale altezza), sono stati definiti come “i primi gioielli della Corona britannica”, se si ammette che egli fosse un re, al suo tempo. Ma non sappiamo nè il suo nome, nè chi fosse veramente. Il corredo lascia capire che il personaggio inumato fosse molto potente e forse accentrava su di sè tutti e tre i maggiori poteri: politico, militare e religioso/spirituale. In due tumuli adiacenti sono stati ritrovati oggetti altrettanto sontuosi e secondo gli archeologi potrebbe trattarsi di un clan familiare. Alcune fonti dicono che non è stata trovata selce da lavoro nell’area, il che farebbe pensare che questo luogo era del tutto a parte dalle attività quotidiane, quindi da considerarsi particolare. Potrebbe essere valida l’ipotesi che questo tumulo fosse direttamente collegato da una “passerella” di pietre a Stonehenge.

Cosa aveva a che fare il personaggio sigillato nel tumulo di Bush Barrow con questo monumento megalitico?

Alcuni studiosi hanno avanzato l’idea che egli ne fosse il committente/progettista, oppure uno dei membri della famiglia che lo costruì. Stonehenge è uno dei più famosi siti archeologici del mondo, anche per le sue correlazioni con l’archeoastronomia. Secondo alcuni la sepoltura di Bush Barrow è attraversata dal medesimo asse solstiziale che passa attraverso Stonehenge.

Lo scheletro del Tall Stout Man (sul quale non sono stati effettuati esami al radiocarbonio, da quanto si apprende) si troverebbe tutt’oggi all’interno del tumulo, ma sulla zona è stata fatta crescere l’erba da pascolo. Il cimitero dei tumuli si troverebbe in effetti su un terreno privato ma monitorato come patrimonio culturale inglese.

Il mistero della losanga d’oro

Un oggetto particolare spiccava sul petto del defunto: una losanga d’oro (fig. a). “Sul petto dello scheletro era un grande piatto d’oro, sotto forma di una losanga che misura 7 pollici per 6 pollici” la cui superficie è caratterizzata da losanghe concentriche che diminuiscono di grandezza gradualmente verso il centro. Un disegno a zig-zag è inciso finemente lungo il contorno esterno e presenta due piccole aperture che lasciano intendere che l’oggetto fosse portato come un pettorale dal suo proprietario e ne decretasse lo status. Un’altra losanga (fig. c), più piccola, costituita da un sottile foglio d’oro, era situata vicino al corpo, dalla parte destra. Anche la presunta fibbia (fig. b) è costituita da un disegno a quadrati concentrici.

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Le misure della losanga più grande (nota oggi come Bush Barrow lozange) le abbiamo già fornite poco sopra; abbiamo però una stima più precisa che proviene da una fonte sicura come è il curatore del Museo, il dr. Paul Robinson: 18, 5 cm x 15, 6 cm. Lo spessore è di 0, 5 mm. Il quadrato che presenta le minute incisioni a zig-zag misura 18 cm x 15,3. Ciascuna losanga è decorata con quattro linee parallele molto ravvicinate (che costituiscono la cornice di ciascuna, se così si può dire) e devono aver richiesto un lavoro di artigianato orafo molto preciso (tenendo conto dell’epoca di esecuzione, tra l’altro). L’esame particolareggiato del reperto denota che i vertici delle losanghe sono leggermente fuori asse e uno dei lati è lievemente più largo, forse a causa della curvatura del metallo (le immagini a disposizione non consentono grossi calcoli).

Alcuni vedono sulla losanga delle ulteriori incisioni o perfino caratteri che non sono mai stati convalidati.

Quando era ancora conservato al British Museum, lo splendido reperto subì un incidente (di cui ignoriamo le circostanze) e pare sia stata riparato -secondo alcuni- arbitrariamente (le sarebbe stato conferito un profilo “a cupola”). Non sappiamo se questo sia vero o meno, ma secondo alcune fonti in origine la losanga era piatta.

Alle due estremità longitudinali il gioiello d’oro presenta due fori dove era quasi certamente inserita la cordicella per appenderlo al collo. Sembra che quando venne trovato sul petto del Tall Stout Man, i due fori risultassero a destra e a sinistra. Le sue grandi dimensioni hanno fatto supporre che fosse parte di una corazza (era situata a livello dello sterno, da quanto si sa), ma ciò sembra essere stato totalmente escluso. Così come è da scartare un uso puramente decorativo. Il lavoro a zig – zag presente tra la terza e quarta losanga forma dei triangoli, esattamente 9 per ciascun lato (per un totale di 36), alternativamente con il vertice verso l’alto e verso il basso. Sugli stessi angoli dei fori, si notano due segmenti divergenti (d) di questo decoro, mentre agli altri due angoli il segmento è singolo (e). In entrambi i casi non muta il numero di triangoli, tuttavia nel secondo caso (come mostra la fig. e) parrebbe che il segmento divida il triangolo “maggiore” in due triangoli rettangoli mentre nei vertici che hanno il foro (fig. d) questo non si può verificare e si ha invece una sorta di “cuneo”. Tutto ciò ha un significato?

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Alcuni ipotizzano che il doppio segmento sia uno sbaglio di lavorazione, cioè l’artigiano non sarebbe stato in grado di dividere la lunghezza per soddisfare un numero esatto di triangoli e ha dovuto apportare questa piccola modifica su due dei quattro lati proprio per questo (far rimanere costante il numero di triangoli, 9 per lato cioè 36 in totale). In realtà a noi non pare si possa chiamare errore, perchè non costava niente, all’artigiano, fare un singolo segmento anzichè due (come si vede benissimo specialmente nel disegno della losanga, fig. h, più che dalle foto). Quel “cuneo” poteva costituire un dettaglio che, nel simbolismo conferito all’oggetto, aveva la sua importanza (in via dubitativa, perchè nessuno può saperlo).

Nel centro il reperto presenta nove quadratini, una sorta di “scacchierina” (f) che ricorda un Tic-Tac-Toe, una forma del gioco del tris. Tuttavia potrebbe essere interpretato come un “quadrato magico” anche se, in assenza di numeri o lettere, ciò è azzardato proporlo. E’ una ripartizione dello spazio centrale, la losanga più piccola, e come “centro” dello schema può assumere un valore importante.

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Qual’era la funzione della losanga d’oro che il Tall Stout Man portava sul petto?

In proposito, sono state partorite molte idee, come spesso succede quando mancano prove incontrovertibili. Essendo praticamente un unicum, il reperto non ha ancora una spiegazione consolidata e ufficiale. Vediamo di fare un elenco di alcune delle teorie che sono state proposte e che sono state anche pubblicate in alcuni libri o articoli, dai loro rispettivi autori:

Calendario astronomico. Alcuni ricercatori (come A.S. Thom) hanno analizzato la sua simmetria, credendo di individuarvi una correlazione con i quattro punti cardinali, ma non solo: le linee a zig-zag vengono interpretate come indicatori solari e lunari nei giorni astronomicamente significativi, il che sarebbe da considerare come un arcaico sistema calendariale. I resti dei rivetti in bronzo trovati sparsi nella sepoltura costituirebbero un’alidada, utilizzata con la losanga (debitamente posizionata) per osservare alba e tramonto per tutto l’anno alla latitudine di Stonehenge. In sostanza, la losanga costituiva un mezzo con cui osservare e registrare le misure angolari (azimut) senza usare la scrittura: essa stessa era un libro di testo per costruire il calendario, un’enciclopedia di riferimento (5). Di parere contrario a questa ipotesi è il prof. Adriano Gaspani che, da noi interpellato in merito (proprio in qualità di archeoastronomo), ci ha informato che sono speculazioni prive di fondamento scientifico perchè alla prova dei fatti non reggono (approfondiremo l’argomento in un prossimo aggiornamento).

Matura riflessione dei principi geometrici sviluppati dai progettisti neolitici che avevano usato per generazioni gli stessi semplici e raffinati metodi di costruzione per i monumenti in legno e pietra. La losanga sarebbe basata su una geometria studiata rigorosamente e fondata sull’esagono, realizzata con strumenti perduti da tempo. Alla base però c’era la geometria del quadrato e del cerchio. A sostenerlo è l’archeologo Anthony Johnson (6) che rafforza così la sua idea che Stonehenge sia stato progettato utilizzando niente di più che chiodi (o paletti) e corde. Lo studioso pone il problema che questi reperti a losanga (la più grande, fig.a, e la più piccola, fig. c) possano essere stati in circolazione ben prima della datazione del tumulo in cui furono ritrovati (circa 1.600 a.C.). Infatti egli dice che nessuno ha in realtà mai datato la losanga di Bush Barrow. Recentemente quest’ultima è stata accostata ad un altro reperto ritrovato in un tumulo funerario nel 1882 da Edward Cunnington (7). Si tratta di un’altra favolosa losanga d’oro emersa dal tumulo di Clandon Barrow, che domina il villaggio di Martinstown, nei pressi di Dorchester, nel Dorset. Sembra pacifico che questi reperti abbiano in comune una geometria studiata rigorosamente. Quella di Bush Barrow, sostiene Johnson, sarebbe basata sull’esagono e quella di Clandon sul decagono.

g h

Le due bellissime quanto misteriose losanghe d’oro a confronto: a sinistra quella ritrovata nel tumulo di Clandon Barrow e a destra quella di Bush Barrow. Il pezzo g misura 15, 5 cm x 11 cm (è quindi più piccolo del pezzo h), lo spessore della foglia d’oro è di 0, 08 cm.

Osservando i due esemplari possiamo fare delle considerazioni personali. Il pezzo g, Clandon Barrow, è costituito da sei losanghe concentriche mentre ci è ormai familiare che quello di Bush Barrow ne ha quattro (ricordando che ciascuna losanga ha una cornice di 4 linee parallele). La misura dei lati non è uguale Le singole losanghe, nel primo caso (g), sono più ravvicinate di quanto siano nel secondo (h) e lo spazio centrale è più ampio. Quest’ultimo (il cui lato esterno più lungo misura 5.92 cm e quello più corto 4,32 cm) presenta un bellissimo disegno, enigmatico, impostato su una croce centrale (indicatore di direzioni cardinali?) che divide il rettangolo in quattro ulteriori quadranti, ciascuno contenente dei triangoli (o semiquadrati), in numero di 4 nel primo e nel terzo, e di tre nel secondo e nel quarto (tenendo presente il disegno della fig. g). Se non considerassimo la croce, allora i semiquadrati diventerebbero uno in più per ciascuno, ma scomparirebbe la ripartizione. A seconda di come lo si osserva, il disegno sembra dare delle illusioni ottiche (l’oggetto andrebbe visto com’è realmente). Il reperto non è in ottime condizioni: è deformato e piegato su tutta la superficie; è presente un foro lungo un punto del perimetro tra la quarta e la quinta losanga (orientativamente per far capire, si veda questa immagine). Tuttavia i ricercatori hanno tentato di valutare, con discreto successo, le sue caratteristiche geometriche. La vicinanza dei tumuli in cui le losanghe sono state scoperte e la loro somiglianza morfologica ha fatto ipotizzare, ad alcuni studiosi, che l’artigiano fosse unico (8).

Ci piace aggiungere che in un tumulo adiacente a quello del Tall Stout Man sono stati rinvenuti oggetti d’oro molto belli, tra cui quello mostrato nella figura sottostante, secondo chi scrive particolarmente interessante per il motivo geometrico che riporta:

Dispositivo di memoria. Sono state avanzate teorie che individuano nella losanga di Bush Barrow gli stessi numeri aurei e rapporti matematico-geometrici insiti nei grandi monumenti di antiche civiltà come quella che ha costruito Stonehenge (naturalmente), quella Sumera, Egizia, Greca e Romana (9).

Un potente talismano o un accumulatore di energia, una sorta di circuito radionico utilizzato dal proprietario e che ne contraddistingueva il rango o il potere. E’ stata anche interpretata come possibile oggetto rituale e cerimoniale, di cui però non è stata data ulteriore spiegazione.

Un prototipo della “nostra” Triplice Cinta. A questo punto anche noi ci permettiamo di formulare un’associazione morfologica e con cosa se non… con lo schema del quadrato concentrico (Triplice Cinta)? Molti lettori avranno già probabilmente notato la somiglianza. Anche perchè esistono esemplari a tre, quattro, cinque e anche più…cinte! Sono rarissimi ma ne abbiamo documentati. Dai nostri assidui studi, sfociati nell’anno 2012 in un nuovo, corposo libro, sappiamo che la Triplice Cinta così come la conosciamo oggi e assimilata al gioco del filetto (che è solo uno dei suoi aspetti), non compare nelle incisioni su pietra o roccia prima della fine dell’Età del Ferro e l’inizio del periodo romano. I graffiti del Tempio di Kurna (1.350 a.C. circa) in Egitto, sono con ogni evidenza da datarsi al periodo copto se non dei Crociati (medioevo) e non possono costituire una prova di antichità così remota. Il caso di Bush Barrow (e di Clandon Barrow) rimette indietro la lancetta del tempo, sebbene un collegamento diretto con lo schema di una TC non è possibile, al momento, documentarlo con scientificità. Come abbiamo già ipotizzato e rimarcato nelle nostre ricerche, però, va perseguita la strada che porta ad una genesi simbolica di questo schema, sul cui significato abbiamo dedicato ampio spazio nel citato volume (10). Ci rammarichiamo del fatto che, al momento di pubblicarlo, non avevamo notizie sull’esemplare presentato in questo articolo.

