DEL MODO SI SCRIVERE STORIA IN MASSONERA

DEL MODO Dl SCRIVERE STORIA IN MASSONERIA di CharlesPorset

Come osservava Arnaldo Momigliano qualSia,si idiota è capace di scrivere la storia del suo tempo, giacché gli basta scrivete ciò che crede di sapere. Questo modo di scrivere storia. non molto mutato dai tempi di Tucidide. è all’origine, nel mondo massonico, di molteplici plaquettes commemorative che riferiscono con maggiore o minore felicità il passato di una Loggia a cominciare dalla sequenza dei suoi membri e dei diversi avvenimenti che l’hanno riguardata. Questa cronaca documentaria, monografica. ha un suo interesse ma la sua portata è limitata poiché alla fin fine essa non fornisce alcuna spiegazione generale della realtà massonica che, si sa bene, non è semplice somma delle vicissitudini dei suoi componenti.

Ricostruire la storia del passato che non è più. di un passato che oltrepassa la capacità della nostra memoria, è tutt’altra cosa. In questo caso non si tratta più di far sorgere il profilo di un passato nel quale si mescolano leggenda e testimonianze, di operare una selezione più o meno intelligente degli avvenimenti vissuti o osservati, ma di far scaturire il profilo di un passato nel quale si mescolano leggende e testimonianze lavorando su fonti frammentarle, sempre difficili da interpretare e delle quali in primo luogo occorre stabilire l’autenticità. Partire da un manoscritto, da un testo a stampa, da una corrispondenza, da un rapporto di polizia, da un rituale ecc., per creare una memoria artificiale ove regnava  l’oblio. Ecco il compito dello storico; e Io storico della massoneria non si differenzia in nulla dallo storico del mondo ellenistico o del Risorgimento, a questo proposito. Nondimeno, a differenza degli altri. egli è sottoposto a vincoli specifici che riguardano la natura stessa della libera muratoria che, dalle origini. è avvolta nel mistero. nel segreto: tanto che anche oggi è difficile distinguere fra mito e verità dei fatti. D’altronde. se la storia generale si è secolarizzata in Europa dal Seicento, la storia della Massoneria. per quanto paradossale. rimane riservato dominio di storici massoni o antimassoni. Vale a dire che la realtà della massoneria rimane un oggetto “caldo”anche se da una trentina d anni storici “profani” — penso ad Alain Le Bihan, Pierre Chevallier: a José Antonio Ferrer Benimeli. a Carlo Francovich. Reinhart Koselleck, Ran Halévy, Gérard Gayot, Margaret Candee Jacob o a Giuseppe Giarri/.zo (per non citarne che alcuni)— si sono avventurati su un terreno generalmente riserva di caccia dei massonologi. Tale situazione fa sì che la storiografia massonica sia lontana dalla purezza cristallina di cui la storia generale può (in diverse misure) avvalersi; ne deriva che molte scoriel ‘ingombrino e troppi partiti presi l’appesantiscano. quando non si tratti semplicemente di ignoranza.

Il primo di essi è la tesi faziosa che ancora contrappone i fautori della “regolarità” ai “massoni liberali” — Alec Mellor ha marciato molto su questa via ma. sull’altro versante. va detto che le opere di Louis Amiable o di Gaston Martin risultano non meno sospette — anche se io propendo a credere che v’è da ricavare più da questi storici del Grande Oriente di Francia che da Mellor: un cattolico di destra che finisce per approdare alla Gran Loggia Nazionale.

Un altro spartiacque significativo in materia di storiografia è quello che oppone gli “scozzeSisti” ai “francesi”: per gli uni, aldilà dei suoi geroglifici, la massoneria rinvia a una saggezza primigenia trascendente il vecchio fondo ebraico-cristiano della nostra cultura; per gli altri essa è un «associazione secolare nella quale i riti e il simboli non sono che elementi posticci introdotti per cementare il gruppo. Questi spartiacque non contrappongono solo le Comunità massoniche fra loro ma si rinvengono a diversi livelli nelle Obbedienze stesse. Li si ritrova all’interno del Grande Oriente di Francia medesimo che. come sapete, è una federazione di logge praticanti riti diversi anche se nell’insieme vi prevale il rito francese. quanto meno a livello delle logge simboliche, mentre il Gran Collegio dei Riti segue prevalentemente i gradi scozzesi.

Queste opzioni — non oserei dire filosofiche — ortentano indubbiarnente l’approccio storiografico: ed è precauzione necessaria sapere che lo storico massone, poiché è libero di scrivere la storia a proprio piacimento. raramente è neutro o imparziale. Io stesso non pretendo di trarmi dalla mischia. Vuol dunque dire che to storico massone è incapace di scrivere una storia obiettiva e che sia costitutivamente condannato a sprofondarc nell’apologetica’? Per un’inversione paradossale bisognerebbe dunque fidarsi solo di storici profani o perfino antimassoni? Non lo credo affatto e l’esistenza di Commissioni di storia in seno alle varie Comunità. l’eccellente lavoro svolto dalla “Quatuor Coronatorum Lodee”. I”IDERM, ‘ • Viilard de Honnecourt•s o diversi gruppi di ricerca quali “Latomia”. Renaissance Traditionnelle” e. in Italia. il Centro per la storia della Massoneria diretto da Mola e FIDISERM provano. semmai ve ne fosse bisogno, che la preoccupazione per la storiografia è una costante delle massonerie moderne: ma essi ne segnano anche i limiti. giacché. in ogni caso, sono espressione di una Obbedienza o di una sensibilità massonica.

Dal momento che la massoneria scaturisce dalla storia generale dell’Occidente, la creazione di una rivista internazionale di storia della Libera Muratoria, sul modello delle grandi riviste di storia esistenti da almeno un secolo, potrebbe correggere le prospettive riduttivistiche facilmente riscontrabili nelle diverse pubblicazioni alle quali ho fatto riferimento. Ben inteso indipendente dalle Potenze massoniche, una rivista di tal genere non avrebbe cura che per la scientificità delle ricerche intraprese.

La storia, diceva Hegel- è sempre di parte. Scritta dai vincitori, essa è oggi com’era per Machiavelli strumento del Principe. l’unità nazionale ne è una conferma. La storia massonica è quella delle Obbedienze che sono prevalse. Essa è anzitutto quella del Grande Oriente, vale a dire dell’aristocrazia liberale che ha saputo imporsi sulle rovine delta Gran Loggia. Ma la nostra storia e anche quella dell ‘antimassoneria che, dai primi anni del Settecento, in Francia come in Inghilterra, ha sempre associato massoneria e liberalismo. Quando nel 1797 pubblica i Mémoires pour servir à l’histoire du Jacobinisme, Barruel istruisce a un sol tempo il processo contro la massoneria e contro la rivoluzione. mentre più tardi Jeannet e Deschamps e, in tempi a noi più vicini. Fay e Cochin istruiscono il processo contro la repubblica. insieme a quello contro la massoneria. Vale a dire che la Libera Muratoria, si voglia o no politica (è questo il rimprovero più severo mosso al Grande Oriente dl Francia) è essenzialmente un fatto politico che intende bene ntescolarsi alla rea/!à del “mondo . Credo in Inghilterra come in Francia — ma soprattutto in Francia, poiché vi si viveva nel regime introdotto con ta Revoca dell’Editto di Nantes — permettendo ai fratelli di associarsi per stare insieme (all’epoca la massoneria non ha alcuno scopo esoterico: basti. a conferma, riportarsi ai testi del tempo) la massoneria Inventa e poi impone una nuova forma di associazionismo laico che. per la prima volta {Tugge all’autorità della Chiesa e dello Stato. Si tratta di un fatto straordinario, di cui i massoni furono promotori, una realtà talmente rilevante che la libertà d’associazione diverrà costituzionale solo nel 1901 per la Francia mentre in Italia si è ancora in attesa di una legge che conferisca certezza giuridica alla massoneria. Quest’invenzione di uno spazio pubblico laico ha poco da spartire con l’idea che alcuni hanno di massoneria poiché secondo certuni noi saremmo i depositari di “segreti” che, trasmessi dai saggi dell’Antichità, sarebbero stati miracolosamente ritrovati in Scozia e poi dai massoni della Gran loggia di Londra. Inutile dire che tutto ciò è assolutamente inventato di sana pianta e che, se a nessuno è vietato di fantasticare. lo storico ha il dovere di non raccontare favole per favorire il sonno.

Se evoco questa storiografia mitologica — ponendomi sulla scia di altri, del resto: e penso a Sadler. Mellor e Ligou — è perché la nostra visione del passato. se non prendiamo le debite precauzioni. è troppo spesso deformata dal presente o da certe tendenze di recente invenzione che spiriti pigri vorrebbero far risalire a epoche immemorabili. Così alcuni pensano che 1a massoneria è una “società iniziatica”, mentre questo termine, pochissimo diffuso nel secolo XVIII, affiora indirettamente nel sec. XIX nel Tuileur Vuiilaume che peraltro non è neppur esso un testo ufficiale del Grande Oriente di Francia. D’altronde, si fa spesso riferimento all ‘andersonismo. Ora, basta prendere la Bibliografia di Ferrer Benimeli per constatare che le cosiddette Costituzioni sono state assai poco ripubblicate nel Settecento in Inghilterra. che se ne conoscevano due traduzioni-adattamenti nel Continente (quelle di La Tierce e di Kuenen) e che bisogna attendere gli anni Trenta del Novecento per vedere il testo ripubblicato da monsignor Jouin, il fuliginoso editore della

‘Revue internationale des Sociétés Secrètes” e dei Protocolli dei Savi di Sion. Orbene, che cosa voleva dimostrar monsignor Jouin? Semplicemente che, dall’origine. le Costituzioni sviluppavano un Iatiduninarismo, uno spirito di tolleranza ai quali s’inspirarono i rivoluzionari. In breve. che la massoneria era intrinsecamente liberale. vale a dire sovversiva! Ora, quando si sa che nessuna delle Grandi Logge continentali assume per propria base il testo andersoniano si è in diritto di crederc che l’influenza ideologica di queste cosiddette Costituzioni è del tutto inventata.

Se non vuol cadere in un usteron proteron. in anacronismi macroscopici, lo storico deve dunque collocare i documenti nel loro contesto: operazione in mancanza della quale egli si fuorvia. Posso fornire decine di esempi dei controsensi che deturpano la storia della massoneria quando la si voglia strumentalizzare in funzione della politica delle Obbedienze. Prendiamo, il caso del «ricevimento massonico» di Voltaire alla ‘”Neuf Sœurs”, di cui si è molto parlato. Le massonerie liberali ne hanno tratto motivo di gioia, in generale (mentre Jacques Lernaire la minimizza): sull’altro vcrsante si fa osservare che quel «ricevimento massonico» non fu regolare (poiché a Voltaire venne consegnato il grembiulino di maestro già appartenuto ad Helvétius) e che, a ogni modo, Voltaire non fu massone che per soli quattro mesi prima di morire. Ma ciò che si dimentica di dire è che al di là dell’uomo Voltaire la loggia registrava l’ingresso in Inassoneria del l’O/terrianesinl(), vale a dire della lotta da lui condotta, insieme con i “Philosophes”. per la tolleranza. la giustizia e contro l'”infâme”, vale a dire contro ogni clericalismo; e che tutto Ciò, all ‘epoca dei fatti, — come anche oggi. del resto  faceva impressione.

Potrei dilungarmi su altri esempi, in particolare sulle origini massoniche della divisa repubblicana Libertà, Uguaglianza e Fratellanza; o, ancora. sulla politica degli Alti Gradi svolta dal Grande Oriente intorno al 1780 e che ha poco da spartire con l’esoterismo: tornare ancora sulla teoria del complotto come è urgente fare sulla base di recenti novità e specialmente sulla traccia di Giuseppe Giarrizzo e Gian Mario Cazzaniga e come abbiamo iniziato a con il convegno di Cussanio r anno scorso organizzato da Aldo Mola. Ma il tempo incalza e come quei lavori sono stati pubblicati, ognuno potrà riferircisi.

Per concludere vorrei dire che le mie ricerche massonologiche mi hanno convinto che non vi è alcuna ortodossia massonica c che il ricercatore ha il dovere di lasciare i metalli alla porta del ‘Tempio della Storia se vuole evitare l’apoIogetica o il ridicolo. La mia qualità di massone del Grande Oriente di Francia e di storico non scalfisce affatto questa regola, giacché una cosa è “fare massoneria”, un ‘altra è “fare storia”.

