NELLA TORRIDA FIRNZEDEL 1944…

Nella torrida Firenze del 1944 anche le fascistissime dame sparavano dai tetti

Giampiero Mughini 27 giu 2023

Soldati angloamericani e partigiani avanzavano con cautela lungo i quartieri celeberrimi del centro storico mentre, nascosti dietro i comignoli e gli abbaini, stavano prendendo la mira qualcosa come tra duecento e trecento tiratori. Una storia magnificamente raccontata da Luca Tadolini ne “I franchi tiratori di Mussolini”

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Agosto è il mese dell’anno in cui il selciato della città di Firenze avvampa e brucia. Ebbene, nella prima decade del mese di agosto del 1944 su quel selciato misero i piedi a tutta forza, spalleggiati da agguerrite brigate partigiane, gli avamposti delle truppe angloamericane che stavano ascendendo lungo le città dello stivale dopo aver conquistato la Sicilia, Napoli, Roma. Il 4 agosto, dopo avere abbandonato la riva sinistra dell’Arno (altrimenti detta Oltrarno o Diladdarno), i tedeschi eccezion fatta per il Ponte Vecchio fecero esplodere tutti i ponti che collegavano le due sponde del fiume. Anziché consumarsi in una difesa di Firenze largamente impossibile, volevano appostare la loro forza intatta dietro le poderose fortificazioni che avevano eretto sugli Appennini a costituire la cosiddetta Linea gotica. Soldati angloamericani e partigiani avanzavano con cautela lungo i quartieri celeberrimi del centro storico del capoluogo fiorentino, quelle piazze e quei monumenti cui si abbeverano da sempre turisti di tutto il mondo. Ho detto con cautela perché disseminati sui tetti di palazzi famosi, nascosti dietro i comignoli e gli abbaini, stavano prendendo la mira contro angloamericani e partigiani  qualcosa come tra duecento e trecento franchi tiratori fascisti muniti di munizioni e di viveri. Erano stati scelti e motivati dal capintesta del fascismo fiorentino, quell’Alessandro Pavolini poco più che quarantenne che si muoveva a suo agio tanto nelle cose della cultura quanto in quelle dell’azione politica la più partigiana e violenta. Alcuni di loro erano degli irriducibili fascisti della prima ora, altri dei men che diciottenni che portavano ancora i calzoni corti, c’erano anche alcune donne su quei tetti e non pochissime, donne che da come erano vestite appartenevano senz’altro alla borghesia benestante, probabilmente mogli o figlie di borghesi fascistissimi.

In un suo articolo era stato nientemeno il più diffuso quotidiano inglese, quel Daily Mirror che durante la Seconda guerra mondiale toccò il vertice di due milioni di copie vendute giornalmente, a segnalare che nella Firenze dell’agosto 1944 le forze alleate avevano catturato la bellezza di 25 “franche tiratrici”. Ben 25 donne più o meno fascistissime che si erano appostate sui tetti e avevano preso la mira, o che avevano aiutato qualcuno al loro fianco a trovare il bersaglio e a puntarlo. Fu uno che disegnava le copertine settimanali della Domenica del Corriere a raccontare quel che marchiava in quel momento la vita italiana, parlo del grande Walter Molino, che dedicò la copertina del 17 dicembre 1944 a una scena di battaglia che si stava svolgendo a Ravenna. Una scena che di certo gli era stata sollecitata da quel che sapeva essere avvenuto a Firenze nell’agosto precedente. Viste da dietro e un po’ dall’alto, nella tavola di Molino sono cinque le figurette appollaiate sul tetto di una casa e mentre giù in fondo ci sono dei soldati americani che fuggono e cadono. Due dei cinque sono degli uomini che stanno puntando e sparando con i loro fucili, uno è un ragazzetto con i calzoni corti che ha in mano un gran bel sasso da scaraventare addosso agli americani, la quarta è una donna dal corpo disegnato a meraviglia a far capire che si tratta di una donna e che sta sparando anche lei, la quinta è un’altra donna che sta accorrendo alla bisogna con un fucile in mano e l’aria di chi sa quel che deve fare. Un’apoteosi insomma dei franchi tiratori fascisti siano essi uomini o donne. Solo che non era roba di tutti i giorni disegnare sulla copertina di un settimanale popolare la figura di una donna che stava sparando da un tetto con l’aria di saperci fare non meno di un uomo. La tavola fa da copertina di un libro da cui ho immensamente attinto nel raccontarvi questa storia (Luca Tadolini, I franchi tiratori di Mussolini, Edizioni del Veltro, 1998).

L’efficacia militare di quei franchi tiratori nell’infliggere perdite ai “liberatori” di Firenze e nel ritardare la loro presa di possesso della città fu tale che il commissario politico della divisione di partigiani comunisti che prendeva il nome dal comandante “Potente” morto in combattimento, chiese a un certo punto il permesso di poter fucilare a titolo di rappresaglia dieci fascisti riconosciuti come tali per ogni partigiano o civile ucciso dai franchi tiratori. Voleva fare né più né meno quel che fecero i nazi a Roma dopo l’agguato di via Rasella, ucciderne dieci contro ciascuno della sua parte caduto in combattimento. Per fortuna nessuno diede ascolto a questo proposito belluino.

In quell’agosto del 1944, io che avevo tre anni vivevo in una casa fiorentina assieme a mio padre che di anni ne aveva aveva 45 e a mia madre che ne aveva 26. Una di quelle mattine della prima decade di agosto bussarono alla porta di casa nostra e mia madre andò ad aprire. Erano due o tre partigiani fiorentini che volevano piazzare una mitragliatrice leggera sul davanzale di una finestra di casa nostra. Purtroppo non ho più da chiedere a mio padre o a mia madre se casa nostra stesse al di qua o al di là dell’Arno, e magari capire se i partigiani volevano usare la mitragliatrice contro i tedeschi o contro i franchi tiratori. Si accorsero che l’angolo di tiro non era buono e lasciarono perdere. Quando arrivarono a casa nostra mio padre non c’era. Da fascista convinto e militante quale era stato dapprima nella Marradi in cui era nato e poi nella Catania dove aveva sposato in camicia nera mia madre, s’era acquattato non so dove. Non era il caso che restasse ad aspettare qualcuno che gli avrebbe chiesto conto e ragione del suo passato. Qualcuno che nella Firenze dell’agosto 1944 difficilmente si sarebbe comportato da “cristiano”, a dirla con il Curzio Malaparte che ai franchi tiratori fiorentini dedicò un indimenticabile capitolo de La pelle, il suo romanzo del 1949.

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MUSICHE PER INIZIAZIONI

DEL FR.’. L. BOLLONI

Musica per rito iniziazione

Seguendo il rito di iniziazione qui di seguito vi indico le varie musiche che

ascolterete durante la serata.

Vi premetto che per quanto le musiche sembrino molte, alcune verranno ascoltate per

soli pochi secondi, mentre altre avranno un ascolto più prolungato.

Ho il piacere di indicarvi i vari brani descrivendovi celermente anche il motivo che

mi ha spinto a sceglierne uno rispetto ad un altro.

• Il primo brano verrà messo al momento in cui il Maestro delle Cerimonie

prepara il Tempio per il Rito di Iniziazione.

Ho scelto di Erik Satie il primo movimento di Gymnopedies, un brano dal fascino

quasi ipnotico che ci trasporta alla cerimonia.

Satie fu “Maestro di Cappella” presso l’Ordine Rosacroce del “Tempio del Graal” di

Parigi.

• Il secondo brano verrà messo quando il Fratello Esperto consegna i metalli al

Fratello Segretario e va a ritirare il Testamento del Profano

Ho scelto Adagio for Strings composizione per orchestra d’archi di Samuel Barber.

Il brano è stato eseguito durante il funerale di Albert Einstein e John Fitzgerald

Kennedy, oltre che ai funerali di Grace Kelly e di Ranieri III Principe di Monaco e

diffuso via radio all’annuncio della morte del Presidente Franklin Delano Roosevelt

• Il terzo brano verrà messo quando il Fratello Esperto andrà a prendere il

Profano, informandolo delle prove da superare, preparandolo all’ingresso del

tempio

Ho scelto la colonna sonora dal film Interstellar di Hans Zimmer. Il Profano dopo il

Testamento ora è pronto a fare il viaggio dal proprio mondo attraverso il “Grande

Tempo” verso un luogo a lui ancora sconosciuto.

• Il quarto brano verrà messo quando il Profano viene introdotto nel tempio

Ho scelto dalla colonna sonora di Ennio Morricone dal film Nuovo Cinema Paradiso

il brano “Love Theme”.

Solo con il cuore puro si può attraversare la porta del Tempio; il Fratello Copritore

punta la sua spada dritta al cuore del Profano

• Il quinto brano verrà messo quando il Fratello Esperto avvicina il Profano

all’Oriente e il Maestro delle Cerimonie avanza con la Coppa delle Libagioni

Ho scelto di Giacomo Puccini, massone iscritto alla Loggia Francesco

Burlamacchi all’Oriente di Lucca, l’aria dalla Madame Butterfly “Coro a bocca

chiusa”, legandolo alla promessa che farà il Profano al Silenzio.

• Il sesto, il settimo e l’ottavo brano sono quelli dei viaggi che il Profano

compirà all’interno del Tempio.

Per questi brani ho scelto tre grandi compositori massoni.

Mozart, Handel, Grieg.

L’armonia sarà un crescendo come i tre viaggi, dal secondo con maggiori ostacoli

al quarto viaggio senza rumori e libero da ingombri ed ostruzioni.

di Mozart dal Requiem il brano “la lacrimosa”

di Handel la composizione “Sarabande”

di Grieg la composizione “il Mattino”

• Il nono brano verrà messo quando il Fratello Copritore porterà il Candidato

nella sala dei Passi prima della votazione di ammissione.

Ho scelto un altro brano di Mozart, l’ouverture del Flauto Magico. Così come

nell’opera Tamino viene accolto nel Regno Solare di Sarastro, così il candidato

sarà accolto nel Tempio.

• Il decimo brano verrà messo al nuovo ingresso del Candidato, ora ricomposto

negli abiti, ma ancora bendato.

Ho scelto l’ouverture del Parsifal di Richard Wagner. Parsifal è il Puro Folle, il

futuro cavaliere come il Candidato ora è pronto alla Promessa Solenne.

• L’undicesimo e il dodicesimo brano saranno messi quando il tempio si

illumina di nuovo al terzo colpo di maglietto del Maestro Venerabile e quando

il Candidato sarà iniziato dallo stesso Maestro Venerabile con i tre colpi di

Maglietto sulla spada Fiammeggiante.

Per questi due momenti fondamentali del Rito di iniziazione ho scelto per il primo

di Ludwig van Beethoven “Inno alla Gioia” e per l’altro di Richard Strauss “Così

parlò Zarathustra”

• Il tredicesimo brano sarà messo mentre il Maestro delle Cerimonie mette al

Neofita il suo nuovo Grembiule

Ho scelto dal film The Tree of Life (l’Albero della Vita) di Malick, dalla colonna

sonora di Desplat. Il brano Wild Side arrangiamento al piano di Roberto

Cacciapaglia.

Il protagonista del film vive conflitti che lo porteranno ad un proprio percorso

interiore e soteriologico, fra Bene e Male, tra la Natura e la Grazia, contrapposto

all’evoluzione del macrocosmo. Così come il percorso del Profano compiuto nei

vari viaggi del rito di Iniziazione lo hanno reso ora un Massone.

• Il quattordicesimo brano verrà messo per la pausa, mentre il Fratello Esperto

conduce il Fratello nella sala dei Passi Perduti per essere istruito da

Apprendista Libero Muratore.

Ancora di Ludwig van Beethoven “Romanza per violino ed orchestra Op. 50 in F

maggiore.

• Il quindicesimo e il sedicesimo brano ci trasportano alla fine del rito di

iniziazione.

Per il primo ho scelto del fratello massone Johannes Brahms, concerto n. 21

Hungarian Dance per pianoforte ed orchestra.

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• Per il finale uno dei brani più belli del melodramma italiano, di Pietro

Mascagni dalla Cavalleria Rusticana, “Intermezzo” che farà da colonna sonora

alla Batteria di gioia in onore del nuovo Fratello

https://www.youtube.com/watch?v=jwuXM-r_Hkw
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Considerazioni sull’esame dei profani.

K:\Considerazioni sull’esame dei profani.docx

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LA VIA REALE

LA VIA REALE

(Messaggio ritrovato nei nostri Archivi da un vecchio membro dell’Ordine)

Certamente conoscete quell’inserzione ispirata che il nostro Ordine fece apparire in diversi giornali e riviste; cominciava così:

«L’uomo deve morire senza aver liberato il suo IO interiore? Possiamo conoscere l’esperienza di una evasione momentanea dell’anima, ossia diventare uno con l’universo e ricevere l’influsso della divina comprensione?»

In molti di noi quell’annuncio provocò uno choc che determinò l’affiliazione all’A.M.O.R.C.. Forse ciò successe sei mesi, due, cinque o dieci anni dopo, poco importa. Quanto esporremo sarà valido per tutti qualunque sia il momento in cui avete cominciato a calcare il sentiero che conduce alla comunione cosmica.

Insieme cammineremo su questo via, insieme faremo i primi passi, segneremo le lunghissime tappe che comporta, vi metteremo in guardia contro i pericoli e rianimeremo il vostro coraggio rischiarando il percorso.

Innanzi tutto ricordiamoci del nostro stato mentale quando abbiamo varcato il portale che apre su questa via reale. Solo l’entusiasmo può far cedere questo portale, e solo il soffio della nostra meraviglia, del nostro stupore ne ha forzato i battenti e ci ha buttati sulla strada. Eppure, una volta passato il primo entusiasmo, ci siamo rapidamente resi conto che per procedere nella luce era assolutamente necessario avere in ogni istante il controllo sul pensiero.

Nell’antichità, dove la maggior parte dei governi erano teocratici, la vita politica e sociale era concentrata nei templi all’ombra dei quali si formavano i grandi saggi di quelle epoche scomparse. Ci inchiniamo con ammirazione davanti ai loro metodi che hanno prodotto i Platone, i Pitagora, i Socrate, i Virgilio, i Seneca e tante altre glorie dell’umanità.

In futuro questi metodi saranno certamente ripresi, ma oggi non sono praticabili, non ci appartengono. I metodi antichi erano fondati sul discernimento sintetico dove DIO appariva come l’universo in manifestazione in tutte le sue parti e in tutti gli atti della creazione. La nostra epoca, al contrario, è dominata dallo scienziato che, partendo dal discernimento analitico, va dal fenomeno a DIO. Ora, accade che il saggio dell’antichità e lo scienziato si incontrino. La scienza moderna sta verificando i più vecchi insegnamenti del mondo: i nostri scienziati nei loro laboratori, convertendo la luce in materia e riconvertendo quest’ultima in luce, verificano l’insegnamento dei Veda e quello trascritto sulle tavolette babilonesi, e cioè che DIO creò prima la luce e che la materia è solo la condensazione dell’energia radiante.

Tutte le forze oggi conosciute lo erano anche dagli antichi i quali ne conoscevano altre che presto a loro volta gli scienziati troveranno. Sappiamo per esempio che i saggi dell’antichità erano capaci di concentrare l’energia elettrica nel corpo umano e scaricarla istantaneamente quando ce n’era bisogno per infondere terrore ai loro nemici. Si sono trovate, in molte tombe delle lampade perpetue che hanno fatto sognare i nostri scienziati.

Così dunque, come i saggi dell’antichità, i no­stri scienziati d’oggi non credono alla materia. Sono del resto all’inizio del loro cammino, ma penetreranno nel mondo psichico per esplorarlo di nuovo in modo insospettabile.

Non si formano più i saggi all’ombra dei templi. Nelle grandi scuole che li hanno sostituiti, si forma un altro tipo umano nel quale prevale la cultura intellettuale. L’uomo moderno poggia la sua ispirazione sui concetti logici e dà un’interpretazione moderna alle antiche pergamene. Non necessita più di dogmi, vuole cogliere le correnti di forza che si esprimono nella lingua del nostro secolo. È mediante queste correnti che le dottrine antiche gli diventeranno accessibili. Ora, con la radio, i giornali, i libri, le riviste di ogni tipo, queste correnti si propagano nel mondo intero con una forza considerevole. Le idee, gli insegnamenti di ogni genere, le più grandi verità sono lanciate alla rinfusa, a caso e il seme germoglia dove può. L’uomo moderno, per questo, annaspa da tempo nel falso sapere dettato solo dalla sua mente. In questo periodo la sua anima si dissecca e si vuota di ideale, fino al giorno in cui gli verrà la certezza che al di là della mente c’è qualcos’altro, un altro mezzo di conoscenza. Allora sarà pronto a forzare i battenti del portale che apre sulla VIA REALE.

In verità questa via non è cambiata, sono solo variati i mezzi.

Oggi come ieri essa si apre all’interno dell’uomo; è infinitamente lunga e difficile da percorrere.

Oggi come ieri il luogo d’incontro di DIO e dell’uomo è nel cuore; e, come ieri, bisogna arrivare a vivere le verità che esprime; bisogna svilupparsi al massimo sui tre piani nei quali l’uomo è chiamato a operare: intellettuale, psichico e spirituale. Si dice che Pitagora consacrò 32 anni a questa preparazione.

Secondo Platone l’umanità aspira a questi quattro valori: amore, salute, gloria e ricchezza.

L’iniziato deve elevarsi al di sopra di essi e volgere il suo sguardo verso la verità, valore assoluto, ideale.

Avanziamo dunque ora sul cammino. La prima tappa è la più lunga, la più dura, la più complessa da percorrere. Ci sono tante cose da distruggere! Bisogna dissodare l’anima per il seme, bisogna purificare la natura umana dagli elementi negativi derivanti dai pregiudizi del retaggio, dell’educazione, dei difetti, dei vizi.

