I TEMPI E LA RESPONSABILITA’ DELLA SCIENZA…

Francesco Coniglione

I tempi e la responsabilità della scienza e quelli della politica nell’età della pandemia

utto lascia pensare che la fase più acuta della pandemia dovuta al Covid sia in fase di regressione. È pertanto venuto il momento, con gli animi più sereni e meno agitati dalle opposte opzioni politiche e culturali, operare una riflessione sui diversi piani in cui si è presentato questo importante momento della vita nazionale (e non solo). ln particolare, si è dimostrato particolarmente rilevante e critico l’aspetto che ha visto l’intersezione tra i tempi e le procedure della scienza e quelli che invece sono i tempi e le decisioni che devono essere assunte dalla politica, ovvero da chi ha la responsabilità della salute

pubblica e ne risponde all’opinione dei cittadini. Se nel primo caso, la ricerca scientifica e la scienza già consolidata hanno tempi e modalità di svolgimento che rispondono solo alle esigenze interne della ricerca e che possono essere compresse e dilatate solo fino a un certo punto, in base all’interesse collettivo di promuovere più o meno certi filoni di indagine, nel secondo caso si richiedono tempi di decisione più rapidi, specie quando è in campo la salute pubblica e si è di fronte a un’emergenza sanitaria, Inoltre, se nella ricerca scientifica entrano (o dovrebbero) entrare in gioco solo valutazioni inerenti alla efficacia o validità delle soluzioni proposte, testate e controllate empiricamente dalla comunità degli studiosi, invece nel secondo caso le decisioni politiche obbediscono anche a motivazioni dettate dalla opportunità e suggerite dal complesso della situazione politico•economiche in cui si trova il paese interessato.

Procediamo pertanto con ordine nell’analisi di questi due diversi piani.

1 . I tempi e le responsabilità della scienza

Mai come in questo caso l’opinione pubblica è stata interessata al mondo della scienza (anche se in un suo ambito assai delimitato e peculiare, come quello medico-farmaceutico). Sono cos) saliti alla ribalta mediatica gli “esperti”, invocati da tutti – e in particolar modo dal ceto politico – nell’attesa di avere da foro la parola risolutiva o l’indicazione di “parametri scientifici, oggettivi” che permettano di assumere le decisioni corrette. La diffidenza a volte nutrita in passato verso gli spesso tacciati col titolo dispregiativo di ‘professoroni” – si è tramutata nell’attesa fiduciosa della parola salvifica; e la diffidenza nei loro confronti nutrita alle prime avvisaglie della epidemia, come fossero dei menagrami eccessivamente versati al protagonismo mediatico, si è via via mutata in una disperata consultazione di chi dava l’impressione di saperne di più su un argomento sino allora tenuto ai margini persino della scienza medica, nell’illusione che fosse scomparsa l’età delle grandi malattie infettive.

Senonché a tale affidamento fideistico non ha fatto riscontro una univoca posizione scientifica: i virologi e gli esperti in malattie infettive hanno manifestati una notevole variabilità di posizioni, da chi pensava che il Covid fosse poco più di una normale influenza a chi invece paventava scenari più drammatici e consiglia di conseguenza più drastiche misure. E l’iniziale impazienza dei politici nell’avere risposte univoche ha tradito un accentuato difetto di consapevolezza in merito alla natura e ai poteri della conoscenza scientifica, che viene ulteriormente aggravato dal tentativo di sovrapporle calcoli di convenienza politica, sfruttandone i margini di incertezza.

Se un effetto positivo di questa vicenda è da prendersi in considerazione, allora questo è stato il superamento, almeno in gran parte dell’opinione pubblica e nello stesso ceto dei politici, di una visione ingenua e dogmatica della scienza, come anche di un pregiudiziale atteggiamento di sua delegittimazione, entrambi moneta corrente in molti politici incolti. Il primo caso è stato (ed è ancora) tipico di chi coltiva l’idea puerile che sia possibile richiedere alla scienza soluzioni “certe” e “univoche”, quasi si trattasse di trovare la soluzione di un’equazione di secondo grado. Questo modello matematico di conoscenza scientifica è stato inculcato nella maggior parte delle persone sin dalla scuola primaria, in ossequio all’antico adagio, sempre ripetuto, che con la matematica non si scherza, che essa non fa “filosofia”: basta calcolare. È in fondo una illusione antica, tipica dei tempi “eroici” della scienza, nutrita da molti filosofi, specie dopo la rivoluzione scientifica: Io pensava, ad es., Leibniz, che voleva ridurre il sapere, e soprattutto la filosofia, a un “calculemus”; e con lui una miriade di filosofi e scienziati che hanno fatto la storia del pensiero sino all’epoca odierna e che hanno coltivato il mito di una ‘filosofia scientifica”. Che le cose non stiano propriamente cosi, che la matematica non possa essere il modello di ogni conoscenza, che ad essa si dovrebbe conformare cercandone la medesima obiettività e certezza, lo sanno più che i profani, i grandi matematici come, per fare un nome, Gian Carlo Rota, che in un suo celebre articolo ha messo in luce tutti i malintesi e le illusioni di quei filosofi che ad essa si sono ispirati nel tentativo di dare “rigore” alla filosofia l Ma lo si può anche constatareper portare un altro esempio – in un recente articolo di K. Houston-Edwards, in cui si spiega come anche la matematica non sia quella scienza esatta che ci si immagina, ma un luogo pieno di incertezze, nel quale «se chiediamo a 100 matematici da dove deriva la verità di un’affermazione matematica, otterremo 100 risposte diverse».

Il problema sta appunto nel fatto che una cosa è fornire risposte e soluzioni a questioni ben delimitate, ormai facenti parte di un sistema di conoscenze consolidato, come può essere appunto la soluzione di un’equazione o il calcolo di un limite; tutt’altra cosa è invece affrontare problemi che ne stanno a fondamento (come il concetto di numero o quello di “verità matematica”) o che sono ai confini della conoscenza, cioè hanno a che fare con fenomeni nuovi. È proprio questo il caso dell’epidemia da coronavirus: noi azzardiamo, ovvero pensiamo che quanto è risultato valido in passato possa risultare altrettanto valido anche in futuro per un fenomeno che ha analogie con quelli sinora trattati. Terapie e metodologie di cura che in passato sono state utilizzate con efficacia, vengono esportate e applicate a nuove varietà virali, nella speranza che anche in questi casi esse risultino efficaci. Ma, come sa ogni serio scienziato, si tratta di un azzardo che si spera possa riuscire. Non è affatto l’indicazione “oggettiva e inequivoca” di una soluzione: è una speranza ragionata, ma nulla esclude che le cose possano andar male, come abbiamo in effetti visto è accaduto nella fase iniziale del coronavirus, quando le terapie messe in atto si sono dimostrate insufficienti se non errate. Per cui attendersi in tali situazioni indicazioni esatte vuol dire caricare gli esperti di un compito eccedente le loro possibilità e conoscenze e forzarli a dare soluzioni pseudooggettive che possono indurre in errore e portare a successive recriminazioni. Tale attesa di soluzioni irrealistiche è un atteggiamento puerile non solo di molti politici, ma anche di persone dotate di media cultura, che hanno avuto una formazione scientifica di tipo dogmatico e astorico e che quindi non riescono a rendersi conto della complessità del sapere scientifico.

Infine, ancor più difficile diventa il compito quando la scienza scende dalle sue astratte costruzioni e dai modelli formali (propri di logica e matematica) per essere applicata alla concretezza dell’esperienza; a questo punto essa deve confrontarsi con una realtà nella quale sono presenti moltissimi parametri, per cui i suoi modelli teorici astratti,

validi in condizioni idealtipiche, devono essere interpretati e applicati con approssimazioni che cambiano a seconda di quali fattori e circostanze si ritengono più importanti. Le soluzioni “facili, oggettive, inequivoche H sono possibili solo in sistemi ideali nei quali abbiamo a che fare con pochi parametri. Aumentando gli stessi entriamo sempre più nel mondo della complessità, quel mondo che negli ultimi decenni è stato via via scoperto dagli scienziati, a partire dai fenomeni atmosferici per arrivare a quelli ancor più complessi delle interrelazioni umane. II classico “effetto farfalla”, sempre citato e spesso a sproposito, serve a darci un’idea della questione. Senza poi contare la ripercussione sociale del contagio: calcolarne diffusione, impatto, nonché prevedere le politiche da seguire con la popolazione, fa entrare in gioco una molteplicità di fattori derivanti dal comportamento di soggetti reali che agiscono in molteplici e differenti situazioni concrete, non di individui in una situazione controllata di laboratorio. il rischio derivante dal non avere contezza di tali caratteristiche della scienza è quello di procedere a una delegittimazione tout-couft del sapere scientifico, magari optando per linee di terapia o per saperi alternativi, non accettati dalla comunità degli scienziati ed estranei alla scienza consolidata. È la via percorsa da una galassia di negatori della scienza ufficiale (novax, creazionisti, terrapiattisti e vari altri fenomeni del genere). ln questo caso è facile una diagnosi che punti sull’ignoranza e la scarsa preparazione scientifica; ma, a parte che non sempre questo avviene, questa sarebbe una spiegazione parziale, perché in posizioni simili di contestazione della scienza “ufficiale” entrano in gioco molti altri fattori che non possono essere sottovalutati: la diffidenza per una scienza sempre più dominata dal grande capitale e dall’interesse privato (specie in campo medico e farmaceutico – il “big pharma”), spesso rinchiusa in brevetti inaccessibili e così via. Sono tutti motivi validi per un sano scetticismo verso ciò che qualche volta è stato diffuso come una sorta di panacea e che in passato si è mostrato dannoso per la salute e gravemente influenzato da interessi economici (la letteratura è ormai ricca di casi del

Inoltre c’è un aspetto che non bisogna trascurare: la diffidenza e il sospetto verso la scienza “istituzionalizzata”, nonché la

Nelle pagine successive: Illustrazione della “Peste a Firenze descritta dal Boccaccio’,’ Wellcome Collection gallery CC-BY•4.0

contestazione delle sue principali idee e consolidate soluzioni, è il lievito che permette la possibilità di nuove idee creative. Il finanziare da parte della società solo le indagini di scienziati con una fama consolidata o quelle linee di ricerca maggiormente in voga (il cosiddetto mainstream), trascurando ogni altra possibile linea alternativa, può portare all’inaridimento della crescita scientifica, consolidamento di quella “scienza normale” che consiste solo nel risolvere piccoli problemi di applicazione ed estensione delle teorie consolidate, ma che non apre il proprio sguardo su nuovi orizzonti. È sempre utile che una società riservi una sia pur piccola quota dei propri finanziamenti alla ricerca originale, agli scienziati “fuori dal coro”, nella consapevolezza che l’impresa scientifica è sempre una scommessa e che non è possibile avere un ritorno di ogni investimento: sono molte le vie cieche che si percorrono, ma a volte nel percorrerle ci si imbatte in nuove scoperte o è possibile che qualcuna di esse abbia buon esito. La ricerca scientifica ha bisogno di tutto ciò, non essendo un investimento in buoni del tesoro che deve dare sempre un rendimento.

