Se per tutti gli uomini ogni determinazione esistenziale
costituisce un dramma di comprensione e di autentica motivazione positiva,
quanto più imperscrutabile deve risultare il tentativo di percorrere i momenti
del cammino iniziatico di un artista; il dissidio sempre sensibilmente acuto
tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte in chi è stato scelto e si è scelto
per la ricerca della Vera Luce costituisce il più problematico dei sottintesi;
e quando l’eco di qualche passo iniziatico sembra offrirsi all’assetata volontà
di intuizione, solo la poesia raccoglie il grande segreto della parola perduta,
si fa vita che affiora insieme all’infinito caos delle percezioni, che gioca
l’apocalittico mistero dei simboli e delle immagini.
Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il
poeta trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono
incasellati nella ” scienza/del dolore…” che mette
‘verità e lame”. . un conto/di numeri bassi che tornava
esatto,/concentrico, un bilancio di vita futura”.
di Gianni Rabbia
L’ artista
della parola è ferito, persino per una sorta di suprema vendetta olimpica
contro un Prometeo, dal destino del nomen-omen plautino.
Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del protagonista
di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di Victor Hugo
pubblicato nel 1 831 .
In Hugo l’affronto della bruttezza repellente fa
scatenare l’odio contro l’umanità “normale”. mentre il deforme è
fatto per amare, disperatamente ed intensamente.
Non
dissimile, pur nella banalità di questo accostamento, la concezione essenziale:
la vita è una continua purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli
proviene da una sorta di ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da
quello della Milano del 1943 sicuramente non si esce indenni, anche se
superstiti. Ma prima ancora, negli anni della scuola all’Istituto Tecnico
“Jaci” di Messina, la vita è un impetuoso correre verso un futuro,
magari anche manieristico, di impaziente apprentissage letterario. Così ricorda
Salvatore Pugliatti il sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si
parlava di letteratura, di poesia, di
politica.
Leggevamo
Dante, Pfatone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da
Rotterdam. gli scrittori russi (specialmente Dostojevskij; ma ci incantava
anche Andrejev… e Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”).
Leggevamo Baudelaire. il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero
i nostri numi. Intorno quegli anni — dal 1917 al 1920 e dopo — a Messina quelli
della generazione precedente la nostra, parlavano e scrivevano di codesti
poeti, dei “simbolisti” si diceva genericamente e impropriamente…
Serpeggiava tra codesti “simbolisti” messinei una vena di misticismo
e di esoterismo, che riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e
lontano, caratteri del simbolismo russo’ .
Quindi “misticismo ed esoterismo”: sono le vie
iniziatiche su cui costruiranno la loro opera Giorgio La Pira e Salvatore
Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia degli anni post-bellici e
prefascisti al soffocamento del provincialismi è possibile opporre la tensione
di un giovanile slancio intellettuale, slancio poi di tutta una esistenza.
Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni eccentriche: progetto di poesia la
vicenda quasimodiana, un progetto di santità la vicenda lapiriana. II Poeta e
il Santo: due vite parallele nella più piena accezione plutarchiana. Quasimodo
il “greco”, l’ intellettuale mediterraneo che trasfigura la propria
sicilianità a contatto con i mili e con l ‘ humus della civiltà classica; La
Pira il “romano”, che recupera tradizione e magistero della chiesa
cattolica attraverso la lezione del tomismo e del misticismo medievale».
Quasimodo giura sulla sua coscienza di uomo nato libero e
di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il grembiale nella officina Arnaldo
da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano era stato libero muratore.
Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo,
i Vittorini (Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una
collocazione professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata
con le vie ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo
verso nuove mete sociali, economiche, culturali. Mentre il
“progresso” batte alle porte di una regione disastrata dagli uomini e
spesso anche dalla natura, l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel
panorama variegato del decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 —
sebbene per pochi anni — aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura
latina ed anche dalle cose di Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale
misticismo oggettivistico c non è certo difficile trovare nel Pascoli, anche
lui Figlio della Vedova, intensi segni di affratellante e sofferto evangelismo
sociale.
Se alcuni passi sono connotabili sotto la dimensione delle
iniziazioni politiche, pur con ovvie differenze tra un giovanissimo La Pira
quasi
filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio
socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro
stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con
grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.
