Soldati angloamericani e partigiani avanzavano con
cautela lungo i quartieri celeberrimi del centro storico mentre, nascosti
dietro i comignoli e gli abbaini, stavano prendendo la mira qualcosa come tra
duecento e trecento tiratori. Una storia magnificamente raccontata da Luca
Tadolini ne “I franchi tiratori di Mussolini”
Sullo stesso argomento:
Il miglior
antidoto alla retorica della liberazione è un libro di un soldato inglese
Indagine
sull’omicidio di Giovanni Gentile, una canagliata in anni brutali
Agosto è il mese dell’anno in cui il selciato della
città di Firenze avvampa e brucia. Ebbene, nella prima decade del mese di
agosto del 1944 su quel selciato misero i piedi a tutta forza, spalleggiati da
agguerrite brigate partigiane, gli avamposti delle truppe angloamericane che
stavano ascendendo lungo le città dello stivale dopo aver conquistato la
Sicilia, Napoli, Roma. Il 4 agosto, dopo avere abbandonato la riva sinistra
dell’Arno (altrimenti detta Oltrarno o Diladdarno), i tedeschi eccezion fatta
per il Ponte Vecchio fecero esplodere tutti i ponti che collegavano le due
sponde del fiume. Anziché consumarsi in una difesa di Firenze largamente
impossibile, volevano appostare la loro forza intatta dietro le poderose
fortificazioni che avevano eretto sugli Appennini a costituire la cosiddetta
Linea gotica. Soldati angloamericani e partigiani avanzavano con cautela lungo
i quartieri celeberrimi del centro storico del capoluogo fiorentino, quelle
piazze e quei monumenti cui si abbeverano da sempre turisti di tutto il mondo.
Ho detto con cautela perché disseminati sui tetti di palazzi famosi, nascosti
dietro i comignoli e gli abbaini, stavano prendendo la mira contro
angloamericani e partigiani qualcosa
come tra duecento e trecento franchi tiratori fascisti muniti di munizioni e di
viveri. Erano stati scelti e motivati dal capintesta del fascismo fiorentino,
quell’Alessandro Pavolini poco più che quarantenne che si muoveva a suo agio
tanto nelle cose della cultura quanto in quelle dell’azione politica la più
partigiana e violenta. Alcuni di loro erano degli irriducibili fascisti della
prima ora, altri dei men che diciottenni che portavano ancora i calzoni corti,
c’erano anche alcune donne su quei tetti e non pochissime, donne che da come
erano vestite appartenevano senz’altro alla borghesia benestante, probabilmente
mogli o figlie di borghesi fascistissimi.
In un suo articolo era stato nientemeno il più
diffuso quotidiano inglese, quel Daily Mirror che durante la Seconda guerra
mondiale toccò il vertice di due milioni di copie vendute giornalmente, a
segnalare che nella Firenze dell’agosto 1944 le forze alleate avevano catturato
la bellezza di 25 “franche tiratrici”. Ben 25 donne più o meno fascistissime
che si erano appostate sui tetti e avevano preso la mira, o che avevano aiutato
qualcuno al loro fianco a trovare il bersaglio e a puntarlo. Fu uno che
disegnava le copertine settimanali della Domenica del Corriere a raccontare
quel che marchiava in quel momento la vita italiana, parlo del grande Walter Molino,
che dedicò la copertina del 17 dicembre 1944 a una scena di battaglia che si
stava svolgendo a Ravenna. Una scena che di certo gli era stata sollecitata da
quel che sapeva essere avvenuto a Firenze nell’agosto precedente. Viste da
dietro e un po’ dall’alto, nella tavola di Molino sono cinque le figurette
appollaiate sul tetto di una casa e mentre giù in fondo ci sono dei soldati
americani che fuggono e cadono. Due dei cinque sono degli uomini che stanno
puntando e sparando con i loro fucili, uno è un ragazzetto con i calzoni corti
che ha in mano un gran bel sasso da scaraventare addosso agli americani, la
quarta è una donna dal corpo disegnato a meraviglia a far capire che si tratta
di una donna e che sta sparando anche lei, la quinta è un’altra donna che sta
accorrendo alla bisogna con un fucile in mano e l’aria di chi sa quel che deve
fare. Un’apoteosi insomma dei franchi tiratori fascisti siano essi uomini o
donne. Solo che non era roba di tutti i giorni disegnare sulla copertina di un
settimanale popolare la figura di una donna che stava sparando da un tetto con
l’aria di saperci fare non meno di un uomo. La tavola fa da copertina di un
libro da cui ho immensamente attinto nel raccontarvi questa storia (Luca
Tadolini, I franchi tiratori di Mussolini, Edizioni del Veltro, 1998).