Probabilmente la risposta all’enigma della losanga di Bush Barrow va cercata nel suo altrettanto misterioso proprietario, il “gigante” sepolto vicino a Stonehenge, e alla sua stirpe. Forse madre di quel druidismo che non aveva bisogno della scrittura per trasmettere e veicolare conoscenze riservate a pochi.

Torneremo sull’argomento appena acquisiremo ulteriori elementi di studio e/o aggiornamenti.

Note:

1) In realtà alla scoperta era presente solo Cunnington perchè Hoare si trovava in Galles ed è probabile che, avvertito, sia immediatamente andato sul posto, trovando lo scheletro e i reperti nella medesima posizione; da quanto si sa, il tumulo rimase infatti aperto per circa 18 mesi. Dalla corrispondenza intercorsa tra i due, si apprende che il 22 settembre (1808) Hoare si congratulò con l’amico per i suoi successi a Stonehenge, per cui si può ipotizzare che avesse aperto il tumulo alcuni giorni prima. Si hanno acquerelli, eseguiti da Philip Crocker, in cui Hoare è presente nel sito ma sarebbe arrivato dopo. In seguito entrambi i due pionieri pubblicarono, entusiasti, i risultati di quello scavo, ma separatamente: Hoare produsse due volumi intitolati “Ancient History of Wiltshire” (1812 e 1821), tuttavia sono le parole di Cunnington che si basano sulla diretta osservazione del momento in cui dissotterrò la sepoltura. Le sue note manoscritte sono conservate nel Wilthshire Heritage Museum in Devizes e sono state recentemente studiate dall’Università di Birmingham/Leverhulme.

2) Gli archeologi hanno dato in seguito un nome più tecnico di classificazione (Wilsford barrow G5).

3) Immagine tratta dal sito http://www.templeresearch.eclipse.co.uk/bronze/tomalin.htm

4) Si veda: http://www.archaeologyuk.org/ba/ba104/feat1.shtml

5) Thom, A.S “The Bush Barrow Gold Lozenge: Is It a Solar and Lunar Calendar for Stonehenge?” Louisiana Mounds Society Newsletter, no. 37, February 14, 199, v. http://www.science-frontiers.com/sf074/sf074a01.htm

6) Autore del libro “Solving Stonehenge : The New Key to an Ancient Enigma”, Thames & Hudson. vedasi una sintesi: http://www.solvingstonehenge.co.uk/page3.html

7) Era il nipote di William Cunnington, che scoprì il tumulo di Bush Barrow? Le fonti non lo dicono con certezza. Sembra che questo William sia nato nel 1825 e sia morto nel 1916.

8) John Coles and Joan Taylor “The Wessex culture: a minimal view”, Antiquity, XLV, 1971, pagg. 6-13

9) Ad esempio si veda questo “interminabile” e interessante studio di Martin Doutré: per Bush Barrow http://www.celticnz.co.nz/BBLOZ/BBLOZWEB1.htm (e sezioni seguenti); per Clandon Barrow http://www.celticnz.co.nz/Clandonwebsitefiles/Clandon1a.htm e sezioni seguenti

10) Marisa Uberti “Ludica, Sacra, Magica. Il censimento mondiale della Triplice Cinta” (self-publishing, 2012) – 2013

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LA MASSONERIA IN GALLIPOLI

LA MASSONERIA IN GALLIPOLI: Un secolo di Storia di
Vitantonio Vinci
Manca ad oggi un esauriente e specifico lavoro di ricerca storica che ci dia conto delle minute vicende che hanno segnato la nascita, lo sviluppo e l’ azione della massoneria in Terra d’Otranto.
Per tracciarne un breve profilo so tuttora utili i confronti con varie opere che nel contesto generale della storia del risorgimento fanno specifico riferimento alla nostra Provincia.
Ancor più difficoltosa appare la ricerca poi per quanti vogliono approfondirne la linea di penetrazione e proselitismo al fine di determinarne la nascita nella nostra città di Gallipoli.
Parlare naturalmente delle origini della massoneria in Provincia di Lecce significa rifarsi alla tradizione massonica napoletana dove i Liberi Muratori convergevano per gli studi a per la loro estrazione sociale. Si sa che ufficialmente la massoneria a Napoli nacque attorno al 1756 con la Loggia della Concordia retta dal Principe di San Severo Raimondo di Sangro.
La borghesia si preparava a raccogliere nelle sue mani il governo della cosa pubblica pur essendo ancora una minoranza, ma rappresentava la parte più attiva ed intelligente della società.
I capitali gradualmente passavano dalla nobiltà e dal clero nelle mani dei borghesi anche in virtù della trasformazione della proprietà che da feudale e latifondista diveniva borghese, mentre I ‘ agricoltura si sostituiva alla pastorizia. Ben presto perciò la borghesia si troverà alla testa della nuova società inaugurata dal dominio francese e spronata specialmente dalle nuove idee di eguaglianza e di sovranità popolare sancite dalla rivoluzione francese, pur rimanendo una esigua minoranza.
Il periodo che va dal 1807 al 1815 fu caratterizzato da un grande fervore sulla spinta data da Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino che della Massoneria, scissa nel 1808 nei due rami del rito scozzese e del rito riformato, fu “le grand maitre del l’ordre” di quello regolare scozzese che rimase in un campo dottrinario ed aristocratico.
All ‘incirca a questo periodo risale la costituzione in Gallipoli della prima loggia massonica ad opera di una ufficiale della guarnigione di stanza nel castello, un tal Ritelli, che “teneva adunanza nella casa del Barone Francesco Pantaleo”, come ci dichiara una cronaca nostrana, “con l’intervento di donne e a lumi spenti”
Fu immediato l’intervento del Vescovo di Gallipoli, Mons. Brancone che fece chiudere dal fratello Ministro di stato la loggia e trasferire l’ ufficiale Ritelli.
Prosperarono invece le vendite carbonare che si inserirono prepotentemente nelle lotte risorgimentali e antiborboniche, e la massoneria fini per promuovere il Circolo patriottico salentino presieduto dal fratello massone gallipolino Bonaventura Mazzarella.
Dopo I ‘Unità d’Italia venne subito riaperta la loggia leccese Mario Pagano, riunendo i vecchi liberali massoni “dormienti e i nuovi affiliati alla Giovane Italia” e rinacquero la loggia Archita a Taranto, la Salentina a Laterza e a Francavilla la Carlo Pisacane.
Grande promotore di questo risveglio fu Giuseppe Libertini del quale lo Stampacchia disse davanti al feretro del grande estinte il 1874 “Le sue aspirazioni son quelle del popolo – le sue opere sono esigenze del popolo – il suo scopo è quello che tiene dietro il popolo – le sue gioie e i suoi dolori sono gioie e dolori del popolo” ma che nonostante ciò aveva ricevuto ai funerali il rifiuto della croce da parte del clero leccese.
Fu il Libertini ad insediare a Gallipoli il 21 Aprile del 1866 la nuova loggia massonica nata ad iniziativa di Beniamino Ariotta, Emanuele Barba, Bonaventura Garzya, Giovanni Laviano, Domenico Palmisano, Carlo Rocci Cerasoli e Ferdinando Vetromile, scelti tra le persone più oneste e stimabili della città e che presero “l’impegno solenne di fedeltà verso il Grande Oriente ed il rito Scozzese Antico ed Accettato” spinti dalla volontà di essere nominati massoni e di “aprire a Gallipoli, città cospicua pel suo commercio ed una delle più importanti di questa provincia, un tempio alla verità”
Con verbali del 23, 24 e 25 Aprile lo stesso Libertini costituì ufficialmente la nuova loggia intitolata a Tommaso Briganti dandone contestualmente avviso al Grande Oriente di Firenze:
“Animanti dal desiderio di lavorare regolarmente per la gloria della Franca Massoneria ed il bene generale dell’Umanità, noi vi preghiamo di accordarci la costituzione che possa regolarizzare la nostra nuova [loggia] col titolo Tommaso Briganti di Rito A[ntico] S[cozzese] A[ccettato] conforme alle deliberazioni prese nei giorni 23, 24 e 25 Aprile 1866, C: V: Uniti a voi per legami di fratellanza ci sforzeremo colla nostra regolarità ed assiduità nei lavori di appagare i vostri voti.
Noi ci obbligheremo fin d’ ora di conformarci alla vostra Costituzione Massonica ai statuti e regolamenti generali dell’Ordine e di compiere con esattezza le obbligazioni ch’essi ci impongono.
Noi promettiamo e giuriamo e giuriamo solennemente e sinceramente di rimanere inviolabilmente uniti al Gr. Or. della massoneria in Italia ed al Supremo Consiglio del Rito Scozzese Antico e Accettato e di riconoscere quando voi lo farete le potenze massime in Italia.
Accogliete CC.FF. il triplice saluto fr. dai vostri affezionatissimi fratelli.
Il giuramento appena letto e pronunciato dai fratelli massoni gallipolini alla presenza del Libertini di Luigi Ottaviano, di C[arlo] Stasi e di Gabrio Cosentino, tutti della loggia Pagano di Lecce, resta oggi uno dei pochissimi documenti superstiti che ci documentano sulla loggia Briganti di Gallipoli.
Per il resto a parte frammentarie documentazioni e riferimenti si sa che la Massoneria a Gallipoli fu attiva soprattutto fin dopo il 1898 avendo avuto ad affiliati gli uomini migliori di Gallipoli per l’impegno politico e civile nonché per rappresentatività professionale e di ceto, pur essendo stati attivi animatori anche rappresentanti del mondo artigianale locale che si affacciava alle nuove prospettive industriali mancate poi in tutto il meridione per le note vicende congiunturali nazionali e strutturali locali.
Un dissidio tra i fratelli massoni fu causato al culmine dell ‘ esperienza “Bloccarda” nell ‘ambito delle sinistre per la contrapposizione di Stanislao Senape De Pace al deputato per il collegio di Gallipoli Nicola Vischi da Trani che prese l’incarico dato dal gran maestro Lemmi di ricostituire in Gallipoli la loggia massonica.
Ma nonostante ciò i fratelli massoni non si divisero e lo stesso Senape di fronte alle decisioni assunte dal Congresso socialista di Reggio Emilia, di divieto di appartenenza alla Massoneria, nobilmente e con orgoglio optò per la massoneria.’