(Traduzione di Aldo A. Mola)

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LA MASSONERIA OGGI E’ ANCORA ATTUALE

LA MASSONERIA OGGI, E ANCORA ATTUALE?  Francia

In una recente tornata di loggia si ripropose un dibattito sul tema frequentemente ricorrente della validità e dell’attualità della Massoneria ai giorni nostri. Dopo una prima serie di interventi non ancora esauriti ad ora tarda, si decise di rimandare la discussione alla tornata succesSiva per consentire a tutti di esprimere il proprio pensiero sull ‘argomento.

ln quell’occasione ciascuno si sforzò di descrivere la situazione politica, sociale, religiosa, comportamentale di questa nostra epoca, facendo del suo meglio per evidenziare ed esaltare quegli aspetti che più riteneva meritevoli di segnalazione a conforto dell’esistenza e della validità della Massoneria nonchè della sua persistente attualità.

Ma ci si potrebbe chiedere, senza enfasi e senza polemica, se sia necessaria una documentazione del mondo esterno, dei suoi aspetti contingenti, dei suoi problemi attuali e delle caratteristiche della civiltà contemporanea per rispondere affermativamente alla domanda. O non sarebbe più semplice rispondere che la Massoneria, nata con I ‘ uomo e tramandatasi nei secoli, propone principi che possono sembrare arcaici e oggi anacronistici soltanto ai meno provveduti mentre sono immutabili ed eterni, costantemente attuali e in perfetta armonia e corrispondenza con i tempi.

Al limite, la semplice proposizione di una domanda del genere potrebbe già far sorgere dubbio e sospetto sulla maturazione iniziatica di chi la propone così come, indipendentemente dal credo religioso, dal costume morale, dalla pratica di vita, non si può disconoscere la validità tuttora attuale delle tavole di Mosè, dell ‘opera di ConfUcio, della parola di Cristo.

Un Uomo dotto e famoso non seppe rispondere alla domanda se fossero i tempi a creare i grandi uomini o se fossero questi, con il loro genio, la forza, le azioni a creare e plasmare i loro tempi; io personalmente, che dotto e famoso non sono, non arrossisco se non so rispondere alla domanda se i tempi differiscano tra loro, almeno per quanto concerne le passioni, le lotte, le ambizioni, le aspirazioni dell uomo.

E quasi sarei tentato di rispondere che i tempi sono ilnmutabili e si ripropongono quindi sempre uguali, invocando a conforto le opere dei grandi scrittori e dei grandi poeti che si è soliti definire eterne e i cui personaggi, riposti i costumi del romanzo e della rappresentazione, non hanno epoca e neppure nazionalità definita. Proprio perché immutabile è la scena e l’arnbiente di vita e immutabili sono i sentimenti degli uomini, eterni e quindi moderni e quindi attuali sono e rimangono gli eroi della tragedia greca, i personaggi di Shakespeare, Don Chisciotte e il Dottor Faust e, con le dovute differenze. le creature di Molière e di Goldoni e le maschere del teatro popolare.

Ma forse questa mia risposta potrebbe risultare troppo semplicistica e sbrigativa e apparire maldestro tentativo per concludere che l’ideologia massonica, squisita sintesi politica, nel senso etimologico della parola, e quindi morale, costituisce una concezione inimitabile di vita sempre e comunque in armonia con i tempi.

Per completare e migliorare la risposta cercherò di appellarmi a quella saggezza popolare forse un po’ ingenua, magari troppo disponibile ma solo apparentemente contradditoria che con tanta sicumera talora rammenta che «nulla di nuovo avviene sotto il sole» rna per ammonire subito dopo, con un ‘velo di rassegnazione, che «i tempi cambiano» o talora, con maggior senso di nostalgia e di rammarico, che «i tempi sono cambiati».

Si potrebbe allora concludere che pur nella immutabilità di quei parametri rappresentati dai sentimenti eterni degli uomini, ogni epoca non sfugge ad una sua caratterizzazione in funzione di tutta una serie di elementi culturali, scientifici. artistici, religiosi, politici, tanto è vero che, a distanza, possiamo ricordare secoli bui c secoli brillanti, secoli in cui sembra prevalere un oscurantismo senza speranza e secoli in cui sembra di assistere ad una rivincita dello spirito quasi ad una sua rinascita, forieri talora di aneliti e di messaggi d’avanguardia.

La lontananza di quelle epoche, il comprensibile distacco dei nostri cuori e delle nostre menti dai tanti episodi che si sono succeduti, la possibilità di un ‘analisi storica a posteriori che colleghi in grossi capitoli gli avvenimenti salienti del passato facilita l’opera dello storico e consente ai posteri una più semplice anche se spesso grossolana catalogazione che permette con una certa facilità di apporre una etichetta, talora anche azzeccata, ai periodi storici del nostro passato.

Non diversamente i nostri posteri potranno esprimere un più distaccato giudizio in merito a questa nostra epoca, ulteriormente agevolati per la quantità di messaggi, di documenti, di ricordi che il progresso loro concede. Ma noi, attori di quest’epoca, partecipi interessati di queste nostre vicende, protagonisti, spettatori o vittime del momento attuale, con quale superbia c quanta presunzione possiamo permetterci un giudizio sereno, impersonale, disinteressato? Potremmo essere enfatici o entusiasti citando tutta una serie di conquiste e di successi della nostra civiltà o potremmo essere troppo severi censori dei tanti aspetti negativi che la contraddistinguono.

Non credo sia possibile aggiungere nulla di nuovo o di originale a quanto è già stato detto in merito alla nostra epoca, tanto frequentemente anche nell ‘ambito della nostra Organizzazione, né intendo indulgere ad una critica già fin troppo severa: credo semplicemente di poter configurare e comprendere gli aspetti più deteriori del tempo che viviamo nello sbigottimento che si pervade di fronte alla povertà morale, alla mortificazione della spiritualità c alla disperata ricerca di riferimenti. Appropriandomi di un titolo ad effetto potrei definire la nostra quale I ‘epoca della «caduta degli Dei» e dobbiamo tutti riconoscere con

umiltà e coraggio che nel corso della nostra vita, per ciascuno di noi, anche dei più forti, quegli «Dei», cui ci ispiravamo ancora nella nostra infanzia e nella nostra adolescenza, hanno almeno vacillato.

Ai mali che angustiano questa nostra epoca si aggiunge il sempre più diffuso disinteresse di gran parte della gente nei confronti dei tanti problemi contingenti, la sempre maggior renitenza riguardo la gestione della cosa pubblica, la rassegnazione serpeggiante che oggi riesce persino a condizionare quella fondamentale manifestazione di democrazia che è costituita dall ‘esercizio del voto.

Ed ecco allora che la risposta alla nostra domanda trova una sua maggior completezza: è proprio nei periodi in cui maggiormente incombono crisi morali, spirituali, esistenziali, in cui più intensa e sofferta è la ricerca di punti di riferimento che gli uomini dotati di “virtute ed intelletto” c soprattutto forniti di buona volontà debbono ricercare in se stessi la forza per risvegliare le coscienze e per dare ciascuno un personale contributo al riscatto dalla rassegnazione, dall’abulia, dall’inerzia. In questa operazione, squisita espressione di nobile volontariato umanistico e sociale, i massoni non possono che essere in prima linea: presenti ed educati in una scuola iniziatica e compresi dei suoi insegnamenti, essi fruiscono del vantaggio di potersi ispirare a quegli ideali che già in altri tempi hanno offerto prova di indiscussa validità e che possono costituire un sicuro riferimento in questa epoca di decadenza dei valori spirituali. Solo con il conforto del loro recuperato entusiasmo. l’Organizzazione potrà, a sua volta, attingere e validamente utilizzare preziose riserve di intelligenza, competenza, energia per continuare ad esprimere, attraverso i suoi uomini, come è suo costume, la sua funzione sempre attuale di aiuto al progresso della comunità.

Se è vero infatti che la modema Massoneria nasce solo all’inizio del 1700 con le costituzioni di Anderson, altrettanto noti sono i riferimenti a movimenti iniziatici ben più antichi.

Si tratta di movimenti che, pur con differenti connotazioni, si propongono con periodica ricorrenza in tutte le epoche dall ‘antichità ad oggi.

Attraverso ad essi si è realizzato, di volta in volta, un tentativo “di accostarsi alla divinità che si differenziava da quello peculiare del culto pubblico e privato’ .

E non è casuale che tali culti misterici si siano formati soprattutto laddove li favorirono particolari circostanze storiche, politiche. culturali, in particolare quando si verificavano decadenza delle religioni, appannamenti degli ideali (e perchè no, delle ideologie), crisi delle coscienze.

Non sembra quindi difficile cogliere la sottile analogia Ira la moderna Massoneria e le correnti iniziatiche cultrici dei misteri elensini o di quelli orfici o ermetici o dionisiaci o con gli stessi Cristiani delle catacombe. Ancor più facili da riconoscere sono i rapporti tra la moderna muratoria e correnti iniziatiche sviluppatesi culturalmente nell’oscurità della notte medievale, nei chiostri dei conventi, fra gli architetti delle cattedrali, tra i cavalieri delle Crociate che trovarono i loro esponenti più noti negli Alchimisti, nei Templari, nei Rosacrocc. E ancor più facile e comprensibile sarebbe analizzare ed interpretare le matrici della muratoria moderna alla luce degli aneliti riformatori del Rinascimento, degli effetti sconvolgenti della rivoluzione scientifica del seicento e infine, e soprattutto, degli influssi culturali, sociali. spirituali provocati dall ‘Illuminismo.

Erede e depositaria di un messaggio iniziatico di così lunga e consumata tradizione, la Massoneria, da corrente di pensiero può trasformarsi, specie in certi momenti, in vera e propria scuola di vita, capace di offrire agli uomini un insegnamento morale e comportamentalc. Essa ripropone infatti in ogni tempo quei suoi ideali che, ispirati alla libertà, alla tolleranza, alla fratellanza e soprattutto alla costante e fiduciosa ricerca della verità, possono dar vita a momenti liberatori e possono costituirc valido strumento per superare Ic più comuni passioni e le ricorrenti debolezze.

Tali ideali sono cterni nell ‘uomo e vivono nei tempi e ancorché sembrino talora sopiti nelle coscienze, improvvisamente rinascono come la mitica fenice e si ripropongono con sempre rinnovata vitalità.

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L’ORIZZONTE MASSONICO REGOLARE

L’orizzonte massonico ‘regolare’

Ciò che identifica la Massoneria ‘regolare’ rispetto ad altre formule affermatesi nel tempo sono in primo luogo i cosiddetti Landmarks, parola che in inglese significa ‘confini’, ‘limiti’. In quanto tali, stabiliscono la linea di demarcazione tra il ‘dentro’ e il ‘fuori’ e sono riconosciuti e conservati da tutte le logge, per quanto diverse possano esserne le connotazioni interne.

A duecento anni dalla costituzione a Londra della Grande Loggia Madre del mondo, nel 1919, i Landmarks venivano così catalogati:

Monoteismo

Credenza nell’immortalità

Volume della Sacra Legge

Leggenda del terzo grado [quello di ‘Maestro’, collegato alla leggenda di Hiram: vedi il capitolo Un passato ‘su misura’]

Segreto

Simbolismo dell’arte operativa

Nascita libera del Massone e appartenenza al sesso maschile.

Frontespizio dell’edizione tedesca della Bibbia tradotta da Lutero. La libertà per il Massone da vincoli confessionali, con il solo obbligo di aderire al monoteismo, nonché la diffusione della Massoneria in tutto il mondo e quindi anche in aree di religione non cristiana, hanno portato con il tempo a legittimare l’assunzione come Volume della Sacra Legge anche di un testo che non fosse la Bibbia, purché avente il carisma di un codice religioso tradizionale.

Ai Landmarks si sono affiancati nel 1929 i Principi Base, che comprendono d’altra parte i Landmarks come uno dei Principi stessi. Gli altri riguardano le modalità di costituzione di una nuova loggia («Ogni Grande Loggia deve essere stata fondata legittimamente da una debitamente riconosciuta Grande Loggia o da tre o più logge regolarmente costituite»); la subordinazione dell’appartenenza alla Massoneria alla credenza nel Grande Architetto dell’Universo e alla sua volontà rivelata; la necessità per un Massone di assumere i propri obblighi sopra o in piena vista del Volume aperto della Sacra Legge; la suprema e incondizionata autorità della Grande Loggia su tutte le logge sotto il suo governo; l’esclusione delle donne; la presenza del Volume della Sacra Legge, della squadra e del compasso nel corso dei ‘lavori’; il bando degli argomenti religiosi o politici dalle discussioni nella loggia.