L’efficacia militare di quei franchi tiratori
nell’infliggere perdite ai “liberatori” di Firenze e nel ritardare la loro
presa di possesso della città fu tale che il commissario politico della
divisione di partigiani comunisti che prendeva il nome dal comandante “Potente”
morto in combattimento, chiese a un certo punto il permesso di poter fucilare a
titolo di rappresaglia dieci fascisti riconosciuti come tali per ogni
partigiano o civile ucciso dai franchi tiratori. Voleva fare né più né meno
quel che fecero i nazi a Roma dopo l’agguato di via Rasella, ucciderne dieci
contro ciascuno della sua parte caduto in combattimento. Per fortuna nessuno
diede ascolto a questo proposito belluino.
In quell’agosto del 1944, io che avevo tre anni
vivevo in una casa fiorentina assieme a mio padre che di anni ne aveva aveva 45
e a mia madre che ne aveva 26. Una di quelle mattine della prima decade di
agosto bussarono alla porta di casa nostra e mia madre andò ad aprire. Erano
due o tre partigiani fiorentini che volevano piazzare una mitragliatrice
leggera sul davanzale di una finestra di casa nostra. Purtroppo non ho più da
chiedere a mio padre o a mia madre se casa nostra stesse al di qua o al di là
dell’Arno, e magari capire se i partigiani volevano usare la mitragliatrice
contro i tedeschi o contro i franchi tiratori. Si accorsero che l’angolo di
tiro non era buono e lasciarono perdere. Quando arrivarono a casa nostra mio
padre non c’era. Da fascista convinto e militante quale era stato dapprima
nella Marradi in cui era nato e poi nella Catania dove aveva sposato in camicia
nera mia madre, s’era acquattato non so dove. Non era il caso che restasse ad
aspettare qualcuno che gli avrebbe chiesto conto e ragione del suo passato.
Qualcuno che nella Firenze dell’agosto 1944 difficilmente si sarebbe comportato
da “cristiano”, a dirla con il Curzio Malaparte che ai franchi tiratori
fiorentini dedicò un indimenticabile capitolo de La pelle, il suo romanzo del
1949.
Di più su questi argomenti:
resistenza
storia novecento fascismo seconda guerra mondiale
(Messaggio ritrovato nei nostri Archivi da un vecchio
membro dell’Ordine)
Certamente conoscete quell’inserzione ispirata che il
nostro Ordine fece apparire in diversi giornali e riviste; cominciava così:
«L’uomo deve morire senza aver liberato il suo IO
interiore? Possiamo conoscere l’esperienza di una evasione momentanea
dell’anima, ossia diventare uno con l’universo e ricevere l’influsso della
divina comprensione?»
In molti di noi quell’annuncio provocò uno choc che
determinò l’affiliazione all’A.M.O.R.C.. Forse ciò successe sei mesi, due,
cinque o dieci anni dopo, poco importa. Quanto esporremo sarà valido per tutti
qualunque sia il momento in cui avete cominciato a calcare il sentiero che
conduce alla comunione cosmica.
Insieme cammineremo su questo via, insieme faremo i primi
passi, segneremo le lunghissime tappe che comporta, vi metteremo in guardia
contro i pericoli e rianimeremo il vostro coraggio rischiarando il percorso.
Innanzi tutto ricordiamoci del nostro stato mentale quando
abbiamo varcato il portale che apre su questa via reale. Solo l’entusiasmo può
far cedere questo portale, e solo il soffio della nostra meraviglia, del nostro
stupore ne ha forzato i battenti e ci ha buttati sulla strada. Eppure, una
volta passato il primo entusiasmo, ci siamo rapidamente resi conto che per
procedere nella luce era assolutamente necessario avere in ogni istante il
controllo sul pensiero.
Nell’antichità, dove la maggior parte dei governi erano
teocratici, la vita politica e sociale era concentrata nei templi all’ombra dei
quali si formavano i grandi saggi di quelle epoche scomparse. Ci inchiniamo con
ammirazione davanti ai loro metodi che hanno prodotto i Platone, i Pitagora, i
Socrate, i Virgilio, i Seneca e tante altre glorie dell’umanità.
In futuro questi metodi saranno certamente ripresi, ma
oggi non sono praticabili, non ci appartengono. I metodi antichi erano fondati
sul discernimento sintetico dove DIO appariva come l’universo in manifestazione
in tutte le sue parti e in tutti gli atti della creazione. La nostra epoca, al
contrario, è dominata dallo scienziato che, partendo dal discernimento
analitico, va dal fenomeno a DIO. Ora, accade che il saggio dell’antichità e lo
scienziato si incontrino. La scienza moderna sta verificando i più vecchi
insegnamenti del mondo: i nostri scienziati nei loro laboratori, convertendo la
luce in materia e riconvertendo quest’ultima in luce, verificano l’insegnamento
dei Veda e quello trascritto sulle tavolette babilonesi, e cioè che DIO creò
prima la luce e che la materia è solo la condensazione dell’energia radiante.