Molti sono incapaci di comprendere questo lavoro di distruzione della personalità terrestre. Vorrebbero all’istante unirsi al DIO del loro cuore. Certo, la divinità è nell’uomo; certo è nell’intimo di noi stessi che DIO può essere raggiunto e sentito, ma la maggior parte non suppone le incommensurabili distanze che separano il loro stato di coscienza da DIO come essere cosciente. Immaginano di essere «a tu per tu» con Lui.

Ci è impossibile identificarci con il nostro ESSERE SPIRITUALE eterno fintanto che non è nato in noi. È necessario che la nostra VOLONTÀ ETERNA, cioè DIVINA, si perfezioni in una forma pura e limpida secondo la legge. Ma questa forma pura non può nascere e svilupparsi in noi senza la morte della nostra personalità terrestre che è destinata a essere in qualche modo sostituita da quella forma. Quando diciamo «morte», vogliamo dire: trasformazione radicale, poiché le energie che costituiscono la nostra personalità terrestre non possono morire, possono solo cambiare direzione; si tratta di morire a uno stato attuale per accedere a uno stato nuovo dell’a­nima.

Fintanto che questo lavoro di distruzione non è terminato e la personalità terrestre sussiste, malgrado il nostro grande desiderio di trovare DIO e unirci a lui, non ci sarà possibile; potremo unirci a una creazione della nostra personalità che potremo anche confondere con Dio in noi, ma non senza pericolo.

Insomma, che cosa dobbiamo distruggere?

L’orgoglio, l’impazienza, l’egoismo, i falsi pregiudizi, le concezioni errate dettate dall’egoismo o dalle convenzioni. Ci occorrerà imparare a riconsiderare i valori, a mettere in secondo piano quelli che mettiamo al primo.

Dovremo coltivare il rispetto e la venerazione poiché un atteggiamento scettico o di derisione abbassa la dignità individuale. Colui che nella sua anima non porta rispetto per il Principio Divino non può essere un iniziato. Certo, la natura ignora l’uguaglianza, ma conosce la solidarietà; e il rispetto e la venerazione generano l’obbedienza, l’umiltà e la pazienza.

La necessità di acquisire queste virtù appartiene a un certo grado di evoluzione; esse sono legate al sentimento cosmico delle cose. Sono assolutamente inaccessibili all’uomo comune.

L’orgoglio, la vanità, sono i più grandi ostacoli che si incontrano sul cammino e, senza la pazienza, qualunque progresso è impossibile. Non ci si rende conto all’inizio quanto siano lenti i processi di evoluzione universale; occorrono molti sforzi e pazienza prima di pervenire a un successo; l’impazienza annulla di colpo tutti i progressi acquisiti. La pazienza è assolutamente necessaria per dominare le passioni. L’iniziato deve diventare il maestro di se stesso prima di diventarlo per altri.

A dire il vero, la pazienza richiestaci è senza limite. Nella vita comune gli uomini la applicano sporadicamente, ma per quanto ci riguarda dobbiamo applicarla permanentemente.

Obbedienza, umiltà, pazienza, sono alla base dell’evoluzione dell’anima. E per acqui­sire queste virtù, siate certi, le prove morali non mancheranno mai. Bisogna sottomettersi a questa inevitabile necessità anche se ci sembra ingiusta e irrazionale.

Le lotte intime, le rivolte, le esitazioni segnano questa prima parte del cammino. Ogni volta che c’è una velleità d’orgoglio, la prova di umiltà segue immediatamente. Lo scoglio più terribile è lo spirito critico del nostro cervello. Tuttavia, non siamo capaci di una critica imparziale poiché ignoriamo le tappe del percorso e ci manca il colpo d’occhio d’insieme; d’altronde, con l’intelligenza e a misura dei nostri progressi spirituali vedremo i nostri errori.

La prova più terribile è quella della pazienza. Esige uno sforzo costante, terribile, lungo: non si sa che ne sarà, quanto durerà lo sforzo. Bisogna prepararsi a esercitare una pazienza illimitata e non si sa mai se si raggiungerà lo scopo. Questa prova talvolta porta alla disperazione.

In verità ci accorgiamo molto presto che questa via sublime non impegna solo la mente, ma l’intero nostro essere: è la vita con le sue esperienze, le esigenze, le sofferenze, con i problemi capaci di sconvolgere, di provocare degli choc che sono altrettante prese di coscienza capaci di far maturare l’anima.

Giorno dopo giorno la vita costituisce un esercizio continuo. Non si può eludere la vita, tutta la vita al contrario serve da esercizio poiché tutto quello che vogliamo trovare è nella vita giornaliera. La Vita quotidiana è anche l’esercizio più efficace che ci sia e, siatene certi, ognuno di noi ha esattamente il posto che gli è più congeniale per effettuare l’esercizio di cui ha bisogno. Ogni minuto della vita deve costituire una presa di coscienza totale. L’anima e il corpo non devono essere considerati separatamente, non si tratta di spiritualizzare il corpo ma, al contrario, di pervenire, mediante le forze del­l’anima, all’incarnazione dello Spirito Eterno dell’uomo sulla terra. Non si deve disprezzare il corpo, ma è necessario a che creda all’esistenza dell’IO ETERNO che è in lui. Questo Io Eterno è la sorgente delle forze, ma il corpo, è un recipiente dal quale attingere queste forze; non è dunque da disdegnare, è utile, ma deve essere trattato da subalterno.

Con questo lavoro di distruzione della personalità terrestre non usciamo dal piano materiale. Il nostro compito è ancora grande su questo piano: dobbiamo elargire la nostra co­noscenza, sviluppare al massimo le nostre facoltà fisiche, intellettuali, morali, per le lotte sempre più ardue che avremo da sostenere.

Dobbiamo imparare a sviluppare il nostro giudizio obiettivo. Nell’uomo comune il giudizio è quasi sempre soggettivo, cioè dettato dalle sue passioni, dal suo temperamento, dai suoi sentimenti, per questo quasi sempre si inganna.

Bisogna dunque che ci dedichiamo a sondare i motivi segreti dei nostri atti, del nostro comportamento; dobbiamo sviluppare in noi lo spirito di discernimento per essere in grado di comprendere l’animo umano. La psicologia, la filosofia sono dei collaboratori preziosi. Per quanto possibile coltiveremo le scienze sul piano materiale, poiché se l’intelletto non può parlare delle cose che non conosce, può tuttavia rendersi conto dell’esistenza di una legge la cui azione permette a certe circostanze di passare sul piano materiale della manifestazione. Così impiegato l’intelletto è il servitore della forza che plasma le circostanze.

L’iniziato non deve cadere né nell’errore del mistico puramente emotivo né in quello del metafisico puramente intellettuale; deve acquisire un’esperienza vasta e profonda in questo mondo disprezzato dagli uni e sovrastimato dagli altri. Solo in questo mondo e da nessun’altra parte possiamo compiere il nostro destino, realizzare la nostra più alta individualità. Ci vengono forniti tutti i mezzi affinché possiamo prendere coscienza dell’IO SUPREMO. L’esperienza del mondo ci è stata imposta dallo SPIRITO; e questo mondo fisico è il punto cruciale dove dobbiamo scoprire la verità mentre siamo nella carne.

Perciò non voltiamo le spalle alla vita, significherebbe far avvizzire il nostro cuore: non condanniamo niente e non cerchiamo di identificarci in niente; ogni identificazione e ogni condanna provocano il conflitto dei contrari, e un conflitto ne genera altri. Dobbiamo restare aperti a tutti gli aspetti della vita senza eccezione e avvicinare ogni cosa senza emozione, senza rifiuto, senza giustificazione; il nostro atteggiamento, allora, non provocherà più conflitto poiché un fatto in sé, non ha contrari; è il piacere o il malessere che proviamo avvicinandolo che provoca i contrari. La REALTÀ non può essere percepita finché non cessa l’opposizione dei contrari.

Senza uscire dal piano materiale arriviamo al termine della nostra prima tappa dove bisogna dire SI alla più alta esigenza del nostro essere.

Da molti dettagli ci accorgiamo che il nostro modo di sentire, di reagire, ha subito un rinnovamento. L’orgoglio degli altri non ci disturba più e, quando nella nostra coscienza constatiamo continuamente le nostre «mancanze» e la nostra impotenza, non ci indispettiamo né sorprendiamo che anche gli altri se ne accorgano. Ci rendiamo conto anche che tradiamo meno frequentemente i nostri pensieri, nel senso che conformiamo i nostri atti ai nostri pensieri a misura delle prese di coscienza che diven­tano sempre più numerose.

Tuttavia, Fratres e Sorores, non lasceremo questa prima tappa senza darvi un consiglio di considerevole portata.

Se è facile parlare di rinuncia, se è agevole dare il via alla presa di coscienza di noi stessi per distruggere la nostra personalità terrestre, è molto più difficile farlo, e non ci sbagliamo dicendovi che nessuno può riuscirci senza due aiuti di una potenza infinita: la FEDE e la PREGHIERA; queste vanno mano nella mano e sono inseparabili.

Fratres e Sorores, finché noi stessi non siamo in grado di fare delle verifiche, solo la fede può stimolarci, darci il coraggio e mantenerci fermi sul cammino; solo la preghiera può ridarci le forze nell’ora dolorosa in cui siamo presi dallo scoraggiamento sulla via che abbiamo scelto.

Nel corso della prima tappa solo la preghiera sarà il nostro legame con la divinità.

Pregare non è un esercizio riservato ai deboli. Non si tratta di fare i mendicanti davanti alle porte dello splendore divino. Non è nemmeno una pozione calmante, un rimedio contro la paura, la sofferenza, la malattia, la morte.

Pregare è la cosa più naturale che ci sia, è nutrire l’anima, darle il suo pane quotidiano. Noi moriamo di fame spiritualmente. Abbiamo bisogno di respirare per vivere, ma ci bagniamo anche in un mondo spirituale e la nostra anima ha bisogno di impregnarsi di questo agente spirituale proprio come il corpo ha bisogno d’ossigeno. Non è con il cervello che preghiamo, ma con il cuore; si sente Dio come il calore del sole, come il profumo di un fiore.

Procediamo per analogia e facciamo un esempio sul piano materiale. Supponiamo che siate spossati dalla stanchezza, mezzi morti dal freddo. Che cosa fate? Che cosa desiderate con tutte le forze dal vostro essere? il riposo e un dolce calore. Niente al mondo conta per voi più del riposo e del calore. E quando vi sarete seduti confortevolmente davanti a un bel fuoco, dubiterete di essere riscaldati, supplicherete il fuoco di riscaldare le vostre membra intorpidite? Sarebbe follia. Vi accontenterete di sedere ad una giusta distanza e direte: Dio mio! Come si sta bene qui… Tutte le cellule del corpo si lasceranno penetrare dal calore irradiante e una dolce voluttà vi invaderà; automaticamente riprenderete le vostre forze e facoltà. Ebbene, pregare non è altro che andare a riscaldarsi e a rinnovare le forze e le facoltà al divino focolare di pura luce che possiamo raggiungere solo per mezzo della scintilla divina nel profondo di noi stessi. Cerchiamo dun­que il più spesso possibile una presa di contatto con questo incalcolabile potenziale di energia e lasciamo scorrere i suoi flutti nelle vie che avremo preparato dentro di noi.

Eccoci pronti a intraprendere la seconda tappa. Non ci è stata risparmiata alcuna prova. Queste prove non le abbiamo subite nel tempo, ma nella vita, nel momento esatto in cui dovevamo subirle; ogni prova da cui siamo usciti vittoriosi ha decuplicato le nostre forze. Possiamo ora avvicinare il campo dell’anima, cominciare le nostre esplorazioni sul piano psichico. Abbiamo imparato a conoscere certe leggi e cominceremo a sviluppare i poteri latenti dell’anima: il nostro grado di purezza e di coscienza ci permetterà di non dubitare di questi poteri. D’altra parte, a questo stadio, un desiderio si precisa in noi e si fa ogni giorno più ardente: tradurre in tutta la nostra vita la volontà dell’IO ETERNO e far tacere la volontà dell’ego.

Certo, siamo ancora lontani dall’aver spezzato le ultime barriere della prigione mentale e le lotte contro la personalità terrestre continuano; ma, ormai, in ragione dei terribili sforzi che avremo fornito, alte potenze ci verranno in aiuto e vi diremo più avanti in quale modo.

La cultura morale, intellettuale, continua senza interruzione; prende un’estensione e una forma sempre più elevata. Non ha più un carattere individuale, ma universale, ci impone l’obbligo di atti utili. L’amore cambia piano e abbraccia tutta la creazione; crea anche degli obblighi: tendere una mano soccorritrice ai buoni come ai cattivi quando li si vede soffrire e smarrirsi.

Impariamo a essere un giudice imparziale. In una parola, cambiamo sfera di evoluzione e passiamo dal piano materiale al piano spirituale. È da questo momento che cominciano il nostro isolamento e le prove che ne risulteranno.

Il controllo delle sensazioni è continuo in ogni istante. Questo controllo, e il potere di concentrazione, servono da regolatore delle passioni mettendo un freno alle cattive e stimolando le buone. Goethe diceva che la sola cosa che lo distingueva dal resto dell’umanità era il potere che aveva su qualunque soggetto. In questa tappa dobbiamo poter fermare i nostri pensieri su un soggetto scelto per il tempo necessario a considerarlo sotto tutte le sue sfaccettature.

In questa tappa inoltre adotteremo l’atteggia­mento che ci permetterà di ascoltare «LA VOCE DEL SILENZIO». In un isolamento completo, lontano dal mondo, dai rumori, impareremo ad attingere nel silenzio mistico della natura insegnamenti universali. Per questo dobbiamo sgombrare ogni ostacolo creato dal mondo materiale. In quello stato possiamo analizzarci, notare i nostri difetti, mettervi un freno e ascoltare l’insegnamento del grande silenzio pieno d’armonia.

A questo punto ci accorgiamo che l’istinto primitivo che spinge l’uomo comune ad attaccare appena si sente leso, scompare. Non c’è più esplosione di passioni: tutto si calma e si neutralizza; comprendiamo la nostra solidarietà con il resto dell’umanità e la scusiamo invece di opporle il nostro egoismo personale.

LA VOCE DEL SILENZIO ci aiuta a comprendere il problema del bene e del male. Vediamo l’antinomia universale portare l’uomo, attraverso il gioco delle forze contrarie, allo scopo supremo della sua evoluzione. Impariamo anche che è nella lotta che maturiamo e diventiamo coscienti.

LA VOCE DEL SILENZIO ci spiega la grande le­zione del dolore mediante la quale si ri­genera l’in­tera natura. Ogni nascita corrisponde a una morte, ogni sofferenza genera una speranza e la speranza una gioia. E in questo ciclo eterno il dolore si alterna invariabilmente alla gioia.

Infine, LA VOCE DEL SILENZIO chiama verso le regioni del sacrificio, consacrazione su­prema della Verità.

Allora, quel porci eternamente domande, cessa. Diventiamo silenziosi. Tuttavia l’ego personale non è ancora morto e i colpi di martello si abbattono ancora sull’incudine. I poteri dell’anima sono sempre molto indisciplinati e non portano ancora né il sigillo della padronanza, né quello della grandezza, a causa della presenza ancora attiva dell’ego.

Simile a una sentinella siamo dunque sempre sul chi va là poiché le trappole degli altri e quelle che ci tende il nostro ego sono numerose e inattese. Il combattimento ci sembra senza fine, ignoriamo i progressi che abbiamo fatto; non sappiamo né quando né come potremo arrivare e dobbiamo attingere in noi le forze necessarie alla lotta. Allora, a quel punto, proviamo una delle torture morali più penose: il dubbio. Dopo il sacrificio di tutto il nostro io egoista, ci domandiamo con angoscia se tutto questo serve a qualcosa, se la nostra vita non è stata sprecata; un profondo scoraggiamento ci invade e conosciamo la tristezza spirituale.

È una crisi dell’anima abbattuta dal grande sforzo morale che ha dovuto sostenere per distruggere i legami della materia. La sua vittoria l’ha esaurita. È il vuoto, è l’angoscia profonda. Tutto scompare: la fede, l’entusiasmo, il fuoco sacro; è lo scorag­giamento più assoluto. Uno spirito di rivolta ci tortura, i nostri maestri ci sono odiosi, la nostra missione ci sembra irrealizzabile e la verità per la quale abbiamo tanto lavorato ci ap­pare un miraggio. Stanchi, scoraggiati, spossati, aspiriamo solo alla calma solenne della morte. Eppure, lontanissima, appena percettibile, vive ancora una speranza, il tempo passa: non si muore; e un giorno una parola, una lettura, un episodio riattizza il fuoco; l’oscurità si disperde, è la convalescenza. La crisi è terminata, ma siamo senza forza sebbene la luce sembri più risplendente che mai.

Prove spirituali, poteri occulti, conoscenze assimilate mediante un lavoro assiduo ci portano alla fine della seconda tappa. La materia si riduce, riconosce la supremazia dello Spirito, fra poco obbedirà.

Simile al soldato che ha provato le sue forze su tutti i campi di battaglia, abbiamo trionfato su gran parte della personalità materiale, la lotta deve continuare, ma la rosa, quando l’anima arriverà a maturità, sboccerà infine sulla croce. La formazione del Cristo in noi può prodursi solo nello stato che contiene in se stesso le virtualità di Dio. Essa è perfetta, ma è necessario che nasca, si ingrandisca e si espanda nella vita. Il chicco umano è destinato a diventare il SIGNORE del piano dell’anima.

