POLITICA E RELIGIONE NEI LAVORI DI LOGGIA

Politica e religione nei lavori di Loggia

Maestro Venerabile, Fratelli carissimi,

quanto detto in questo Tempio nelle tomate precedenti ha molto colpito i miei pensieri invogliandomi ad approfondire l’argomento risalendo a ritroso il cammino della Massoneria.

Quando voi, Maestro Venerabile, in apertura dei lavori, ritualmente dite: “Fratelli 1 0 e 20 Sorvegliante, giacché in graia dell’ora e dell’età è ormai tempo di aprire i nostri Architettonici Lavori, avvertite i Fratelli delle vostre Colonne che, nel corso dei medesimi, non è più permesso ad alcuno di passare dell’una all’altra Colonna e di intrattenersi i questioni di politica e di religione …”, credo si presti giustamente all libera massonica interpretazione, e dico libera poiché essendo la nostra Famiglia una unione di liberi pensatori sarebbe contrario al logico se ognuno di noi non potesse manifestare in questa Sede le proprie idee, anche se nei modi voluti dal Rituale.

Risalendo negli anni troviamo in Inghilterra, ai tempi della fondazione della Gran Loggia, segni storici che fanno delle Logge Massoniche i primi punti di incontro di uomini di fedi diverse. Uomini uniti dal vincolo della Fratellanza nella medesima disciplina; poiché, quali che fossero le opinioni politiche e religiose, i Liberi Muratori dovevano considerarsi Fratelli in seno alle Logge, e se, scontrandosi nel mondo profano, non potevano applicare appieno i principi del mutuo soccorso, erano tenuti almeno a non nuocersi sul piano personale.

primi Fratelli che si incontrarono, dopo la trasformazione della Massoneria da operativa a speculativa, praticando il principio della uguaglianza mettevano in atto un nuovo importantissimo fatto politico, poiché nelle Logge convergevano non solo cattolici e protestanti, deisti ed ateisti, ma anche e soprattutto esponenti della nobiltà, della borghesia e del clero; per la prima volta, forse, nella storia dell’uomo un borghese si sentiva chiamare Fratello da un nobile e, se consideriamo la cosa alla luce del XVIII secolo, possiamo dire che un grande passo verso la fratellanza universale veniva attuato dalla Massoneria con questo fatto politico.

Puntando sulla caratterizzazione liberale dell’Istituzione, che si vuole aperta ad entrambe i partiti politici ed ad entrambe le fedi religiose, in nome dello spirito di tolleranza, la Loggia si presenta quindi come terreno di incontro franco ed aperto tra i protestanti hannoveriani ed i cattolici stuardisti, ma anche come facile terreno di spionaggio.

È possibile, pertanto, pensare che questo lato negativo della liberalità abbia suggerito alla saggezza dei Fratelli che ci hanno preceduti la frase che voi, Maestro Venerabile, pronunciate, ciò per evitare che le logge .si trasformassero in luoghi di soli incontri o scontri politici e religiosi che tendessero al proselitismo in nome della fratellanza, ma mi è difficile pensare e credere che la Massoneria voglia ora, rinnegando le origini speculative, non permetterci di raffrontare le nostre idee, anche

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politiche e religiose, in questo luogo che noi tutti consideriamo sacro, anche perché l’importanza sempre attuale di questi argomenti potrebbe trovare, tra la sacralità delle Colonne, una attenzione più distaccata dalle nostre stesse convinzioni profane.

Resta, per contro, da considerare che i lavori a cui partecipo sono svolti in primo Grado, che tra le Colonne siedono, oltre a me, parecchi altri Apprendisti non ancora, forse, sufficientemente spogli dei metalli e che tale Grado richiede, di norma, un solo anno di attesa per dedurre che tali argomenti possono trovare la loro giusta collocazione ne Lavori dei Gradi superiori.

G. Bltt,

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RAMANA MAHARSCI

Ramana Maharsci

Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni DiYÌità e Grado,

vi chiedo perdono per la mia, diremo così, petulanza nell’insistere a parlare, ma sento un forte impulso a comunicarvi quanto trovo sommamente importante, ai fini di quella Ricerca che siamo massonicamente tenuti a continuare.

In risposta a molte domande che sono emerse nelle tomate precedenti, mi trovo spinto ad esporvi le risposte che sono state date da Uomini che le hanno trovate in Spazi trascendenti, che sono accessibili a tutti coloro che, con certezza d’intento (quello che si suole dire anche purezza di cuore), con coraggio e senza alcun preconcetto, desiderano arrivarci.

Vi prego di non rimanere bloccati entro uno sciovinismo occidentalistico, come quello che impedisce a tante persone di accettare qualcosa che non proviene dalla cosiddetta cultura europea, comprendendo in essa quel prolungamento dell ‘Europa che è il Nord America. Anche con un esame superficiale, potrernmo trovare nelle dottrine orientali l’anticipazione di tutte le scoperte delle scienze e delle filosofie nostrane; vale quindi la pena di vederne qualcosa.

Vi riferirò le parole di Ramana Maharsci, il grande illuminato indiano passato all ‘Oriente Eterno nel 1950, dopo settant’anni di vita spesa nella contemplazione e nello spargere aiuto ed insegnamento alle innumerevoli persone che accorsero a Lui per trovare consolazione e risposta ai loro dubbi; e, fra loro, si contano molti ed anche illustri uomini dell’Occidente. Lo scrittore Paul Bruton, che lo visitò da scettico, con tutto un questionario predisposto in anticipo, rimase giorni e giorni davanti a Lui in silenzio e sentì che, nel silenzio, tutte le sue domande avevano avuto risposta.

Nel dialogo che vi riporto, un Indiano erudito, studioso di filosofia, laureato in un’Università Indiana, presenta a Ramana Maharsci quattordici domande alle quali rispose, per iscritto, su di una lavagna.

D. Swami (maestro), chi sono io? E come posso raggiungere la salvazione?

R. Con l’incessante ricerca interiore “Chi sono io?”, tu conoscerai te stesso e con ciò sarai salvato.

D. Chi sono io?

R. Il vero Sé non è il corpo, né alcuno dei cinque sensi, né gli oggetti dei sensi, né gli organi dell’azione, né la forza vitale, né la mente e neppure quello stato di sonno profondo nel quale non c’è coscienza di tutti questi.

D. Ma se io non sono nessuna di queste cose, che sono?

R. Dopo aver scartato ognuna di esse, ed aver visto che “io non sono quella”, ciò che rimane è I ‘IO e questo IO non è che consapevolezza.

D. Quale è la natura di codesta Consapevolezza?

R. Essa è SAT-CIT-ANANDA, Essenza, Consapevolezza e Beatitudine, nella quale non resta la benché minima traccia del concetto dell’ego. E anche chiamata MAUNA (Silenzio) oppure ATMA (il Sé). Essa è la sola cosa che È (v. la distinzione tra essere ed esistere). Se la triade del mondo, ego e Dio si considera formata da tre entità separate, esse non sono che mere illusioni simili all’apparire dei baleni argentei nella madreperla. Dio, l’ego ed il mondo sono in realtà forme del Divino (Scivasvarupa), o forme del Sé (Atmasvarupa).

D. Come ci è possibile rendersi conto della Realtà?

R. Quando le cose saranno sparite, appare la vera natura di colui che le osserva, del soggetto della consapevolezza.

D. Non è possibile rendersi conto di Quello mentre vediamo ancora gli oggetti esterni?

R. No, perché colui che vede e ciò che è visto sono come la fune della favola, che ha l’apparenza di un serpente. Finché non ti liberi dell’apparenza del serpente non potrai accorgerti che ciò che vedi è solo una corda

D. E quando svaniscono gli oggetti estemi?

R. Se la mente, che è causa di tutti i pensieri e di tutte le attività, si arresta e svanisce, svaniscono anche tutti gli oggetti estemi.

D. Quale è la natura della mente?

R. Solo per mezzo dell’indagine “chi sono io?”. Per quanto questa sia ancora un’operazione mentale, essa distrugge tutte le operazioni mentali, compresa se stessa (che non è che un coacervo di operazioni di pensiero), così come il tizzone usato a scuotere la legna della pira funebre, che si riduce anch’esso in cenere dopo che legna e cadavere sono stati abbruciati. Allora soltanto giunge la consapevolezza del Sé. Il concetto dell’ego è distrutto, anche se sussistono la respirazione e gli altri segni di vita. L’ego e la forza vitale hanno la stessa origine. Qualunque cosa tu faccia, senza ego-ismo la devi fare, ossia senza il senso di io sono colui che lofà. Quando un uomo raggiunge questo stato, anche la sua donna gli appare come la Madre Universale. La vera Fede è l’abbandono dell’ego e del Sé.

D. Non c ‘è altro mezzo perfare sparire la mente?

R. Non c’è altro mezzo adatto salvo la Ricerca del Sé, se la mente si acquieta con altri mezzi, essa rimane in quiete per poco, e poi toma ad apparire e riprendere le sue attività di prima.

D. Ma quando tutti gli istinti e le tendenze congenite, come quello della conservazione, possono essere superati in noi?

 Più ti immergerai nel Sé, più tutte codeste tendenze appassiscono e finiscono con cadere come foglie secche.

D. È davvero possibile sradicare tutte queste tendenze che si sono radicate in noi attraverso tante rinascite?

R. Non lasciare mai nella tua mente spazio per simili dubbi, ma immergiti nel Sé con animo risoluto. Se la mente è costantemente. diretta verso il Sé per mezzo di questa indagine, finirà col dissolversi e trasformarsi nel Sé. Quando tu senti qualche dubbio, non cercare di delucidarlo, ma cerca di sapere chi è quello a cui viene il dubbio.

D. Quanto tempo devo andare avanti con questa indagine?

R. Finché nella tua mente c’è il minimo impulso a creare dei pensieri. Finché il nemico occupa la fortezza continuerà a tentare delle sortite; se tu ammazzi i nemici via via che si affacciano alla porta, la fortezza finirà per cadere nelle tue mani. Allo stesso modo, ogni volta che un pensiero alza la testa, schiaccialo per mezzo di questa indagine. Lo schiacciare ogni pensiero alla fonte è detto spassionatezza o distacco (in lingua indiana, Vayraghia). Cosi la Ricerca del Sole (Viciara) continua ad essere necessaria fintantoché non è stata presa coscienza del Sé. Ciò che si richiede è un continuo, ininterrotto ricordarsi del Sé.

D. Ma questo mondo, e ciò che vi succede non è il risultato della volontà di Dio? E se è così, perché Iddio lo vuole?

R. Dio non ha dei propositi. Egli non è legato da nessuna azione e le attività del mondo non lo tangono. Prendi per analogia il Sole; esso sorge senza che lo voglia, né si sforzi, né con alcun fine; eppure, al suo sorgere, il mondo si mette in movimento, la lente colpita dai suoi raggi dà fuoco, si schiude il bocciolo del fiore, l’acqua evapora, ogni essere vivente entra in attività, la continua, finché finisce di agire. Ma il sole non è toccato da tutte queste attività ed agisce solo secondo la propria natura, secondo certe leggi, senza alcun proposito e non è che un testimone. Così è di Dio. Oppure prendi in considerazione lo spazio, l’etere. In lui c’è la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria tutta, e tutti vi svolgono le loro attività; eppure esse non affettato l’etere e lo spazio. Lo stesso è di Dio: egli non ha desideri, né propositi negli atti della sua creazione, della conservazione, della distruzione e del riassorbimento, ed anche della salvazione, a tutti i quali è sottomessa ogni cosa esistente. Poiché gli esseri raccolgono le conseguenze delle loro azioni secondo le Sue Leggi, la responsabilità è di loro e non di Dio. Dio non è legato a nessuna azione.

Col dire che la vera natura di colui che osserva appare solo quando le cose viste sembrano sparire, Ramana Maharsci non intende suggerire l’inconsapevolezza del mondo fisico, ma raggiungere quello stato nel quale il mondo appare un riflesso del Sé e si richiama alla parabola che diede ai suoi tempi (circa il 600) quel grande Saggio che fu Sri Shankara Ciaria. Egli disse che le cose del mondo ci appaiono cosi come ad uno che vede una corda nella penombra, la prende per un serpente e si spaventa, ma, crescendo la luce, l’illusione svanisce ed il temuto serpente si vede che è una fune sul suolo. La Realtà dell’Essere è la fune, l’illusione del serpente che lo ha spaventato è il mondo che ci pare oggettivo.

Fratelli  vi chiedo perdono se questa esposizione è gettata avanti con una certa, diciamo cosi, brutalità. Ho dato per sottintesa una cosa fondamentale che cercherò ora di esporre molto succintamente, in alcuni punti. Anzitutto, che cos’è la Realtà? Secondo il Vedanta, è realtà solo ciò che esiste sempre, che è immutabile e non ha mai né aumento, né diminuzione. Tutta le cose del mondo sensibile – vita, salute, possessi, affetti, intelligenza, ecc. – non hanno quindi realtà. Il discorso parrebbe assurdo, perché se ricevo una martellata su di un dito, o domani mi scade una cambiale, vivaddio, mi pare ben reale! L’unico argomento che si può opporre a ciò sarebbe dato dalla conoscenza diretta di codesta conclamata Realtà. Ma ecco che moltissimi ci insegnano come cercarla e come trovarla; ed una volta trovata, ecco che si ha Essenza, Conoscenza, Beatitudine. Non vogliamo credere loro? Allora, se non siamo solo dei Bastian contrari, armiamoci di buona volontà e di molto scetticismo, andiamo a vedere se quei Famosi Saggi non ci hanno contato della balle . . ed è molto probabile che, se ce la mettiamo tutta, la troviamo anche noi, Quella Realtà; e, en noi ci troviamo risolti anche un sacco di problemi projàni.