Tutte le forze oggi conosciute lo erano anche dagli
antichi i quali ne conoscevano altre che presto a loro volta gli scienziati
troveranno. Sappiamo per esempio che i saggi dell’antichità erano capaci di
concentrare l’energia elettrica nel corpo umano e scaricarla istantaneamente
quando ce n’era bisogno per infondere terrore ai loro nemici. Si sono trovate,
in molte tombe delle lampade perpetue che hanno fatto sognare i nostri scienziati.
Così dunque, come i saggi dell’antichità, i nostri
scienziati d’oggi non credono alla materia. Sono del resto all’inizio del loro
cammino, ma penetreranno nel mondo psichico per esplorarlo di nuovo in modo
insospettabile.
Non si formano più i saggi all’ombra dei templi. Nelle
grandi scuole che li hanno sostituiti, si forma un altro tipo umano nel quale
prevale la cultura intellettuale. L’uomo moderno poggia la sua ispirazione sui
concetti logici e dà un’interpretazione moderna alle antiche pergamene. Non
necessita più di dogmi, vuole cogliere le correnti di forza che si esprimono
nella lingua del nostro secolo. È mediante queste correnti che le dottrine
antiche gli diventeranno accessibili. Ora, con la radio, i giornali, i libri,
le riviste di ogni tipo, queste correnti si propagano nel mondo intero con una
forza considerevole. Le idee, gli insegnamenti di ogni genere, le più grandi
verità sono lanciate alla rinfusa, a caso e il seme germoglia dove può. L’uomo
moderno, per questo, annaspa da tempo nel falso sapere dettato solo dalla sua
mente. In questo periodo la sua anima si dissecca e si vuota di ideale, fino al
giorno in cui gli verrà la certezza che al di là della mente c’è qualcos’altro,
un altro mezzo di conoscenza. Allora sarà pronto a forzare i battenti del
portale che apre sulla VIA REALE.
In verità questa via non è cambiata, sono solo variati i
mezzi.
Oggi come ieri essa si apre all’interno dell’uomo; è
infinitamente lunga e difficile da percorrere.
Oggi come ieri il luogo d’incontro di DIO e dell’uomo è
nel cuore; e, come ieri, bisogna arrivare a vivere le verità che esprime;
bisogna svilupparsi al massimo sui tre piani nei quali l’uomo è chiamato a
operare: intellettuale, psichico e spirituale. Si dice che Pitagora consacrò 32
anni a questa preparazione.
Secondo Platone l’umanità aspira a questi quattro valori:
amore, salute, gloria e ricchezza.
L’iniziato deve elevarsi al di sopra di essi e volgere il
suo sguardo verso la verità, valore assoluto, ideale.
Avanziamo dunque ora sul cammino. La prima tappa è la più
lunga, la più dura, la più complessa da percorrere. Ci sono tante cose da
distruggere! Bisogna dissodare l’anima per il seme, bisogna purificare la
natura umana dagli elementi negativi derivanti dai pregiudizi del retaggio,
dell’educazione, dei difetti, dei vizi.
Molti sono incapaci di comprendere questo lavoro di
distruzione della personalità terrestre. Vorrebbero all’istante unirsi al DIO
del loro cuore. Certo, la divinità è nell’uomo; certo è nell’intimo di noi
stessi che DIO può essere raggiunto e sentito, ma la maggior parte non suppone
le incommensurabili distanze che separano il loro stato di coscienza da DIO
come essere cosciente. Immaginano di essere «a tu per tu» con Lui.
Ci è impossibile identificarci con il nostro ESSERE
SPIRITUALE eterno fintanto che non è nato in noi. È necessario che la nostra
VOLONTÀ ETERNA, cioè DIVINA, si perfezioni in una forma pura e limpida secondo
la legge. Ma questa forma pura non può nascere e svilupparsi in noi senza la
morte della nostra personalità terrestre che è destinata a essere in qualche
modo sostituita da quella forma. Quando diciamo «morte», vogliamo dire:
trasformazione radicale, poiché le energie che costituiscono la nostra
personalità terrestre non possono morire, possono solo cambiare direzione; si
tratta di morire a uno stato attuale per accedere a uno stato nuovo
dell’anima.
Fintanto che questo lavoro di distruzione non è terminato
e la personalità terrestre sussiste, malgrado il nostro grande desiderio di
trovare DIO e unirci a lui, non ci sarà possibile; potremo unirci a una
creazione della nostra personalità che potremo anche confondere con Dio in noi,
ma non senza pericolo.
Insomma, che cosa dobbiamo distruggere?
L’orgoglio, l’impazienza, l’egoismo, i falsi pregiudizi,
le concezioni errate dettate dall’egoismo o dalle convenzioni. Ci occorrerà
imparare a riconsiderare i valori, a mettere in secondo piano quelli che
mettiamo al primo.
Dovremo coltivare il rispetto e la venerazione poiché un
atteggiamento scettico o di derisione abbassa la dignità individuale. Colui che
nella sua anima non porta rispetto per il Principio Divino non può essere un
iniziato. Certo, la natura ignora l’uguaglianza, ma conosce la solidarietà; e
il rispetto e la venerazione generano l’obbedienza, l’umiltà e la pazienza.