Se i poteri psichici ottenuti sono ancora deboli non preoccupiamocene oltre misura, adottiamo deliberatamente l’atteggiamento seguente:

Fissiamo il pensiero, i sentimenti, il volere sull’uomo spirituale perfetto in noi. Questo atteggiamento interiore deve essere continuo, durante qualunque compito, in tutte le circostanze e i gesti della vita quotidiana. Insomma, dobbiamo essere come un telescopio costantemente puntato sull’uomo spirituale che vive, agisce, si manifesta grazie al suo strumento fisico: il corpo materiale.

Dobbiamo noi stessi, grazie alle nostre stesse forze, provocare la metamorfosi in ogni attimo della vita, in ogni comportamento quotidiano, in ognuno dei nostri pensieri, in ogni desiderio, in ogni slancio. Tutto, assolutamente tutto, deve essere sottomesso al controllo della volontà formatrice. Il nostro atteggiamento non deve mai rilassarsi, bisogna che determini tutta la nostra vita giornaliera.

Allora siate certi accadrà quanto segue:

Senza il vostro concorso cosciente si formerà un centro di forza ogni giorno più rilevante. Un legame allora si stabilirà tra questo centro e altri centri o nuclei di forza simili, già perfetti, senza che dobbiate intervenire mediante un atto di volontà qualunque. Non appena si stabilirà questo legame beneficerete dell’aiuto spirituale di co­loro che hanno già trovato. Sarete diventato un punto ricettore sintonizzato su una certa lunghezza d’onda spirituale. Non c’è bisogno di un volere cerebrale per creare questo centro, al contrario, esso impedirebbe il processo di cristallizzazione delle forze che si precipitano le une verso le altre per costituire questo nuovo centro indipendente dalle funzioni cerebrali.

Dopo questo contatto con gli aiuti spirituali le vostre forze saranno di nuovo sottoposte a una specie di prova i cui risultati determineranno l’aiuto ulteriore che sarà in armonia con il vostro grado d’evoluzione. Sono questi aiuti che permettono di completare il lavoro e solo i più forti, i più puri, arriveranno all’unione con la luce originale.

Unirsi al Sé luminoso è conoscere la propria individualità indistruttibile e provare simultaneamente in sé la coscienza di tutte le individualità spirituali manifestate negli esseri umani. L’essere è fuso in una forza di coscienza collettiva, ma la sua coscienza non si dissolve nella coscienza comune. Fa l’esperienza della vita cosciente nell’Io Supremo. L’ego allora si abbandona completamente e può dire in tutta umiltà: «Che la tua vo­lontà sia fatta». Non scompare, diventa un organo mediante il quale agisce l’Io Supremo. Da una parte l’uomo è collegato al principio primo, dall’altra a tutta l’umanità. È diventato un centro di concentrazione dello Spirito e questo centro diventa a sua volta uno strumento di penetrazione nell’intelletto degli uomini per provocare il loro risveglio spirituale.

Solo allora l’iniziato può permettersi di dire che il corpo è irreale, poiché il corpo resta reale finché non abbiamo realizzato Dio. Se dico che il corpo è irreale, mi inganno e inganno gli altri, ma se ho realizzato Dio, io vedo che è irreale. E questo Dio personale che l’iniziato realizza è reale dal piano in cui lo realizza, così come il corpo è reale sul piano fisico, ma, oltrepassato questo piano, scompare, non è più reale del corpo. Quel Dio è stato creato dalla volontà libera e cosciente dello Spirito che forma se stessa e diventa per se stessa un Dio.

Quando questo Dio sarà nato in noi saremo usciti dal turbinio delle vibrazioni mentali e il Cristo in noi camminerà nella vita senza paura. Il male, il peccato, i limiti, la morte, il timore, la paura, tutto scomparirà dalla mente e cammineremo in tutta tranquillità senza inquietarci per tutte queste cose. Non sprecheremo più il nostro tempo nel cercare l’affermazione e la felicità, perché la porta del tempio sarà sempre aperta per noi e potremo trovarvi il nostro Dio, quella presenza. Ogni tumulto cesserà, avremo trovato l’ultimo rifugio.

Non saremo più divisi tra i nostri desideri impotenti e le nostre angosce divoranti. Nella nostra anima regnerà una grande calma, quella che riflettono i colossi d’Egitto. È stato chiamato ieratico il portamento delle statue egiziane. Questo termine si adatta loro ammirevolmente e niente evoca meglio l’iniziato di questi visi improntati di una nobiltà, di una grandezza serena incomparabile.

Questa calma l’iniziato la ottiene dopo dura lotta. Giunto al termine del cammino sa che tutte le sofferenze, le prove, le sventure sono per il bene. Questa opinione, è vero, non è quella di tutti. Incompreso, può accadere che diventi vittima della cecità umana, ma egli accetta la sua croce. La sua ricompensa è l’illuminazione, fonte di rivelazione al di sopra di tutte le fonti, esperienza eminentemente solenne e convincente per colui che l’ha avuta nella sua forma più pura. Egli cammina sicuro e risoluto perché l’essenza nascosta delle cose e il senso intimo della sua missione gli sono stati rivelati. Ora può affrontare gli ostacoli poiché la sua anima è forgiata in potenza e conoscenza. Il suo cuore è divorato dal fuoco ardente della fede e le sue armi invincibili gli assicurano la vittoria finale.

Fratres e Sorores, ascoltatemi: La strada è lunga e dura e nell’ora dolorosa in cui sarete tentati di lasciarvi cadere per la stanchezza, mormorate questi brevi versi tratti dal Salmo della Vita di Longfellow (traduzione Mme de Pressensé):

Va!, e che ogni giorno ti trovi alla sua aurora,

Più prossimo allo scopo sacro, con la fiaccola nella mano! 

Agisci!, il tempo è breve, corre e divora 

Ciò che non è reale, immortale e divino. 

Che il tuo piede sulla soglia lasci un’impronta nobile 

E forse, seguendo i tuoi sentieri dopo di te, 

Qualche spirito agitato dal dubbio o dal timore 

Ritroverà la speranza, il coraggio e la fede.

Lascia al vago avvenire le sue lontane promesse, 

Allo sterile passato i suoi sorrisi d’addio, 

Allontana i sogni d’oro e le fiacche tristezze,  Il presente dip

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LA CURA

LA  CURA

“La Cura“ di Franco Battiato è una canzone, una preghiera-meditazione sulla essenza dell’amore come “cura “ nei confronti di un altro essere. Un aspetto straordinario di questo brano è che esprime il concetto di “cura ” in tutte le sue manifestazioni interpersonali, sia dell’amante verso l’amata, sia del fratello verso un altro fratello, sia del padre verso il figlio, sia dell’Essere Supremo verso la sua creatura, l’uomo. E’ la descrizione di viaggio di accompagnamento che comprende tutte le problematiche della vita dell’uomo, incluso il dolore e l’abbandono, senza dimenticare che ogni persona può essere speciale per un’altra persona, e che i ruoli possono invertirsi.

Chi canta è un saggio che ha intuito nella “Cura” l’assoluto, la verità di amare, nel senso più esteso che consiste, in questo caso specifico, nel prendersi cura di un altro essere, sollevandolo da tutto, stargli accanto, anche se gli è impossibile evitargli il dolore che inevitabilmente la natura umana comporta.

Introdurre questa tavola con le parole di questa canzone mi permette di esporre, in modo concreto, una parte del raffinato significato della parola “Cura”. L’etimologia di “cura”deriva dal latino cura ed ancora più anticamente da “coera” e “coira” , che gli antichi etimologisti ricongiunsero a “cor” , cuore e fantasticando insegnarono “cor-urat” perché scalda, ossia stimola il cuore e lo consuma; altri fanno derivare questo termine da “cusa” (la r muta in s) e “Ku” assume il significato di battere, di martellare, di accudire;  altri ancora farebbero derivare questa parola dalla radice “Kau” che significa nelle lingue slave o russe: osservare, guardare o da “Kavi“che vuol dire assennato, saggio o da “kuti”, conoscere, guardare, ascoltare.

         Comunque possiamo sintetizzare che tale termine esprime: sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza, grave e continua inquietudine.

         Se esaminiamo le definizioni delle virtù utilizzate per lodare gli imperatori romani, riportate nelle varie fonti letterarie, epigrafiche, numismatiche o monumentali, oltre alle quattro virtù fondamentali cioè virtus, clementia, iustitia e pietas, inscritte per la prima volta nello scudo aureo conferito a Cesare Augusto il primo imperatore, ritroviamo tra le oltre cinquanta, anche il termine “cura”. La cura, una virtù simile alla diligentia, ha significato di zelo e di scrupolo con cui si opera. Cicerone, infatti, comprende la cura come un aspetto della diligentia.

Il significato della “cura” varia a secondo dell’ente oggetto della cura. Può essere utile, secondo me, al fine di una più articolata esposizione e una migliore comprensione del termine, suddividerla almeno in tre categorie:

1. La cura di sé

2. La cura del mondo che ci circonda o delle cose

3. La cura verso il nostro prossimo 

1. LA CURA VERSO SÉ

         La Cura verso di sé, è pro-curare nutrimento alla propria anima, per farla star bene; è energia di vivere; è impulso esistenziale; è interesse, amore per il proprio essere; è piacere di esistere.

         Il significato profondo della “Cura di sé” si disvela in maniera articolata in  Goethe ed in Heidegger. “La sostanza dell’uomo è l’esistenza”, dice Heidegger (1889-1976) e la “cura di sé” fa sì che “gli importi del proprio essere”. La cura è un fenomeno esistenziale, primario e fondamentale. La cura in tal caso è intesa come “preoccupazione vitale”. Nella cura si fondono sia il volere che il desiderare, sia la pulsione che l’attrazione . L’uomo deve prendersi cura di sé apportando o pro-curando un impulso “a vivere “, ad andare “in – avanti verso…..”  ad ogni costo.

         Il filosofo tedesco Martin Heidegger nel suo capolavoro “Essere e tempo” del 1927, per fare comprendere meglio il significato della cura riporta una favola di un poeta latino, Gaio Giulio Igino . La Cura in questa favola è il nome di una divinità minore.

La favola inizia con «Cura cum fluvium transiret…»

Mentre attraversava un fiume, la “CURA” scorse del fango argilloso, lo prese pensosa e cominciò a modellare un uomo. Mentre considerava tra sé e sé che cosa avesse fatto, sopraggiunse Giove; l’Inquietudine (cura) lo pregò di infondere lo spirito nell’uomo, cosa che ottenne facilmente da Giove. Ma siccome l’Inquietudine pretendeva di darle il proprio nome, Giove (glielo) proibì e disse che invece bisognava dargli il suo. Mentre l’Inquietudine e Giove disputavano sul nome, si fece avanti anche la Terra, e sosteneva che bisognava imporgli il suo nome, dal momento che (essa) aveva fornito il proprio corpo (per plasmarlo). (Allora) presero come giudice Saturno; ma Saturno decise diversamente: “Tu, Giove, poiché infondesti lo spirito, dopo la morte dell’uomo riceverai la (sua) anima; tu, Terra, dato che fornisti la materia, riprenderai il (suo) corpo; l’Inquietudine, siccome lo ha modellato per prima, lo possieda per tutta la vita. Ma, dal momento che c’è disaccordo sul suo nome, sia chiamato homo, perché è fatto di humus (terra).

In questa favola emerge bene il significato della cura, come qualcosa a cui l’essere umano “per tutta la vita” appartiene; inoltre la presenza della cura coincide con la nota concezione dell’uomo come “compositum” di corpo (terra) e di spirito (anima). In questa favola il termine latino di Cura va inteso come preoccupazione vitale, ansia vitale, inquietudine esistenziale, che personificata  a  una dea, accompagna l’uomo tutta la vita. Il termine esprime

anche apprensione, affanno, sollecitudine, premura e devozione tutte caratteristiche inscindibili dell’animo umano. La cura è la vera creatrice e accompagnatrice dell’uomo. L’uomo si caratterizza secondo Heidegger, non solo perché sa parlare, o ha la ragione o tiene il logos ma perché gli importa del proprio essere.

L’uomo, dice Heidegger, non è ebreo o greco, razionale o irrazionale “uomo è colui che si chiede chi e che cosa e come egli stesso sia”.

“È colui che si pone la “domanda”, rifiutando ogni “ tesi somma”, ogni “verità assoluta ed eterna”.  Ecco il senso stesso della “Cura di sé ”, secondo il filosofo tedesco, rispettare il senso dell’essere anzi del suo esserci.

Anche Johann Wolfgang Goethe (1749-1832 – Letterato tedesco, che aderì con entusiasmo alla massoneria e fu iniziato a Lipsia nel 1780 nella notte di S. Giovanni, nella Loggia “Anna Amalia alle tre rose”), affronta nella seconda parte (atto V) della sua opera più importante il Faust, il simbolismo della cura. Il Faust di Goethe è uno scienziato, insoddisfatto dei limiti del sapere umano che, ormai vecchio, viene tentato dal demonio Mefistofele. Gli vende la propria anima in cambio di giovinezza, sapienza e potere. Ma alla fine del suo viaggio Faust, sente il desiderio di essere libero, e sotto il dominio della “Cura” ritorna uomo, accettando di nuovo la vita reale, con il suo susseguirsi di bene e di male, con la sua alterna vicenda di tormento e di serenità. Faust accogliendo la Cura e sotto il suo dominio si sente un uomo nuovo, raddoppia le sue energie e sente un impeto intenso di vivere. Il nuovo Dott. Faust è più completo, più equilibrato e maturo, specialmente  nei suoi rapporti con gli altri uomini. Faust si sente accresciuto di luce interiore.

“La notte sembra scendere sempre più fonda

ma brilla entro di me una luce chiara…..

Tutta la vita, il pensiero e l’arte di Goethe fu dominata dalla sua massima prediletta “ricordati di vivere”.  

“Memento mori !

perché dovrei ,

in una vita così breve

tormentarmi ?

Queste righe sono un inno alla vita. Fanno comprendere una disposizione costante: un amore illimitato alla vita, la meraviglia di fronte alla vita e all’esistenza, benché esse presentino aspetti dolorosi e terrificanti.

In contrapposizione al “memento mori” (ricordati che devi morire dei cristiani, neoplatonici e romantici).

Fu proprio durante il suo viaggio in Italia, il contatto con l’arte antica, incontrata nelle vie di Roma, di Napoli, di Pompei, che scoprì il modo di vivere degli uomini dell’antichità, da lui chiamato “la salute del momento” ovvero la gioia spontanea e immediata di vivere, opposta alla nostalgia di un aldilà cara ai cristiani.

L’esercizio spirituale, caro a Goethe, era quello di concentrarsi sull’istante presente, che permette di vivere intensamente ogni attimo dell’esistenza senza lasciarsi distrarre dal peso del passato o dal miraggio del futuro (Attimo fuggente, arrestati, sei bello!). Un secondo esercizio spirituale era quello dello sguardo dall’alto (come immaginarsi di salire su una montagna), che consiste nel distanziarsi dalle cose e dagli eventi, sforzandosi di cogliere una prospettiva d’insieme, distaccandosi dal proprio punto di vista individuale, parziale e particolare. Il pericolo che minaccia l’uomo, diceva Goethe, è di non potersi innalzare oltre la banalità o la mediocrità. In tal caso la vita risulta una routine banale, senza ideali, dominata dall’abitudine e dagli interessi egoistici che ci nascondono lo splendore dell’esistenza. Goethe incarna la figura di un uomo antico e pagano, ovvero un uomo felice, che vive nel presente, la cui figura viene opposta all’inquietudine morbosa dell’uomo moderno che si protende quasi costantemente verso il futuro.

 Anche se la rappresentazione della vita felice per gli antichi greci, fatta da Goethe, è stata oggetto di critiche. August Boeckh scriveva” I greci erano più infelici di quanto credano molti”  e Schopenhauer metteva in risalto il profondo pessimismo greco, scrivendo:

“ La miglior cosa per gli uomini di questa terra è non essere nati e non vedere la luce del sole, ma se son nati, allora quanto più presto possibile valicare le porte dell’Ade e giacere profondamente sepolti”

Anche Orazio già parlava dell’”oscura pena degli uomini” e Lucrezio denunciava l’inquietudine interiore degli uomini :

“Gli uomini sentono il peso del loro animo che li tormenta e li opprime …

li vediamo non sapere che cosa ciascuno desideri,

e sempre cercare di mutare luogo nell’illusione di trovare sollievo.

Così ognuno fugge se stesso e suo malgrado vi resta attaccato e lo odia”.

Seneca addirittura analizza le “malattie dell’anima” (La moderna sindrome depressiva) come l’avversione verso se stessi (condizione completamente opposta della “Cura” che esprime come abbiamo detto amore verso se stessi, interesse al proprio essere-ci), il disgusto della vita e dell’universo.

Il pensiero di Goethe riprende sia la dottrina epicurea sia quella stoica in quanto entrambe privilegiano il presente a scapito del passato e soprattutto del futuro e stabiliscono di principio che la felicità deve trovarsi solo nel presente. La saggezza consiste nel ricercare la tranquillità dell’anima, cioè in definitiva uno stato di piacere. Secondo gli epicurei, gli stolti, cioè la maggioranza degli uomini, sono divorati da desideri insaziabili che hanno come oggetto ricchezza, gloria, potere, piaceri carnali disordinati. Tutti piaceri che non possono essere soddisfatti nel presente. Gli stolti quindi non sanno godere del presente, aspettano solo i futuri e poiché questi non possono essere sicuri sono logorati sempre da angoscia e timore.

Il pensiero epicureo impone quindi una vera e propria trasformazione radicale dell’atteggiamento umano nei confronti del tempo, una metamorfosi che deve essere effettuata in ogni istante della vita.

2. LA CURA VERSO IL MONDO E VERSO LE COSE

         La cura verso il mondo è un atteggiamento costante di attenzione alla realtà quotidiana, al paesaggio; è la volontà di stupirsi, istante dopo istante, di essere-ci; è la capacità di riuscire a trovare dolcezza nel naufragare nell’inesauribile “arcobaleno di stelle” della nostra breve esistenza.