Una seconda considerazione, che ha fatto dubbiar ben saggi, è questa: se ci facciamo in po’ di introspezione, dobbiamo riconoscere che, dietro l’occhio che riceve uno stimolo luminoso, c’è qualcosa che prende atto di questo stimolo e lo trasforma in un messaggio ad un certo computer, che lo trasmette ad un altro, il quale registra certe emozioni, ma dietro a questo tipo che si emoziona ce n’è un altro che osserva colui che si è emozionato, e magari lo controlla; poi ce n’è ancora uno che, tutto soddisfatto, osserva: “toh, come mi sono controllato bene!” . come mi sono controllato, c’è un me stesso, ecc. ecc.. Dall’uno all’altro anello di questa catena, arriverò ad un me stesso che è l’osservatore immobile di tutto ciò che avviene nel suo campo d’osservazione. Chi ci dice che Esso non stia anche a vedere, inalterato, l’ episodio dell ‘amore e quello della morte?

Fratelli carissimi, vi ringrazio della vostra indulgente attenzione e vi abbraccio in nome del G:. A:. D:. U M. Bnc

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OPERATIVITÀ MASSONICA

OPERATIVITÀ MASSONICA

Maestro Venerabile, Fratelli tutti di ogni Dignità e Grado,

uno dei temi proposti per queste tornate è l’Operatività Massonica. Lo scopo di questa modestissima tavola è quello di tentare un approccio al tema secondo varie direzioni, in modo assai schematico, anche perché l’approfondimento di alcune sarebbe un’utilità puramente informativa e culturale e, quindi, assai poco operativa.

Una prima direzione d’approccio vorrebbe essere di carattere storico, cioè quali sono le origini di questo vocabolo operativo, operatività. Sembra che, alle origini della Massoneria moderna, sia cominciato l’inserimento in Logge veramente di mestiere di persone che del mestiere non erano: di qui, la denominaz.ione di Fratelli operativi per coloro che il mestiere esercitavano fisicamente e di speculativi per coloro che sono stati accettati nelle Logge dei Liberi Muratori.

Non credo sia corretto continuare con questa interpretazione del vocabolo ancora oggi; grossolanamente parlando, oggi le Logge non sono più operative nel mestiere muratorio e sarebbe gratuito trasporre il significato dell’operare in senso fisicamente muratorio in quello di agire comunque nel mondo profano.

Occorre quindi tentare un altro approccio, anche cercando di vedere quale sia stato il significato di operare, di opera nella recente tradizione occultistica (chiedo perdono per l’aggettivo, ma credo che esso serva a chiarire il tipo speciale di codesta tradizione, rispetto all’aggettivo spirituale, forse più giusto, ma troppo generale).

Se non vado errato, nella tradizione alchemica, la grande opera era la ricerca della pietra filosofale, quella occulta lapis che, come dice l’acrostico V.I.T.RI.O.L. scritto nel Gabinetto delle Riflessioni, sta nelle viscere della Terra – le nostre viscere – e tramuta tutto in oro: cioè fa percepire l’Essenza, lo Spirito Universale, Brahman in tutte le cose, sostegno del mondo manifesto e immanifesto.

Nella tradizione Kabbalistica – come insegna il Fratello Robert Ambelain nel suo “La Kabbale Pratique” – la Grande Operation ci può portare a vedere materializzare davanti a noi l’Angelo, il Messaggero dell’Essenza; una manifestazione più sottile dell ‘Essere.

Ecco comparire quindi un significato di operatività assai diverso da quello di azione nel mondo profano; l’azione nel mondo, anche se guidata dai principi massonici della tolleranza, della libertà, della fraternità e dell’eguaglianza, da quelli evangelico-massonici del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te e di fare agli altri tutto il bene che vorresti fosse fatto a te, è un’azione sì giusta e necessaria, ma non sufficiente a compiere la Grande Opera com’è indicata dalla Tradizione.

Ma l’insegnamento contiene l.m altro elemento, sul quale non mi stanco mai di riflettere e di insistere, ed è la Ricerca della Luce.

Temo assai che a questa UNICA finalità, che è ben chiaramente ripetuta nel Rituale d’lniziazione al Primo Grado, noi tutti poniamo molta poca attenzione e che, sopraffatti dalle cure della vita profana ed anche da quelle della vita massonica spicciola, ce ne dimentichiamo volentieri. Ce ne dimentichiamo volentieri perché l’impegno della Ricerca della Luce è solo un grosso pesante impegno, ma anche perché in noi, e fuori di noi, agiscono forze che si oppongono a questa ricerca.

Per farci l’idea della magnitudine di queste forze può bastare una considerazione. La Ricerca della Luce, per giungere a buon fine, richiede il dissolvimento dell’ego. Si badi, dico dell’EGO e non dell’IO. L’ego è formato dalla mente che ci raffigura il mondo estemo contrapposto a noi e che ci fa identificare noi stessi con il nostro corpo fisico, di fronte al mondo esterno. Da ciò nascono i conflitti, i pensieri, gli attaccamenti a ciò che l’ego ci fa credere di essere, alla mente, la quale non è altro che il coacervo dei pensieri, dei ricordi, dei rimpianti, dei desideri, dei rancori ma non è altro che quello. Tutto ciò però forma una pesante nube che vela la Luce. La Ricerca impone che tale nube sia dissolta; è questa la sola condizione affinché I ‘IO prenda coscienza di essere uno con I ‘IO Universale, di essere una cosa sola con Quella Luce.

Ma quella nube è l’ego, è la mente – la mente che ci siano costruiti per servirci come mezzo per muoverci nel mondo estemo e che ci prende la mano ed assume la dittatura nel nostro mondo interiore La dissoluzione dell’ego e della mente ci lascia come punti di pura consapevolezza, di puro intelletto, come gocce nell’oceano di Quella Luce, quell ‘oceano nel quale i nostri ego sono solo onde, che hanno breve esistenza, e solo perché formate dall ‘oceano stesso.

Nelle sue ignoranze, l’ego mentale vede la propria dissoluzione come la propria fine e la presenta all’IO come se fosse la morte totale; ed impone la cosiddetta lotta per la vita e crea l’istinto di conservazione. Le tentazioni dell ‘asceta, ed in generale tutte le difficoltà che si presentano contro l’operazione della Ricerca della Luce, in mille forme, grossolane e sottili, sono create dall’ego-mente per impedire la sua dissoluzione. Dissoluzione comunque certa, perché la morte fisica verrà per tutti ed il corpo fisico, primaria identificazione dell’ego, verrà fatalmente meno.

Con questo approccio, appare che l’Operaiività reale e legittima sia esclusivamente quella della Ricerca della Luce, secondo la lettera e lo spirito del Rituale; e tutte le altre operazioni giornaliere acquistano chiarezza di fini e di modi solo al lume di quella Luce esterna e perfetta. Come potremo operare con giustezza se non siamo illuminati da Essa?

Con le parole precedenti è già stato delineato il terzo approccio, che vorrebbe riguardare la modalità, i metodi della Ricerca della Luce.

Mi è stato spesso osservato un certo eccesso di attaccamento al pensiero Orientale. Confesso che l’osservazione è fondata e credo di essere in debito di una spiegazione. Ho potuto constatare che l’insegnamento Orientale, e Indiano in particolare, sono, secondo il significato Occidentale del femine, scientifici.

Se non erro, nella cultura occidentale si dice scientifica un’afferma.zione quando il fatto affermato e stato osservato è ripetibile. Cioè, ad esempio, io affermo che l’acqua, H20, si compone di idrogeno ed ossigeno, ma spiego anche con quali metodi si può ripetere la mia esperienza. Se poi il metodo per la ripetizione dell’esperimento è difficile e costoso, non per questo la mia affermazione cessa di essere valida; se invece nego la veridicità dell’esperimento, mi rende colpevole di gratuità nella mia negazione, cioè dogmatismo negativo. Quindi, o ripeto per conto mio l’esperimento, oppure accetto l’autorità di colui che me lo ha riferito.

La sola differenza tra la ricerca occidentale e quelle indiane sta nel campo della ricerca. L’Occidente si è rivolto al mondo esteriore, ripetendo la triade soggetto osservazione – oggetto osservato; invece il cercatore orientale si è rivolto al mondo interiore (come dicono di fare, da noi, la psicologia ed i suoi derivati) ed alla culminazione della ricerca ha visto che la triade soggetto – osservazione – oggetto osservato si è fusa in una sola unità, nella quale colui che conosce diventa la conoscenza stessa. E, se ci soffermiamo un momento a considerarci, vediamo che il nostro vero IO, ciò che sussiste dopo tutte le identificazioni, è pura consapevolez.za dei miei atti fisici, delle mie opinioni, dei miei atteggiamenti estemi, dell’attività del mio sentire e del mio pensare; sono l’incrollabile osservatore che trascende sempre tutto, tranne la consapevolezza.

La Grande Opera è appunto il Lavoro di presa di coscienza di questa Pura Consapevolezza; prima sgrossando la Pietra Cubica (cercando, tra tutte le Vie che ci indica la Tradizione, quella che più ci confà); ed infine, sovrapponendo la Piramide alla Pietra Levigata, ci avviamo serenamente e decisamente per Quella Via.

Questo è, a mio avviso, il significato di operare, alla ricerca della Luce ed a Gloria del Grande Architetto dell ‘Universo.

M. Bnc,

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VECCHIAIA

Vecchiaia

Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni Dignità e Grado,

vorrei parlarvi di un problema che è particolarmente urgente per me, ma che deve essere presente non solo agli uomini che, come me, sono molto avanti negli anni, ma anche a coloro che, giovanissimi o maturi, vedono pur sempre avvicinarsi quello stadio della vita che è chiamato vecchiaia.

Nella società attuale abbiamo, da un lato, le scienze che sono riuscite, in continuo progredire, ad allungare la vita media dell’uomo (penso che, grosso modo, nel giro di un secolo e mezzo la vita media si sia raddoppiata), ed anche ad alleviare e quasi a sopprimere i disturbi della vecchiaia; con che, tutta l’umanità sta invecchiando, perché il numero dei vecchi, rispetto ai giovani, cresce continuamente.

D’altro lato, le generazioni giovani spingono; sono bramose di raggiungere al più presto la situazione di maggiore potere economico e sociale che consegue all ‘avanzare nelle carriere, quali che esse siano. E d’ altronde, sempre più presto negli anni i giovani acquistano capacità e cognizioni profane che un tempo erano raggiunte in età più avanzate.

Obiettivo generale è l’ottenimento del maggior numero possibile di soddisfazioni profane che, infine, la cosiddetta società dei consumi moltiplica fantasiosamente all’infinito.

Questo ottenimento è oggi universalmente l’obiettivo ‘,mico della vita; ecco che vediamo i giovani che lo vogliono realizzare subito; uomini maturi che lo vogliono conservare ed aumentare senza limiti; e vecchi che non si rassegnano ad aver sorpassato o perduto quello mentre la scienza si prodiga ad offrire loro tutti i mezzi per conservare le prerogative dell ‘età media.

Il risultato è quello di una senenza ostinata o Iarnentevole, sgradita a sé ed agli altri; ed al limite, di un gruppo posto all’estremo superiore della scala delle età, che la società deve pur mantenere, e che ha perduto le condizioni di elemento produttore della società.

Nella visione tradizionale della vita, i gruppi più giovani corrispondono allo stadio dei desideri e delle speranze; speranze che si attuano nel secondo stadio, quello della mezza età. In questo secondo stadio, nel quale l’uomo, pur irnmerso nelle sue funzioni sociali di produttore e di fruitore, di generatore di nuovi esseri umani, si rende conto della fugacità della soddisfazione delle proprie bramosie giovanili; avviene una riconsiderazione del significato della vita e si presenta un nuovo desiderio, che è quello di comprendere pienamente la vera finalità della presenza umana nel mondo fisico. Ci si prepara ad uno stadio nuovo; lo stadio di chi, ormai compiuta la propria funzione sociale, si può dedicare al raggiungimento di questa conoscenza, libero da quelli che erano i desideri dei due precedenti stati della vita.

Invece nessuno vuole invecchiare; la corsa al piacere la si vuole allungare all’infinito; il sostantivo o l’aggettivo giovane è diventato uno slogan che abbellisce o vuol rendere desiderabile ogni prodotto commerciale; i mass media, come la televisione ed il cinema, creano personaggi che brilland ed invecchiano nel giro di brevi anni, bruciati nella rincorsa del nuovo. Tutti vogliono parere giovani, senza rendersi conto del ridicolo di questa pretesa.



Non è il caso di farci prendere dalla disperazione. Nel seno della nostra Istituzione, nella pace e nell ‘augusta serenità del Tempio si va formando in noi quella giusta, ponderata visione della vita che con l’esempio e con l’azione possiamo trasportare nel mondo profano, per operare, nei limiti della nostra possibilità e con l’aiuto del Grande Architetto dell’Universo, per il bene dell’Umanità e, di conseguenza, a gloria Sua.

Il graduale affievolimento del nostro involucro fisico e delle sue urgenze ci lascia via via sempre più liberi per un lavoro di rieducazione interna, di revisione dei valori, della ricerca di una nuova visione del Tutto. Questo per i vecchi; ma a questo lavoro, della sgrossatura, prima, e della levigatura della pietra grezza, occorre accingersi fin dalle prime età; le pur legittime brame del giovane, le attività terrene dell’adulto e lo studio interiore del vecchio dovrebbero essere sorretti e dimensionati in vista di quella Conoscenza Superiore, unico bene imperituro e fondamento di tutte le speranze, che seppure vaghe ed indistinte, sono le uniche forze che ci spingono ad accettare la vita.