I Principi vennero infine integrati nel 1949 con l’emanazione degli Scopi e Relazioni dell’Arte. Le nuove disposizioni ammettono la liceità di sostituire alla Bibbia, come Volume della Sacra Legge, dei testi sacri diversi, purché riconoscibili come codici religiosi tradizionali; ribadiscono il lealismo massonico, ovvero l’impegno a obbedire alle leggi degli Stati di residenza delle logge; affermano la neutralità politica dell’istituzione, indipendentemente dal diritto per ogni adepto di avere delle proprie opinioni sugli affari pubblici.

Sigillo del Grande Oriente dItalia, l’obbedienza regolare attiva nel nostro Paese.

Il rispetto dei ‘confini’, dei ‘principi’ e degli ‘scopi’ elencati è il criterio di riferimento per definire un’obbedienza regolare. Le obbedienze regolari nelle loro articolazioni nazionali fanno poi riferimento a Costituzioni e Regolamenti che ne disciplinano l’attività. Tuttavia i principi che vi si affermano possono esplicitare, ma non contraddicono mai, i canoni fondamentali sopra esposti, né valicano i confini che definiscono l’identità massonica.

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I FIGLI DELLA VEDOVA

I FIGLI DELLA VEDOVA

 di Giuseppe Scaglia

Il Piemonte, da sempre, è il laboratorio nel quale prendono vita iniziative  culturali, sociali, politiche, economiche, che aprono la                                                                             , e le menti, a veri e propri terremoti ideologici e di costume.

Non sto a ricordare che da noi è nato il cinema, che dal profondo delle barriere torinesi mossero le prime giuste rivendicazioni operaie alla fine del secolo scorso; che i primi scioperi, dopo vent’anni di oppressione fascista, presero avvio dalle officine della FIAT “Lingotto” nel 1943; che è dalla “Regal Torino” che due giovani intellettuali, uno piemontese di nome Gobetti, l’altro sardo, chiamato Gramsci, all’alba degli anni ’20 di questo secolo, idealizzavano una loro “Città del sole” in un “Ordine nuovo” liberal-socialista.

E potrei continuare!

Non c’è, quindi, da stupirsi che anche la Libera Muratoria abbia seguito il medesimo destino.

Già verso la metà del ‘700 alcune logge, tra le prime nella penisola, erano presenti in Torino, ma è soprattutto nel corso del successivo XIX secolo che l’attività latomistica ebbe rigoroso sviluppo nelle terre del Re di Sardegna, cosicché non era certo strano ritrovare tra le colonne i più bei nomi della politica, della scienza e della cultura subalpine.

Molti furono i letterati che indossarono guanti e grembiulino e, tra essi, un posto particolare lo riveste Luigi Pietracqua. Nato a Voghera nel 1832, e morto a Torino nel 1901, fu collaboratore di alcuni tra i più prestigiosi quotidiani dell’epoca, dalla “Gazzetta del Popolo” alla ‘Gazzetta Piemontese” (l’odierna “La Stampa”), al “Fischietto” di cui fu anche direttore.

Fecondo autore di testi teatrali (“Le sponde del Po”, 1862 / “El pover paruc” / “Nona Lucia”, 1872 / “Le fije povre”, 1881), rivestì un ruolo singolare nella letteratura regionale per i suoi numerosi romanzi in “lingua” piemontese tra cui citerò “La coca del gamber” “Don Pipeta l’asilè’ “1j misteri ed Vanchija”, “L’ultim dij Castelvert’ , “La bomba ed via Arsenal” ecc.

Convintissimo massone, non fece mai mistero della sua appartenen-

za alla libera muratoria e, specialmente in “Don Pipeta” e ne “1j misteri ed Vanchija”, la sua profonda vocazione alla libertà, il suo innato istinto di libero pensatore eternamente in lotta contro la prepotenza ed il sopruso liberticida (assai spesso rappresentato dall’inquisizione ecclesiastica che, a Torino, aveva la sua tristemente nota sede presso la Chiesa di San Domenico in via Milano) vengono prepotentemente a galla.

L’iniziazione massonica

Un intero capitolo viene dedicato, in “Don Pipeta l’asilè”, alla descrizione accurata della cerimonia di iniziazione come veniva condotta verso la metà del ‘700, epoca in cui l’autore situa la trama del romanzo.

La vicenda pone in rilievo il ruolo storico della Massoneria come opposizione “liberale e libertaria” all’assolutismo politico e religioso. Su tutto, l’inquietante ombra dell’lnquisizione sempre pronta a colpire come eretico chiunque palesasse quelle idee di libertà, uguaglianza e fratellanza che tanto disturbavano il potere costituito (politico e religioso).

Il protagonista, appunto Don Pipeta l’asilè, ha avuto l’intera famiglia sterminata dai birri dell’lnquisizione ed ha trovato nella Libera Muratoria non solo l’approdo ideale, ma anche l’appoggio, la solidarietà, la forza che lo ha aiutato a superare le tristi avversità. Chiaro che il nostro faccia, come diremmo oggi, del “proselitismo’ e cerchi di avvicinare alla Massoneria persone che, per ideali, stile di vita e comportamento diano a vedere di esserne degni.

Oltretutto, vista l’epoca ed i rischi che correva chiunque indossasse grembiule e guanti bianchi, i “profani” dovevano anche essere dotati di notevole coraggio e di sprezzo del pericolo e, quindi, a maggior ragione individui “sicuri’ .

Nel racconto tutto ciò è ben evidenziato dalla narrazione della cerimonia iniziatica che, aldilà dell’aspetto rituale, sottoponeva il candidato a vere e proprie prove che richiedevano sangue freddo e nervi saldi e ciò proprio, ripeto, per la necessità di non avere, tra le proprie fila, persone pronte a cedere al minimo spirar di vento. La narrazione inizia col “prelevamento” del neofita, dal piemon-

tesissimo nome di Stefano Borello, al proprio domicilio da parte di due “Fratelli” (uno dei quali è il già citato Don Pipeta) che, dopo aver brindato col profano, iniziano con il farsi consegnare gli “ori”. I tre si avviano nel buio della notte, ben attenti a non farsi scoprire dalle ronde dei birri, e, dopo una ” …buona mezz’ora di marcia, si sono trovati sui bastioni della cittadella”.

A questo punto Don Pipeta, tratto un fazzoletto dal taschino, benda gli occhi del sempre più spaurito Borello e ricomincia il “viaggio’

” …che viaggio lungo e complicato, che non finiva più. Per un po’ han camminato sulla strada, poi sembrava che entrassero sotto un ponte… perché i piedi avevano cessato di camminare sull’umido e adesso camminavano sull’asciutto e sembrava che la volta rimbombasse sotto i passi di tutti e tre…


Stefano, atterrito, ha la tentazione di interrogare i suoi compagni d’avventura, ma, accorgendosi che tutto il tragitto è stato compiuto senza che una parola gli sia giunta, decide di resistere anche se la paura dell’ignoto lo attanaglia vieppiù.

Dopo un altro quarto d’ora di marcia ecco il terzetto giungere ad un primo “blocco”: il nostro impaurito profano sente come un brusio di fondo, un altro rumore come di armi, e poi una voce tonante intimare il “Chi va là!’

“Figli della vedova” è la risposta… e si va avanti.

Si, ma dove?? Stefano, sempre bendato, deve totalmente affidarsi alle sue guide, anche se, ad un tratto un terribile rumore di cascata sembra assordarlo sempre più.

Il rumore si fa via via più forte, via via più vicino, sempre più insopportabile e l’angoscia sale a tal punto che il nostro povero Borello sviene.

Rinviene… ed ora lo scenario è mutato. Ogni rumore è cessato ed il profano, sbendato, si trova in una stanzetta debolmente illuminata, senza porte né finestre, unicamente arredata da due sedie ed un tavolino con l’occorrente per scrivere.

…ma, vicino al calamaio, cosa che non aveva niente di rassicurante, c’erano un teschio ed una spada…

Il profano fa appena tempo a chiedersi, ad alta voce, dove si trovi

che ottiene immediata risposta da una “lunga figura nera ed incappucciata” che gli dice “sul limitare del tempio della luce! ”

Costui, con tono imponente, gli chiede se veramente sia deciso ad “entrare nel tempio” ed avendone avuta timida conferma, ordina al timoroso Borello di scrivere il suo testamento, dicendogli: “l’uomo, al nascere, acquista tre debiti forti e sacrosanti… il primo verso Dio, il secondo verso se stesso, il terzo verso i propri fratelli… ebbene bisogna che tu scriva in che maniera intendi soddisfare a questi tre debiti! “.

Datagli mezz’ora di tempo, la “figura in nero” torna a prendere il testamento e sparisce, di nuovo, alla vista.

Dopo un paio di minuti un’altra figura incappucciata gli si presenta innanzi, torna a bendargli gli occhi e, qui, ricomincia un tortuoso e lungo peregrinare accompagnato da rumori sordi, da grida d’aiuto, da clamori di spade che s’incrociano, da ostacoli tali che, a volte, è quasi costretto a strisciare per terra, a camminare a quattro gambe e così via.

Infine una voce tuonante ingiunge un fortissimo “basta! ”

“Dove va questa carovana?”

“In pellegrinaggio per trovare la luce! “

“Chi la compone?”

“Due veri seguaci d’Hiram ed un profano! “

“E cosa vuole questo profano? “

“Entrare sotto gli auspici della vedova! “

“E si è preparato?”

“Ora non ha più ori con sé ed i suoi sentimenti li ha scritti su una

“Però la sua gamba sinistra è ancora calzata! “

“Aspetta solo un ordine del fratello terribile per scalzarla! “

“Avanti! “

Dopo questo dialogo, “svestita” , diciamo così, la gamba sinistra fino al ginocchio, il profano viene fatto sedere su una poltrona, che improvvisamente, sembra precipitare nel vuoto.

Poi la poltrona si ferma, il nostro eroe risente, sotto i piedi, la terra, ma la sua tranquillità dura assai poco.

Di nuovo la voce imperiosa di prima, quella del Venerabile, gli chiede cosa desideri più ardentemente ora.

Il neofita chiede, quasi con disperazione, di essere liberato dalla benda che gli impedisce di vedere la luce. “E sei persuaso che, anche se ti liberassimo delle bende, potresti qui vedere la luce?’

Il Borello non risponde, ed ecco che gli viene tolta la benda! Ma, quale terribile sorpresa! , L’oscurità più fitta lo circonda! Solo un piccolo punto luminoso resta e lì, guardando attentamente, il profano vede una lunga fila di persone vestite con candidi mantelli che gli sorridono.

Non fa in tempo a rasserenarsi che, subito, lo spettacolo cambia totalmente: stavolta si tratta di una terribile processione di scheletri e cadaveri mutilati e straziati.

Pronta arriva la spiegazione del Venerabile che gli ricorda ciò che ha visto ammonendolo sulla triste fine che aspetta chiunque iniziato, tradisca l’organizzazione.

Dopo un terzo viaggio, anche stavolta accompagnato da un forte rumore di cascata che via via va attenuandosi, finalmente il profano riceve la “mezza luce”.

Ma l’iniziazione non è ancora terminata.

“Ora, o profano — aggiunge il venerabile — dovrai con noi assistere al funerale d’Hiram!

Infatti ecco apparire, in mezzo alla sala, una specie di apparato funebre con tanto di catafalco e torce nere, sul quale il povero Borello vede a malapena una serie di strumenti tipici dell’arte regale: squadra, compasso, maglietto e, tra loro, un ramo d’acacia.

Due fratelli conducono il postulante vicino alla bara e lo fanno inginocchiare verso il trono del Venerabile: a questo punto, dal feretro, s’alza una specie di “spettro” (che vorrebbe rappresentare il maestro Hiram Abi) che, a palma distesa, batte tre colpi sulla schiena dell’iniziando.

Questo era veramente troppo!

Stefano Borello si volta e, con un grido soffocato, cade mezzo svenuto a terra.

Ma è l’ultimo ostacolo: fatto rinvenire, il profano viene, finalmente, condotto nel tempio ove riceve la “luce”.

E lo spettacolo, ora, è completamente mutato! Più nessun apparato funebre… “La sala sembrava, come per incantesimo, totalmente cambiata per quanto brillava tutt’intorno di ogni ornamento simbolico! Tutto aveva un’aria splendida, imponente maestosa… A cominciare dal trono del Venerabile che sembrava un altare rilucente d’oro e porpora… Tutti i fratelli avevano deposto i cappucci e si presentavano solo più con le loro rispettive decorazioni ed insegne che formavano un bellissimo e variopinto quadro d’insieme… “

Il resto è cronaca, direbbe qualcuno… il profano, fatto avvicinare all’ara, viene consacrato ufficialmente “framassone” dal Venerabile che lo inizia a “fil di spada” e gli fa indossare grembiule e guanti. Una triplice batteria dei fratelli chiude la cerimonia.