         La “Cura”, in questo specifico caso, esprime la forza interiore dell’uomo di riflettere, di interpretare e di interiorizzare tutto ciò che vede.

Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice:

“Salve, ragazzi, com’è l’acqua oggi ?”

I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e dice:

“ Che cavolo è l’acqua?”.

         L’aneddoto  tratto da  “Questa è l’acqua” di David Foster Wallace (1962-2008) , scrittore americano, esprime bene quello che io intendo con il termine  “Cura verso il mondo o verso le cose”, cioè una continua attenzione, dedizione, consapevolezza, curiosità, rivolta con grande cura a tutto ciò che ci circonda, alla nostra realtà, giorno dopo giorno. Questa è l’acqua!

         Dobbiamo imparare a conoscerla, a guardarla, a sperimentarla, a interiorizzarla.

a) La cura verso il sublime.

         Il filosofo Ludwing Wittgenstein (1889-1951) figura emblematica della filosofia del ‘900, scrisse: “In ogni percezione echeggia un pensiero; sia perché l’occhio è sempre antico da un punto di vista filogenetico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni vecchie e nuove che gli provengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua , dalle dita, dal cuore e dal cervello”. L’uomo ha sempre cercato di costruire se stesso sfidando la grandezza e il predominio della natura. Da tale confronto (uomo/natura) l’individuo sente dentro di sé risvegliare la parte più profondadell’anima, innalzandola ad altezze che diversamente non avrebbe mai raggiunto.

         Questo rapporto aiuta l’uomo a ritrovarsi e a forgiarsi. Questa peculiare emozione definita “calma inquieta”, caratterizzata da un piacere misto al terrore, si prova quando si contemplano spettacoli “sublimi”, in cui la natura mostra la sua smisurata grandezza e la sua forza distruttrice e l’uomo sente la sua debolezza fisica, la sua vulnerabilità, ma anche la sua superiorità dovuta alla presenza del pensiero. La forte emozione permette al soggetto didilatare la sua anima e di entrare in armonia con il cosmo, con l’eterno, intuendo il senso dell’infinito e della trascendenza.

         Spettacoli sublimi sono per esempi: il cielo stellato, il vento che agita le onde del mare .…. gli oceani, le montagne, le foreste, i vulcani, i deserti.  Il sublime si distingue dal bello; sublime è una bellezza maestosa ma inquietante che ti attrae ma contemporaneamente ti allontana: “La notte è sublime, il giorno è bello”.

         Sublimi sono quelle situazioni in cui viene meno qualcosa, esprimono l’assenza. Sublima è l’oscurità (assenza di luce), il silenzio (privazione di suono), il vuoto (privazione di oggetti); solitudine (privazione di socialità), l’infinito (in quanto privazione di limiti) e soprattutto l’oggetto più sublime che esista quello della morte (in quanto privazione della vita). L’individuo comunque esce temprato da questa prova con il sublime, è un tirocinio che ha come scopo quello di controllare le proprie angosce e rendere familiare, per quanto possibile, una realtà piena di pericoli. Quest’aspetto può essere correlato con il percorso del libero muratore che esegue una sorta di “tirocinio simbolico” utile ad affrontare le difficoltà insite nella vita, compresa quella della malattia e della morte.

         Shelling diceva che:

“ La grandezza dell’uomo si manifesta anche nella calma accettazione della morte e nei rovesciamenti di fortuna, nella virile sopportazione del dolore e dell’infelicità”.

         Per percepire e ricercare il sentimento del sublime occorre una appropriata educazione, una “Cura nei confronti del reale” che ci innalza al di sopra della condizione di mediocre banalità. Se manca si è ciechi e sordi di fronte al sublime. Il fattore estetico è indispensabile a forgiare il “sé” più nobile dell’individuo.  In Massoneria, l’adepto percepisce costantemente ed impara a curare il senso del sublime.  Il sentimento del sublime, che ha avuto il suo apice nell’Europa del ‘700-‘800 (Romanticismo), ha inciso infatti in modo significativo sugli ideali massonici.

b) La cura verso le cose

         Rivolgere la nostra cura verso il mondo che ci circonda vuol dire non solo verso la natura, come abbiamo descritto sopra, ma anche verso le “cose”.

         Le cose sono tutto ciò che interessa a noi, che ci sta a cuore. Le “cose” non sono soltanto cose ma recano tracce umane, recano i segni del tempo.

         Esse sono il nostro prolungamento. Dobbiamo cercare di comprendere la vita delle cose, il dorso delle cose, cioè intravedere quello che c’è al di là delle cose, dovremmo fare come i pittori che hanno uno sguardo affinato, riescono a vedere l’invisibile nel visibile. Le cose stesse sembrano parlare “res ipsa loquitur” e guardarci. Le cose inoltre nascondono precisi valori simbolici ed i simboli per la loro natura congiungono il visibile rappresentato all’invisibile assente.

– Il fascino delle rovine per esempio è forte, la loro incompletezza offre spunti di riflessione sul passare del tempo, sulla caducità, sulla natura effimera della vita umana. Gustave Flaubert, dopo una visita alle Terme di Caracalla, nel 1846 scriveva a un amico:

”…ho visto alcuni ruderi…pensai di nuovo ad essi ed ai morti che non avevo mai conosciuto….amo soprattutto la vista della vegetazione che copre le vecchie rovine, questo abbraccio della natura, che viene a seppellire rapidamente le opere dell’uomo nel momento in cui la sua mano non riesce più a difenderle, mi colma di una gioia ampia e profonda”.

– L’analisi dei dipinti, altro esempio, specialmente delle nature morte, basti pensare a quelle del Caravaggio, di Matisse, di Picasso, di De Chirico e di Morandi  ci inducono, se non siamo distratti e superficiali, come dicono i critici d’arte, “ a prestar orecchio alla loro voce ”.

         L’aspetto simbolico prende il sopravvento su quello materiale. La capacità di porre attenzione anche alle cose che ci circondano, di avere cura di esse, significa:

ordinare e dare senso e bellezza al mondo– Diakosmesis- , in tal modo diamo senso e bellezza anche a noi stessi.

         Credo che anche questo atteggiamento dell’animo umano espresso sotto forma di “cura verso le cose”, faccia parte integrante dell’insegnamento massonico, specialmente riferendosi alla sua formazione simbolica e trascendentale.

3. LA CURA VERSO GLI ALTRI

         La prima domanda da fare è capire chi è il nostro prossimo?  La risposta viene dalla lettura della parabola del buon Samaritano, che è una lezione sull’”universalità” dell’amore per il prossimo. “ Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova……Aveva chiesto a Gesù chi è il mio prossimo? “e Gesù disse: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.  Per caso un sacerdote… lo vide e passò dall’altra parte, anche un levita… lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione… e si “prese cura” di lui. Poi Gesù disse: chi di questi tre ti sembra sia il prossimo di colui che è incappato nei briganti?

         Quegli rispose: “chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse:  “Va e anche tu fa lo stesso”.

         Quindi l’amore per il prossimo ha i suoi confini, non è come crediamo genericamente l’altro, chiunque sia ma è “colui che mi è più vicino”. In greco “plesion” è colui che mi è vicino. Il “Sacerdote” e il “Levita” (a) , ambedue uomini di culto dedicati alla devozione, anche se erano a lui prossimi, sono passati ma solo il Samaritano si è chinato verso il sofferente e lo ha soccorso facendosi prossimo a lui. Mi preme sottolineare che quindi “prossimo si diventa”;  un soggetto diventa prossimo all’altro solamente quando si “fa prossimo egli stesso”.  Il mio prossimo è colui che mi soccorre nel bisogno, è colui che ha avuto compassione di me. In tal modo riusciamo anche a capire chi, nonostante sia prossimo/vicino a noi, non si comporta o non si è comportato come mio prossimo.

         Noi possiamo cambiare anche la domanda “chi è mio fratello?”.

         Mio fratello o mia sorellaè colui/lei che potenzialmente potrebbe diventare  “mio prossimo”, anche se il “prossimo non si sceglie”, potrà essere chiunque,  anche il mio peggior nemico, ed io stesso posso essere il peggiore degli uomini, per il mio prossimo. Se estendiamo il concetto diventano fratelli/sorelle tutti quelli /e che hanno bisogno del nostro aiuto, delle nostre cure, così “prossimo” e “fratello/sorella” possiamo considerarli sinonimi.

         La Libera Muratoria essendo un Ordine Iniziatico, è una cerchia limitata di soggetti “scelti” e quindi tutti vincolati a “curare” nel bisogno, a farsi prossimi in modo particolare ai propri Fratelli.

         Farsi prossimi all’altro, curare l’altro introduce concetti come l’altruismo e la carità.

         La carità (b) è dare quello che non si ha, una generosità lontana dall’altruismo, che invece è addomesticamento dell’altro, è una variante dell’egoismo.

         La “caritas” è quell’impulso interiore, quella “verità interiore” , quella “cura ad agire nei confronti degli altri, in modo giusto e vero (Caritas in Veritate). I due termini – cura e carità – coincidono.

         La prima è un’espressione prevalentemente laica, la carità invece è legata all’insegnamento cristiano – la carità è tutto “ Dio è carità – Deus Caritas est”.

         Agostino indica l’esistenza dentro l’anima umana di un “senso interno” “la nostra coscienza” –  assolutamente vero e certo – che ci è stato dato e che ci permette di sceglier tra il bene e il male al di fuori delle normali funzioni della ragione,  è un atto intuitivo, istintivo.  Il nome che Agostino dà a questa “verità interiore “ è “Dio”.

         La giustizia è “inseparabile dalla carità”. “Curare” o fare “carità” all’altro,  significa dare all’altro quello che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare, in rapporto a ciò che gli compete secondo giustizia.

         Pertanto l’individuo deve essere “giusto” nella cura verso gli altri.

         La “Cura” / “Caritas”  è alla base non solo delle micro-relazioni  (rapporti familiari, amicali, di gruppo) ma anche delle macrorelazioni (rapporti sociali, economici, politici).  “Curare” gli altri, implica quindi anche prendere in considerazione, oltre al bene individuale, il bene comune (di noi tutti e della comunità sociale, della polis, dei grandi problemi etici e perfino una posizione politica) al fine di favorire lo sviluppo umano nella sua integrità.

         La “Cura” verso gli altri, inoltre, sintetizza i tre grandi principi della massoneria.

1.  L’amore fraterno inteso come tolleranza, rispetto, comprensione nei confronti degli altri.

2.  Caritàche deve essere praticata, non solo per loro, ma anche per la comunità nel suo insieme, sia come solidarietà che come beneficienza economica collettiva sia come lavoro volontario dei singoli individui.

3.  Verità:  i Liberi Muratori cercano la verità in tutte le  manifestazione della vita.

CONSIDERAZIONI

         Le tavole massoniche non dovrebbero mai finire con le “conclusioni” nel vero senso della parola, perché non raggiungono nessuna certezza, nessuna verità assoluta.

         Senza conclusione sono anche le opere dei grandi letterati russi (Fedor Michajlovic  Dostoeisky, Vladimir Nabokof, Anton Cechov), perché questi autori avevano la presunzione di lasciare al lettore di aggiungere da sé ciò che mancava nel racconto.

         La finalità di un lavoro in massoneria è di permettere, a colui che lo compila, di sentire il piacere, non solo dello scrivere, ma di una arricchimento interiore. Esso deve stimolare alla riflessione e aprire eventualmente nuovi fronti nella ricerca esoterica o addirittura, se nessuno si prenderà “cura”, non importa, decadrà nell’oblio.

         Nella tavola è stato analizzato il senso della “cura” nel suo significato latino e partendo dalla sua etimologia è stato dipanato il suo significato in rapporto all’oggetto della cura: l’Essere stesso (la cura verso sé); il mondo che ci circonda, con il suo contenuto simbolico fatto di paesaggi e di cose (la cura verso il mondo); gli altri (la cura verso gli altri), estesa non solo alle persone ma anche al bene comune, alla società ed all’umanità intera, espressione della speranza massonica più utopistica.

         Questo tema sembra essere attuale in rapporto al particolare momento storico e culturale, in cui si cerca di formare un uomo sempre più tecnologico, meno riflessivo, meno umano e incapace ad amare o curare.

         L’uomo di oggi sembra aver perso la capacità a pensare e a meditare,da solo, in rispettoso silenzio.

         Questa tavola vuole essere un’esortazione a tenere sempre vivo questo particolare atteggiamento virtuoso dell’animo umano cioè quello della “cura”.

         Questa riflessione, penso sia utile anche a noi Iniziati, per non correre il rischio di comportarsi come il Sacerdote e il Levita, che erano ambedue uomini di culto, ambedue professionisti della devozione, che pur passando vicini/prossimi……all’uomo o che scendeva da Gerico a Gerusalemme….…lo ignorarono e passarono oltre. Erano il “suo prossimo” ma se ne allontanarono alla svelta.

LETTURE

  1. M. Heidegger . Essere e Tempo. Mondadori 2008
  2. P. Hadot. Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi

      spirituali.   R. Cortina Editore 2009

  • J.W. Goethe.  Faust. Feltrinelli, 2008
  • R. Bodei. Paesaggi Sublimi. Ed. Bompiani 2008
  • C.Woodward . Tra le rovine. Ugo Guanda Editore- Parma 2008
  • R. Bodei. La vita delle cose. Ed. Laterza 2009
  • C. Spinelli. L’intuizione nella Libera Muratoria. Gradus, 55; 2006
  • C. Spinelli. Considerazioni sulla felicità.Gradus, 64; 2008
  • Benedetto XVI. Caritas in Veritate. Ed. Vaticana, 2009
  • A.Sofri. Chi è il mio prossimo. Sellerio Editore- Palermo 2007

Nota (a): il termine Levita deriva dai membri della tribù israelitica di Levi.  Ad essi era affidato il compito di sorvegliare il tabernacolo e il Tempio. Leviti avevano il compito di cantare, di suonare e di assistere. I Leviti sono descritti come i guardiani di Dio. Nel deserto non avevano adorato il vitello d’oro, ma avevano appoggiato Mosè, membro della tribù di Levi.

Nota b:La parola carità deriva dal latino “carus” che vuol dire caro, amato, scelta per tradurre in latino la parola greca “agàpê” , uno dei quattro termini usati in greco per esprimere l’esperienza dell’amore: –storghè: l’amore fondato sulla consanguineità o sui vincoli di solidarietà naturale (familiari, amici, compatrioti); eros: l’amore come desiderio veemente, spesso legato alla sfera sessuale; philìa: l’amore come amicizia, libero e gratuito; esso ha però un limite preciso perché è determinato dal valore del soggetto amato; agàpê: rapporto d’amore che non è tra eguali; esso è da un lato amore disinteressato (indipendente dal valore della persona), e dall’altro, sentimento di riconoscenza. 

fr.’. C. s

irenze, Museo Nazionale del Bargello.

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UNA SOCIETA’ SEGRETAMENTE PALESE

UNA SOCIETÀ SEGRETAMENTE PALESE       di Manlio Maradei

Quando sottoponiamo ad analisi le antiche usanze massoniche, una premessa appare subito necessaria: non siamo mossi dall’ ansia di adeguarci al comune sentire dei contemporanei (o allo “spirito del secolo” come si diceva qualche anno fa). Chi sono i contemporanei? Coloro che condividono il nostro tempo. Ma quale tempo? In ambito iniziatico si deve distinguere fra tempo sacro e tempo profano, e naturalmente soltanto il primo ha rilievo quando si studiano le tradizioni o le semplici usanze della Libera Muratoria.

Tempo sacro — sarà utile dirlo — non significa unicamente tempo di liturgie o di ricorrenze religiose: così come immagina la gente comune, al di fuori del “fanum” degli iniziati. Il tempo sacro è quello che — anziché consumare. logorare, o addirittura divorare alla maniera di Cronos — offre agli adepti sostanza vivificante. E tempo che tentiamo di creare nell’azione rituale massonica, quando una perfetta coralità di

intenzioni e di capacità unisce i fratelli e li porta in una dimensione “ulteriore”.

Ma la distinzione sacro-profano, e più esattamente iniziatico-profano, riguarda anche la Massoneria: iniziatici sono i suoi riti. i suoi fini, la sua origine; profana è l’organizzazione, l’amministrazione; profano è il meccanismo statutario (pur con riverberi iniziatici). La profanità s’è del resto insinuata anche in talune parti del rituale che perciò non si può considerare interamente “sacro”. Basti pensare al rituale d’agape, con le sue polveri da sparo e le sue cannonate, tanto intrinseche agli accampamenti militari e alle logge di reggimento. (Non c’è dubbio che un buon oratore di Loggia saprebbe dimostrare la sacralità del cannone. ma occorre un limite anche per l’arte retorica).

Questa lunga premessa è ancora più necessaria quando si affronta lo spinoso problema del segreto. E qui, a complicar le cose. il segreto massonico si biforca in segreto settario e segreto settario, e quest’ultimo si ramifica rigogliosamente.