La scienza, quindi, dispone di un patrimonio di conoscenze che possono essere fruite al momento opportuno; essa ha anche la missione di portare avanti la ricerca anche in campi e settori prima non affrontati o trascurati. Nel primo caso deve poter mettere a frutto quanto già consolidato, pur con tutte le incertezze e le approssimazioni indicate, senza false e irrealistiche illusioni; nel secondo, invece, deve essere aperta alle nuove idee e direzioni di ricerca, ma certamente non può ritenere conoscenza consolidata ciò che è ancora una ipotesi non sufficientemente testata e consolidata. la medicina ayurvedica, ad es., può aprire nuove prospettive di ricerca e condurre a nuove scoperte scientifiche, ma non può essere ritenute allo stato attuale una alternativa altrettanto valida di terapie già consolidate e sperimentate. Che però ciò sia possibile è attestato dal fatto che l’agopuntura è passata dallo stadio di pratica pseudo-medica a disciplina insegnata persino nelle università e adottata nelle più serie istituzioni di cura.  ln tutto ciò resta a carico dello scienziato la responsabilità dell’esatta informazione come dell’onesta e chiara diagnosi del problema affrontato, almeno nei limiti delle sue conoscenze e senza escludere l’umana possibilità dell’errore. Il che non è affatto facile se si considera l’enorme investimento economico che comportano certe linee di ricerca, il consolidarsi di veri e propri monopoli e la spesso conflittuale dipendenza dei ricercatori dai finanziamenti di quelle stesse case farmaceutiche private i cui prodotti in teoria dovrebbero da loro essere testati e valutati. E da questo non se ne esce se non assicurando ai ricercatori che vogliano mantenere la propria indipendenza di giudizio un intervento pubblico che ne possa garantire la carriera e alimenti nel modo dovuto le loro ricerche.

2. I tempi e le responsabilità della politica

Di fronte a una situazione quale quella descritta, quale dovrebbe essere il comportamento più razionale e prudente per il decisore politico? ln base a quali criteri di giudizio dovrebbe esso prendere le proprie risoluzioni? Quali sono gli strumenti di conoscenza di cui dispone?

Sono qui in gioco due aspetti: la conoscenza scientifica disponibile in un dato momento e il modo in cui essa può venire fruita dal decisore politico; la valutazione che viene da esso fatta della situazione complessiva, che comporta motivazioni politiche, questioni sociali e valori etici.

Per quanto riguarda il primo versante del suo intervento, il politico si è trovato (e continua a trovarsi) nella necessità di discriminare tra diverse opzioni terapeutiche e preventive sut coronavirus, avanzate dagli esperti i cui pareri non sono sempre univoci per i motivi prima accennati. Esso deve decidere quale di esse sia la migliore e di conseguenza essere in grado di giustificare di fronte alla pubblica opinione le scelte che assumerà, Diversamente stanno le cose per il secondo aspetto delle sue decisioni: qui entrano in gioco fattori che concernono la scala di valori (politici, sociali, etici) che si decide di adottare per assumere le diverse deliberazioni, valori che non sono suscettibili di una discriminazione di tipo scientifico, ma rispondono a complessive visioni del mondo (come ad es. il peso da assegnare alla libertà rispetto a quello della salute o il concetto di vita degna).

 

Per quanto riguarda il primo aspetto il decisore politico, di fronte a una situazione nella quale gli esperti non hanno una univoca opinione, non può certo assumere una decisione meramente politica, magari andando a scegliersi quell’esperto o scienziato che possa sostenere con la propria autorevolezza i pregiudizi o le convinzioni autonomamente nutriti in base alle proprie opzioni ideologiche di fondo (così come accade a coloro che, per negare il rapporto dello Intergovernmental Panel on Climate Change redatto da migliaia di scienziati, finiscono per privilegiare le poche decine di esperti di diverso avviso che fanno loro comodo). Il “decisore politico” che non vuole assumere decisioni irresponsabili (o farle giudicare per tali) e inoltre abbia l’urgenza di decidere in tempi ristretti, senza aspettare i tempi lunghi della ricerca scientifica, avrà una sola opzione: cercare le persone che nel campo interessato abbiano dimostrato e in qualche modo “certificato” di avere la maggiore competenza. E per far ciò di certo non è possibile bandire un concorso nazionale per trovare i “migliori”: non c’è il tempo (siamo in fase di emergenza) e il problema si riproporrebbe: chi sceglie i commissari che dovrebbero scegliere gli “eccellenti”?

L’unica soluzione ragionevole è allora vedere chi siano le persone che già occupano posti di responsabilità in primari enti di ricerca o di terapia che trattano simili problematiche e che siano possibilmente di natura pubblica, per evitare conflitti di interessi. Ciò sarà fatto anche tenendo conto ovviamente della tara derivante dalla circostanza, non improbabile, che qualcuno occupi quel posto per motivi estranei alla sua qualificazione (ad es., per essere di una certa parte politica): si affida, in sostanza, ai meccanismi selettivi “meritocratici” che hanno portato certe persone ad occupare determinati posti, specie nelle istituzioni scientifiche ed accademiche. Inoltre, consapevole della variabilità di opinione tra gli esperti, cercherà almeno di averne un numero adeguato in modo da evitare e/o limitare il caso del singolo incompetente “esperto per caso M e così seguire [‘opinione della maggioranza di loro, nella speranza che laddove c’è u n parere maggiormente condiviso ci sia una più elevata probabilità che si sia nel giusto, così come di solito si fa con i consulti medici: è questa la ratio che sta dietro la formazione degli spesso a sproposito criticati  Comitati Tecnico-Scientifici (o CTS). Ovviamente nulla garantisce che la maggioranza abbia ragione, ma di fronte alla necessità di una scelta che può comportare gravi conseguenze, il politico prudente cosa dovrebbe fare? Sarebbe da irresponsabili e politicamente ingiustificabile seguire l’idea di singoli ricercatori o di una loro sparuta minoranza: non siamo qui nella fase della ricerca scientifica, quando è giusto assicurare anche alle idee divergenti la possibilità di portare avanti le proprie concezioni, perché potrebbero alla lunga dimostrarsi giuste. Qui non c’è questo “alla lunga”: come diceva Keynes, “in the long run we are all dead”.

A quanto è suggerito dal suddetto CTS quale condotta più efficace per combattere il Covid – da cui il decisore politico non può prescindere e del cui avviso è vincolato a tener conto – si aggiunge e sovrappone il secondo aspetto prima evocato, cioè quel più vastoambito in cui si esercita la sua responsabilità e prudenza e che ne modifica le decisioni in base alle diverse scale di valori di volta in volta assunte, alle diverse visioni del mondo e persino alle sensibilità politiche che ne stanno alla base; a tutto ciò si associano anche i problemi, in effetti sollevati, sulla legittimità costituzionale e giuridica del comportamento messo in atto dai governi che hanno gestito la pandemia. Non a caso l’attuale presidente del Consiglio Mario Draghi ha parlato, in occasione della decisione di procedere tempo fa a delle limitate aperture rispetto alla più rigida disciplina sino ad allora adottata, di “rischio ragionato”. Questa espressione è stata fraintesa, ma alla luce di quanto detto essa deve essere interpretata intendendo la dimensione del “rischio” come ciò che è sempre presente nella valutazione scientifica che fa il CTS; il “ragionato” come ciò che fa riferimento ala politica e alle valutazioni di vario tipo ad essa intrinsecamente legate. Quindi non che si “calcoli” il rischio (cioè se ne dia una valutazione certa e quantificabile) ma che si è consapevoli dell’incognita e dell’azzardo e si decide di correrlo al fine di garantirelassicurare altri beni la cui realizzazione si ritiene – con una stima che non è possibile tradurre in algoritmi o di fondare in modo “scientifico”, seppure in modo approssimativo – di fondamentale importanza. Insomma, se “il gioco vale la candela”.

Se nel comportamento del decisore prima delineato risiede la sua “responsabilità” politica, può invece capitare che a volte si è più sensibili alle esigenze poste in campo dalla competizione tra le diverse formazioni politiche, sicché si finisce per scegliere una certa strategia solo perché con essa si contesta quella del partito avverso o del governo politicamente non gradito. Non s

 

è azzardato esprimere l’impressione che nella passata gestione del Covid ci si è trovati spesso in una situazione simile. E quando a contrapporsi sono soluzioni nettamente definite sulla base delle diverse coloriture politiche – per cui tutti quelli che stanno da una parte la pensano in un modo e quelli che stanno dalla parte contraria la pensano in altro modo -, allora è chiaro che non v’è qui né scienza né responsabilità, ma solo posizione di parte, faziosità pregiudiziale, ricerca di visibilità e tornaconto politico. Se infatti così non fosse, di fronte a una situazione complessa che pone diverse opzioni di scelta, queste ultime dovrebbero distribuirsi statisticamente, seguendo le diverse preferenze personali e i differenti criteri di giudizio, non addensarsi tutte intorno alle diverse posizioni partitiche che esistono sul campo, seguendo fedelmente le appartenenze politiche da ciascuno professate. Considerazioni, queste, che trovano conferma in ogni processo di decisione politica in cui si trovano ad essere contrapposti due punti di vista divergenti (di solito quelli di maggioranza ed opposizione) rispetto a ad esempio anche nel caso del riscaldamento globale e delle posizioni che si assumono verso i rapporti dell’Intergovernmentaf Panel on Climate Change.

3. Quali valori devono guidare la decisione politica?

Su quali siano i valori che debbono stare a monte delle decisioni politiche è possibile un ampio dibattito, dipendendo essi dalle opzioni generali che stanno a fondamento della visione della vita e delle varie sensibilità che fanno parte della società, per cui non è difficile che vi siano notevoli divergenze, diciamo, tra un commerciante e un comune cittadino, tra chi ha forti e radicate convinzione religiose e chi invece votrebbe innanzi tutto assicurato il proprio interesse materiale e il proprio tenore di vita, tra chi ritiene il PIL tanto importante da consentire un certo tasso di decessi (specie tra i più deboli e improduttivi) e chi ritiene ogni vita sacra, da difendere e salvaguardare ad ogni costo. Anche in questo caso il decisore politico è costretto a compiere decisioni difficili che è assai difficile riescano a contemperare le diverse alternative in campo. Ma anche in questo caso egli deve essere responsabilmente in grado di tener conto del sentimento dominante nella propria comunità di riferimento.

Tale discorso ha assunto nel nostro paese una sua concretezza infuocata quando sono scesi in campo non più esagitati novax, derubricati nella loro rilevanza con l’accusa di ignoranza e indigenza scientifica, ma fior di intellettuali a cui certo non mancava la cultura e capacità riflessiva per esprimere una valutazione non tanto in merito alle questioni medico• epidemiologiche (cioè alla “scienza”), bensì alle implicazioni valoriali implicite nelle scelte assunte dal legislatore. È infatti su questo aspetto che può avvenire il reale confronto tra posizioni, non certo nella valutazione circa una certa misura profilattica o nella interpretazione di statistiche e risuItati delle diverse terapie, con giornalisti e intellettuali trasformatisi di volta in volta in virologi, statistici, infettivologi ed esperti di epistemolog ia della scienza.