La necessità di acquisire queste virtù appartiene a un
certo grado di evoluzione; esse sono legate al sentimento cosmico delle cose.
Sono assolutamente inaccessibili all’uomo comune.
L’orgoglio, la vanità, sono i più grandi ostacoli che si
incontrano sul cammino e, senza la pazienza, qualunque progresso è impossibile.
Non ci si rende conto all’inizio quanto siano lenti i processi di evoluzione
universale; occorrono molti sforzi e pazienza prima di pervenire a un successo;
l’impazienza annulla di colpo tutti i progressi acquisiti. La pazienza è
assolutamente necessaria per dominare le passioni. L’iniziato deve diventare il
maestro di se stesso prima di diventarlo per altri.
A dire il vero, la pazienza richiestaci è senza limite.
Nella vita comune gli uomini la applicano sporadicamente, ma per quanto ci
riguarda dobbiamo applicarla permanentemente.
Obbedienza, umiltà, pazienza, sono alla base
dell’evoluzione dell’anima. E per acquisire queste virtù, siate certi, le
prove morali non mancheranno mai. Bisogna sottomettersi a questa inevitabile
necessità anche se ci sembra ingiusta e irrazionale.
Le lotte intime, le rivolte, le esitazioni segnano questa
prima parte del cammino. Ogni volta che c’è una velleità d’orgoglio, la prova
di umiltà segue immediatamente. Lo scoglio più terribile è lo spirito critico
del nostro cervello. Tuttavia, non siamo capaci di una critica imparziale
poiché ignoriamo le tappe del percorso e ci manca il colpo d’occhio d’insieme;
d’altronde, con l’intelligenza e a misura dei nostri progressi spirituali
vedremo i nostri errori.
La prova più terribile è quella della pazienza. Esige uno
sforzo costante, terribile, lungo: non si sa che ne sarà, quanto durerà lo
sforzo. Bisogna prepararsi a esercitare una pazienza illimitata e non si sa mai
se si raggiungerà lo scopo. Questa prova talvolta porta alla disperazione.
In verità ci accorgiamo molto presto che questa via
sublime non impegna solo la mente, ma l’intero nostro essere: è la vita con le
sue esperienze, le esigenze, le sofferenze, con i problemi capaci di
sconvolgere, di provocare degli choc che sono altrettante prese di coscienza
capaci di far maturare l’anima.
Giorno dopo giorno la vita costituisce un esercizio
continuo. Non si può eludere la vita, tutta la vita al contrario serve da
esercizio poiché tutto quello che vogliamo trovare è nella vita giornaliera. La
Vita quotidiana è anche l’esercizio più efficace che ci sia e, siatene certi,
ognuno di noi ha esattamente il posto che gli è più congeniale per effettuare
l’esercizio di cui ha bisogno. Ogni minuto della vita deve costituire una presa
di coscienza totale. L’anima e il corpo non devono essere considerati
separatamente, non si tratta di spiritualizzare il corpo ma, al contrario, di
pervenire, mediante le forze dell’anima, all’incarnazione dello Spirito Eterno
dell’uomo sulla terra. Non si deve disprezzare il corpo, ma è necessario a che
creda all’esistenza dell’IO ETERNO che è in lui. Questo Io Eterno è la sorgente
delle forze, ma il corpo, è un recipiente dal quale attingere queste forze; non
è dunque da disdegnare, è utile, ma deve essere trattato da subalterno.
Con questo lavoro di distruzione della personalità
terrestre non usciamo dal piano materiale. Il nostro compito è ancora grande su
questo piano: dobbiamo elargire la nostra conoscenza, sviluppare al massimo le
nostre facoltà fisiche, intellettuali, morali, per le lotte sempre più ardue
che avremo da sostenere.
Dobbiamo imparare a sviluppare il nostro giudizio
obiettivo. Nell’uomo comune il giudizio è quasi sempre soggettivo, cioè dettato
dalle sue passioni, dal suo temperamento, dai suoi sentimenti, per questo quasi
sempre si inganna.
Bisogna dunque che ci dedichiamo a sondare i motivi
segreti dei nostri atti, del nostro comportamento; dobbiamo sviluppare in noi
lo spirito di discernimento per essere in grado di comprendere l’animo umano.
La psicologia, la filosofia sono dei collaboratori preziosi. Per quanto
possibile coltiveremo le scienze sul piano materiale, poiché se l’intelletto
non può parlare delle cose che non conosce, può tuttavia rendersi conto
dell’esistenza di una legge la cui azione permette a certe circostanze di
passare sul piano materiale della manifestazione. Così impiegato l’intelletto è
il servitore della forza che plasma le circostanze.
