quanto detto in questo Tempio nelle tomate
precedenti ha molto colpito i miei pensieri invogliandomi ad approfondire
l’argomento risalendo a ritroso il cammino della Massoneria.
Quando voi, Maestro Venerabile, in apertura dei
lavori, ritualmente dite: “Fratelli 1 0 e 20 Sorvegliante,
giacché in graia dell’ora e dell’età è ormai tempo di aprire i nostri
Architettonici Lavori, avvertite i Fratelli delle vostre Colonne che, nel corso
dei medesimi, non è più permesso ad alcuno di passare dell’una all’altra Colonna
e di intrattenersi i questioni di politica e di religione …”, credo si
presti giustamente all libera massonica interpretazione, e dico libera poiché
essendo la nostra Famiglia una unione di liberi pensatori sarebbe contrario al
logico se ognuno di noi non potesse manifestare in questa Sede le proprie idee,
anche se nei modi voluti dal Rituale.
Risalendo negli anni troviamo in Inghilterra, ai
tempi della fondazione della Gran Loggia, segni storici che fanno delle Logge
Massoniche i primi punti di incontro di uomini di fedi diverse. Uomini uniti
dal vincolo della Fratellanza nella medesima disciplina; poiché, quali che
fossero le opinioni politiche e religiose, i Liberi Muratori dovevano
considerarsi Fratelli in seno alle Logge, e se, scontrandosi nel mondo profano,
non potevano applicare appieno i principi del mutuo soccorso, erano tenuti
almeno a non nuocersi sul piano personale.
primi Fratelli che si
incontrarono, dopo la trasformazione della Massoneria da operativa a
speculativa, praticando il principio della uguaglianza mettevano in atto un
nuovo importantissimo fatto politico, poiché nelle Logge convergevano non solo
cattolici e protestanti, deisti ed ateisti, ma anche e soprattutto esponenti
della nobiltà, della borghesia e del clero; per la prima volta, forse, nella
storia dell’uomo un borghese si sentiva chiamare Fratello da un nobile e, se
consideriamo la cosa alla luce del XVIII secolo, possiamo dire che un grande
passo verso la fratellanza universale veniva attuato dalla Massoneria con
questo fatto politico.
Puntando sulla caratterizzazione liberale
dell’Istituzione, che si vuole aperta ad entrambe i partiti politici ed ad
entrambe le fedi religiose, in nome dello spirito di tolleranza, la Loggia si
presenta quindi come terreno di incontro franco ed aperto tra i protestanti
hannoveriani ed i cattolici stuardisti, ma anche come facile terreno di
spionaggio.
È possibile, pertanto, pensare che questo lato
negativo della liberalità abbia suggerito alla saggezza dei Fratelli che ci
hanno preceduti la frase che voi, Maestro Venerabile, pronunciate, ciò per
evitare che le logge .si trasformassero in luoghi di soli incontri o scontri
politici e religiosi che tendessero al proselitismo in nome della fratellanza,
ma mi è difficile pensare e credere che la Massoneria voglia ora, rinnegando le
origini speculative, non permetterci di raffrontare le nostre idee, anche
s
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politiche e religiose, in questo
luogo che noi tutti consideriamo sacro, anche perché l’importanza sempre
attuale di questi argomenti potrebbe trovare, tra la sacralità delle Colonne,
una attenzione più distaccata dalle nostre stesse convinzioni profane.
Resta, per contro, da considerare che i lavori a
cui partecipo sono svolti in primo Grado, che tra le Colonne siedono, oltre a
me, parecchi altri Apprendisti non ancora, forse, sufficientemente spogli dei
metalli e che tale Grado richiede, di norma, un solo anno di attesa per dedurre
che tali argomenti possono trovare la loro giusta collocazione ne Lavori dei
Gradi superiori.
Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni
DiYÌità e Grado,
vi chiedo perdono per la mia, diremo così, petulanza
nell’insistere a parlare, ma sento un forte impulso a comunicarvi quanto trovo
sommamente importante, ai fini di quella Ricerca che siamo massonicamente
tenuti a continuare.
In risposta a molte domande che sono emerse nelle tomate
precedenti, mi trovo spinto ad esporvi le risposte che sono state date da
Uomini che le hanno trovate in Spazi trascendenti, che sono accessibili a tutti
coloro che, con certezza d’intento (quello che si suole dire anche purezza di
cuore), con coraggio e senza alcun preconcetto, desiderano arrivarci.
Vi prego di non rimanere bloccati entro uno sciovinismo
occidentalistico, come quello che impedisce a tante persone di accettare
qualcosa che non proviene dalla cosiddetta cultura europea, comprendendo in
essa quel prolungamento dell ‘Europa che è il Nord America. Anche con un esame
superficiale, potrernmo trovare nelle dottrine orientali l’anticipazione di
tutte le scoperte delle scienze e delle filosofie nostrane; vale quindi la pena
di vederne qualcosa.
Vi riferirò le
parole di Ramana Maharsci, il grande illuminato indiano passato all ‘Oriente
Eterno nel 1950, dopo settant’anni di vita spesa nella contemplazione e nello
spargere aiuto ed insegnamento alle innumerevoli persone che accorsero a Lui
per trovare consolazione e risposta ai loro dubbi; e, fra loro, si contano
molti ed anche illustri uomini dell’Occidente. Lo scrittore Paul Bruton, che lo
visitò da scettico, con tutto un questionario predisposto in anticipo, rimase
giorni e giorni davanti a Lui in silenzio e sentì che, nel silenzio, tutte le
sue domande avevano avuto risposta.
Nel dialogo che vi riporto, un Indiano erudito, studioso di
filosofia, laureato in un’Università Indiana, presenta a Ramana Maharsci
quattordici domande alle quali rispose, per iscritto, su di una lavagna.
D. Swami (maestro), chi sono io? E come
posso raggiungere la salvazione?
R. Con l’incessante ricerca interiore
“Chi sono io?”, tu conoscerai te stesso e con ciò sarai salvato.
D. Chi sono io?
R. Il vero Sé non è il corpo, né
alcuno dei cinque sensi, né gli oggetti dei sensi, né gli organi dell’azione,
né la forza vitale, né la mente e neppure quello stato di sonno profondo nel
quale non c’è coscienza di tutti questi.
D. Ma se io non sono nessuna di queste
cose, che sono?
R. Dopo aver scartato ognuna di esse,
ed aver visto che “io non sono quella”, ciò che rimane è I ‘IO e
questo IO non è che consapevolezza.
D. Quale è la natura di codesta
Consapevolezza?
R. Essa è
SAT-CIT-ANANDA, Essenza, Consapevolezza e Beatitudine, nella quale non resta la
benché minima traccia del concetto dell’ego. E anche chiamata MAUNA (Silenzio)
oppure ATMA (il Sé). Essa è la sola cosa che È (v. la distinzione tra essere ed
esistere). Se la triade del mondo, ego e Dio si considera formata da tre entità
separate, esse non sono che mere illusioni simili all’apparire dei baleni
argentei nella madreperla. Dio, l’ego ed il mondo sono in realtà forme del
Divino (Scivasvarupa), o forme del Sé (Atmasvarupa).
D. Come ci è
possibile rendersi conto della Realtà?
R. Quando le
cose saranno sparite, appare la vera natura di colui che le osserva, del
soggetto della consapevolezza.
D. Non è
possibile rendersi conto di Quello mentre vediamo ancora gli oggetti esterni?
R. No, perché
colui che vede e ciò che è visto sono come la fune della favola, che ha
l’apparenza di un serpente. Finché non ti liberi dell’apparenza del serpente
non potrai accorgerti che ciò che vedi è solo una corda
D. E quando svaniscono
gli oggetti estemi?
R. Se la
mente, che è causa di tutti i pensieri e di tutte le attività, si arresta e
svanisce, svaniscono anche tutti gli oggetti estemi.
D. Quale è la natura
della mente?
R. Solo per
mezzo dell’indagine “chi sono io?”. Per quanto questa sia ancora
un’operazione mentale, essa distrugge tutte le operazioni mentali, compresa se
stessa (che non è che un coacervo di operazioni di pensiero), così come il
tizzone usato a scuotere la legna della pira funebre, che si riduce anch’esso
in cenere dopo che legna e cadavere sono stati abbruciati. Allora soltanto
giunge la consapevolezza del Sé. Il concetto dell’ego è distrutto, anche se
sussistono la respirazione e gli altri segni di vita. L’ego e la forza vitale
hanno la stessa origine. Qualunque cosa tu faccia, senza ego-ismo la devi fare,
ossia senza il senso di io sono colui che lofà. Quando un uomo raggiunge questo
stato, anche la sua donna gli appare come la Madre Universale. La vera Fede è
l’abbandono dell’ego e del Sé.
D. Non c ‘è altro mezzo
perfare sparire la mente?
R. Non c’è
altro mezzo adatto salvo la Ricerca del Sé, se la mente si acquieta con altri
mezzi, essa rimane in quiete per poco, e poi toma ad apparire e riprendere le
sue attività di prima.
D. Ma quando
tutti gli istinti e le tendenze congenite, come quello della conservazione,
possono essere superati in noi?
Più ti immergerai nel Sé, più tutte codeste
tendenze appassiscono e finiscono con cadere come foglie secche.
D. È davvero
possibile sradicare tutte queste tendenze che si sono radicate in noi
attraverso tante rinascite?
R. Non lasciare
mai nella tua mente spazio per simili dubbi, ma immergiti nel Sé con animo
risoluto. Se la mente è costantemente. diretta verso il Sé per mezzo di questa
indagine, finirà col dissolversi e trasformarsi nel Sé. Quando tu senti qualche
dubbio, non cercare di delucidarlo, ma cerca di sapere chi è quello a cui viene
il dubbio.
D. Quanto tempo devo andare avanti con
questa indagine?
R. Finché nella tua mente c’è il
minimo impulso a creare dei pensieri. Finché il nemico occupa la fortezza
continuerà a tentare delle sortite; se tu ammazzi i nemici via via che si
affacciano alla porta, la fortezza finirà per cadere nelle tue mani. Allo
stesso modo, ogni volta che un pensiero alza la testa, schiaccialo per mezzo di
questa indagine. Lo schiacciare ogni pensiero alla fonte è detto spassionatezza
o distacco (in lingua indiana, Vayraghia). Cosi la Ricerca del Sole (Viciara)
continua ad essere necessaria fintantoché non è stata presa coscienza del Sé.
Ciò che si richiede è un continuo, ininterrotto ricordarsi del Sé.
D. Ma questo mondo, e ciò che vi
succede non è il risultato della volontà di Dio? E se è così, perché Iddio lo
vuole?
R. Dio non ha dei propositi. Egli non
è legato da nessuna azione e le attività del mondo non lo tangono. Prendi per
analogia il Sole; esso sorge senza che lo voglia, né si sforzi, né con alcun
fine; eppure, al suo sorgere, il mondo si mette in movimento, la lente colpita
dai suoi raggi dà fuoco, si schiude il bocciolo del fiore, l’acqua evapora,
ogni essere vivente entra in attività, la continua, finché finisce di agire. Ma
il sole non è toccato da tutte queste attività ed agisce solo secondo la
propria natura, secondo certe leggi, senza alcun proposito e non è che un
testimone. Così è di Dio. Oppure prendi in considerazione lo spazio, l’etere.
In lui c’è la terra, l’acqua, il fuoco e l’aria tutta, e tutti vi svolgono le
loro attività; eppure esse non affettato l’etere e lo spazio. Lo stesso è di Dio:
egli non ha desideri, né propositi negli atti della sua creazione, della
conservazione, della distruzione e del riassorbimento, ed anche della
salvazione, a tutti i quali è sottomessa ogni cosa esistente. Poiché gli esseri
raccolgono le conseguenze delle loro azioni secondo le Sue Leggi, la
responsabilità è di loro e non di Dio. Dio non è legato a nessuna azione.
Col dire che la vera natura di colui che osserva appare
solo quando le cose viste sembrano sparire, Ramana Maharsci non intende
suggerire l’inconsapevolezza del mondo fisico, ma raggiungere quello stato nel
quale il mondo appare un riflesso del Sé e si richiama alla parabola che diede
ai suoi tempi (circa il 600) quel grande Saggio che fu Sri Shankara Ciaria.
Egli disse che le cose del mondo ci appaiono cosi come ad uno che vede una
corda nella penombra, la prende per un serpente e si spaventa, ma, crescendo la
luce, l’illusione svanisce ed il temuto serpente si vede che è una fune sul
suolo. La Realtà dell’Essere è la fune, l’illusione del serpente che lo ha
spaventato è il mondo che ci pare oggettivo.
Fratelli vi chiedo perdono se questa esposizione è
gettata avanti con una certa, diciamo cosi, brutalità. Ho dato per sottintesa
una cosa fondamentale che cercherò ora di esporre molto succintamente, in
alcuni punti. Anzitutto, che cos’è la Realtà? Secondo il Vedanta, è realtà solo
ciò che esiste sempre, che è immutabile e non ha mai né aumento, né
diminuzione. Tutta le cose del mondo sensibile – vita, salute, possessi,
affetti, intelligenza, ecc. – non hanno quindi realtà. Il discorso parrebbe
assurdo, perché se ricevo una martellata su di un dito, o domani mi scade una
cambiale, vivaddio, mi pare ben reale! L’unico argomento che si può opporre a
ciò sarebbe dato dalla conoscenza diretta di codesta conclamata Realtà. Ma ecco
che moltissimi ci insegnano come cercarla e come trovarla; ed una volta
trovata, ecco che si ha Essenza, Conoscenza, Beatitudine. Non vogliamo credere
loro? Allora, se non siamo solo dei Bastian contrari, armiamoci di buona volontà
e di molto scetticismo, andiamo a vedere se quei Famosi Saggi non ci hanno
contato della balle . . ed è molto probabile che, se ce la mettiamo tutta, la
troviamo anche noi, Quella Realtà; e, en noi ci troviamo risolti anche un sacco
di problemi projàni.