Un caso vorrei portare ad esempio, che a me pare particolarmente significativo per la caratura dei personaggi coinvolti: le posizioni assunte dall’eminente filosofo Giorgio Agamben, poi seguite anche da Massimo Cacciari, con le quali si è stigmatizzata la C.d. “dittatura sanitaria”, caratterizzata dal dominio di una visione impoverita e meccanicistica della vita, dalla riduzione e liquidazione della dimensione affettiva insita nei rapporti sociali, dall’annichilimento della ricchezza dei rapporti personali, con le conseguenze psicologiche derivanti dalla necessità di adottare sistemi di comunicazione e interazione artificiosi, come avviene con la didattica a distanza in scuole e università e in altri consessi in cui il contatto in presenza è fondamentale per stabilire la solidarietà e la fratellanza tra individui, come appunto avviene all’interno defl’lstituzione massonica.

Al netto delle sfumature complottistiche che posizioni simili possono assumere, mi sembra rilevante ai nostri fini la tesi che ha visto nella gestione della pandemia un attacco alle libertà individuali e una riduzione della dimensione complessiva umana alla “nuda vita”. Agamben in una sua importante intervista ha sostenuto che «la gente ha accettato non soltanto di rinunciare alle proprie libertà costituzionali, alte relazioni sociali e alle proprie convinzioni politiche e religiose» ma ha accettato di ridurre l’esistenza umana «a un dato biologico, a una nuda vita che occorre salvare a qualsiasi costo J. Quel che è avvenuto è che, attraverso un processo di medicalizzazione crescente della vita, l’unità dell’esperienza vitale di ogni individuo, che è sempre inseparabilmente insieme corporea e spirituale, si è scissa in un’entità puramente biologica da una parte e in un’esistenza sociale, culturale e affettiva dall’altra»3. Potrebbe essere sufficiente quanto citato, avvertendo però che vi sono molti altri in sintonia con quanto espresso da Agamben e che – assumendo una prospettiva universalista e olistica” – denunziano l’avvenuta pratica negazione della “complessità dell’esistenza umana”, per cui «L’esistenza viene per lo più ricondotta e ridotta alla sua dimensione soltanto individuale, alla salute illusoria del singolo corpo, che non tiene conto del fatto che l’essere umano vive di una intrinseca socialità, fatta di incontri, comunicazione, trasmissione, insegnamento, apprendimento attuati dal corpotempo che vive, agisce, comunica nello spaziotempo condiviso e reale».

È questa una prospettiva sulla vita e sull’uomo che ha uno spessore e una dignità filosofica che non si possono di certo sottovalutare e sulla quale è difficile trovarsi in disaccordo da parte di chi – come i massoni – ritiene tale dimensione olistica dell’uomo l’aspetto più significativo dell’esistenza, quello che

la rende degna di essere vissuta. Ma il punto – a mio avviso non sta tanto nel condividere o meno tale impostazione e di assumerla a propria prospettiva esistenziale; non si tratta di operare, insomma, una opzione filosofica per una certa visione del mondo e, di conseguenza, comportarsi in coerenza con essa, seguendo magari un certo itinerario di perfezionamento spirituale quale quello effettuato all’interno della massoneria. Qui abbiamo soprattutto a che fare con una dimensione pubblica e non con la scelta individuale di un singolo o di pochi il cui comportamento non incide sulla vita altrui e che pertanto sono liberi di praticare le forme di ascetismo o lo stile di vita che preferiscono. E, ancor più, siamo in presenza della necessità che il decisore politico assuma una linea di azione che non può essere motivata dalle visioni filosoficoantropologiche di alcuni intellettuali o di una settore limitato della società, per quanto siano alti i valori da essi professati, ma deve contemperare le esigenze, i timori, le aspettative di una popolazione variegata e con visioni delta vita contrastanti e spesso inconciliabili.

 l decisore politico non può certo ignorare che la gran parte della gente è attaccata proprio alla “nuda vita” e vuole soprattutto, e in modo ossessivo, salvare la propria incolumità e quella dei propri cari; a queste persone non può certo dirsi che così facendo “riducono” la vita a pura materialità biologica e che, per salvaguardare quella dimensione olistica che giustamente si rivendica all’esistenza umana, è meglio non prendere alcuna cautela di carattere sanitario, lasciando che ciascuno faccia secondo quanto gli detta la coscienza. Questo non è possibile perché ci sono moltissime persone – direi la maggior parte – che tengono innanzi tutto al proprio benessere inteso in modo “riduzionistico”, come un semplice “mantenersi in vita”. E queste persone hanno tutto il diritto a non sentirsi minacciate in questo loro sentimento, in questa loro preoccupazione puramente sanitaria, da chi invece di essa non si cura perché intende la vita in modo più completo e olistico. Questo diritto deve essere rispettato e garantito al pari di quello di chi vorrebbe vivere a modo suo, perché – come ben sa ogni buon liberale e ogni massone – la libertà di ciascuno trova il proprio limite nella libertà altrui, così come avviene in tanti altri micro-settori della nostra vita quotidiana, in cui – ad es. – la nostra libertà di sentire musica ad alto volume è limitata (anche per legge o per regolamento condominiale) dalla libertà altrui di riposare in pace o di coltivare il silenzio. Chi ha funzioni amministrative o legislative deve contemperare queste diverse esigenze: l’elevazione spirituale che può derivare dall’ascoltare musica e quella terra terra di chi vuole solo stare in pace e dormire. Non può essere sensibile solo a una delle due: non “terrorismo o dittatura sanitaria”, dunque, ma rispetto per le sensibilità diverse sia da parte del legislatore sia da parte del singolo cittadino.

È all’interno di questi limiti e discrimini che si deve muovere il potere politico, cercando di garantire quella condizione minimale – la garanzia della “nuda vita” – che può mettere d’accordo la maggior parte delle persone. Fare altrimenti optando per una certa condotta volta ad assicurare valori ritenuti più elevati e di pregio verrebbe a configurare una vera e propria “dittatura morale” ancor più pericolosa di quella “sanitaria”, un vero e proprio “stato etico” che nella storia, quando Io si è cercato di realizzare sulla base di certi principi religiosi, si è trasformato in una pesante cappa per la libertà degli individui. Con ciò non si vuole negare il diritto e anche l’opportunità di un dibattito pubblico su certi aspetti della vita associata e sul valore della vita, ma solo mettere in guardia dal giudicare su tale base le politiche concrete assunte dal decisore politico o – peggio ancora – voler fare di certe opzioni etiche o religiose il fondamento della legislazione in una società pluralista e articolata. Come la storia ci testimonia, è questa la base che in passato ha segnato secoli oscuri per intolleranza, persecuzioni e guerre religiose.

Sta in ciò la difficile arte della convivenza sociale, che non ci permette di essere arbitri della nostra vita come se fossimo su un’isola deserta, senza interazioni col resto dell’umanità, ma ci rende intessuti in un fitto intreccio di relazioni sociali e pertanto ci impone di rispettare le esigenze e le sensibilità altrui, senza sovrapporre ad esse le nostre opzioni filosofiche di fondo. ln fondo anche questo è un modo di esercitare nel concreto quelle libertà, tolleranza ed eguaglianza che stanno infisse nella volta di ogni nostro tempio.

TRATTO DA “HIRAM” N. 1 2022

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SIMBOLISMO

SIMBOLISMO

  • Il Libero Muratore
  • Incontro internazionale «Campo Jean Soulacroix» Vichy
  • Letteratura sapienziale nel mondo antico

Il Libero Muratore deve conoscere se stesso – ecco perché al compagno si pongono di fronte, come primo argomento di studio, i cinque sensi

Che significato ha lo studio dei cinque sensi nell’ambito della conoscenza iniziatica e perché il Compagno Libero Muratore deve porre attenzione ad essi?

La mutazione che deve seguire ogni seria iniziazione è senza dubbio radicale.

Una diversa valutazione del mondo e l’avvicinamento ai segreti del cosmo intanto sono possibili in quanto cambi l’atteggiamento dell’individuo di fronte ai grandi interrogativi dell’esistere.

Ecco perché è necessario che il lavoro di affinamento avvenga, in primo  luogo, nei confronti di se stessi.

Conosci te stesso è un imperativo filosofico antico che occorre sempre tener presente se si vuole camminare lungo la via che l’iniziazione ci indica.

Il modo umano più elementare di conoscere è quello di avvalersi dei sensi di cui siamo dotati. Essi ci consentono di vedere il mondo, di udire i suoni (anche quelli celesti), di tastare la concretezza delle cose materiali, di gustare i cibi e le bevande (allontanando quelli dannosi). Se pensiamo alle prime esperienze conoscitive di un bambino, ancora non dotato della parola, constatiamo come esse si avvalgano dei sensi. Il bambino tocca e gusta ogni cosa. E il suo modo di stabilire un contatto fisico con la realtà. Di sperimentare.

Il compagno deve considerare se stesso come un bambino, già un poco evoluto, in quello stato di grazia che capita una sola volta nella vita e nel quale le facoltà percettive sono all’acme; in cui è in grado di imparare in modo sorprendente una quantità straordinaria di nozioni che rimarranno impresse per sempre nella sua personalità e lo seguiranno per il resto della sua esistenza.

Non si dà forse la dovuta importanza alla figura del compagno che superata la fase sbalordita dell’apprendistato quando come un infante, che non è ancora dotato della parola, vede aprirsi innanzi a sé una via misteriosa ed allettante, di cui conosce alcuni sentieri iniziali ma che, per lo più, rimane come avvolta in una nebbia di incertezze e di tracciati sconosciuti.

Il compagno però sa che, solo che lo voglia, può imboccare la strada giusta e giungere al traguardo successivo.

Il simbolismo della pietra grezza, di questo masso informe, irregolare, e che a causa delle sue imperfezioni non potrà, così com’è, trovar collocazione in nessun luogo in quanto le sue facce non riusciranno mai a collimare con nessun’altra pietra, è di capitale importanza. La pietra grezza è destinata alla solitudine, all’abbandono. Nessuno si chinerà mai per raccoglierla. Nessuno le riconoscerà mai una funzione. Rotolerà non si sa dove, senza essere servita a nulla. Così come la vita dell’uomo gretto, pago solo di obiettivi materiali e contingenti, rotolerà per inerzia verso un baratro buio e non sarà stata di esempio, né della minima utilità, per l’umanità.

L’uomo gretto non avrà fatto fare un solo passo avanti al processo evolutivo del genere umano.

Non dico che sia facile smussare le asperità della nostra pietra personale e nemmeno che si possa riuscire in breve tempo a rendere le sue facce lisce e tanto perfette da combaciare perfettamente con le altre destinate alla costruzione del Tempio ideale.

Vale comunque la pena di tentare.

E ovvio che quando parliamo dei sensi li intendiamo in un modo diverso da quello, ad esempio, di un medico o di uno scienziato. Prescindiamo dal loro significato strettamente fisiologico per attribuire loro un senso strumentale.