Commento finale

Indubbiamente la narrazione, di cui ho volutamente fatto un riassunto condensato, tralasciando particolari sui vari viaggi, che comunque chiunque può comodamente leggersi acquistando il libro, seppure per forza di cose “romanzata” è comunque un Interessante documento su come venivano iniziati i nostri fratelli duecento anni orsono.

Oggi una cerimonia di tal fatta, che senza dubbio, doveva durare, presumo, tutta una nottata non avrebbe più senso, però credo che, ugualmente, qualcosa ci possa insegnare.

Fortunatamente i tempi oscuri dell’inquisizione sono finiti ed i massoni non rischiano più di abbrustolire a fuoco lento su di una pira in piazza Castello additati al pubblico ludibrio come “servi del demonio” e, quindi, non è più necessario che il profano giuri segretezza a scapito della propria gola, tuttavia anche ai giorni nostri la cerimonia Iniziatica deve essere intesa in senso esatto.

E ciò non tanto dall’iniziando, che chiaramente non può capire nulla di quel che sta accadendo, ma da chi l’iniziazione stessa conferisce, principalmente da chi si fregia della maestria.

Perché, purtroppo, m’è capitato di sentire alcuni profani sbuffare di noia durante la cerimonia, come se tutto fosse scontato ed inutile.

Chiarisco: ritengo sia naturale e logico che chi entra tra di noi voglia informarsi sull’iniziazione (e le librerie abbondano di testi che ne descrivono ampiamente tutti i particolari!), ma in tutti i casi l’esperienza, il vissuto deve travalicare ogni lettura: perciò credo sia compito di chi “inizia” far vivere al profano sensazioni, esperienze ed emozioni tali che non possa più scordarsi il primo passo.

Per questo è indispensabile che noi per primi si sia convinti di stare facendo qualcosa di grande, di stare effettivamente dando la luce ad un nuovo fratello, di contribuire a diffondere sempre più i nostri alti ideali.

Questo e non altro deve essere, a mio avviso, il senso dell’iniziazione: l’apposizione di un nuovo mattone nell’edificazione continua del tempio.

Ecco perché anche un racconto letterario, se colto nel suo profondo aspetto ideologico-simbolico, se vissuto quasi con totale identificazione, può e deve essere uno sprone, un aiuto, un invito a diventare, ogni giorno di più, dei veri liberi muratori.

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ECHI INIZIATICI NELLA POESIA DI QUASIMODO

                                                                                            

Se per tutti gli uomini ogni determinazione esistenziale costituisce un dramma di comprensione e di autentica motivazione positiva, quanto più imperscrutabile deve risultare il tentativo di percorrere i momenti del cammino iniziatico di un artista; il dissidio sempre sensibilmente acuto tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte in chi è stato scelto e si è scelto per la ricerca della Vera Luce costituisce il più problematico dei sottintesi; e quando l’eco di qualche passo iniziatico sembra offrirsi all’assetata volontà di intuizione, solo la poesia raccoglie il grande segreto della parola perduta, si fa vita che affiora insieme all’infinito caos delle percezioni, che gioca l’apocalittico mistero dei simboli e delle immagini.

Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il poeta trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono incasellati nella ” scienza/del dolore…” che mette ‘verità e lame”. . un conto/di numeri bassi che tornava esatto,/concentrico, un bilancio di vita futura”.

di Gianni Rabbia

L’ artista della parola è ferito, persino per una sorta di suprema vendetta olimpica contro un Prometeo, dal destino del nomen-omen plautino.

Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del protagonista di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di Victor Hugo pubblicato nel 1 831 .

In Hugo l’affronto della bruttezza repellente fa scatenare l’odio contro l’umanità “normale”. mentre il deforme è fatto per amare, disperatamente ed intensamente.

Non dissimile, pur nella banalità di questo accostamento, la concezione essenziale: la vita è una continua purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli proviene da una sorta di ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da quello della Milano del 1943 sicuramente non si esce indenni, anche se superstiti. Ma prima ancora, negli anni della scuola all’Istituto Tecnico “Jaci” di Messina, la vita è un impetuoso correre verso un futuro, magari anche manieristico, di impaziente apprentissage letterario. Così ricorda Salvatore Pugliatti il sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si parlava di letteratura,  di poesia, di politica.

Leggevamo Dante, Pfatone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da Rotterdam. gli scrittori russi (specialmente Dostojevskij; ma ci incantava anche Andrejev… e Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”). Leggevamo Baudelaire. il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero i nostri numi. Intorno quegli anni — dal 1917 al 1920 e dopo — a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano e scrivevano di codesti poeti, dei “simbolisti” si diceva genericamente e impropriamente… Serpeggiava tra codesti “simbolisti” messinei una vena di misticismo e di esoterismo, che riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e lontano, caratteri del simbolismo russo’ .

Quindi “misticismo ed esoterismo”: sono le vie iniziatiche su cui costruiranno la loro opera Giorgio La Pira e Salvatore Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia degli anni post-bellici e prefascisti al soffocamento del provincialismi è possibile opporre la tensione di un giovanile slancio intellettuale, slancio poi di tutta una esistenza. Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni eccentriche: progetto di poesia la vicenda quasimodiana, un progetto di santità la vicenda lapiriana. II Poeta e il Santo: due vite parallele nella più piena accezione plutarchiana. Quasimodo il “greco”, l’ intellettuale mediterraneo che trasfigura la propria sicilianità a contatto con i mili e con l ‘ humus della civiltà classica; La Pira il “romano”, che recupera tradizione e magistero della chiesa cattolica attraverso la lezione del tomismo e del misticismo medievale».

Quasimodo giura sulla sua coscienza di uomo nato libero e di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il grembiale nella officina Arnaldo da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano era stato libero muratore.

Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo, i Vittorini (Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una collocazione professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata con le vie ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo verso nuove mete sociali, economiche, culturali. Mentre il “progresso” batte alle porte di una regione disastrata dagli uomini e spesso anche dalla natura, l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel panorama variegato del decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 — sebbene per pochi anni — aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura latina ed anche dalle cose di Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale misticismo oggettivistico c non è certo difficile trovare nel Pascoli, anche lui Figlio della Vedova, intensi segni di affratellante e sofferto evangelismo sociale.

Se alcuni passi sono connotabili sotto la dimensione delle iniziazioni politiche, pur con ovvie differenze tra un giovanissimo La Pira

quasi filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.

Per Quasimodo massone, anche nella difficile lezione del suo pensiero di “ermetico”. il concetto di popolo si modifica nel simbolismo talvolta esasperato, alla ricerca di un legame di solidarietà critica con il mondo per mezzo della “intelligenza laica”. In La Pira la solidarietà si farà celebre con il suo farsi apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con alle spalle i classici greci e latini oppure i classici della teocrazia medioevale. Ma Quasimodo, segnato nei sotterranei della coscienza massonica con minore traccia di umori religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un desiderio infinito d’eterna presenza”, sceglie nel 193() con Acque e terre e nel 1932 con Oboe sommerso la durezza di una diversa valenza spirituale: la parola. Quella che in Oboe sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe mi scarno”. La parola è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che divenga cubica.

Scrive Quasimodo il 19 marzo 1923 a La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro, bestiale ed inutile, confortato soltanto dal tormento dell’anima. Da Ic aspetto soltanto un po’ di speranza e la parola dello spirito. Salute c fraternità”. E La Pira a QL1asimodo l’ 8 dicernbre 1927:”… la potenza della parola. Essa ti serva, soprattutto, per imprigionare l’infinito nei tuoi versi. Sii ladro delle gemme che splendono nella vita eterna; sia che tu le rubi alla natura o al mondo morale, questo furto non dispiacerà la giustizia di Dio. Il verso, io credo, quando è perfetto…, è un brano, ma compiuto, dell’eternità… E per questo che la poesia — l ‘ arte in onore — non perisce: ma sta, malgrado le vicende umane… Penso che tu potresti col tuo verso — felice grimaldello che ti pennette di aprire le mistiche cose dell’anima — racchiudere brani notevoli di mistero…”.

E Quasimodo risponde:

Si china il giorno Mi trovi deserto, Signore,

nel tuo giorno, serrato ad ogni luce.

Di te privo spauro, perduta strada d’ amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.

T’ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai cicli:

che tristezza il mio cuore di carne!

E ancora:

Spazio

Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’angeli morti sorride.

Mi rompe. Ed è amore alla terra ch’è buona se pure vi rombano abissi di. di stelle, di luce; se pure aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.

Per poi gridare: “il Tuo dono tremendo/di parole, Signore/sconto assiduamente».

Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia equalitaria “pietra” parola» = “seme”. La pietra:

Naufrago: e in ogni sillaba m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me stesso brucato dal patire che m’asserena, profondità d’amore.

Il seme:

Alberi d’ombre, isole naufragano in vasti acquari, inferma notte, sulla terra che nasce: un suono d’ali di nuvola che s’ apre sul mio cuore:

nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi vedi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli;

che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che dorme.

La parola è allora l’ignis sapientialis, il segno geroglifico e sacrale che può stare tra la ‘gnosis” c la “pistis” del simbolo e dell’ allegoria. Non fu Gio•yanni Scoto Eriugena a coordinarle gerarchicamente, assegnando al simbolo i valori dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento meno certo della storia. della fede e della morale?

Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, ln attesa del comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in “Commiato” da Il porto sepolto:

Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso.

Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia con la prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione iniziatica. Così per Thomas Mann in La montagna incantata: “La parola, anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che isola”. Quasimodo scopre in sé la vastità di un orizzonte da esplorare:

Le parole ci stancano, risalgono da un’ acqua lapidata; forse il cuore ci resta, forse il cuore…

Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido della poesia quasimodiana:

E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.

Ancora la dolcezza della voce. anche tragica, dopo il silenzio:

Io pure udivo un urlo talvolta rompere c farsi carne: e battere di mani ed una voce dolcezze spalancarmi ignote.

Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente interpretata nel suo etimo come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamente alla concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale e del cosmo: la coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della luce è l’Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle parole di Lao Tze, proprio il “silenzio’ .

Magistralmente scrive il di Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare o studiare i simboli esteriormente. freddamente… Il simbolo è cammino, appoggio, scala a un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto, esterno a tradursi in simboli, ma il mondo interiore che .li porta in superficie. Alla meditazione applicata, agli elementi di un simbolismo iniziatico si connette la filosofia del Silenzio”.

E quanto per la filosofia del silenzio la massoneria si allinei autorevolmente con la storia delle grandi società iniziatiche cc lo spiega almeno la lunga scuola che viene dal Vêdânta indù c dal taoismo cinese. dallo zen nipponico, dai riti tribali degli aborigeni australiani, dal totemismo degli indiani d’ America, dallo sciamanismo delle comunità africane e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di Occidente. La necessità del simbolismo ermetico di Quasimodo, ermetico perché massonico e massonico perché ermetico, aderisce perfettamente ai modi di una poesia che è dell’intimismo e dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo che reclama una vacua e tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi destini. L’ermetismo, nel complesso problema critico sull’ermetismo di Quasimodo, è la ricerca di una via per il linguaggio come canto individuale. Ma l’ermetismo, quando è, non si appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo vale parecchio la cautela di leggerlo “problematicamente”. Non quindi e solo alla insegna di un gusto, per analogie, metafore. sinestesismi, aristocraticamente elaborato. alla Rimbaud per intenderci, teso verso l’indefinibile assoluto.

In Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si indaga sulla “poetica della parola”. alla ricerca di un metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un po’ arida della filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della traduzione, alla scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece apprendere da Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle radici e al di sopra del l’ermetismo: l’ acuta sofferenza per uno stato di crisi derivata dalla amara constatazione dell ‘ incapacità dell’uomo a raggiungere e a conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine in un universo ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e liberticida, l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo, la sconsolata aspirazione a qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana esplorazione dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli strati più profondi, oscuri e maoari irrazionali, l’unificazione soggetto-oggetto, la esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di rivolta nei confronti di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza, ragione di vita e soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono solamente scalpellate nei parametri dell’ontologia.

Poetica della parola. e non nominalismo. Ancora Macrì scrive: “La parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desiderati”‘? finale. il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta l’interna corrente della ispirazione e del “pathos”

Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il ridere della gazza. nera sugli aranci, “forse è un segno vero della vita”. bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel “forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà “La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:

Poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento.

Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia come la ricerca di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca impetuosa dell’uomo”.

Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia è via alla verità. colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo. immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di amore. di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In una parola: il grande Sapiente.