Il segreto iniziatico. Con questa dicitura s’intende quella illuminazione che il libero muratore riesce a raggiungere (se ci riesce) con lentezza e fatica, con l’aiuto dei simboli e dei riti, con il sostegno dei fratelli, con l’ intuizione e la crescita spirituale. II segreto iniziatico appattiene dunque a un ordine di conoscenze acquisibili su un piano che trascende il pensiero logico e la parola. Per sua stessa natura, non potrà mai essere rivelato con parole: è come si ama ripetere ineffabile, indicibile. Non potrà mai essere comunicato nemmeno con segni, disegni, espressioni artistiche, atti o gesti. Tecnicamente perciò non dovremmo considerarlo un segreto, perché il segreto copre qualcosa di conosciuto ma che si mantiene celato, pur essendo comunicabile. Del resto la storia della Massoneria non parla di segreto iniziatico ma soltanto di segreti settari, che riguardano segni di riconoscimento, tecniche di mestiere e simili concretezze. Per la teorizzazione del segreto iniziatico bisogna aspettare il guru francese René Guénon, il quale tuttavia avverte: “L’ iniziazione non trasmette il segreto stesso che è incomunicabile, ma l’influenza spirituale che ha i riti e i simboli per veicolo e che rende possibile il lavoro interiore mediante il quale ognuno raggiungerà questo segreto più o meno completamente, più o meno profondamente’

Una cosa non è vera perché la dice René Guénon; l’ipse dixit non funziona nella Massoneria che si vanta di non porre limiti alla ricerca della verità. Tuttavia la formula guenoniana era suggestiva e — come vedremo — rispondeva a un bisogno di camuffamento che lo scrittore francese non poteva prevedere. Ma intanto notiamo due cose. Prima: ridurre al concetto di segreto le vette dell’esperienza iniziatica ci sembra un’operazione intellettuale un po’ rozza (malgrado il generico aggettivo “iniziatico” incollato al segreto). Meglio sarebbe stato non definire affatto quelle vette. o cercare

un vocabolo più adeguato benché sempre imperfetto (tenuto conto della ineffabilità). Meglio lasciare che ognuno immagini il fine dell ‘ iniziazione secondo il suo background culturale e le sue aspirazioni: chi pensa al raggiungimento del Sé, chi alla conoscenza assoluta, chi ai poteri psichici, chi alla mitica Loggia Bianca che governerebbe il mondo… Seconda nota: la teoria guenoniana nega che l’iniziazione massonica conferisca il segreto iniziatico. Sul filo del paradosso. ci si chiede perché definire “Iniziatico” qualcosa che non vien dato dalla iniziazione.

Ma qui corriamo il rischio di attardarci nel divertimento accademico. Se del segreto iniziatico non si può dire niente — perché di natura indicibile è inutile perder tempo a parlarne. Sul piano della concretezza, si può tuttavia aggiungere che la teoria del segreto iniziatico ha fatto comodo a molti massoni che non riuscivano a negare resistenza di vaste sacche di segreto settario nella nostra Istituzione (a qualunque “palazzo” riferentesi). Quando l’ analisi del segreto settario si fa più stringente. il massone ha un moto di fastidio, assume un’aria di sufficienza e dice: “Non puoi capire; si tratta di segreto iniziatico…

Il segreto settario. Riguarda la composizione e il funzionamento di una associazione, di una setta (politica, religiosa, mercantile eccetera). Come s’è accennato, tale tipo di segreto avvolge cose concrete, conosciute (o conoscibili in futuro) dai membri della setta; cose facilmente dicibile comunicabili a parole o con altri mezzi umani.

Non vorrei qui ripetere quanto ho scritto nel libro Iniziazione e segreto massonico Problemi e prospettive per il terzo millennio, distribuito a gennaio dalla casa editrice Bastogi. A scanso di fraintendimenti, debbo però ribadire la mia convinzione: la Massoneria è un’associazione del tutto palese, che però si trascina dietro il fardello di una struttura segreta. Questa è la sua contraddizione, questo il suo dramma culturale. I massoni non possiedono segreti rilevanti dal punto di vista morale, giuridico. sociale, politico, economico; tuttavia giurano centinaia di volte di non rivelare i loro inesistenti segreti. Se inizialmente questa pratica aveva un valore pedagogico, ormai ha finito per diventare una follia intossicante.

Si è tentati di dire: s’è sempre fatto così, è la tradizione. Magari con una bella T maiuscola che stende una patina di antiquariato e di sacralità sulle cattive abitudini… In realtà non sempre si è fatto così. Il segreto dei franchi muratori nascondeva le tecniche di lavoro costruttivo, e non già le persone. I muratori che liberamente percorrevano l’ Europa ci tenevano che si conoscesse il loro stato di franchi, cioè di liberi. Era questa qualifica personale che permetteva loro di sottrarsi (affrancarsi) all’obbligo di residenza territoriale, a disposizione del signore feudale. Costui aveva tutto il diritto di tassare i suoi sudditi e di sottoporli a corvée (cioè a lavoro non retribuito).

Anche i luoghi di riunione lasciano immaginare una piena visibilità dei franchi muratori. La loggia eretta nel cantiere era sotto gli sguardi di tutti; non era una cripta d’incontri furtivi. E anche nelle  mutate condizioni dell’epoca moderna, agli inizia del Settecento. le cronache massoniche londinesi ci parlano di abituali incontri nelle taverne. che non sono il posto migliore per nascondersi. Ricordate la Taverna dell’oca e del girarrosto?

Ma quali sono i documenti nei quali possiamo rintracciare elementi certi di segreto settario? I lettori di Nuova Delta sicuramente già li conoscono; sono gli Antichi Doveri, i Landmarks. gli Statuti di Napoli (travasati nelle norme della Gran Loggia d’Italia) e i Rituali. Per comodità di consultazione, e per non incorrere nel “delitto” di violazione del segreto, è più agevole far ricorso a Le charte fondamentali della universale Massoneria di Umberto Gorel Porciatti, ed ai Rituali dei lavori dell’Ordine degli antichi, liberi, accettati muratori nonché ai Rituali dei lavori del Rito scozzese, entrambi di Salvatore Farina. Tre libri che in cinquant’anni hanno avuto numerose edizioni diventando i best seller dell’esoterismo. Anche per gli Statuti esiste una bella edizione critica di facile reperimento in libreria. Naturalmente ci sono alcune diversità rispetto ai volumetti distribuiti attualmente nelle logge, ma non tali da impedire un ragionamento di carattere generale.

Vediamo adesso a volo d’uccello quel che scrivono i sacri testi. Gli Antichi Doveri: “Sarete circospetti nc

el vostro dire in modo che il profano più accorto non possa capire… Non dovete far riconoscere alle vostre famiglie e ai vostri vicini quanto concerne la loggia.. Landmarks di Mackey; “La Massoneria è una società segreta che possiede segreti…”. E i I.andmarks secondo Findel: “Il massone deve essere segreto con i profani e serbare il segreto sulle cerimonie massoniche, specialmente in ciò che riguarda le parole e i segni di riconoscimento”. Ecco ora gli Statuti di Napoli: libero muratore, considerando profani tutti coloro che non riconosce come fratelli, deve guardarsi dal rivelar loro, o di far comprendere, il minimo dei lavori, dei disegni o dei segreti dell’Istituto… Le finestre non si apriranno giammai, se offrano accesso a sguardi profani. Il segreto è la prima caratteristica dell’Ordine”. ln tutti questi testi si parla sempre di segreti  comunicabili (ma che è proibito comunicare). Nessun accenno a segreti trascendenti, al mitico segreto iniziatico (ineffabile) che troppo spesso fa da comodo schermo al segreto settario. Lasciamo infine alla solerte ricerca dei lettori la scoperta del segreto settario nei giuramenti d’iniziazione dell’Ordine e del Rito, e nel giuramento al termine dei lavori.

I giuramenti sul segreto sono ripetuti tante volte fino a determinare una specie di assuefazione. Il libero muratore non si rende più conto della gravità di tale atto solenne; e se qualcuno tenta di parlargli del segreto settario, ha uno scatto di irritazione e di intolleranza; non vuol sentire ragioni; suppone candidamente che la critica al segreto nasconda soltanto una colpevole accondiscendenza ai desideri dei profani.

Ora. non c’è dubbio che il segreto sia un’arma in mano ai nemici della Massoneria. Cosa tutt’altro che irrilevante ma che non rientra in questo studio. Qui ci interessa accennare agli effetti che il segreto produce all’interno della Massoneria, ai riverberi sul tempo sacro dei liberi Muratori.

E innanzitutto dobbiamo chiederci come mai, fra noi, persiste la cultura del segreto settario. Ebbene, tutto nasce da un colossale equivoco culturale, dalla confusione del segreto con il silenzio. Il silenzio è necessario per proteggere l’iniziato, per non esporlo al logorio di spiegare ad altri (profani o fratelli meno esperti) cose che egli stesso non sa ancora, ma va sperimentando.

L’iniziato è soprattutto un “cercatore”. dl quale non si può chiedere di continuo che cosa ha trovato. Abbiamo detto in altre occasioni che “il silenzio nutre c protegge, il segreto logora e consuma”. Il silenzio è una virtù che si impara progredendo nella via iniziatica, il segreto è una imposizione che non sempre funziona (anzi, spesso dà frutti avvelenati).

Non si deve credere che l’abolizione del giuramento sul segreto sia qualcosa di utopico. Abbiamo sott’occhio un rituale francese stampato nel 1978 d La chaine d’union. Alla chiusura dei lavori leggiamo: “Les travaux sont fermés; retirons-nous en paix, en observant la lois du silence”.. Aver superato l’ambiguo concetto del segreto, a vantaggio del solare silenzio, è già un grandissimo progresso, proprio in campo esoterico. E bisogna darne atto ai fratelli francesi. Tuttavia essi non sono riusciti a dimenticare del tutto l’ aspetto coercitivo di questo brano di chiusura. Sarebbe stato più limpido dire “virtù del silenzio” anziché “legge”. Infatti la legge  ricorda ancora l’obbligo imposto da fuori, come se il massone fosse un irresponsabile. Il richiamo alla virtù del silenzio, invece, punta su qualcosa di squisitamente interiore, a una conquista del massone libero e cosciente.

La mentalità del segreto, così assiduamente coltivata. si espande in cerchi concentrici. si insinua anche dove gli usi massonici non la richiedono (e la escluderebbero).

L’abitudine al segreto crea compartimenti stagni, blocca la circolazione dei fratelli delle logge. erige ostacoli allo scambio delle idee nella Comunità, favorisce squallide ansie di potere. Ciascun lettore sappia individuare gli esempi di tale situazione, riesaminando con la memoria le proprie esperienze.

Le dimensioni di ‘un articolo non consentono di fare un trattato con tutta la casistica del segreto. C’è solo da aggiungere che l’uscire dalla cultura del segreto (se mai avremo il coraggio di uscirne) sarà una vicenda dura e traumatica, specialmente in questo periodo storico fortemente ostile alla Massoneria. Bisognerà pensare a forme graduali. anche volontarie, per singoli massoni c singole logge, per abbandonare la semiclandestinità che aleggia attorno alle Comunità massoniche le quali — lo ripetiamo con forza  sono palesi (ma non lo sanno veramente).

Mille volte i liberi muratori sono stati assediati da una domanda, e ancora verranno assediati in futuro: “La Massoneria è una società segreta?”. Al termine di questa veloce escursione nel paese del segreto, risulta ancora difficile una risposta chiara e precisa. Non per nulla il simbolo più noto (e più battuto dalle tavole degli apprendisti) è proprio il pavimento bianco e nero. che introduce alla nostra teoria della ‘verità prismatica” piena di diverse e luccicanti sfaccettature, tutte diverse.

Forse possiamo rispondere che oggi la Massoneria è segretamente palese. Sì, Massoneria somiglia a un ossimoro, quel procedimento retorico che unisce due termini inconciliabili; e che dunque agisce come un corto circuito intellettuale, scatenando la scintilla dell e intuizione. Dalla “concordia discors” di Orazio, alla Chiesa definita “casta meretrix” da Origene, fino alla “docta ignorantia” di Nicola Cusano, l’ossimoro ha stimolato il pensiero eu-

ropco. Oggi è un po’ in declino e indugia sulle forme prorompenti di attrici nordiche, titolandole “ghiaccio bollente”.

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COLLODI, GRAN GALA’ PER PONOCCHIO.

OMAGGIOAI 140ANNIDEL BURATTINO

Collodi, Gran Galà per Pinocchi Omaggio ai 140 anni dd burattin

Domani il clou delle celebrazioni:talk show e concerto. Mostra con catalogo doc firmato “Nano” Campe

il programma si aprirà con i salu- co e bresidentedel Vittoriale de- per il Galà per Pinocchio condot-
ti delprosidente del consiglio ve- gli Italiani, Giordano Bruni Guer- to da Corrado Oddi, attore di ci-
gionale @elia Toscana Antonio ri e LorenzO Franchini dell’Uni- nema, che vanta importanti ruo-

zetta dei Mosaici di Venturino nale delle Opere di Carlo Loren- Magiche atmosfere alla sera, Venturi del Parco di Pinocchio, Marcheschi, lo stori- nel Giardino Storico Garzoni

Mazzeo e delle” altre autorità. Se- versità Europea di Roma. Quindili: tra gli altri ha interpretato il

  guirà una conversazione con- la presentazione della mostra e magistrato Giovanni Falcone dotta dalla direttrice di Qn La         del catalogo Pinocchio sono io! nel docufilm Rai, ma è stato an- Nazione, il Resto del Carlino e Il di Silvano “Nano” Campeggi e che al fianco di- Lino Banfi ne Giorno, Agnese Pini, con il presi- la proiezione del trailer girato a L’allenatore nel pallone 2 e inter-

dente della Fondazione Collodi, Collodi TO the Point — Pinocchio prete di fiction come CarabiniePier’ Francesco Bernacchi, la del regista Rossano B. Maniscàl- ri 6, Butta la lune2, I Cesaroni 5, presidente dell’Edizione Nazio- chi.  Che Dio ci aiuti, Squadra antima- fia 6, Il paradiso delle signo Momento forte della sera concerto del tenore pop Giu pe Gambi, nuovo -talento musica lirica italiana e già ( te d’onore di diversi progra Rai e Mediaset, che affascil il pubblico con il concerto d tolo Un viaggio nelle mell più belle spaziando dalle pii lebri arie liriche ai classici ( canzone napoletana fino canzone contemporanea concludere con un omagg Morricone con la pianista e violino. Dumnte l’intervallo del con to avverrà la consegna dei mi 1400 di Pinocchio. Le cele zioni sono organizzate dalla dazione Nazionale Carlo Co con il sostegno della-FondË ne Cassa di Risparmiodi Pis e Pescia, di Sviluppo Turis Collodi. Villa e GiardinoGar

srl, Parco di, Pinocchio, Col Butterfly House e la collab zione dei Lions Pescia.

Ingresso gratuito su prenotE ne (0572/429642. Info: fo, zione@pinocchio.it

Guglielmo Vez

@ RIPRODUZIONE RISE!

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ETICA MASSONICA E MEDICINA

Se per tutti gli uomini ogni determinazione esistenziale costituisce un dramma di comprensione e di autentica motivazione positiva, quanto più imperscrutabile deve risultare il tentativo di percorrere i momenti del cammino iniziatico di un artista; il dissidio sempre sensibilmente acuto tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte in chi è stato scelto e si è scelto per la ricerca della Vera Luce costituisce il più problematico dei sottintesi: e quando l’eco di qualche passo iniziatico sembra offrirsi all’ assetata volontà di intuizione, solo la poesia raccoglie il grande segreto della parola perduta, si fa vita che affiora insieme all’ infinito caos delle percezioni, che gioca l’ apocalittico mistero dei simboli c delle imrnagini.

Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il poeta trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono incasellati nella . scienza]del dolore…” che mette “verità e lame’ . un conto/di numeri bassi che tornava esatto,/concentrico, un bilancio di vita futura”.

di Gianni Rabbia

L’ artista della parola è ferito, persino per una sorta di suprema vendetta olimpica contro un Prometeo. dal destino del nomen-otnen plautino.

Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del protagonista di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di Victor Hugo pubblicato nel 1831.

In Hugo l’ affronto della bruttezza repellente fa scatenare l’ odio contro l’uanità “normale” mentre il deforme è fatto per disperatamente ed intensamente.

Non dissimile, pur nella banalità di questo accostamento, la concezione essenziale: la vita è una continua purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli proviene da una sorta di ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da quello della Milano del 1943 sicuramente non si esce indenni, anche se superstiti. Ma prima ancora. negli anni della scuola all’Istituto Tecnico “Jaci” di Messina, la vita è un impetuoso correre verso un futuro, magari anche manieristico, di impaziente apprentissage letterario. Così ricorda Salvatore Pugliatti il sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si parlava di letteratura, di poesia, di politica.

Leggevamo Dante, Platone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da Rotterdarn, gli scrittori russi (specialmente Dostojcvskij; ma ci incantava anche Andrejev… c Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”). Leggevamo Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero i nostri numi. Intorno quegli anni —

dal 1917 al 1920 c dopo —a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano e scrivevano di codesti poeti, dei “simbolisti” si diceva genericamente e impropriamente… Serpeggiava tra codesti “simbolisti” messinei una vena di misticismo e di esoterismo. che riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e lontano, caratteri del simbolismo russo”.

Quindi “misticismo ed esoterismo”: sono le vie iniziatiche su cui costruiranno la loro opera Giorgio La Pira e Salvatore Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia degli anni post-bellici e prefascisti al soffocamento del provincialismi è possibile opporre la tensione di un giovanile slancio intellettuale, slancio poi di tutta una esistenza. Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni eccentriche: progetto di poesia la vicenda quasimodiana. un progetto di santità la vicenda lapiriana. Il Poeta e il Santo: due vite parallele nella più piena accezione plutarchiana. Quasimodo il “greco”, l’intellettuale mediterraneo che trasfigura la propria sicilianità a contatto con i miti e con r humus della civiltà classica; La Pira il “romano”, che recupera tradizione e magistero della chiesa cattolica attraverso la lezione del tomismo e del misticismo medievale».

Quasimodo giura sulla sua coscienza di uomo nato libero e di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il grembiale nella officina Arnaldo da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano era stato libero muratore.

Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo, i Vittorini (Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una collocazione professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata con le vie ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo verso nuove mete sociali, economiche. culturali. Mentre il “progresso” batte alle porte di una regione disastrata dagli uomini e spesso anche dalla natura, l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel panorama variegato del decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 — sebbene per pochi anni — aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura latina ed anche dalle cose di Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale misticismo oggettivistico e non è certo difficile trovare nel Pascoli, anche lui Figlio della Vedova, intensi segni di affratellante e sofferto evangelisrno sociale se alcuni passi sono connotabili sotto la dimensione delle iniziazioni politiche, pur con ovvie differenze tra un giovanissimo La Pira

quasi filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.

Per Quasimodo massone, anche nella difficile lezione del suo pensiero di “ermetico”, il concetto di popolo si modifica nel simbolismo talvolta esasperato, alla ricerca di un legame di solidarietà critica con il mondo per mezzo della “intelligenza laica”. ln La Pira la solidarietà si farà celebre con il suo farsi apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con alle spalle i classici greci e latini oppure i classici della teocrazia medioevale. Ma Quasimodo, segnato nei sotterranei della coscienza massonica con minore traccia di umori religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un dcsiderio infinito d’eterna presenza”, sceglie nel 1930 con Acque e terre e nel 1932 con Oboe sommerso la durezza di una diversa valenza spirituale: la parola. Quella che in Oboe sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe mi scarno”. La parola è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che divenga cubica.

Scrive Quasimodo il 19 marzo 1923 a La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro, bestiale ed inutile, confortato soltanto dal tormento dell’anima. Da te aspetto soltanto un po’ di speranza e la parola dello spirito. Salute e fraternità”. E La Pira a Quasimodo l ‘8 dicembre . la potenza della parola. Essa ti serva, soprattutto. per imprigionare l’infinito nei tuoi versi. Sii ladro delle gemme che splendono nella vita eterna; sia che tu le rubi alla natura o al mondo morale. questo furto non dispiacerà la giustizia di Dio. Il verso, io credo. quando è perfetto…. è un brano, ma compiuto. dell’eternità… È per questo che la poesia — l’arte in genere — non perisce; ma sta, malgrado le vicende umane… Penso che tu potresti col tuo verso felice  che ti permette di aprire le mistiche cose dell’anima racchiudere brani notevoli di mistero…

E Quasimodo risponde: Si china il giorno Mi trovi deserto, Signore,

nel tuo giorno, serrato ad ogni luce.

Di te privo spauro, perduta strada d’amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.

T’ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai cieli:

che tristezza il mio cuore di carne!

E ancora:

Spazio

Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’ angeli morti sonde.

Mi rompe. Ed è amore alla terra ch’è buona se pure vi rombano abissi di acque, di stelle, di luce; se pure aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.

Per poi gridare: “il Tuo dono tremendo/di parole, Signore/sconto assiduamente».

Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia equalitaria

‘pietra” = parola» = “seme”. La pietra:

Naufrago: e in ogni sillaba m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me stesso brucato dal patire che m’ asserena, profondità d’ amore.

Il seme:

Alberi d’ombre, isole naufragano in vasti acquari, inferma notte. sulla terra che nasce:

un suono d’ali di nuvola che s’apre sul mio cuore: nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli

che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che dorme.

La parola è allora I’ ignis sapientialis, il segno geroglifico e sacrale che può stare tra la “gnosis” e la “pistis” del simbolo e dell’allegoria. Non fu Gi0″anni Scoto Eriugena a coordinarle gerarchicamente, assegnando al simbolo i valori dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento meno certo della storia, della fede e della morale?      

Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, in attesa del comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in “Commiato” da Il porto sepolto:

Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso.

Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia con 1a prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione iniziatica. Così per Thomas Mann in LA montagna incantata: “La parola, anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che isola” Quasimodo scopre in sé la vastità di un orizzonte da esplorare:

Le parole ci stancano, risalgono da un’acqua lapidata; forse il cuore ci resta. torse il cuore…

Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido della poesia quasimodiana: E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.

Ancora la dolcezza della voce. anche tragica, dopo il silenzio:

lo pure udivo un urlo talvolta rompere e farsi carne; e batterc di mani ed una voce dolcezze spalancarmi ignote.

Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente interpretata nel suo etimo come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamentc alla concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale c del cosmo: la coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della luce è l’ Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle parole di Lao Tzc, proprio il “silenzio”.

Magistralmente scrive il di Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare o studiare i simboli esteriormente, freddamente… Il simbolo è cammino, appoggio, scala a un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto, esterno a tradursi in simboli. ma il mondo interiore che li porta in superficie. Alla meditazione applicata, agli elementi di un simbolismo iniziatico si connette la filosofia del Silenzio’ .

E quanto per la filosofia del silenzio la massoneria si allinei autorevolmente con la storia delle grandi società iniziatiche ce lo spiega almeno la lunga scuola che viene dal Vêdânta indù e dal taoismo cinese. dallo zen nipponico, dai riti tribali degli aborigeni australiani, dal totemismo degli indiani d • America, dallo sciamanismo delle comunità africane e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di Occidente. La necessità del simbolismo ermetico di Quasimodo, ermetico perché massonico e massonico perché ermetico. aderisce perfettamente ai modi di una poesia che è dell’intimismo e dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo che reclama una vacua e tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi destini. L’ermetismo, nel complesso problema critico sull’ermetismo di Quasimodo, è la ricerca di una via per il linguaggio come canto individuale. Ma l’ermetismo, quando è, non si appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo vale parecchio la cautela di leggerlo “problematicamente”. Non quindi e solo alla insegna di un gusto, per analogie, metafore, sincstesismi, aristocraticanœnte elaborato. alla Rimbaud per intenderci, teso verso l’indefinibile assoluto.

In Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si indaga sulla “poetica della parola”, alla ricerca di un metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un po’ arida della filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della traduzione. alla scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece apprendere da Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle radici e al di sopra del l’ ermetismo: l ‘ acuta sofferenza per uno stato di crisi derivata dalla amara constatazione dell incapacità dell’uomo a raggiungere e a conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine in un universo ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e liberticida, l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo. la sconsolata aspirazione a qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana esplorazione dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli strati più profondi, oscuri e magari irrazionali, l’unificazione soggetto-oggetto, la esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di rivolta nei confronti di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza. ragione di vita e soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono solamente scalpellate nei parametri dell ‘ontologia.

Poetica della parola, e non nominalismo. Ancora Macrì scrive: “La parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale, il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta I ‘interna corrente della ispirazione e del “pathos”.

Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il ridere della gazza, nera sugli aranci, “forse è un segno vero della vita”, bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel “forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà “La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:

Poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento.

 Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia come . la ricerca di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca impetuosa dell’uomo”.

Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia è via alla verità, colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In una parola: il grande Sapiente.

Ma proprio quando il sentimento della solitudine sembra scavare nel profondo della vocalità, si assiste con Quasimodo ad una evoluzione che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia non stravolge il percorso intellettuale, morale, artistico del poeta, che ha ben viva la lezione massonica.

La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una violenza estrema… La poesia della nuova generazione. che chiameremo sociale, aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni” Montale, in Satura, canterà:

Le parole preferiscono il sonno nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute, imbalsamate, ibernate, le parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari perché c’è sempre il marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più rari.

Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La pietà”.

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per cadere in servitù di parole?

Amore, ansia religiosa, nostalgia per il mito di una Sicilia dell’infanzia non sono più i temi chc da soli bastino a cantare la condizione csistenziale. Si apre la poesia. massonicamente nutrita, verso una dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di impegno per tutti.

La poesia ha quindi una possibilità in più. quella rigenerativa come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino. cammino appunto iniziatico, della redcnzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.

Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa in mezzo a un cataclisma come la — alla narrazione: si è ispessito l’impegno di Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.

Ma neppure con questa nuova spinta ideale il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasimodo crede di poter contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema autenticamente antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal linguaggio alla comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica delle realtà sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano è sottolineato non solo con i caratteri di una trasformazione stilistica o con un approfondimento tematico: il poeta è il politico. ma con l’avvertenza che nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E allora la traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente massonico, tanto che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai bombarda

menti — lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi nell’uomo: non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi esalta la necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma comc filtro interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vitlima di uno scontro con la famigerata banda Corridoni e vive dopo l ‘ 8 settembre in una Milano babilonica, tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è dei poeti nei momenti tragici: mentre si ITIuore ed anch’ egli lotta per sopravvivere, traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella geenna milanese non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire la poesia:

Le spie non possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con gli amici, né dire parole al cuore di nessuno.

La guerra e le traduzioni fanno ben capire come non vi possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino dal punto di vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più profondo del verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento. un ricordo: il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di esule. Così egli è tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in nome di una umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono nell’epico. Con in più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco letterario, rimanendo legato al mondo classico.

“Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”. Così scrive nel 1946, a pochi mesi dalla sua iscrizione al partito comunista italiano, con una evidente coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed il politico. in un clima in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano le più attente ed attrezzate nel perseguire una politica culturale.

Il dibattito fu — come è ben noto — intenso; la formazione solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in rotta di collisione con le teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano soprattutto su Rinascita. Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che portò alla chiusura de Il Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di cultura che non intende suonare il piffero della rivoluzione. trova oià disimpegnato Quasimodo da questa sua militanza politica. Avere “esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell ‘ uomo da scorgcrc nell’ uomo”, essere “proprio dello scrittore saper scorgere, forsc accanto alle esigenze che pone alla politica quell’in più delle esigenze che pone la politica”. sono le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto Quasimodo massone, un individualista come solo un poeta può esserlo, che finisce amarxista per esserc più profondamente un “liberal”, un democratico che vede nel socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione etica. ma da cui esige di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità di gesti e di espressioni, i molti distinguo.

La ripresa post-bellica dci lavori nellc officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore. Collabora a MilanoSera, Rinascita. L’ Unità, ma firma con prontezza una petizione in favore dello scrittore ungherese Tibor Déry imprigionato nell’ Ungheria del 1956 invasa e calpestata dai carri armati russi, lo stesso scrittore che aveva patito nel 1919 il carcere per aver partecipato al tentativo rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene l’alta testimonianza di una solidarietà, per questo come per noolti altri casi. che trova il suo coronamento nel discorso da lui pronunciato per il

 premio Nobel, dal titolo appunto “Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe ozioso, davanti a questo consesso, tentare di sottolineare la valenza massonica di un premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.

Il Nobel al massone Carducci ( 1 906), al massonc Marconi ( 1 909), quello di Pirandello (1934). con la parentesi della Deledda (1926) (non a caso assegnato ad una donna proprio nei momenti in cui il regime fascista iniziava a battere la grancassa della guerresca vitalità virilistica) sono una lontana ipoteca ad un riconoscimento da offrire ad un italiano e massone. a distanza di un quarto di secolo.

Una esplorazione. disorganica e mutila come questa, non può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui. costanti momenti di massonismo echeggianti nella c dalla poesia di Quasimodo; questa irrinunciabile ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario ha dimostrato nel modo più alto. con l’ansia della ricerca e la lotta del dubbio, che la poesia ha un futuro, anche al di sopra della storia, proprio come la massoneria. Come la massoneria, la sua poesia soffre sc viene applicata c derivata dai singoli momenti della cronaca. In entrambe circola il respiro del bisogno dell’amore come irriducibile resistenza della vita contro la morte, con la densità energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra il contingente c l’eterno, l ‘ io e il tutto. che impediscono la generosa consapevolezza del colloquio tra gli uomini.

Come dice il poeta:

La vita è senza fine. Ogni giorno è nostro…

E l’uomo che in silenzio s’ avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di geranio.

Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo, poeta: la personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno dei nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce, dell’esistenza vissuta in una luce d’amore.

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QUASIMODO

d

giovanni Robbia

Se per tutti gli uomini ogni determinazione esistenziale costituisce un dramma di comprensione e di autentica motivazione positiva, quanto più imperscrutabile deve risultare il tentativo di percorrere i momenti del cammino iniziatico di un artista; il dissidio sempre sensibilmente acuto tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte in chi è stato scelto e si è scelto per la ricerca della Vera Luce costituisce il più problematico dei sottintesi: e quando l’eco di qualche passo iniziatico sembra offrirsi all’ assetata volontà di intuizione, solo la poesia raccoglie il grande segreto della parola perduta, si fa vita che affiora insieme all’ infinito caos delle percezioni, che gioca l’ apocalittico mistero dei simboli c delle imrnagini.

Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il poeta trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono incasellati nella . scienza]del dolore…” che mette “verità e lame’ . un conto/di numeri bassi che tornava esatto,/concentrico, un bilancio di vita futura”.

di Gianni Rabbia

L’ artista della parola è ferito, persino per una sorta di suprema vendetta olimpica contro un Prometeo. dal destino del nomen-otnen plautino.

Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del protagonista di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di Victor Hugo pubblicato nel 1831.

In Hugo l’ affronto della bruttezza repellente fa scatenare l’ odio contro l’uanità “normale” mentre il deforme è fatto per disperatamente ed intensamente.

Non dissimile, pur nella banalità di questo accostamento, la concezione essenziale: la vita è una continua purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli proviene da una sorta di ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da quello della Milano del 1943 sicuramente non si esce indenni, anche se superstiti. Ma prima ancora. negli anni della scuola all’Istituto Tecnico “Jaci” di Messina, la vita è un impetuoso correre verso un futuro, magari anche manieristico, di impaziente apprentissage letterario. Così ricorda Salvatore Pugliatti il sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si parlava di letteratura, di poesia, di politica.

Leggevamo Dante, Platone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da Rotterdarn, gli scrittori russi (specialmente Dostojcvskij; ma ci incantava anche Andrejev… c Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”). Leggevamo Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero i nostri numi. Intorno quegli anni —

dal 1917 al 1920 c dopo —a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano e scrivevano di codesti poeti, dei “simbolisti” si diceva genericamente e impropriamente… Serpeggiava tra codesti “simbolisti” messinei una vena di misticismo e di esoterismo. che riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e lontano, caratteri del simbolismo russo”.

Quindi “misticismo ed esoterismo”: sono le vie iniziatiche su cui costruiranno la loro opera Giorgio La Pira e Salvatore Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia degli anni post-bellici e prefascisti al soffocamento del provincialismi è possibile opporre la tensione di un giovanile slancio intellettuale, slancio poi di tutta una esistenza. Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni eccentriche: progetto di poesia la vicenda quasimodiana. un progetto di santità la vicenda lapiriana. Il Poeta e il Santo: due vite parallele nella più piena accezione plutarchiana. Quasimodo il “greco”, l’intellettuale mediterraneo che trasfigura la propria sicilianità a contatto con i miti e con r humus della civiltà classica; La Pira il “romano”, che recupera tradizione e magistero della chiesa cattolica attraverso la lezione del tomismo e del misticismo medievale».

Quasimodo giura sulla sua coscienza di uomo nato libero e di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il grembiale nella officina Arnaldo da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano era stato libero muratore.

Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo, i Vittorini (Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una collocazione professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata con le vie ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo verso nuove mete sociali, economiche. culturali. Mentre il “progresso” batte alle porte di una regione disastrata dagli uomini e spesso anche dalla natura, l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel panorama variegato del decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 — sebbene per pochi anni — aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura latina ed anche dalle cose di Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale misticismo oggettivistico e non è certo difficile trovare nel Pascoli, anche lui Figlio della Vedova, intensi segni di affratellante e sofferto evangelisrno sociale se alcuni passi sono connotabili sotto la dimensione delle iniziazioni politiche, pur con ovvie differenze tra un giovanissimo La Pira

quasi filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.

Per Quasimodo massone, anche nella difficile lezione del suo pensiero di “ermetico”, il concetto di popolo si modifica nel simbolismo talvolta esasperato, alla ricerca di un legame di solidarietà critica con il mondo per mezzo della “intelligenza laica”. ln La Pira la solidarietà si farà celebre con il suo farsi apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con alle spalle i classici greci e latini oppure i classici della teocrazia medioevale. Ma Quasimodo, segnato nei sotterranei della coscienza massonica con minore traccia di umori religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un dcsiderio infinito d’eterna presenza”, sceglie nel 1930 con Acque e terre e nel 1932 con Oboe sommerso la durezza di una diversa valenza spirituale: la parola. Quella che in Oboe sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe mi scarno”. La parola è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che divenga cubica.

Scrive Quasimodo il 19 marzo 1923 a La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro, bestiale ed inutile, confortato soltanto dal tormento dell’anima. Da te aspetto soltanto un po’ di speranza e la parola dello spirito. Salute e fraternità”. E La Pira a Quasimodo l ‘8 dicembre . la potenza della parola. Essa ti serva, soprattutto. per imprigionare l’infinito nei tuoi versi. Sii ladro delle gemme che splendono nella vita eterna; sia che tu le rubi alla natura o al mondo morale. questo furto non dispiacerà la giustizia di Dio. Il verso, io credo. quando è perfetto…. è un brano, ma compiuto. dell’eternità… È per questo che la poesia — l’arte in genere — non perisce; ma sta, malgrado le vicende umane… Penso che tu potresti col tuo verso felice  che ti permette di aprire le mistiche cose dell’anima racchiudere brani notevoli di mistero…

E Quasimodo risponde: Si china il giorno Mi trovi deserto, Signore,

nel tuo giorno, serrato ad ogni luce.

Di te privo spauro, perduta strada d’amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.

T’ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai cieli:

che tristezza il mio cuore di carne!

E ancora:

Spazio

Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’ angeli morti sonde.

Mi rompe. Ed è amore alla terra ch’è buona se pure vi rombano abissi di acque, di stelle, di luce; se pure aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.

Per poi gridare: “il Tuo dono tremendo/di parole, Signore/sconto assiduamente».

Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia equalitaria

‘pietra” = parola» = “seme”. La pietra:

Naufrago: e in ogni sillaba m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me stesso brucato dal patire che m’ asserena, profondità d’ amore.