Una seconda considerazione, che ha fatto dubbiar ben
saggi, è questa: se ci facciamo in po’ di introspezione, dobbiamo riconoscere
che, dietro l’occhio che riceve uno stimolo luminoso, c’è qualcosa che prende
atto di questo stimolo e lo trasforma in un messaggio ad un certo computer, che
lo trasmette ad un altro, il quale registra certe emozioni, ma dietro a questo
tipo che si emoziona ce n’è un altro che osserva colui che si è emozionato, e
magari lo controlla; poi ce n’è ancora uno che, tutto soddisfatto, osserva:
“toh, come mi sono controllato bene!” . come mi sono controllato, c’è
un me stesso, ecc. ecc.. Dall’uno all’altro anello di questa catena, arriverò
ad un me stesso che è l’osservatore immobile di tutto ciò che avviene nel suo
campo d’osservazione. Chi ci dice che Esso non stia anche a vedere, inalterato,
l’ episodio dell ‘amore e quello della morte?
Fratelli carissimi, vi ringrazio della vostra indulgente
attenzione e vi abbraccio in nome del G:. A:. D:. U
M. Bnc
Maestro Venerabile, Fratelli tutti
di ogni Dignità e Grado,
uno dei temi proposti per queste tornate è
l’Operatività Massonica. Lo scopo di questa modestissima tavola è quello di
tentare un approccio al tema secondo varie direzioni, in modo assai schematico,
anche perché l’approfondimento di alcune sarebbe un’utilità puramente
informativa e culturale e, quindi, assai poco operativa.
Una prima direzione d’approccio vorrebbe essere di
carattere storico, cioè quali sono le origini di questo vocabolo operativo,
operatività. Sembra che, alle origini della Massoneria moderna, sia cominciato
l’inserimento in Logge veramente di mestiere di persone che del mestiere non
erano: di qui, la denominaz.ione di Fratelli operativi per coloro che il
mestiere esercitavano fisicamente e di speculativi per coloro che sono stati
accettati nelle Logge dei Liberi Muratori.
Non credo sia corretto continuare con questa
interpretazione del vocabolo ancora oggi; grossolanamente parlando, oggi le
Logge non sono più operative nel mestiere muratorio e sarebbe gratuito
trasporre il significato dell’operare in senso fisicamente muratorio in quello
di agire comunque nel mondo profano.
Occorre quindi tentare un altro approccio, anche
cercando di vedere quale sia stato il significato di operare, di opera nella
recente tradizione occultistica (chiedo perdono per l’aggettivo, ma credo che
esso serva a chiarire il tipo speciale di codesta tradizione, rispetto
all’aggettivo spirituale, forse più giusto, ma troppo generale).
Se non vado errato, nella tradizione alchemica, la
grande opera era la ricerca della pietra filosofale, quella occulta lapis che,
come dice l’acrostico V.I.T.RI.O.L. scritto nel Gabinetto delle Riflessioni,
sta nelle viscere della Terra – le nostre viscere – e tramuta tutto in oro:
cioè fa percepire l’Essenza, lo Spirito Universale, Brahman in tutte le cose,
sostegno del mondo manifesto e immanifesto.
Nella tradizione Kabbalistica – come insegna il
Fratello Robert Ambelain nel suo “La Kabbale Pratique” – la Grande
Operation ci può portare a vedere materializzare davanti a noi l’Angelo, il Messaggero
dell’Essenza; una manifestazione più sottile dell ‘Essere.
Ecco comparire quindi un significato di operatività
assai diverso da quello di azione nel mondo profano; l’azione nel mondo, anche
se guidata dai principi massonici della tolleranza, della libertà, della
fraternità e dell’eguaglianza, da quelli evangelico-massonici del non fare agli
altri ciò che non vorresti fosse fatto a te e di fare agli altri tutto il bene
che vorresti fosse fatto a te, è un’azione sì giusta e necessaria, ma non sufficiente
a compiere la Grande Opera com’è indicata dalla Tradizione.
Ma l’insegnamento contiene l.m altro elemento, sul
quale non mi stanco mai di riflettere e di insistere, ed è la Ricerca della
Luce.
Temo assai che a questa UNICA finalità, che è ben
chiaramente ripetuta nel Rituale d’lniziazione al Primo Grado, noi tutti
poniamo molta poca attenzione e che, sopraffatti dalle cure della vita profana
ed anche da quelle della vita massonica spicciola, ce ne dimentichiamo
volentieri. Ce ne dimentichiamo volentieri perché l’impegno della Ricerca della
Luce è solo un grosso pesante impegno, ma anche perché in noi, e fuori di noi,
agiscono forze che si oppongono a questa ricerca.
Per farci l’idea della magnitudine di queste forze
può bastare una considerazione. La Ricerca della Luce, per giungere a buon
fine, richiede il dissolvimento dell’ego. Si badi, dico dell’EGO e non dell’IO.
L’ego è formato dalla mente che ci raffigura il mondo estemo contrapposto a noi
e che ci fa identificare noi stessi con il nostro corpo fisico, di fronte al
mondo esterno. Da ciò nascono i conflitti, i pensieri, gli attaccamenti a ciò
che l’ego ci fa credere di essere, alla mente, la quale non è altro che il
coacervo dei pensieri, dei ricordi, dei rimpianti, dei desideri, dei rancori ma
non è altro che quello. Tutto ciò però forma una pesante nube che vela la Luce.
La Ricerca impone che tale nube sia dissolta; è questa la sola condizione
affinché I ‘IO prenda coscienza di essere uno con I ‘IO Universale, di essere
una cosa sola con Quella Luce.
Ma quella nube è l’ego, è la mente – la mente che
ci siano costruiti per servirci come mezzo per muoverci nel mondo estemo e che
ci prende la mano ed assume la dittatura nel nostro mondo interiore La
dissoluzione dell’ego e della mente ci lascia come punti di pura
consapevolezza, di puro intelletto, come gocce nell’oceano di Quella Luce,
quell ‘oceano nel quale i nostri ego sono solo onde, che hanno breve esistenza,
e solo perché formate dall ‘oceano stesso.
Nelle sue ignoranze, l’ego mentale vede la propria
dissoluzione come la propria fine e la presenta all’IO come se fosse la morte
totale; ed impone la cosiddetta lotta per la vita e crea l’istinto di
conservazione. Le tentazioni dell ‘asceta, ed in generale tutte le difficoltà
che si presentano contro l’operazione della Ricerca della Luce, in mille forme,
grossolane e sottili, sono create dall’ego-mente per impedire la sua
dissoluzione. Dissoluzione comunque certa, perché la morte fisica verrà per
tutti ed il corpo fisico, primaria identificazione dell’ego, verrà fatalmente
meno.
Con questo approccio, appare che l’Operaiività
reale e legittima sia esclusivamente quella della Ricerca della Luce, secondo
la lettera e lo spirito del Rituale; e tutte le altre operazioni giornaliere
acquistano chiarezza di fini e di modi solo al lume di quella Luce esterna e
perfetta. Come potremo operare con giustezza se non siamo illuminati da Essa?
Con le parole precedenti è già stato delineato il
terzo approccio, che vorrebbe riguardare la modalità, i metodi della Ricerca della
Luce.
Mi è stato spesso osservato un certo eccesso di
attaccamento al pensiero Orientale. Confesso che l’osservazione è fondata e
credo di essere in debito di una spiegazione. Ho potuto constatare che
l’insegnamento Orientale, e Indiano in particolare, sono, secondo il
significato Occidentale del femine, scientifici.
Se non erro, nella cultura occidentale si dice scientifica
un’afferma.zione quando il fatto affermato e stato osservato è ripetibile.
Cioè, ad esempio, io affermo che l’acqua, H20, si compone di
idrogeno ed ossigeno, ma spiego anche con quali metodi si può ripetere la mia
esperienza. Se poi il metodo per la ripetizione dell’esperimento è difficile e
costoso, non per questo la mia affermazione cessa di essere valida; se invece
nego la veridicità dell’esperimento, mi rende colpevole di gratuità nella mia
negazione, cioè dogmatismo negativo. Quindi, o ripeto per conto mio
l’esperimento, oppure accetto l’autorità di colui che me lo ha riferito.
La sola differenza
tra la ricerca occidentale e quelle indiane sta nel campo della ricerca.
L’Occidente si è rivolto al mondo esteriore, ripetendo la triade soggetto
osservazione – oggetto osservato; invece il cercatore orientale si è rivolto al
mondo interiore (come dicono di fare, da noi, la psicologia ed i suoi derivati)
ed alla culminazione della ricerca ha visto che la triade soggetto –
osservazione – oggetto osservato si è fusa in una sola unità, nella quale colui
che conosce diventa la conoscenza stessa. E, se ci soffermiamo un momento a considerarci,
vediamo che il nostro vero IO, ciò che sussiste dopo tutte le identificazioni,
è pura consapevolez.za dei miei atti fisici, delle mie opinioni, dei miei
atteggiamenti estemi, dell’attività del mio sentire e del mio pensare; sono
l’incrollabile osservatore che trascende sempre tutto, tranne la
consapevolezza.
La Grande Opera è appunto il Lavoro di presa di coscienza
di questa Pura Consapevolezza; prima sgrossando la Pietra Cubica (cercando, tra
tutte le Vie che ci indica la Tradizione, quella che più ci confà); ed infine,
sovrapponendo la Piramide alla Pietra Levigata, ci avviamo serenamente e
decisamente per Quella Via.
Questo è, a mio avviso, il significato di operare, alla
ricerca della Luce ed a Gloria del Grande Architetto dell ‘Universo.
Venerabile Maestro, Fratelli tutti
di ogni Dignità e Grado,
vorrei parlarvi di un problema che è particolarmente
urgente per me, ma che deve essere presente non solo agli uomini che, come me,
sono molto avanti negli anni, ma anche a coloro che, giovanissimi o maturi,
vedono pur sempre avvicinarsi quello stadio della vita che è chiamato
vecchiaia.
Nella società attuale abbiamo, da un lato, le scienze
che sono riuscite, in continuo progredire, ad allungare la vita media dell’uomo
(penso che, grosso modo, nel giro di un secolo e mezzo la vita media si sia
raddoppiata), ed anche ad alleviare e quasi a sopprimere i disturbi della
vecchiaia; con che, tutta l’umanità sta invecchiando, perché il numero dei
vecchi, rispetto ai giovani, cresce continuamente.
D’altro lato, le generazioni giovani spingono; sono
bramose di raggiungere al più presto la situazione di maggiore potere economico
e sociale che consegue all ‘avanzare nelle carriere, quali che esse siano. E d’
altronde, sempre più presto negli anni i giovani acquistano capacità e
cognizioni profane che un tempo erano raggiunte in età più avanzate.
Obiettivo generale è l’ottenimento del maggior numero
possibile di soddisfazioni profane che, infine, la cosiddetta società dei
consumi moltiplica fantasiosamente all’infinito.
Questo ottenimento è oggi universalmente l’obiettivo
‘,mico della vita; ecco che vediamo i giovani che lo vogliono realizzare
subito; uomini maturi che lo vogliono conservare ed aumentare senza limiti; e
vecchi che non si rassegnano ad aver sorpassato o perduto quello mentre la
scienza si prodiga ad offrire loro tutti i mezzi per conservare le prerogative
dell ‘età media.
Il risultato è quello di una senenza ostinata o
Iarnentevole, sgradita a sé ed agli altri; ed al limite, di un gruppo posto
all’estremo superiore della scala delle età, che la società deve pur mantenere,
e che ha perduto le condizioni di elemento produttore della società.
Nella visione tradizionale della vita, i gruppi più
giovani corrispondono allo stadio dei desideri e delle speranze; speranze che
si attuano nel secondo stadio, quello della mezza età. In questo secondo
stadio, nel quale l’uomo, pur irnmerso nelle sue funzioni sociali di produttore
e di fruitore, di generatore di nuovi esseri umani, si rende conto della
fugacità della soddisfazione delle proprie bramosie giovanili; avviene una
riconsiderazione del significato della vita e si presenta un nuovo desiderio,
che è quello di comprendere pienamente la vera finalità della presenza umana
nel mondo fisico. Ci si prepara ad uno stadio nuovo; lo stadio di chi, ormai
compiuta la propria funzione sociale, si può dedicare al raggiungimento di
questa conoscenza, libero da quelli che erano i desideri dei due precedenti
stati della vita.
Invece nessuno vuole invecchiare; la corsa al piacere
la si vuole allungare all’infinito; il sostantivo o l’aggettivo giovane è
diventato uno slogan che abbellisce o vuol rendere desiderabile ogni prodotto
commerciale; i mass media, come la televisione ed il cinema, creano personaggi
che brilland ed invecchiano nel giro di brevi anni, bruciati nella rincorsa del
nuovo. Tutti vogliono parere giovani, senza rendersi conto del ridicolo di
questa pretesa.
Non è il caso di farci prendere dalla disperazione. Nel seno
della nostra Istituzione, nella pace e nell ‘augusta serenità del Tempio si va
formando in noi quella giusta, ponderata visione della vita che con l’esempio e
con l’azione possiamo trasportare nel mondo profano, per operare, nei limiti
della nostra possibilità e con l’aiuto del Grande Architetto dell’Universo, per
il bene dell’Umanità e, di conseguenza, a gloria Sua.
Il graduale affievolimento del nostro involucro fisico e
delle sue urgenze ci lascia via via sempre più liberi per un lavoro di
rieducazione interna, di revisione dei valori, della ricerca di una nuova
visione del Tutto. Questo per i vecchi; ma a questo lavoro, della sgrossatura,
prima, e della levigatura della pietra grezza, occorre accingersi fin dalle
prime età; le pur legittime brame del giovane, le attività terrene dell’adulto
e lo studio interiore del vecchio dovrebbero essere sorretti e dimensionati in
vista di quella Conoscenza Superiore, unico bene imperituro e fondamento di
tutte le speranze, che seppure vaghe ed indistinte, sono le uniche forze che ci
spingono ad accettare la vita.