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ALCHIMIA

ALCHIMIA
Un via per levigare la Pietra
di
Francesco Rampini
Non ci sono dati sull ‘inizio. Niente.
Non sappiamo niente dell’Universo, finché non raggiunge, dopo il Big Bang, l’età di un bilionesimo di trilionesimo di secondo (francamente, non so proprio come si può scrivere questa frazione. Troppi zeri).
Prima, all’inizio, non c’era nulla: spazio, tempo, luce, materia, suono, energia.
Che cosa ha prodotto il cambiamento che, partendo da uno stato di non-essere (mi risulta difficile definirlo in altro modo, magari in forma positiva), attraverso una fase di “instabilità”, ha fatto, infine, esplodere ciò che “una volta” era il Nulla?
Allo stato attuale della conoscenza scientifica non si hanno molte conoscenze in merito. Ancora: poiché l’ Universo è in espansione ed allo stato attuale delle cose oggi si sta ulteriormente allargando (possiamo paragonarlo, con una immagine abbastanza semplicistica, ma, certamente, efficace, ad un enorme pallone che si gonfia) e quindi, via via che si espande va ad occupare un qualcosa al suo “di fuori”, un qualcosa che….forse possiamo concepire come Spazio? no di certo. E questo perché lo spazio esiste solamente “dentro” l’ Universo e non “fuori” ove, come è stato prima definito c’è solo un nulla spaziotemporale.
Direi proprio un bel rompicapo.
Il problema vero, prima di risolvere il quesito di come è nato l’ Universo (ed anche scoprire perché è nato), è di capire, addirittura, che “cosa è” la materia che costituisce tutto ciò che esiste.
Mi ricordo, da ragazzo, quando leggevo i primi libri “esoterici” – erano tutte vecchie edizioni, ingiallite, con quell’odore di polvere che, ancora oggi, mi è rimasto nelle narici – la disputa annosa, ed allora ancora non risolta, tra i sostenitori della teoria “Spiritualista” e quelli della teoria “Materialista”.
Era il classico problema di lana caprina.
Il background individuale (derivante dalla somma algebrica di molteplici fattori – di cultura individuale, sociologici, di educazione familiare, educazione religiosa, e così via -) faceva sostenere, con vigore – ed a volte anche con ferocia – una o l’ altra tesi. Non importa quale: l’importante era fare una scelta di campo. Se eri uno scienziato, per non essere “traditore”, dovevi essere Materialista. Tutti gli altri potevano essere, a scelta, anche Spiritualisti.
Francamente, io, allora, non capivo molto bene la dinamica dei processi mentali che portavano alla “scelta” e tutte le discussioni (nei libri, articoli su riviste “specializzate”, nei salotti, nei corpi rituali) che ne derivavano. Né capivo molto bene l’oggetto del contendere, nella sua sostanza.
Ma poi, mi ricordo, che un giorno – ero sempre molto giovane – appresi un nuovo termine.
Era sanscrito: Maya.
Il significato di questa parola, o, per meglio dire, di questo concetto, che si perde nella notte dei tempi, tradotto in italiano, approssimativamente, vuol dire “la Grande Illusione”.
Alcuni Maestri Passati, appartenenti, almeno formalmente, a differenti tradizioni, collocate in uno spazio-tempo lontane tra di loro, avevano intuito la “grande verità” che ha causato e quindi realizzato la formazione I ‘ Universo; ed intendevano I ‘Universo in modo intimo, quasi vivendolo “dal di dentro” – essendo loro stessi elementi costitutivi e consapevoli dello stesso – al contrario di noi che, ancora oggi, nella gran parte dei casi, lo viviamo solo attraverso gli stimoli (per lo più esterni) che ci provengono dalle nostre sensopercezioni.
Ad onor del vero, se vogliamo vedere le cose con una certa obiettività, anche la nostra Tradizione Scientifica, quella occidentale, si è avvicinata, in più di una occasione, ad un qualcosa di analogo.
Democrito cercò di capire quale fosse il “mattone” fondamentale di tutto il mondo da lui conosciuto ed arrivò a teorizzarlo, dandogli il nome storico diAtomos (letteralmente “in-divisibilë”). Ma quando si incominciò a passare, grosso modo nel 1600 – basti ricordare solo Galileo e Newton – dalla scienza come Filosofia, alla Scienza, come oggi viene molto più correttamente intesa (le leggi scoperte e/o teorizzate, stabiliti determinati parametri di funzionamento, debbono sempre essere valide), si è arrivati a considerare, in modo sicuramente superficiale ed a volte anche causa di grossolani errori, come vero solo quello che era possibile osservare, pesare, misurare, sezionare
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Per spiegare I ‘Universo Isaac Newton, fornisce una sua teoria, non troppo lontana da ciò che asseriva, a suo tempo, Democrito: …mi sembra probabile che Dio al principio abbia creato la materia sotto forma di particelle solide, compatte, dure, impermeabili e mobili, dotate di tali dimensioni e forme….. da essere le più adatte al fine per il quale egli le aveva create; e che queste particelle originarie, essendo solide, siano incomparabilmente più dure, da non poter mai consumarsi o infrangersi…” I
Secondo Newton, quindi, Dio creò le particelle materiali, le forze che agiscono su e tra esse, e le leggi fondamentali del moto. Una volta avviato I ‘Universo, questo ha continuato a funzionare, come una macchina perfetta.
Questo equilibrio, così immutabile e privo di difetti, incominciò a vacillare quando Maxwell e Faraday, con i loro studi, teorici ed empirici, sull’elettromagnetismo, arrivarono a sostituire il concetto di Forza, con quello di Campo di Forze.
In altri termini: nella visione newtoniana le forze erano connesse rigidamente ai corpi sui quali agivano; il campo di forze poteva, invece, essere studiato e misurato senza alcun riferimento diretto ai corpi materiali.
Una vera e propria rivoluzione concettuale.
Nei primi tre decenni del ‘900, sono però avvenute le scoperte che hanno radicalmente cambiato la concezione dell’enormemente grande e dell’ infinitesimamente piccolo: la definizione della teoria della relatività lo sviluppo della fisica atomica.
I pilastri della concezione newtoniana sono stati a questo punto decisamente infranti: sono sparite le nozioni di spazio e di tempo assoluti e di particelle solide elementari. Cioè: la natura strettamente causale di fenomeni fisici ed una natura descritta in modo assolutamente oggettivo.
Per capire meglio come le cose siano cambiate rispetto alle concezioni precedenti, basti pensare solo all ‘ assoluta mancanza di termini di riferimento su misure, ordini di grandezza e scale a disposizione della nostra cultura tradizionale scientifica quando si parla dell ‘ estremamente piccolo.
A tale proposito mi ha colpito l’immagine che F. Capra dà dell ‘ atomo: “Il diametro di un atomo è circa un centesimo di milionesimo di centimetro. Per visualizzare questo minuscolo oggetto, immaginate un’ arancia che cresca fino a raggiungere le dimensioni della Terra. A questo punto, gli atomi dell’ arancia sarebbero grandi come ciliege. Miriadi di ciliege, strettamente impacchettate in un globo delle dimensioni della terra: ecco un’ immagine ingrandita degli atomi di un’ arancia. Un atomo, quindi, è estremamente piccolo rispetto agli oggetti macroscopici. Tuttavia è enorme se confrontato con il suo nucleo, che sta al centro. Nella nostra immagine degli atomi-ciliege, il nucleo di un atomo sarebbe così piccolo che non potremmo vederlo. Se facessimo crescere l’atomo fino alle dimensioni di un pallone da calcio, o anche fino alle dimensioni di una stanza, il nucleo sarebbe ancora troppo piccolo per essere visibile ad occhio nudo. Per poter vedere il nucleo dovremmo far crescere l’ atomo fino alle dimensioni della cupola di S. Pietro. In un atomo di quelle dimensioni, il nucleo sarebbe grande quanto un grano di sale e gli elettroni quanto dei granelli di polvere”. 2
Ma la cosa che più fa riflettere è che la realtà nel subatomico non è oggettiva, ma è relativa al modo con cui viene rilevata: le unità subatomiche della materia sono entità astratte che presentano un carattere duale. Se vengono analizzati i fotoni (i trasmettitori della luce), a seconda di come li osserviamo essi sono particelle oppure onde. Il fatto, a prima vista, è sconcertante: è come dire che lo stesso mammifero può essere, in funzione degli strumenti di osservazione, un essere umano oppure un delfino.
Oggettivamente due cose diverse. Ma c’è ben altro.
La cosa ancora più sconcertante è che la materia subatomica non si trova con certezza in luoghi ben precisi, determinati ma, piuttosto, questa ha una tendenza ha trovarsi in un determinato luogo e gli eventi atomici in realtà non avvengono con certezza ma hanno “tendenza ad avvenire”. Secondo leggi di probabilità.
Ebbene: le particelle subatomiche che costituiscono l’ atomo stanno insieme, si annichiliscono, si fondono, danno vita ad altre particelle, secondo criteri probabilistici. Tutte queste contraddizioni hanno dato luogo ad infinite discussioni, a paradossi fino ad arrivare alla formulazione della nota teoria dei quanti. Max Plank scoprì che l’energia della radiazione termica non è emessa in modo continuo, ma si presenta sotto forma di “pacchetti di energia”, pacchetti che Einstein ha definito, appunto, “quanti”.
Bene: le particelle subatomiche oggi conosciute, che non sono i mattoni fondamentali dell’Universo (cioè il qualcosa non più divisibile – che resta ancora da scoprire -), sono definibili come “pacchetti di
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energia”
Allora gli atomi che sono composti da particelle subatomiche sono energia, noi siamo energia, la Terra è energia, il “vuoto” (che è percorso in lungo ed in largo, a velocità prossima a quella della luce, da particelle subatomiche) è energia, l’ Universo tutto è energia.
Ha senso quindi parlare di sentirsi “Materialista”; ancora meglio: che senso ha autodefinirsi “Spiritualista”? Il fatto è che il mondo che ci circonda, semplicemente, in una realtà assoluta non esiste; esiste solo come noi lo vediamo, con i sensi molto limitati di cui disponiamo. Tanto per dare un’ idea, i nostri occhi su uno spettro elettro magnetico (dai raggi cosmici, raggi x, onde luminose, fino ad arrivare alle onde radio), che va da una frequenza di 1028 a 106 riescono a percepire solamente un intervallo che va, approssimativamente, da 10 14 a 10 15 . Praticamente niente!.
Se andiamo a considerare l’evento fondamentale di tutta la vita – di qualsiasi essere vivente – dopo la propria nascita è certamente l’ annichilimento, o per meglio dire: la morte; Ma noi sappiamo che questa, in senso stretto, in Natura, non esiste.
Procedimenti chimici abbastanza complessi trasformano tutta una serie di aggregati morfologici in sostanza elementari, sicuramente meno sofisticate. Gli atomi e le particelle subatomiche che costituiscono il corpo fisico continuano imperterrite a vagare ed a scontrarsi anche “dopo”, secondo i noti criteri probabilistici di cui si è accennato. In definitiva, “dopo”, niente va a cambiare. Per loro. La vita che tiene in piedi e ordina tutto continua imperterrita il suo percorso.
Il corpo fisico, inteso invece non come complesso di acqua ed altri elementi chimici ma come entità individuata, come tutti sappiamo, dopo la morte non c’è più; ci sono, al suo posto, come abbiamo già accennato, i componenti-base che lo hanno costituito ed alcuni di essi si sono un po’ trasformati.
Il problema vero, per noi – che il “dopo” vuol dire indiscutibilmente “morte” -, è di stabilire che fine farà la nostra coscienza, se resterà e cosa resterà, della nostra individualità.
In altri termini: dopo la morte cosa resta di noi, che abbiamo un nome ed un cognome? Come andiamo ad interagire con un meccanismo di Natura, praticamente perfetto, che funziona nell’immensamente piccolo e nell’inifinitamente grande? Che ruolo abbiamo – o non abbiamo – in un Universo ove la Vita (che, come si è visto, è in definitiva il “sistema” con forti accentuazioni probabilistiche che tiene in piedi tutto) regna e detta le sue leggi su tutto e tutti?
La Tradizione Ermetica ha affrontato (come gli indiani che ci raccontano di Maya, la Grande Illusione), questo problema un bel po’ di tempo fa, sfrondandolo da un inutile misticismo, cercando di compenetrarlo nella sua essenza, enunciando le leggi che regolano l’Evoluzione. Rivestendo il tutto, di contro, di un linguaggio quasi incomprensibile ed ha utilizzato, nel farlo, una notazione particolare: il Codice Alchemico.
L’Alchimia, quindi, attraverso la Tradizione Ermetica, ci parla della Vita, della sua essenza, della sua origine e del suo divenire. Guardando il tutto secondo il punto di vista dell’Uomo, inteso come essere complesso e globale.
I I. Newton – Scritti di Ottica, libro 3, parte I questione 31, Utet 1978, pag. 600
2Fritjof Capra – Il Tao della Fisica – Adelphi 1982 – pag. 78
IL LABORATORIO
periodico bimestrale
Collegio Circoscrizionale della Toscana
Grande Oriente d’Italia
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LA CANONICA DI MONTIERI

La Canonica di San Niccolò a Montieri (GR)

(Paolo Galiano)