Ma proprio quando il sentimento della solitudine sembra scavare nel profondo della vocalità, si assiste con Quasimodo ad una evoluzione che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia non stravolge il percorso intellettuale, morale. artistico del poeta. che ha ben viva la lezione massonica.

La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una violenza estrema… La poesia della nuova generazione, che chiameremo sociale, aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie; scorre per larghi ritmi. parla del mondo reale con parole comuni’ Montale, in Satura, canterà:

Le parole preferiscono il sonno nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute, imbalsamate, ibernate; le parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari perché c’è sempre il marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più rari.

Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La pietà”:

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per cadere in servitù di parole?

Amore, ansia religiosa, nostalgia per il mito di una Sicilia dell’infanzia non sono più i temi che da soli bastino a cantare la condizione esistenziale. Si apre la poesia, massonicamente nutrita, verso una dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di impegno per tutti.

La poesia ha quindi una possibilità in più, quella rigenerati va come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino, cammino appunto iniziatico, della redenzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.

Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa — in mezzo a un cataclisma come la guerra — alla narrazione; si è ispessito l’impegno di Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.

Ma neppure con questa nuova spinta ideale il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasirnodo crede di poter contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema autenticamente antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal linguaggio alla comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica delle realtà sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano è sottolineato non solo con i caratteri di  una trasformazione stilistica o con un approfondimento tematico: il poeta è il politico, ma con l’avvertenza che nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E allora la traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente massonico, tanto che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai bombarda
menti — lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi nell’uomo; non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi esalta la necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma come filtro interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vittima di uno scontro con la famigerata banda Corridoni e vive dopo 1’8 settembre in una Milano babilonica, tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è dei poeti nei momenti tragici: mentre si muore ed anch’egli lotta per sopravvivere, traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella geenna milanese non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire la poesia:

Le spie non possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con gli amici, né dire parole al cuore di nessuno.

La guerra e le traduzioni fanno ben capire come non vi possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino dal punto di vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più profondo del verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento, un ricordo: il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di esule. Così egli e tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in nome di una umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono nell’epico. Con in più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco letterario, rimanendo legato al mondo classico.

‘Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita. uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”. Così scrive nel 1946, a pochi mesi dalla sua Iscrizione al partito comunista italiano, con una evidente coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed il politico, in un clima in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano le più attente ed attrezzate nel perseguire una politica culturale.

Il dibattito fu — come è ben noto — intenso: la formazione solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in rotta di collisione con le teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano soprattutto su Rinascita. Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che portò alla chiusura de Il Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di cultura che non intende suonare il piffero della rivoluzione, trova già disimpegnato Quasimodo da questa sua militanza politica. Avere “esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell ‘uomo da scorgere nell’uomo”, essere “proprio dello scrittore saper scorgere, forse accanto alle esigenze che pone alla politica quell’in più delle esigenze che pone la politica”: sono le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto Quasimodo massone, un individualista come solo un poeta può esserlo, che finisce amarxista per essere più profondamente un “liberal”, un democratico che vede nel socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione etica, ma da cui esige di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità di gesti e di espressioni, i molti distinguo.

La ripresa post-bellica dei lavori nelle officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore. Collabora a MilanoSera, Rinascita, L’Unità, ma firma con pron tezza una petizione in favorc dello scrittore ungherese Tibor Déry imprigionato nell ‘Ungheria del 1956 invasa e calpestata dai carri armati russi, lo stesso scrittore che aveva patito nel 1919 il carcere per aver partecipato al tentativo rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene I alta testimonianza di una solidarietà, per questo come per molti altri casi, che trova il suo coronamento nel discorso da lui pronunciato per il premio Nobel, dal titolo appunto Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe ozioso, davanti a questo consesso. tentare di sottolineare la valenza massonica di un premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.

Il Nobel al massone Carducci (1906), al massone Marconi (1902), quello di Pirandello (1934), con la parentesi della Deledda (1926) (non a caso assegnato ad una donna proprio nei momenti in cui il regime fascista iniziava a battere la grancassa della guerresca vitalità virilistica) sono una lontana ipoteca ad un riconoscimento da offrire ad un italiano e massone, a distanza di un quarto di secolo.

Una esplorazione, disorganica e mutila come questa, non può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui, costanti momenti di massonismo echeggianti nella e dalla poesia di Quasimodo; questa irrinunciabile ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario ha dimostrato nel modo più alto, con l’ansia della ricerca e la lotta del dubbio, che la poesia ha un futuro, anche al di sopra della storia, proprio come la massoneria. Come 1a massoneria, la sua poesia soffre se viene applicata e derivata dai singoli momenti della cronaca. ln entrambe circola il respiro del bisogno dell’amore come irriducibile resistenza della vita contro la morte, con la densità energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra il contingente e l’eterno, l’io e il tutto. che impediscono la generosa consapevolezza del colloquio tra gli uomini.

Come dice il poeta:

La vita è senza fine. Ogni giorno è nostro.

E l’uomo che in silenzio s’ avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di geranio.

Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo, poeta: la personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno dei nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce, dell’esistenza vissuta in una luce d’amore.

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PERCORSO INIZIATICO E LA DIALETTICA DELLA FIABA

PERCORSO INIZIATICO E LA DIALETTICA DELLA FIABA

di Luciano Rossi

Abbianw avuto occasione in passato di parlare, sia su Nuova Delta che su Officinae, del viaggio iniziatico del Sé l I nwderni conoscono alcuni processi consolidati per descrivere questo viaggiare. Tipici processi sono, ad esempio, quelli psicoterapeutici e quelli meditativi. Essi possono tuttavia non essere noti ai lettori di questa rivista: sappiano però, questi ultimi, che tali viaooi ricalcano abbastanza da vicino quelli gnostici e afchemici, nei confronti dei qL1ali i Massoni hanno molta più dimestichezza. Ma anche altre, e ancora più arcaiche, sono. al di là di queste ultime, le fonti iniziatiche cui la nostra attenzione può andare. Il percorso necessario per arrivare al Sé non era sconosciuto agli antichi. La fiaba e il mito. per esennpio, sono un’ indubbia. ed affascinante, testimonianza di questo viaggiare.

Ed è soprattutto dell’iniziazione nella fiaba che vogliamo ora parlare, e non per ricalcare studi ormai classici e ben noti2, bensì per sottolineare ed enucleare qualcosa di più caratteristico: un Inodello tipico di viaagio, che fiaba e mito evidenziano con molta (ancorché fino ad ora poco esplicitata) chiarezza. Lo farò servendomi di uno studio-q recente (Roberta Rossi: La dialettica dell’individuazione) in cui tale modello tipico si presenta in una nuova veste, particolarmente semplice, elegante e formalizzata.

Si dice. in tale studio, che le fiabe perpetuano una tradizione orale che. iniziata attorno ai fuochi della preistoria, si diffonderà poi nei sentieri e nelle piazze, nella strade e nei templi fino a raggiunoere anche i Templi massonici 4 .

Grandi enaozionì, scrive R. Rossi, psicoanalista di formazione junghiana, dovevano sollevarsi nei cuori del popolo della radura. Fu là, fil allora, che gli archetipi mostrarono, per la printa volta, il loro potere, la loro enorme energia. E fu per il Iran’lite di miti e di fiabe che l’uonu) poté entrare in contatto con queste cariche psichiche intensef .

Dice del resto Jung: [Miti e fiabe sono] simboli strumentali tran?ite i quali i contenuti inconsci possono essere canalizzati nella coscienza e lì integrati e interpretati .

In tal modo possiamo considerare la fiaba come la narrazione, a livello simbolico, non solo del percorso personale. 1-na anche di quello tipico collettivo. Infatti Ic fiabe, in quanto storie con Ltn inizio, un decorso e un termine, possono allora essere viste anche conie rappresentazioni di forme tipiche del processo d’individuazione. / …l Nonostante la forma specifica assunta dal cammino particolare d’ogni uomo, gli elementi, da cui tale forma risulta, sono comuni a tutti e certe relazionifra aspetti della psiche sono costanti, tanto da poter essere rappresentate in modo tipico nelle fiabe?.

ln ognifiaba, ci dice Rossi, ricorre il medesimo schema narrativo: il protagonista si trova [sempre], per una serie di circostanze, a dover qffrontare un cammino. Il suo scopo è il raggiungimento di un oggetto prezioso, fondamentale per lui, per realizzare il suo prOgetto. L eroe, d’ora in poi lo chiameremo così, si deve però sempre confrontare con varie difficoltà per raggiungere la sua meta 8.

Del resto, sostiene Von Franz, la cosa preziosa difficilmente raggiungibile è sempre rappresentata da un cerchio, una sfera, dalla pietra filosofale, dalla stella o dal diamante ecc. Ma questo centro dell ‘anima è insidiato da pericoli, e incontrarlo costituisce un’esperienza sconvolgente. E’ la meta ultima del viaggio di ricerca dell’ eroe che incontriamo nelle fiabe e nei miti e, perlopiù, è anche il fine ultimo delle religioni superiori

Questa meta ultinza altro non è che un simbolo del Sé, pietra levigata, nucleo interiore di natura divina lo. Meta, allora, che, proprio per questo suo carattere, dice Rossi, fa apparire il processo d’individuazione (e quello iniziatico ll , aggiungiamo noi) come un processo connaturato all ‘uomo: spontanea realizzazione di un piano stmtturale interno, vero e proprio programma che determina lo sviluppo della relazione fra l’io e l’inconscio, e che porterà al raggiungimento del Sé. Non è certo naturale vivere spontaneamente questo Sé nascosto; ma naturale, connaturata, è la spinta a cercarlo, a liberarlo, facendolo finalmente vivere. Si vede da quanto sopra come il Sé sia una sorta di Artificiale naturale; più tardi in Natura Naturans12, Rossi chiarirà ulteriormente I ‘artificiale naturalirà dell’individuo individuato.

Ma, una volta chiarito questo concetto, ben presto il saggio passa ad occuparsi dell’aspetto dialettico delle fiabe. E lo fa là dove comincia a parlare della struttura di base della fiaba rifacendosi a Vladimir Propp e al suo ben noto studio sulla morfologia del racconto fiabesco.

In queste stone esistono, secondo Propp. elementi costanti ed elementi variabili. Cambiano, ad esempio, i nomi dei personaggi, ma ciò che questi fanno rimane costante. La ripetitività delle loro azioni è significativa e costituisce la struttura fondamentale della fiaba. Queste azioni caratteristiche, o funzioni, come le chiama Propp, sono straordinariamente poche e la loro successione è sempre identica. La fiaba ha dunque struttura monotipica- L’impossibilità di trovare nuove funzioni, oltre quelle tipiche, fa sì che l’esame morfologico dell’esperto possa

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limitarsi a poche fiabe.

Evidentemente la produzione, e la proiezione, del materiale psichico più profondo, mostra che i contenuti transpersonali, collettivi, sono universali; che abbiamo un inconscio collettivo, una parte di psiche comune a tutti, e che è lui, quest’inconscio comune, a produrre il materiale delle fiabe. Le fiabe trattano dunque di qualcosa che appartiene alla nostra comune psico-neuro-fisiologia, E dice Rossi:

Vediamo allora quali sono alcuni di questi elementi, sempre presenti secondo I ‘analisi di Propp. Ne elencherenzo, abbiamo detto, solo alcuni. Ma, anche se I ‘elenco viene qui proposto informa ridotta, sono in verità trascurati soltanto elementi di nzinore significatività o poco deterntinanti ai nostri scopi. Ecco allora gli elementi per noi di maggior respiro narrativo:

I -All’eroe è imposto un divieto

  • – Il divieto è infranto.
  • – Uno dei membri della famiglia si allontana da casa 4 – Entra in scena l’antagonista.
  • – L’antagonista tenta di ingannare l’eroe.

– L’eroe cade nel tranello.

  • – L’eroe è messo alla prova come preparazione al conseguimento di un mezzo o di un aiutante magico.
  • – Il mezzo magico perviene in possesso dell ‘eroe.
  • – Per mezzo di esso l’eroe si trasferisce, è portato o condotto sul luogo dove si trova l’oggetto delle sue ricerche.

IO – L’eroe e l’antagonista ingaggiano direttamente la lotta.

Il – L’antagonista è vinto.

12 – E rimossa la sciagura o la mancanza iniziale.

13 – L’eroe ritorna.

14 – L’eroe si sposa e sale al trono.

Ma, passando poi ad analizzare questi 14 elementi funzionali, Rossi fa notare che essi possono essere raggruppati ulteriormente in cinque classi d’eventi o condizioni.