L’iniziato non deve cadere né nell’errore del mistico
puramente emotivo né in quello del metafisico puramente intellettuale; deve
acquisire un’esperienza vasta e profonda in questo mondo disprezzato dagli uni
e sovrastimato dagli altri. Solo in questo mondo e da nessun’altra parte
possiamo compiere il nostro destino, realizzare la nostra più alta
individualità. Ci vengono forniti tutti i mezzi affinché possiamo prendere
coscienza dell’IO SUPREMO. L’esperienza del mondo ci è stata imposta dallo
SPIRITO; e questo mondo fisico è il punto cruciale dove dobbiamo scoprire la
verità mentre siamo nella carne.
Perciò non voltiamo le spalle alla vita, significherebbe
far avvizzire il nostro cuore: non condanniamo niente e non cerchiamo di
identificarci in niente; ogni identificazione e ogni condanna provocano il
conflitto dei contrari, e un conflitto ne genera altri. Dobbiamo restare aperti
a tutti gli aspetti della vita senza eccezione e avvicinare ogni cosa senza
emozione, senza rifiuto, senza giustificazione; il nostro atteggiamento,
allora, non provocherà più conflitto poiché un fatto in sé, non ha contrari; è
il piacere o il malessere che proviamo avvicinandolo che provoca i contrari. La
REALTÀ non può essere percepita finché non cessa l’opposizione dei contrari.
Senza uscire dal piano materiale arriviamo al termine
della nostra prima tappa dove bisogna dire SI alla più alta esigenza del nostro
essere.
Da molti dettagli ci accorgiamo che il nostro modo di
sentire, di reagire, ha subito un rinnovamento. L’orgoglio degli altri non ci
disturba più e, quando nella nostra coscienza constatiamo continuamente le
nostre «mancanze» e la nostra impotenza, non ci indispettiamo né sorprendiamo
che anche gli altri se ne accorgano. Ci rendiamo conto anche che tradiamo meno
frequentemente i nostri pensieri, nel senso che conformiamo i nostri atti ai
nostri pensieri a misura delle prese di coscienza che diventano sempre più
numerose.
Tuttavia, Fratres e Sorores, non lasceremo questa prima
tappa senza darvi un consiglio di considerevole portata.
Se è facile parlare di rinuncia, se è agevole dare il via
alla presa di coscienza di noi stessi per distruggere la nostra personalità
terrestre, è molto più difficile farlo, e non ci sbagliamo dicendovi che
nessuno può riuscirci senza due aiuti di una potenza infinita: la FEDE e la
PREGHIERA; queste vanno mano nella mano e sono inseparabili.
Fratres e Sorores, finché noi stessi non siamo in grado
di fare delle verifiche, solo la fede può stimolarci, darci il coraggio e mantenerci
fermi sul cammino; solo la preghiera può ridarci le forze nell’ora dolorosa in
cui siamo presi dallo scoraggiamento sulla via che abbiamo scelto.
Nel corso della prima tappa solo la preghiera sarà il
nostro legame con la divinità.
Pregare non è un esercizio riservato ai deboli. Non si
tratta di fare i mendicanti davanti alle porte dello splendore divino. Non è
nemmeno una pozione calmante, un rimedio contro la paura, la sofferenza, la
malattia, la morte.
Pregare è la cosa più naturale che ci sia, è nutrire
l’anima, darle il suo pane quotidiano. Noi moriamo di fame spiritualmente.
Abbiamo bisogno di respirare per vivere, ma ci bagniamo anche in un mondo
spirituale e la nostra anima ha bisogno di impregnarsi di questo agente
spirituale proprio come il corpo ha bisogno d’ossigeno. Non è con il cervello
che preghiamo, ma con il cuore; si sente Dio come il calore del sole, come il
profumo di un fiore.
Procediamo per analogia e facciamo un esempio sul piano
materiale. Supponiamo che siate spossati dalla stanchezza, mezzi morti dal
freddo. Che cosa fate? Che cosa desiderate con tutte le forze dal vostro
essere? il riposo e un dolce calore. Niente al mondo conta per voi più del
riposo e del calore. E quando vi sarete seduti confortevolmente davanti a un
bel fuoco, dubiterete di essere riscaldati, supplicherete il fuoco di
riscaldare le vostre membra intorpidite? Sarebbe follia. Vi accontenterete di
sedere ad una giusta distanza e direte: Dio mio! Come si sta bene qui… Tutte
le cellule del corpo si lasceranno penetrare dal calore irradiante e una dolce
voluttà vi invaderà; automaticamente riprenderete le vostre forze e facoltà.
Ebbene, pregare non è altro che andare a riscaldarsi e a rinnovare le forze e
le facoltà al divino focolare di pura luce che possiamo raggiungere solo per
mezzo della scintilla divina nel profondo di noi stessi. Cerchiamo dunque il
più spesso possibile una presa di contatto con questo incalcolabile potenziale
di energia e lasciamo scorrere i suoi flutti nelle vie che avremo preparato
dentro di noi.