Gli archeologi dell’Università di Siena, sotto la direzione della Prof.ssa Giovanna Bianchi, hanno riportato alla luce, grazie alla segnalazione di un gruppo di giovani di Montieri guidati da Oriano Negrini, i ruderi di un insediamento sul Poggio di Montieri (GR), a circa 2 km ad ovest di questa cittadina delle Colline Metallifere situata tra Massa Marittima e Siena: le operazioni di scavo, iniziate nel 2008 e completate nella prima fase nel 2014, hanno rivelato l’esistenza di un piccolo centro costruito su di un terrazzamento artificiale, la Canonica di San Niccolò, di cui si era perso anche il ricordo, costituito da alcuni edifici destinati a lavorazioni artigianali, un’area adibita a cimitero ed una chiesa di pianta esapetale. La parte più importante della scoperta è stata la chiesa, in quanto essa presenta una rara pianta circolare su cui si aprono sei absidi disposte radialmente, rientrando così nella tipologia delle chiese definite per la loro forma “chiese esapetali” o “esaconche”, di cui costituisce un esemplare per ora unico nel suo genere in Italia e poco adoperato in tutta Europa, dall’Italia al Caucaso[1].
In attesa della pubblicazione ufficiale e completa del ritrovamento è interessante presentare alcune notizie su di esso, in quanto una pianta così insolita suscita numerose domande sulle sue origini, sui suoi committenti e sulle maestranze che l’ha costruita, ma anche sul significato della particolare struttura.
Le fonti scritte medievali dànno notizia della Canonica solo a partire dalla prima metà del XII secolo e fino alla metà del XIV, senza nulla dire circa la data della sua costruzione: gli elementi al momento disponibili indicano che la chiesa esapetale è stata costruita nella prima metà dell’XI secolo, ma il sito è stato frequentato fin dall’antichità, visto che nello scavo è stata recuperata una punta di freccia del tipo detto “di Rinaldone”, periodo preistorico che si fa risalire al IV-III millennio a.C., e vi sono segni di un primo insediamento di IX-X secolo, desumibili dai reperti ceramici e da altri elementi ritrovati nello scavo, ma troppo scarsi per poter definire forma e funzione di questo primo abitato[2].
La struttura architettonica della chiesa esapetale costituisce “il solo esempio di questo genere in Italia”[3] e viene definita “un unicum nel panorama italiano… e, vista la regolarità delle absidi e della loro disposizione spaziale, possiamo ipotizzare che la chiesa venne costruita in conformità a un progetto di alto livello elaborato secondo precise regole geometriche”[4]: le maestranze che la edificarono non potevano consistere in semplici lavoratori locali ma dovevano essere “di alto livello tecnico”, lapicidi che utilizzarono “pietre ben squadrate di medie dimensioni disposte in maniera regolare lungo filari orizzontali[5]. Chi fossero le maestranze che eressero la Canonica è possibile solo congetturarlo, e, data la presenza nella regione già nei secoli precedenti dei cosiddetti “Maestri Comacini”, architetti e lapicidi di grande valore che lavorarono in Italia e in tutta Europa, forse potrebbero essere stati essi i costruttori dell’edificio liturgico. I suoi committenti sono altrettanto ignoti, ma si doveva trattare di personaggi di particolare rilievo, considerati i costi di un’opera del genere. Diverse le possibili ipotesi (i Vescovi di Volterra? i conti della Maremma, quali i Pannocchieschi, i Gherardeschi o gli Aldobrandeschi?), ma è anche possibile pensare a qualche esponente della piccola ma potente aristocrazia terriera locale, di diretta discendenza dai Longobardi che fin dal VII secolo avevano preso possesso della Tuscia.
Tra gli elementi ancora misteriosi emersi dagli scavi occorre citare in particolare la piccola fossa scoperta nel pavimento della chiesa esapetale, scavata quasi di fronte all’ingresso principale, contenente nello strato superficiale residui carboniosi (resti di un fuoco rituale?) misti con i frammenti di un calice di vetro (oggetti di vetro sono frequenti nelle necropoli longobarde come segno di distinzione sociale[6]) e più in profondità uno splendido gioiello, ora esposto alla Pinacoteca di Siena, una fibula del tipo “ad umbone” o forse un filatterio pettorale, gioiello di eccellente fattura in oro, smalti, paste vitree e pietre semipreziose, la cui origine non è al momento nota[7].
Ancora più importante è stato il ritrovamento in un ambiente quadrangolare, annesso ad uno degli absidi della chiesa e comunicante con essa tramite una porta, contenente lo scheletro di un personaggio maschile: la sepoltura è di sicuro precedente la costruzione dell’edificio liturgico (gli archeologi la fanno risalire con la tecnica del C14 al 1030 circa), e questo indica che la chiesa è stata costruita allo scopo di onorare e proteggere la tomba dell’ignoto. Si tratta di un’usanza molto frequente fin dal periodo delle tombe dei Martiri cristiani e che proseguì per tutto il Medioevo, e, considerata la storia della regione in cui la Canonica si trova, molto caratteristica delle necropoli dei Longobardi. Bisogna precisare che nulla di riferibile al mondo longobardo è stato trovato negli scavi della Canonica e quindi si tratta solo di un’ipotesi, per altro suffragata dalla presenza almeno fino al pieno Medioevo a Montieri (come nel resto della Toscana) di una classe signorile, i “Lambardi” o “Lombardi”, di sicura origine longobarda.
Intorno alla chiesa sono state trovate le sepolture di almeno trecento individui[8] i cui resti, con il test del C14, possono essere datati tra seconda metà dell’XI e il XIII secolo; quindi il cimitero avrebbe iniziato a formarsi in un’epoca di poco posteriore alla prima sepoltura privilegiata e sarebbe perdurato a lungo nel tempo, segno dell’importanza della Canonica come luogo di culto.
Il mistero che avvolge il personaggio per cui la chiesa venne costruita non trova alcun riscontro scientifico che possa darne spiegazione, ma alcune leggende tuttora presenti a Montieri e in alcuni paesi limitrofi, incentrate su di un Cavaliere e un tesoro che egli porta con sé, possono aprire qualche spiraglio di luce. L’analisi di esse, per mezzo delle indicazioni formulate dal russo Propp e dall’americano Campbell nello scorso secolo[9] sulle cosiddette “fiabe di magia”, consente di riconoscerne i caratteri, trasformati in favola dal passaggio nel folklore popolare, di un mito e di un rito iniziatico, che presentano tutte le caratteristiche presenti in miti e riti analoghi.
Secondo il testo riassunto da Negrini[10] un Cavaliere giunge a Montieri in pericolo di morte, “gravemente ferito e grondante sangue” secondo le parole della leggenda, e “fu ridestato dalla sua catalessia”, stato che si può interpretare come il momento culminante dell’iniziazione, in cui si deve attraversare (e non solo metaforicamente) il Regno dei Morti, solo grazie alla cura di alcune donne, entità femminili capaci di “guarire” che possono essere identificate con entità “angeliche” protettrici, quali le Lasa etrusche o meglio le Fravashi iraniche, considerando che i Longobardi avevano la loro lontana origine nel mondo indoiranico. Con la sua guarigione il Cavaliere dona alle “donne” i tesori che ha portato con sé, donazione che potrebbe significare, come insegna Campbell[11], che l’eroe è arrivato al di là della condizione “angelica”, cioè della condizione intermedia tra l’essere umano e il suo Principio, per cui può “arricchire” il mondo angelico con la sovrabbondanza del suo “stato glorioso”.
La complessità dei significati contenuti nella chiesa di Montieri può trovare una spiegazione nella pianta stessa della chiesa, costruita sulla base di una serie di semplici intrecci di cerchi nei quali si ravvisa però una sapienza profonda, che apre la strada a molteplici meditazioni sul simbolismo geometrico di essa. Come si vede dalla figura, i sei cerchi che descrivono le sei absidi vanno a formare il cosiddetto “Fiore della Vita”, che costituisce uno degli elementi iconografici presente nell’arte di tutto il Medioevo europeo (e che non costituisce, come si crede, un motivo iconografico esclusivo dell’Ordine dei Cavalieri Templari), formato da sei “mandorle”, la figura geometrica entro la quale viene raffigurato il Cristo o la Madre sul portale delle chiese, nei mosaici o nei dipinti. La mandorla, o vesica piscis (con riferimento anche al Cristo il cui acronimo in greco dava la parola ΙXΘΥΣ, pesce), costituiva nel Medioevo il simbolo per eccellenza della “porta di passaggio” dal divino all’umano, dall’invisibile al visibile, dal sacro al profano, una porta di transizione fra i due mondi attraverso cui il divino si manifesta e al tempo stesso consente all’umano di divinizzarsi.
A sua volta l’esagono inscritto nel cerchio di base determina la formazione, per mezzo del prolungamento dei suoi lati, di un doppio triangolo incrociato, il Sigillo di Salomone, immagine dell’unione del Maschile e del Femminile, la “punta” maschile e il “vaso” femminile, in Alchimia il simbolo dell’unione del Fuoco e dell’Acqua.
L’analisi completa del simbolismo della chiesa a sei petali porterebbe il discorso al di là dei limiti di un articolo, ma quanto detto forse è sufficiente a stimolare la curiosità dei lettori più attenti di conoscere un luogo ricco di storia, di fascino e di magia qual’è la Canonica di Monti
NOTE
[1] La chiesa esapetale di Montieri e le costruzioni simili presenti in Europa nonché l’analisi del possibile simbolismo della pianta a sei absidi sono oggetto di un saggio pubblicato da GALIANO Le chiese del Fiore, ed. Adytum, Lavarone (TN) 2015, dal quale sono tratte le informazioni qui esposte.

[2] BENVENUTI, BIANCHI, BRUTTINI, BUONINCONTRI, CHIARANTINI, DALLAI, DI PASQUALE, DONATI, GRASSI, PESCINI Studying the Colline Metallifere mining area in Tuscany: an interdisciplinary approach, in “IES yearbook”, 2014 pagg. 261-287.

[3] FERDANI e BIANCHI 3D survey and documentation in building archaelogy, in “Institute of Electrical and Electronics Engineers”, Ottobre 2013.

[4] FALLERI Archeologia delle architetture del complesso ecclesiastico medievale della Canonica San Niccolò: analisi degli elementi architettonici, Università di Siena, tesi di Dottorato anno accademico 2010-2011 pag. 30.

[5] FALLERI Archeologia delle architetture cit. pag. 23.

[6] PAROLI La necropoli di Castel Trosino: un laboratorio archeologico, in L’Italia centro-settentrionale in età longobarda, Atti del Convegno, Ascoli Piceno, 6-7 Ottobre 1995, Firenze 1997.

[7] Prossima la pubblicazione di BIANCHI, MITCHELL, AGRESTI, OSTICIOLI, SIANO, TURBANTI MEMMI, PACINI La fibula di Montieri (GR). Indagini archeologiche alla Canonica di S. Niccolò e la scoperta di un gioiello medievale, in “Prospettiva”, ed. Centro Di, Firenze, fasc. 155-156

[8] BENVENUTI et al. Studying the Colline Metallifere mining area in Tuscany cit.

[9] PROPP Morfologia della fiaba (ed. Newton Compton, Roma 1992 – I edizione russa 1928); Id. Le radici storiche dei racconti di magia (ed. Bollati Boringhieri, Torino 1985 – I edizione russa 1945). CAMPBELL L’eroe dai mille volti, ed. Guanda, Parma 2000 (I edizione USA 1949).

[10] NEGRINI La leggenda del Re Minatore, ed. Effigi, Arcidosso (GR) 2014 pagg. 52-53 e pag. 61.

[11] CAMPBELL L’eroe dai mille volti cit. pag. 41.

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PRIMA DI CONCLUDERE QUESTO LAVORO . . .