Nella mia esperienza personale, mi sono trovato davanti ad una scolta per la quale, or sono vari anni, mi sono visto svanire quella indistinta, addirittura inconscia, speranza di qualcosa di migliore che era stato sempre il vago sostegno del mio connaturato ottimismo. Forse era venuta quella che Giovanni della Croce chiama la nera notte dell ‘anima … e questa notte dura ancora, anche se vedo all’orizzonte un chiarore che è forse il lontano bagliore di quella Luce che noi cerchiamo nel Tempio. Il mio lavoro, anche se lo compio poco e male, è ormai – nel campo spirituale – la ricerca per l’ampliamento di Quella Luce.

ln questo modo la vecchiaia toma ad essere recuperata, viene ad essere il coronamento di una vita più o meno giusta e viene ad essere utile di esempio e di consiglio per le età più giovani.

M. Bnc,


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ANALISI E INTESI

Analisi e Sintesi

Tenteremo questa sera di riscoprire e riproporre all’attenzione di noi tutti, alcune considerazioni fondamentali che da sempre formano la base per una esatta comprensione di ciò che in effetti è la Massoneria e degli speciali vincoli che uniscono noi ad Essa.

La loro presente trattazione non dovrà mai essere intesa come una divulgazione di idee proprie dell’autore, o quale descrizione di esperienze personali, né quale frutto di sue impressioni o congetture varie, in quanto, tali nozioni sono costituite essenzialmente da dati tradizionali che per tale loro caratteristica assumono perciò un valore universale.

Ai nostri giorni, un inquadramento in precisi concetti di base, risulterà certamente poco simpatico a molti, abituati come siamo, in campo profano, ad applicare costantemente quella deplorevole tendenza, classica dell’Occidente, di porre l’AnaIisi in primo piano, e misconoscere la supremazia della Sintesi su questa. Ciò porta fatalmente alla cosciente ed incosciente eliminaione del legame affettivo con i Principi, eliminazione che, se in campo profano è la principale fautrice di quel marasma politico, economico ed ideologico, oggi particolarmente sentito, tanto più sarà apportatrice di confusione in campo iniziatico, ove può sicuramente costituire un elemento squalificante per l’iniziazione effettiva.

Io voglio credere che tutti noi abbiamo chiesto di far parte della Massoneria in quanto spinti da un impulso interiore che reclamava “più spiritualità”. Una certa insoddisfazione, prima solo accennata, poi sempre più impetuosa, costringeva il nostro Essere a volare più in altro, a ricercare qualcosa al di fuori della solita materialità, dei soliti sospiri sentimentalistici, del solito senso morale e della stessa solita cultura.

Pur ignorando l’esistenza ed il giusto peso di tutto ciò, qualcosa richiedeva a noi stessi di superarlo. E con il FIAT LUX, con la caduta cioè della benda nera dagli occhi, abbiamo scoperto tale possibilità, ovvero, tale possibilità ci è stata fomita proprio nell’attimo della nostra Iniziazione Massonica. Ed ora ne comprenderemo anche il perché.

Proprio in quanto si cercava “più spiritualità”, ci siamo diretti verso la Massoneria.

E perché non verso una Chiesa, verso cioè una Religione, che il senso comune addita come unica depositaria della Spiritualità?

Pur riconoscendo nella Religione un punto fondamentale nella sfera che gli compete, è pur doveroso affermare che in Massoneria vi è un qualcosa di più, in quanto, con Essa ci si porta ad un livello superiore, in Essa ci si trova, cioè, nel bel memo dell’unica Tradizione esistente oggi in Occidente.

La Massoneria, quindi, si definisce quale un’ Associazione Iniziatica Tradizionale Regolare.

Tali attributi Le sono propri anche se di essi oggi appare ben poco; ciò è dimostrato dal fatto che per molti Essa è oggi pensabile molto più quale semplice agglomerato di uomini con scopi eminentemente politici e sociali, ciò che avvalora maggiormente la tesi dell’esistenza in Occidente di una vera degenerazione nei confronti delle così dette “Scienze Tradizionali”

Cercheremo ora di spiegarci brevemente questi termini molte volte usati, ma altrettanto mal compresi.

Perché “Tradizionale”? Il termine “Tradizione” ha propriamente il significato di “Trasmissione”. Nel caso di una Associazione Iniziatica, si tratta di “Trasmissione di una Influenza Spirituale”, in virtù della quale le possibilità spirituali del neofita diventano, all’atto dell’lniziazione, delle virtualità pronte a svilupparsi nei diversi stadi della realizzazione iniziatica

Quale la provenienza di tale Influenza Spirituale? Essa proviene dal sovrumano ed è diretta all ‘umano, mediante ciò che viene definito simbolicamente una “Trasmissione Verticale”, costituendo quindi un legame affettivo che l’umanità possiede con i Principi, ovvero con ciò che le è superiore.

Sebbene a proposito di tale “Trasmissione Verticale” si dovrebbero spendere alcune parole in più anche nei riguardi della stessa, ma intesa in senso orizzontale, per ora non sembra il caso di andare oltre, in quanto l’argomento ci porterebbe troppo lontano e quindi oltrepasserebbe i limiti imposti dal carattere di questa Tavola.

Accennerò solo brevemente che la “Tradizione Orizzontale” è quella che è cronologicamente percepibile risalendo il corso dei tempi, nei quali ad un certo punto sfuma e scompare quale dato storico, per assumere le caratteristiche del Mito e della Leggenda; è appunto ciò che conferma I ‘origine “non umana” della stessa.

Il mantenimento della continuità della “Catena Iniziatica” e l’esistenza in essa dell’elemento “non umano” costituisce quella Regolarità riscontrabile in ogni organizzazione iniziatica e della Massoneria in particolare.

Va da sé, ora, che, dato il carattere metafisico dell ‘Influenza Spirituale di cui si parla, Essa si trasmette a quelle individualità che posseggano delle caratteristiche idonee a riceverla, ovverosia a coloro in cui si possa riscontrare ciò che, nel linguaggio iniziatico, si riassume sotto il termine di “Qualificazione”.

A seguito di ciò resta inteso che l’entrata di un profano in Massoneria non potrà mai essere determinata semplicemente dalla necessità di ripopolare le zone limitrofe alle Colonne, necessità che nasce spesse volte a causa di una certa mania al proselitismo e ad una vera superstizione democratica per il “gran numero”; né dalla presa in considerazione dei soli termini di “cultura”, “posizione sociale” e

“moralità”, che non possono costituire elementi fondamentali per l’appartenenza a

s

quella “Élite” per la quale il versetto evangelico molti son chiamati, ma pochi gli eletti” (a questo proposito sarà bene leggere e meditare il significato della parabola delle Nozze dal Vangelo di San Matteo).

La descrizione specifica delle caratteristiche che concorrono alla qualificazione sarebbe una di quelle ricerche fondamentali che contribuirebbero enormemente al riallacciamento effettivo alla Tradizione. Si è usato il termine “Ricerca” in quanto oggi pare non più sussistere regola alcuna in proposito.

Le poche e sintetiche considerazioni fin qui svolte, devono ritenersi essenzialmente dei punti di partenza, sono cioè semplici accenni suscettibili di essere maggiormente ampliati ed approfonditi, cosa che non è stata fatta in quanto è mancato il tempo e lo spazio.

Per altro penso che alcuni termini quali “Iniziazione” e “Organizzazione Iniziatica” siano stati sufficientemente chiariti, mentre altri quali “Tradizione”, “Influenza Spirituale” e “Qualificazione” si spera vengano in seguito ritrattati più espressamente.

G. C. Rlnd,

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LA MEDICINA NEL MEDIOEVO

SCIENZE

La medicina nel medioevo di M. P. F.

La trattazione del periodo medioevale impone allo storico un severo impegno di critica. Esso è abitualmente considerato una età di decadenza e di ristagno ed il solo aggettivo medioevale suggerisce di solito l’idea della involuzione, superstizione e dell’inerzia. In effetti la medicina era allora decaduta ad un livello molto basso.

Arcaici i concetti sulle malattie; diagnosi e prognosi si fondavano sulla posizione delle stelle o sull’esame delle urine; le cure consistevano in salassi e nell’uso di erbe la cui azione era poco conosciuta; l’anatomia veniva insegnata in base ai vecchi testi o, al massimo, alla dissezione di animali; l’alchimia si indirizzava verso la ricerca dell’elisir di lunga vita; la chirurgia era dominio di ciarlatani. Stando così le cose, non ci deve stupire il fatto che, nella Bologna del 1250 nessun medico volesse curare un nobile ferito, per timore di rappressaglie in caso di esito fatale.

Eppure non si può dire che la medicina medioevale presenti sempre un quadro così scoraggiante: qua e là qualche spiraglio di luce lascia intravedere la prossima ripresa della scienza. Si venivano fondando scuole di medicina dai metodi sempre più progrediti. L’anatomia veniva riconosciuta come la base della chirurgia; in questa branca si andava escogitando qualche nuovo metodo e si erano inoltre introdotte rudimentali misure preventive contro il dilagare della peste. Così anche il periodo medioevale diede il suo modesto, ma pur sempre importante, contributo alla scienza medica. Le vite e le opere di medici e chirurghi del Medioevo occupano quindi una pagina importante nella storia della Medicina. A quel tempo la medicina era comunque coltivata in due ambienti spiritualmente assai diversi: la chiesa cristiana ed il mondo arabo. Non si può negare che la chiesa cristiana dei primi tempi abbia ritardato il progresso della scienza medica: i primi cristiani interpretavano troppo alla lettera il potere guaritore dei seguaci di Cristo, negando ai medici l’autorità della guarigione. Essi asserivano che non si doveva in nessun modo sminuire la supremazia del solo Grande Medico. Così la medicina dovette cedere il passo alla Chiesa. Già di per se stesso il concetto cristiano della malattia era

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retrogrado. San Basilio di Cesarea, per esempio, che nel 375 d. C. fondò uno dei primi ospedali di cui si abbia notizia, negava che tutte le malattie fossero di origine naturale ed asseriva che molte erano mandate da Dio in punizione dei peccati commessi e richiedevano solo preghiera e pentimento. Rinnegato Ippocrate, si portavano le prove di miracolistiche guarigioni nelle chiese e tanto bastava perché il bigottismo dei fedeli escludesse qualsiasi altro intervento risanatore. Per di più il corpo umano era sacro e la dissezione proibita. Anatomia e fisiologia divennero scienze morte e tutte queste restrizioni dissuadevano via via gli studiosi dall’ intraprendere la professione medica. L’ostilità alla scienza secolare raggiunse il massimo nel 391, quando una turba di fanatici cristiani diede fuoco alla grande biblioteca di Alessandria d’Egitto, distruggendo molti inestimabili tesori del sapere. Non dimentichiamo comunque di essere debitori ai monaci del Medioevo della conservazione di quelle opere antiche che influirono ed ancor ora influiscono sull’indirizzo della medicina. L’altra grande miniera di scienza medica durante l’alto Medioevo fu fornita dagli Arabi. Essi costruirono il loro sistema medico in modo logico e bene articolato, aggiungendo alle prime traduzioni dal greco osservazioni originali. Ma il loro più alto contributo alla medicina riguarda il ramo della Farmacologia e, intimamente legata a questa, della chimica. Grandiosi furono gli ospedali da essi costruiti in Europa e molti loro insigni medici sono tuttora ricordati.

Cinquecento anni più tardi la medicina araba si fuse con quella monastica dando luogo alla famosa scuola di Salerno. Ricordiamo che la medicina monastica, nascosta nelle chiese e nei conventi, svolse una utile funzione per l’opera di sconosciuti monaci che per anni si affaticavano a copiare, a miniare ed a tradurre gli autori classici. Salerno fu la sede della prima scuola medica organizzata d’Europa. Essa piantò quel seme che doveva dare in pieno i suoi frutti qualche secolo più tardi nel Rinascimento. Alcuni asseriscono che la scuola sia stata fondata da Carlo Magno, altri la dicono una diretta emanazione della medicina araba, ma non vi è alcuna prova sicura in favore dell’una o dell’altra tesi. Raggiunse il massimo della fama nei secoli x e XI, per poi cedere il passo nel XIII secolo, alle scuole di Napoli, di Montpellier e di Bologna.

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Montpellier, come Salerno, era un luogo di cura, oltre che un ambiente celebre per la complessa sua cultura, sensibile persino allo spirito dell’antica Grecia; inoltre la sua posizione geografica la rendeva facilmente accessibile sia dall’Italia sia dalla Spagna. Per tutte queste ragioni non ci stupisce il sorgervi ed il fiorirvi di un grande centro di medicina.

Il suo docente più notevole fu Arnaldo di Villanova: laureato in teologia, medicina e legge, scrisse molti testi, soprattutto di medicina. Il suo era uno spirito di ricerca insolito a quei tempi, e spesso di critica verso i predecessori. Col sorger delle scuole di Padova e di Parigi e con la partenza del Papa da Avignone, Montpellier perse parte della sua importanza, tuttavia anche ai nostri giorni rimane un centro di scienza medica.

A questo punto, il criterio di successione cronologica ci porta a ricordare due grandi studiosi, ciascuno dei quali influenzò la vita intellettuale del suo tempo: Ruggero Bacone e Alberto Magno. Bacone ebbe idee così avanzate rispetto ai suoi tempi da sembrare anacronistico come personaggio medioevale. Dopo aver studiato ad Oxford, insegnò per qualche tempo a Parigi; disponendo di mezzi, poté spendere somme ingenti per i suoi esperimenti. Gli si attribuiscono le invenzioni degli occhiali, della polvere da sparo. Egli insisteva sul valore dell’esperienza a fronte dell’argomentazione. La medicina si era smarrita tornando sui sentieri della filosofia aristotelica; la scolastica, con le sue discussioni a vuoto, sradicate dalla realtà, aveva danneggiato la scienza; vi era urgente bisogno di un soffio di vita nuova, e solo Bacone poteva darlo. Con lui, lo svevo Alberto Magno, uomo fra i più colti del Medioevo, scrisse originali saggi.