Nella mia esperienza personale, mi sono trovato davanti ad
una scolta per la quale, or sono vari anni, mi sono visto svanire quella
indistinta, addirittura inconscia, speranza di qualcosa di migliore che era
stato sempre il vago sostegno del mio connaturato ottimismo. Forse era venuta
quella che Giovanni della Croce chiama la nera notte dell ‘anima … e questa
notte dura ancora, anche se vedo all’orizzonte un chiarore che è forse il
lontano bagliore di quella Luce che noi cerchiamo nel Tempio. Il mio lavoro,
anche se lo compio poco e male, è ormai – nel campo spirituale – la ricerca per
l’ampliamento di Quella Luce.
ln questo modo la vecchiaia toma ad essere recuperata, viene
ad essere il coronamento di una vita più o meno giusta e viene ad essere utile
di esempio e di consiglio per le età più giovani.
Tenteremo questa sera di riscoprire e riproporre
all’attenzione di noi tutti, alcune considerazioni fondamentali che da sempre
formano la base per una esatta comprensione di ciò che in effetti è la
Massoneria e degli speciali vincoli che uniscono noi ad Essa.
La loro presente trattazione non dovrà mai essere
intesa come una divulgazione di idee proprie dell’autore, o quale descrizione
di esperienze personali, né quale frutto di sue impressioni o congetture varie,
in quanto, tali nozioni sono costituite essenzialmente da dati tradizionali che
per tale loro caratteristica assumono perciò un valore universale.
Ai nostri giorni, un inquadramento in precisi
concetti di base, risulterà certamente poco simpatico a molti, abituati come
siamo, in campo profano, ad applicare costantemente quella deplorevole
tendenza, classica dell’Occidente, di porre l’AnaIisi in primo piano, e
misconoscere la supremazia della Sintesi su questa. Ciò porta fatalmente alla
cosciente ed incosciente eliminaione del legame affettivo con i Principi,
eliminazione che, se in campo profano è la principale fautrice di quel marasma
politico, economico ed ideologico, oggi particolarmente sentito, tanto più sarà
apportatrice di confusione in campo iniziatico, ove può sicuramente costituire
un elemento squalificante per l’iniziazione effettiva.
Io voglio credere che tutti noi abbiamo chiesto di
far parte della Massoneria in quanto spinti da un impulso interiore che
reclamava “più spiritualità”. Una certa insoddisfazione, prima solo
accennata, poi sempre più impetuosa, costringeva il nostro Essere a volare più
in altro, a ricercare qualcosa al di fuori della solita materialità, dei soliti
sospiri sentimentalistici, del solito senso morale e della stessa solita
cultura.
Pur ignorando l’esistenza ed il
giusto peso di tutto ciò, qualcosa richiedeva a noi stessi di superarlo. E con
il FIAT LUX, con la caduta cioè della benda nera dagli occhi, abbiamo scoperto
tale possibilità, ovvero, tale possibilità ci è stata fomita proprio
nell’attimo della nostra Iniziazione Massonica. Ed ora ne comprenderemo anche
il perché.
Proprio in quanto si cercava
“più spiritualità”, ci siamo diretti verso la Massoneria.
E perché non verso una Chiesa, verso cioè una Religione, che
il senso comune addita come unica depositaria della Spiritualità?
Pur riconoscendo nella Religione
un punto fondamentale nella sfera che gli compete, è pur doveroso affermare che
in Massoneria vi è un qualcosa di più, in quanto, con Essa ci si porta ad un
livello superiore, in Essa ci si trova, cioè, nel bel memo dell’unica
Tradizione esistente oggi in Occidente.
La Massoneria, quindi, si definisce quale un’ Associazione
Iniziatica Tradizionale Regolare.
Tali attributi Le sono propri anche se di essi oggi appare
ben poco; ciò è dimostrato dal fatto che per molti Essa è oggi pensabile molto
più quale semplice agglomerato di uomini con scopi eminentemente politici e
sociali, ciò che avvalora maggiormente la tesi dell’esistenza in Occidente di
una vera degenerazione nei confronti delle così dette “Scienze Tradizionali”
Cercheremo ora di spiegarci brevemente questi termini
molte volte usati, ma altrettanto mal compresi.
Perché “Tradizionale”? Il termine
“Tradizione” ha propriamente il significato di
“Trasmissione”. Nel caso di una Associazione Iniziatica, si tratta di
“Trasmissione di una Influenza Spirituale”, in virtù della quale le
possibilità spirituali del neofita diventano, all’atto dell’lniziazione, delle
virtualità pronte a svilupparsi nei diversi stadi della realizzazione
iniziatica
Quale la provenienza di tale Influenza Spirituale? Essa
proviene dal sovrumano ed è diretta all ‘umano, mediante ciò che viene definito
simbolicamente una “Trasmissione Verticale”, costituendo quindi un
legame affettivo che l’umanità possiede con i Principi, ovvero con ciò che le è
superiore.
Sebbene a proposito di tale “Trasmissione
Verticale” si dovrebbero spendere alcune parole in più anche nei riguardi
della stessa, ma intesa in senso orizzontale, per ora non sembra il caso di
andare oltre, in quanto l’argomento ci porterebbe troppo lontano e quindi
oltrepasserebbe i limiti imposti dal carattere di questa Tavola.
Accennerò solo brevemente che la “Tradizione
Orizzontale” è quella che è cronologicamente percepibile risalendo il
corso dei tempi, nei quali ad un certo punto sfuma e scompare quale dato
storico, per assumere le caratteristiche del Mito e della Leggenda; è appunto
ciò che conferma I ‘origine “non umana” della stessa.
Il mantenimento della continuità della “Catena
Iniziatica” e l’esistenza in essa dell’elemento “non umano”
costituisce quella Regolarità riscontrabile in ogni organizzazione iniziatica e
della Massoneria in particolare.
Va da sé, ora, che, dato il carattere metafisico dell
‘Influenza Spirituale di cui si parla, Essa si trasmette a quelle individualità
che posseggano delle caratteristiche idonee a riceverla, ovverosia a coloro in
cui si possa riscontrare ciò che, nel linguaggio iniziatico, si riassume sotto
il termine di “Qualificazione”.
A seguito di ciò resta inteso che l’entrata di un profano
in Massoneria non potrà mai essere determinata semplicemente dalla necessità di
ripopolare le zone limitrofe alle Colonne, necessità che nasce spesse volte a
causa di una certa mania al proselitismo e ad una vera superstizione
democratica per il “gran numero”; né dalla presa in considerazione
dei soli termini di “cultura”, “posizione sociale” e
“moralità”, che non possono
costituire elementi fondamentali per l’appartenenza a
s
quella “Élite” per la quale
il versetto evangelico molti son chiamati, ma pochi gli eletti” (a questo
proposito sarà bene leggere e meditare il significato della parabola delle
Nozze dal Vangelo di San Matteo).
La descrizione specifica delle caratteristiche che
concorrono alla qualificazione sarebbe una di quelle ricerche fondamentali che
contribuirebbero enormemente al riallacciamento effettivo alla Tradizione. Si è
usato il termine “Ricerca” in quanto oggi pare non più sussistere
regola alcuna in proposito.
Le poche e sintetiche considerazioni fin qui svolte,
devono ritenersi essenzialmente dei punti di partenza, sono cioè semplici
accenni suscettibili di essere maggiormente ampliati ed approfonditi, cosa che
non è stata fatta in quanto è mancato il tempo e lo spazio.
Per altro penso che alcuni termini quali
“Iniziazione” e “Organizzazione Iniziatica” siano stati
sufficientemente chiariti, mentre altri quali “Tradizione”,
“Influenza Spirituale” e “Qualificazione” si spera vengano
in seguito ritrattati più espressamente.
La trattazione del periodo medioevale impone allo
storico un severo impegno di critica. Esso è abitualmente considerato una età
di decadenza e di ristagno ed il solo aggettivo medioevale suggerisce di solito
l’idea della involuzione, superstizione e dell’inerzia. In effetti la medicina
era allora decaduta ad un livello molto basso.
Arcaici i concetti sulle malattie; diagnosi e prognosi
si fondavano sulla posizione delle stelle o sull’esame delle urine; le cure
consistevano in salassi e nell’uso di erbe la cui azione era poco conosciuta;
l’anatomia veniva insegnata in base ai vecchi testi o, al massimo, alla
dissezione di animali; l’alchimia si indirizzava verso la ricerca dell’elisir
di lunga vita; la chirurgia era dominio di ciarlatani. Stando così le cose, non
ci deve stupire il fatto che, nella Bologna del 1250 nessun medico volesse
curare un nobile ferito, per timore di rappressaglie in caso di esito fatale.
Eppure non si può dire che la medicina medioevale presenti sempre un quadro
così scoraggiante: qua e là qualche spiraglio di luce lascia intravedere la
prossima ripresa della scienza. Si venivano fondando scuole di medicina dai
metodi sempre più progrediti. L’anatomia veniva riconosciuta come la base della
chirurgia; in questa branca si andava escogitando qualche nuovo metodo e si
erano inoltre introdotte rudimentali misure preventive contro il dilagare della
peste. Così anche il periodo medioevale diede il suo modesto, ma pur sempre
importante, contributo alla scienza medica. Le vite e le opere di medici e
chirurghi del Medioevo occupano quindi una pagina importante nella storia della
Medicina. A quel tempo la medicina era comunque coltivata in due ambienti
spiritualmente assai diversi: la chiesa cristiana ed il mondo arabo. Non si può
negare che la chiesa cristiana dei primi tempi abbia ritardato il progresso
della scienza medica: i primi cristiani interpretavano troppo alla lettera il
potere guaritore dei seguaci di Cristo, negando ai medici l’autorità della
guarigione. Essi asserivano che non si doveva in nessun modo sminuire la
supremazia del solo Grande Medico. Così la medicina dovette cedere il passo
alla Chiesa. Già di per se stesso il concetto cristiano della malattia era
21
retrogrado. San Basilio di Cesarea, per esempio, che
nel 375 d. C. fondò uno dei primi ospedali di cui si abbia notizia, negava che
tutte le malattie fossero di origine naturale ed asseriva che molte erano
mandate da Dio in punizione dei peccati commessi e richiedevano solo preghiera
e pentimento. Rinnegato Ippocrate, si portavano le prove di miracolistiche
guarigioni nelle chiese e tanto bastava perché il bigottismo dei fedeli
escludesse qualsiasi altro intervento risanatore. Per di più il corpo umano era
sacro e la dissezione proibita. Anatomia e fisiologia divennero scienze morte e
tutte queste restrizioni dissuadevano via via gli studiosi dall’ intraprendere
la professione medica. L’ostilità alla scienza secolare raggiunse il massimo
nel 391, quando una turba di fanatici cristiani diede fuoco alla grande
biblioteca di Alessandria d’Egitto, distruggendo molti inestimabili tesori del
sapere. Non dimentichiamo comunque di essere debitori ai monaci del Medioevo
della conservazione di quelle opere antiche che influirono ed ancor ora
influiscono sull’indirizzo della medicina. L’altra grande miniera di scienza
medica durante l’alto Medioevo fu fornita dagli Arabi. Essi costruirono il loro
sistema medico in modo logico e bene articolato, aggiungendo alle prime
traduzioni dal greco osservazioni originali. Ma il loro più alto contributo
alla medicina riguarda il ramo della Farmacologia e, intimamente legata a
questa, della chimica. Grandiosi furono gli ospedali da essi costruiti in
Europa e molti loro insigni medici sono tuttora ricordati.
Cinquecento anni più tardi la medicina araba si fuse
con quella monastica dando luogo alla famosa scuola di Salerno. Ricordiamo che
la medicina monastica, nascosta nelle chiese e nei conventi, svolse una utile
funzione per l’opera di sconosciuti monaci che per anni si affaticavano a
copiare, a miniare ed a tradurre gli autori classici. Salerno fu la sede della
prima scuola medica organizzata d’Europa. Essa piantò quel seme che doveva dare
in pieno i suoi frutti qualche secolo più tardi nel Rinascimento. Alcuni
asseriscono che la scuola sia stata fondata da Carlo Magno, altri la dicono una
diretta emanazione della medicina araba, ma non vi è alcuna prova sicura in
favore dell’una o dell’altra tesi.
Raggiunse il massimo della fama nei secoli x e XI, per poi cedere il passo nel
XIII secolo, alle scuole di Napoli, di Montpellier e di Bologna.
22
Montpellier, come Salerno, era un luogo di cura, oltre
che un ambiente celebre per la complessa sua cultura, sensibile persino allo
spirito dell’antica Grecia; inoltre la sua posizione geografica la rendeva
facilmente accessibile sia dall’Italia sia dalla Spagna. Per tutte queste
ragioni non ci stupisce il sorgervi ed il fiorirvi di un grande centro di
medicina.
Il suo docente più notevole fu Arnaldo di Villanova:
laureato in teologia, medicina e legge, scrisse molti testi, soprattutto di
medicina. Il suo era uno spirito di ricerca insolito a quei tempi, e spesso di
critica verso i predecessori. Col sorger delle scuole di Padova e di Parigi e
con la partenza del Papa da Avignone, Montpellier perse parte della sua importanza,
tuttavia anche ai nostri giorni rimane un centro di scienza medica.
A questo punto, il
criterio di successione cronologica ci porta a ricordare due grandi studiosi,
ciascuno dei quali influenzò la vita intellettuale del suo tempo: Ruggero
Bacone e Alberto Magno. Bacone ebbe idee così avanzate rispetto ai suoi tempi
da sembrare anacronistico come personaggio medioevale. Dopo aver studiato ad
Oxford, insegnò per qualche tempo a Parigi; disponendo di mezzi, poté spendere
somme ingenti per i suoi esperimenti. Gli si attribuiscono le invenzioni degli
occhiali, della polvere da sparo. Egli insisteva sul valore dell’esperienza a
fronte dell’argomentazione. La medicina si era smarrita tornando sui sentieri
della filosofia aristotelica; la scolastica, con le sue discussioni a vuoto,
sradicate dalla realtà, aveva danneggiato la scienza; vi era urgente bisogno di
un soffio di vita nuova, e solo Bacone poteva darlo. Con lui, lo svevo Alberto
Magno, uomo fra i più colti del Medioevo, scrisse originali saggi.