Prima di concludere questo lavoro, vorrei rendervi partecipi di una conclusione cui sono arrivato interpretando i discorsi di Sai Baba in chiave psicoanalitica.
In pratica, siccome la psicoanalisi dice che l’inconscio dell’uomo appartiene al Reale e dato che il Reale secondo i credenti è Dio, se ne potrebbe dedurre che l’inconscio dell’uomo altri non sia che Dio stesso, oppure che Dio controlli l’inconscio dell’uomo. In questo modo, il libero arbitrio dell’uomo, così ampiamente sbandierato da più parti, diventa quanto meno discutibile, perché i suoi stessi pensieri, se non totalmente originati dall’inconscio, sono comunque costantemente condizionati dal suo influsso.
Nel “Gioco Autentico” avevamo già detto che l’Io Reale dell’uomo è Dio, però non avevamo fatto questa semplice associazione, con la quale, visto che l’Io Reale è inconscio, allora, anche Dio è inconscio, oppure, che Dio è anche nell’inconscio (visto che è dappertutto).
Già solo questa premessa spiegherebbe il perché, alla domanda: “Dove sta Dio?”, i cattolici e gli hindù rispondano in maniera differente, infatti, i primi, per indicare la residenza di Dio, puntano il dito indice verso il cielo; i secondi, invece, lo rivolgono verso sé stessi, nella regione del cuore.
Comunque, proviamo a vedere se nell’affermazione, “La dimora di Dio è l’inconscio dell’uomo”, ci sia almeno un minimo di fondamento logico.
Sai Baba dice che l’Io Reale dell’uomo altri non è che Dio stesso e nel Gioco Autentico, utilizzando le teorie psicoanalitiche freudiane e lacaniane, eravamo arrivati a capire che l’ipotesi era tutt’altro che inverosimile; infatti, in quel contesto avevamo dedotto che, se consideriamo Dio come “il Tutto, preso nella Sua totalità e contemporaneità”, ne viene fuori che l’universo intero, non è altro che una Sua creazione immaginaria (le forme) e simbolica (i nomi), una produzione che si sviluppa e si dispiega secondo una logica di Gioco. Dunque, nel suo insieme, la vita non sarebbe altro che un gioco organizzato da Dio, con dei partecipanti, delle Regole, dei Ruoli e dei risultati conclusivi.
Ora però, guardando la stessa cosa da un punto di vista psicologico, potremmo aggiungere che, se Dio nella sua interezza è un unico “Io”, per creare “i partecipanti” nel contesto del Gioco della Vita, Egli si deve moltiplicare in innumerevoli “Io”; perciò, visto che Dio è “l’Io Reale” da cui scaturiscono tutti i partecipanti, se ne deduce che ogni individuo è portatore di un frammento di quell’unico “Io Reale” che è Dio; oppure, viceversa, che l’insieme degli “Io individuali” fanno un unico “Io” (il Brahman, Dio), proprio come l’insieme delle cellule, viventi ed apparentemente autonome, formano l’unico “Io” dell’individuo.
Detto questo possiamo aggiungere un’altra cosa: se viene accettato da tutti gli psicoanalisti che l’inconscio appartiene al Reale, e che esso tende a manifestare la sua presenza con i sintomi più svariati (tra i quali ricordiamo i lapsus, gli atti mancati, i sogni ecc.) e se noi accettiamo l’idea che Dio è il Reale unico (il Tutto preso nella sua contemporaneità), allora, potremmo dedurre che l’Uno (Dio) ha a disposizione l’inconscio di ciascuno (l’Io Reale individuato) e lo può gestire a piacimento.
Capisco che può sembrare un’affermazione folle (ma lo stesso Freud fu considerato un pazzo quando parlò dell’inconscio la prima volta), però, seguitemi con pazienza ancora un po’ e poi traete le vostre conclusioni.
Se proviamo ad osservare la fisiologia del nostro organismo, ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza delle nostre funzioni sono inconsce ma, soprattutto, autonome (il respiro, il battito cardiaco, la digestione ecc.); infatti, i fisiologi distinguono il sistema nervoso in due componenti: un sistema nervoso centrale nel quale interviene la nostra volontà (anche se solo in parte) ed un sistema nervoso autonomo, che funziona da solo e che noi non comandiamo, se non in misura modestissima, per quanti sforzi facciamo.
A grandi linee, il sistema nervoso autonomo gestisce tutti quegli apparati che hanno un’importanza vitale (come appunto, la circolazione sanguigna, la respirazione ecc.), però, ed è questa la nota curiosa, non ha un potere assoluto, in quanto, con la volontà è possibile anche superare i limiti imposti da quel “principio vitale” che protegge la vita a tutti i costi; ne sono un esempio evidente i suicidi: se “l’istinto di sopravvivenza” fosse totalmente predominante, non succederebbero. Quindi, il Reale, o se volete la Natura, governa il nostro organismo, ma non completamente, perché anche noi ne comandiamo una parte: cioè, abbiamo quello che si dice “il libero arbitrio”, che ci permette di orientarci in una direzione anziché in un’altra; ma, come detto più sopra, è ancora tutto da vedere se esista veramente!
Comunque, per capire il funzionamento dell’inconscio è sufficiente rimandare gli interessati ad approfondire la psicoanalisi; piuttosto, per fare un discorso accessibile alla maggioranza, facciamo degli esempi.
Quando camminiamo, ad ogni passo effettuato, il nostro cervello elabora tutta una serie di aggiustamenti:
– per tenerci in equilibrio;
– per farci procedere in una direzione precisa, o per permetterci di cambiare strada;
– per adeguare i nostri passi al tipo di terreno che stiamo calpestando
– per mantenere la visione fissa, senza che balli ad ogni passo, specie se facciamo degli scalini (quella sorta di ondeggiamento che vediamo in certe riprese fatte con telecamere portate a spalla da un operatore che cammina);
– per un mucchio di regolazioni… che riguardano il respiro, la frequenza cardiaca, la digestione, la sudorazione, la produzione di scorie, la loro eliminazione ecc
Tutto questo avviene inconsciamente, quindi, tutto è in mano all’inconscio, perché noi, che ci consideriamo i padroni dell’organismo, in quel frangente, magari abbiamo solo pensato: “Voglio andare là!”
Dunque, all’atto pratico, chi governa davvero la maggior parte delle nostre funzioni è l’inconscio o, più precisamente, il nostro “Io Reale” che gestisce tutto l’organismo.
Come detto, l’inconscio non è sotto il controllo della volontà, anche se, in qualche circostanza, essa può, non solo agire, ma anche interferire con “l’autoregolazione” dell’inconscio.
L’inconscio è un po’ come un cavallo che stiamo cavalcando il quale è in grado, se gli diamo l’ordine, di trasportarci senza problemi anche in zone impervie, piene di crepacci, posti pericolosi che noi non faremmo nemmeno a piedi; però, se egli raggiunge il proprio limite di sicurezza si blocca, perché sa che c’è in gioco la vita; noi però, se volessimo, gli potremmo dare l’ordine di procedere nonostante tutto e lui lo farebbe, anche se incontra la morte. La storia ci racconta di cavalli che sono morti per soddisfare cavalieri incoscienti che pretendevano di continuare a galoppare, disinteressandosi della tenuta dei propri destrieri.
La stessa cosa vale per l’uomo: un individuo che non sappia nuotare prova una naturale paura per l’acqua alta, paura che proviene dall’inconscio, il quale conosce il rischio e lo frena dal buttarsi; però, la volontà può interferire con “la normalità dell’inconscio”, infatti, se volesse, il soggetto potrebbe superare questa paura e gettarsi in acqua lo stesso, rischiando di annegare: dico “rischiando”, perché anche in quel caso l’inconscio si metterebbe in moto, fornendo degli spunti per rimanere a galla, e riuscendoci il più delle volte, specie se l’entrata in acqua è stata involontaria o dettata da altri. Molte sono le persone che dicono: “Ho imparato a nuotare (ma sarebbe meglio dire: “a galleggiare”) quando, da piccolo, mi hanno buttato nell’acqua alta”.
La volontà però, può interferire ulteriormente sulle “azioni protettive” dell’inconscio, infatti, se la volontà è quella di morire, anche gli ultimi tentativi inconsci possono essere bloccati.
In definitiva, questi esempi ci dicono che noi, in continuazione, interagiamo con il nostro inconscio e la nostra vita risulta equilibrata, tanto più, quanto il nostro rapporto con esso risulta armonico.
L’esempio del cavallo e del cavaliere, per spiegare l’inconscio e l’Io, è già stato usato da Freud, egli però arriva a conclusioni diverse. Per capirlo, lo cito testualmente: “Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là dove quello ha già scelto di andare.”
E poi aggiunge: “Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro”.
Come vedete, secondo Freud l’Es ha come unico scopo quello di soddisfare le proprie pulsioni. L’Io, dal canto suo, deve filtrare o frenare tali pretese in quanto è costretto a tenere conto anche della realtà del mondo esterno (nessuno può soddisfare i propri desideri come vuole) e quelle del Super-io (una struttura immaginaria, retaggio dell’educazione genitoriale e fonte inesauribile di sensi di colpa). In questo caso l’idea è di un Es paragonabile ad un mostro affamato di godimento, cieco e sordo, che non distingue il bene dal male e che obbliga l’Io a trovare mezzi di soddisfazione; e, di fronte a tutto ciò, Freud ipotizza come sbocco terapeutico la psicoanalisi, la quale dovrebbe avere la funzione: “… di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es.
Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera di civiltà, come ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee.”
Come vi sarete accorti, in Freud la visione è quella di una battaglia tra l’Io ed il Super-io, dove egli cerca “…di rendere l’Io più indipendente”; e tra l’Io e l’Es, dove l’Io “…deve annettersi nuove zone dell’Es”; e questo ipotizzando che i contenuti del Super-io e dell’Es possano essere sostituiti da “… un’opera di civiltà, come il prosciugamento dello Zuiderzee” (opera realizzata grazie alla collaborazione tra l’Io adulto del paziente e quello dello psicoanalista).
l discorso di Freud è fondamentalmente corretto se si ipotizza un inconscio (che lui chiama Es) esclusivamente corporeo o, con problematiche esclusivamente legate alle pulsioni sessuali e di autoconservazione da lui teorizzate. Invece, se ipotizziamo l’esistenza di una componente spirituale, e lo possiamo fare visto che nell’uomo esistono dei principi, come quello dell’Etica, che trascendono il già evoluto “principio di realtà”, allora, il rapporto con l’inconscio non dovrà più essere quello di “…annettersi nuove zone dell’Es”, ma per lui sarà sufficiente capirne la natura e mettere in equilibrio le sue richieste con quelle del mondo esterno.
Per capirci, è sufficiente sviluppare la metafora proposta dallo stesso Freud.
Il prosciugamento dello Zuiderzee, aveva lo scopo di togliere il predominio del mare su una vasta area di terra ferma, invasa in Olanda e, di fatto, è stato uno dei maggiori sforzi compiuti dall’uomo nel novecento per controllare le forze della natura. Oggi però, sappiamo che molte delle grandi opere industriali realizzate in questo secolo (come le dighe, le autostrade, le industrie, le centrali nucleari ecc.) oltre ad aver portato tutta una serie di vantaggi economici, hanno però anche determinato numerosi squilibri nella natura e, a volte, talmente gravi che ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Il risultato è che oggi, sempre di più, ci stiamo convincendo che la natura va lasciata il più possibile intatta, oppure, che gli interventi su di essa devono essere molto accorti.
Sicuramente, Freud viveva in un periodo in cui l’avvento della tecnologia faceva pensare di poter mettere mano al mondo e di adeguarlo a piacimento, secondo la nostra volontà; oggi però, abbiamo capito che quell’idea, non solo è falsa, ma è anche dannosa all’umanità stessa. Se ne potrebbe dedurre che la “vera civiltà” sia la capacità di interagire con la Natura, di cui siamo una parte, accettandone volentieri le indicazioni, piuttosto che quella di scoprire il sistema per poterla piegare ai nostri desideri. E tutto ciò può avvenire grazie all’intelligenza, la quale è in grado di correggere i dettati dell’Es, del Super-io e della realtà circostante, non solo secondo “il principio di realtà”, ma anche secondo “i principi dell’Etica”.
L’Etica è un concetto che l’uomo realizza solo grazie all’elaborazione del Simbolico; essa è una diretta manifestazione del “Principio di Verità” che struttura l’inconscio, componente questa che comunemente viene detta: “Voce della Coscienza”.
Quindi, se iniziamo a pensare che l’inconscio non è solo espressione del corpo (come ipotizzava Freud, quando parlava dell’Es portatore di pulsioni sessuali e di autoconservazione), ma è anche spirituale (l’Io Reale portatore di pulsioni trascendenti) arriviamo a capire che, oltre a crearci (perché l’Io Reale crea l’Io
immaginario, ossia, quello che noi crediamo di essere), ci dà anche tutta una serie di indicazioni sul come vivere in pace (è la Voce della Coscienza che, appunto, è fondata sulla Verità). Allora, se accetteremo tale presupposto esistenziale, forse, non avremo bisogno di conquistare molte regioni dell’Es, ma dovremo solo mettere in equilibrio le indicazioni dell’Inconscio con quelle del mondo che ci circonda.
In questo penso ci sia la vera rivoluzione di Sai Baba, quello di aver indicato nell’inconscio un “serbatoio di saggezza” dal quale attingere per vivere bene e morire serenamente: “attingere” in maniera intelligente, usando, prima di tutto, “il principio di realtà” proposto da Freud (il suo modo per denominare l’intelligenza umana) e non sfruttando la fantasia o l’immaginazione.
Dobbiamo aggiungere che, nel suddetto “serbatoio di saggezza”, ci sono le indicazioni per quello che tutti gli uomini, di qualsiasi epoca e cultura, hanno sempre chiamato: “La Via del cuore o dell’amore”; però, bisogna stare attenti, perché non è semplice seguirla e, per imparare, bisogna prima passare attraverso l’intelligenza.
L’intelligenza è fondamentale, perché grazie ad essa noi arriviamo a:
– distinguere quelle che sono le pulsioni vere legate al corpo (quelle dell’Es, ossia, del nostro essere anche animali, che vogliono vivere e procreare) dai desideri immaginari o dalle costruzioni mentali (le fantasie nevrotiche o perverse);
– discriminare gli obblighi del Super Io (intransigente e persecutorio) dalle Regole comportamentali che organizzano la società in cui viviamo e ordinano le nostre relazioni personali (create con il buon senso, per farci vivere meglio insieme e non con lo scopo di farci sentire degli esseri inferiori);
– capire che oltre ad essere fatti di corpo e mente, siamo anche Spirito, ciò che sopravvive alla scomparsa del corpo e che può esprimersi secondo una logica che trascende i limiti imposti dalla nostra natura animale. Questo non vuol dire che sia sbagliato soddisfare le nostre esigenze naturali e provare piacere, dobbiamo solo accettare che tali esperienze non sono eterne (come dice Baba: “Non c’è nulla di male nel godere dei piaceri della vita, dovete solo ricordarvi che tutto ha una fine.”)
A questo punto, se saremo riusciti ad utilizzare abitualmente l’intelligenza, solo allora avremo la possibilità di trascenderla.
Detto in altro modo: solo dopo aver capito di essere fondamentalmente Spirito ed, inoltre, che tutti gli altri esseri hanno la nostra stessa Natura, solo in quel caso potremo agire in maniera disinteressata e, soprattutto, con amore verso il prossimo.
Personalmente diffido di quelle persone che parlano forzatamente, o in maniera ridondante, di amore: spesso, tali persone, con la scusa dell’amore ad oltranza, tendono a trattare con superficialità le Regole sociali, considerandole solo un impaccio. Di fatto, tali persone non hanno elaborato il Simbolico, perché, se è vero che i saggi hanno superato i limiti imposti dalle Regole umane (in quanto essi sono legge a sé stessi), è anche vero che loro sono i primi a rispettarle sempre e ad invitare i propri discepoli a fare lo stesso.