Ma nessuna relazione sulla medicina medioevale sarebbe completa senza un accenno alla terribile ed estesissima epidemia di peste, che con il nome «Morte Nera» devastò il mondo civile nel XIV secolo. Circa un quarto della popolazione civile della terra allora conosciuta perse la vita nel contagio. Boccaccio nel suo Decamerone ci ha dato una drammatica descrizione della peste in Italia: «a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né serviti né aiutati d’ alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione morivano… Non bastando la terra sacra alle sepolture… si facevano fosse grandissime nelle quali a centinaia

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si mettevano i sopravvegnenti e in quelle stivati, come si mettono le mercanzie nelle navi, a suolo a suolo, con poca terra ricoprieno». Le cure erano di scarsa efficacia, ma opuscoli sulla peste scritti per illuminare il popolo consigliavano di praticare salassi e bere aceto. E interessante notare che un opuscolo di questo genere è stato forse il primo libro di medicina stampato in Inghilterra nel 1485.

Gli ospedali più antichi erano di fondazione ecclesiastica, e la Chiesa incoraggiava l’opera di ricovero ed assistenza a malati e feriti. Uno dei primi ospedali medioevali è ancora visibile nell’isola di Rodi, dove fu fondato dai cavalieri di San Giovanni durante le crociate. Nel tardo Medioevo furono costruiti molti begli Ospedali con vaste sale ben pavimentate illuminate da ampie finestre, e le pareti suddivise in cubicoli per i giacigli. Vi erano sufficienti provviste d’acqua e perfino sistemazioni di fognature. Libri e manoscritti dell’epoca, ricchi di illustrazioni, documentano ampiamente la medicina medioevale. Anatomici rappresentati nell’atto di sezionare cadaveri ed indicarne le parti agli allievi furono uno dei soggetti preferiti dai pittori olandesi del XVI secolo. Ma i disegni più antichi mostrano che l’operazione effettiva della autopsia non veniva eseguita dall’anatomico stesso. Anche la diagnosi mediante l’esame delle urine era soggetto comune di rappresentazione fino a tempi relativamente recenti. Troviamo, ad esempio, un medico con manto azzurro bordato di ermellino e berretto di velluto, mentre, nell’atto di tastare il polso all’ammalato, leva verso la luce, con mano carica di anelli, un bicchiere colmo d’urina; la madre del paziente segue le sue mosse con venerazione ed ansia. Molte altre miniature e xilografie antiche ci informano sulla vita medica dell’epoca, così che si potrebbe impararne la storia, senza la fatica della lettura e della traduzione.

E generalmente ammesso che la medicina raggiunse il vertice della crisi nel 1543, anno in cui comparvero in De revolutionibus orbium coelestium ed il De humani corporis fabrica, nei quali rispettivamente Nicolò Copernico ed Andrea Vesalio sovvertirono ogni sistema corrente di astronomia e di medicina.

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SIMBOLISMO

SIMBOLISMO

  • Trasformazione
  • La leggenda di Hiram
  • La Gestualità

Trasformazione di Adele Menzio

Morte del profano. Rinascita dell’iniziato.

Questo il significato profondissimo ed essenziale dell’lniziazione che deve, per essere consapevole, provocare un mutamento radicale.

Ma su quali piani, in che modo, con quali manifestazioni?

E molto facile cadere in equivoco lasciandosi trasportare da entusiasmi estatici, attratti dall’oscurità del mistero o, ancora, obbedendo alle lusinghe di una supposta superiorità spirituale e morale. Il carattere peculiare dell’iniziazione massonica è il suo specifico simbolico.

Come dobbiamo intendere, di conseguenza, il linguaggio massonico e quali corollari l’uso del simbolo può (e deve) avere nella trasformazione del massone?

L’uso del simbolo è la base del linguaggio iniziatico.

Esso diviene uno strumento di comunicazione del tutto singolare: non è legato al Tempo (alla Storia), può consentire esperienze non verbali. Esso libera dalle consuete forme di pensiero che normalmente vincolano ad una determinata filosofia.

La trasformazione consiste, in un certo senso, nell’abolizione dei linguaggi tradizionali e consueti.

Il simbolo, in realtà, non è un segno che sta per un altro, ma l’abolizione di tutti i segni che l’uomo ha inventato per capire il mondo

e se stesso.

Attraverso l’uso del simbolo è possibile ottenere una visione unitaria: si possono mettere insieme (sun-ballein) tutti i contrari.

Tuttavia per raggiungere questa possibilità, che implica necessariamente l’uso di un modo conoscitivo diverso, occorre abbandonare il diabàllein, il consueto procedimento analitico e dialettico per ottenere quello che Nietzsche definiva «lo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche

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II simbolo è una metafora, è una continua allusione, rimanda a ciò che ancora non è stato detto e forse non si può nemmeno dire.

Probabilmente aveva ragione Jung quando puntava il pollice verso sul razionalismo ed il positivismo che avevano, secondo lui, distrutto la capacità dell’uomo di capire ed usare i simboli.

Procedere per simboli è dunque il solo metodo iniziatico che può portare alla VIA.

Procedere per simboli deve operare una mutazione radicale. Dall’immanenza e dal lavoro su se stesso si deve passare alla trascendenza. Ad una visione, se vogliamo, del divino.

La percezione del Primo Motore, la consapevolezza che i fenomeni altro non sono che le varie manifestazioni di un unico Principio, il dubbio propria realtà che potrebbe anche essere una illusione, un riflesso speculare di una Essenza che è assoluta ed illimitata, ma che sembra relativa e finita.

Ciò che non muta è la forma, se per forma si intende il modo di procedere, di avvicinarsi sempre più alla verità attraverso lo studio, lo sviluppo, l’intuizione del simbolo.

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MASSONI DENTRO E ATTORNO MONTECITORIO

  Alessandro Mola

MASSONI DENTRO E ATTORNO MONTECITORIO

La presenza di massoni nei due rami del Parlamento sin dal passaggio fra Regno di Sardegna e Regno d’Italia è realtà acclarata. Manca però uno studio che indichi in modo incontrovertibilmente documentato il loro curriculum di loggia. Da un paio d’anni si è aperta una sorta di gara tra volumi, articoli e tesi di laurea, corrivi a pubblicare serie di parlamentari e alti dignitari della Terza Italia sotto l’indistinta insegna di ‘massoni’. Si tratta di repertori che poco agoiungono a quanto già si sapeva. E le aggiunte in alcuni casi risultano destituite di fondamenta documentarie. Tali repertori, ad ogni rnodo, non soddisfano la domanda storiograficamente preminente: quanto l’iniziazione e/o l’ affiliazione a questa o quella loggia abbia effettivamente condizionato — o persino dettato — l’azione politica di quei “massoni di lusso”. Prima che sorga un novello Luzio, costretto dall ‘esorbitante pretesa di massonizzazione universale della storia politico-istituzionale, va ricordato che nel quadro politico globale i massoni incisero, quando incisero, per la quota ricoperta (ma spesso si divisero anche su questioni di peso, quali il trasferimento della capitale da Torino a Firenze).

Anche più controversa rimane però la quistione centrale: se la condotta parlamentare dei deputati e senatori affiliati sia effettivamente dipesa da direttive di singole Officine liberomuratorie o di poteri apicali delle diverse Obbedienze d’ascrizione.

La presenza di massoni, soprattutto alla Camera dei Deputati, va però oltre l’assemblea e al governo che da Felice Cavallotti (bene informato anche per la sua giovanile appartenenza all’Ordine. ora provata in via definitiva da Cristina Vernizzi) in polemica con il ‘fratello’ Crispi venne marchiato come “conclave di 33”.

Forte di raffinata cultura storico-giuridica e di decenni trascorsi all’interno di Montecitorio, Mario Pacelli, docente di Istituzioni di diritto pubblico al]’ Università “La Sapienza” di Roma, propone or.a “storie sconosciute” di più reconditi ed efficaci intrecci fra l’ “universo” parlamentare e il mondo delle logge, con particolare attenzione per la presenza di massoni in servizi solo apparentemente secondari: la verbalizzazione delle sedute, i diversi ‘uffici’ e, soprattutto, la Segreçria generale della Camera, che d’altronde non poté certo rimanere impermeabile alla qualità massonica dei parlamentari susseguitisi alla sua presidenza, o per diretta appartenenza all’Ordine (valgano i casi di Tommaso Villa, Francesco Crispi, Michele Coppino, Giuseppe Zanardelli, Domenico Farim…) o per legami parentali con massoni notori (fu il caso di Urbano Rattazzi, la cui affiliazione rimane da documentare, mentre è provata quella del suo congiunto, Giacomo).

Vera messe di aneddoti gustosissimi, accenni illuminanti e giudizi appropriati, il saggio di Pacelli, frutto di quarant’ anni di ricerche, ci conduce dal nonagenario Filippo Delpino, capostcnografo della Cannera subalpina e cofondatore della loggia “Ausonia” (non “Aurora”) I ‘8 ottobre 1859, a Francesco Cosentino, il segretario generalc della Camera assiduamente frequentato dal “dottor Luciani”, ovvero da Licio Gelli.

Asceso al governo. Benito Mussolini rinviò lo scontro diretto con le due principali Comunità massoniche dell’epoca (il Grande Oriente d’Italia e la Gran Loggia, dalla sua seconda sede maliziosamente detta “di Piazza del Gesù”), conscio che fra gli stessi gerarchi parecchi erano transitati in loggia, conservando legami conseguenti. Nel 1925 — quando il Parlamento venne piegato ad approvare la legge sull’appartenenza dei pubblici impiegati ad associazioni. nota come “legge contro la massonena” — l’offensiva non poté esserc rimandata e culminò nell’inchiesta sul personale di Montecitorio. Lo stesso segretario generale, Camillo Montalcini, era sospettato di massonismo. Non si trovò, tuttavia (né sono state reperite ad oggi) prove di sorta a suo carico. Effettivamente massoni risultarono solo funzionari di seconda o terza fila, vulnerabili per piccole inadempienze o lievi abusi di potere. L’ “inchiesta” non si tradusse quindi affatto in epurazione generalizzata e lo stesso Montalcini venne elogiato e proposto Segretario generale onorario. Fosse o meno massone, andava rimosso perché organico allo stile liberale, ormai sconfitto. Gli subentrò Aldo Rossi Merighi. “Il regime era veramente cominciato”. come lapidariamente conclude Pacelli, il quale però attribuisce talora qualità di massone a chi, per quanto non si sa. non solo non lo fu affatto ma anzi prese ripetutamente le distanze dall’Ordinc. E il caso — tra altri- di Giovanni Giolitti, da Pacelli classificato perentoriamente massone, accanto a Giuseppe Marcora (p.65).

Del pari è lecito dubitare che il mancato arresto di Dino Grandi sia dovuto alla triangolazione massonica fra lui, Ubaldo Cosentino e Vittorio Emanuele Orlando. L’ iniziazione del “presidente della Vittoria” al momento è avvalorata da mera tradizione orale; di Ubaldo Cosentino non v’è traccia nella matricola generale dell’Ordine, che annovera anche gli iscritti alle riservatissime logge “propaganda massonica” di Torino (alla quale nel 1925 venne aggregato Guglielmo Ferrero) e di Roma. Quanto a Dino Grandi è certo che intrattenne rapporti strettissimi con massoni notori e ne condivise talora l’animo. Anche la sua iniziazione (all’una o all’altra Obbedienza) al momento rimane però una mera IPOtesi in attesa di prove convincenti.

Talvolta agli studiosi più avveduti accade quanto avviene per gli osservatori prevenuti. Di scorgere presenze, tracce, segni massonici anche nelle decorazioni più ovvie. E’ il caso delle ‘stelle’ ora presenti nella pavimentazione di Montecitorio di Piazza Montecitorio e che si aogiungerebbero ai “simboli massonici. ..profusi in abbondanza all’ interno dell’edificio”, come lamentato dall’ “Avvenire” (p. 197). In realtà non v’è prova alcuna di iniziazione all’Ordine di Davide Calandra, al quale si deve il solenne bronzo retrostante il seggio presidenziale (antimassone, semmai) né di Aristide Sartorio, a differenza, invece, di Giuseppe, iniziato alla “Pietro Micca —Ausonia” di Torino nell’età di Lemmi, quando si affermò quale “scultore dell’epopea risorgimentale”

Il succoso saggio di Pacelli. sorretto da solida erudizione, offre molteplici spunti di ulteriore ricerca e induce infine a porsi una domanda centrale: perché, se davvero sian mai giunti sulla soglia di esercitare tanta influenza sul Parlamento. i massoni non sian riusciti né a varare una legge sulle associazioni a propria tutela né, almeno, a uniformare le aule al modello della loggia, scartando l’emiciclo: fatale progenitore di convergenze al centro, fomite di compromessi e, talora. di giochi alchemici dagli esiti devastanti.

MARK) PACELLI, Interno Montecitorio. Storie Sconosciute, Milano, Franco Angeli, 2000 pp. 198 Lit. 38.000.