I sensi sono, per il Compagno Libero Muratore, degli attrezzi di lavoro. Degli elementi che possono utilmente mediare il passaggio dallo stato fisico a quello mentale e, ancora, trascendentale.

Udire il silenzio, ad esempio, è un’operazione che parte da un senso (quello dell’udito) ma che trascende la pura fisicità per assumere una connotazione squisitamente iniziatica.

E il silenzio attraverso il quale il Maestro Venerabile trasmette non solo il suo sapere, ma il suo amore, la sua disponibilità, il suo aiuto,la sua tolleranza, in una parola tutta la carica fraterna (assommando in sé, per il potere della sua funzione, l’afflato dell’intera Officina) per far sì che l’ Apprendista ed il Compagno percepiscano non solo la magia dei lavori di Loggia, ma siano spronati ed aiutati nel loro lavoro individuale e segreto. Già! La segretezza.

La voglio qui intendere come elemento indispensabile alla levigazione della pietra.

Il compagno non va certo in giro a proclamare ad alta voce nel mondo profano: «Badate! Sto levigando! Tra poco sarò migliore. O almeno lo spero». E nemmeno confessa ai fratelli i passi del suo iter. Il suo è un lavoro silenzioso, che si svolge nel livello segreto, appunto, della sua coscienza, in un dialogo ad una sola voce, la sua; in un continuo raffronto tra quello che lui era, a livello profano, e quello che è ora essendo stato iniziato.

E un continuo, incessante confronto tra le sue cognizioni filosofiche di prima e quelle attuali, così che determinate certezze o, per contro, determinati dubbi, possono letteralmente capovolgersi,

Ciò che sembrava assiomatico diventa dubbio e ciò che prima pareva nebuloso assume certezze granitiche.

E tutto ciò attraverso i sensi che, mano a mano, si affinano e divengono capaci di percepire verità un tempo ignorate o, se immaginate, ritenute irraggiungibili. 

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LA CANZONE DEL PIAVE

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STUDI MASSONICI E STORICI

STUDI MASSONICI E STORICI

Studi massonici e storici

LINGUAGGIO RAZIONALE

E LINGUAGGIO SIMBOLICO

Primo Neri

La ricerca massonica si avvale di simboli di vario tipo: alchemici, astrologici, elementari ecc.; simboli che sono necessari, anzi indispensabili per un lavoro di ricerca iniziatica.

E certo che nel leggere o nel parlare di questi schemi simbolici, soprattutto ai profili ma purtroppo anche a molti fratelli, per l’abitudine ad un linguaggio ben definito e che esprime direttamente una utilità, sorge quasi un senso di repulsione, di gioco verbale e direi quasi di un inutile formalismo fine a se stesso. Siamo abituati a trovare nelle parole e nelle frasi una giustificazione logica che ci indica con chiarezza il loro significato, e la loro finalità e parlare di <<fuoco, aria, scorpione, compasso, eccetera» di fronte alle chiare enunciazioni della nostra cultura del ‘900, può far il sospetto di trovarsi di fronte ad astratte espressioni formali del passato, frutto della superstizione e dell’ignoranza.

L’IPOTENUSA

E queste espressioni verbali sono veramente forme e soltanto forme se considerate nel loro significato comune.

In questa prospettiva è. comprensibile che sorgano queste domande: «Che gioco di parole è dunque questo? Perché mi debbo interessare a dei feticismi, a delle idolatrie verbali?».

Cosi non ci si può trovare e capire. Non siamo noi soli gli intelligenti, i bravi, gli evoluti. Non meno di noi, nei tempi passati, ci sono stati grandi uomini, grandi menti, grandi saggezze che non meno dei nostri scienziati si sono dedicati alla ricerca della Verità e della vera Realtà.

Non è possibile pensare che uomini come Talete, Eraclito, Agostino, Platone, Socrate, Pitagora, Seneca, Bacone, Aristotile e tanti altri, fossero tutti condizionati dalla superstizione, quando il loro pensiero ha saputo in tal modo elevarsi in tutti i campi dello scibile da esserci ancora di guida e di insegnamento nel nostro sviluppo culturale.

Eppure, quei grandi uomini tenevano in elevata considerazione la conoscenza simbolica ed iniziatica e ad essa dedicarono buona parte, se non la massima parte, della loro ricerca e del loro interesse.

Appare evidente che c’è qualcosa che non torna, qualcosa che non va: od era in grave errore la loro formazione intellettuale o sono questi fratelli che non riescono a comprendere, che non riescono ad aprirsi ad un’ altra dimensione della mente.

Guardiamoci attorno. Esaminiamo distaccati la nostra cultura, le nostre strutture sociali, il nostro modo di vivere e di pensare.

L’umanità sta disperdendosi in un assommarsi di nozioni, di aspetti esistenziali, di ideologie, di attività fine a se stesse. La mentalità positivistica, per una sua necessità metodologica, fu caratterizzata da una analisi sempre più minuta e precisa di tutti gli aspetti della vita e della cultura. E ciò appare giusto, in quanto questa analisi approfondita poteva meglio conoscere e fissare la conoscenza della realtà fin nei suoi più intimi aspetti.

La conoscenza ci pare più sicura perché tutto abbiamo analizzato, perché tutto abbiamo dissolto in parti, e queste ancora le abbiamo puntualizzate in ulteriori esami e focalizzazioni.

Ma non ci siamo cosi accorti che le parti, in se non hanno alcun significato, se non riferite alla totalità della quale sono parti.

TERZO TRIMESTRE 2015

Esiste una sola Realtà e una sola Verità e noi abbiamo astratto, da quella unitàtotalità, delle parti, per analizzarle a scopo di studio, dimenticandoci che questa è stata una astrazione.

Tutta la nostra conoscenza, che noi giudichiamo così concreta, si rivela perciò fondamentalmente astratta, in quanto manca sempre ciò che aveva caratterizzato la cultura delle Grandi Civiltà del passato: una Grande Sintesi che sola può dare una vera conoscenza.

Ma le Grandi Sintesi non possono essere espresse solo col linguaggio razionale, in quanto la concettualizzazione limita nei confini della definita e perciò statica espressione verbale, tutta una realtà trascendente e indefinita e perciò non definibile.

L’ultima Grande Sintesi che è stata tentata – quella Einsteniana della Relatività – è stata espressa con un mezzo puramente simbolico, la matematica, ed ogni sua riduzione alle normali coordinate della mente provoca un senso di smarrimento e di confusione: solo intuitivamente può essere in parte compresa ed in parte accettata, e questo a seconda dell’apertura all ‘irrazionale di chi la considera.

Così solo il linguaggio simbolico, considerato al di là dell’aspetto razionale delle espressioni verbali, e solo come un mezzo irrazionale ed intuitivo di conoscenza, può aprirci alla comprensione della Grande Sintesi della vera e ultima Realtà.

Solo col linguaggio simbolico ci sarà possibile superare il contingente e il definito per immettere nella nostra conoscenza il trascendente e l’indefinito. Solo col linguaggio simbolico l’uomo potrà conoscere di se stesso non solo l’esteriorità fenomenica e i suoi sentimenti psicologici, ma anche l’interiorità spirituale e i valori morali.

Abbiamo detto che il simbolo è un mezzo più completo e totale di conoscenza in confronto del concetto, poiché si rivolge non solo alla mente ma alla totalità della conoscenza umana.

Infatti se noi diciamo «fuoco», e non ci soffermiamo sul significato formale ma cerchiamo di sentire che cosa desta in noi questa parola, sentiamo emergere altri significati: potenza, creatività, elevazione, spiritualità. se diciamo («acqua», altre coerenze sorgono: passività, orizzontalità, trascinamento. Se diciamo la parola «aria», sentiamo per analogia: sottile, incostanza, variabile. Se «terra»: rigido, fermo, materialità.

L’IPOTENUSA

D’altra parte, oltre a questo sentire delle coerenze interiori di fronte ad una espressione verbale, attraverso il linguaggio simbolico ne può derivare una convenzione fra iniziati ad una ricerca, sia per semplificare il linguaggio a molti significati, sia per renderlo gradualmente sempre più comprensibile agli stessi iniziati e sempre meno ai profani.

E chiaro che le parole «Cancro», «Marte», «Scorpione», cccetera, non provocano evidenze particolari. Ho detto parole italiane perché non posso escludere che agli inizi e nella lingua originale esoterica anche tali parole avessero una consonanza di significati interiori.

Ma anche se non destano evidenze particolari, queste espressioni vengono usate convenzionalmente per esprimere, ognuna diversamente dall’altra, dei significati particolari, non definiti e delimitati, ma sempre variamente intelligibili e conoscibili a seconda della gradualità di sperimentazione.

Ho detto gradualità di sperimentazione perché il linguaggio simbolico lo si può anche imparare, e diventa in questo caso conoscenza di un mezzo di ricerca esoterica. Ma rimane solo e semplicemente conoscenza di un mezzo e se questo mezzo non viene adoperato, rimane una conoscenza nozionistica da aggiungere alle altre conoscenze.

Ma un mezzo è un qualcosa che deve essere usato perché possa esprimere la sua finalità, la sua efficacia. E il solo metodo per poter usare il mezzo simbolico per una ricerca iniziatica è la meditazione sul simbolo e la sperimentazione del simbolo.

Direi quasi che bisogna incarnare i vari simboli, per poter diventare sempre più, attraverso la nostra ricerca iniziatica, noi stessi il «Simbolo della Vera Realtà, il Simbolo della Verità».

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IL GIOCO DELL’OCA

Il gioco dell’oca di Adele Menzio

Santiago di Compostella è più antico, come luogo sacro, di quanto normalmente si crede.

E vero. La data di fondazione della basilica, eretta a ricordo dell’aiuto soprannaturale dato da San Giacomo nella battaglia di Clavijo che vide la vittoria dei cristiani sui Mori, è quella dell’844. E già nell’818 una stella, fissa in cielo, aveva indicato ad Iria Flavia, in Galizia, il luogo della tomba del santo che, martirizzato a Gerusalemme, fu poi trasportato in Spagna. Il vescovo di Iria Flavia fece scavare nel luogo indicato dalla stella e lì fu trovato un sepolcro marmoreo contenente le spoglie del santo.

Dopo la battaglia di Clavijo il santo fu creato patrono della Spagna ed il luogo della basilica, eretta in suo onore, divenne ben presto meta di pellegrinaggio.

La strada che conduceva al santuario si chiamò «il cammino di Compostella» o di Santiago.

Per rendere sicuro il viaggio ai pellegrini la strada fu costellata di monasteri, ospedali, ospizi che vennero difesi da ordini militari. Tuttavia il cammino di Compostella era stato una strada di pellegrini fin dal periodo del neolitico.

Era una strada iniziatica.

Lug, il dio celtico che si dice abbia dato il nome all’antica capitale della Galizia, dette il nome anche alla «via» che fu detta «l’arcobaleno di Lug».

Altra denominazione: «la via delle oche selvagge».