A volte, qualcuno propone di non pensare troppo e di seguire esclusivamente il proprio intuito, ma anche qui bisogna stare attenti, perché il rischio di interpretare le proposte della fantasia come intuizioni geniali è molto alto: l’immaginazione funziona in continuazione, mentre invece le vere intuizioni sono rare o eccezionali e, per di più, non sono facilmente utilizzabili da tutti. Perciò, vista la loro sporadica comparsa e la loro scarsa maneggevolezza, non possono essere considerate uno strumento ordinario di orientamento comportamentale.
In definitiva, prima ancora che con quelli del cuore o dell’amore, bisogna imparare a vedere con gli occhi dell’intelligenza; e non è facile, perché tendenzialmente, anziché usare l’intelligenza, si usa la fantasia; e quando si segue l’immaginazione per interpretare le indicazioni dell’Es, si rischia di prendere degli abbagli clamorosi.
Sicuramente molti psicoanalisti avranno arricciato il naso al sentire la parola “Voce della Coscienza”, ma, badate bene, ho usato le lettere maiuscole proprio per distinguerla dalla “voce della coscienza” che è, ovviamente, di natura super-egoica o sociale. La Voce della Coscienza ha a che fare con Dio, con la Verità e l’Amore di cui è costituito l’inconscio e non con i mostri della fantasia prodotti da un’educazione bigotta, i quali, con i loro messaggi contraddittori, tiranneggiano l’individuo per tutta la vita.
Tutto ciò ci viene confermato dalla nostra stessa esperienza: infatti, quando siamo in grado di interpretare i messaggi che provengono dall’inconscio e li mettiamo in sintonia con le richieste del mondo esterno (secondo il Principio di Verità, Etico o Trascendente), otteniamo quel senso di benessere (ma, sarebbe meglio dire di pace) che, senza bisogno di spiegazioni ulteriori, ci permette di confermare l’esistenza dello Spirito.
In ogni caso, Freud ha avuto l’enorme merito di aver ipotizzato e dimostrato l’esistenza di un inconscio con il quale l’Io deve fare i conti. Certo, egli non ha contemplato la componente spirituale, ma anche perché non l’ha distinta dalla religione: la spiritualità è cosa diversa dalla religiosità; quest’ultima (e, in questo, lui ha ragione), trattandosi di una traduzione che la mente fa dei messaggi provenienti dall’inconscio, non può che manifestarsi secondo i limiti mentali dell’uomo che la esprime. Ed è chiaro che un analista come Freud non poteva accettare tutte le contraddizioni che ogni singola religione si porta appresso. Nonostante tutto però, pur non parlando di spiritualità, egli ha avuto il buon gusto di ammettere che, al di là delle sue scoperte, nell’inconscio c’è un abisso che lui stesso, con le sue ricerche, non è riuscito a sondare (alla fine Freud disse: “…Cosa daremmo per saperne di più!”).
A proposito della funzione dell’inconscio nel sostenere l’organismo ed, in particolare, per collegarlo alla funzione divina, Baba dice:
“L’uomo si sta distruggendo, perché crede nelle cose materiali ed ignora il Ruolo ed il Potere di Dio…
E’ il Divino che sotto forma di linfa permette a tutti gli organi di funzionare. L’uomo che non riconosce questa verità di base, rimane nell’ignoranza e diventa arrogante ed egoista: crede di essere lui a far tutto e, perciò, va incontro alla sofferenza.”
“Dovreste essere fermamente convinti che nulla accade per uno sforzo umano e non dovete andare tanto lontano per cercare una prova a questa affermazione; la prova l’avete proprio all’interno del vostro corpo: ad esempio, che impegno mettete per mantenere l’incessante battito del cuore o per il continuo movimento di respirazione dei polmoni? Dipende forse dalla vostra volontà la digestione del cibo ingerito? Siete capaci di vivere o morire quando lo volete? Venite al mondo quando e dove lo desiderate voi? Se rifletteste profondamente su questa linea di pensiero, scoprireste che i vostri sentimenti di “Io e mio” sono indebitamente alimentati dall’errata idea di essere l’autore (kartritva) e il fruitore (bhokritva).”
“Tutto accade per volere divino (Daiva-sankalpa). Con le vostre sole forze non siete in grado di ottenere nulla. L’altro ieri vi ho detto come gli uomini, in diversi casi non siano riusciti ad aver il successo che avevano perseguito con ogni sforzo, e come, invece, per altri sia stato facile raggiungerlo, senza averlo cercato. E’ il senso dell’Io (ahamkâra) che vi induce ad appropriarvi del duplice ruolo di chi compie l’azione (kartritva) e di chi ne fruisce (bhoktritva).
Voi siete un’autentica incarnazione della beatitudine: la beatitudine è la vostra vera natura. E’ tragico il fatto che non sappiate individuarla e sperimentarla. Questa beatitudine è adombrata da simpatie, antipatie, dal senso di “Io e mio”, dall’esitazione e dal dubbio, da piaceri e dispiaceri, e così via. Attaccamento (râga) e odio (dvesha) sono il panno pesante che avvolge la vostra beatitudine. Quanto è strano e sciocco che, nonostante voi siate un’autentica incarnazione della beatitudine, l’andiate a cercare altrove!”
A sostegno dell’ipotesi che Dio è inconscio, oppure, che Dio ha sotto controllo l’inconscio di ciascuno, si potrebbe riflettere su quanto ha affermato lo stesso Freud nel suo lavoro dal titolo: “L’appagamento di desiderio”. Dopo aver capito che il sogno rappresenta l’appagamento di un desiderio, l’autore si domanda (senza però rispondersi) chi sia l’organizzatore ultimo del sogno ed azzarda: “Ci considerano già dei pazzi, ora, che parliamo dell’esistenza di un inconscio… figuriamoci cosa direbbero se ne proponessimo due!”.
Un’altra riflessione che potremmo fare è quella sulle regole che governano l’inconscio. Per saperlo sarebbe sufficiente studiare la psicoanalisi di Freud, per arrivare a capire che le regole ci sono e con una certa pratica si riesce pure a conoscerle; comunque, per ridurre il campo di lavoro, diciamo solo che: è innegabile che l’inconscio poggi sulla verità.
La verità è sicuramente la regola per eccellenza, il che è abbastanza ovvio, perchè se non prevalesse la verità o, comunque, se l’inconscio dell’uomo non fosse orientato dalla verità, la vita stessa sarebbe impossibile, sia quella individuale che, tantomeno, quella collettiva: sarebbe come programmare un computer con le più sofisticate e avanzate qualità, senza inserire la regola di rispondere sempre in maniera veritiera ai nostri comandi. Cosa ce ne faremmo di un computer di questo genere, libero cioè di dirci la verità o meno, a seconda dei casi? Sarebbe pericolosissimo!
A sostegno del fatto che l’inconscio è programmato sulla verità, è sufficiente notare che uno degli aspetti più caratteristici dell’inconscio studiati da Freud è il lapsus: esso è l’emblema del linguaggio dell’inconscio ed, in particolare, dei messaggi veritieri che esso ci manda.
Questa scoperta è stata così bene accolta dalla coscienza collettiva che, anche per coloro i quali disdegnano la psicoanalisi, il lapsus è diventato sinonimo di verità ed il suo scopritore è stato beneficiato con la notorietà nei secoli, infatti, nel linguaggio comune è stato simbolizzato il detto: “… è un lapsus freudiano!”.
Ma se l’inconscio funziona sulla base della verità, allora perché esiste la menzogna?
Possiamo fare diverse ipotesi, ma quella che preferisco è che tutto nasca da un errore: l’errore sta nella mente, oppure, detto in altro modo, l’errore sta nel processo di identificazione, favorito dal principio del piacere. In pratica, identificandosi esclusivamente con il corpo e considerandosi diverso dai propri simili, il bambino inizia a ragionare in termini vantaggiosi anche a scapito di altri (“l’Io ed il mio” che troviamo nelle teorie dell’induismo e del buddismo). Tale fatto è naturalmente favorito dall’educazione ricevuta, e cioè, se il bambino è entrato in contatto con la menzogna dei genitori e, soprattutto, con la loro ignoranza di essere Spirito anziché corpo, avrà molte più probabilità di altri di diventare falso anche lui.
Quindi, la menzogna è il risultato di un processo di dissociazione, per cui l’Io immaginario si considera padrone assoluto del corpo e ragiona solo in termini di piacere personale, dimenticandosi di essere invece un prodotto dell’inconscio e, come tale, di essere al suo servizio, anziché padrone.
Questo è il motivo per il quale detto Io (l’Io mentale o immaginario) rimane disorientato e spaventato di fronte alle improvvise irruzioni dell’inconscio nello spazio coscienziale; basti ricordare, oltre ai lapsus, le dimenticanze, i sogni, gli incubi ecc. Ma non basta, perchè queste manifestazioni sono per lo più semplici, curiose, sporadiche e comuni a tutti, ve ne sono invece altre che possono organizzarsi in vere e proprie malattie nervose, ovvero patologie dove compaiono in maniera duratura sia alterazioni psichiche (le nevrosi isteriche, ossessive, fobiche ecc.), sia fisiche (le cosiddette malattie psicosomatiche).
Ma dove stanno scritte le Regole che governano l’inconscio?
Nel codice genetico, allo stesso modo in cui sono inserite le tendenze naturali degli animali (il miele dell’ape, la tela del ragno, il nido dell’uccello ecc.), gli istinti, per intenderci.
Tra le regole dell’inconscio, oltre alla Verità, probabilmente ci sono anche le regole dell’Amore, della Pace, della Non Violenza e della Retta Azione: Regole, che Sai Baba, forse non a caso, chiama Valori Umani Fondamentali; e proprio perchè rappresentano le fondamenta della coscienza umana, come le fondamenta delle case, sono nascoste… quindi, inconsce.
Dice Baba: “I Valori Umani sono contenuti in ogni cellula del corpo, altrimenti non potreste considerarvi umani”.
Il discorso sui Valori Umani è però troppo ampio, ma spero, così come ho detto in precedenza per l’amore, di riproporlo in un lavoro a parte.
In definitiva, se accettiamo che Dio è inconscio (è il nostro Io Reale), oppure, che Dio abbia a disposizione il nostro inconscio, possiamo capire con una nuova luce tutta una serie di affermazioni di Sai Baba in merito a Dio.
Per esempio, quando dice: “Dio è il più vicino, il più affezionato, il più fedele dei compagni, ma l’uomo nella sua cecità, Lo ignora e cerca la compagnia di altri.
Dio è presente ovunque, in ogni istante: Egli è il più ricco e potente protettore, eppure voi Lo ignorate. Il Signore è qui, vicino, amoroso, accessibile e potente, ma molti non aprono gli occhi a questa grande opportunità. Il Suo nome ve Lo porterà vicino: il Nome è sulle labbra, il mondo è nella mente ed il proprietario del Nome è nel cuore. Il mondo e le sue attrattive vi distraggono coprendo la risposta che Dio dà alla chiamata del Nome.”
In pratica, Dio è quello che le filosofie orientali chiamano: “Il nostro Se’ interiore”. E’ inconscio ed è perciò che Baba dice: “Io sono Dio ed anche voi lo siete, solo che non ne siete consapevoli!”.Questa frase ha scandalizzato la gran parte delle persone che l’hanno sentita (sia i credenti che, ancor peggio, gli atei), ma soltanto perché non l’hanno presa alla lettera ed interpretata in chiave psicoanalitica.
Quando Baba dice: “… non ne siete consapevoli.”, è vero! Semplicemente perché non essere consapevoli è un modo diverso di dire inconscio.
L’Io a cui Si riferisce Baba affermando: “Io sono Dio…”, è l’Io inconscio o Reale… e siccome è inconscio, non possiamo esserne consapevoli!
Volendo essere più precisi dovremmo dire che noi siamo l’Anima o lo Spirito individuale, quella parte dell’Anima Universale che si è identificata con il corpo; e traducendolo in termini psicoanalitici, viene fuori che Dio è, al tempo stesso, sia l’inconscio individuale (quando si identifica nel soggetto) che l’inconscio collettivo (quando si identifica con l’umanità o il mondo intero).
Il termine di “Inconscio collettivo” fu coniato da C. Gustav Jung, un altro padre della psicoanalisi, e tratta di un argomento che fu un ulteriore motivo di disputa tra lui e Freud, conflitto che si tradusse poi con la loro separazione; però, guardandolo ora, ci rendiamo conto che entrambi parlavano della stessa cosa, solo che l’attenzione di Freud era concentrata sull’inconscio individuale, mentre quella di Jung sull’inconscio collettivo.
A questo punto, se ammettiamo quanto detto fin qui, possiamo trarre alcune conclusioni:- l’Io non è servo di tre padroni (l’Es, il Super Io e il mondo esterno), come diceva Freud, o meglio, di sicuro lo è l’Io immaginario, fino a quando non riconosce la propria Vera Natura di Io Reale (Anima o Spirito).
– L’Io Reale è l’unico padrone, il Re, ma deve prendere coscienza di questa verità, si deve riconoscere come tale. Per far questo, ha a disposizione la mente che, come dice Baba, è al tempo stesso, l’unico vero ostacolo per questa ricerca, ma è anche l’unico strumento valido per poterla realizzare.
Come fare dunque per riconoscere la propria Vera Natura?
Per ottenere il risultato finale, bisogna saper usare la mente, altrimenti si permane in uno stato di servitù per tutta la vita: prima bisogna imparare a discriminare con gli occhi dell’intelligenza (quello che Freud chiama “il principio di realtà”) e superare la tendenza naturale a vedere con gli occhi della fantasia o dell’immaginazione (che sono invece orientati dal “principio di piacere”) e poi, utilizzare gli occhi del cuore o dell’amore (che sono sostenuti dal “Principio Trascendente”).
Sicuramente, riuscire a vedere con gli occhi dell’amore rappresenta il risultato finale della ricerca di cui abbiamo parlato finora, fatto questo, che tradotto in termini psicoanalitici vorrebbe dire arrivare ad identificarsi con l’Io Reale (“Io sono l’Anima o lo Spirito!”), ovvero, riuscire a prendere contatto con l’Inconscio Spirituale, Individuale o Collettivo.
A questo traguardo sono arrivati i profeti, i veggenti e quelle persone che comunemente vengono dette ”I realizzati in vita”.
Sia nei giorni nostri che nel passato, tale raggiungimento si è reso manifesto agli occhi del mondo con la comparsa di poteri paranormali, quali la capacità di fare premonizioni, diagnosi telepatiche, guarigioni ecc.
(i cosiddetti “miracoli”). Si tratta di argomenti che non hanno, finora, avuto nulla a che fare con la psicoanalisi, ma è stata l’ipotesi dell’Inconscio Collettivo o Spirituale che mi ha permesso di capire come dette persone fossero veramente in grado di fare quanto detto sopra: è il contatto con l’Inconscio Spirituale o Divino, un contatto consapevole, continuo e vero, non come quello che possono far credere di avere certi indovini, maghi e fattucchiere.
I cristiani possono trovare conferma di ciò nella vicenda di Gesù che in mezzo alla folla accalcata su di lui domandò: “Chi mi ha toccato?”… si trattava di una donna che, per la sua fede, unica, in mezzo ad una moltitudine di persone che implorava e toccava il Maestro, ricevette la grazia della guarigione. Questa esperienza di Gesù è una dimostrazione lampante di cosa significhi avere un contatto consapevole, continuo e vero dell’Inconscio Collettivo, una consapevolezza che non necessita né di riti, né di formule preparatorie per realizzarla in quanto continua.
La distinzione tra i veri Realizzati e quelli falsi potrebbe essere un curioso lavoro di esclusiva pertinenza degli psicoanalisti, ma non è questo il contesto appropriato per approfondire l’argomento.
Ora mi fermo e rimando il lettore che volesse sviluppare il concetto dell’Io Divino, alla seconda parte del “Gioco Autentico”.
Prima di concludere però, vorrei riproporre un piccolo enigma di Sai Baba, che ho già inserito nel suddetto libro, ma che ritengo fondamentale per rendersi conto della profondità e della lucidità del Suo pensiero.
Gli psicoanalisti lacaniani saranno felicissimi nel raccogliere la sfida di analizzare e trovare la chiave di lettura di questo indovinello, però, anche gli altri, con un certo impegno, hanno la possibilità di risolverlo.