MASSONI ANTIFASCISTI

Getta nuova luce sui nessi tra antifascismo militante e massoneria fedele ai suoi principi fondativi il succoso e documentatissirno saggio di Mimmo Franzinelli “Nel retrobottega della polizia fascista”, anteposto alla nuova edizione di “Una spia del regime”: il ‘memoriale’ scagliato da Ernesto Rossi contro la spia prezzolata che allestì la provocazione ai danni di “Giustizia e Libertà” e, ancor più, contro il tartufismo dell’Italia postfascista.

Acuto esploratore degli archivi di polizia, come prova il robusto volume • ‘I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della politica fascista” (parimenti edito da Bollati-Boringhieri,Torino, 1999) ma anche sensibile alle diverse correnti dell’Italia laicista, anticlericale e, perché no?, massonica, Mimmo Franzinelli confer»a la quasi completa coincidenza. nella prima fase, tra i militanti attivi in Italia nelle file di “Giustizia e Libertà” e la rete clandestina di ITIassoni rimasti attivi malgrado la persecuzione esercitata dal regime e l’ ordine di autoscioglimento delle logge impartito dai grandi maestri delle due Obbedienze (uno dei quali, Raoul Palermi, venne indicato poi al soldo dell’Ovra: Opera Volontaria di Repressione dell ‘ Antifascismo). Vicenda, questa, che va molto oltre le dimensioni del “fatto personale” e investe aspetti centrali della storia della massoneria in Italia, neppure sfiorati da Angelo Livi nel volume di cui riferiamo in questo stesso fascicolo.

Nell’ambito della ricca messe di documenti prodotti in appendice, Franzinelli pubblica numerosi elenchi di massoni impegnati nella cospirazione contro il regime (a Milano, Padova, Udine. . .). Si tratta di una importante base di partenza per una ricerca ulteriore, anche sui rapporti tra quei nuclei, i massoni dell’esilio (sui quali rinviamo al nostro saggio sul Grande Oriente d’Italia, 1930-1938, pref. di Armando Corona, Roma, Erasmo, 1983) e le Obbedienze estere. Valga, quale spunto. il post scriptum del rapporto redatto da Vezzari sulla base delle informazioni fornitegli da Carlo del Re circa la collaborazione tra Giordano Viezzo]i (poi caduto in difesa della Repubblica di Madrid) c Ramon Franco. massone, fratello del più celebre Francisco, il “caudillo” di Spagna. acerrimo persecutore dei massoni.

Risulta altresì confermata la permeabilità della rete massonica da palte di figure poco commendevoli: rari, ma micidiali, sia sotto il profilo delle ripercussioni pratiche dei loro tradimenti ai danni dei “fratelli”, sia per la credibilità dell’ istituzione: codesta è però un’esperienza vissuta dal mondo settario italiano nel Settecento, come durante la restaurazione e in molti impervi tornanti della Terza Italia. quando la massoneria risultò divisa per motivi politici e, talora, per ragioni noeno nobili e ideali.

Un interrogativo rimane senza risposta; né era compito di Franzinelli darla, giacché il tracciato di questo suo lavoro ha altri intenti. Quei massoni militanti nella cospirazione antifascista e inclini anche all’uso di armi per destabilizzare i pubblici poteri a quale titolo agivano? La responsabilità delle loro imprese e i principi ispiratori loro soggiacenti potevano e possono essere attribuiti al gran maestro confinato a Lipari. Domizio Torrigiani, o a quelli susseguitisi (sino al 1932 come aggiunti, poi da effettivi) alla guida della massoneria italiana in esilio?

E quanto l’una e gli altri condizionarono la rinascita liberomuratoria del 1943-45?

Riteniamo sia venuto il tempo di indagini prosopografiche che, attraverso i profili del più ampio numero possibile di protagonisti, consentano di individuare linee generali di comportamento e capire cesure e continuità: che son poi quelle, più in generale,  storia italiana, tuttora rabberciata a seomenti e a spezzoni, senza un filo conduttore davvero unitario e capace di condurre, con una rigorosa e convincente spiegazione, alla comprensione che è anche sinonimo di autentica pacificazione nella verità.

Ernesto Rossi, una spia del reginze

Nuova edizione a cura di Mimmo Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri. 2000, pp. 396, Lit. 55.000.

L’IDENTITÀ MASSONICA, OLTRE LA CRONACA

Dobbiamo al cinquantenne Natale Mario Di Luca, professore associato presso l’ Università “La Sapienza” di Ronna e condirettore della giovane e già autorevole rivista di esoterismo “Arkete” un saooio che conduce oltre i confini sinora attinti dalla massonografia italiana. Come del resto evidenzia Mariano Bianco nella prefazione, Di Luca ha il pregio di porre al centro della sua ricerca un problema di metodo: evitare la riduzione della Massoneria a mero fastello di ‘fatti’ , di vicende biografiche di questo o di quell’ affiliato, di travagli delle sue varie denominazioni storiche e verificare, nel tempo, la reciprocità fra vicende politicosociali e contenuti propriamente esoterico-iniziatici. La Massoneria — emerge dall’opera in discorso, che vivamente raccomandiamo ai lettori — ha una sua peculiarità specifica: sintetizzata da Bianca nel “fattore G” cioé nel suo fondamento noumenico, nel fattore noetico e in quello di ‘regolarità”. Perciò — come ancora scrive Bianca — il sagoio apre “un filone”, che evita la riduzione della storia della Massoneria a puro e semplice racconto parapolitico (e, fatalmente, di politica “all’italiana’ quando si tratti di cose nostrane: e quindi di conflitti tra partiti o correnti di partiti).

Inevitabile, perciò, che Di Luca giunga ad avanzare interrogativi sulle conseguenze propriamente massoniche di taluni aspetti dell’assetto istituzionale della Libera Muratoria in Italia. “11 conferimento al solo gran maestro del potere di rappresentare l’Ordine nelle sue manifestazioni esterne — egli scrive — fa sì che l’identificazione tra lo stesso gran maestro e la ‘politica’ dell ‘Ordine sia pressoché totale”; al tempo stesso, però, “l’attribuzione di una precisa identità alla massoneria italiana sulla sola base delle pubbliche dichiarazioni dei grandi maestri o attraverso l’esame dei contenuti apparsi nelle sue pubblicazioni ufficiali non è ( … ) procedimento sicuro ed esauriente, anche se probabilmente è l’unico valorizzabile in sede storica”. Occorre saper guardare al “volto sommerso (…) che è quello certamente più autentico delle sue logge e della loro vita interna, ricchissima di individualità e  pur in sintonia con una “società nazionale” i cui “scossoni tellurici” si sono ripercossi sulla vita dell’Ordine. Accuratamente annotato’e arricchito da una bibliografia ragionata di buon livello, il saggio dedica attenzione anche all’ultimo ventennio, formulando giudizi severi sulle vicende del 1 993. Sintetica ma densa ed equilibrata è l’informazione anche su “gli eredi di Saverio Fera”

NATALE MARIO Dr LUCA, La Massoneria. Storia, Illiri e riti, prefazione di Mariano Bianca, R01na, Atanor, 2000, pp. 250. Lit. 28.000.

ANCORA SU MASSONERIA E FASCISMO

I rapporti tra massoneria e fascismo furono “una vicenda tragica ed intricata”, conie bene scrive Luigi Alfieri, ordinario di filosofia politica nell’Universi(à di Urbino in prefazione ad un saogio che ha il pregio di produrre copiosa documentazione anche in anastatica. E il caso della lettera a Mussolini, con la quale Italo Balbo, Comandante generale della Milizia Nazionale respinse l’addebito, assolutamente fondato, di affiliazione massonica. Benché si tratti di cosa nota da tempo, la duplicazione dell’originale aggiunge freschezza e irnmediatezza al documento.

L’autore del saggio, il sociologo Angelo Livi, ripercorre la lotta di Mussolini contro la Massoneria da quando il futuro “duce del fascismo” era capo dell’ ala massimalistica del Partito Socialista Italiano. Livi non tace certo che alcunc tra le tappe fondamentali dell’avvento del fascismo videro in prima fila afTiliati dell ‘una e del] ‘altra Comunità massonica italiana. E il caso della celebre riunione di Piazza San Sepolcro. Ma anche la marcia su Roma del 28 ottobre 1 922, prelusa da una riunione a Torre Pellice, folta di massoni (1 7 ottobre), contò parecchi ‘fratelli’ in primissima fila, come poi la “sfilata” che festeggiò l’insediamento di Mussolini a capo del governo.

Il volume costituisce dunque una cronaca onesta c sorretta da buona informazione. Essa evidenzia l’abbaglio che, pur con differenze di accenti e di tempi, condusse entrambe le Obbedienze ad assecondare o a non ostacolare l’ascesa di Mussolini. Va però detto che le•responsabilità dei massoni risultano minime rispetto a quelle dei partiti i cui parlamentari votarono a favore del governo (e lo fecero molti liberali. il partito popolare di De Gasperi e Granchi, i demosociali di Colonna di Cesarò, parecchi ex radicali…) e a quelle di socialisti (inüferenti dinanzi al crollo dello “Stato borghese” e incapaci di capire che il declino delle libertà impoveriva tutti) e comunisti (inclini a vedere nel fascismo una scorciatoia verso la “rivoluzione rossa”).

Livi pubblica integralmente la relazione della Commissione d’inchiesta, presieduta da Raffaele Paolucci, sul personale e sui servizi della Camera dei Deputati, volta a individuare e a emarginare i massoni (la stessa di cui si occupa Mario Pacelli in “Interno Montecitorio”, di cui riferianw in questo stesso fascicolo). Le conclusioni dell’inchiesta concorrono a rispondere al quesito ricorrente sulla sorte toccata alle molte decine di migliaia di massoni attivi e quotizzanti in Italia nel 1925, cioè all’autoscioglimento delle Obbedienze di Palazzo Giustiniani e di Piazza del Gesù. Mentre la maggior parte dei funzionari. impiegati e addetti di quello che a lungo era e sarebbe stato dipinto quale “covo di massoni” andò indenne da rilievi, anche nei pochi casi sui quali la Commissione si fermò con maggior severità alla antica militanza “tra le colonne” venne contrapposta l’ ‘ opera apertamente fascista” professata da chi era documentatamente massone o creduto tale. Emblematici furono quelli del direttore dell’Ufficio, commendatore Monnosi, già segretario del Grande Oriente d’Italia, nei confronti del quale non venne chiesto alcun provvedimento, e del cav. Caciolli e dei “17 commessi aggiunti. iscritti alla Massoneria di Passa del Gesù (loggia “Patria e Lavoro”, da cui SI sono dimessi in varie epoche, ma tutti prima che la legge ‘contro la massoneria’ fosse votata)” e che dichiararono, creduti, d’essere entrati in loggia su sollecitazione di “alcuni sottosegretari di Stato dello stesso rito’ .

La maggior parte dei massoni sino a poco prirna attivi e quotizzanti rimase al proprio posto, a prezzo – e neppure sempre – di sbrigativi “atti di contrizione”: della cui sincerità i fascisti finsero appagarsi giacché sapevano bene d’essere numericamente minoranza esigua e di dover quindi ricorrere al sostegno di chi già era all ‘ interno dello Stato per giungere ad impadronirsene appieno.

Nell’insieme la vicenda assume dunque i colori di una gigantesca dimostrazione d’ipocrisia e di conformismo, di doppiogiochismo e riserve mentali: una avvilente sceneggiata dalla quale neppure vents anni dopo tanti italiani uscirono, pronti ad una seconda recita: quella della pretesa ‘innocenza’ da ogni collusione con il regime, l’ostentazione di virtù due volte perdute e sulla cui palude di menzogne e compromessi mise inconsistenti basi il ‘sistema’ seguente, che di repubblica ebbe il nome, non la virtù.

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UN MODERNO GIRONE INFERNALE

di Amarilli

UN MODERNO GIRONE INFERNALE

Mi aggiro fra le tombe di un piccolo cimitero di campagna. E luogo di meditazione.

Il 1 0 di novembre è dedicato alla commemorazione dei defunti. E il tempo in cui la luce del sole si attenua, in attesa del gelo e grigiore invernale. Lo strato di foglie gialle e rosse attenua il rumore dei passi, le notti si fanno lunghe, ci fanno pensare alla fatica, al riposo, al sonno. Ci inducono alla riflessione.

Il culto dei morti è antico quanto il mondo. Ulisse portava loro cibo. Gli antichi egizi avevano il loro mondo dei morti nelle piramidi, con i loro corpi mummificati e gli oggetti testimoni e compagni della loro vita e a garanzia della prosecuzione della vita nell’eternità; riti e cerimonie che ne onoravano la memoria si sono persi nella notte dei tempi, man mano che l’uomo si è «incivilito». Noi portiamo loro dei fiori. E il nostro modo per mantenere il contatto con coloro che hanno fatto parte della nostra vita, per continuare a sentirli vivere.

Questo sentimento fa parte della sacralità della nostra vita. E per questo ho avuto un sussulto alla lettura di alcuni titoli apparsi sui giornali: «I predatori di tombe», «test-auto, la cavia era un corpo umano», «commercio clandestino di cornee».

Viviamo in un momento terribile, confuso, non so se unico nella storia, nel quale si è perso il significato di morale, etica, in cui primeggia la potenza del dio denaro.

Una miriade di pensieri affolla la mia mente. Ci possono essere diversi tipi di morale? Può cambiare la morale col trascorrere del temPO, il susseguirsi delle epoche? Cosa è, infine, la morale? Cosa sono il buono e il cattivo, il lecito e l’illecito?