Ma nessuna relazione sulla medicina medioevale sarebbe
completa senza un accenno alla terribile ed estesissima epidemia di peste, che
con il nome «Morte Nera» devastò il mondo civile nel XIV secolo. Circa un
quarto della popolazione civile della terra allora conosciuta perse la vita nel
contagio. Boccaccio nel suo Decamerone ci ha dato una drammatica descrizione
della peste in Italia: «a migliaia per giorno infermavano, e non essendo né
serviti né aiutati d’ alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione morivano…
Non bastando la terra sacra alle sepolture… si facevano fosse grandissime
nelle quali a centinaia
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si mettevano i sopravvegnenti e in quelle stivati, come
si mettono le mercanzie nelle navi, a suolo a suolo, con poca terra
ricoprieno». Le cure erano di scarsa efficacia, ma opuscoli sulla peste scritti
per illuminare il popolo consigliavano di praticare salassi e bere aceto. E
interessante notare che un opuscolo di questo genere è stato forse il primo
libro di medicina stampato in Inghilterra nel 1485.
Gli ospedali più antichi erano di fondazione
ecclesiastica, e la Chiesa incoraggiava l’opera di ricovero ed assistenza a
malati e feriti. Uno dei primi ospedali medioevali è ancora visibile nell’isola
di Rodi, dove fu fondato dai cavalieri di San Giovanni durante le crociate. Nel
tardo Medioevo furono costruiti molti begli Ospedali con vaste sale ben
pavimentate illuminate da ampie finestre, e le pareti suddivise in cubicoli per
i giacigli. Vi erano sufficienti provviste d’acqua e perfino sistemazioni di
fognature. Libri e manoscritti dell’epoca, ricchi di illustrazioni, documentano
ampiamente la medicina medioevale. Anatomici rappresentati nell’atto di
sezionare cadaveri ed indicarne le parti agli allievi furono uno dei soggetti
preferiti dai pittori olandesi del XVI secolo. Ma i disegni più antichi
mostrano che l’operazione effettiva della autopsia non veniva eseguita
dall’anatomico stesso. Anche la diagnosi mediante l’esame delle urine era
soggetto comune di rappresentazione fino a tempi relativamente recenti.
Troviamo, ad esempio, un medico con manto azzurro bordato di ermellino e
berretto di velluto, mentre, nell’atto di tastare il polso all’ammalato, leva
verso la luce, con mano carica di anelli, un bicchiere colmo d’urina; la madre
del paziente segue le sue mosse con venerazione ed ansia. Molte altre miniature
e xilografie antiche ci informano sulla vita medica dell’epoca, così che si
potrebbe impararne la storia, senza la fatica della lettura e della traduzione.
E generalmente ammesso che la medicina raggiunse
il vertice della crisi nel 1543, anno in cui comparvero in De revolutionibus
orbium coelestium ed il De humani corporis fabrica, nei quali rispettivamente
Nicolò Copernico ed Andrea Vesalio sovvertirono ogni sistema corrente di
astronomia e di medicina.
Questo il significato profondissimo ed essenziale
dell’lniziazione che deve, per essere consapevole, provocare un mutamento
radicale.
Ma su quali piani, in che modo, con quali
manifestazioni?
E molto facile cadere in equivoco lasciandosi
trasportare da entusiasmi estatici, attratti dall’oscurità del mistero o,
ancora, obbedendo alle lusinghe di una supposta superiorità spirituale e
morale. Il carattere peculiare dell’iniziazione massonica è il suo specifico
simbolico.
Come dobbiamo intendere, di conseguenza, il linguaggio massonico e quali
corollari l’uso del simbolo può (e deve) avere nella trasformazione del
massone?
L’uso del simbolo è la base del linguaggio iniziatico.
Esso diviene uno strumento di comunicazione del tutto
singolare: non è legato al Tempo (alla Storia), può consentire esperienze non
verbali. Esso libera dalle consuete forme di pensiero che normalmente vincolano
ad una determinata filosofia.
La trasformazione consiste, in un certo senso,
nell’abolizione dei linguaggi tradizionali e consueti.
Il simbolo, in realtà, non è un segno che sta per un
altro, ma l’abolizione di tutti i segni che l’uomo ha inventato per capire il
mondo
e se stesso.
Attraverso l’uso del simbolo è possibile ottenere una
visione unitaria: si possono mettere insieme (sun-ballein) tutti i contrari.
Tuttavia per raggiungere questa possibilità, che
implica necessariamente l’uso di un modo conoscitivo diverso, occorre
abbandonare il diabàllein, il consueto procedimento analitico e dialettico per
ottenere quello che Nietzsche definiva «lo scatenamento totale di tutte le
capacità simboliche
13
II simbolo è una metafora, è una continua allusione,
rimanda a ciò che ancora non è stato detto e forse non si può nemmeno dire.
Probabilmente aveva ragione Jung quando puntava il pollice
verso sul razionalismo ed il positivismo che avevano, secondo lui, distrutto la
capacità dell’uomo di capire ed usare i simboli.
Procedere per simboli è dunque il solo metodo iniziatico
che può portare alla VIA.
Procedere per simboli deve operare una mutazione radicale.
Dall’immanenza e dal lavoro su se stesso si deve passare alla trascendenza. Ad
una visione, se vogliamo, del divino.
La percezione del Primo Motore, la consapevolezza che i
fenomeni altro non sono che le varie manifestazioni di un unico Principio, il
dubbio propria realtà che potrebbe anche essere una illusione, un riflesso
speculare di una Essenza che è assoluta ed illimitata, ma che sembra relativa e
finita.
Ciò che non muta è la forma, se per forma si intende il
modo di procedere, di avvicinarsi sempre più alla verità attraverso lo studio,
lo sviluppo, l’intuizione del simbolo.
La presenza di massoni nei due rami del Parlamento sin dal
passaggio fra Regno di Sardegna e Regno d’Italia è realtà acclarata. Manca però
uno studio che indichi in modo incontrovertibilmente documentato il loro
curriculum di loggia. Da un paio d’anni si è aperta una sorta di gara tra
volumi, articoli e tesi di laurea, corrivi a pubblicare serie di parlamentari e
alti dignitari della Terza Italia sotto l’indistinta insegna di ‘massoni’. Si
tratta di repertori che poco agoiungono a quanto già si sapeva. E le aggiunte
in alcuni casi risultano destituite di fondamenta documentarie. Tali repertori,
ad ogni rnodo, non soddisfano la domanda storiograficamente preminente: quanto
l’iniziazione e/o l’ affiliazione a questa o quella loggia abbia effettivamente
condizionato — o persino dettato — l’azione politica di quei “massoni di
lusso”. Prima che sorga un novello Luzio, costretto dall ‘esorbitante
pretesa di massonizzazione universale della storia politico-istituzionale, va
ricordato che nel quadro politico globale i massoni incisero, quando incisero,
per la quota ricoperta (ma spesso si divisero anche su questioni di peso, quali
il trasferimento della capitale da Torino a Firenze).
Anche più controversa rimane però la quistione centrale: se
la condotta parlamentare dei deputati e senatori affiliati sia effettivamente
dipesa da direttive di singole Officine liberomuratorie o di poteri apicali
delle diverse Obbedienze d’ascrizione.
La presenza di massoni, soprattutto alla Camera dei
Deputati, va però oltre l’assemblea e al governo che da Felice Cavallotti (bene
informato anche per la sua giovanile appartenenza all’Ordine. ora provata in
via definitiva da Cristina Vernizzi) in polemica con il ‘fratello’ Crispi venne
marchiato come “conclave di 33”.
Forte di raffinata cultura storico-giuridica e di
decenni trascorsi all’interno di Montecitorio, Mario Pacelli, docente di
Istituzioni di diritto pubblico al]’ Università “La Sapienza” di
Roma, propone or.a “storie sconosciute” di più reconditi ed efficaci
intrecci fra l’ “universo” parlamentare e il mondo delle logge, con
particolare attenzione per la presenza di massoni in servizi solo
apparentemente secondari: la verbalizzazione delle sedute, i diversi ‘uffici’
e, soprattutto, la Segreçria generale della Camera, che d’altronde non poté
certo rimanere impermeabile alla qualità massonica dei parlamentari
susseguitisi alla sua presidenza, o per diretta appartenenza all’Ordine
(valgano i casi di Tommaso Villa, Francesco Crispi, Michele Coppino, Giuseppe
Zanardelli, Domenico Farim…) o per legami parentali con massoni notori (fu il
caso di Urbano Rattazzi, la cui affiliazione rimane da documentare, mentre è
provata quella del suo congiunto, Giacomo).
Vera messe di aneddoti gustosissimi, accenni
illuminanti e giudizi appropriati, il saggio di Pacelli, frutto di quarant’
anni di ricerche, ci conduce dal nonagenario Filippo Delpino, capostcnografo
della Cannera subalpina e cofondatore della loggia “Ausonia” (non
“Aurora”) I ‘8 ottobre 1859, a Francesco Cosentino, il segretario
generalc della Camera assiduamente frequentato dal “dottor Luciani”,
ovvero da Licio Gelli.
Asceso al governo. Benito Mussolini rinviò lo
scontro diretto con le due principali Comunità massoniche dell’epoca (il Grande
Oriente d’Italia e la Gran Loggia, dalla sua seconda sede maliziosamente detta
“di Piazza del Gesù”), conscio che fra gli stessi gerarchi parecchi
erano transitati in loggia, conservando legami conseguenti. Nel 1925 — quando
il Parlamento venne piegato ad approvare la legge sull’appartenenza dei pubblici
impiegati ad associazioni. nota come “legge contro la massonena” —
l’offensiva non poté esserc rimandata e culminò nell’inchiesta sul personale di
Montecitorio. Lo stesso segretario generale, Camillo Montalcini, era sospettato
di massonismo. Non si trovò, tuttavia (né sono state reperite ad oggi) prove di
sorta a suo carico. Effettivamente massoni risultarono solo funzionari di
seconda o terza fila, vulnerabili per piccole inadempienze o lievi abusi di
potere. L’ “inchiesta” non si tradusse quindi affatto in epurazione
generalizzata e lo stesso Montalcini venne elogiato e proposto Segretario
generale onorario. Fosse o meno massone, andava rimosso perché organico allo
stile liberale, ormai sconfitto. Gli subentrò Aldo Rossi Merighi. “Il
regime era veramente cominciato”. come lapidariamente conclude Pacelli, il
quale però attribuisce talora qualità di massone a chi, per quanto non si sa.
non solo non lo fu affatto ma anzi prese ripetutamente le distanze dall’Ordinc.
E il caso — tra altri- di Giovanni Giolitti, da Pacelli classificato
perentoriamente massone, accanto a Giuseppe Marcora (p.65).
Del pari è lecito dubitare che il mancato arresto di
Dino Grandi sia dovuto alla triangolazione massonica fra lui, Ubaldo Cosentino
e Vittorio Emanuele Orlando. L’ iniziazione del “presidente della
Vittoria” al momento è avvalorata da mera tradizione orale; di Ubaldo
Cosentino non v’è traccia nella matricola generale dell’Ordine, che annovera
anche gli iscritti alle riservatissime logge “propaganda massonica”
di Torino (alla quale nel 1925 venne aggregato Guglielmo Ferrero) e di Roma.
Quanto a Dino Grandi è certo che intrattenne rapporti strettissimi con massoni
notori e ne condivise talora l’animo. Anche la sua iniziazione (all’una o
all’altra Obbedienza) al momento rimane però una mera IPOtesi in attesa di
prove convincenti.
Talvolta agli studiosi più avveduti accade quanto
avviene per gli osservatori prevenuti. Di scorgere presenze, tracce, segni
massonici anche nelle decorazioni più ovvie. E’ il caso delle ‘stelle’ ora
presenti nella pavimentazione di Montecitorio di Piazza Montecitorio e che si
aogiungerebbero ai “simboli massonici. ..profusi in abbondanza all’
interno dell’edificio”, come lamentato dall’ “Avvenire” (p.
197). In realtà non v’è prova alcuna di iniziazione all’Ordine di Davide
Calandra, al quale si deve il solenne bronzo retrostante il seggio
presidenziale (antimassone, semmai) né di Aristide Sartorio, a differenza,
invece, di Giuseppe, iniziato alla “Pietro Micca —Ausonia” di Torino
nell’età di Lemmi, quando si affermò quale “scultore dell’epopea
risorgimentale”
Il succoso saggio di Pacelli. sorretto da solida
erudizione, offre molteplici spunti di ulteriore ricerca e induce infine a
porsi una domanda centrale: perché, se davvero sian mai giunti sulla soglia di
esercitare tanta influenza sul Parlamento. i massoni non sian riusciti né a
varare una legge sulle associazioni a propria tutela né, almeno, a uniformare
le aule al modello della loggia, scartando l’emiciclo: fatale progenitore di
convergenze al centro, fomite di compromessi e, talora. di giochi alchemici
dagli esiti devastanti.
Getta nuova luce sui nessi tra antifascismo militante
e massoneria fedele ai suoi principi fondativi il succoso e documentatissirno
saggio di Mimmo Franzinelli “Nel retrobottega della polizia
fascista”, anteposto alla nuova edizione di “Una spia del regime”:
il ‘memoriale’ scagliato da Ernesto Rossi contro la spia prezzolata che allestì
la provocazione ai danni di “Giustizia e Libertà” e, ancor più,
contro il tartufismo dell’Italia postfascista.