Dice Baba:
“La meta dell’umanità è di raggiungere Brahman.
Aksharam e Brahman sono la stessa meta (Akshara significa indivisibile), indicano gli aspetti Nirguna e Saguna della stessa verità.
Akshara significa anche una sillaba, il Prânâva OM, che è uno dei Simboli di Brahman e, perciò, si chiama Aksharaparabrahma Yoga.
Brahman ha due aggettivi, Paraman e Aksharam.
Akshara indica il Prânâva ed anche Mâyâ; e Mâyâ è riassunta nel Prânâva; questi due hanno attributi, sono qualificati, Savishesha. Comunque, Brahman è Nir-vishesha, senza attributi, puro di per sé. Coloro i quali lo comprendono Mi raggiungono.

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CALLIOPE

Callicle ed ebbe una simile vittoria; e così furono contenti tutti e due e goderono / il primo frutto del loro amore. Nello stesso giorno salirono su la rocca, entrarono nel tempio della vergine Pallade a cui è sacro l’ulivo, e ringraziarono la Dea dell’espediente che loro aveva suggerito, a usare dell’olio di cui usano gli studiosi e gli amanti» .
Non sfugga i l riferimento a Pallade, soprattutto alla luce dell’accusa di Palladismo che presto verrà sollevata contro la Massoneria, a seguito in particolare della pubblicazione de I misteri della Massoneria svelata, nel 1 885, ad opera di Léo Taxil, uno scherzo, almeno nei termini in cui veniva tratteggiato il Palladismo, nei confronti dei creduloni cattolici, come ebbe a definire l’opera Taxil stesso a distanza di dodici anni dalla sua pubblicazione.. Un riferimento che può se non altro indicare una vicinanza del Settembrini al libertinismo, che predicava una piena e radicale libertà morale e religiosa.
Il racconto di Settembrini prosegue con la narrazione di un rapporto sessuale a tre. Callicle e Doro, infatti, frequentavano la scuola di Codro, famoso filosofo platonico di Atene secondo i l racconto, sui quarant’anni, ben vestito e affabile. Al loro maestro i due giovani confidano il loro amore ed egli ne loda il nobile sentimento, che li rende pari ad Armodio e Aristogitone, ad Achille e Patroclo, la cui morte Achille pianse amaramente, «e ricordando tutte / le dolcezze godute insieme ricordava con maggior passione quella dolce usanza Di star fra le tue cosce santamente». E ancora paragonava i due fanciulli alla schiera dei più valorosi negli eserciti ellenici, quella degli innamorati, che combattono a coppia, resi eroi dall’amore. Si tratta, prosegue Codro, di un amore perfetto in due giovani leggiadri di persona, pronti d’intelletto, e nutriti di buone lettere. Un amore temperante, che non li spinge a sciupare e disfare i l corpo con le femmine il cui desiderio è insaziabile, non l i precipita nella rovina di chi dilapida un patrimonio in cortigiane, non li tormenta con la gelosia, con rapimenti e risse e ferite e uccisioni; «ma invece come hanno goduto insieme un diletto, attendono insieme agli studi, vanno / insieme a la guerra dove l’uno è scudo dell’altro. Questo amore ha per legge la reciprocanza, e però è ottimo nei giovani della stessa età, buono in quelli di età poco diversa»

ln verità, prosegue Codro, ma è Settembrini che ben conosce la differenza tra il sesso praticato ad esempio a Roma tra i l pater familias e lo schiavo e l’amore greco, «amore senza reciprocanza non è elleno ma barbaro, non è amore ma furore che soverchia e oltraggia un altro, il quale non può fare a te quello che tu hai fatto a lui» . Quelli che biasimano questo amore elleno, in realtà non Io conoscono e dunque, non possono neppure parlarne. «Amare è cosa santa, godere dell’amore senza offesa altrui e senza vergogna propria, godere egualmente, è accrescimento e compimento d’amore». Desideroso di insegnare ai giovani l’arte di amare e di godere della loro bellezza, Codro li porta a casa sua e qui consuma con loro un rapporto di assoluta reciprocanza. “Codro” fu il nome dell’ultimo dei mitici re dell’Attica. Una figura nobilissima, che unita alla scuola che i due giovani frequentano, non può non ricordare il Puoti e la sua scuola, frequentata da un giovane Settembrini/ allorquando il grande classicista aveva all’incirca quarant’anni. Quando Settembrini arriva a Napoli, dopo essere stato tolto dal padre a tredici anni dal Collegio Maddaloni di Caserta, a seguito di una crisi mistica attraversata lungo il giubileo del 1825 e che lo aveva portato a una forma di fanatismo religioso, risiede per qualche tempo in Villa Stajano, non molto distante da Villa Zelo. Qui i l barone, don Gennaro Zelo, massone del Grande Oriente d’Italia, teneva di notte le sue riunioni e ospitava per qualche tempo gli inseparabili Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri. A Napoli Settembrini sarà iniziato alla Massoneria e diverrà maestro venerabile della loggia La Libbia d’Or0 . Sposerà Luigia Fucitano, la sua Gigia, che aveva diciassette anni e che era prossima ad abbracciare la vita claustrale. Callicle e Doro vengono iniziati al sesso con una donna dalla giovane Innide, durante le Panatenee. Doro sarà il primo e Spingerà Callicle a scoprire anch’egli «la sacra porta della vita e del piacere», «la grotta di Pane ricoperta / di molto frondame lucente e morbidissimo»2. Innide, il cui nome in greco è Hymnfs, è dunque la personificazione di quell’inno che celebra l’unione del fallo, dei falli, con la ctei 74, in un paesaggio panico, ben raffigurato dalla grotta di Pan, simbolo della ctei, e durante le feste in onore della Pallade Atena. I due giovani verranno presto celebrati dagli ateniesi come eroi per essersi particolarmente distinti nella guerra che Atene dovette combattere contro Antioco re di Siria, guerra di cui tuttavia non si ha notizia. Infine si sposeranno con due donne. Callicle sposerà Psiche, che come nome di persona in realtà è rarissimo nell’antichità. Psiche è la personificazione dell’anima, una specie di «doppio» immateriale del corpo abbandonato dalla vita. Nelle Metamorfosi di Apuleio, Psiche è la fanciulla amata da Eros25 . Dunque, le nozze di Callicle sembrerebbero simboleggiare i l raggiungimento da parte del giovane dell’equilibrio tra anima e corpo. Doro sposa loessa, nome altrettanto raro, che Cantarella 26 riconduce ai Dialoghi di Luciano e che significa “violacea”. Ma loessa è anche il nome di un’orchidea, l’Epipactis ioessa, tipica dell’Italia meridionale e la cui caratteristica è quella di essere ermafrodita . Nozze che sembrerebbero adombrare, dunque,
i l mistero dell’androgino e del rebis. Nonostante i l matrimonio e la scelta di non condividere le proprie mogli, come pure prevedeva Platone nella Repubblica, Callicle e Doro continuarono ad amarsi: «Pure, < essi > si amarono sempre < tra loro e sino alla vecchiezza di tanto in tanto per qualche occasione trovandosi nel medesimo letto confondevano i piedi e si abbracciavano come nei / primi anni della loro giovinezza» Nel primo vero 'romanzo omosessuale', Maurice, di Edward Morgan Forster, scritto nel 1 914/ ma pubblicato solo negli anni Settanta del secolo scorso, Clive, primo amore di Maurice, rifugiatosi in un canonico matrimonio con una donna di adeguata condizione sociale, viene a sapere in un faccia a faccia con i l suo amico che questi aveva una relazione con il suo guardacaccia, Alec. «Mi avevi lasciato capire che il Paese al di là dello Specchio era lontano alle tue spalle ormai», dice inorridito Clive, facendo un chiaro riferimento ad Attraverso lo specchio (Through the Looking-Glass), i l secondo dei libri di Alice. Lo specchio, che rimanda l'immagine al contrario del mondo che in esso si riflette, diventa la metafora di quella che veniva chiamata "inversione". NeL Neoplatonici di Settembrini non esiste un mondo riflesso allo specchio, un mondo al contrario, poiché l'autore sembra conoscere perfettamente il segreto dell'attraversamento, che consente di riunire il corpo e il suo doppio, lasciando che sbocci la ioessa, l'androgino. Nessuna tragedia, nessuna ipocrisia, ma una serena, felice accettazione, pienamente abbracciata e vissuta, della propria natura. .

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SCRIVONO SU PENSA-LIBERO

Scrivono su Pensa-libero, nella maggior parte, donne e uomini che si riconoscono nei principi della cultura laica, liberale e socialdemocratica. E proprio per questo ci scrivono anche molti altri che appartengono a differenti ispirazioni culturali e politiche. Ma tutti concordiamo nel credere che la politica sia una attività nobile. Indispensabile per risolvere i problemi della gente e per garantire un futuro ai giovani.

Ecco perché Pensa-libero, da quando ha cominciato le pubblicazioni, nel 2003, ha condotto una incessante battaglia contro coloro che, per calcolo o per viltà, pur essendo parte della classe politica, hanno rinunciato alle responsabilità che questa comporta. Ed ha denunciato la incessante ricerca di legittimazioni esterne nella Chiesa o in altre istituzioni che hanno occupato i vuoti della politica, quali la magistratura, i sindacati dei lavoratori e le associazioni imprenditoriali: istituzioni da rispettare sempre, eccetto quando esulano dai loro compiti.

La nostra è una visione positiva e fiduciosa. Per questo non ci siamo mai uniti al coro di coloro che periodicamente invitano ad accettare soluzioni di governo con l’unica motivazione che rappresenterebbero “l’ultima spiaggia” prima della catastrofe. Al contrario, noi crediamo fermamente nella capacità delle democrazie di autorigenerarsi. E che mai sia consentito derogare alle regole della democrazia e dello Stato di diritto. Troppo breve è il passo dall’ultima spiaggia ai salvatori della Patria e agli uomini della Provvidenza.

Solo su questo Pensa-libero rispetta una coerenza maniacale. Su tutto il resto nessuno si sorprenda di leggere articoli che contengono giudizi e soluzioni differenti per gli stessi problemi. Il giornale non ha da imporre alcuna linea. E, per quanto possa interessare, non è in obbligo con alcuno che una qualsiasi linea possa o voglia imporgliela.

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QUESTA PICCOLA PERLA DI SAGGEZZA

QUESTA PICCOLA PERLA DI SAGGEZZA
, Questa piccola perla di saggezze di cui riporto sia la versione originale inglese che la traduzione italiana, è stata rinvenuta a Baltimora, nell’antica Chiesa di S. Paolo, e per lungo tempo si ritenne erroneamente che risalisse al 1692.

In realtà il Desiderata fu scritto nel 1927 e successivamente pubblicato in un volume dal titolo “Le Poesie di Max Ehrmann” nel 1948. Il brano venne altresì incluso in un libello di poesia religiosa curato dal Rev. Frederick W. Kates (pastore della parrocchia di San Paolo dal 1956 al 1961) ed edito a cura del Commissione per la Predicazione Evangelica della Chiesa Metodista.

Nel periodo della Quaresima, era consuetudine del Rev. Kate lasciare sulle panche della Chiesa dei fogli ciclostilati riportanti alcune massime ispirate. Uno di questi includeva una copia della prosa di Ehrmann. Si presume che qualcuno “trovò” uno di questi volantini e lo diffuse in giro.

La data 1692, presente sul volantino originale, si riferisce alla fondazione della Parrocchia di San Paolo, la prima delle Chiese di Baltimora, e non è assolutamente in relazione (come erroneamente ritenuto) con la data di composizione del Desiderata.

La Parrocchia di San Paolo ha ricevuto nel corso degli anni un incredibile numero di richieste d’informazione su questo brano di prosa non solo da tutti gli Stati dell’Unione ma anche dalla maggior parte dei Paesi del mondo.

D E S I D E R A T A

PROCEDI TRANQUILLAMENTE TRA IL RUMORE E LA FRETTA, e ricorda quanta pace può esserci nel silenzio. Finché è possibile, senza doverti abbassare, sii in buoni rapporti con tutte le persone. Dì la verità con calma e chiarezza; e ascolta gli altri, anche i noiosi e gli ignoranti: anche loro hanno una storia da raccontare. Evita le persone volgari ed aggressive, esse opprimono lo spirito. Se ti paragoni agli altri corri il rischio di far crescere in te orgoglio e acredine, perché sempre ci saranno persone più in basso o più in alto di te. Gioisci dei tuoi risultati così come dei tuoi progetti. Conserva l’interesse per il tuo lavoro, anche se umile é ciò che realmente possiedi per cambiare le sorti del tempo. Sii prudente nei tuoi affari, perché il mondo é pieno di tranelli: ma ciò non accechi la tua capacità di distinguere la virtù; molte persone lottano per grandi ideali, e dovunque la vita é piena di eroismo. Sii te stesso e soprattutto non fingere negli affetti e non essere cinico riguardo all’amore perché esso, a dispetto di tutte le aridità e disillusioni é perenne come l’erba. Fai tesoro degli ammaestramenti che derivano dall’età, lasciando con un sorriso sereno le cose della giovinezza. Coltiva la forza dello spirito per difenderti dall’improvvisa sfortuna; ma non tormentarti con l’immaginazione: molte paure nascono dalla stanchezza e dalla solitudine. Al di là di una disciplina morale, sii in pace con te stesso. Tu sei figlio dell’universo non meno degli alberi e delle stelle; tu hai diritto di esser qui. E anche se ancora non ti é chiaro non v’é dubbio che l’universo ti si stia schiudendo. Perciò sii in pace con Dio, comunque tu lo concepisca, e qualunque siano le tue lotte e le tue aspirazioni, conserva la pace nella tua anima pur nella rumorosa confusione della vita. Con tutti i suoi inganni, i lavori ingrati, i sogni infranti, é ancora un mondo stupendo. Fai attenzione. Cerca di essere felice.