  1. L’eroe si trova in una condizione iniziale limitante (divieto, assenza d’oggetto del desiderio). (Fase iniziale). (Punto 1 dell ‘elenco)
  2. L’eroe trova la forza di disubbidire e di abbandonare il campo che lo vede privo di potenza. (Primo movimento). (Punti 2 – 3)
  3. L’eroe è lontano da casa, alla ricerca di un oggetto importante per lui, che lo farà partecipare al potere ed entrare in una nuova condizione. Compie un ‘impresa o un viaggio pericolosi, pieni d ‘ostacoli. Ha uno o più antagonisti. Il destino vuole la sua vittoria e lo soccorre sotto forma d’aiutante dotato di poteri sovrannaturali. L’eroe dà prova di tenacia, supera tutte le battaglie, merita la fine delle sue prove e del suo esilio. Trova l’oggetto cercato. (Seconda fase). (Punti 4 -12)
  4. L’eroe ritorna. (Secondo movimento, opposto al pFimo). (Punto 13)
  5. L’eroe cambia status, entra nel mondo degli adulti. (Terza fase). (Punto 14)

Tre condizioni fondamentali (tre dimore), dunque, e due movimenti (due abbandoni di dimora). Ecco messo a punto il modello dialettico che l’ Autrice, introducendo un neologismo (almeno lo è per la filosofia), definisce quinario. E così precisa le tre condizioni: Dintora presso la casa o la famiglia, abbandono della prima dimora. dimora variabile (nomadismo in terra inospitale piena di prove e d ‘insidie, peregrinatio vitae) abitata nel pericolo e senza sostegnifamiliari, dimora presso una seconda casa in condizione di maggiore potenza, capacità o ricchezza esistenziale.

Lo studio in questione ci dà tutta una serie d’ insegnamenti espliciti. Occorre lasciar andare la rassicurante condizione originana, per quanto dolce essa sia. La ricerca di una condizione nuova richiede prove, dolore, pericoli, solitudine, lontananza, viaggio iniziatico. Ma quando la ricerca è compiuta è bene tornare là da dove si era partiti perché è là che il tesoro scopeno va integrato. Rossi ci parla dei pericoli, ma ci dice anche che il nostro istinto ci guiderà, alla stessa stregua del principium individuationis.

In conclusione possiamo dire che il tema del ritorno è molto diffuso; archetipico diremmo. Anche il Gabbiano Jonathan. che aveva lasciato il branco per le Scogliere Remote, dopo la sua iniziazione vorrà tornarvi per il bene della collettività.

Ci è facile individuare anche nel percorso massonico tre fasi e due movimenti: l) condizione profana carente, 2) iniziazione 3) levigatura della pietra. 4) uscita dai Templi, 5) portare la propria levigatura nella società, da dove si era venuti, … per il bene della Patria e dell’Umanità.

Chi avesse letto Il gioco delle perle di vetro di H. Hesse ricorderà di aver trovato anche lì il tema del ritorno di Knecht nella più vasta società.

Il tema dell’operare concreto della Massoneria nel sociale con pro68 getti di sviluppo per offrire ad un numero sempre maggiore di uomini e donne i propri misteri iniziatici, la propria tradizione, i propri Templi 13 , è dunque argomento d’importanza decisiva. È una questione di completezza. Occorre sempre arrivare alla sintesi, altrimenti, senza un’ applicazione sociale concreta del nostro perfezionamento, rischiamo di aver lavorato invano, di esserci preparati unicamente per fini interni o, peggio ancora, individuali. Solo uscendo dalle Logge e andando verso il Mondo si ritorna al punto di partenza, come l’eroe della fiaba, come il gabbiano Jonathan, per nutterci al passo con chi desidera contribuire al processo di sviluppo dell’umanità e giocarci un ruolo importante, non per noi, ma per l’uom0

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ETICA MASSONICA E MEDICINA

Etica Massonica e Medicina

di Guido Valente, Enrtco Galletto, Roberto Navone

Fra le discipline scientifiche, la medicina occupa un posto particolare, poiché in essa rivestono eguale importanza l’aspetto puramente speculativo, comune alle altre branche della scienza, e l’impatto sull’uomo, inteso come persona sofferente o comunque bisognosa. Tutti coloro che, nella vita profana, svolgono la professione medica, hanno certamente più dimestichezza o comunque hanno più occasionc di occuparsi di questo secondo aspetto che non del primo. Questo lato umano della medicina è, di fatto, quello che pone quotidianamente di fronte a problemi etici talvolta sofferti e difficili da risolvere: il concetto di bioetica, pur possedendo connotati che vanno anche al di là della medicina, è nato da questo bisogno di rendere i due aspetti della medicina il più possibile compatibili fra loro. Dal momento che la Massoneria ha, fra i suoi obbiettivi irrinunciabili, il miglioramento dell’Umanità in generale, e di noi singoli in particolare, un confronto critico fra etica massonica ed etica medica appare particolarmente interessante. Non solo, ma il più antico documento di etica medica a noi pervenuto, il giuramento di Ippocrate, ha in sé un significato imziauco che per alcuni aspetti può ricordare l’iniziazione del profano alla vita massonica (vedi la tavola del F:. R. Navone “11 giuramento di Ippocrate”, pag. 47 del numero 39 di Delta, febbraio 1995).

Ma quali sono i fondamenti dell’etica massonica? Essi sono, in definitiva, sintetizzati nelle affermazioni rituali dei nostri lavori: lavorare al bene e al progresso della Patria e dell’Umanita; inoltre, nel rituale di iniziazione, compare anche il concetto di “dovere”. Trasferendo questi primi elementi sul piano della medicina, identifichiamo subito un caposaldo etico di primo ordine: il dovere non è ovviamente un concetto sostanzialmente diverso nella pratica medica rispetto a tante altre attività e professioni umane; è pacifico che chi è impegnato in un’attività abbia il dovere morale di svolgerla nel migliore dei modi. Tuttavia in medicina porsi un problema etico significa molto spesso prendere delle decisioni gravi e inappellabili.

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Ecco quindi che il problema diventa più articolato, e forse proprio l’analisi da un punto di vista massonico ci consente di metterlo a fuoco in maniera più soddisfacente. Affianchiamo, allora, alla parola chiave “dovere” quella di razionalità, poiché, come apprendemmo nel rituale di iniziazione, la morale “è una scienza che riposa sulla ragionc umana”. In questo modo sgombriamo il campo da impostazioni di pensiero dogmatiche, o più semplicemente sentimentalistiche che identifichino l’opera del medico regolata in gran parte da un impeto di altruismo. L’attività del medico, quindi, in senso massonico, dovrebbe seguire le leggi morali del dovere verso il prossimo, regolate dalla razionalità e dall ‘intelligenza.

Altro fondamento dell’etica massonica che può essere trasferito sul piano dell’attività medica è quello della solidarietà: anche la solidarietà deve essere regolata dalla razionalità e dall’intelligenza ma, a nostro avviso, va soprattutto intesa nel senso più lato di disponibilità. E giusto che questa sia rivolta ai malati ed ai loro familiari, ma non solo ad essi; occasioni di dimostrare la propria disponibilità si verificano anche nei confronti degli altri medici, degli operatori sanitari non medici, degli studenti. La disponibilità è quello spirito di servizio che ci spinge moralmente a operare, anche in momenti difficili, per il bene degli altri, oltre che per il miglioramento di noi stessi, c non può essere disgiunta dal senso di tolleranza che ci deve animare in tutti quei frangenti, e per i] medico sono tanti a tutti i livclli, in cui persone o situazioni pongono degli ostacoli.

Ci siamo attenuti sinora a dei concetti di base, dai quali si può evincere che la medicina, osservata dal punto di vista dell’etica massonica, non è altro che uno dei tanti strumenti con cui l’uomo si adopera per esercitare il bene. Tuttavia, nessuno dei concetti espressi è applicabile esclusivamente alla medicina. Addentrandoci in situazioni specifiche, è proprio la nostra esperienza massonica che ci deve indicare, volta per volta, i giusti comportamenti da adottare, così come in tutti gli accadimenti della vita profana. E qui che possiamo riscontrare le maggiori difficoltà: è sempre possibile conciliare la nostra aspirazione al bene e al progresso dell’Umanità con le varie sfacccttature della professione medica? In altre parole, dobbiamo considerare in ogni caso il progresso scientifico come un pro76

gresso dell’Uomo, così da impegnarci in talune forme di sperimentazione clinica o di manovre altamente tecnologiche, o non corriamo piuttosto il rischio di perdere di vista gli obiettivi primari di tale progresso? Vi sono anche altre possibili contraddizioni: basti pensare che uno dei momenti più alti della solidarietà esercitata in campo medico è quello di alleviare la sofferenza fisica, e questo aspetto è talvolta incompatibile con il proseguimento della vita stessa. La risposta a queste domande è anche in questo caso articolata: il progresso della scienza medica corrisponde al progresso dell’Uomo quando in ogni caso ne salvaguardi la dignità c quando rispetta le leggi dell’Umanità.

Potremmo concludere che etica massonica ed etica medica siano pienamcnte sovrapponibili. Certo, non abbiamo la presunzione di affermare che l’esperienza massonica sia indispensabile per comprcndere pienamente Ic linee guida della bioetica e per osservarne i contenuti; tuttavia, se davvero in tutti gli uomini liberi e intelligenti vi è una massonicità latente, ci sia consentito sperare che questa, magari inconsciamente, venga espressa in tutte le occasioni possibili.

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VOCI PROPRIE DELLA MORTE

1.Voci proprie della morte: terminologia funeraria e caratteristiche delle divinità infere

In ogni cultura l’uomo ha posto come termine della propria esistenza attiva il momento della morte, un momento che ha sempre cercato di rimandare in tutti i modi, ma che non ha mai potuto evitare. Le civiltà antiche hanno fatto della vita terrena l’unico ambito in cui l’uomo poteva muoversi e proprio questo ha precluso in buona parte diverse e trascendenti dimensioni oltremondane. La morte, in quest’ottica, viene ad assumere un carattere tragico poiché priva l’uomo di tutto ciò che ha un qualche valore: le conquiste materiali che è riuscito a realizzare in questa vita, e le gioie di cui gode grazie ad esse. L’arrivo del cristianesimo e delle religioni orientali, prime fra tutti l’ebraismo, il culto di Iside e il mitraismo, cambia di fatto questa situazione introducendo l’idea del primato della vita celeste su quella terrena, offrendo così agli uomini una dimensione nuova e ben più ampia di quella costretta entro gli angusti limiti della vita biologica. Anche Roma, come tutte le civiltà a lei precedenti o contemporanee, concepisce quello terreno come l’unico mondo che abbia un qualche valore e si affanna nella ricerca dei beni materiali. O meglio: crede nell’esistenza di una dimensione oltremondana ma la immagina così desolante, così grigia, così monotona da non poter certo reggere il confronto con le gioie di questa terra. La sorte che attende i morti non è, nell’ottica romana, una delle più invidiabili: ridotti ad umbrae, proiezioni sbiadite di ciò che furono in vita, fantasmi di se stessi, conducono all’interno della loro tomba una vita dimezzata, triste e senza felicità. Privati della materialità del corpo, non sono altro che spettri esausti che la nostalgia della vita precedente spinge talvolta a ritornare sulla terra per rivedere i luoghi che li accolsero prima della morte. Diventa allora ovvio il terrore cieco, ma anche l’odio istintivo, che il Romano sviluppa verso la morte, cioè verso colei che presto o tardi, improvvisamente o dopo lunga malattia, gli toglierà il bene più prezioso: la vita.

Nella terminologia che le civiltà classiche hanno utilizzato per designare la morte e le sue divinità appaiono evidenti il senso di una dolorosa impotenza di fronte ad un evento terribile ed il disperato attaccamento all’esistenza terrena. Scorrendo rapidamente il lessico della morte si nota immediatamente come uno dei sentimenti più diffusi sia il disprezzo, l’odio per una sorte di cui ci si sente vittime. Gli aggettivi riferiti alle divinità dell’oltretomba, ed in particolare alla Mors, malvagia personificazione antropomorfa partorita dalla fantasia popolare, sono i più duri ed aggressivi che si possano immaginare: essa viene definita turpis, squalida, horrida, lurida; è come se attraverso questi violenti attacchi verbali l’uomo volesse rivalersi per quello che gli è stato sottratto. Nel processo di antropomorfizzazione i Romani hanno attribuito alle divinità ctonie tutte le peggiori caratteristiche umane, prime fra tutte l’invidia e la violenza, che rappresentano i loro tratti fondamentali.