Senza dubbio questi interrogativi non coinvolgono il caso dei becchini che hanno dissacrato i cadaveri, spogliandoli di denti d’oro o di oggetti che la pietà dei vivi aveva lasciato nelle loro tombe. Si tratta qui di un fatto osceno, tremendo, ingiustificabile, imperdonabile. E la caduta in un abisso di nefandezza. Mi chiedo come potessero questi individui condurre una vita normale con le loro mogli, mariti, figli, amici, senza sentire il peso di questa vergogna. Aggiungo: i soliti giornalisti garantisti hanno individuato la causa di questo comporta63

mento, pronunciando una semi assoluzione, il basso stipendio da essi percepito. Nessun commento!!

I test-auto con corpi umani. Qui entriamo nel dissacrato campo del dio denaro, nell’economia di mercato a qualunque costo. Un cadavere costa meno di un manichino, anzi non costa nulla. Mi ritornano alla mente le strane figure di Bacon, i suoi personaggi contorti dall’angoscia e dall’urlo. L’industria, a quanto pare, non sempre tiene una partita doppia fra risparmio e spreco, e tutti possiamo intuire i tantissimi sprechi. E mi chiedo anche chi saranno stati i geniali proponenti di tali macabre soluzioni, sicuramente encomiati e promossi. L’espianto di cornee o trapianto di organi. Penso che ognuno possa di sua volontà disporre dell’uso dei propri organi una volta defunto. Penso però che non si possa liberamente disporre di un corpo che non ci appartiene senza questa precisa volontà. Se poi questo si verifica con l’abuso, la disonestà, la mancanza di scrupoli — non certo per umanità ma per denaro — allora siamo allo stesso livello dei profanatori di tombe.

So di essere molto ignorante, e pochissimo conosco la filosofia e teologia, e quanto sto per dire è più intuizione che conoscenza. Sento il profondo mistero che circonda la vita e la morte, l’inizio e la fine, oppure derivazione e continuazione, l’immenso e profondo rapporto fra uomo e universo, la sua creazione e il suo divenire, la potenza di un grande architetto dell’universo. Da dove veniamo? dove andiamo? Per questo non so cosa sia lecito fare per difendere e prolungare la vita umana, o come dovremmo vivere staccandoci, con meditazione, da quanto è esclusivamente terreno e materiale. Per questo, scienza, medicina, biogenetica, chimica, che passi immensi hanno pur compiuto con l’intelligenza dell’uomo, molto spesso, se questo stesso uomo ignorante delle leggi superiori ha contribuito a deteriorare, depistare, distruggere gli obiettivi essenziali per un vero progresso non esclusivamente tecnologico o economico, ma etico e spirituale.

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VOLTAIRE

du Amarilli

  • Nella valutazione complessiva di tutta la lunga vita di Voltaire nonché della sua articolata e ponderosa opera, si può osservare un aspetto di esse poco considerato anche se non precisamente marginale, e cioè il rapporto che ebbe con il potere suo proprio o di altri nei suoi confronti, considerato come influenza prepotente sul comportamento di altre persone o sul modo di pensare di esse.

In realtà Voltaire, come vedremo, ebbe un lunghissimo tirocinio durato molti anni, nel quale educò la facoltà principale con la quale poté infine esercitare un suo personale potere e cioè il suo formidabile intelletto, mentre per tutta la vita ebbe in odio l’abuso del potere meramente materiale.

Già a 18 anni dopo la rappresentazione dell’«Œdipe il cui successo gli valse l’ingresso nell’alta società, ebbe a sperimentarlo grazie al Cavaliere di Rohan che, infastidito dai suoi sarcasmi, lo fece bastonare dai suoi servi. Come risarcimento Voltaire, che aveva osato sfidarlo a duello, fu rinchiuso per sei mesi alla Bastiglia. Irritato contro un paese dove il privilegio poneva tanta diversità tra gli uomini (e dopo lo scarso successo della «Henriade») emigrò in Inghilterra dove i suoi talenti letterari trovarono un largo riconoscimento e gli procacciarono appoggi finanziari da parte del Re Giorgio I e della Principessa del Galles.

Dopo il suo esilio dalla Francia la vita di Voltaire si può dividere all’ incirca in quattro periodi: il suo soggiorno in Inghilterra, decisivo per la sua formazione intellettuale, il suo soggiorno presso M.me du Châtelet; la sua permanenza presso il Re di Prussia e la sua apoteosi finale di grande apostolo della tolleranza e di formatore di tutto il pensiero illuminato occidentale dell’epoca. Il soggiorno ingl+e determinò la sua carriera di filosofo e di polemista: egli penetra, vivamente ricercato per il suo spirito libero, nel circolo di Lord Bolingbroke qui frequentando Pope e Swift e studiando a fondo Newton. Tornato sul continente si stabilisce in Lorena presso la Marchesa du Châtelet e con essa, dama d’ingegno e spirito appassionato di certezze scentifische, approfondisce la matematica, la geometria, la meccanica e la fisica e qui scrive «Les elements de la philosophie de Newton» e le «Lettres sur les Anglais». E questo il periodo decisivo della sua formazione mentale: cessa di essere un talento puramente artistico e letterario e diviene un polemista formidabile cominciando la sua battaglia teista contro i teologi e storici ortodossi.

Nel 1740, intraprende un viaggio alla corte di Federico Il, ove tenta di stabilire contatti diplomatici d’alleanza tra Francia e Prussia contro l’Austria. Quindi, grazie a M.me de Pompadour, entra tra gli Immortali dell’Accademia di Francia, poi, nel 1750, alla morte di M.me du Châtelet, si trasferisce a Berlino presso Federico II il re che attirava presso di sé i più brillanti ingegni scentifici d’Europa e qui, provvisto di una congrua pensione, occupa l’appartamento accanto al Re e riceve un’accoglienza straordinaria.

Durante questo periodo Voltaire è quanto mai vicino all’esercizio più assoluto del potere e crede di poterne influenzare le scelte attraverso il dominio della ragione. Bruscamente però scoppia la rottura: gelosia e pettegolezzi intorbidano i rapporti tra il Re e il filosofo che sollecita ed ottiene il suo congedo.

Tornato in Francia attraverso varie peripezie, e dopo essere stato arrestato a Francoforte, non vi trova tutta la libertà di cui ha bisogno e, anche se adulato da grandi e da ministri, nel 1759 va a stabilirsi a Ferney assieme a sua nipote, M.me Denis.

In quel tempo non era permesso a nessun cattolico stabilirsi a Ginevra né nei Cantoni protestanti svizzeri ma, con un atteggiamento sintomatico nei confronti del potere costituito, egli volle « acquistare terra nei soli paesi della terra ove non è permesso averne».

Arricchito ormai da lauti guadagni, pensioni e provvigioni pagategli da vari principi d’Europa, egli poté installarvisi da gran signore, tenere una propria corte e divertire gli ospiti con ingegnose e riuscite rappresentazioni teatrali. La sua fama è arrivata al colmo, i sovrani e l’alta nobiltà gareggiano nel corteggiarlo ed il suo intervento nei processi Calas («Traité sur la tolerance») e La Barre ha per conseguenza di ottenere la revisione di ingiuste sentenze. L’opera capitale di questo periodo è il «Dictionnaire philosophique», i} testamento intellettuale di Voltaire, la sua battaglia di mezzo secolo contro l’intolleranza, il fanatismo, l’autorità, i dogmi, il miracolo, le falsificazioni delle leggende e delle tradizioni.

Nel frattempo la cacciata dei Gesuiti dalla Francia e dalla Spagna ha privato l’ortodossia del suo più valido baluardo: Voltaire non parla più da sbandato oppositore, ma da capopartito e da membro della società dei teisti e dei’ Liberi Muratori, anche se la sua iniziazione alla Massoneria avverrà solo alla vigilia della sua morte.

Da Ferney egli regna. Negli ultimi venti anni della sua vita Voltaire diventa il riconosciuto pontefice dei lumi della tolleranza e della filantropia.

Dal suo comodo castello, irraggiungibile alle persecuzioni dei governi, corrispondente ricercato di monarchi, principi e primi ministri, egli instaura nel mondo la sovranità tutta nuova dell’opinione e dell’intelletto. Da Ferney egli dirige la battaglia sempre più accanita contro i Gesuiti e a favore delle libertà giurisdizionali, incoraggia e stimola gli enciclopedisti di Parigi e cementa la compattezza della dilagante organizzazione dei Liberi Muratori. Inoltre moltiplica le esortazioni e gli incitamenti ai ministri delle corti di Francia, di Spagna, di Prussia e d’Austria dirette a «écraser l’infame», corrisponde fittamente con il Re Cristiano di Danimarca, con il Conte di Aranda, con i Duchi di Choiseul e di Richelieu, con Federico il Grande, ritornato suo amico e ardente estimatore.

La lotta in favore della tolleranza e dei lumi si fa sempre più intensa e serrata: egli che aveva dedicato «Mahomet» al Papa Benedetto XIV, ora lancia strali polemici sempre più affilati contro il Cristianesimo, esercita il suo impero filosofico su mezza Europa; Federico II e Caterina di Prussia s’inchinano (per lettera) al sovrano signore della opinione; il Re Cristiano, la Duchessa di Sassonia Gotha, la Margravia d’Assia, il Duca di Richelieu, sollecitano la sua approvazione e il suo consenso alle loro riforme legislative: un suo epigramma o una sua lettera colmano di gioia i circoli aristocratici illuminati delle capitali europee. Il «morente» di Ferney sembra inesauribile di brio, d’invenzione, d’eloquenza seria e di grazia frivola.

Infine cedendo alle pressioni degli amici, nel marzo del 1778 si reca ad assistere a Parigi alla rappresentazione dell’«lrène»: un delirio immenso circonda la sua persona: la sua fibra soccombe sotto il peso degli allori e a Parigi egli muore il 30 maggio 1778.

Roma e il Rinascimento – Parte Seconda di Amarilli

Il primo atto del Pontefice dopo il suo ritorno a Roma fu la promulgazione — 18 luglio 1511 — della Bolla Sacrosantae, con la quale convocava un concilio generale nella Basilica del Laterano, e colpiva con anatemi tutti coloro che avrebbero partecipato alla riunione scismatica di Pisa. Era come gettare lo scompiglio fra i dissidenti e privarli di ogni pretesto di agitazione. Da quel giorno, infatti, il concilio di Pisa — il «conciliabolo» come lo si volle definire — perdette ogni ragione d’essere, canonica o logica, ed ebbe un’esistenza fittizia e faziosa. Composto quasi esclusivamente da francesi, ripudiato dalla maggior parte del mondo cattolico, malvisto dalle popolazioni delle città dove avrebbero tentato di riunirsi, passerà successivamente da Pisa a Milano, da Milano ad Asti, da Asti a Lione, e finirà di scomparire fra le nebbie del Rodano. Si sarebbe potuto credere che dopo la catastrofe di Bologna Gian Giacomo Trivulzio avrebbe colto un’occasione così favorevole per marciare direttamente su Roma, ma si fu ben presto rassicurati. Lontano dal voler spingere la sua vittoria fino all’estremo limite, Luigi XII richiamò il suo maresciallo a Milano ed inviò un parente prossimo del Papa, un Orsini, con proposte di pace per il Vaticano, proposte stranamente moderate. E che, malgrado il sinodo di Tours, gli scrupoli di Chaumont erano condivisi da molti. E pure, troppo vincendo e troppo estendendosi in Italia, il re cristianissimo rischiava di risvegliare la gelosia e la coscienza di altri principi cattolici. Già l’anno precedente, a Blois, ove si trovava in missione presso la corte di Francia, Machiavelli, non certo sospetto di tenerezza verso il papato, aveva fatto la maliziosa osservazione «che non c’era un pretesto più honesto da usare contro un principe che dichiarare di voler difendere contro di lui la Santa Chiesa e che il re, in questa guerra, potrebbe tirarsi addosso tutto il mondo».

Giulio II colse sollecitamente l’apertura francese, ma solo per guadagnare tempo, ricomporre la sua armata, confermare il patto con gli svizzeri e negoziare con tutti gli Stati ostili alla Francia, specialmente con la Spagna e l’Inghilterra.

* Per la prima parte v. Delta 35, p. 37 sgg.

I negoziati furono condotti con una velocità sorprendente per l’epoca. Al termine di sei settimane, verso la metà di agosto, gli articoli principali della Santa Lega erano già fissati ed attendevano soltanto la ratifica solenne.

Per il resto nulla di cambiato nella vita del Papa durante queste sei settimane critiche, angosciose. I suoi pasti sono sempre molto abbondanti, copiosamente innaffiati da un certo vino forte e spesso; va a caccia, prende fresco nelle ville dei dintorni. «E una cosa terribile como manza Sua Santità», scrive il 12 luglio 1511 un certo Grossino a Isabella Gonzaga marchesa di Mantova. (Grossino era domestico di suo figlio Federico, che viveva allora a Roma ed era alloggiato al Belvedere) (Ludovico Domenichi, Facetie, motti e burle, Venezia 1584). In una delle camere decorate per lui da Raffaello, il Papa si è fatto rappresentare da un lato mentre assiste alla messa in ginocchio, e dall’altro al ritorno dal Belvedere, portato dai palafrenieri. Questo secondo ritratto era molto più colorito del primo, e per questa diversità molti criticarono l’opera di Raffaello. Ma Marcantonio Colonna rispose che si sbagliavano tutti e che Raffaello «aveva servato bene il decoro essendo il papa sobrio alla messa e colorito al ritorno dal Belvedere, dopo aver bevuto in compagnia del signor Federico, Sua Santità era pieno di allegria ogni volta che abbatteva un grosso fagiano; lo mostrava allora a tutti, parlando e ridendo molto…» «Oggi 25 luglio il papa è andato alla vigna di messer Agostino Chigi (La Farnesina) e lì è rimasto tutto il giorno, vi ha dormito e pranzato. E un bel palazzotto ma non è ancora finito, molto ricco di ornamenti vari, soprattutto di marmi magnifici e di diversi colori. Il signor Federico ha mangiato con il papa ed ha recitato per lui una egloga latina Era già la seconda visita che il papa faceva in quel mese al fortunato proprietario del palazzotto e si pensa che queste visite non fossero del tutto disinteressate. A quell’epoca il papa ha avuto dal potente banchiere senese un prestito di quarantamila ducati, lasciandogli in pegno la celebre corona pontificia di Paolo II, IL REGNO, come la si chiamava per eccellenza. Ora è precisamente nell’intervallo fra queste due visite che Grossino scrive alla marchesa di Mantova, senza nulla sapere della transazione finanziaria: «Sua Santità prova gran piacere a contemplare i gioielli: ieri si è fatto portare da Castel Sant’Angelo i due REGNI, uno del valore di duecentomila ducati e l’altro di centomila. Credo che non vedrò mai più gioielli così belli, con tante perle e pietre preziose…

L’anno seguente, dicembre 1512, Giulio II, vittorioso e trionfante, esigerà la restituzione del suo REGNO, semplicemente incaricando il bargello d’impossessarsi del pegno e, in mancanza di ciò, della persona stessa che lo deteneva. Messer Agostino Chigi dovette constatare in quel giorno che i prestiti di Stato, anche se su pegno, non costituiscono il più sicuro degli investimenti.