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SAS FRACCESCO ‘ASSISI Testamento del 1226

San Francesco d’Assisi
Testamento del 1226
a cura di Carlo Rondelli

Il Signore concesse a me, frate Francesco, d’incominciare così a far penitenza: poiché, essendo io nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia.
E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
E il Signore mi dette tale fede nelle chiese, che io così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo.
Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere proprio a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e mi incontrassi in sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà.
E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come i miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient’altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue che essi ricevono ad essi soli amministrano agli altri.
E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi.
E dovunque troverò manoscritti con i nomi santissimi e le parole di lui in luoghi indecenti, voglio raccoglierli, e prego che siano raccolti e collocati in luogo decoroso.
E dobbiamo onorare e venerare tutti i teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine, così come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita. E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevano avere di più.
Noi chierici dicevamo l’ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i Pater Noster; e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed eravamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all’onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio.
Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: “Il Signore ti dia la pace! “.
Si guardino bene i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
Comando fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna (di privilegio) nella curia romana, nè personalmente nè per interposta persona, nè per una chiesa nè per altro luogo, nè per motivo della predicazione, nè per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio.
E fermamente voglio obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E così voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l’obbedienza e la sua volontà, perché egli è mio signore.
E sebbene sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico, che mi reciti l’ufficio, così come è prescritto nella Regola.
E non dicano i frati: Questa è un’altra Regola, perché questa è un ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il mio testamento, che io, frate Francesco piccolino, faccio a voi, miei fratelli benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore.
E il ministro generale e tutti gli altri ministri custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole.
E sempre tengano con se questo scritto assieme alla Regola. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole.
E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: “Così si devono intendere” ma, come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle con sante opere sino alla fine.
E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell’altissimo Padre, e in terra sia ricolmato della benedizione del suo Figlio diletto col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i Santi. Ed io frate Francesco piccolino, vostro servo, per quel poco che io posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. (Amen).

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ESSENZA DEL LIBERO MURATORE

ESSENZA DEL LIBERO MURATORE:
riflessioni interiori e spunti per rapportimsociali fraterni
Gianmichele Galassi i mendichi diventano fratelli dei princi

i
…Abbracciatevi, moltitudini!
Questo bacio vada al mondo intero!
Fratelli, sopra il cielo stellato
deve abitare un padre affettuoso.»
Inno alla Gioia, F. Schiller)

Il “credo” massonico e la percezione del mondo
“A Mason is obliged by his Tenure, to obey the moral
Law; and if he rightly understands the Art, he will never
be a stupid Atheist, nor an irreligious Libertine. But thug
in ancient Times Masons were charg’d in every Country
to be of the Religion of that country or Nation, whatever
it was, yet it’s now more expedient only to oblige them
to that Religion in which all Men agree, leaving their
particular opinions to themselves; That is, to be good
Men and true, or Men of Honour and Honesty, by wha-
tever Denominations or Persuasions they may be distin-
guished; whereby Masonry becomes the Centre of
Union, and the Means of conciliating true Friendship
among Persons that must have remained at a perpetual Distance.”2

Per il Libero Muratore (massone), probabilmente, l’Etica rappresenta l’apice della gerarchia valoriale, un principio universale non imposto, ma acquisito. In questo senso, conviene fare una distinzione che, sebbene attenga più al campo specifico della Filosofia, risulta propedeutico ad una comprensione più profonda e dettagliata del tema, perciò, pur rimandando alla discussione più ampia contenuta in letteratura, possiamo così brevemente parafrasare le diversità concettuali utilizzando un passaggio dell’Accademia della Crusca, basato sulle varie definizioni esistenti: “… esiste una riflessione tecnica che tende a distinguere il concetto di morale, più direttamente legato al giudizio di valore su ciò che è giusto e sbagliato, da quello di etica, che richiamerebbe invece una dimensione teorica più astratta, capace di riflettere sulla morale stessa e farvi ordine concettuale. Il problema, nell’etica, non sarebbe più dunque quello assiologico di capire se qualcosa è giusto, ma quello ontologico di definire che cosa è giusto, o come in generale è possibile indirizzare l’agire.” Dalle citazioni precedenti, è facile comprendere come non possa esistere un percorso iniziatico massonico di perfeziona mento se questo non è pervaso da un modo di “essere”, “esistere” basato sull’Etica. Specificatamente, quella massonica, poggia tutto il proprio costrutto sull’essere “Uomini liberi e di buoni costumi” e, di conseguenza, sul concetto di “rispetto”: delle opinioni e convinzioni religiose, dottrinali, morali, politiche, o anche letterarie, artistiche, ecc., di una persona”. (Voc. Treccani) 2 J. Anderson. The Constitutions of the Free-Masons. W. Hunter, Lon-don 1723, p. 50. Nella traduzione italiana: “Un Muratore è tenuto, per la sua condizione, ad obbedire alla legge morale; e se egli intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della Religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando ad essi le loro particolari opinioni; ossia, essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore e di onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti.” (Fonte:3 Simona Cresti. Etica e morale: c’è differenza? in rispetto delle idee altrui, rispetto del mondo naturale, della vita e della persona umana con la propria dignità che si sostanzia nella benevola accettazione dell’altro, addirittura come un “fratello” con cui si agevola la costruzione di un dialogo sereno e pacato4.Questa base Etica fa, poi, da pietra angolare al lavoro iniziatico che permette a coloro che lo abbiano compiuto, anche solo in parte, di cominciare ad automatizzare i processi mentali e le reazioni alla condizioni di stress per divenire resilienti ai vizi e debolezze personali nelle sfide che l’esistenza stessa ci mette di fronte.
Per un altro aspetto, la Libera Muratoria ed il suo dettagliato percorso iniziatico dovrebbero, almeno in sostanza, condurre gli attori a considerare la realtà da più punti di vista, fino a scegliere quello che in qualche modo possa rappresentare quello più alto, esprimendo e suscitando i sentimenti migliori. La realtà, infatti, come abbiamo già ripetuto più volte, consta di due parti: l’una “oggettiva”, quindi indipendente da noi, e l’altra “soggettiva” su cui invece possiamo intervenire, lavorando sui noi stessi e la nostra percezione di essa. Naturalmente, questo concetto, è valido per tutti gli esseri umani e, spesso, proprio la percezione “soggettiva” della realtà-verità è alla base dei contrasti sociali che si ripercuotono sulla vita ed il pensiero di molti.
Non è facile e neppure naturale educare noi stessi ad esaminare la realtà per ciò che è, i nostri sensi e l’interpretazione dei segnali che essi inviano al nostro cervello sono sovente distorti dai processi mentali dettati dall’abitudine e dal punto di vista appreso dall’esperienza vissuta, vuoi sociale vuoi personale, dandoci così una visione distorta dei fatti. A questo punto, quando consapevoli della propria fallacità interpretativa, volgiamo l’attenzione alla rieducazione dei meccanismi mentali alla base della capacità percettiva, cercando di abituare la mente ad una nuova conoscenza ed interazione con la realtà interna ed esterna all’organismo; più in generale, dovremmo intervenire sull’intera sequenza di eventi che va dal presentarsi dello stimolo, al realizzarsi e l’oggettivarsi della sensazione, fino al suo modo di essere avvertita. Reputo su questo tema che tutto si risolva, almeno in larga parte, nell’approccio all’esistenza che ognuno di noi genera e modella durante la vita. Le difficoltà, le paure, lo smarrimento provati talvolta durante la vita divengono il banco di prova per il superamento del preconcetto derivante da una singola esperienza fino ad elevarsi a personale legge morale scevra dai condizionamenti momentanei e circoscritti del proprio percepire e dall’esperienza. Tutto ciò, dovrebbe condurci ad esaltare i punti in comune, sentendoci tutti più vicini ed uniti dallo stesso ineffabile “destino”, sentirci “Fratelli” vivendo infine come tali. Fratellanza, particolare ed universale.
Qui di seguito conviene riportare un piccolo estratto di quanto già ho scritto nella “Simbologia Massonica” (Vol.I-2019, pagg.109-112) a proposito dell’argomento: “Potere, vendetta, rancore, odio ed invidia sono i “lupi” ovvero i maggiori antagonisti dell’Amore e della Benevolenza che, guidando le nostre azioni, ci rendono effettivamente fratelli. Non dimentichiamo la paura, una Proprio come spiega chiaramente e magistralmente Lessing nei suoi “Dialoghi massonici” fra Ernst e Falk, più dettagliatamente neecondo.
Questo termine ha una lunga tradizione, basti ricordare le tre fiere che Dante incontra prima dell’Inferno: la lonza, il leone e la lupa ostacolano il viaggio di Dante che è bloccato dalla paura, esse rappresentano allegoricamente rispettivamente la lussuria (la lonza, un felino simile al leopardo o alla pantera, più probabilmente una lince cheDante aveva visto esposta a Firenze), la superbia (il leone) e, infine, la cupidigia e l’avarizia di potere più che di denaro (la lupa). Permettendomi una chiosa curiosa, a questa allegoria è associata quella del “veltro”, una delle più discusse e controverse dell’opera dantesca. Se in precedenza Giovanni Getto (nel suo “Aspetti della poesia di Dante”, Sansoni, Firenze, 1966, pp.13-14.) aveva ipotizzato che dietro l’allegoria del veltro si trovasse il Sommo Poeta stesso, Lamberto Vaghetti (nel suo Il veltro non è più un mistero, in «Nuova Antologia», diretta dal prof. Cosimo Ceccuti, Fascicolo 2229, anno 139°, Gennaio-Marzo 2004, pp. 356-359, Felice Le Monnier, Firenze) avrebbe adesso individuato l’opera stessa, ossia la Commedia, quale elemento “dottrinale” che potrà condurre qualsiasi uomo dallo stato di vizio a quello
di virtù, salvandolo dalla lupa. Questo per dire che analogamente il “veltro” massonico è rappresentato dalla sua ritualità significata proprio dal variegato linguaggio simbolico utilizzato. potente molla che riesce ad avvampare i peggiori istinti umani, impedendo così ai migliori sentimenti di guidare le nostre azioni. Spesso, purtroppo, la vita ci riserva sorprese terribili capaci di destabilizzare anche gli animi
più bonari e placidi; atrocità, terrore e morte riecheggiano nelle pieghe della storia quali indelebili marchi
della bestialità umana: amici, parenti, vicini di casa si scagliano l’un contro l’altro per i più futili e banali motivi, mentre Amore, Misericordia e Benevolenza piangono amare e silenti lacrime di sofferenza. Se tutto ciò fosse determinato, allora ben poco potremmo fare, mamvisto che l’Uomo ha facoltà di libero arbitrio allora tocca ma ciascuno individuo far trionfare i più alti sentimenti.
Questo è il compito dell’Apprendista, salire quella scala di valori, come quella sognata da Giacobbe, che lo porti a vivere sempre più in Alto verso quell’ideale Amore he, per Dante, “move il Sole e l’altre stelle” (Paradiso, XXXIII, v. 145). Ecco quindi che non importa se la natura umana sia quella descritta dall’adagio hobbesiano o meno, è con il lavoro iniziatico, introspettivo e riflessivo che l’Uomo deve giungere a comprendere che l’esistenza all’insegna dell’Amore fraterno è di gran lunga migliore da vivere che quella marchiata da vizio, odio e
terrore, visto che è il modo per ottenere l’agognata “felicità”.
E poi:,“La Fratellanza poi, nel trinomio rivoluzionario francese settecentesco, ha un altro aspetto, direi più sottile, che ben si associa all’idea stessa del Compagno d’Arte che per sua stessa etimologia 6 prevede una condivisione ovvero compagno è chi si trova insieme con altri in particolari circostanze, chi è legato ad altri da un comune,vincolo spirituale, o segue la medesima sorte.” Infine: “Infine per il Maestro, la Fratellanza dev’essere caratteristica specifica dello spirito, la più alta e difficilmente raggiungibile in quanto irrealizzabile senza Libertà, quella assoluta, svincolata dal pensiero e, come dire, divenuta automatica per natura, e senza l’Uguaglianza universale, convinta e radicata nel proprio sé, scevra da qualsiasi forma distintiva. La Fratellanza, non si limita più agli esseri umani, ma diviene quindi parte sostanziale dell’armonia con il Tutto: riuscendo così a riunire ciò che è separato attraverso l’Amore, conquistando infine senza ulteriore ostacolo il miraggio della “perfezione”.”
Concludendo, possiamo affermare – con un certo grado di cetezza – che quando ci troviamo sopraffatti dalla vita, smarriti nella “selva oscura”, il modo migliore per superare i problemi è quello di contare su noi stessi, su quanto abbiamo appreso nella via iniziatica, su ciò che professiamo all’interno dei nostri templi, lavorando al bene nostro, dei nostri compagni e fratelli ed al progresso dell’Umanità intera, senza mai perdersi negli assurdi ed inutili conflitti che già rendono difficile o, addirittura impossibile, la pacifica convivenza nel mondo profano. Nella speranza che un giorno non lontano fratellanza, empatia, amore e benevolenza guidino l’umanità intera verso un’alba luminosa.
Che ricordo derivare dal latino medievale companionis, composto di cum «insieme con» e panis «pane», propriamente «colui che mangia il pane con un altro» (dal Voc. Treccani) L’essenza del Libero Muratore

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