Tutte le leggende cristiane del Medio Evo hanno avuto origine nei monasteri benedettini dopo che i monaci di S. Benedetto si fusero con quelli irlandesi. Questi ultimi ancora conoscevano la scienza druidica. Essi erano dei costruttori e la loro presenza sul cammino di Compostella è provata (e visibile) in Galizia ed in Navarra.

Una, tra le molte leggende, è significativa. Quella di Mastro Giacomo.

Era costui un tagliatore di pietre, originario dei Pirenei, che, per la sua abilità, si dice abbia aiutato Hiram nella costruzione del tempio di Salomone. A lui si deve l’erezione della colonna Jakin. Jakin in lingua basca significa «saggio».

I costruttori di Compostella, cristiani, erano riuniti nella confraternita denominata «figli del Maestro Giacomo» il cui simbolo era il piede palmato dell’oca. Essi, nonostante la fede cristiana, continuavano a seguire tradizioni antiche.

Il segno dell’oca (il piede palmato simboleggia il dominio dello spirito sulla materia) era proprio degli antichi navigatori (liguri e fenici). I liguri, in particolare, adoratori dell’oca, trasmisero ai romani il culto. Tutti ricordiamo le oche sacre del Campidoglio.

Nel momento della cristianizzazione dei costruttori il Maestro Giacomo, il saggio Jakin (da notare che «jars» vuol dire «oca») divenne San Giacomo ed il simbolo si mutò in quello della conchiglia.

Nonostante il mutamento la tradizione rimase immutata e la via di Compostella continuò ad essere la via delle oche selvagge (degli jars liberi).

E interessante esaminare i toponimi del «cammino».

L’oca si presenta in due forme linguistiche: una indoeuropea e l’altra sanscrita.

Auch, dall’indoeuropeo, attraverso il latino auca, diviene oca, anche, oja. Hamsa (sanscrito) diviene in latino anser (ganso, ansar, gans, iars). Proprio là ove inizia il «cammino» francese noi troviamo il paese di Ansò; ad est di Burgos v’è Villafranca Montes de Oca ove sono i resti di una precettoria templare. Ad ovest di Burgos c’è Castrojars, mentre nella regione del Bierzo abbiamo il paese del Ganso. Il valico che conduce a Compostella si chiama de la oca e, più sotto, il paese ha lo stesso nome.

Gli jars, i costruttori iniziati, usavano da millenni compiere viaggi che li conducevano alle coste dell’Atlan tico per studiare e decifrare i sacri segni incisi sulle rocce galiziane.

Incisioni rupestri antichissime riproducenti, pare, un alfabeto oggi sconosciuto. Ma un segno (la zampa dell’oca) lo ritroviamo tracciato sulle pareti dei monasteri che via via vennero eretti lungo il cammino di Compostella. Nella chiesa di S. Maria de la Huertas in Navarra

a Puente de la Reina, Cristo è inchiodato ad una croce a forma di piede d’oca. Si tratta di un’opera templare.

Anche i labirinti che troviamo in molte cattedrali gotiche ha origini galiziane e rappresenta, come sappiamo, il cammino iniziatico dell’uomo.

Ad incidere sulle pietre della Galizia si vuole siano stati antichi saggi, forse gli Atlantidi che vi simboleggiarono il loro sapere occulto. I figli del Maestro Giacomo, costruttori cristiani, continuarono a percorrere l’antico cammino degli jars non come la gente comune, per compiere un pellegrinaggio di penitenza, ma per fini iniziatici. Secondo una tesi suggestiva la strada iniziatica delle oche selvagge si sarebbe tradotta nel nostro gioco dell’oca.

Inventato dagli jars questo gioco altro non è che un insegnamento esoterico che riproduce il rituale di una iniziazione complessa e ricca di prove da superare.

Altri ancora ne fanno risalire le origini a tempi ancora più remoti e mitici.

Durante l’interminabile assedio di Troia pare che i Greci si annoiassero a morte. Così Palamede (il cui nome significa «mano palmata») lo inventò per distrarre i guerrieri. E secondo alcuni Palamede era uno jars che, in questo gioco apparentemente innocente, trasmetteva i propri insegnamenti alla posterità.

Rafael Alarcòn ritiene addirittura che il disco di Phaistos (Creta) (2000 a. C.) fosse un gioco dell’oca. In effetti si tratta di un disco a spirale dove in otto caselle appaiono degli uccelli (oche?), in altre caselle delle barche che attraversano fiumi.

Per molto tempo non si hanno notizie storiche del gioco dell’oca. Dobbiamo giungere al XVI secolo per trovare traccia di una copia donata da Francesco de’ Medici a Filippo II d’Asburgo.

Non è affatto strano che proprio alla corte medicea si giocasse all’oca. I Medici, come è noto, ospitavano eminenti cultori di esoterismo. Esaminiamo attentamente questo gioco mediceo che affascinò non solo la nobiltà spagnola, ma tutti i ceti sociali.

Una strada a spirale (ellittica) divisa in 63 caselle numerate. 13 di queste caselle hanno figure di oca e sono le tappe vantaggiose o fortunate. Notiamo che nel Medio Evo le tappe del cammino di Compostella che venivano consigliate ai pellegrini erano proprio tredici. Il traguardo (nella casella finale) è «il giardino dell’oca». Nel gioco è dunque riprodotto un cammino delle oche che, dopo ostacoli vari, conduce al giardino: un luogo di delizie.

Nel gioco le caselle favorevoli non sono quelle delle oche, ma anche quelle dei dadi, o pietre cubiche.

Gli ostacoli (che prevedono di fermarsi) sono: il ponte, l’albergo, il pozzo, il labirinto, il carcere e la morte.

Esaminiamoli uno ad uno.

Il ponte si riferisce alle grandi opere di architettura compagnonica costellate di simboli che devono essere decifrati. L’albergo ricorda i numerosi ospizi che si trovano lungo la via di Compostella. Il pozzo è un chiaro riferimento ai pozzi sacri di molti conventi ed edifici medioevali, ma anche all’acqua come elemento di purificazione.

Il labirinto simboleggia la difficoltà del cammino iniziatico dove i vari stadi, le varie tappe non possono apparire chiare se non a chi ha faticosamente raggiunto una meta (o stato di coscienza) precedente. Il carcere è l’inequivocabile simbolo dell ‘anima costretta ed incatenata alla materia.

La morte tappa necessaria per la rinascita iniziatica.

Sembra che per lo jars il luogo di arrivo non sia affatto Compostella (che è il luogo della morte di San Giacomo) ma oltre. Precisamente il capo Finisterre dopo il quale si entra nel giardino dell’oca ove è il regno dello spirito.

Alcuni hanno voluto identificare il giardino delle oche con quello delle Esperidi.

Possiamo dire che il gioco dell’oca non è tanto la rappresentazione geografica, cioè una mappa, del cammino di Compostella, quanto un tracciato simbolico. Non si può tuttavia non sottolineare come in entrambi i cammini, quello reale e quello simbolico tracciato nella spirale, l’oca rappresenta una sorta di divisione, un confine che separa un tratto del cammino dall’altro.

Proprio mettendo a fuoco le caselle con l’oca possiamo trovare una conferma del fatto che il percorso iniziatico dello jars andava oltre Compostella.

Casella no 54: l’oca

Casella no 58: la morte Casella no 59: l’oca.

Se poniamo a confronto le tappe del gioco con quelle geografiche vediamo che facendo coincidere l’oca della casella 54 con il paese dell’oca, presso l’omonimo valico; la casella 58 (la morte) con Compostella (luogo della tomba di S. Giacomo) e la casella n. 59 con il paese di S. Sebastiano de Oca presso il Monte Ora vediamo che la méta del viaggio va oltre il santuario e giunge sino al capo Finisterre (termine oltre il quale c’è solo l’ignoto).

Se, sino ad un certo punto, il pellegrinaggio cristiano e quello iniziatico degli jars coincidono, il viaggio iniziatico prosegue. Va oltre.

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LA POLEMICA

 

 

Daniele Tempera  Giornalista

Perché ci interessiamo al sottomarino dei miliardari e non ai migranti

una corsa contro il tempo, con aggiornamenti in diretta. Il dramma del Titan, il sottomarino della OceanGate imploso a quattromila metri di profondità, ha tenuto il mondo con il fiato sospeso per più di tre giorni. Per cercare di salvare i cinque sfortunati componenti dell’equipaggio sono state avviate operazioni di salvataggio con tecnologie all’avanguardia e la copertura del dramma, da parte dei media, è stata senza precedenti.

In molti, prima e dopo l’epilogo, hanno notato un’asimmetria tra la vicenda del sommergibile e il dramma quotidiano dei migranti sulle rotte del Mediterraneo. Pochi giorni prima si era infatti verificato l’ennesimo naufragio nelle acque del “Mare nostrum”, questa volta vicino alle coste greche. Drammatico il bilancio: 78 morti ufficiali e centinaia di dispersi per quella che, secondo la Ue, è una delle più grandi tragedie del Mediterraneo. Parliamo di uomini, donne e bambini che si erano imbarcati dalla Libia con il sogno di una vita dignitosa. Meglio: di una vita che valesse la pena di essere vissuta.

E allora perché la nostra attenzione di fronte alle due diverse tragedie del mare è stata diversa? Perché il dramma di centinaia di persone che scappavano da guerra e fame non ha avuto la stessa rilevanza di quello di cinque ricchi milionari intenti a visitare, a proprio rischio e pericolo, un relitto a 4mila metri di profondità?

La tentazione di cedere al moralismo è forte, ma non credo ci porti molto lontano. Se i due fenomeni sono stati seguiti (indubbiamente) con un’attenzione mediatica diversa, dipende da meccanismi che hanno sicuramente a che fare con il concetto di “notiziabilità”: ma che derivano solo in parte dall’agenda che i media ci dettano quotidianamente.

L’effetto assuefazione

La prima osservazione, banale ma non troppo, è che non possiamo ignorare i meccanismi cognitivi che regolano la nostra attenzione. Da tempo gli psicologi parlano di un fenomeno chiamato “information overloading”. Possiamo tradurlo in italiano con “sovraccarico cognitivo”. Siamo quotidianamente sommersi da informazioni che non riusciamo a elaborare, una dinamica innescata soprattutto dalla digitalizzazione e dall’avvento dei social. Il risultato è che facciamo sempre più fatica a focalizzare la nostra attenzione. La nostra fruizione delle notizie segue questo postulato. Assistiamo da quasi trent’anni a stragi nel mezzo del Mediterraneo e spesso ci sentiamo impotenti davanti a un fenomeno che sappiamo di non poter gestire, né controllare.

Non si sono accorti che stavano morendo – di Antonio Piccirilli

Dall’altro lato ci troviamo davanti a una storia insolita con cinque persone bloccate sul fondo dell’oceano a bordo di un sottomarino di cui ignoravamo l’esistenza. L’effetto novità è evidente, e sono le novità che guidano la nostra attenzione, non gli eventi che si ripetono costanti.

Il salvataggio di un gruppo di migranti da parte dell’Ong Open Arms al nord della Libia

Questa dinamica non ha nulla a che fare con l’importanza degli eventi, né con l’etica o la morale. Ha a che fare, invece, con il funzionamento della nostra mente e il modo in cui si sta probabilmente evolvendo in quella che viene chiamata l’era della “distrazione di massa”.