Il mondo romano è ricchissimo di attestazioni, epigrafiche e letterarie, di esecrazione verso queste divinità che trascinano in modo crudele gli uomini nel loro triste mondo sotterraneo. I Carmina Latina Epigraphica offrono moltissimi esempi di delicata pietà nei confronti dei propri cari che sono stati colpiti dall’ invidia letale della Mors per la loro bellezza o per la loro giovane età, ma presentano altresì delle invettive durissime contro questa malvagia entità che in alcuni casi viene accostata ad un serpente. Gli animi esacerbati dal lutto si lasciano andare ad attacchi feroci, tanto inutili quanto istintivi, contro un destino ritenuto ingiusto, come nel caso di Frontone, solitamente molto pacato, che in una famosa lettera all’imperatore Antonino Pio biasima duramente la sorte crudele che si è accanita sul suo amato nipotino e ha invece lasciato in vita turpi criminali meritevoli dei peggiori castighi.

Letteratura e superstizione popolare nel corso dei secoli attribuiscono sempre nuove caratteristiche alle varie divinità infere giungendo così a intrecciarle e a confonderle fra di loro. Un esempio di questo processo è l’immagine del letum, di cui è assai dibattuta l’etimologia, che originariamente definisce semplicemente l’evento del decesso, come prova l’espressione leto dare, ben documentata anche in epigrafia, il cui significato è appunto dare la morte, uccidere. Dietro l’influsso della mitologia greca si sviluppa, soprattutto in ambito poetico, la personificazione di Letum come divinità della morte, ed in questo senso appunto lo vediamo collocato da Virgilio all’ingresso dell’Ade.

Il termine subisce un’ulteriore evoluzione – probabilmente dovuta alla superstizione popolare che tende a concretizzare ed individualizzare le personificazioni dei concetti astratti – per cui, in un’epigrafe urbana, lo troviamo nella forma maschile di Letus: (“mortis acerbus eripuit letus”), con il carattere di demone della morte, paragonabile per ciò al greco Thanatos. Ma l’esempio più significativo in questo senso è quello della figura schiettamente popolare dell’Orcus: derivato probabilmente da un analogo elemento ctonio etrusco, a Roma finì per designare indifferentemente la divinità sovrana delle regioni infernali (Plutone), in questo assimilato in tutto e per tutto a Dis (pater), e più tardi lo stesso regno dei morti. L’importanza di questa divinità è comunque molto elevata presso i Romani poiché la vediamo comparire molto spesso negli autori con le caratteristiche tipiche della morte: viene definita pallidus, violenta rapitrice di uomini, dotata di una forza straordinaria e irresistibile, incorruttibile nella sua missione. Inoltre i tratti crudeli e odiosi di questa divinità trovano conferma nel fatto che Cicerone, nel suo violentissimo attacco contro Verre, arrivi a definire il proconsole di Sicilia Orcus a significare la connotazione assolutamente negativa del personaggio.

La popolarità di questa figura è ulteriormente attestata dalla sua diffusione nel lessico corrente e nei vari ambiti della vita quotidiana: gli schiavi manomessi per testamento dopo la morte del padrone vengono, infatti, definiti liberti orcini, a significare lo stretto legame fra la loro libertà e l’evento del decesso. Il senso della morte, intesa come entità spietata ed ineluttabile che sovrasta e schianta le forze dell’uomo, è reso molto bene nel mondo romano con la parola fatum: è il destino, la dolorosa necessità che presiede alla vita di ogni uomo e che ne sancisce con fredda determinazione l’inizio e la fine.

Accanto a questo termine – che originariamente viene usato nella mitologia latina per indicare la sentenza divina, la volontà celeste, in particolare quella di Giove – si sviluppa per naturale conseguenza la sua forma plurale, fata, con cui vengono definiti gli oracoli e le predizioni. Per influsso dei miti greci, cui la cultura latina attinge a piene mani, questi fata, richiamando l’idea della sorte e quindi delle sue divinità, le Moire, divengono delle entità preposte alla vita ed alla morte di ogni uomo, per cui in molte fonti li troviamo anche con il nome di Parcae che è appunto l’esatto corrispondente romano delle Moire elleniche.

E’ contro queste divinità, invida , iniqua , che si esprime tutta la rabbia di chi non riesce a rassegnarsi all’ineluttabilità del morire, esse sono le grandi livellatrici: davanti alla loro forza, alla violenza del loro estremo richiamo, non esistono più nè ricchi nè poveri, nè re nè schiavi, tutti subiscono il medesimo destino di morte. Questo tema è molto ricorrente già nella letteratura greca: per nessuno c’è scampo, “Muoiono anche i figli degli dei” sentenzia perentorio il coro dell’Alcesti, e lo vediamo del resto molto presente anche in ambito latino: “Ille licet ferro cautus se condat et aere,/ mors, tamen inclusum protrahit inde caput.”, scrive Properzio, “Nulla certior tamen / rapacis Orci fine destinata / aula divitem manet / erum. Quid ultra tendis ? Aequa tellus / pauperi recluditur / regumque pueris.”, afferma altrove Orazio. Sono numerosissime le attestazioni epigrafiche che rendono, ancora più delle opere poetiche, l’idea di quale fosse il sentimento comune su questo tema.

Da queste lapidi viene al lettore un messaggio di dolorosa riflessione sulla condizione umana e sui suoi limiti, ed un monito all’umiltà. “Orbem sub leges si habeas dum vivis, ad Orchum / quid valet? Hic nulla est divitis ambitio” recita la parte finale di un’epigrafe di Narbonne in Francia. In una concezione della vita immanente e materialista, come quella propugnata dall’élite romana, l’ unico ceto che ha qualcosa da perdere, non è concepibile nei confronti della morte nessun attributo positivo, giacché essa è la negazione per eccellenza, colei che abbatte le aspettative umane, che insomma distrugge la vita, unica dimensione in cui si giocano tutte le speranze. In ambito epigrafico ritroviamo ancora una volta l’espressione più evidente di questo attaccamento esasperato al quotidiano: l’epigrafia funeraria, infatti, è una vera e propria cartina di tornasole della società dominante. “[ Homo tantum ] in vita possidet quantum utitur”, è questo il messaggio ultimo, amarissimo, che proviene da un sepolcro veronese.

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TOLLERANZA MASSONICA E BIOETICA

Tolleranza Massonica e Bioetica di Giuseppe Scaglia

“Io non condivido le tue idee, ma farò di tutto affinché tu possa esprimerle’

Quante volte abbiamo sentito pronunciare o visto scrivere questa massima di Voltaire!

Si può dire che essa sia la base di ogni discorso massonico… sicuramente è la pietra angolare su cui è costruito, o perlomeno dovrebbe esserlo, l’edificio della Tolleranza di ogni Libero Muratore.

E, poi, c’è la bioetica.

Cosa c’entra penseranno i miei pochi lettori… c’entra eccome!

Innanzitutto definiamola.

La bioetica è quella parte dell’etica che si occupa in modo precipuo della tutela, della promozione, della dignità della vita sotto qualunque forma essa si presenti.

I campi d’interesse sono svariati e vanno dal problema della regolamentazione delle nascite (aborto, concepimento responsabile, educazione sessuale) all’eutanasia, dalla sperimentazione farmacologica su animali vivi all’ecologia in toto, dalle problematiche della sovrappopolazione mondiale ad una più equa distribuzione delle risorse economiche tra Nord e Sud del pianeta.

Insomma, come ebbe a definirla l’oncologo Potter, una vera e propria “science of survival” , scienza della sopravvivenza.

Ma, secondo me, la definizione forse scientificamente meno esatta, però più “umanamente umana” è quella di Albert Schweitzer, il medico tedesco fondatore della comunità terapeutica africana di Lambarenè, che parlò di bioetica in termini di “ETICA DEL RISPETTO PER LA VITA”.

E questo è l’aggancio che mi pare cogliere con la “nostra” Tolleranza: perché il “rispetto per la vita” (sotto qualunque forma!) non può prescindere da una direi esasperata applicazione della Tolleranza nel suo più alto, profondo e massonico significato.

Almeno per chi voglia VERAMENTE trasformare la propria Iniziazione da simbolo virtuale a realtà concreta, quotidiana.

Infatti sono sempre più convinto che molti siano i modi d’intende71

re la propria appartenenza alla Libera Muratoria e che essi varino a seconda delle motivazioni e delle aspettative che spinsero ciascuno di noi a chiedere d’essere iniziato.

Per quel che mi riguarda, da sempre posso dire di aver considerato la Massoneria come una filosofia di vita, e cio è stato fonte di numerosi travagli per il mio ammo, proprio per l’aspetto “politico” che tale scelta esistenziale comporta.

Mi spiego.

Politica, come si sa, deriva dal greco “polis” che significa città” e quindi “far politica” vuol dire occuparsi della “polis”, della “città”, in altri termini del mondo che ci circonda.

Tutti amiamo dire che, ormai, il progresso ha reso il mondo un grosso ‘villaggio”, che le distanze sono state annullate però mai come in questi ultimi anni si assiste ad una netta recrudescenza dell’intolleranza, del razzismo, della lotta al “diverso da me

Schweitzer sostiene che lo sviluppo spirituale non solo non è andato crescendo parallelamente a quello tecnologico, ma addirittura che il loro equilibrio s’è spezzato.

Oggi viviamo in condizioni di vita incomparabilmente più favorevoli che nel passato (almeno nei Paesi “industrializzati” , altrove non è sempre così!), però questo incremento del benessere materiale ha progressivamente spinto ai margini l’elemento spirituale dell’uomo. rruttavia, continua Schweitzer, i fatti c’impongono una doverosa riflessione: ogni civiltà che si sviluppa troppo nel suo aspetto materiale a scapito della spiritualita è come una barca con un timone difettoso che ha perso ogni possibilità di manovra e corre, inevitabilmente, verso la catastrofe.

E guerre, genocidi e, perché no, pestilenze (AIDS, Ebola ecc.) lo stanno a dimostrare.

Il rispetto per la vita, invece, che è poi la stessa cosa della Tolleranza, propone all’essere umano una libertà materiale e spirituale la più ampia possibile affinché egli possa offrire il suo aiuto ad ogni forma di vita che lo circonda senza chiudere aprioristicamente le porte ln faccia all’ “altro da me”.

E proprio qui sta il nocciolo della questione in ambito massonico. Naturalmente m’accorgo di parlare della Libera Muratoria seguen-

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do dei criteri che sono propri al mio modo di pensare e di intendere il mio “essere massone”, e quindi non voglio ledere la libertà altrui, però credo che il “muratore” non debba trincerarsi in un aulico ‘male non fo” che troppo sovente è un “niente fo”, ma, qualunque sia la sua attività, incidere, operare nel sociale seguendo i principi massonici aiutando i più ‘ umili” per quanto è in suo potere, ma soprattutto rispettando il loro diritto a vivere, diritto molto spesso calpestato ai giorni nostri.

Non intendo in questa sede fare una specie di manuale del “massone bioetico tollerante”, ma credo valga la pena ricordare molto brevemente alcuni temi su cui si potrebbe soffermare la nostra attenzione.

Il primo riguarda l’aborto. E un tema vastissimo su cui ognuno di noi potrebbe dire qualcosa con una parte di torto e di ragione contemporaneamente.

Però, aldilà del giudizio “morale”, che non ci compete in quanto Massoni Liberi Pensatori e non bigotti da parrocchia, esiste la cruda realtà di un’esperienza di vita che coinvolge soprattutto la donna, perché è sul suo corpo che si gioca la partita.

E qui la Libera Muratoria deve essere SEMPRE al fianco della donna perché sia soltanto sua la definitiva libera scelta se abortire o proseguire una gravidanza responsabile.

Anche perché, diciamolo apertamente, è abbastanza ipocrita voler impedire per legge l’IVG, come vorrebbero certi settori clericali reazionari, ben sapendo comunque che chi ha i mezzi economici continuerà ad abortire all’estero, in cliniche di lusso (magari provviste di Cappelle ove computamentc ascoltarc messa…) mentre chi i suddetti mezzi non ha si dovrà arrangiare con la “mammana” di turno correndo seri rischi.

E il bello è che certe teorie vengono spacciate per difesa della vita!

Ma innumerevoli possono essere i “punti” d’intervento massonico. Senza citarli tutti pensiamo, ad esempio, come in tempi in cui guerre fratricide dividono sempre più popolazioni differenti tra loro per civiltà e cultura ma che il destino ha posto su uno stesso territorio (e l’esempio che ci viene dalla vicina ex-Jugoslavia sta a dimostrarlo!) il modello che può dare la nostra organizzazione, la•fratellanza

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che unisce i Liberi Muratori aldila delle diversita di razza, lingua e costumi, la Tolleranza per le reciproche idee, potrebbe essere di guida non solo verso un’auspicabile pacificazione ma anche ‘e soprattutto ostacolo al ripetersi di tali tragedie.