Eccoci pronti a intraprendere la seconda tappa. Non ci è
stata risparmiata alcuna prova. Queste prove non le abbiamo subite nel tempo,
ma nella vita, nel momento esatto in cui dovevamo subirle; ogni prova da cui
siamo usciti vittoriosi ha decuplicato le nostre forze. Possiamo ora avvicinare
il campo dell’anima, cominciare le nostre esplorazioni sul piano psichico.
Abbiamo imparato a conoscere certe leggi e cominceremo a sviluppare i poteri
latenti dell’anima: il nostro grado di purezza e di coscienza ci permetterà di
non dubitare di questi poteri. D’altra parte, a questo stadio, un desiderio si
precisa in noi e si fa ogni giorno più ardente: tradurre in tutta la nostra
vita la volontà dell’IO ETERNO e far tacere la volontà dell’ego.
Certo, siamo ancora lontani dall’aver spezzato le ultime
barriere della prigione mentale e le lotte contro la personalità terrestre
continuano; ma, ormai, in ragione dei terribili sforzi che avremo fornito, alte
potenze ci verranno in aiuto e vi diremo più avanti in quale modo.
La cultura morale, intellettuale, continua senza
interruzione; prende un’estensione e una forma sempre più elevata. Non ha più
un carattere individuale, ma universale, ci impone l’obbligo di atti utili.
L’amore cambia piano e abbraccia tutta la creazione; crea anche degli obblighi:
tendere una mano soccorritrice ai buoni come ai cattivi quando li si vede
soffrire e smarrirsi.
Impariamo a essere un giudice imparziale. In una parola,
cambiamo sfera di evoluzione e passiamo dal piano materiale al piano
spirituale. È da questo momento che cominciano il nostro isolamento e le prove
che ne risulteranno.
Il controllo delle sensazioni è continuo in ogni istante.
Questo controllo, e il potere di concentrazione, servono da regolatore delle
passioni mettendo un freno alle cattive e stimolando le buone. Goethe diceva
che la sola cosa che lo distingueva dal resto dell’umanità era il potere che
aveva su qualunque soggetto. In questa tappa dobbiamo poter fermare i nostri
pensieri su un soggetto scelto per il tempo necessario a considerarlo sotto
tutte le sue sfaccettature.
In questa tappa inoltre adotteremo l’atteggiamento che
ci permetterà di ascoltare «LA VOCE DEL SILENZIO». In un isolamento completo,
lontano dal mondo, dai rumori, impareremo ad attingere nel silenzio mistico
della natura insegnamenti universali. Per questo dobbiamo sgombrare ogni
ostacolo creato dal mondo materiale. In quello stato possiamo analizzarci,
notare i nostri difetti, mettervi un freno e ascoltare l’insegnamento del grande
silenzio pieno d’armonia.
A questo punto ci accorgiamo che l’istinto primitivo che
spinge l’uomo comune ad attaccare appena si sente leso, scompare. Non c’è più
esplosione di passioni: tutto si calma e si neutralizza; comprendiamo la nostra
solidarietà con il resto dell’umanità e la scusiamo invece di opporle il nostro
egoismo personale.
LA VOCE DEL SILENZIO ci aiuta a comprendere il problema
del bene e del male. Vediamo l’antinomia universale portare l’uomo, attraverso
il gioco delle forze contrarie, allo scopo supremo della sua evoluzione.
Impariamo anche che è nella lotta che maturiamo e diventiamo coscienti.
LA VOCE DEL SILENZIO ci spiega la grande lezione del
dolore mediante la quale si rigenera l’intera natura. Ogni nascita
corrisponde a una morte, ogni sofferenza genera una speranza e la speranza una
gioia. E in questo ciclo eterno il dolore si alterna invariabilmente alla
gioia.
Infine, LA VOCE DEL SILENZIO chiama verso le regioni del
sacrificio, consacrazione suprema della Verità.
Allora, quel porci eternamente domande, cessa. Diventiamo
silenziosi. Tuttavia l’ego personale non è ancora morto e i colpi di martello
si abbattono ancora sull’incudine. I poteri dell’anima sono sempre molto
indisciplinati e non portano ancora né il sigillo della padronanza, né quello
della grandezza, a causa della presenza ancora attiva dell’ego.
Simile a una sentinella siamo dunque sempre sul chi va là
poiché le trappole degli altri e quelle che ci tende il nostro ego sono
numerose e inattese. Il combattimento ci sembra senza fine, ignoriamo i
progressi che abbiamo fatto; non sappiamo né quando né come potremo arrivare e
dobbiamo attingere in noi le forze necessarie alla lotta. Allora, a quel punto,
proviamo una delle torture morali più penose: il dubbio. Dopo il sacrificio di
tutto il nostro io egoista, ci domandiamo con angoscia se tutto questo serve a
qualcosa, se la nostra vita non è stata sprecata; un profondo scoraggiamento ci
invade e conosciamo la tristezza spirituale.