Al suo rientro a Roma Giulio Il pensa spesso alle sue collezioni. Si occupa della sistemazione delle sue anticaglie nello splendido cortile costruito dal Bramante. «Il Papa, — dice una lettera di Grossino del 12 luglio — ha fatto mettere al Belvedere un Apollo che è giudicato bello come il Laocoonte». Più tardi fa trasportare «Il Tevere» (oggi al Louvre) e la « Cleopatra». Durante questo stesso mese di luglio posa per il suo ritratto nell’affresco dei «DECRETALI», il 16 agosto Grossino parla già incidentalmente della «camera dove Sua Santità è dipinto da Raffaello al naturale con la barba»; va a vedere i lavori di Michelangelo alla Sistina e ottiene dall’artista che con l’avvicinarsi della grande festa della Vergine la cappella sia temporaneamente liberata dalle impalcature e resa al culto.

Il 17 agosto, dopo una caccia a Ostia, il Papa viene colpito da febbre perniciosa. Lo si crede perduto. La notizia della sua morte si spande nella città, ed allora si verifica un fatto strano, fantastico. Gli eredi dei grandi nomi feudali — Colonna, Orsini, Cesarini, Savelli ecc. — salgono in Campidoglio ed invitano il popolo romano a riprendersi le sue antiche libertà. In una arringa appassionata e caratteristica dello spirito che animava questa ipocrita rivendicazione dei diritti del popolo, il giovane Pompeo Colonna, vescovo di Rieti, abate di Subiaco e di Grottaferrata, (è lo stesso Pompeo Colonna che più tardi, come cardinale, prelude con l’imboscata del 20 settembre 1526 al grande sacco di Roma) — rintraccia il vergognoso regime èotto il quale è caduta la gloriosa repubblica che un tempo ha dominato il mondo. Già i due conservatori di Roma, Altieri e Stefaneschi, propongono il ripristino della Repubblica, il riarmo del popolo e l’occupazione di Castel S. Angelo, quando improvvisamente arriva dal Vaticano la notizia che la supposta agonia del Papa non era che una sincope e che il rabbi (il medico ebreo di Sua Santità) dà ancora delle speranze. Subito la piazza si svuota, i nobili tribuni si disperdono in tutte le direzioni. Pompeo Colonna cerca rifugio a Subiaco, Orsini fugge in Francia.

Si era cercato di nascondere al Papa la folle giornata del Campidoglio, tuttavia ne venne a conoscenza; seppe anche che molti cardinali (Grossino ne conta sino a 15) facevano parte del complotto dei baroni. Eppure, questi baroni romani li aveva liberati dalla sanguinosa tirannia dei Borgia e più d’uno di questi Colonna e Orsini gli erano vicini per legami familiari. E che dire di quei membri del Sacro Collegio di cui alcuni prendevano apertamente parte al «conciliabolo» di Pisa e di cui altri ammutinavano la città contro il Sovrano Pontefice! Egli si vedeva tradito da coloro che più gli dovevano gratitudine e affetto. Il suo più prossimo parente, il duca di Urbino, lo aveva dovuto scomunicare e sottoporre a giudizio per un crimine spaventoso. Sentendosi prossimo alla fine lo aveva assolto e riammesso al suo capezzale, senza tuttavia cessare di diffidare di lui sino alla fine.

Dei volti che circondavano il suo letto di dolore uno solo non gli fu sospetto: quel giovane Federico, il cui nome è stato spesso pronunciato, ma del quale rimane ancora da spiegare la presenza al Belvedere. Francesco Gonzaga, marchese di Mantova e uno dei capi della Lega di Cambrai, era stato fatto prigioniero dai veneziani nella battaglia di Legnano nell’agosto 1509. Sua moglie, la celebre Isabella d’Este Gonzaga, dopo essersi rivolta a tutti i potenti della terra — all’imperatore, al re di Francia, fino al Gran Turco — finì per comprendere che solo Giulio II godeva sufficiente credito presso la Signoria di S. Marco per ottenere la liberazione del temuto capitano. L’ottenne infatti, nel luglio 1510. Ma Isabella aveva prima dovuto consentire che suo figlio Federico, di 10 anni, dimorasse presso il Papa come ostaggio, garante della futura condotta del marchese. Non c’è da indignarsi della mancanza di generosità del Papa! Il «cavalleresco» Massimiliano e Luigi XII Padre del Popolo avevano fatto alla povera madre la stessa richiesta impietosa, come traspare dalle sue desolate lettere. Questi uomini del Rinascimento prendevano le loro precauzioni.

Nell’estate del 1510 il piccolo Federico venne dunque a Roma con molti domestici (Grossino vi faceva parte); alloggiò al Belvedere presso il Papa, e nulla venne risparmiato onde ricevesse la più brillante educazione, secondo le idee del tempo. Educazione ben singolare, tuttavia, come risulta da una lettera di Stazio Gadio al marchese di Gonzaga (11 gennaio 15 13) in merito ad una cena presieduta dalla signora Albina, cortigiana romana, alla quale assisteva Federico, allora di appena dodici anni.

Il Della Rovere nutrì grande affetto per il fanciullo. Lo fece venire a Bologna per qualche mese, durante la campagna della Mirandola. Bibbiena e Molza furono i suoi precettori. A Roma lo conducevano alle loro caccie, nelle loro villeggiature, gli facevano recitare versi durante i pasti, giocavano con lui al tric-trac a volte fino alle quattro del mattino. Al Papa dispiaceva di non avere una nipote per fargliela sposare più tardi. «Sua Santità ha detto che vuole che Raffaello faccia il ritratto del signor Federico nella camera in cui è rappresentato in grandezza naturale con la barba» — scrive Grossino il 16 agosto, vigilia del giorno in cui il Papa fu colto dal suo pericoloso accesso di febbre. Giulio II non è mai stato un malato rassegnato e docile: lo fu meno che mai durante questa crisi del mese di agosto 1511, che l’aveva colpito a seguito di tante scosse. Si dimenava, bestemmiava, minacciava di scaraventare i medici e le medicine dalla finestra: «Ebrei marrani e miscredenti». Rifiutava ostinatamente ogni cibo, e si dibatteva con una violenza che era la disperazione di chi gli stava intorno. Solo il piccolo Federico riusciva a calmarlo, a farlo ragionare, a fargli ingerire un brodino, per amor suo e della Madonna di Loreto «Sunt lacrimae rerum». E il pensiero si ferma emozionato di fronte a questo pontefice terribile che, nella sua estrema disperazione, non si arrende che alle preghiere di un fanciullo di undici anni, suo prigioniero, suo ostaggio.

A Roma si dice ad alta voce che se il Papa la scampa lo deve al Signor Federico (Julian Klaczro, Roma e il Rinascimento).

Egli la scampa. Il 30 e il 31 agosto si faceva già musiëa nella sua stanza ed egli la gustava come non mai. Si ristabilì poco a poco ed allora molti cardinali incominciarono a tremare. Lo si deduce dall’estratto di una incredibile lettera inviata il 7 settembre 1511 alla marchesa di Mantova da Ludovico Canossa, vescovo di Tricarico: «La morte di Perottino (un piccolo cane che aveva regalato alla marchesa) mi ha causato un grande dolore: avevo tuttavia sperato di potermene consolare con la morte di un altro cane, molto meno utile al mondo». «Essi morivano man mano ch’egli ritornava in vita», scrive il protonotaro Lippomano.

Tuttavia, né allora né dopo il papa cercò gli autori della farsa capitolina né pensò di vendicarsi. Non pensa che alla sua grande impresa contro Luigi XII. E il 5 ottobre può finalmente celebrare una messa solenne a S, Maria del Popolo e annunciare la formazione della Santa Lega. La Lega si dichiarava contro il concilio di Pisa e si impegnava a restituire immediatamente alla Santa Sede «tutti i luoghi che le appartenevano». Il trattato aveva ricevuto la firma del re cattolico e della Repubblica di S. Marco, l’adesione del re d’Inghilterra era assicurata, e come ultimo tratto stucchevole, la facoltà di entrare nella nuova alleanza era espressamente riservata all’imperatore, l’impagabile Massimiliano, che in quel momento sognava di cingere la tiara! Giulio II conosceva bene il suo uomo: «E semplice come un bambino appena nato», aveva detto di lui già nel 1509, all’ambasciatore di Venezia.

La Francia invasa a sud dagli spagnoli, a nord dagli inglesi, e le sue forze militari in Italia schiacciate sotto l’attacco simultaneo degli svizzeri, dei veneziani, dei soldati del papa e di quelli del viceré (spagnolo) di Napoli: questo il seducente quadro che si presentava al Della Rovere in questo mese di ottobre 1511.

Gli inizi della Lega, tuttavia, furono ben lontani dal rispondere a queste speranze. Gli svizzeri tradirono, proprio come l’anno precedente, malgrado le promesse fatte e gli acconti ricevuti. Discesi dal San Gottardo a metà novembre in numero di ventimila, erano avanzati senza ostacoli fino alle porte di Milano. Ma, attratti dal denaro francese, col pretesto che mancavano i cannoni, del ritardo del soldo, delle condizioni disastrose delle strade e del rigore della stagione, riattraversarono le Alpi da Bellinzona (27 dicembre). I veneziani; dal canto loro, invece di raggiungere celermente gli svizzeri al loro arrivo in Lombardia, persero del tempo prezioso a disputare agli imperiali qualche piazza insignificante nel veronese. Enrico VIII d’Inghilterra ripudiava, è vero, il Concilio di Pisa, e dichiarava di avere in orrore quello che da vicino e da lontano assomigliava ad uno scisma (era lo stesso Enrico VIII che dopo…): voleva tuttavia ricevere un ultimo acconto della pensione annuale che la Francia gli doveva in virtù del trattato di Etaples. Infine, Ferdinando il Cattolico nulla fece sui Pirenei e il suo luogotenente a Napoli, Cardona, si rimise in marcia troppo tardi per andare ad assediare i Bentivoglio a Bologna in accordo con le truppe della Santa Sede. L’orizzonte per Giulio II si incupiva sempre più, ed i romani prevedevano una rivincita francese in primavera.

In effetti, Luigi XII aveva tenuto un atteggiamento di attesa durante i primi mesi della Santa Lega, e nel dicembre 1511 aveva preferito servirsi più dell’oro che del ferro per portare gli svizzeri a Bellinzona. Ma non intendeva per questo sottomettersi alle esigenze di una coalizione che si dimostrava così lenta ad agire. Continuò l’opera del «conciliabolo», fece stampare una medaglia con la scritta «Perdam Babylonis nomen! » e influì sull’opinione pubblica a mezzo di scrittori da lui prezzolati. Durante il carnevale del 1512, quando l’armata francese in Italia riprendeva l’offensiva contro i papali, «Les Enfants sans Souci» rallegrarono il pubblico parigino con una rappresentazione che aveva per titolo «L’uomo ostinato», e per autore Pierre Gringoire, panfletista ordinario di Sua Maestà Cristianissima. L’uomo ostinato era Giulio II, che compariva sulla scena affiancato da Simonia e Ipocrisia, mentre la Punizione teneva la folgore sospesa sulla sua testa. Sul teatro della guerra il ruolo di Punizione toccÒ ad un giovane ventitreenne, che si rivelò improvvisamente un eroe. Secondo la magnifica definizione del Guicciardini «fu grande capitano prima ancora di essere soldato». Gaston de Foix non attese la bella stagione per sbloccare Bologna (15 febbraio 1512), trionfare e morire nell’epica giornata di Ravenna (11 aprile). A due leghe dall’antica capitale di Teodorico e di Galla Placidia, un piccolo monumento indica il luogo di questa battaglia memorabile, la più sanguinosa che l’Italia avesse conosciuto dalla caduta dell’impero. Un terzo dell’armata vittoriosa e due terzi dell’armata vinta perirono nella domenica di Pasqua del 1512. Si dice che ad un certo momento di questa terribile mischia la formidabile artiglieria del duca di Ferrara avrebbe fatto carneficina senza distinzione di francesi e spagnoli, amici e nemici e che, ad una osservazione rivoltagli a questo riguardo il prezioso alleato di Luigi XII avrebbe risposto: «Lasciate fare, il nemico si trova sia da questa parte che dall’altra». Ariosto avrebbe visitato i luoghi il giorno successivo alla carneficina:

Io venni dove le campagne rosse eran del sangue barbaro e latino che fier a stella dianzi a furor mosse; e vidi un morto all’altro sì vicino che, senza premer lor, quasi il terreno a molte miglia non dava il cammino,

Il fiore della cavalleria francese fu falcidiato. Il re aveva vinto ma la nobiltà francese aveva perso. Dalla parte della Santa Lega quasi tutti i capitani della nobiltà furono fatti prigionieri: Fabrizio Colonna, Pedro Navarro, Juan Cardona, Pignatelli, Bitonto ed il marchese di Pescara, lo sposo così tenacemente amato (e mediocremente simpatico) da Vittoria Colonna, e futuro vincitore di Francesco I a Pavia. Fra i prigionieri si trovava anche il nuovo Legato per la Romagna (succeduto ad Alidosi) e il cardinale Giovanni De Medici. Entro un anno sarà Leone X. Ha assistito all’azione in groppa ad un cavallo bianco, in abito sacerdotale. E su questo stesso cavallo che vorrà fare il suo famoso giro di possesso nel 1513. E stato dipinto da Raffaello nell’affresco di Attila.