Del resto le tappe dell’evoluzione dell’Umanità sono assai spesso state segnate da Massoni, basti pensare alla fondazione della Croce Rossa, quindi credo che anche la conservazione della “casa comune” dell’Uomo, di questo a volte strano e crudele, ma sempre bellissimo mondo tocchi a chi più di altri, più fortunato di altri lasciatemelo dire (!), ha potuto venire a contatto con realtà di ordine superiore.

Insomma non siamo stati Iniziati soltanto per pavoneggiarci nei nostri bei paramenti, o per addottorarci in argomenti di storia o di esoterismo (che pure rivestono un ruolo basilare per chiunque si voglia dire veramente massone!), o, peggio ancora, per combinare affari più o meno loschi nascosti dal ” Segreto inesprimibile”, ma anche (se NON soprattutto!) per cercare di dare il nostro, anche piccolo, contributo al miglioramento dell’Umanità.

Non dobbiamo cercare di cambiare il mondo a tutti i costi, né vivere come Don Chisciotte lottando contro i mulini a vento, ma neppure dobbiamo scordarci i nostri grandi ideali di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza e, in loro nome, ritengo sia nostro dovere cercare di dare il massimo apporto possibile in ogni atto della vita di tutti i giorni.

Se, poi, riusciremo a rendere un po’ più armonica, vivibile e umana questa Terra sicuramente avremo realizzato qualcosa di veramente massonico.

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CONSIDERAZIONI SULL’ESAME DEI PROFANI CHE BUSSANO ALLE PORTE DEL TEMPIO

CONSIDERAZIONI SULL’ESAME DEI PROFANI CHE BUSSANO ALLE PORTE DEL TEMPIO

Uno dei temi su cui la Massoneria attuale ha le idee meno chiare è quello dell’esame dei candidati a essere ricevuti, o iniziati (i bussanti). Tanto per cominciare, chiariamo una questione terminologica: il termine “tegolatura” viene usato, nel caso dell’esame dei candidati, in modo improprio. La tegolatura è l’esame dei Fratelli visitatori, che dovrebbe avvenire in modo rituale, chiedendo le parole e i toccamenti del grado. Per svolgere tale compito in alcuni Riti (come lo Scozzese Antico e Accettato) esiste un’apposita figura: il Tegolatore. Per l’esame dei candidati, invece, il Maestro Venerabile nomina ogni volta dei Maestri (tra i quali non dovrebbe essere incluso il Fratello che propone il candidato), i quali non dovranno sapere l’identità l’uno dell’altro e dovranno esaminare il candidato in maniera automa e indipendente. I Maestri incaricati scriveranno poi una relazione anonima che sarà letta in Loggia onde permettere ai Fratelli di avere gli elementi necessari a decidere se votare a favore, o contro, l’ammissione del candidato. I nomi dei Fratelli esaminatori devono essere sconosciuti alla Loggia per garantire che il giudizio dei Fratelli non sia influenzato da eventuali simpatie, o antipatie, nei confronti degli esaminatori. Per lo stesso motivo gli esaminatori dovranno essere sconosciuti l’uno all’altro.

Per dare i giusti elementi ai Fratelli, affinché possano decidere come votare, gli esaminatori dovranno chiarire con il candidato alcuni punti fondamentali:

  • Gli impegni e gli obblighi che l’appartenenza alla Loggia comporta;
  • La struttura della Massoneria, l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia e un quadro generale sulle altre Obbedienze;
  • Lo scopo del percorso libero-muratorio;
  • L’infondatezza di certe voci e dicerie sulla Massoneria;
  • I valori fondamentali della Libera Muratoria, ai quali il candidato, una volta ricevuto (o iniziato) dovrà allinearsi;
  • Alcuni accenni al Rito particolare che la Loggia pratica.

Nel caso delle Logge di Rito Scozzese Rettificato, gli esaminatori avranno cura di sincerarsi della fede cristiana del candidato e del suo essere stato battezzato. Quale sia la confessione del candidato (cattolico romano, ortodosso, protestante…) è irrilevante ai fini del Ricevimento e, quindi, dell’esame.

Entriamo più nel dettaglio dei temi elencati sopra.

Prima di tutto l’esaminatore dovrà illustrare al candidato quali saranno i suoi impegni e i suoi obblighi nei confronti della Loggia, ovvero la partecipazione alle Tornate (chiarendo l’entità di questo impegno, in quale giorno si riunisce la Loggia, quanto durano le Tornate…) e il pagamento delle capitazioni, l’importo delle quali dovrà essere detto chiaramente. In questo modo si eviterà che il candidato abbia da ridire sui costi, o si lamenti dicendo che non sapeva di dover pagare, o quanto fosse impegnativa la partecipazione alle Tornate.

È di primaria importanza anche spiegare al candidato la struttura della Massoneria, l’eventuale appartenenza della Loggia a un’Obbedienza e l’organizzazione, a grandi linee, della stessa. È fondamentale spiegare che l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia non è l’unica esistente e chiarire quali caratteristiche la differenziano dalle altre. Mi è capitato un bussante che aveva chiesto di entrare in Loggia credendo che essa appartenesse al Grande Oriente d’Italia (che pensava fosse l’unica Obbedienza italiana). Ricevere questo candidato sarebbe stata una perdita di tempo da parte sua e nostra. Altri invece preferiscono Obbedienze miste (che accettano cioè sia uomini che donne) a quelle unicamente maschili o femminili. Sarà quindi necessario mettere in chiaro se l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia è mista o meno. Se il candidato esprimesse la necessità di entrare in un’Obbedienza con caratteristiche differenti da quella a cui appartiene la Loggia, sarà un atto di gentilezza da parte dell’esaminatore l’indicargli eventuali altre Obbedienze più adatte alle sue esigenze.  

Altro punto fondamentale è chiarire quale sia lo scopo del percorso libero-muratorio e quale sia il modo in cui la Massoneria lo persegue. Deve essere chiaro che la Libera Muratoria è un Ordine che dà ai suoi membri il modo di seguire un percorso di tipo spirituale, volto a perfezionare se stessi e l’Umanità attraverso un sistema di simboli e ritualità che procede per gradi. A tal proposito è strettamente necessario smentire le voci su presunti complotti massonici o sul fatto che l’appartenenza massonica apra le porte per far carriera o per la scalata sociale. Capita spesso che delle persone facciano richiesta di entrare in Loggia per questi motivi materiali. Costoro potrebbero, qualora fossero accettati, essere un pericolo per la salute della Loggia, essendo portatori di quei “metalli” che il Massone dovrebbe invece abbandonare prima di entrare nel Tempio. Allo stesso modo bisogna chiarire che nelle Logge non si trovano strani rituali magici per ingraziarsi chissà quale entità e indurla a farci guadagnare soldi o altri beni materiali, o “verità arcane” su alieni, illuminati o altre corbellerie. Per esperienza personale so che candidati convinti di trovare cose del genere capitano spesso. Uno mi disse che voleva far carriera e dopo che gli ebbi spiegato che in Massoneria non c’era modo di farla, ritirò la candidatura. Un altro era convinto che noi avessimo “poteri” magici e che potessimo insegnargli incantesimi per vincere alla lotteria. Ci vuole quindi molta chiarezza e molta prudenza nell’esaminare i candidati.

Passiamo ora a una questione oggi molto sottovalutata e che spesso genera discussioni: i valori fondamentali che informano di sé tutta la Libera Muratoria, anche se non tutti i Riti li dichiarano palesemente nella ritualità.

Differentemente da quanto molti Massoni oggi credono, la Massoneria non è un contenitore neutro dentro cui ognuno può mettere i suoi propri valori e il suo proprio pensiero. Tale idea è stata generata da un mal digerito discorso sulla “libertà di pensiero” intesa come un semplicistico e qualunquista “penso e dico quel che mi pare”. La Massoneria da sempre propugna la libertà di pensiero, la tolleranza e il rispetto per l’altro. Ma, paradossalmente, tale libertà e tolleranza non posso esistere senza che si pongano dei limiti ben precisi, pena il permettere che i più prepotenti impongano a tutti la loro propria volontà, di fatto ponendo fine sia alla libertà che alla tolleranza. Ma dove porre il confine di ciò che è lecito? Il limite alla tolleranza è l’intolleranza: il pensiero intollerante non può essere accettato all’interno della Massoneria, essendo esso massimamente contrario ai suoi valori fondamentali. Al candidato dovrà essere ben spiegato che la Massoneria considera le persone come libere, eguali e come unite da un legame di fratellanza che va oltre la stessa Libera Muratoria. In questo consiste l’universalità della Massoneria. Come potrebbe un razzista abbracciare come suo Fratello un uomo appartenente a un’etnia che egli ritiene “inferiore”, o addirittura “malvagia”?

Idee e comportamenti intolleranti non possono essere accettati in Loggia e il Maestro esaminatore dovrà farlo capire molto chiaramente al candidato. Dentro il limite, poi, del reciproco rispetto e della reciproca tolleranza, sarà possibile la libertà di pensiero necessaria al percorso massonico.

Su questo punto mi si permetta di porre in evidenza un errore che molte Logge fanno, ovvero quello di non accettare delle persone perché troppo “diverse” dai Fratelli che compongono la Loggia. Si formano così, in nome di un mal inteso senso di “armonia”, Logge di Fratelli tutti simili fra loro per classe sociale, livello e formazione culturale, perfino per professione e idee politiche. Questo è quanto di più sbagliato: il percorso massonico ha nel confronto con l’altro, con visioni diverse dalla propria, uno dei maggiori strumenti di perfezionamento. Anche, e forse soprattutto, il confronto con chi ci pone davanti a cose che ci danno fastidio o che mettono a nudo i nostri limiti e difetti è fondamentale. Del resto lo sgrossamento della pietra grezza, che è simbolo del lavoro massonico, non è qualcosa che si faccia con delicatezza, ma con forza e fatica. Accettare solo candidati simili ai Fratelli significa privarli di un utilissimo strumento e rendere meno efficace il lavoro di Loggia. L’esaminatore dovrà, quindi, da una parte, tener ben presenti i valori fondamentali e i limiti da essi posti, ma dovrà anche, dall’altra, stare attento a non farsi influenzare dalle proprie idee particolari e dai propri pregiudizi, restando il più possibile “obiettivo”. Anche per questo il ruolo di esaminatore è riservato ai Maestri i quali, si presume, dovrebbero avere la necessaria conoscenza ed esperienza per esaminare nel giusto modo il candidato. Il fatto, poi, che gli esaminatori debbano essere più di uno (solitamente tre) e indipendenti permette di garantire che le eventuali sviste dell’uno siano compensate dall’altro.

Infine, l’esaminatore dovrà spiegare a grandi linee le caratteristiche del Rito che la Loggia pratica. Ogni Rito ha una sua propria “anima” e un carattere che lo contraddistingue. Bisognerà quindi capire se il candidato sia in cerca di ciò che il Rito della Loggia può dargli, o se cerca qualcosa di diverso. Molte Obbedienze hanno Logge di diversi Riti e il candidato potrebbe essere indirizzato verso una Loggia che pratichi un Rito più adatto alle sue esigenze. Soprattutto Riti (come il Memphis e Misraïm, o lo Scozzese Rettificato) connotati da un approccio più esoterico e spirituale possono non essere adatti a tutti. L’esaminatore spiegherà quindi al candidato le caratteristiche del Rito e, in termini generali, i suoi contenuti e in base alla risposta lo indirizzerà nel migliore dei modi. Capita a volte che l’esaminatore cerchi di convincere il candidato a entrare nella sua Loggia anche quando questo non si presenta come adatto al tipo di ritualità e all’approccio proprio di quel Rito particolare, o quando il candidato desidererebbe entrare in un’Obbedienza di diverso tipo. Questo è un errore da evitare accuratamente, anche se la Loggia avesse bisogno di aumentare il numero dei suoi componenti. Far entrare in Loggia una persona non adatta non porta nulla di buono. Questa persona con tutta probabilità se ne andrà presto, o, nel peggiore dei casi, creerà disarmonia o porterà negatività (come capita quando si introducono carrieristi e arrivisti).

Concludo esprimendo la speranza che questa tavola possa essere utile ai Fratelli incaricati di esaminare i candidati. Gli argomenti sono stati trattati solo per sommi capi e potrebbero sicuramente essere ampliati. Credo però che i Maestri sapranno utilizzare quanto scritto declinandolo secondo le loro proprie esperienza e sensibilità.

Enrico Proserpio

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