Acuto esploratore degli archivi di polizia, come
prova il robusto volume • ‘I tentacoli dell’Ovra. Agenti, collaboratori e
vittime della politica fascista” (parimenti edito da
Bollati-Boringhieri,Torino, 1999) ma anche sensibile alle diverse correnti
dell’Italia laicista, anticlericale e, perché no?, massonica, Mimmo Franzinelli
confer»a la quasi completa coincidenza. nella prima fase, tra i militanti
attivi in Italia nelle file di “Giustizia e Libertà” e la rete
clandestina di ITIassoni rimasti attivi malgrado la persecuzione esercitata dal
regime e l’ ordine di autoscioglimento delle logge impartito dai grandi maestri
delle due Obbedienze (uno dei quali, Raoul Palermi, venne indicato poi al soldo
dell’Ovra: Opera Volontaria di Repressione dell ‘ Antifascismo). Vicenda,
questa, che va molto oltre le dimensioni del “fatto personale” e
investe aspetti centrali della storia della massoneria in Italia, neppure
sfiorati da Angelo Livi nel volume di cui riferiamo in questo stesso fascicolo.
Nell’ambito della ricca messe di documenti prodotti
in appendice, Franzinelli pubblica numerosi elenchi di massoni impegnati nella
cospirazione contro il regime (a Milano, Padova, Udine. . .). Si tratta di una
importante base di partenza per una ricerca ulteriore, anche sui rapporti tra
quei nuclei, i massoni dell’esilio (sui quali rinviamo al nostro saggio sul
Grande Oriente d’Italia, 1930-1938, pref. di Armando Corona, Roma, Erasmo,
1983) e le Obbedienze estere. Valga, quale spunto. il post scriptum del
rapporto redatto da Vezzari sulla base delle informazioni fornitegli da Carlo
del Re circa la collaborazione tra Giordano Viezzo]i (poi caduto in difesa
della Repubblica di Madrid) c Ramon Franco. massone, fratello del più celebre
Francisco, il “caudillo” di Spagna. acerrimo persecutore dei massoni.
Risulta altresì confermata la permeabilità della rete
massonica da palte di figure poco commendevoli: rari, ma micidiali, sia sotto
il profilo delle ripercussioni pratiche dei loro tradimenti ai danni dei
“fratelli”, sia per la credibilità dell’ istituzione: codesta è però
un’esperienza vissuta dal mondo settario italiano nel Settecento, come durante
la restaurazione e in molti impervi tornanti della Terza Italia. quando la
massoneria risultò divisa per motivi politici e, talora, per ragioni noeno
nobili e ideali.
Un interrogativo rimane senza risposta; né era
compito di Franzinelli darla, giacché il tracciato di questo suo lavoro ha
altri intenti. Quei massoni militanti nella cospirazione antifascista e inclini
anche all’uso di armi per destabilizzare i pubblici poteri a quale titolo
agivano? La responsabilità delle loro imprese e i principi ispiratori loro
soggiacenti potevano e possono essere attribuiti al gran maestro confinato a
Lipari. Domizio Torrigiani, o a quelli susseguitisi (sino al 1932 come
aggiunti, poi da effettivi) alla guida della massoneria italiana in esilio?
E quanto l’una e gli altri condizionarono la
rinascita liberomuratoria del 1943-45?
Riteniamo sia venuto il tempo di indagini
prosopografiche che, attraverso i profili del più ampio numero possibile di
protagonisti, consentano di individuare linee generali di comportamento e
capire cesure e continuità: che son poi quelle, più in generale, storia italiana, tuttora rabberciata a
seomenti e a spezzoni, senza un filo conduttore davvero unitario e capace di
condurre, con una rigorosa e convincente spiegazione, alla comprensione che è
anche sinonimo di autentica pacificazione nella verità.
Ernesto Rossi, una spia del reginze
Nuova edizione a cura di Mimmo
Franzinelli, Torino, Bollati Boringhieri. 2000, pp. 396, Lit. 55.000.
L’IDENTITÀ MASSONICA, OLTRE LA CRONACA
Dobbiamo al cinquantenne Natale Mario Di Luca,
professore associato presso l’ Università “La Sapienza” di Ronna e
condirettore della giovane e già autorevole rivista di esoterismo
“Arkete” un saooio che conduce oltre i confini sinora attinti dalla
massonografia italiana. Come del resto evidenzia Mariano Bianco nella
prefazione, Di Luca ha il pregio di porre al centro della sua ricerca un
problema di metodo: evitare la riduzione della Massoneria a mero fastello di
‘fatti’ , di vicende biografiche di questo o di quell’ affiliato, di travagli
delle sue varie denominazioni storiche e verificare, nel tempo, la reciprocità
fra vicende politicosociali e contenuti propriamente esoterico-iniziatici. La
Massoneria — emerge dall’opera in discorso, che vivamente raccomandiamo ai
lettori — ha una sua peculiarità specifica: sintetizzata da Bianca nel
“fattore G” cioé nel suo fondamento
noumenico, nel fattore noetico e in quello di ‘regolarità”. Perciò —
come ancora scrive Bianca — il sagoio apre “un filone”, che evita la
riduzione della storia della Massoneria a puro e semplice racconto parapolitico
(e, fatalmente, di politica “all’italiana’ quando si tratti di cose
nostrane: e quindi di conflitti tra partiti o correnti di partiti).
Inevitabile, perciò, che Di Luca giunga ad
avanzare interrogativi sulle conseguenze propriamente massoniche di taluni
aspetti dell’assetto istituzionale della Libera Muratoria in Italia. “11
conferimento al solo gran maestro del potere di rappresentare l’Ordine nelle
sue manifestazioni esterne — egli scrive — fa sì che l’identificazione tra lo
stesso gran maestro e la ‘politica’ dell ‘Ordine sia pressoché totale”; al
tempo stesso, però, “l’attribuzione di una precisa identità alla
massoneria italiana sulla sola base delle pubbliche dichiarazioni dei grandi
maestri o attraverso l’esame dei contenuti apparsi nelle sue pubblicazioni
ufficiali non è ( … ) procedimento sicuro ed esauriente, anche se
probabilmente è l’unico valorizzabile in sede storica”. Occorre saper
guardare al “volto sommerso (…) che è quello certamente più autentico
delle sue logge e della loro vita interna, ricchissima di individualità e pur in sintonia con una “società
nazionale” i cui “scossoni tellurici” si sono ripercossi sulla
vita dell’Ordine. Accuratamente annotato’e arricchito da una bibliografia
ragionata di buon livello, il saggio dedica attenzione anche all’ultimo
ventennio, formulando giudizi severi sulle vicende del 1 993. Sintetica ma
densa ed equilibrata è l’informazione anche su “gli eredi di Saverio
Fera”
NATALE MARIO Dr LUCA, La
Massoneria. Storia, Illiri e riti, prefazione di Mariano Bianca, R01na, Atanor,
2000, pp. 250. Lit. 28.000.
ANCORA SU MASSONERIA E FASCISMO
I rapporti tra massoneria e fascismo furono “una
vicenda tragica ed intricata”, conie bene scrive Luigi Alfieri, ordinario
di filosofia politica nell’Universi(à di Urbino in prefazione ad un saogio che
ha il pregio di produrre copiosa documentazione anche in anastatica. E il caso
della lettera a Mussolini, con la quale Italo Balbo, Comandante generale della
Milizia Nazionale respinse l’addebito, assolutamente fondato, di affiliazione
massonica. Benché si tratti di cosa nota da tempo, la duplicazione
dell’originale aggiunge freschezza e irnmediatezza al documento.
L’autore del saggio, il sociologo Angelo Livi,
ripercorre la lotta di Mussolini contro la Massoneria da quando il futuro
“duce del fascismo” era capo dell’ ala massimalistica del Partito
Socialista Italiano. Livi non tace certo che alcunc tra le tappe fondamentali
dell’avvento del fascismo videro in prima fila afTiliati dell ‘una e del]
‘altra Comunità massonica italiana. E il caso della celebre riunione di Piazza
San Sepolcro. Ma anche la marcia su Roma del 28 ottobre 1 922, prelusa da una
riunione a Torre Pellice, folta di massoni (1 7 ottobre), contò parecchi
‘fratelli’ in primissima fila, come poi la “sfilata” che festeggiò
l’insediamento di Mussolini a capo del governo.
Il volume costituisce dunque una cronaca onesta c
sorretta da buona informazione. Essa evidenzia l’abbaglio che, pur con
differenze di accenti e di tempi, condusse entrambe le Obbedienze ad
assecondare o a non ostacolare l’ascesa di Mussolini. Va però detto che
le•responsabilità dei massoni risultano minime rispetto a quelle dei partiti i
cui parlamentari votarono a favore del governo (e lo fecero molti liberali. il
partito popolare di De Gasperi e Granchi, i demosociali di Colonna di Cesarò,
parecchi ex radicali…) e a quelle di socialisti (inüferenti dinanzi al crollo
dello “Stato borghese” e incapaci di capire che il declino delle
libertà impoveriva tutti) e comunisti (inclini a vedere nel fascismo una
scorciatoia verso la “rivoluzione rossa”).
Livi pubblica integralmente la relazione della Commissione
d’inchiesta, presieduta da Raffaele Paolucci, sul personale e sui servizi della
Camera dei Deputati, volta a individuare e a emarginare i massoni (la stessa di
cui si occupa Mario Pacelli in “Interno Montecitorio”, di cui
riferianw in questo stesso fascicolo). Le conclusioni dell’inchiesta concorrono
a rispondere al quesito ricorrente sulla sorte toccata alle molte decine di
migliaia di massoni attivi e quotizzanti in Italia nel 1925, cioè
all’autoscioglimento delle Obbedienze di Palazzo Giustiniani e di Piazza del
Gesù. Mentre la maggior parte dei funzionari. impiegati e addetti di quello che
a lungo era e sarebbe stato dipinto quale “covo di massoni” andò
indenne da rilievi, anche nei pochi casi sui quali la Commissione si fermò con
maggior severità alla antica militanza “tra le colonne” venne
contrapposta l’ ‘ opera apertamente fascista” professata da chi era
documentatamente massone o creduto tale. Emblematici furono quelli del
direttore dell’Ufficio, commendatore Monnosi, già segretario del Grande Oriente
d’Italia, nei confronti del quale non venne chiesto alcun provvedimento, e del
cav. Caciolli e dei “17 commessi aggiunti. iscritti alla Massoneria di
Passa del Gesù (loggia “Patria e Lavoro”, da cui SI sono dimessi in
varie epoche, ma tutti prima che la legge ‘contro la massoneria’ fosse
votata)” e che dichiararono, creduti, d’essere entrati in loggia su
sollecitazione di “alcuni sottosegretari di Stato dello stesso rito’ .
La maggior parte dei massoni sino a poco prirna
attivi e quotizzanti rimase al proprio posto, a prezzo – e neppure sempre – di
sbrigativi “atti di contrizione”: della cui sincerità i fascisti
finsero appagarsi giacché sapevano bene d’essere numericamente minoranza esigua
e di dover quindi ricorrere al sostegno di chi già era all ‘ interno dello
Stato per giungere ad impadronirsene appieno.
Nell’insieme la vicenda assume dunque i colori di una
gigantesca dimostrazione d’ipocrisia e di conformismo, di doppiogiochismo e
riserve mentali: una avvilente sceneggiata dalla quale neppure vents anni
dopo tanti italiani uscirono, pronti ad una seconda recita: quella della
pretesa ‘innocenza’ da ogni collusione con il regime, l’ostentazione di virtù
due volte perdute e sulla cui palude di menzogne e compromessi mise
inconsistenti basi il ‘sistema’ seguente, che di repubblica ebbe il nome, non
la virtù.
Mi aggiro fra le tombe di un piccolo cimitero di
campagna. E luogo di meditazione.
Il 1 0 di novembre è dedicato alla
commemorazione dei defunti. E il tempo in cui la luce del sole si attenua, in
attesa del gelo e grigiore invernale. Lo strato di foglie gialle e rosse
attenua il rumore dei passi, le notti si fanno lunghe, ci fanno pensare alla fatica,
al riposo, al sonno. Ci inducono alla riflessione.
Il culto dei morti è antico quanto il mondo. Ulisse
portava loro cibo. Gli antichi egizi avevano il loro mondo dei morti nelle
piramidi, con i loro corpi mummificati e gli oggetti testimoni e compagni della
loro vita e a garanzia della prosecuzione della vita nell’eternità; riti e
cerimonie che ne onoravano la memoria si sono persi nella notte dei tempi, man
mano che l’uomo si è «incivilito». Noi portiamo loro dei fiori. E il nostro
modo per mantenere il contatto con coloro che hanno fatto parte della nostra
vita, per continuare a sentirli vivere.
Questo sentimento
fa parte della sacralità della nostra vita. E per questo ho avuto un sussulto
alla lettura di alcuni titoli apparsi sui giornali: «I predatori di tombe»,
«test-auto, la cavia era un corpo umano», «commercio clandestino di cornee».
Viviamo in un momento terribile, confuso, non so se
unico nella storia, nel quale si è perso il significato di morale, etica, in
cui primeggia la potenza del dio denaro.
Una miriade di pensieri affolla la mia mente. Ci
possono essere diversi tipi di morale? Può cambiare la morale col trascorrere
del temPO, il susseguirsi delle epoche? Cosa è, infine, la morale? Cosa sono il
buono e il cattivo, il lecito e l’illecito?
Senza dubbio questi interrogativi non coinvolgono il
caso dei becchini che hanno dissacrato i cadaveri, spogliandoli di denti d’oro
o di oggetti che la pietà dei vivi aveva lasciato nelle loro tombe. Si tratta
qui di un fatto osceno, tremendo, ingiustificabile, imperdonabile. E la caduta
in un abisso di nefandezza. Mi chiedo come potessero questi individui condurre
una vita normale con le loro mogli, mariti, figli, amici, senza sentire il peso
di questa vergogna. Aggiungo: i soliti giornalisti garantisti hanno individuato
la causa di questo comporta63
mento, pronunciando una semi
assoluzione, il basso stipendio da essi percepito. Nessun commento!!