Per la nostra attenzione è più rilevante un “padrone che morde il cane” piuttosto che un “cane che morde il padrone”. Eppure il primo è un fatto di cronaca mentre, analizzando le tante rilevanze statistiche del secondo fatto, potremmo imparare molte cose del nostro rapporto con questi animali. Con le dovute (e rispettose) differenze, la nostra reazione cognitiva nel caso del Titan e del dramma dei migranti è molto simile. Siamo sicuri che se ci fosse un sottomarino disperso a 4mila metri di profondità al mese, il nostro interesse sarebbe lo stesso?

L’identificazione con le vittime

L’altra considerazione è che, anche se molto lontani dai nostri stili di vita (e dalle nostre possibilità economiche) molti hanno visto la vicenda dei cinque dispersi nel Titan molto più vicina di quelle delle vittime del Mediterraneo. La ragione? Innanzitutto perché ci risulta più facile identificarci con dei turisti occidentali (anche se ricchissimi), piuttosto che con dei profughi che scappano da guerre e fame e che provengono da aree del mondo che consideriamo distanti. Anche se spesso sono dall’altra parte dello stesso mare in cui andiamo in vacanza. Non è certo un meccanismo edificante, ma è una modalità che le scienze sociali conoscono bene.

Chi erano i 5 passeggeri morti nel Titan

Nel saggio “Stranieri alle porte”, il sociologo Zygmunt Bauman afferma che l’avversione, o il disinteresse, nei confronti della sorte dei migranti deriva anche da una specie di “proiezione” che molti consapevolmente o meno fanno. Sfuggiamo le storie tragiche dei migranti perché proiettiamo in loro le nostre paure, quelle di una società e di forze che sentiamo di non riuscire più a controllare e che un giorno potrebbero chiedere il conto anche a noi. La paura inconscia è quella del “contagio” con la povertà, il lutto e la miseria.

Una storia da narrare

Nel caso dei cinque del Titan questa paura non esiste. Esiste invece una dinamica molto simile al rilascio di adrenalina. Per cinque giorni ci siamo trovati nella stessa situazione di quando assistiamo in diretta a un’incidente: vogliamo sapere come va a finire e se le persone in pericolo saranno salvate. Abbiamo immaginato come potessero vivere i cinque all’interno del piccolo sottomarino con l’ossigeno che stava per finire. È questo il vero gancio che ci tiene incollati davanti agli schermi delle tv e di Internet. Ancora una volta è una dinamica cognitiva molto frequente: la stessa che possiamo osservare, in scala ridotta, nelle challege social più estreme diffuse su TikTok o Youtube.

In Italia ne abbiamo avuto un drammatico esempio nel 1981, nel corso del tragico incidente di Vermicino che costò la vita al piccolo Alfredo Rampi. Non esisteva il web e nemmeno i canali all news, ma la copertura del dramma fu pervasiva: tutta l’Italia rimase col fiato sospeso per tre giorni, per capire se il piccolo Alfredino poteva essere salvato.

L’altro elemento da non sottovalutare è quello della narrazione. Le nostre menti si nutrono di narrazioni, grazie alle storie possiamo dare un senso al passato e al futuro e orientare lo scorrimento del tempo. Le tragedie del Mediterraneo sono spesso composte di numeri. Sappiamo che dietro quei numeri ci sono i cadaveri di donne, uomini e bambini, ma non conosciamo le loro storie. E senza storie, provare coinvolgimento emotivo è molto difficile. Dei cinque membri dell’equipaggio del Titan conoscevamo invece molte cose: ad esempio la storia del ragazzo di 19anni terrorizzato dall’esperienza e partito solo per compiacere al padre.

Le richieste di aiuto che la Ue non ha ascoltato

Infine c’è il fascino della “maledizione del Titanic”. È qualcosa di molto simile alle “storie maledette” che abbiamo assorbito fin da bambini. Ed è stato proprio il regista James Cameron, autore dell’omonimo kolossal, a rievocare l’inabissamento del transatlantico e di come la sua lezione abbia insegnato pochissimo. La vicenda del piccolo sommergibile ha richiamato anche il fascino dell’esplorazione dell’ignoto e della fantascienza da primo ‘900. Nel dramma dei cinque in molti hanno ritrovato echi delle pagine di quel capolavoro che è “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne, ad esempio, un libro che ha forgiato il nostro immaginario. Parliamo insomma di più piani narrativi che si fondono per dare salienza alla storia.

Il murales del piccolo Alan Kurdi sulle rive del fiume Meno a FrancoforMa siamo sicuri che non sia lo stesso anche per il dramma dei migranti? Tra i fotogrammi che nessuno potrà mai scordare, c’è quello del cadavere di un bambino che giace inerme a pochi passi dalle onde. Si chiamava Alan Kurdi, era siriano e aveva appena tre anni. Venne ritrovato senza vita su una spiaggia turca il 2 settembre del 2015 e la sua storia mise il mondo di fronte alla tragedia immane dei migranti e del conflitto siriano. La cancelliera Angela Merkel aveva appena aperto le porte a un milione di siriani e quella foto fugò ogni polemica.

Alan smosse le nostre coscienze perché aveva una storia, un volto, un corpo. Poteva essere nostro figlio, aveva solo avuto la sfortuna di nascere dall’altra parte del Mediterraneo nel mezzo di una guerra. Non era un numero, né uno dei tanti Alan invisibili che muoiono da anni nel Mediterraneo nella nostra indifferenza. Perché, ci piaccia o meno, la nostra mente si nutre di storie più che di dati disorganizzati. Ed è quello che, al momento, ci differenzia dalle macchine, anche dalle intelligenze artificiali che stanno facendo progressi da gigante. E se non vogliamo trovarci a combattere contro i mulini a vento, come Don Chisciotte, è meglio non dimenticarlo.te-2Ma siamo sicuri che non sia lo stesso anche per il dramma dei migranti? Tra i fotogrammi che nessuno potrà mai scordare, c’è quello del cadavere di un bambino che giace inerme a pochi passi dalle onde. Si chiamava Alan Kurdi, era siriano e aveva appena tre anni. Venne ritrovato senza vita su una spiaggia turca il 2 settembre del 2015 e la sua storia mise il mondo di fronte alla tragedia immane dei migranti e del conflitto siriano. La cancelliera Angela Merkel aveva appena aperto le porte a un milione di siriani e quella foto fugò ogni polemica.

Alan smosse le nostre coscienze perché aveva una storia, un volto, un corpo. Poteva essere nostro figlio, aveva solo avuto la sfortuna di nascere dall’altra parte del Mediterraneo nel mezzo di una guerra. Non era un numero, né uno dei tanti Alan invisibili che muoiono da anni nel Mediterraneo nella nostra indifferenza. Perché, ci piaccia o meno, la nostra mente si nutre di storie più che di dati disorganizzati. Ed è quello che, al momento, ci differenzia dalle macchine, anche dalle intelligenze artificiali che stanno facendo progressi da gigante. E se non vogliamo trovarci a combattere contro i mulini a vento, come Don Chisciotte, è meglio non dimenticarlo.

ARTICOLO DEGNALATO DAL FR.’. A F .
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L’ATTIVITA’ INIZIATICA

L’attività iniziatica

Io che sto percorrendo una via. Man mano che la percorro mi rendo più conto della direzione che sto seguendo. Sento che mi avvicino alla meta, ma la meta continua a sfuggirmi.

Mi sto rendendo conto che nella attuale condizione umana non potrò arrivare alla luce totale. Talvolta mi domando se, visto che il risultato finale è irraggiungibile, valga la pena di dedicare ad esso prezioso tempo del poco che mi rimane.

È terrificantc e mcraviglioso il fatto che io non possa fare assolutamentc a meno di fare quello che sto facendo. Per caso ho avuto accesso ad una via iniziatica, la uso come strurnento di orientamento, la approfondisco di giorno in giorno.

L’universo è unico. Esso assume varie caratterizzazioni: una è quella del mondo manifestato, tangibile. L’altra è quella sottile ed onnipotentc del mondo non manifestato.

Guénon definisce questa essenza come “quella di tutte le potenzialità”. Nel simbolismo della croce è il punto senza dimensioni attraverso cui passa l’asse verticale delle diverse manifestazioni; esse corrispondono agli infiniti piani ortogonali a tale asse. Su tali piani gli infiniti mondi visibili si sviluppano nel tempo come spirali con passo infinitesimo. Dal punto centrale partono infiniti assi verticali, cui corrispondono infinite serie di piani della realtà manifestata.

Io, come uomo, ho la capacità di immaginare e realizzare delle potcnzialità. Se desidero di andare in un certo posto posso fare in modo di raggiungerlo; cosa che un sasso o una pianta non possono fare.

Attraverso l’osservazione di tale possibilità naturale riesco a percepire l’esistenza di questa capacità immanente ad un livello più sottile.

Ho la capacità di afferrare che io stesso ne sono una espressione e quindi di ipotizzare che ho in me esattarnente tutte le stesse potenzialità. Se cosi non fosse non sarebbe più vero il dato di partenza quella della unicità del cosmo.

Le mie potenzialità di fare, di capire, di immaginare sono coerenti con la mia condizione attuale; quella di appartenere al mondo del manifestato. Che essendo tale ha le sue regole; naturalmente derivanti dalla libera potenzialità iniziale, ma non per questo meno inviolabili. Per esempio l’incompenetrabilità dei corpi, il ciclo della vita e della morte.

In questa condizione come mi metto rispetto al mondo non manifestato? Come mi rapporto a quello manifestato?

Se fossi religioso il rapporto con il Non Manifestato sarebbe semplice: ammissione ed adorazione di Dio riassumono ogni comportamento e fine.

Come iniziato l’impegno è più gravoso e affascinante. Occorre impostare come intuire il cosmo e definire come la mia entità interagisca con esso in tutti i possibili aspetti e modi.

Per raggiungere questa intuizione l’uomo dispone di molteplici strumenti di lavoro. Tutti sono basati su ciò di cui sono dotato dalla natura e costituiscono il mio maglietto.

Essi sono: il corpo fisico, il corpo delle energie vitali, il corpo delle emozioni, quello della mente e delle intuizioni; il subconscio o corpo delle esperienze ereditate o raccolte, l’inconscio: corpo dell’Io profondo e dello spirito.

Gli attrezzi, Il nostro scalpello, I simboli; ovvero l’impronta, il messaggio fisico intrinseco dell’immanifcstato nelle forme e nelle cose. Immagini e ombre delle sue finalità e dei suoi modi.

Esisto anche altri tipi e sottotipi di attrezzi, non tipicarnente massonici. ma che conviene conoscere e saper utilizzare.

Gli archetipi della nostra struttura mentale, rappresentazioni simboliche globali o interne elementari:

I Jantra, contenuto profondo e tramite rappresentativo degli elementi naturali: aria, fuoco, acqua, terra.

Il suono, le vibrazioni, la musica dell ‘universo o Mantra.