È una crisi dell’anima abbattuta dal grande sforzo morale
che ha dovuto sostenere per distruggere i legami della materia. La sua vittoria
l’ha esaurita. È il vuoto, è l’angoscia profonda. Tutto scompare: la fede,
l’entusiasmo, il fuoco sacro; è lo scoraggiamento più assoluto. Uno spirito di
rivolta ci tortura, i nostri maestri ci sono odiosi, la nostra missione ci
sembra irrealizzabile e la verità per la quale abbiamo tanto lavorato ci
appare un miraggio. Stanchi, scoraggiati, spossati, aspiriamo solo alla calma
solenne della morte. Eppure, lontanissima, appena percettibile, vive ancora una
speranza, il tempo passa: non si muore; e un giorno una parola, una lettura, un
episodio riattizza il fuoco; l’oscurità si disperde, è la convalescenza. La
crisi è terminata, ma siamo senza forza sebbene la luce sembri più risplendente
che mai.
Prove spirituali, poteri occulti, conoscenze assimilate
mediante un lavoro assiduo ci portano alla fine della seconda tappa. La materia
si riduce, riconosce la supremazia dello Spirito, fra poco obbedirà.
Simile al soldato che ha provato le sue forze su tutti i
campi di battaglia, abbiamo trionfato su gran parte della personalità
materiale, la lotta deve continuare, ma la rosa, quando l’anima arriverà a
maturità, sboccerà infine sulla croce. La formazione del Cristo in noi può
prodursi solo nello stato che contiene in se stesso le virtualità di Dio. Essa
è perfetta, ma è necessario che nasca, si ingrandisca e si espanda nella vita.
Il chicco umano è destinato a diventare il SIGNORE del piano dell’anima.
Se i poteri psichici ottenuti sono ancora deboli non
preoccupiamocene oltre misura, adottiamo deliberatamente l’atteggiamento
seguente:
Fissiamo il pensiero, i sentimenti, il volere sull’uomo
spirituale perfetto in noi. Questo atteggiamento interiore deve essere
continuo, durante qualunque compito, in tutte le circostanze e i gesti della
vita quotidiana. Insomma, dobbiamo essere come un telescopio costantemente
puntato sull’uomo spirituale che vive, agisce, si manifesta grazie al suo
strumento fisico: il corpo materiale.
Dobbiamo noi stessi, grazie alle nostre stesse forze,
provocare la metamorfosi in ogni attimo della vita, in ogni comportamento
quotidiano, in ognuno dei nostri pensieri, in ogni desiderio, in ogni slancio.
Tutto, assolutamente tutto, deve essere sottomesso al controllo della volontà
formatrice. Il nostro atteggiamento non deve mai rilassarsi, bisogna che
determini tutta la nostra vita giornaliera.
Allora siate certi accadrà quanto segue:
Senza il vostro concorso cosciente si formerà un centro
di forza ogni giorno più rilevante. Un legame allora si stabilirà tra questo
centro e altri centri o nuclei di forza simili, già perfetti, senza che
dobbiate intervenire mediante un atto di volontà qualunque. Non appena si
stabilirà questo legame beneficerete dell’aiuto spirituale di coloro che hanno
già trovato. Sarete diventato un punto ricettore sintonizzato su una certa
lunghezza d’onda spirituale. Non c’è bisogno di un volere cerebrale per creare
questo centro, al contrario, esso impedirebbe il processo di cristallizzazione
delle forze che si precipitano le une verso le altre per costituire questo
nuovo centro indipendente dalle funzioni cerebrali.
Dopo questo contatto con gli aiuti spirituali le vostre
forze saranno di nuovo sottoposte a una specie di prova i cui risultati
determineranno l’aiuto ulteriore che sarà in armonia con il vostro grado
d’evoluzione. Sono questi aiuti che permettono di completare il lavoro e solo i
più forti, i più puri, arriveranno all’unione con la luce originale.
Unirsi al Sé luminoso è conoscere la propria
individualità indistruttibile e provare simultaneamente in sé la coscienza di
tutte le individualità spirituali manifestate negli esseri umani. L’essere è
fuso in una forza di coscienza collettiva, ma la sua coscienza non si dissolve
nella coscienza comune. Fa l’esperienza della vita cosciente nell’Io Supremo.
L’ego allora si abbandona completamente e può dire in tutta umiltà: «Che la tua
volontà sia fatta». Non scompare, diventa un organo mediante il quale agisce l’Io
Supremo. Da una parte l’uomo è collegato al principio primo, dall’altra a tutta
l’umanità. È diventato un centro di concentrazione dello Spirito e questo
centro diventa a sua volta uno strumento di penetrazione nell’intelletto degli
uomini per provocare il loro risveglio spirituale.
Solo allora l’iniziato può permettersi di dire che il
corpo è irreale, poiché il corpo resta reale finché non abbiamo realizzato Dio.