I test-auto con corpi umani. Qui entriamo nel dissacrato
campo del dio denaro, nell’economia di mercato a qualunque costo. Un cadavere
costa meno di un manichino, anzi non costa nulla. Mi ritornano alla mente le
strane figure di Bacon, i suoi personaggi contorti dall’angoscia e dall’urlo.
L’industria, a quanto pare, non sempre tiene una partita doppia fra risparmio e
spreco, e tutti possiamo intuire i tantissimi sprechi. E mi chiedo anche chi
saranno stati i geniali proponenti di tali macabre soluzioni, sicuramente
encomiati e promossi. L’espianto di cornee o trapianto di organi. Penso che
ognuno possa di sua volontà disporre dell’uso dei propri organi una volta
defunto. Penso però che non si possa liberamente disporre di un corpo che non
ci appartiene senza questa precisa volontà. Se poi questo si verifica con
l’abuso, la disonestà, la mancanza di scrupoli — non certo per umanità ma per
denaro — allora siamo allo stesso livello dei profanatori di tombe.
So di essere molto ignorante, e pochissimo conosco la
filosofia e teologia, e quanto sto per dire è più intuizione che conoscenza.
Sento il profondo mistero che circonda la vita e la morte, l’inizio e la fine,
oppure derivazione e continuazione, l’immenso e profondo rapporto fra uomo e
universo, la sua creazione e il suo divenire, la potenza di un grande
architetto dell’universo. Da dove veniamo? dove andiamo? Per questo non so cosa
sia lecito fare per difendere e prolungare la vita umana, o come dovremmo
vivere staccandoci, con meditazione, da quanto è esclusivamente terreno e
materiale. Per questo, scienza, medicina, biogenetica, chimica, che passi
immensi hanno pur compiuto con l’intelligenza dell’uomo, molto spesso, se
questo stesso uomo ignorante delle leggi superiori ha contribuito a
deteriorare, depistare, distruggere gli obiettivi essenziali per un vero
progresso non esclusivamente tecnologico o economico, ma etico e spirituale.
Nella valutazione complessiva di tutta la lunga vita di Voltaire nonché della sua articolata e ponderosa opera, si può osservare un aspetto di esse poco considerato anche se non precisamente marginale, e cioè il rapporto che ebbe con il potere suo proprio o di altri nei suoi confronti, considerato come influenza prepotente sul comportamento di altre persone o sul modo di pensare di esse.
In realtà Voltaire, come vedremo, ebbe un lunghissimo tirocinio durato molti
anni, nel quale educò la facoltà principale con la quale poté infine esercitare
un suo personale potere e cioè il suo formidabile intelletto, mentre per tutta
la vita ebbe in odio l’abuso del potere meramente materiale.
Già a 18 anni dopo la rappresentazione dell’«Œdipe il
cui successo gli valse l’ingresso nell’alta società, ebbe a sperimentarlo
grazie al Cavaliere di Rohan che, infastidito dai suoi sarcasmi, lo fece
bastonare dai suoi servi. Come risarcimento Voltaire, che aveva osato sfidarlo
a duello, fu rinchiuso per sei mesi alla Bastiglia. Irritato contro un paese
dove il privilegio poneva tanta diversità tra gli uomini (e dopo lo scarso
successo della «Henriade») emigrò in Inghilterra dove i suoi talenti letterari
trovarono un largo riconoscimento e gli procacciarono appoggi finanziari da parte
del Re Giorgio I e della Principessa del Galles.
Dopo il suo esilio dalla Francia la vita di Voltaire
si può dividere all’ incirca in quattro periodi: il suo soggiorno in
Inghilterra, decisivo per la sua formazione intellettuale, il suo soggiorno
presso M.me du Châtelet; la sua permanenza presso il Re di Prussia e la sua
apoteosi finale di grande apostolo della tolleranza e di formatore di tutto il
pensiero illuminato occidentale dell’epoca. Il soggiorno ingl+e determinò la
sua carriera di filosofo e di polemista: egli penetra, vivamente ricercato per
il suo spirito libero, nel circolo di Lord Bolingbroke qui frequentando Pope e
Swift e studiando a fondo Newton. Tornato sul continente si stabilisce in
Lorena presso la Marchesa du Châtelet e con essa, dama d’ingegno e spirito
appassionato di certezze scentifische, approfondisce la matematica, la
geometria, la meccanica e la fisica e qui scrive «Les elements de la
philosophie de Newton» e le «Lettres sur les Anglais». E questo il periodo
decisivo della sua formazione mentale: cessa di essere un talento puramente
artistico e letterario e diviene un polemista formidabile cominciando la sua
battaglia teista contro i teologi e storici ortodossi.
Nel 1740, intraprende un viaggio alla corte di
Federico Il, ove tenta di stabilire contatti diplomatici d’alleanza tra Francia
e Prussia contro l’Austria. Quindi, grazie a M.me de Pompadour, entra tra gli
Immortali dell’Accademia di Francia, poi, nel 1750, alla morte di M.me du
Châtelet, si trasferisce a Berlino presso Federico II il re che attirava presso
di sé i più brillanti ingegni scentifici d’Europa e qui, provvisto di una
congrua pensione, occupa l’appartamento accanto al Re e riceve un’accoglienza straordinaria.
Durante questo periodo Voltaire è quanto mai vicino
all’esercizio più assoluto del potere e crede di poterne influenzare le scelte
attraverso il dominio della ragione. Bruscamente però scoppia la rottura:
gelosia e pettegolezzi intorbidano i rapporti tra il Re e il filosofo che
sollecita ed ottiene il suo congedo.
Tornato in Francia attraverso varie peripezie, e dopo
essere stato arrestato a Francoforte, non vi trova tutta la libertà di cui ha
bisogno e, anche se adulato da grandi e da ministri, nel 1759 va a stabilirsi a
Ferney assieme a sua nipote, M.me Denis.
In quel tempo non era permesso a nessun cattolico
stabilirsi a Ginevra né nei Cantoni protestanti svizzeri ma, con un
atteggiamento sintomatico nei confronti del potere costituito, egli volle «
acquistare terra nei soli paesi della terra ove non è permesso averne».
Arricchito ormai da lauti guadagni, pensioni e provvigioni
pagategli da vari principi d’Europa, egli poté installarvisi da gran signore,
tenere una propria corte e divertire gli ospiti con ingegnose e riuscite
rappresentazioni teatrali. La sua fama è arrivata al colmo, i sovrani e l’alta
nobiltà gareggiano nel corteggiarlo ed il suo intervento nei processi Calas
(«Traité sur la tolerance») e La Barre ha per conseguenza di ottenere la
revisione di ingiuste sentenze. L’opera capitale di questo periodo è il
«Dictionnaire philosophique», i} testamento intellettuale di Voltaire, la sua
battaglia di mezzo secolo contro l’intolleranza, il fanatismo, l’autorità, i
dogmi, il miracolo, le falsificazioni delle leggende e delle tradizioni.
Nel frattempo la cacciata dei Gesuiti dalla Francia
e dalla Spagna ha privato l’ortodossia del suo più valido baluardo: Voltaire
non parla più da sbandato oppositore, ma da capopartito e da membro della società
dei teisti e dei’ Liberi Muratori, anche se la sua iniziazione alla Massoneria
avverrà solo alla vigilia della sua morte.
Da Ferney egli regna. Negli ultimi venti anni della
sua vita Voltaire diventa il riconosciuto pontefice dei lumi della tolleranza e
della filantropia.
Dal suo comodo
castello, irraggiungibile alle persecuzioni dei governi, corrispondente
ricercato di monarchi, principi e primi ministri, egli instaura nel mondo la
sovranità tutta nuova dell’opinione e dell’intelletto. Da Ferney egli dirige la
battaglia sempre più accanita contro i Gesuiti e a favore delle libertà
giurisdizionali, incoraggia e stimola gli enciclopedisti di Parigi e cementa la
compattezza della dilagante organizzazione dei Liberi Muratori. Inoltre
moltiplica le esortazioni e gli incitamenti ai ministri delle corti di Francia,
di Spagna, di Prussia e d’Austria dirette a «écraser l’infame», corrisponde
fittamente con il Re Cristiano di Danimarca, con il Conte di Aranda, con i
Duchi di Choiseul e di Richelieu, con Federico il Grande, ritornato suo amico e
ardente estimatore.
La lotta in favore della tolleranza e dei lumi si fa
sempre più intensa e serrata: egli che aveva dedicato «Mahomet» al Papa
Benedetto XIV, ora lancia strali polemici sempre più affilati contro il Cristianesimo,
esercita il suo impero filosofico su mezza Europa; Federico II e Caterina di
Prussia s’inchinano (per lettera) al sovrano signore della opinione; il Re
Cristiano, la Duchessa di Sassonia Gotha, la Margravia d’Assia, il Duca di
Richelieu, sollecitano la sua approvazione e il suo consenso alle loro riforme
legislative: un suo epigramma o una sua lettera colmano di gioia i circoli
aristocratici illuminati delle capitali europee. Il «morente» di Ferney sembra
inesauribile di brio, d’invenzione, d’eloquenza seria e di grazia frivola.
Infine cedendo alle pressioni degli amici, nel marzo
del 1778 si reca ad assistere a Parigi alla rappresentazione dell’«lrène»: un
delirio immenso circonda la sua persona: la sua fibra soccombe sotto il peso
degli allori e a Parigi egli muore il 30 maggio 1778.
Roma e il Rinascimento –
Parte Seconda di Amarilli
Il primo atto del Pontefice dopo il suo ritorno a
Roma fu la promulgazione — 18 luglio 1511 — della Bolla Sacrosantae, con la
quale convocava un concilio generale nella Basilica del Laterano, e colpiva con
anatemi tutti coloro che avrebbero partecipato alla riunione scismatica di
Pisa. Era come gettare lo scompiglio fra i dissidenti e privarli di ogni
pretesto di agitazione. Da quel giorno, infatti, il concilio di Pisa — il
«conciliabolo» come lo si volle definire — perdette ogni ragione d’essere,
canonica o logica, ed ebbe un’esistenza fittizia e faziosa. Composto quasi
esclusivamente da francesi, ripudiato dalla maggior parte del mondo cattolico,
malvisto dalle popolazioni delle città dove avrebbero tentato di riunirsi,
passerà successivamente da Pisa a Milano, da Milano ad Asti, da Asti a Lione, e
finirà di scomparire fra le nebbie del Rodano. Si sarebbe potuto credere che
dopo la catastrofe di Bologna Gian Giacomo Trivulzio avrebbe colto un’occasione
così favorevole per marciare direttamente su Roma, ma si fu ben presto
rassicurati. Lontano dal voler spingere la sua vittoria fino all’estremo
limite, Luigi XII richiamò il suo maresciallo a Milano ed inviò un parente prossimo
del Papa, un Orsini, con proposte di pace per il Vaticano, proposte stranamente
moderate. E che, malgrado il sinodo di Tours, gli scrupoli di Chaumont erano
condivisi da molti. E pure, troppo vincendo e troppo estendendosi in Italia, il
re cristianissimo rischiava di risvegliare la gelosia e la coscienza di altri
principi cattolici. Già l’anno precedente, a Blois, ove si trovava in missione
presso la corte di Francia, Machiavelli, non certo sospetto di tenerezza verso
il papato, aveva fatto la maliziosa osservazione «che non c’era un pretesto più
honesto da usare contro un principe che dichiarare di voler difendere contro di
lui la Santa Chiesa e che il re, in questa guerra, potrebbe tirarsi addosso
tutto il mondo».
Giulio II colse sollecitamente l’apertura francese,
ma solo per guadagnare tempo, ricomporre la sua armata, confermare il patto con
gli svizzeri e negoziare con tutti gli Stati ostili alla Francia, specialmente
con la Spagna e l’Inghilterra.
* Per la prima parte v. Delta 35, p. 37 sgg.
I negoziati furono condotti con una velocità
sorprendente per l’epoca. Al termine di sei settimane, verso la metà di agosto,
gli articoli principali della Santa Lega erano già fissati ed attendevano
soltanto la ratifica solenne.
Per il resto
nulla di cambiato nella vita del Papa durante queste sei settimane critiche,
angosciose. I suoi pasti sono sempre molto abbondanti, copiosamente innaffiati
da un certo vino forte e spesso; va a caccia, prende fresco nelle ville dei
dintorni. «E una cosa terribile como manza Sua Santità», scrive il 12 luglio
1511 un certo Grossino a Isabella Gonzaga marchesa di Mantova. (Grossino era
domestico di suo figlio Federico, che viveva allora a Roma ed era alloggiato al
Belvedere) (Ludovico Domenichi, Facetie, motti e burle, Venezia 1584). In una
delle camere decorate per lui da Raffaello, il Papa si è fatto rappresentare da
un lato mentre assiste alla messa in ginocchio, e dall’altro al ritorno dal
Belvedere, portato dai palafrenieri. Questo secondo ritratto era molto più colorito
del primo, e per questa diversità molti criticarono l’opera di Raffaello. Ma
Marcantonio Colonna rispose che si sbagliavano tutti e che Raffaello «aveva
servato bene il decoro essendo il papa sobrio alla messa e colorito al ritorno
dal Belvedere, dopo aver bevuto in compagnia del signor Federico, Sua Santità
era pieno di allegria ogni volta che abbatteva un grosso fagiano; lo mostrava
allora a tutti, parlando e ridendo molto…» «Oggi 25 luglio il papa è andato
alla vigna di messer Agostino Chigi (La Farnesina) e lì è rimasto tutto il
giorno, vi ha dormito e pranzato. E un bel palazzotto ma non è ancora finito,
molto ricco di ornamenti vari, soprattutto di marmi magnifici e di diversi
colori. Il signor Federico ha mangiato con il papa ed ha recitato per lui una
egloga latina Era già la seconda visita che
il papa faceva in quel mese al fortunato proprietario del palazzotto e si pensa
che queste visite non fossero del tutto disinteressate. A quell’epoca il papa
ha avuto dal potente banchiere senese un prestito di quarantamila ducati,
lasciandogli in pegno la celebre corona pontificia di Paolo II, IL REGNO, come
la si chiamava per eccellenza. Ora è precisamente nell’intervallo fra queste
due visite che Grossino scrive alla marchesa di Mantova, senza nulla sapere
della transazione finanziaria: «Sua Santità prova gran piacere a contemplare i
gioielli: ieri si è fatto portare da Castel Sant’Angelo i due REGNI, uno del
valore di duecentomila ducati e l’altro di centomila. Credo che non vedrò mai
più gioielli così belli, con tante perle e pietre preziose…
L’anno seguente, dicembre 1512, Giulio II,
vittorioso e trionfante, esigerà la restituzione del suo REGNO, semplicemente
incaricando il bargello d’impossessarsi del pegno e, in mancanza di ciò, della
persona stessa che lo deteneva. Messer Agostino Chigi dovette constatare in
quel giorno che i prestiti di Stato, anche se su pegno, non costituiscono il
più sicuro degli investimenti.