I Mandala o espressione in forme complcssc della realtà globale.

L’iniziato può cercare di leggerc tutti questi messaggi indiretti. Egli ha occhi, luce e testi su cui esercitare la sua ricerca.

Il procedimento è meraviglioso perché più si procede nella lettura, più i sensi di percezione diventano acuti, più si allarga il panorama di osservazione, più aumenta il desiderio ed il piacere di continuare la ricerca.

Questo, in sintesi, il processo di progressiva crescita della consapevolezza.

In questo “piacere” di approfondimento sta il significato tra il rapporto con la conoscenza e la finalità dell ‘essere.

Questa interazione infatti non può mai avere fine; si autoalimenta di desiderio, di completezza e di bellezza.

Questo processo di affinamento avviene in ciascun individuo in modo diverso. Non ha importanza né il come, né il quando. Occorre prenderc atto che avviene e, malgrado le apparenze, fa parte di un fenomeno unico oltreché personale di ogni uomo.

Attraverso questa interpretazione diventa intelleggibile come rapportarsi con il mondo manifestato.

La situazionc attuale del manifestato è assolutamente consequenziale al piano “potenziale”; inoltre, al nostro livello, immutabile.

La realtà manifesta è dotata di proprie leggi che non possiamo ignorare né tantomeno contrastare. Essa è però originata dall ‘universo immanifestato che contiene in sc tutte le potenzialità di cambiamento (e quindi anche quelle che secondo il nostro metro attuale possiamo indicare di miglioramento).

Quanto più ciascuno si approssima alla comprensione della verità trascendente, aumentando la sua consapevolezza, tanto più aggiunge alle sue potenzialità di coinvolgere le evenienze originate dalle potenzialità trascendenti stesse.

Sempre che arrivato ad intelleggcrc egli giudichi ancora che la realtà attuale abbia ragione di manifestarsi in modo diverso e che voglia ancora concorrere a modificarla.

Ma nulla vieta, anzi tutto è predisposto perché ad ogni livello di consapevolezza ciascuno attui le potenzialità che gli competono (al suo stato, al suo tempo, alla sua percezione ed alla sua volontà).

L’atteggiamento dell ‘Iniziato pertanto non deve essere la scelta della passività o l’inerzia a fronte di una realtà immutabile, ma quello di una attiva e continua presa di coscienza di ciò che per natura dell’universo non può fare a meno di accadere, per comportarsi e attuare nel migliore dei modi ciò che pcr sua propria natura Egli non può fare a meno di fare.

L’iniziato Massone ha tre campi su cui operare: la Loggia, Se stesso, il Mondo circostante comprendente anche l’umanità.

Il primo gli offre, attraverso la disciplina ed il rituale, le sponde entro cui muoversi per salire i gradini necessari.

Il secondo costituisce la materia prima sulla quale agire per capire gli elementi da plasmare al fine di renderli sempre più adatti ad affinare percezione e capacità.

Il terzo è lo schermo di convalida cd il campo su cui operare al fine di poter vedere realizzati in pratica i risultati del lavoro complessivo.

Grave errore è rimandare l’esito del lavoro al mondo dell’aldilà. Ciò dà adito agli imbroglioni ed agli egoisti di giustificare qualsiasi azione, anche in contrasto con Ic leggi della natura ed induce rassegnazione nell’animo di tutti gli altri, non iniziati. I risultati delle tendenze attuali li abbiamo sotto gli occhi!

Nessuna speranza di consapevolezza personale dopo la morte è l’unico modo affmché nessun uomo rimandi più di un minuto ogni iniziativa per migliorare il mondo manifesto così com’è.

Bellissimo esempio di un modello di vita completamente finalizzato in questo senso è il messiancsimo biblico nel quale “il Popolo eletto ha come unico scopo realizzare un tale esempio di perfezione, nel modo pratico di vivere la vita reale in terra, che gli altri popoli ammirati lo imitino, dando cosi luogo all’epoca messianica del paradiso tcrrestre”.

Oltre i particolari nostri miti della ricerca della parola perduta e del conseguimento della luce, la parola ebraica di “massiah”, interpretata come radice di Massone, potrebbe non esscrc casuale, aggiungendo così anche un obiettivo terrestre per la Massoneria.

L’iniziato non può dare un peso preponderante a una parte degli aspetti della sua attività che ho descritto. Trascurandone uno o l’altro egli infatti rischia di veder mancare o un indirizzo di continuità o la forza e la stabilità fisica e psichica necessari per procedere nell ‘accrescimento della consapevolezza, oppure il riscontro delle sue attività o la chiarezza dell ‘obiettivo.

La finalità ultima non è il raggiungimento della perfezione di uno solo dei tre aspetti del suo lavoro, ma il raggiungimento dell ‘equilibrio perfetto delle tre componenti a noi note: il rituale, la crescita individuale, l’attività pratica c realizzativa; per attuare il disegno senza tempo e senza fini dell ‘Essere.

S. Vlbrg,

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LA PERPENDICOLARE

La perpendicolare

Questo simbolo ha un significato allegorico che subito colpiscc l’attenzione dell’apprendista ed, è abbastanza evidente, indica la direzione, la verticalità, la rettitudine…

Pur non sottovalutando la chiave di interpretazione etica dei simboli, giustamente preminente all’inizio dell’apprendistato, penso che su tale tipo di lettura esista già un ‘ampia letteratura e non intendo proporvi un riassunto di cose già note, preferisco divagare seguendo la fantasia, perché fissare sulla carta le idee mi aiuta a chiarirle.

La squadra indica una direzione normale ad un ‘altra, qualunque essa sia, il filo a piombo, invece, indica “la” direzione verticale.

La perpendicolarc è un corpo sensibile alla naturale attrazione delle cose e libero di abbandonarsi ad essa, per questo può indicarci la capacità di orientarsi naturalmente sulla direzione gravitazionale.

L’uomo non riceve dai suoi sensi delle indicazioni assolute, le deve ricercare indirettamente ed ha necessità di un metodo e di strumenti di lavoro.

Tutti i corpi sono soggetti alla gravità, solo il pendolo è libero di seguime la direzione senza esserne succube, ne recepisce l’orientazione, ma ha un punto fisso che gli consente di non precipitare.

La perpendicolare ricorda che esistono delle realtà che non vediamo, ma che agiscono su di noi e ci limitano pesantemente. Ciò che rimane invariato e perennc sfugge all’osservazione capace di conoscere solo per differenza, di qui la necessità di strumenti di verifica.

Occorre avere un’csatta percezione della propria pesantezza, intendo dire che è necessario rendersi conto della propria natura istintiva ed affettiva, conoscerc le proprie caratteristiche, anche se può essere impietoso. Ciò è indispensabile a stabilire una condizione di equilibrio, prerequisito a qualsiasi costruzione.

Il filo a piombo sente la forza di gravità, ma vi si oppone, il filo è teso e trattiene il peso, da questa opposizione scaturisce la possibilità di verificare la direzione. Un corpo abbandonato alla corrente del fiume non avvcrte il trascinamento, solo la reazione al moto ne rileva l’intensità, così solo l’esercizio attivo della volontà produce la consapevolezza.

Anche se per certi aspetti partecipa della passività, la perpendicolare è uno strumento attivo ed operativo, sulla tavola da disegno si tracciano le perpendicolari con6

la squadra, piantando un’asta od erigendo un muro, solo il filo a piombo può indicare la correttezza dell ‘opera.

Il muratore non sceglie né l’opera, né il luogo per edificare, è il committente che ordina un ponte per il mercante, un castello per il guerriero, un tempio per il sacerdote, ed indica il luogo ed il tempo della costruzione.

Il muratore esegue ciò che gli viene commissionato applicando sempre le medesime immutabili leggi.

Il diverso livello di conoscenza consente realizzazioni più o meno ardite.

La qualità di esecuzione è l’unica variabile sotto il cQntrollo dell’operatore. Forse è velleitario cercare grandi opere da compiere, ciò che è doveroso è compiere “bene” quello che ci viene assegnato.

La perpendicolare, come tutti i nostri strumenti di lavoro, può suggerire molte divagazioni, ma non indica la cosa più importante: “cosa fare”. E giusto che sia così, un metodo insegna “come” e non “cosa”.

Bussando alla porta del Tempio ho cercato una scuola in cui apprendere la capacità di individuare la mia via; cercare un Maestro che indica la sua via è cosa molto diversa.

Limitare la portata dell ‘esperienza muratoria alla “modalità di esecuzione” non mi entusiasma, riduce lo spazio di manovra che mi piacerebbe avere. Occorre però distinguere ed accettare la differenza fra ciò che piace e quello che invece sembra vero.

Ad un esame più attento la “qualità di esecuzione” si rivela più interessante di quanto mi era parso inizialmente. E infatti una traccia operativa, consente di spostarsi dal piano della ricerca teorica a quello della prassi.

Si possono aprire molte possibilità concrete se, con un poco di umiltà, si accetta l’idea di abbandonare grandi Œnbizioni di realizzazione e si decide di fare attenzione alle piccole realtà a portata di mano, anche se bisogna ammettere che sognare è bello, ridimensionarsi lo è molto meno.

Non rinuncio a sperare che, dopo aver salito questo faticoso gradino, si possa, con l’aiuto dell ‘immaginazione, trovare un orizzonte più ampio.

G. B. Plin,

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SAPERE E ESSERE

Sapere ed essere

Venerabile Maestro, Carissimi Fratelli,

lo sviluppo di un uomo avviene secondo due linee: “Sapere ed Essere”. Ma, affinché l’evoluzione avvenga correttamente, le due linee devono procedere insieme, parallele l’una all’altra e sostenersi reciprocamente. Se la linea del sapere sorpassa quella dell ‘essere, o se la linea dell ‘essere sorpassa troppo quella del sapere, lo sviluppo dell’uomo non può farsi regolarmente; prima o poi deve fermarsi.

La gente afferra, generalmente, ciò che si intende per sapere. Si riconosce che il sapere può csscre più o meno vasto e di qualità, più o meno buono, ma questa comprensione non viene applicata all ‘essere.

Per essa l’essere può situarsi a livelli molto differenti e comportare differenti categoria. Prendiamo per esempio l’essere di un minerale e l’essere di una pianta: sono due esseri differenti. L’essere di una pianta e quello di un animale sono anch’essi due esseri differenti, e cosi pure l’essere si un animale e quello di un uomo.

Ma due uomini possono differire nel loro essere più ancora di quanto un minerale ed un animale differiscono tra loro. E questo è proprio ciò che le persone non comprendono. Non comprendono che il sapcre dipende dall ‘essere e non soltanto non lo comprendono, ma non lo vogliono comprendere. Siamo portati ad accordare un valore massimo al sapere, ma non sappiamo accordare all’essere un valore uguale e non ci vergogniamo del livello inferiore del nostro essere, probabilmente non comprendiamo neppure ciò che questo “essere” significhi. In parole povere, non si comprende che il grado del sapere di un uomo è in funzione del grado del suo essere.