Il seme:

Alberi d’ombre, isole naufragano in vasti acquari, inferma notte. sulla terra che nasce:

un suono d’ali di nuvola che s’apre sul mio cuore: nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi: così lieve son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli

che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che dorme.

La parola è allora I’ ignis sapientialis, il segno geroglifico e sacrale che può stare tra la “gnosis” e la “pistis” del simbolo e dell’allegoria. Non fu Gi0″anni Scoto Eriugena a coordinarle gerarchicamente, assegnando al simbolo i valori dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento meno certo della storia, della fede e della morale?      

Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, in attesa del comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in “Commiato” da Il porto sepolto:

Quando trovo in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso.

Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia con 1a prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione iniziatica. Così per Thomas Mann in LA montagna incantata: “La parola, anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che isola” Quasimodo scopre in sé la vastità di un orizzonte da esplorare:

Le parole ci stancano, risalgono da un’acqua lapidata; forse il cuore ci resta. torse il cuore…

Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido della poesia quasimodiana: E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.

Ancora la dolcezza della voce. anche tragica, dopo il silenzio:

lo pure udivo un urlo talvolta rompere e farsi carne; e batterc di mani ed una voce dolcezze spalancarmi ignote.

Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente interpretata nel suo etimo come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamentc alla concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale c del cosmo: la coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della luce è l’ Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle parole di Lao Tzc, proprio il “silenzio”.

Magistralmente scrive il di Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare o studiare i simboli esteriormente, freddamente… Il simbolo è cammino, appoggio, scala a un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto, esterno a tradursi in simboli. ma il mondo interiore che li porta in superficie. Alla meditazione applicata, agli elementi di un simbolismo iniziatico si connette la filosofia del Silenzio’ .

E quanto per la filosofia del silenzio la massoneria si allinei autorevolmente con la storia delle grandi società iniziatiche ce lo spiega almeno la lunga scuola che viene dal Vêdânta indù e dal taoismo cinese. dallo zen nipponico, dai riti tribali degli aborigeni australiani, dal totemismo degli indiani d • America, dallo sciamanismo delle comunità africane e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di Occidente. La necessità del simbolismo ermetico di Quasimodo, ermetico perché massonico e massonico perché ermetico. aderisce perfettamente ai modi di una poesia che è dell’intimismo e dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo che reclama una vacua e tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi destini. L’ermetismo, nel complesso problema critico sull’ermetismo di Quasimodo, è la ricerca di una via per il linguaggio come canto individuale. Ma l’ermetismo, quando è, non si appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo vale parecchio la cautela di leggerlo “problematicamente”. Non quindi e solo alla insegna di un gusto, per analogie, metafore, sincstesismi, aristocraticanœnte elaborato. alla Rimbaud per intenderci, teso verso l’indefinibile assoluto.

In Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si indaga sulla “poetica della parola”, alla ricerca di un metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un po’ arida della filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della traduzione. alla scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece apprendere da Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle radici e al di sopra del l’ ermetismo: l ‘ acuta sofferenza per uno stato di crisi derivata dalla amara constatazione dell incapacità dell’uomo a raggiungere e a conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine in un universo ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e liberticida, l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo. la sconsolata aspirazione a qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana esplorazione dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli strati più profondi, oscuri e magari irrazionali, l’unificazione soggetto-oggetto, la esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di rivolta nei confronti di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza. ragione di vita e soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono solamente scalpellate nei parametri dell ‘ontologia.

Poetica della parola, e non nominalismo. Ancora Macrì scrive: “La parola è l’elemento base della tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale, il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e puntualizzare tutta I ‘interna corrente della ispirazione e del “pathos”.

Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il ridere della gazza, nera sugli aranci, “forse è un segno vero della vita”, bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel “forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà “La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:

Poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento.

 Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia come . la ricerca di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca impetuosa dell’uomo”.

Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia è via alla verità, colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo, immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In una parola: il grande Sapiente.

Ma proprio quando il sentimento della solitudine sembra scavare nel profondo della vocalità, si assiste con Quasimodo ad una evoluzione che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia non stravolge il percorso intellettuale, morale, artistico del poeta, che ha ben viva la lezione massonica.

La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una violenza estrema… La poesia della nuova generazione. che chiameremo sociale, aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni” Montale, in Satura, canterà:

Le parole preferiscono il sonno nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute, imbalsamate, ibernate, le parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari perché c’è sempre il marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più rari.

Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La pietà”.

Ho popolato di nomi il silenzio.

Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per cadere in servitù di parole?

Amore, ansia religiosa, nostalgia per il mito di una Sicilia dell’infanzia non sono più i temi chc da soli bastino a cantare la condizione csistenziale. Si apre la poesia. massonicamente nutrita, verso una dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di impegno per tutti.

La poesia ha quindi una possibilità in più. quella rigenerativa come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino. cammino appunto iniziatico, della redcnzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.

Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa in mezzo a un cataclisma come la — alla narrazione: si è ispessito l’impegno di Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.

Ma neppure con questa nuova spinta ideale il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasimodo crede di poter contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema autenticamente antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal linguaggio alla comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica delle realtà sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano è sottolineato non solo con i caratteri di una trasformazione stilistica o con un approfondimento tematico: il poeta è il politico. ma con l’avvertenza che nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E allora la traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente massonico, tanto che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai bombarda

menti — lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi nell’uomo: non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi esalta la necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma comc filtro interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vitlima di uno scontro con la famigerata banda Corridoni e vive dopo l ‘ 8 settembre in una Milano babilonica, tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è dei poeti nei momenti tragici: mentre si ITIuore ed anch’ egli lotta per sopravvivere, traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella geenna milanese non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire la poesia:

Le spie non possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con gli amici, né dire parole al cuore di nessuno.

La guerra e le traduzioni fanno ben capire come non vi possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino dal punto di vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più profondo del verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento. un ricordo: il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di esule. Così egli è tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in nome di una umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono nell’epico. Con in più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco letterario, rimanendo legato al mondo classico.

“Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”. Così scrive nel 1946, a pochi mesi dalla sua iscrizione al partito comunista italiano, con una evidente coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed il politico. in un clima in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano le più attente ed attrezzate nel perseguire una politica culturale.

Il dibattito fu — come è ben noto — intenso; la formazione solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in rotta di collisione con le teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano soprattutto su Rinascita. Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che portò alla chiusura de Il Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di cultura che non intende suonare il piffero della rivoluzione. trova oià disimpegnato Quasimodo da questa sua militanza politica. Avere “esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell ‘ uomo da scorgcrc nell’ uomo”, essere “proprio dello scrittore saper scorgere, forsc accanto alle esigenze che pone alla politica quell’in più delle esigenze che pone la politica”. sono le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto Quasimodo massone, un individualista come solo un poeta può esserlo, che finisce amarxista per esserc più profondamente un “liberal”, un democratico che vede nel socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione etica. ma da cui esige di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità di gesti e di espressioni, i molti distinguo.

La ripresa post-bellica dci lavori nellc officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore. Collabora a MilanoSera, Rinascita. L’ Unità, ma firma con prontezza una petizione in favore dello scrittore ungherese Tibor Déry imprigionato nell’ Ungheria del 1956 invasa e calpestata dai carri armati russi, lo stesso scrittore che aveva patito nel 1919 il carcere per aver partecipato al tentativo rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene l’alta testimonianza di una solidarietà, per questo come per noolti altri casi. che trova il suo coronamento nel discorso da lui pronunciato per il

 premio Nobel, dal titolo appunto “Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe ozioso, davanti a questo consesso, tentare di sottolineare la valenza massonica di un premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.

Il Nobel al massone Carducci ( 1 906), al massonc Marconi ( 1 909), quello di Pirandello (1934). con la parentesi della Deledda (1926) (non a caso assegnato ad una donna proprio nei momenti in cui il regime fascista iniziava a battere la grancassa della guerresca vitalità virilistica) sono una lontana ipoteca ad un riconoscimento da offrire ad un italiano e massone. a distanza di un quarto di secolo.

Una esplorazione. disorganica e mutila come questa, non può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui. costanti momenti di massonismo echeggianti nella c dalla poesia di Quasimodo; questa irrinunciabile ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario ha dimostrato nel modo più alto. con l’ansia della ricerca e la lotta del dubbio, che la poesia ha un futuro, anche al di sopra della storia, proprio come la massoneria. Come la massoneria, la sua poesia soffre sc viene applicata c derivata dai singoli momenti della cronaca. In entrambe circola il respiro del bisogno dell’amore come irriducibile resistenza della vita contro la morte, con la densità energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra il contingente c l’eterno, l ‘ io e il tutto. che impediscono la generosa consapevolezza del colloquio tra gli uomini.

Come dice il poeta:

La vita è senza fine. Ogni giorno è nostro…

E l’uomo che in silenzio s’ avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di geranio.

Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo, poeta: la personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno dei nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce, dell’esistenza vissuta in una luce d’amore.

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RELIGIOSITA’ E MASSONERIA

La Religiosità della Massoneria di Elio Ambrogio

In loggia, per antico precetto, non si parla né di politica né di religione. Ed è giusto dal momento che si tratta di due esperienze umane che — assai più che all’unità — hanno spesso portato alla divisione fra gli uomini, anche a divisioni cruente e sanguinose. La Massoneria è invece unione ideale, catena solidaristica, forza centripeta, potenza sintetica e unitiva di uomini, donne, idee e sentimenti.

E stupisce come la religione, la cui origine semantica è nel verbo religare” , riunire, si sia invece dimostrata molto spesso forza di aspra divisione.

In realtà, il significato tradizionale della parola “religione” rimanda non tanto ad una unione fra uomini che condividono le stesse credenze e gli stessi culti ma piuttosto ad una unione fra il mondo materiale e la sua origine divina, fra l’uomo e il suo principio spirituale, fra l’anima sola e triste dell’uomo e la sua originaria felicità primordiale quando ancora non era separata dal tutto.

Fra i vari possibili significati del termine “religione” forse proprio quest’ultimo può essere assunto come più produttivo per il nostro discorso: la religione come riunione dell’anima individuale con una realtà più vasta, più profonda, più filosoficamente “vera .

 the dewdrop slips into the shining sea”. La goccia di rugiada scivola nel mare splendente, come dice sir Edwin Arnold a conclusione del suo poema sulla Luce dell’Asia. La coscienza individuale si confonde e si perde nella luce più grande della divinità, riunendosi alla sua origine. E ciò al di là di ogni culto, di ogni chiesa, di ogni sacro testo, di ogni predica, di ogni umana e storica divisone. L’esperienza religiosa è quella in ogni tempo e luogo: è l’esperienza della riunificazione con qualcuno o qualcosa che ci trascende.

Certo, questa è la verità dell’esperienza religiosa, è la sperimentazione suprema dell’identità divina, e come tale riservata a pochi spiriti fortunati. “In questa potenza”, scrive Meister Eckhart, “Dio incessantemente verdeggia e fiorisce in tutta la gioia e in tutto l’onore che egli è in sé stesso. Qui la gioia è così intima, la gioia è così ineffabilmente grande che nessuno riesce ad esprimerla” (Prediche, In67

travit Jesus in quoddam castellum). Nelle parole di tutti i grandi spiriti, l’esperienza religiosa più alta ha accenti straordinariamente simili e concordi. Al di là di fedi e chiese, la loro esperienza — solo in parte comunicabile — non si contraddice.

Esiste poi una esperienza religiosa più umile, più terrena e quotidiana. Esiste il desiderio di ogni uomo e di ogni donna di ‘ appartenere” a qualcosa di più grande, anche se questo qualcosa non è la Realtà Ultima. Esiste l’umanissimo e diffusissimo desiderio di non essere soli, di non vivere perennemente nella piccola cella della propria individualità. Esiste il desiderio di sentirsi parte di un grande corpo” di un “piano”, di un “processoLa Religiosità della Massoneria di Elio Ambrogio

In loggia, per antico precetto, non si parla né di politica né di religione. Ed è giusto dal momento che si tratta di due esperienze umane che — assai più che all’unità — hanno spesso portato alla divisione fra gli uomini, anche a divisioni cruente e sanguinose. La Massoneria è invece unione ideale, catena solidaristica, forza centripeta, potenza sintetica e unitiva di uomini, donne, idee e sentimenti.

E stupisce come la religione, la cui origine semantica è nel verbo religareLa Religiosità della Massoneria di Elio Ambrogio

In loggia, per antico precetto, non si parla né di politica né di religione. Ed è giusto dal momento che si tratta di due esperienze umane che — assai più che all’unità — hanno spesso portato alla divisione fra gli uomini, anche a divisioni cruente e sanguinose. La Massoneria è invece unione ideale, catena solidaristica, forza centripeta, potenza sintetica e unitiva di uomini, donne, idee e sentimenti.

E stupisce come la religione, la cui origine semantica è nel verbo religare” , riunire, si sia invece dimostrata molto spesso forza di aspra divisione.

In realtà, il significato tradizionale della parola “religione” rimanda non tanto ad una unione fra uomini che condividono le stesse credenze e gli stessi culti ma piuttosto ad una unione fra il mondo materiale e la sua origine divina, fra l’uomo e il suo principio spirituale, fra l’anima sola e triste dell’uomo e la sua originaria felicità primordiale quando ancora non era separata dal tutto.

Fra i vari possibili significati del termine “religione” forse proprio quest’ultimo può essere assunto come più produttivo per il nostro discorso: la religione come riunione dell’anima individuale con una realtà più vasta, più profonda, più filosoficamente “vera .

 the dewdrop slips into the shining sea”. La goccia di rugiada scivola nel mare splendente, come dice sir Edwin Arnold a conclusione del suo poema sulla Luce dell’Asia. La coscienza individuale si confonde e si perde nella luce più grande della divinità, riunendosi alla sua origine. E ciò al di là di ogni culto, di ogni chiesa, di ogni sacro testo, di ogni predica, di ogni umana e storica divisone. L’esperienza religiosa è quella in ogni tempo e luogo: è l’esperienza della riunificazione con qualcuno o qualcosa che ci trascende.

Certo, questa è la verità dell’esperienza religiosa, è la sperimentazione suprema dell’identità divina, e come tale riservata a pochi spiriti fortunati. “In questa potenza”, scrive Meister Eckhart, “Dio incessantemente verdeggia e fiorisce in tutta la gioia e in tutto l’onore che egli è in sé stesso. Qui la gioia è così intima, la gioia è così ineffabilmente grande che nessuno riesce ad esprimerla” (Prediche, In67

travit Jesus in quoddam castellum). Nelle parole di tutti i grandi spiriti, l’esperienza religiosa più alta ha accenti straordinariamente simili e concordi. Al di là di fedi e chiese, la loro esperienza — solo in parte comunicabile — non si contraddice.

Esiste poi una esperienza religiosa più umile, più terrena e quotidiana. Esiste il desiderio di ogni uomo e di ogni donna di ‘ appartenere” a qualcosa di più grande, anche se questo qualcosa non è la Realtà Ultima. Esiste l’umanissimo e diffusissimo desiderio di non essere soli, di non vivere perennemente nella piccola cella della propria individualità. Esiste il desiderio di sentirsi parte di un grande corpo” di un “piano”, di un “processo”, di un “divenire”. Ecco allora le moderne Religioni dell’Umanità, quelle religioni che non propongono più l’unione mistica c cosmica con la realtà fondamentale dell’universo, ma più semplicemente l’appartenenza ad un disegno evolutivo dell’uomo o della storia.

Il Cristianesimo, dopo le altezze metafisiche raggiunte nel Medioevo, ha finito per offrire più semplicemente un disegno di salvazione di cui si può entrare a far parte per mezzo della fede e dell’amore reciproco. Gli ideali rinascimentali hanno invece proposto una salvezza per mezzo della conoscenza e della bellezza. L’utopia socialista e comunista ha regalato a generazioni e generazioni di uomini e donne, il sogno di un paradiso terrestre storicamente raggiungibile mediante il rivolgimento delle strutture sociali ed economiche. L’idea ecologista fa rilucere alle menti e ai cuori di una umanità che si affaccia al terzo millennio la visione di un uomo riconciliato con la natura e ad essa amorevolmente ricongiunto. E ancora, i nostri tempi vedono nascere e crescere una pluralità di sette più o meno innocue, più o meno infantili, più o meno razionali che offrono una identificazione col gruppo che li produce. In tutte queste fenomenologie il senso dell’appartenenza a qualcosa — al gruppo stesso, al pensiero o al progetto storico — è fortissimo.

In che cosa la Massoneria è diversa da tutto ciò? E in che cosa è simile? E, più in generale, la Massoneria può inserirsi nel grande fenomeno dell’esperienza religiosa?

Io credo di sì, a patto che della parola “religione” si faccia un uso corretto.

Intanto c’è sempre stata e c’è una massoneria mistica. E la radice più profonda e l’ala più antica della casa massonica. E la massoneria esoterica e sapienziale anteriore al 1717 che affonda le sue radici nel templarismo e nella cabala, nel rosicrucianesimo e nell’alchimia. E la Massoneria di cui poco si può dire perchè è mitica e leggendaria. I suoi segni e la sua venerabile identità però compaiono e ci parlano ancora oggi nel grande complesso di simboli e riti che i liberi muratori utilizzano quotidianamente e assiduamente. E una massoneria difficile e affascinante, per spiriti forti e non convenzionali, che anche dopo l’anno della “storicizzazione” – il 1717 – ha continuato a sopravvivere in maniera minoritaria ma vivace in personaggi come Guénon, Canseliet, Fulcanelli. È la “massoneria della mente e del cuore” di cui ha scritto recentissimamente Alberto Cesare Ambesi nel suo “I maestri del tempio” (Ed. Terziaria, 1995): una massoneria che non rinuncerà mai alla realizzazione dell’Uomo Cosmico, dell’Adamo Primigenio di cui parla la tradizione sapienziale.