Al suo rientro a Roma Giulio Il pensa spesso alle sue
collezioni. Si occupa della sistemazione delle sue anticaglie nello splendido
cortile costruito dal Bramante. «Il Papa, — dice una lettera di Grossino del 12
luglio — ha fatto mettere al Belvedere un Apollo che è giudicato bello come il
Laocoonte». Più tardi fa trasportare «Il Tevere» (oggi al Louvre) e la «
Cleopatra». Durante questo stesso mese di luglio posa per il suo ritratto
nell’affresco dei «DECRETALI», il 16 agosto Grossino parla già incidentalmente
della «camera dove Sua Santità è dipinto da Raffaello al naturale con la barba»;
va a vedere i lavori di Michelangelo alla Sistina e ottiene dall’artista che
con l’avvicinarsi della grande festa della Vergine la cappella sia
temporaneamente liberata dalle impalcature e resa al culto.
Il 17 agosto, dopo una caccia a Ostia, il Papa viene
colpito da febbre perniciosa. Lo si crede perduto. La notizia della sua morte
si spande nella città, ed allora si verifica un fatto strano, fantastico. Gli
eredi dei grandi nomi feudali — Colonna, Orsini, Cesarini, Savelli ecc. —
salgono in Campidoglio ed invitano il popolo romano a riprendersi le sue
antiche libertà. In una arringa appassionata e caratteristica dello spirito che
animava questa ipocrita rivendicazione dei diritti del popolo, il giovane
Pompeo Colonna, vescovo di Rieti, abate di Subiaco e di Grottaferrata, (è lo
stesso Pompeo Colonna che più tardi, come cardinale, prelude con l’imboscata
del 20 settembre 1526 al grande sacco di Roma) — rintraccia il vergognoso
regime èotto il quale è caduta la gloriosa repubblica che un tempo ha dominato il
mondo. Già i due conservatori di Roma, Altieri e Stefaneschi, propongono il
ripristino della Repubblica, il riarmo del popolo e l’occupazione di Castel S.
Angelo, quando improvvisamente arriva dal Vaticano la notizia che la supposta
agonia del Papa non era che una sincope e che il rabbi (il medico ebreo di Sua
Santità) dà ancora delle speranze. Subito la piazza si svuota, i nobili tribuni
si disperdono in tutte le direzioni. Pompeo Colonna cerca rifugio a Subiaco,
Orsini fugge in Francia.
Si era cercato di
nascondere al Papa la folle giornata del Campidoglio, tuttavia ne venne a
conoscenza; seppe anche che molti cardinali (Grossino ne conta sino a 15)
facevano parte del complotto dei baroni. Eppure, questi baroni romani li aveva
liberati dalla sanguinosa tirannia dei Borgia e più d’uno di questi Colonna e
Orsini gli erano vicini per legami familiari. E che dire di quei membri del
Sacro Collegio di cui alcuni prendevano apertamente parte al «conciliabolo» di
Pisa e di cui altri ammutinavano la città contro il Sovrano Pontefice! Egli si
vedeva tradito da coloro che più gli dovevano gratitudine e affetto. Il suo più
prossimo parente, il duca di Urbino, lo aveva dovuto scomunicare e sottoporre a
giudizio per un crimine spaventoso. Sentendosi prossimo alla fine lo aveva
assolto e riammesso al suo capezzale, senza tuttavia cessare di diffidare di
lui sino alla fine.
Dei volti che circondavano il suo letto di dolore uno
solo non gli fu sospetto: quel giovane Federico, il cui nome è stato spesso
pronunciato, ma del quale rimane ancora da spiegare la presenza al Belvedere.
Francesco Gonzaga, marchese di Mantova e uno dei capi della Lega di Cambrai,
era stato fatto prigioniero dai veneziani nella battaglia di Legnano
nell’agosto 1509. Sua moglie, la celebre Isabella d’Este Gonzaga, dopo essersi
rivolta a tutti i potenti della terra — all’imperatore, al re di Francia, fino
al Gran Turco — finì per comprendere che solo Giulio II godeva sufficiente
credito presso la Signoria di S. Marco per ottenere la liberazione del temuto
capitano. L’ottenne infatti, nel luglio 1510. Ma Isabella aveva prima dovuto
consentire che suo figlio Federico, di 10 anni, dimorasse presso il Papa come
ostaggio, garante della futura condotta del marchese. Non c’è da indignarsi
della mancanza di generosità del Papa! Il «cavalleresco» Massimiliano e Luigi
XII Padre del Popolo avevano fatto alla povera madre la stessa richiesta
impietosa, come traspare dalle sue desolate lettere. Questi uomini del
Rinascimento prendevano le loro precauzioni.
Nell’estate del 1510 il piccolo Federico venne
dunque a Roma con molti domestici (Grossino vi faceva parte); alloggiò al
Belvedere presso il Papa, e nulla venne risparmiato onde ricevesse la più
brillante educazione, secondo le idee del tempo. Educazione ben singolare,
tuttavia, come risulta da una lettera di Stazio Gadio al marchese di Gonzaga
(11 gennaio 15 13) in merito ad una cena presieduta dalla signora Albina,
cortigiana romana, alla quale assisteva Federico, allora di appena dodici anni.
Il Della Rovere nutrì grande affetto per il
fanciullo. Lo fece venire a Bologna per qualche mese, durante la campagna della
Mirandola. Bibbiena e Molza furono i suoi precettori. A Roma lo conducevano
alle loro caccie, nelle loro villeggiature, gli facevano recitare versi durante
i pasti, giocavano con lui al tric-trac a volte fino alle quattro del mattino.
Al Papa dispiaceva di non avere una nipote per fargliela sposare più tardi.
«Sua Santità ha detto che vuole che Raffaello faccia il ritratto del signor
Federico nella camera in cui è rappresentato in grandezza naturale con la
barba» — scrive Grossino il 16 agosto, vigilia del giorno in cui il Papa fu
colto dal suo pericoloso accesso di febbre. Giulio II non è mai stato un malato
rassegnato e docile: lo fu meno che mai durante questa crisi del mese di agosto
1511, che l’aveva colpito a seguito di tante scosse. Si dimenava, bestemmiava,
minacciava di scaraventare i medici e le medicine dalla finestra: «Ebrei
marrani e miscredenti». Rifiutava ostinatamente ogni cibo, e si dibatteva con
una violenza che era la disperazione di chi gli stava intorno. Solo il piccolo
Federico riusciva a calmarlo, a farlo ragionare, a fargli ingerire un brodino,
per amor suo e della Madonna di Loreto «Sunt lacrimae rerum». E il pensiero si
ferma emozionato di fronte a questo pontefice terribile che, nella sua estrema
disperazione, non si arrende che alle preghiere di un fanciullo di undici anni,
suo prigioniero, suo ostaggio.
A Roma si dice ad alta voce che se il Papa la scampa
lo deve al Signor Federico (Julian Klaczro, Roma e il Rinascimento).
Egli la scampa. Il 30 e il 31 agosto si faceva già
musiëa nella sua stanza ed egli la gustava come non mai. Si ristabilì poco a
poco ed allora molti cardinali incominciarono a tremare. Lo si deduce
dall’estratto di una incredibile lettera inviata il 7 settembre 1511 alla
marchesa di Mantova da Ludovico Canossa, vescovo di Tricarico: «La morte di
Perottino (un piccolo cane che aveva regalato alla marchesa) mi ha causato un
grande dolore: avevo tuttavia sperato di potermene consolare con la morte di un
altro cane, molto meno utile al mondo». «Essi morivano man mano ch’egli
ritornava in vita», scrive il protonotaro Lippomano.
Tuttavia, né
allora né dopo il papa cercò gli autori della farsa capitolina né pensò di
vendicarsi. Non pensa che alla sua grande impresa contro Luigi XII. E il 5
ottobre può finalmente celebrare una messa solenne a S, Maria del Popolo e
annunciare la formazione della Santa Lega. La Lega si dichiarava contro il
concilio di Pisa e si impegnava a restituire immediatamente alla Santa Sede
«tutti i luoghi che le appartenevano». Il trattato aveva ricevuto la firma del
re cattolico e della Repubblica di S. Marco, l’adesione del re d’Inghilterra
era assicurata, e come ultimo tratto stucchevole, la facoltà di entrare nella
nuova alleanza era espressamente riservata all’imperatore, l’impagabile
Massimiliano, che in quel momento sognava di cingere la tiara! Giulio II
conosceva bene il suo uomo: «E semplice come un bambino appena nato», aveva
detto di lui già nel 1509, all’ambasciatore di Venezia.
La Francia invasa a sud dagli spagnoli, a nord dagli
inglesi, e le sue forze militari in Italia schiacciate sotto l’attacco
simultaneo degli svizzeri, dei veneziani, dei soldati del papa e di quelli del
viceré (spagnolo) di Napoli: questo il seducente quadro che si presentava al
Della Rovere in questo mese di ottobre 1511.
Gli inizi della Lega, tuttavia, furono ben lontani
dal rispondere a queste speranze. Gli svizzeri tradirono, proprio come l’anno
precedente, malgrado le promesse fatte e gli acconti ricevuti. Discesi dal San
Gottardo a metà novembre in numero di ventimila, erano avanzati senza ostacoli
fino alle porte di Milano. Ma, attratti dal denaro francese, col pretesto che
mancavano i cannoni, del ritardo del soldo, delle condizioni disastrose delle strade
e del rigore della stagione, riattraversarono le Alpi da Bellinzona (27
dicembre). I veneziani; dal canto loro, invece di raggiungere celermente gli
svizzeri al loro arrivo in Lombardia, persero del tempo prezioso a disputare
agli imperiali qualche piazza insignificante nel veronese. Enrico VIII
d’Inghilterra ripudiava, è vero, il Concilio di Pisa, e dichiarava di avere in
orrore quello che da vicino e da lontano assomigliava ad uno scisma (era lo
stesso Enrico VIII che dopo…): voleva tuttavia ricevere un ultimo acconto
della pensione annuale che la Francia gli doveva in virtù del trattato di
Etaples. Infine, Ferdinando il Cattolico nulla fece sui Pirenei e il suo
luogotenente a Napoli, Cardona, si rimise in marcia troppo tardi per andare ad
assediare i Bentivoglio a Bologna in accordo con le truppe della Santa Sede.
L’orizzonte per Giulio II si incupiva sempre più, ed i romani prevedevano una
rivincita francese in primavera.
In effetti, Luigi XII aveva tenuto un atteggiamento
di attesa durante i primi mesi della Santa Lega, e nel dicembre 1511 aveva
preferito servirsi più dell’oro che del ferro per portare gli svizzeri a
Bellinzona. Ma non intendeva per questo sottomettersi alle esigenze di una
coalizione che si dimostrava così lenta ad agire. Continuò l’opera del
«conciliabolo», fece stampare una medaglia con la scritta «Perdam Babylonis
nomen! » e influì sull’opinione pubblica a mezzo di scrittori da lui
prezzolati. Durante il carnevale del 1512, quando l’armata francese in Italia
riprendeva l’offensiva contro i papali, «Les Enfants sans Souci» rallegrarono
il pubblico parigino con una rappresentazione che aveva per titolo «L’uomo
ostinato», e per autore Pierre Gringoire, panfletista ordinario di Sua Maestà
Cristianissima. L’uomo ostinato era Giulio II, che compariva sulla scena
affiancato da Simonia e Ipocrisia, mentre la Punizione teneva la folgore
sospesa sulla sua testa. Sul teatro della guerra il ruolo di Punizione toccÒ ad
un giovane ventitreenne, che si rivelò improvvisamente un eroe. Secondo la
magnifica definizione del Guicciardini «fu grande capitano prima ancora di
essere soldato». Gaston de Foix non attese la bella stagione per sbloccare
Bologna (15 febbraio 1512), trionfare e morire nell’epica giornata di Ravenna
(11 aprile). A due leghe dall’antica capitale di Teodorico e di Galla Placidia,
un piccolo monumento indica il luogo di questa battaglia memorabile, la più
sanguinosa che l’Italia avesse conosciuto dalla caduta dell’impero. Un terzo
dell’armata vittoriosa e due terzi dell’armata vinta perirono nella domenica di
Pasqua del 1512. Si dice che ad un certo momento di questa terribile mischia la
formidabile artiglieria del duca di Ferrara avrebbe fatto carneficina senza
distinzione di francesi e spagnoli, amici e nemici e che, ad una osservazione
rivoltagli a questo riguardo il prezioso alleato di Luigi XII avrebbe risposto:
«Lasciate fare, il nemico si trova sia da questa parte che dall’altra». Ariosto
avrebbe visitato i luoghi il giorno successivo alla carneficina:
Io venni dove le campagne rosse eran del sangue barbaro e
latino che fier a stella dianzi a furor mosse; e vidi un morto all’altro sì
vicino che, senza premer lor, quasi il terreno a molte miglia non dava il
cammino,
Il fiore della
cavalleria francese fu falcidiato. Il re aveva vinto ma la nobiltà francese
aveva perso. Dalla parte della Santa Lega quasi tutti i capitani della nobiltà
furono fatti prigionieri: Fabrizio Colonna, Pedro Navarro, Juan Cardona,
Pignatelli, Bitonto ed il marchese di Pescara, lo sposo così tenacemente amato
(e mediocremente simpatico) da Vittoria Colonna, e futuro vincitore di
Francesco I a Pavia. Fra i prigionieri si trovava anche il nuovo Legato per la
Romagna (succeduto ad Alidosi) e il cardinale Giovanni De Medici. Entro un anno
sarà Leone X. Ha assistito all’azione in groppa ad un cavallo bianco, in abito
sacerdotale. E su questo stesso cavallo che vorrà fare il suo famoso giro di
possesso nel 1513. E stato dipinto da Raffaello nell’affresco di Attila.