Quando il sapere sorpassa troppo l’essere, esso diventa teorico, astratto, inapplicabile alla vita; può anche diventare nocivo, perché invece di servire la vita ed aiutare le persone nella lotta contro le difficoltà, questo sapere comincia a complicare tutto, di conseguenza non può che apportare nuove difficoltà, nuovi turbamenti ed ogni sorta di calamità, che prima non esistevano.

La regione di ciò è che il sapere, quando non è in armonia con l’essere, non potrà mai essere grande, o per meglio dire, sufficientemente qualificato, per i reali bisogni dell ‘uomo.

L’idea del valore e dell’importanza del livello dell’essere è stata completamente dimenticata. Non si comprende più che il livello del sapere è determinato dal livello dell’essere. Un cambiamento della natura del sapere è impossibile senza un cambiamento nella natura dell’essere.

Questo “essere” si manifesta in modi alquanto differcnti: sincerità o falsità, coraggio, vigliaccheria, egoismo, orgoglio, vanità, presunzione, senso morale, ecc.

Se l’uomo mente questo significa che non può fare a meno di mentire, se dice la verità, questo significa che non può farc a meno di dire la verità, e così è per tutto.

Spesso la qualità scadente dell’essere preclude ogni possibilità di cambiamento ed è quasi impossibile opporsi a questo evento. Allorché il sapere predomina sull’essere, l’uomo sa, ma non ha il potere di fare. E un sapcre inutile.

Al contrario, quando l’essere predomina sul sapere, l’uomo ha il potere di fare, ma non sa che cosa devc fare. Così l’essere che egli ha acquisito non può servirgli a nulla e tutti i suoi sforzi saranno inutili.

Ma a che cosa conducono uno sviluppo unilaterale del sapere ed uno sviluppo unilaterale dell ‘essere?

Come conseguenza si ha un uomo che non comprcndc ciò che egli sa e soprattutto incapace di valutare la differenza tra un genere di sapere ed un altro: un uomo portato quindi a commettere degli errori e fare il contrario di ciò chc vuole ed incapace di ogni ulteriore sviluppo. Si arriva inevitabilmente ad un punto morto.

La relazione tra sapere ed essere non conta per un semplice accrescimento del sapere, essa conta solamente quando l’essere cresce parallelamente al sapcrc. La comprensione, per esempio, si ha solarnente come risultanza di congiunzione del sapere e dell’essere.

Spesso si confondono questi concetti e non si afferra la differenza tra essi. Si è portati a credere che se si sa di più, si deve comprendere di più. Questo è il motivo per cui c’è il rischio di accumulare troppo sapere, ma non si sa come accumulare la comprensione.

Una persona esercitata all’osservazione di se stessa sa con certezza che in differenti periodi della sua vita ha compreso una stessa idea, uno stesso pensiero, in modo totalmente diverso. Sovente le sembrava strano di aver potuto comprendere così male ciò che adesso credi di comprendere cosi bene, ma si rende conto che il suo sapere è rimasto lo stesso e che oggi non sa niente più di ieri.

Che cosa è dunque cambiato?

È il suo essere che è cambiato!

Quando l’essere carnbia, anche la comprensione deve carnbiare, altrimenti subentra l’incomprensione ed in maniera sempre più ampia. Sforziamoci perché ciò non accada.

G. C. Lgn,

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I TRE CATTIVI COMPAGNI

TRE CATTTIVI COMPAGNI

I tre cattivi compagni

Venerabilissimo, Rispettabili Fratelli Maestri,

“Cosi mori Hiram. Cosi deve morire il Compagno d’Arte per rinascere Maestro” Con queste parole si conclude la narrazione simbolica della morte di Hiram secondo il Rituale. Egli fu ucciso da tre cattivi compagni i quali “insoddisfatti della loro paga’ desideravano accedere con qualunque mezzo ai privilegi che, secondo l’ottica limitata del loro grado, erano prerogativa della Maestria,

Fanatismo, Ambizione e Ignoranza sono i loro nomi, Regolo, Squadra e Maglietto, i loro strumenti, Gola, Petto e Capo, i punti del corpo di Hiram colpiti dai tre, Occidente, Mezzogiomo c Oriente, le tre “stazioni del sole” verso cui si aprono le porte del Tempio, i luoghi simbolici dove avviene l’aggressione.

Molto vi sarebbe da dire per sviluppare questo simbolismo complesso e ricco di corrispondenze; mi limiterò tuttavia ad alcune osservazioni che mi paiono di un ccrto interesse almeno al momento attuale.

I tre cattivi compagni rappresentano evidentemente tutto quanto impedisce o quantomeno ostacola, sia interionnente che esteriormente, il manifestarsi della Maestria. Provianmo a considerarli uno per uno.

Il compagno “Fanatismo”, armato di Regolo, è colui che, con la forza, vuole imporre come assoluta la propria visione relativa delle cose; incapace di vedere l’unità dietro alla moltcplicità pretende di estendere i suoi propri limiti alla verità stessa, Egli colpisce la gola, “luogo” di emissione della voce, pcrché deve interdire tutto quanto potrebbe opporsi alla “lettera” della sua legge (il Regolo) la quale diviene pertanto, non come gioco di parole, ma effettivamente, la “lettera che uccide”.

La componente di stolto idealismo che lo caratterizza e, in una certa seppur piccola misura, lo riscatta risulta peraltro assente nel compagno “Ambizione”. Questi non ha più in vista, anche se in modo distorto, il bene collettivo, ma agisce esclusivamente avendo in vista il suo vantaggio personale, quella affermazione individuale che ben corrisponde, del resto, agli aspetti negativi del Sole di Mezzogiomo.

Alla orizzontalità “gcncralizzante” del Regolo si aggiunge qui la verticalità “particolizzante” della affermazione volitiva dell’io sugli altri onde ottenere la Squadra, deterrninando una condizione nella quale il sopruso (non bisogna dimenticare che, avendo il termine ambizione anche un senso legittimo, è di ambizione prevaricatoria che si tratta qui o di “prevaricazione” tout court) può assumere connotazioni anche peggiori che nel caso precedente. Mentre il fanatismo tende alla negazione di quanto lo contrasta fino alla vera e propria soppressione, l’ambizione è piuttosto portata ad asservire ai propri scopi quel che rientra nel proprio raggio di azione; questi rinnega la vita, quella rinnega la libertà. A conferma di ciò, essa, con la Squadra, colpisce il petto il quale, con i suoi moti di espansione e di contrazione determinati dal respiro, rappresenta simbolicamente la libertà relativa concessa ad ogni essere creato per lo sviluppo delle possibilità che questi comporta.

I due cattivi compagni fin qui considerati minacciano comunque il corpo e l’anima dei loro avversari, il terzo invece, “l’Ignoranza”, si pone come obiettivo illusorio la soppressione dello Spirito e, armato di Maglictto, strumento necessario, se usato propriamente, a distruggere progressivamente i limiti che impediscono la visione della Luce, tenta, apparentemente riuscendovi, di uccidere la Luce stessa colpendo direttamente l’Occhio della Conosccnza, detto dagli indù l’Occhio di Shiva, al centro fra Ic sopracciglia.

Chiunque aspiri alla Maestria dovrà prima o poi scontrarsi con questi nemici, ma un fatto curioso è che, nella leggenda, dopo aver ucciso il Maestro, costoro paiono dileguarsi nel nulla senza incorrere nella giusta punizione per il delitto commesso.

La spiegazione di ciò potrebbe trovarsi in quclla “ambivalenza” simbolica la quale, poiché l’ottica esoterica rifiuta fondamentalmente la dialettica degli opposti “irriducibili”, sovente caratterizza la rappresentazione dei misteri ‘trasmutatori” (vi sono esempi del generc anche nel Cristianesimo dove, almeno nei primi tempi, il scrpente, a seconda del contesto, poteva rappresentare sia il Cristo, sia il Demonio).

Da questo punto di vista, abbastanza complesso, si può affermare che i tre cattivi compagni si esauriscono nel loro atto trasmutandosi poi nelle tre potenze che “unendo le propric energie” operano la resurrezione del Maestro, le tre Luci: Saggczza, Forza e Bellezza.

Da ciò può dedursi che, come nel simbolo estremo orientale dello Yin-Yang dove la macchia nera in campo bianco e quella bianca in campo nero indicano la presenza in ciascuna delle duc forze del principio dell ‘altra, i tre cattivi compagni altro non sono se non la connotazione oscura ed illusoria delle tre Luci e che la negazionc di essi permette “tecnicamente”, quasi cadesse una maschera, alle Luci stesse di rivelare il proprio vero volto e di operare la rigenerazione dell’anima.

In tal modo il fanatismo diventa “Epifania”, ovvero manifestazione esteriormente riconoscibile del Principio divino nel mondo, restando così, con il Regolo della vera Legge, la Pace e l ‘ Armonia, la prevaricazione diviene espressione attiva della volontà del Cielo che si impone sulle forze disgregatrici rappresentate dagli orgogli individuali e, rettificando con la Squadra, ripristina l’ordine perduto; infine l’ignoranza si trasmuta nel suo opposto, la Sapienza, per virtù del Maglietto, sulla peculiarità metodologica del quale vale la pena di spendere qualche parola. Si può dire infatti che la percussione del maglietto genera vibrazioni sacre o, si passi il termine, “shock” divini atti a provocare nell’anima delle progressive “illuminazioni”, come se i veli che nascondono “l ‘occhio del cuore” cadessero uno ad uno; questo potrebbe essere l’origine di certe misteriose “crisi” che di tanto in tanto toccano a ciascuno di noi e ci indurrebbero, non opponendovi la dovuta resistenza, ad abbandonare il campo o, meglio ancora, il “cantiere” di edificazione del Tempio.

Si può trarre giovarnento da questi insegnarnenti contenuti nel Rituale abituandosi ad una costante ricerca dei cattivi compagni dentro a noi stessi; il fanatismo con cui difendiarno i nostri pregiudizi profani anche contro l’evidenza, l’ambizione ad occupare posizioni che, per volontà del Cielo, non ci competono e che genera il veleno dell’invidia e soprattutto, radice e tronco pendenti, l’ignoranza che ci impedisce la visione, sulla Tavola da Disegno, del piano d’opera che siamo chiamati ad erigere in Nome e alla Gloria del Grande Architetto dell ‘Universo.

C’è da chiedersi, Rispettabili Fratelli Maestri, se sarebbe opportuno intensificare i nostri sforzi nella ricerca di quel che può significare oggi erigere un Tempio che, dato il carattere non confessionale della Muratoria, non può essere che universale. Certamente tale ricerca non sarà agevole, ritengo tuttavia importante non dimenticare che solo impropriamente noi definiamo come Tempio il luogo in cui ci ritroviamo pcr condurre i nostri lavori; più corretto in effetti è da considerare tale luogo come una “officina” nella quale si apprestano e si marcano le pietre destinate al cantiere ove, secondo un piano tracciato e non arbitrario, si deve erigere un Tempio per l’umanità nel quale regni la Pace illuminata dalla Gnosi e non più turbata dalla presenza minacciosa degli assassini di Hiram, ai quali non possono che essere riservate le tenebre esteriori.

A, Orlnd

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