Ma c’è anche la massoneria che, molto più concretamente, coltiva la Religione dell’Umanità, una tradizione tipicamente illuminista c positivista. E la massoneria del XVIII e del XIX secolo: un sodalizio di uomini colti e illuminati che crede profondamente nel progresso della società a patto che si possano impiantare in essa i grandi valori della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza. E la massoneria delle rivoluzioni borghesi, delle due rivoluzioni industriali, è la massoneria che crede al positivismo di Comte e al socialismo umanitario di Turati, è la massoneria risorgimentale e garibaldina, è la massoneria romantica che crede al destino dei popoli e che combatte l’oscurantismo cattolico di Pio IX, è cioè la massoneria “progressiva”, religiosamente fiduciosa nelle capacità razionali e morali dell’uomo e nel suo destino di libertà civile e di giustizia sociale. Il suo scopo è sempre stato veementemente politico: creare classi dirigenti aperte e liberali in grado di reggere la sfida della modernità. Da Washington a Nathan, da Churchill a Rabin, da Garibaldi a Roosevelt è sempre stata una massoneria religiosamente laica, attiva e dinamica, pragmatica e operativa, assolutamente convinta che la loggia sia l’anticamera della grande politica illuminata, la fucina dove si forgiano gli strumenti muratori per costruire la Città del Sole, qui e adesso.

C’è ancora quella che vorrei chiamare la “massoneria intimista ” , la massoneria di chi nel tempio cerca quella pace e quell’atmosfera di serena riflessione e intimità che il duro e convulso mondo profano non offre. È la religione dell’interiorità. Quella religione che nei secoli ha sempre spinto gli uomini e le donne più sensibili e miti a cercare luoghi dove i pensieri e i sentimenti potessero snodarsi, comporsi e crescere con armoniosità. E la massoneria un po’ monastica della condivisione fraterna di esperienze e di ricerche interiori, è la massoneria della penombra, delle atmosfere, dello scambio profondo ma gentile delle parole di saggezza che ognuno porta con sé e che ognuno vuole offrire agli altri fratelli. E anche questa è una massoneria dell’appartenenza: dell’appartenenza agli altri fratelli. Una massoneria forse meno ardita sotto il profilo spirituale, meno impegnata nella costruzione di una società ideale all’esterno, ma ugualmente forte sotto il profilo di quella crescita umana che resta sempre e comunque a fondamento della Libera Muratoria.

Esiste dunque una religiosità massonica?

Personalmente credo che là dove c’è un uomo che cerca una verità, là c’è anche una religiosità. Là dove c’è un uomo che vuole perfezionarsi, la c’è anche una religiosità. Là dove si coltivano cose preziose, là c’è anche una religiosità. Là dove uomini e donne cercano appartenenze più vaste — appartenenze divine, cosmiche, umane, storiche, ideali — là cioè dove uomini e donne cercano di uscire dalla propria piccola individualità per riconoscersi come parte di qualcosa di più grande e di più alto, là c’è religiosità.

L’importante è che non nasca una Religione della Massoneria, ma continui ad esistere una Religiosità Massonica. Cioè quel soffio gentile che alita nei nostri templi c che non si può prendere e incanala re in dogmi e in forme e strutture materiali ma che, come dice quella Bibbia che teniamo sui nostri altari, soffia dove vuole. Una religiosità libera e sottile che non è nient’altro che quella perpetua nostalgia di verità e di perfezione che gli uomini e le donne si portano dentro da sempre.

” , riunire, si sia invece dimostrata molto spesso forza di aspra divisione.

In realtà, il significato tradizionale della parola “religione” rimanda non tanto ad una unione fra uomini che condividono le stesse credenze e gli stessi culti ma piuttosto ad una unione fra il mondo materiale e la sua origine divina, fra l’uomo e il suo principio spirituale, fra l’anima sola e triste dell’uomo e la sua originaria felicità primordiale quando ancora non era separata dal tutto.

Fra i vari possibili significati del termine “religione” forse proprio quest’ultimo può essere assunto come più produttivo per il nostro discorso: la religione come riunione dell’anima individuale con una realtà più vasta, più profonda, più filosoficamente “vera .

  the dewdrop slips into the shining sea”. La goccia di rugiada scivola nel mare splendente, come dice sir Edwin Arnold a conclusione del suo poema sulla Luce dell’Asia. La coscienza individuale si confonde e si perde nella luce più grande della divinità, riunendosi alla sua origine. E ciò al di là di ogni culto, di ogni chiesa, di ogni sacro testo, di ogni predica, di ogni umana e storica divisone. L’esperienza religiosa è quella in ogni tempo e luogo: è l’esperienza della riunificazione con qualcuno o qualcosa che ci trascende.

Certo, questa è la verità dell’esperienza religiosa, è la sperimentazione suprema dell’identità divina, e come tale riservata a pochi spiriti fortunati. “In questa potenza”, scrive Meister Eckhart, “Dio incessantemente verdeggia e fiorisce in tutta la gioia e in tutto l’onore che egli è in sé stesso. Qui la gioia è così intima, la gioia è così ineffabilmente grande che nessuno riesce ad esprimerla” (Prediche, In67

travit Jesus in quoddam castellum). Nelle parole di tutti i grandi spiriti, l’esperienza religiosa più alta ha accenti straordinariamente simili e concordi. Al di là di fedi e chiese, la loro esperienza — solo in parte comunicabile — non si contraddice.

Esiste poi una esperienza religiosa più umile, più terrena e quotidiana. Esiste il desiderio di ogni uomo e di ogni donna di ‘ appartenere” a qualcosa di più grande, anche se questo qualcosa non è la Realtà Ultima. Esiste l’umanissimo e diffusissimo desiderio di non essere soli, di non vivere perennemente nella piccola cella della propria individualità. Esiste il desiderio di sentirsi parte di un grande  corpo” di un “piano”, di un “processo”, di un “divenire”. Ecco allora le moderne Religioni dell’Umanità, quelle religioni che non propongono più l’unione mistica c cosmica con la realtà fondamentale dell’universo, ma più semplicemente l’appartenenza ad un disegno evolutivo dell’uomo o della storia.

Il Cristianesimo, dopo le altezze metafisiche raggiunte nel Medioevo, ha finito per offrire più semplicemente un disegno di salvazione di cui si può entrare a far parte per mezzo della fede e dell’amore reciproco. Gli ideali rinascimentali hanno invece proposto una salvezza per mezzo della conoscenza e della bellezza. L’utopia socialista e comunista ha regalato a generazioni e generazioni di uomini e donne, il sogno di un paradiso terrestre storicamente raggiungibile mediante il rivolgimento delle strutture sociali ed economiche. L’idea ecologista fa rilucere alle menti e ai cuori di una umanità che si affaccia al terzo millennio la visione di un uomo riconciliato con la natura e ad essa amorevolmente ricongiunto. E ancora, i nostri tempi vedono nascere e crescere una pluralità di sette più o meno innocue, più o meno infantili, più o meno razionali che offrono una identificazione col gruppo che li produce. In tutte queste fenomenologie il senso dell’appartenenza a qualcosa — al gruppo stesso, al pensiero o al progetto storico — è fortissimo.

In che cosa la Massoneria è diversa da tutto ciò? E in che cosa è simile? E, più in generale, la Massoneria può inserirsi nel grande fenomeno dell’esperienza religiosa?

Io credo di sì, a patto che della parola “religione” si faccia un uso corretto.

Intanto c’è sempre stata e c’è una massoneria mistica. E la radice più profonda e l’ala più antica della casa massonica. E la massoneria esoterica e sapienziale anteriore al 1717 che affonda le sue radici nel templarismo e nella cabala, nel rosicrucianesimo e nell’alchimia. E la Massoneria di cui poco si può dire perchè è mitica e leggendaria. I suoi segni e la sua venerabile identità però compaiono e ci parlano ancora oggi nel grande complesso di simboli e riti che i liberi muratori utilizzano quotidianamente e assiduamente. E una massoneria difficile e affascinante, per spiriti forti e non convenzionali, che anche dopo l’anno della “storicizzazione” – il 1717 – ha continuato a sopravvivere in maniera minoritaria ma vivace in personaggi come Guénon, Canseliet, Fulcanelli. È la “massoneria della mente e del cuore” di cui ha scritto recentissimamente Alberto Cesare Ambesi nel suo “I maestri del tempio” (Ed. Terziaria, 1995): una massoneria che non rinuncerà mai alla realizzazione dell’Uomo Cosmico, dell’Adamo Primigenio di cui parla la tradizione sapienziale.

Ma c’è anche la massoneria che, molto più concretamente, coltiva la Religione dell’Umanità, una tradizione tipicamente illuminista c positivista. E la massoneria del XVIII e del XIX secolo: un sodalizio di uomini colti e illuminati che crede profondamente nel progresso della società a patto che si possano impiantare in essa i grandi valori della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza. E la massoneria delle rivoluzioni borghesi, delle due rivoluzioni industriali, è la massoneria che crede al positivismo di Comte e al socialismo umanitario di Turati, è la massoneria risorgimentale e garibaldina, è la massoneria romantica che crede al destino dei popoli e che combatte l’oscurantismo cattolico di Pio IX, è cioè la massoneria “progressiva”, religiosamente fiduciosa nelle capacità razionali e morali dell’uomo e nel suo destino di libertà civile e di giustizia sociale. Il suo scopo è sempre stato veementemente politico: creare classi dirigenti aperte e liberali in grado di reggere la sfida della modernità. Da Washington a Nathan, da Churchill a Rabin, da Garibaldi a Roosevelt è sempre stata una massoneria religiosamente laica, attiva e dinamica, pragmatica e operativa, assolutamente convinta che la loggia sia l’anticamera della grande politica illuminata, la fucina dove si forgiano gli strumenti muratori per costruire la Città del Sole, qui e adesso.

C’è ancora quella che vorrei chiamare la “massoneria intimista ” , la massoneria di chi nel tempio cerca quella pace e quell’atmosfera di serena riflessione e intimità che il duro e convulso mondo profano non offre. È la religione dell’interiorità. Quella religione che nei secoli ha sempre spinto gli uomini e le donne più sensibili e miti a cercare luoghi dove i pensieri e i sentimenti potessero snodarsi, comporsi e crescere con armoniosità. E la massoneria un po’ monastica della condivisione fraterna di esperienze e di ricerche interiori, è la massoneria della penombra, delle atmosfere, dello scambio profondo ma gentile delle parole di saggezza che ognuno porta con sé e che ognuno vuole offrire agli altri fratelli. E anche questa è una massoneria dell’appartenenza: dell’appartenenza agli altri fratelli. Una  massoneria forse meno ardita sotto il profilo spirituale, meno impegnata nella costruzione di una società ideale all’esterno, ma ugualmente forte sotto il profilo di quella crescita umana che resta sempre e comunque a fondamento della Libera Muratoria.

Esiste dunque una religiosità massonica?

Personalmente credo che là dove c’è un uomo che cerca una verità, là c’è anche una religiosità. Là dove c’è un uomo che vuole perfezionarsi, la c’è anche una religiosità. Là dove si coltivano cose preziose, là c’è anche una religiosità. Là dove uomini e donne cercano appartenenze più vaste — appartenenze divine, cosmiche, umane, storiche, ideali — là cioè dove uomini e donne cercano di uscire dalla propria piccola individualità per riconoscersi come parte di qualcosa di più grande e di più alto, là c’è religiosità.

L’importante è che non nasca una Religione della Massoneria, ma continui ad esistere una Religiosità Massonica. Cioè quel soffio gentile che alita nei nostri templi c che non si può prendere e incanala  re in dogmi e in forme e strutture materiali ma che, come dice quella Bibbia che teniamo sui nostri altari, soffia dove vuole. Una  religiosità libera e sottile che non è nient’altro che quella perpetua nostalgia di verità e di perfezione che gli uomini e le donne si portano dentro da sempre.

“, di un “divenire”. Ecco allora le moderne Religioni dell’Umanità, quelle religioni che non propongono più l’unione mistica c cosmica con la realtà fondamentale dell’universo, ma più semplicemente l’appartenenza ad un disegno evolutivo dell’uomo o della storia.

Il Cristianesimo, dopo le altezze metafisiche raggiunte nel Medioevo, ha finito per offrire più semplicemente un disegno di salvazione di cui si può entrare a far parte per mezzo della fede e dell’amore reciproco. Gli ideali rinascimentali hanno invece proposto una salvezza per mezzo della conoscenza e della bellezza. L’utopia socialista e comunista ha regalato a generazioni e generazioni di uomini e donne, il sogno di un paradiso terrestre storicamente raggiungibile mediante il rivolgimento delle strutture sociali ed economiche. L’idea ecologista fa rilucere alle menti e ai cuori di una umanità che si affaccia al terzo millennio la visione di un uomo riconciliato con la natura e ad essa amorevolmente ricongiunto. E ancora, i nostri tempi vedono nascere e crescere una pluralità di sette più o meno innocue, più o meno infantili, più o meno razionali che offrono una identificazione col gruppo che li produce. In tutte queste fenomenologie il senso dell’appartenenza a qualcosa — al gruppo stesso, al pensiero o al progetto storico — è fortissimo.

In che cosa la Massoneria è diversa da tutto ciò? E in che cosa è simile? E, più in generale, la Massoneria può inserirsi nel grande fenomeno dell’esperienza religiosa?

Io credo di sì, a patto che della parola “religione” si faccia un uso corretto.

Intanto c’è sempre stata e c’è una massoneria mistica. E la radice più profonda e l’ala più antica della casa massonica. E la massoneria esoterica e sapienziale anteriore al 1717 che affonda le sue radici nel templarismo e nella cabala, nel rosicrucianesimo e nell’alchimia. E la Massoneria di cui poco si può dire perchè è mitica e leggendaria. I suoi segni e la sua venerabile identità però compaiono e ci parlano ancora oggi nel grande complesso di simboli e riti che i liberi muratori utilizzano quotidianamente e assiduamente. E una massoneria difficile e affascinante, per spiriti forti e non convenzionali, che anche dopo l’anno della “storicizzazione” – il 1717 – ha continuato a sopravvivere in maniera minoritaria ma vivace in personaggi come Guénon, Canseliet, Fulcanelli. È la “massoneria della mente e del cuore” di cui ha scritto recentissimamente Alberto Cesare Ambesi nel suo “I maestri del tempio” (Ed. Terziaria, 1995): una massoneria che non rinuncerà mai alla realizzazione dell’Uomo Cosmico, dell’Adamo Primigenio di cui parla la tradizione sapienziale.

Ma c’è anche la massoneria che, molto più concretamente, coltiva la Religione dell’Umanità, una tradizione tipicamente illuminista c positivista. E la massoneria del XVIII e del XIX secolo: un sodalizio di uomini colti e illuminati che crede profondamente nel progresso della società a patto che si possano impiantare in essa i grandi valori della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza. E la massoneria delle rivoluzioni borghesi, delle due rivoluzioni industriali, è la massoneria che crede al positivismo di Comte e al socialismo umanitario di Turati, è la massoneria risorgimentale e garibaldina, è la massoneria romantica che crede al destino dei popoli e che combatte l’oscurantismo cattolico di Pio IX, è cioè la massoneria “progressiva”, religiosamente fiduciosa nelle capacità razionali e morali dell’uomo e nel suo destino di libertà civile e di giustizia sociale. Il suo scopo è sempre stato veementemente politico: creare classi dirigenti aperte e liberali in grado di reggere la sfida della modernità. Da Washington a Nathan, da Churchill a Rabin, da Garibaldi a Roosevelt è sempre stata una massoneria religiosamente laica, attiva e dinamica, pragmatica e operativa, assolutamente convinta che la loggia sia l’anticamera della grande politica illuminata, la fucina dove si forgiano gli strumenti muratori per costruire la Città del Sole, qui e adesso.

C’è ancora quella che vorrei chiamare la “massoneria intimista ” , la massoneria di chi nel tempio cerca quella pace e quell’atmosfera di serena riflessione e intimità che il duro e convulso mondo profano non offre. È la religione dell’interiorità. Quella religione che nei secoli ha sempre spinto gli uomini e le donne più sensibili e miti a cercare luoghi dove i pensieri e i sentimenti potessero snodarsi, comporsi e crescere con armoniosità. E la massoneria un po’ monastica della condivisione fraterna di esperienze e di ricerche interiori, è la massoneria della penombra, delle atmosfere, dello scambio profondo ma gentile delle parole di saggezza che ognuno porta con sé e che ognuno vuole offrire agli altri fratelli. E anche questa è una massoneria dell’appartenenza: dell’appartenenza agli altri fratelli. Una massoneria forse meno ardita sotto il profilo spirituale, meno impegnata nella costruzione di una società ideale all’esterno, ma ugualmente forte sotto il profilo di quella crescita umana che resta sempre e comunque a fondamento della Libera Muratoria.

Esiste dunque una religiosità massonica?

Personalmente credo che là dove c’è un uomo che cerca una verità, là c’è anche una religiosità. Là dove c’è un uomo che vuole perfezionarsi, la c’è anche una religiosità. Là dove si coltivano cose preziose, là c’è anche una religiosità. Là dove uomini e donne cercano appartenenze più vaste — appartenenze divine, cosmiche, umane, storiche, ideali — là cioè dove uomini e donne cercano di uscire dalla propria piccola individualità per riconoscersi come parte di qualcosa di più grande e di più alto, là c’è religiosità.

L’importante è che non nasca una Religione della Massoneria, ma continui ad esistere una Religiosità Massonica. Cioè quel soffio gentile che alita nei nostri templi c che non si può prendere e incanala re in dogmi e in forme e strutture materiali ma che, come dice quella Bibbia che teniamo sui nostri altari, soffia dove vuole. Una religiosità libera e sottile che non è nient’altro che quella perpetua nostalgia di verità e di perfezione che gli uomini e le donne si portano dentro da sempre.

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