A Roma il terrore fu indicibile ed i cardinali si
recarono in gruppo dal pontefice per implorarlo in ginocchio di accettare le
condizioni della Francia. «Sua Santità ha fatto molto per l’esaltazione della
Chiesa e la libertà d’Italia, e la sua gloria sarà imperitura. Ma in questa
impresa la volontà divina gli è stata contraria e si è manifestata con dei
segni che non si possono misconoscere. Perseverare più a lungo contro la sua
volontà sarebbe portare la chiesa alla totale rovina…
I membri del Sacro Collegio, prosegue il
Guicciardini, insisterono anche sui gravi pericoli all’interno, sulla crescente
turbolerrza dei baroni ed il malumore delle folle.
Da metà marzo, in effetti, il papa aveva ritenuto
prudente andare ad abitare a Castel S. Angelo. Dovette promettere di iniziare i
negoziati con il re cristianissimo: ma prevenne subito gli inviati di Spagna e
della Repubblica di S. Marco che egli non cercava che a guadagnare tempo e che
restava indissolubilmente attaccato alla Lega. Eppure, poche settimane dopo la
grande contestazione dei cardinali, Luigi XII non possedeva più un solo
villaggio nella penisola e Giulio II prendeva il titolo di liberatore d’Italia.
La trattativa dell’«Uomo Ostinato», così mal riuscita nell’autunno 1511, fece
meraviglie nella primavera del 1512. Ventimila svizzeri discesero nuovamente
dalle loro montagne, ma nel veronese questa volta, lontani dal denaro tentatore
dei francesi e nel mezzo dei veneziani che avevano fretta di lanciarsi contro
il nemico (maggio 1512). Per non essere privato della sua base al nord l’armata
di Gaston de Foix, comandata ora da La Palice, dovette evacuare in tutta fretta
la Romagna e riguadagnare la Lombardia. Ben presto abbandonava anche questa
provincia per correre, sperduta, decimata, in difesa del suolo francese invaso
nella Navarra dagli spagnofi, e in Normandia dagli inglesi.
L’annientamento così improvviso e totale della potenza
francese in Italia, all’indomani della straordinaria vittoria a Ravenna aveva
del prodigioso. La cronaca personale del maestro delle cerimonie alla corte
vaticana è una testimonianza preziosa, più probante di qualsiasi cronaca o
panegirico del tempo. Questo scrivano del protocollo e dell’inventario cambia
improvvisamente stile quando inizia il capitolo «De Gallis expulsis». Si
esalta, esulta, deborda; lancia grida di gioia selvaggia ad ogni rovescio di
questi Galli «barbari, profanatori del tempio, vero flagello della
cristianità». Sotto i colpi di un tale disastro la Francia perde tutti i suoi
partigiani nella penisola: Bologna caccia ancora una volta i Bentivoglio; Milano
acclama nuovamente il nome degli Sforza, già così aborrito, Genova quello dei
Fregoso. «E la natura di questo popolo d’Italia di così compiacere ai più
forti» aveva detto Commynes, il grande conoscitore d’uomini e di nazioni, morto
l’anno precedente. Anche il duca di Ferrara non elude questa regola: munito di
un salvacondotto si reca il 23 giugno a chiedere l’assoluzione a Roma. La
presenza nella città eterna dello scomunicato nel 1510 non mancò di produrre
viva impressione, Si sapeva che Alfonso d’Este era uno dei capitani più
coraggiosi dell’epoca. Si giungeva persino ad attribuirgli la gloria della
giornata di Ravenna, ma si sapeva anche che nessuno più di lui aveva fatto
tanto per attirarsi l’odio del Papa. Era il genero di Alessandro VI, il cliente
di Luigi XII, e nel corso di due anni aveva avuto una larga parte in tutte le
sconfitte ed umiliazioni del Papa. Si raccontava che aveva fatto fondere la
statua di Giulio II a Bologna, opera di Michelangelo, trasformandola in un
pezzo di artiglieria. L’aveva battezzata Giulia e collocata nel suo castello a
Ferrara. Così i romani si ripromettevano uno spettacolo straordinario il giorno
dell’assoluzione del duca: avrebbe ricevuto le vergate alla porta della
basilica, in ginocchio, la corda al collo e in camicia da penitente, Ma la
folla, che sin dal mattino aveva gremito l’immensa piazza San Pietro venne
crudelmente delusa: la cerimonia avvenne all’interno del Vaticano, nella forma
meno crudele possibile.
La questione
politica era ben più difficile poiché Giulio II manteneva sempre il diritto
della Santa Sede sui territori ferraresi. «Ho dato al Duca un salvacondotto per
i suoi Stati» dice all’inviato veneziano Foscari. Fu delegata una commissione
di sei cardinali per trattare questo punto delicato con Alfonso d’Este.
Nell’attesa costui riempiva il suo tempo esaminando le bellezze della città,
fra cui «le camere di Papa Alessandro che sono tutte molto belle », e che
dovevano avere un interesse particolare per il marito di Lucrezia Borgia. «Andò
un giorno, con il permesso del Papa», (è sempre Grossino che scrive) «a
visitare la Cappella Sistina e il Duca si intrattenne a lungo con Michelangelo
a guardare queste figure, non potendo saziare i suoi oc-
Al termine di quindici giorni improvvisamente si
impaurì e fuggì da Roma, protetto dai Colonna. Sosteneva che il Papa minacciava
la sua libertà, ciò che Giulio II ha sempre negato. Ma dopo un simile evento,
reso più grave dall’intervento dei Colonna, il pontefice non ebbe più il minimo
riguardo verso l’uomo di cui aveva imparato a conoscere il cuore atroce,
implacabile. Non si sa cosa esattamente abbia fatto il fuggiasco durante i tre
mesi che seguirono la, sua evasione, né per quale via sia rientrato nel suo
ducato. Una lettera del]: Ariosto, suo compagno di viaggio, ci dice solamente
che il 1 0 di ottobre era nascosto da qualche parte nei dintorni di
Firenze.
Il cantore delle dame, dei cavalieri, delle e degli amori ha decisamente avuto
sfortuna con il grande papa ligure. Aveva compiuto presso di lui diverse
missioni: nel 1509-1510, nell’interesse del duca Alfonso e di suo fratello, il
cardinale Ippolito, ma né le persone né le cause da lui perorate erano di tale
natura da guadagnargli il favore del papa: gli venne addirittura intimato un
giorno di lasciare immediatamente la città, sotto pena di essere gettato nel
Tevere. Ritornato due anni più tardi sui bordi inospitali di questo fiume con
il suo principe invocante l’assoluzione, dovette seguirlo nella sua precipitosa
fuga di cui parla in una lettera del 1 0 ottobre 1512 diretta al
principe Luigi Gonzaga: «Sono uscito da cespugli e tane di animali, ed eccomi
in un ambiente umano. Dei pericoli corsi non posso ancora parlare. Non mi ha
ancora lasciato la paura, essendo ancora inseguito e braccato da segugi dai
quali Dio preservi! Ho trascorso la notte in un rifugio vicino a Firenze col
nobile mascherato, l’orecchio in ascolto e il cuore in tumulto». Il duca aveva
ancora il suo travestimento al suo arrivo a Ferrara (14 ottobre). Seppe che le
truppe della Santa Sede si erano nel frattempo impadronite della maggior parte
dei suoi possessi. Non gli restava che la capitale con Comacchio e Argenta.
Più fortunato del duca di Ferrara l’imperatore
Massimiliano, alleato di Luigi XII, era facilmente riuscito a riappacificarsi
con Giulio II. Dal 17 maggio faceva già virtualmente parte della Santa Lega ed
era avversario più o meno dichiarato del re cristianissimo.
Il Papa ebbe per lui tutte le indulgenze. Non esitò
ad accontentarlo a spese dei suoi amici veneziani e ad aggiudicargli diversi
territori della terra ferma. Egli sapeva quale fascino esercitasse il nome
dell’imperatore sugli spiriti, come questo nome fosse soprattutto
indispensabile per la riuscita del suo Concilio Lateranense! Poiché il Papa
aveva fedelmente mantenuto la promessa fatta al mondo cristiano l’anno
precedente e la battaglia di Ravenna non aveva ritardato che di quindici giorni
la solenne apertura della grande assemblea ecumenica, promessa con la bolla
Sacrosanctae per la primavera del 1512. Riunita tuttavia in un clima di
tormenta politica generale, senza la partecipazione della Francia e
dell’Inghilterra, l’augusta assemblea del Laterano non era composta che di
prelati italiani e difficilmente poteva pretendere di rappresentare la chiesa
universale. La situazione cambiò radicalmente quando l’imperatore Massimiliano
dichiarò di voler accedere alla Santa Lega. Quello stesso giorno — 17 maggio —
il Concilio, che era soltanto alla seconda seduta, venne prorogato fino al mese
di novembre, onde dare il tempo ai nuovi membri di arrivare.
Con l’avvicinarsi
dell’autunno il sinodo di Giulio II era già riconosciuto da tutti i paesi
cattolici ad eccezione della Francia, Spagna, Inghilterra, Scozia, Polonia,
Ungheria, Norvegia, Danimarca ecc. avevano successivamente fatto atto di
adesione e di obbedienza. Matthias Lang, vescovo di Gurk, il 4 novembre venne a
compiere lo stesso atto per conto della Germania e dell’Imperatore
Massimiliano. Il vescovo di Gurk, il Gurcense come lo si chiamava in Italia, fu
la grande curiosità di Roma in questo mese di Novembre, come lo era stato nel
mese di luglio il duca Alfonso d’Este. Ministro e principale negoziatore
dell’Imperatore Massimiliano per gli affari in Italia, Matthias Lang si era
fatto conoscere da questa parte delle Alpi per la sua alterigia ed insolenza.
L’anno precedente, a Bologna, aveva dichiarato essere al disotto della sua
dignità incontrarsi con una commissione di cardinali: egli, rappresentante del
sovrano più augusto del mondo, non poteva che trattare con il vicario di Gesù
Cristo in persona, davanti al quale intendeva stare seduto e con il capo
coperto. Veniva ora a Roma per fare, a nome dell’Imperatore, onorevole ammenda
per le molte bravate trascorse. Giulio II trovò stucchevole colmare
l’ambasciatore, così infatuato della sua importanza, di onori «principeschi».
Lo ricevette assiso sul trono in pieno concistoro; lo creò cardinale; gli
permise la strana fantasia di indossare il costume di cavaliere antico durante
le solennità più importanti, con grande costernazione del maestro delle
cerimonie e di molti dignitari della Chiesa.
Molti pensavano che il Papa andasse troppo oltre con
queste manifestazioni di benevolenza verso «il barbaro, figlio di un borghese
di Amburgo, ma non si tardò a comprenderne la ragione. Era il 3 dicembre,
giorno in cui il Concilio riprendeva nella basilica di S. Giovanni i lavori
interrotti nel mese di maggio. Il Papa, i cardinali, i vescovi, i generali
degli ordini ed i rappresentanti dei potenti erano tutti presenti. Apparve
Fedra Inghirami e diede lettura di una lettera secondo la quale l’imperatore
dichiarava la sua completa adesione al Concilio Laterano e la sua condanna
formale dei «conciliaboli» sostenuti dalla Francia a Tours ed a Pisa. Il buon
Massimiliano recitava il suo «mea Culpa». L’effetto fu immenso, trascinante.
Tutta l’assemblea intonò il Te Deum. Era in effetti la vittoria più
straordinaria che il papato avesse ottenuto dal tempo di Innocenzo III. Le
stanze del Vaticano ci presentano tre ritratti del papa ligure, tutti eseguiti
negli ultimi mesi del suo regno.
Nell’affresco dei «Decretali» Raffaello ha dipinto Giulio
II subito dopo il suo ritorno a Roma nel luglio 1511, e l’espressione triste ed
abbattuta dell’«uomo col mantello» ci dice che siamo all’indomani della
catastrofe di Bologna e dell’oltraggiosa sfida di Pisa. La «Messa di Bolsena»
ci mostra il capo della Santa Lega ancora grave e pensieroso, ma già fuori
dalle avversità e fiducioso nel suo diritto, che assiste in ginocchio al grande
miracolo. E non è a caso che l’artista ha collocato dietro il pontefice le
guardie svizzere, che sono state i veri salvatori della Santa Sede dopo la
battaglia di Ravenna. Infine, l’affresco di «Eliodoro» ci mostra un Rovere nel
pieno della forza e della potenza, lo sguardo dominatore ed il gesto imperioso.
Lo si direbbe portato in trionfo sulla sua sedia gestatoria per il Te Deum alla
Basilica di S. Giovanni. Ha schiacciato lo scisma di Pisa e fatto riconoscere
il suo Concilio; ha liberato l’Italia e ricacciato i «barbari» al di là delle
Alpi, ha ricuperato il patrimonio di S. Pietro; ha punito dapprima e poi
salvato in seguito la Repubblica di S. Marco, ha ristabilito i Medici a Firenze
e gli Sforza a Milano. E il signore e padrone del «gioco di questo mondo».