Per
Quasimodo massone, anche nella difficile lezione del suo pensiero di
“ermetico”. il concetto di popolo si modifica nel simbolismo talvolta
esasperato, alla ricerca di un legame di solidarietà critica con il mondo per
mezzo della “intelligenza laica”. In La Pira la solidarietà si farà
celebre con il suo farsi apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con
alle spalle i classici greci e latini oppure i classici della teocrazia
medioevale. Ma Quasimodo, segnato nei sotterranei della coscienza massonica con
minore traccia di umori religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un
desiderio infinito d’eterna presenza”, sceglie nel 193() con Acque e terre
e nel 1932 con Oboe sommerso la durezza di una diversa valenza spirituale: la
parola. Quella che in Oboe sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe
mi scarno”. La parola è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che
divenga cubica.
Scrive
Quasimodo il 19 marzo 1923 a La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro,
bestiale ed inutile, confortato soltanto dal tormento dell’anima. Da Ic aspetto
soltanto un po’ di speranza e la parola dello spirito. Salute c
fraternità”. E La Pira a QL1asimodo l’ 8 dicernbre 1927:”… la
potenza della parola. Essa ti serva, soprattutto, per imprigionare l’infinito
nei tuoi versi. Sii ladro delle gemme che splendono nella vita eterna; sia che
tu le rubi alla natura o al mondo morale, questo furto non dispiacerà la
giustizia di Dio. Il verso, io credo, quando è perfetto…, è un brano, ma
compiuto, dell’eternità… E per questo che la poesia — l ‘ arte in onore — non
perisce: ma sta, malgrado le vicende umane… Penso che tu potresti col tuo
verso — felice grimaldello che ti pennette di aprire le mistiche cose
dell’anima — racchiudere brani notevoli di mistero…”.
E Quasimodo risponde:
Si china il giorno
Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno, serrato ad ogni
luce.
Di te privo spauro, perduta strada
d’ amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.
T’ho amato e battuto; si china il
giorno e colgo ombre dai cicli:
che tristezza
il mio cuore di carne!
E ancora:
Spazio
Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io
evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’angeli morti
sorride.
Mi rompe. Ed
è amore alla terra ch’è buona se pure vi rombano abissi di. di stelle, di luce;
se pure aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.
Per poi gridare: “il Tuo dono tremendo/di parole,
Signore/sconto assiduamente».
Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir
Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella
essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la
chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non
essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione
consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la
tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia
dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il
termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione
dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia
equalitaria “pietra” parola» = “seme”. La pietra:
Naufrago: e in ogni sillaba
m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e
albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me
stesso brucato dal patire che m’asserena, profondità d’amore.
Il seme:
Alberi
d’ombre, isole naufragano in vasti acquari, inferma notte, sulla terra che
nasce: un suono d’ali di nuvola che s’ apre sul mio cuore:
nessuna cosa
muore, che in me non viva. Tu mi vedi: così lieve son fatto, così dentro alle
cose che cammino coi cieli;
che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che
dorme.
La parola è allora l’ignis sapientialis, il segno
geroglifico e sacrale che può stare tra la
‘gnosis” c la “pistis” del simbolo e dell’
allegoria. Non fu Gio•yanni Scoto Eriugena a coordinarle gerarchicamente,
assegnando al simbolo i valori dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento
meno certo della storia. della fede e della morale?
Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, ln attesa del
comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in
“Commiato” da Il porto sepolto:
Quando trovo in questo mio silenzio
una parola scavata è nella mia vita come un abisso.
Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia
con la prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione
iniziatica. Così per Thomas Mann in La montagna incantata: “La parola,
anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che
isola”. Quasimodo scopre in sé la vastità di un orizzonte da esplorare:
Le parole ci stancano, risalgono
da un’ acqua lapidata; forse il cuore ci resta, forse il cuore…
Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il
poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano
comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido
della poesia quasimodiana:
E quel gettarmi alla terra, quel
gridare alto il nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.
Ancora la
dolcezza della voce. anche tragica, dopo il silenzio:
Io pure
udivo un urlo talvolta rompere c farsi carne: e battere di mani ed una voce
dolcezze spalancarmi ignote.
Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente
interpretata nel suo etimo come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamente
alla concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale e del cosmo:
la coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della
luce è l’Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle
parole di Lao Tze, proprio il “silenzio’ .