A Roma il terrore fu indicibile ed i cardinali si recarono in gruppo dal pontefice per implorarlo in ginocchio di accettare le condizioni della Francia. «Sua Santità ha fatto molto per l’esaltazione della Chiesa e la libertà d’Italia, e la sua gloria sarà imperitura. Ma in questa impresa la volontà divina gli è stata contraria e si è manifestata con dei segni che non si possono misconoscere. Perseverare più a lungo contro la sua volontà sarebbe portare la chiesa alla totale rovina…

I membri del Sacro Collegio, prosegue il Guicciardini, insisterono anche sui gravi pericoli all’interno, sulla crescente turbolerrza dei baroni ed il malumore delle folle.

Da metà marzo, in effetti, il papa aveva ritenuto prudente andare ad abitare a Castel S. Angelo. Dovette promettere di iniziare i negoziati con il re cristianissimo: ma prevenne subito gli inviati di Spagna e della Repubblica di S. Marco che egli non cercava che a guadagnare tempo e che restava indissolubilmente attaccato alla Lega. Eppure, poche settimane dopo la grande contestazione dei cardinali, Luigi XII non possedeva più un solo villaggio nella penisola e Giulio II prendeva il titolo di liberatore d’Italia. La trattativa dell’«Uomo Ostinato», così mal riuscita nell’autunno 1511, fece meraviglie nella primavera del 1512. Ventimila svizzeri discesero nuovamente dalle loro montagne, ma nel veronese questa volta, lontani dal denaro tentatore dei francesi e nel mezzo dei veneziani che avevano fretta di lanciarsi contro il nemico (maggio 1512). Per non essere privato della sua base al nord l’armata di Gaston de Foix, comandata ora da La Palice, dovette evacuare in tutta fretta la Romagna e riguadagnare la Lombardia. Ben presto abbandonava anche questa provincia per correre, sperduta, decimata, in difesa del suolo francese invaso nella Navarra dagli spagnofi, e in Normandia dagli inglesi.

L’annientamento così improvviso e totale della potenza francese in Italia, all’indomani della straordinaria vittoria a Ravenna aveva del prodigioso. La cronaca personale del maestro delle cerimonie alla corte vaticana è una testimonianza preziosa, più probante di qualsiasi cronaca o panegirico del tempo. Questo scrivano del protocollo e dell’inventario cambia improvvisamente stile quando inizia il capitolo «De Gallis expulsis». Si esalta, esulta, deborda; lancia grida di gioia selvaggia ad ogni rovescio di questi Galli «barbari, profanatori del tempio, vero flagello della cristianità». Sotto i colpi di un tale disastro la Francia perde tutti i suoi partigiani nella penisola: Bologna caccia ancora una volta i Bentivoglio; Milano acclama nuovamente il nome degli Sforza, già così aborrito, Genova quello dei Fregoso. «E la natura di questo popolo d’Italia di così compiacere ai più forti» aveva detto Commynes, il grande conoscitore d’uomini e di nazioni, morto l’anno precedente. Anche il duca di Ferrara non elude questa regola: munito di un salvacondotto si reca il 23 giugno a chiedere l’assoluzione a Roma. La presenza nella città eterna dello scomunicato nel 1510 non mancò di produrre viva impressione, Si sapeva che Alfonso d’Este era uno dei capitani più coraggiosi dell’epoca. Si giungeva persino ad attribuirgli la gloria della giornata di Ravenna, ma si sapeva anche che nessuno più di lui aveva fatto tanto per attirarsi l’odio del Papa. Era il genero di Alessandro VI, il cliente di Luigi XII, e nel corso di due anni aveva avuto una larga parte in tutte le sconfitte ed umiliazioni del Papa. Si raccontava che aveva fatto fondere la statua di Giulio II a Bologna, opera di Michelangelo, trasformandola in un pezzo di artiglieria. L’aveva battezzata Giulia e collocata nel suo castello a Ferrara. Così i romani si ripromettevano uno spettacolo straordinario il giorno dell’assoluzione del duca: avrebbe ricevuto le vergate alla porta della basilica, in ginocchio, la corda al collo e in camicia da penitente, Ma la folla, che sin dal mattino aveva gremito l’immensa piazza San Pietro venne crudelmente delusa: la cerimonia avvenne all’interno del Vaticano, nella forma meno crudele possibile.

La questione politica era ben più difficile poiché Giulio II manteneva sempre il diritto della Santa Sede sui territori ferraresi. «Ho dato al Duca un salvacondotto per i suoi Stati» dice all’inviato veneziano Foscari. Fu delegata una commissione di sei cardinali per trattare questo punto delicato con Alfonso d’Este. Nell’attesa costui riempiva il suo tempo esaminando le bellezze della città, fra cui «le camere di Papa Alessandro che sono tutte molto belle », e che dovevano avere un interesse particolare per il marito di Lucrezia Borgia. «Andò un giorno, con il permesso del Papa», (è sempre Grossino che scrive) «a visitare la Cappella Sistina e il Duca si intrattenne a lungo con Michelangelo a guardare queste figure, non potendo saziare i suoi oc-

Al termine di quindici giorni improvvisamente si impaurì e fuggì da Roma, protetto dai Colonna. Sosteneva che il Papa minacciava la sua libertà, ciò che Giulio II ha sempre negato. Ma dopo un simile evento, reso più grave dall’intervento dei Colonna, il pontefice non ebbe più il minimo riguardo verso l’uomo di cui aveva imparato a conoscere il cuore atroce, implacabile. Non si sa cosa esattamente abbia fatto il fuggiasco durante i tre mesi che seguirono la, sua evasione, né per quale via sia rientrato nel suo ducato. Una lettera del]: Ariosto, suo compagno di viaggio, ci dice solamente che il 1 0 di ottobre era nascosto da qualche parte nei dintorni di Firenze.

Il cantore delle dame, dei cavalieri, delle          e degli amori ha decisamente avuto sfortuna con il grande papa ligure. Aveva compiuto presso di lui diverse missioni: nel 1509-1510, nell’interesse del duca Alfonso e di suo fratello, il cardinale Ippolito, ma né le persone né le cause da lui perorate erano di tale natura da guadagnargli il favore del papa: gli venne addirittura intimato un giorno di lasciare immediatamente la città, sotto pena di essere gettato nel Tevere. Ritornato due anni più tardi sui bordi inospitali di questo fiume con il suo principe invocante l’assoluzione, dovette seguirlo nella sua precipitosa fuga di cui parla in una lettera del 1 0 ottobre 1512 diretta al principe Luigi Gonzaga: «Sono uscito da cespugli e tane di animali, ed eccomi in un ambiente umano. Dei pericoli corsi non posso ancora parlare. Non mi ha ancora lasciato la paura, essendo ancora inseguito e braccato da segugi dai quali Dio preservi! Ho trascorso la notte in un rifugio vicino a Firenze col nobile mascherato, l’orecchio in ascolto e il cuore in tumulto». Il duca aveva ancora il suo travestimento al suo arrivo a Ferrara (14 ottobre). Seppe che le truppe della Santa Sede si erano nel frattempo impadronite della maggior parte dei suoi possessi. Non gli restava che la capitale con Comacchio e Argenta.

Più fortunato del duca di Ferrara l’imperatore Massimiliano, alleato di Luigi XII, era facilmente riuscito a riappacificarsi con Giulio II. Dal 17 maggio faceva già virtualmente parte della Santa Lega ed era avversario più o meno dichiarato del re cristianissimo.

Il Papa ebbe per lui tutte le indulgenze. Non esitò ad accontentarlo a spese dei suoi amici veneziani e ad aggiudicargli diversi territori della terra ferma. Egli sapeva quale fascino esercitasse il nome dell’imperatore sugli spiriti, come questo nome fosse soprattutto indispensabile per la riuscita del suo Concilio Lateranense! Poiché il Papa aveva fedelmente mantenuto la promessa fatta al mondo cristiano l’anno precedente e la battaglia di Ravenna non aveva ritardato che di quindici giorni la solenne apertura della grande assemblea ecumenica, promessa con la bolla Sacrosanctae per la primavera del 1512. Riunita tuttavia in un clima di tormenta politica generale, senza la partecipazione della Francia e dell’Inghilterra, l’augusta assemblea del Laterano non era composta che di prelati italiani e difficilmente poteva pretendere di rappresentare la chiesa universale. La situazione cambiò radicalmente quando l’imperatore Massimiliano dichiarò di voler accedere alla Santa Lega. Quello stesso giorno — 17 maggio — il Concilio, che era soltanto alla seconda seduta, venne prorogato fino al mese di novembre, onde dare il tempo ai nuovi membri di arrivare.

Con l’avvicinarsi dell’autunno il sinodo di Giulio II era già riconosciuto da tutti i paesi cattolici ad eccezione della Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia, Polonia, Ungheria, Norvegia, Danimarca ecc. avevano successivamente fatto atto di adesione e di obbedienza. Matthias Lang, vescovo di Gurk, il 4 novembre venne a compiere lo stesso atto per conto della Germania e dell’Imperatore Massimiliano. Il vescovo di Gurk, il Gurcense come lo si chiamava in Italia, fu la grande curiosità di Roma in questo mese di Novembre, come lo era stato nel mese di luglio il duca Alfonso d’Este. Ministro e principale negoziatore dell’Imperatore Massimiliano per gli affari in Italia, Matthias Lang si era fatto conoscere da questa parte delle Alpi per la sua alterigia ed insolenza. L’anno precedente, a Bologna, aveva dichiarato essere al disotto della sua dignità incontrarsi con una commissione di cardinali: egli, rappresentante del sovrano più augusto del mondo, non poteva che trattare con il vicario di Gesù Cristo in persona, davanti al quale intendeva stare seduto e con il capo coperto. Veniva ora a Roma per fare, a nome dell’Imperatore, onorevole ammenda per le molte bravate trascorse. Giulio II trovò stucchevole colmare l’ambasciatore, così infatuato della sua importanza, di onori «principeschi». Lo ricevette assiso sul trono in pieno concistoro; lo creò cardinale; gli permise la strana fantasia di indossare il costume di cavaliere antico durante le solennità più importanti, con grande costernazione del maestro delle cerimonie e di molti dignitari della Chiesa.

Molti pensavano che il Papa andasse troppo oltre con queste manifestazioni di benevolenza verso «il barbaro, figlio di un borghese di Amburgo, ma non si tardò a comprenderne la ragione. Era il 3 dicembre, giorno in cui il Concilio riprendeva nella basilica di S. Giovanni i lavori interrotti nel mese di maggio. Il Papa, i cardinali, i vescovi, i generali degli ordini ed i rappresentanti dei potenti erano tutti presenti. Apparve Fedra Inghirami e diede lettura di una lettera secondo la quale l’imperatore dichiarava la sua completa adesione al Concilio Laterano e la sua condanna formale dei «conciliaboli» sostenuti dalla Francia a Tours ed a Pisa. Il buon Massimiliano recitava il suo «mea Culpa». L’effetto fu immenso, trascinante. Tutta l’assemblea intonò il Te Deum. Era in effetti la vittoria più straordinaria che il papato avesse ottenuto dal tempo di Innocenzo III. Le stanze del Vaticano ci presentano tre ritratti del papa ligure, tutti eseguiti negli ultimi mesi del suo regno.

Nell’affresco dei «Decretali» Raffaello ha dipinto Giulio II subito dopo il suo ritorno a Roma nel luglio 1511, e l’espressione triste ed abbattuta dell’«uomo col mantello» ci dice che siamo all’indomani della catastrofe di Bologna e dell’oltraggiosa sfida di Pisa. La «Messa di Bolsena» ci mostra il capo della Santa Lega ancora grave e pensieroso, ma già fuori dalle avversità e fiducioso nel suo diritto, che assiste in ginocchio al grande miracolo. E non è a caso che l’artista ha collocato dietro il pontefice le guardie svizzere, che sono state i veri salvatori della Santa Sede dopo la battaglia di Ravenna. Infine, l’affresco di «Eliodoro» ci mostra un Rovere nel pieno della forza e della potenza, lo sguardo dominatore ed il gesto imperioso. Lo si direbbe portato in trionfo sulla sua sedia gestatoria per il Te Deum alla Basilica di S. Giovanni. Ha schiacciato lo scisma di Pisa e fatto riconoscere il suo Concilio; ha liberato l’Italia e ricacciato i «barbari» al di là delle Alpi, ha ricuperato il patrimonio di S. Pietro; ha punito dapprima e poi salvato in seguito la Repubblica di S. Marco, ha ristabilito i Medici a Firenze e gli Sforza a Milano. E il signore e padrone del «gioco di questo mondo».

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