Magistralmente
scrive il di Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare
o studiare i simboli esteriormente. freddamente… Il simbolo è cammino,
appoggio, scala a un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto,
esterno a tradursi in simboli, ma il mondo interiore che .li porta in
superficie. Alla meditazione applicata, agli elementi di un simbolismo
iniziatico si connette la filosofia del Silenzio”.
E quanto per
la filosofia del silenzio la massoneria si allinei autorevolmente con la storia
delle grandi società iniziatiche cc lo spiega almeno la lunga scuola che viene
dal Vêdânta indù c dal taoismo cinese. dallo zen nipponico, dai riti tribali
degli aborigeni australiani, dal totemismo degli indiani d’ America, dallo
sciamanismo delle comunità africane e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di
Occidente. La necessità del simbolismo ermetico di Quasimodo, ermetico perché
massonico e massonico perché ermetico, aderisce perfettamente ai modi di una
poesia che è dell’intimismo e dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo
che reclama una vacua e tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi
destini. L’ermetismo, nel complesso problema critico sull’ermetismo di
Quasimodo, è la ricerca di una via per il linguaggio come canto individuale. Ma
l’ermetismo, quando è, non si appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo
vale parecchio la cautela di leggerlo “problematicamente”. Non quindi
e solo alla insegna di un gusto, per analogie, metafore. sinestesismi,
aristocraticamente elaborato. alla Rimbaud per intenderci, teso verso
l’indefinibile assoluto.
In
Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si indaga sulla “poetica della parola”.
alla ricerca di un metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un
po’ arida della filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della
traduzione, alla scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece
apprendere da Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle
radici e al di sopra del l’ermetismo: l’ acuta sofferenza per uno stato di
crisi derivata dalla amara constatazione dell ‘ incapacità dell’uomo a
raggiungere e a conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine
in un universo ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e
liberticida, l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo, la sconsolata
aspirazione a qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana
esplorazione dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli
strati più profondi, oscuri e maoari irrazionali, l’unificazione
soggetto-oggetto, la esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di
rivolta nei confronti di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza,
ragione di vita e soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono
solamente scalpellate nei parametri dell’ontologia.
Poetica della parola. e non nominalismo. Ancora Macrì scrive:
“La parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di
valore cosciente, il desiderati”‘? finale. il significato catartico in cui
si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta l’interna corrente
della ispirazione e del “pathos”
Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il
ridere della gazza. nera sugli aranci, “forse è un segno vero della
vita”. bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel
“forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il
peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà
“La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:
Poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla
parola la limpida meraviglia di un delirante fermento.
Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia come la ricerca
di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca impetuosa
dell’uomo”.
Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta
una poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia
è via alla verità. colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del
pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per
questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo.
immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di
amore. di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i
veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella
quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In
una parola: il grande Sapiente.
Ma proprio quando il sentimento della solitudine sembra
scavare nel profondo della vocalità, si assiste con Quasimodo ad una evoluzione
che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia non stravolge il percorso
intellettuale, morale. artistico del poeta. che ha ben viva la lezione
massonica.
La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì
l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo
sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto
sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una
violenza estrema… La poesia della nuova generazione, che chiameremo sociale,
aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie;
scorre per larghi ritmi. parla del mondo reale con parole comuni’
Montale, in Satura, canterà:
Le parole
preferiscono il sonno nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate; le parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più
rari.
Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La
pietà”:
Ho popolato di nomi il silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per
cadere in servitù di parole?
Amore, ansia religiosa, nostalgia per il mito di una
Sicilia dell’infanzia non sono più i temi che da soli bastino a cantare la
condizione esistenziale. Si apre la poesia, massonicamente nutrita, verso una
dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di impegno per tutti.
La poesia ha quindi una possibilità in più, quella
rigenerati va come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua
missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino, cammino appunto
iniziatico, della redenzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c
solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.
Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa — in mezzo
a un cataclisma come la guerra — alla narrazione; si è ispessito l’impegno di
Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna
della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.
Ma neppure con questa nuova spinta ideale
il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasirnodo crede di poter
contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema autenticamente
antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal linguaggio alla
comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica delle realtà
sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano è
sottolineato non solo con i caratteri di
una trasformazione
stilistica o con un approfondimento tematico: il poeta è il politico, ma con
l’avvertenza che nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E
allora la traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente
massonico, tanto che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai
bombarda
menti — lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi
nell’uomo; non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi
esalta la necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il
contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma come filtro
interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi
parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si
è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vittima di uno scontro con la
famigerata banda Corridoni e vive dopo 1’8 settembre in una Milano babilonica,
tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è dei poeti
nei momenti tragici: mentre si muore ed anch’egli lotta per sopravvivere,
traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella geenna milanese
non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire la poesia:
Le spie non possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con
gli amici, né dire parole al cuore di nessuno.
La guerra e le traduzioni fanno ben capire come non vi
possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino dal punto di
vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più profondo del
verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento, un ricordo:
il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di esule. Così egli
e tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in nome di una
umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono nell’epico. Con in
più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco letterario, rimanendo
legato al mondo classico.
‘Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli
che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il
poeta un estraneo alla vita. uno che sale di notte le scalette della sua torre
per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è
finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”. Così scrive nel 1946, a pochi
mesi dalla sua Iscrizione al partito comunista italiano, con una evidente
coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed il politico, in un clima
in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano le più attente ed
attrezzate nel perseguire una politica culturale.
Il dibattito fu — come è ben noto — intenso: la formazione
solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in rotta di collisione con le
teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano soprattutto su Rinascita.
Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che portò alla chiusura de Il
Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di cultura che non intende
suonare il piffero della rivoluzione, trova già disimpegnato Quasimodo da
questa sua militanza politica. Avere “esigenze rivoluzionarie diverse da
quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell ‘uomo da
scorgere nell’uomo”, essere “proprio dello scrittore saper scorgere,
forse accanto alle esigenze che pone alla politica quell’in più delle esigenze
che pone la politica”: sono le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto
Quasimodo massone, un individualista come solo un poeta può esserlo, che
finisce amarxista per essere più profondamente un “liberal”, un
democratico che vede nel socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione
etica, ma da cui esige di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità
di gesti e di espressioni, i molti distinguo.
La ripresa post-bellica dei lavori
nelle officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore.
Collabora a MilanoSera, Rinascita, L’Unità, ma firma con pron
tezza una petizione in favorc dello scrittore ungherese Tibor
Déry imprigionato nell ‘Ungheria del 1956 invasa e calpestata dai carri armati
russi, lo stesso scrittore che aveva patito nel 1919 il carcere per aver
partecipato al tentativo rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene I alta
testimonianza di una solidarietà, per questo come per molti altri casi, che
trova il suo coronamento nel discorso da lui pronunciato per il premio Nobel,
dal titolo appunto Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe
ozioso, davanti a questo consesso. tentare di sottolineare la valenza massonica
di un premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.
Il Nobel al massone Carducci (1906), al massone Marconi
(1902), quello di Pirandello (1934), con la parentesi della Deledda (1926) (non
a caso assegnato ad una donna proprio nei momenti in cui il regime fascista
iniziava a battere la grancassa della guerresca vitalità virilistica) sono una
lontana ipoteca ad un riconoscimento da offrire ad un italiano e massone, a
distanza di un quarto di secolo.
Una esplorazione, disorganica e mutila come questa, non
può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui, costanti momenti di
massonismo echeggianti nella e dalla poesia di Quasimodo; questa irrinunciabile
ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario ha dimostrato nel modo
più alto, con l’ansia della ricerca e la lotta del dubbio, che la poesia ha un
futuro, anche al di sopra della storia, proprio come la massoneria. Come 1a
massoneria, la sua poesia soffre se viene applicata e derivata dai singoli
momenti della cronaca. ln entrambe circola il respiro del bisogno dell’amore
come irriducibile resistenza della vita contro la morte, con la densità
energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra il contingente
e l’eterno, l’io e il tutto. che impediscono la generosa consapevolezza del
colloquio tra gli uomini.
Come dice il poeta:
La vita è senza fine. Ogni giorno è
nostro.
E l’uomo che in silenzio s’
avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di geranio.
Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo, poeta: la
personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno dei
nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce, dell’esistenza
vissuta in una luce d’amore.