Se dico che il corpo è irreale, mi inganno e inganno gli altri, ma se ho
realizzato Dio, io vedo che è irreale. E questo Dio personale che l’iniziato
realizza è reale dal piano in cui lo realizza, così come il corpo è reale sul
piano fisico, ma, oltrepassato questo piano, scompare, non è più reale del
corpo. Quel Dio è stato creato dalla volontà libera e cosciente dello Spirito
che forma se stessa e diventa per se stessa un Dio.
Quando questo Dio sarà nato in noi saremo usciti dal
turbinio delle vibrazioni mentali e il Cristo in noi camminerà nella vita senza
paura. Il male, il peccato, i limiti, la morte, il timore, la paura, tutto
scomparirà dalla mente e cammineremo in tutta tranquillità senza inquietarci
per tutte queste cose. Non sprecheremo più il nostro tempo nel cercare
l’affermazione e la felicità, perché la porta del tempio sarà sempre aperta per
noi e potremo trovarvi il nostro Dio, quella presenza. Ogni tumulto cesserà,
avremo trovato l’ultimo rifugio.
Non saremo più divisi tra i nostri desideri impotenti e
le nostre angosce divoranti. Nella nostra anima regnerà una grande calma, quella
che riflettono i colossi d’Egitto. È stato chiamato ieratico il portamento
delle statue egiziane. Questo termine si adatta loro ammirevolmente e niente
evoca meglio l’iniziato di questi visi improntati di una nobiltà, di una
grandezza serena incomparabile.
Questa calma l’iniziato la ottiene dopo dura lotta.
Giunto al termine del cammino sa che tutte le sofferenze, le prove, le sventure
sono per il bene. Questa opinione, è vero, non è quella di tutti. Incompreso,
può accadere che diventi vittima della cecità umana, ma egli accetta la sua
croce. La sua ricompensa è l’illuminazione, fonte di rivelazione al di sopra di
tutte le fonti, esperienza eminentemente solenne e convincente per colui che
l’ha avuta nella sua forma più pura. Egli cammina sicuro e risoluto perché
l’essenza nascosta delle cose e il senso intimo della sua missione gli sono
stati rivelati. Ora può affrontare gli ostacoli poiché la sua anima è forgiata
in potenza e conoscenza. Il suo cuore è divorato dal fuoco ardente della fede e
le sue armi invincibili gli assicurano la vittoria finale.
Fratres e Sorores, ascoltatemi: La strada è lunga e dura
e nell’ora dolorosa in cui sarete tentati di lasciarvi cadere per la
stanchezza, mormorate questi brevi versi tratti dal Salmo della Vita di
Longfellow (traduzione Mme de Pressensé):
Va!, e che ogni giorno ti trovi alla sua aurora,
Più prossimo allo scopo sacro, con la fiaccola nella
mano!
Agisci!, il tempo è breve, corre e divora
Ciò che non è reale, immortale e divino.
Che il tuo piede sulla soglia lasci un’impronta
nobile
E forse, seguendo i tuoi sentieri dopo di te,
Qualche spirito agitato dal dubbio o dal timore
Ritroverà la speranza, il coraggio e la fede.
Lascia al vago avvenire le sue lontane promesse,
Allo sterile passato i suoi sorrisi d’addio,
Allontana i sogni d’oro e le fiacche tristezze,
Il presente dip
“La Cura“ di Franco Battiato è una canzone, una
preghiera-meditazione sulla essenza dell’amore come “cura “ nei confronti di un
altro essere. Un aspetto straordinario di questo brano è che esprime il
concetto di “cura ” in tutte le sue manifestazioni interpersonali, sia
dell’amante verso l’amata, sia del fratello verso un altro fratello, sia del
padre verso il figlio, sia dell’Essere Supremo verso la sua creatura, l’uomo. E’
la descrizione di viaggio di accompagnamento che comprende tutte le
problematiche della vita dell’uomo, incluso il dolore e l’abbandono, senza
dimenticare che ogni persona può essere speciale per un’altra persona, e che i
ruoli possono invertirsi.
Chi canta è un saggio che ha intuito nella “Cura” l’assoluto, la
verità di amare, nel senso più esteso che consiste, in questo caso specifico,
nel prendersi cura di un altro essere, sollevandolo da tutto, stargli accanto,
anche se gli è impossibile evitargli il dolore che inevitabilmente la natura
umana comporta.
Introdurre questa tavola con le parole di questa canzone mi permette
di esporre, in modo concreto, una parte del raffinato significato della parola “Cura”.
L’etimologia di “cura”deriva dal latino cura ed ancora più anticamente da “coera”
e “coira” , che gli antichi etimologisti ricongiunsero a “cor” , cuore e
fantasticando insegnarono “cor-urat” perché scalda, ossia stimola il cuore e lo
consuma; altri fanno derivare questo termine da “cusa” (la r muta in s) e “Ku”
assume il significato di battere, di martellare, di accudire; altri ancora farebbero derivare questa parola
dalla radice “Kau” che significa nelle lingue slave o russe: osservare,
guardare o da “Kavi“che vuol dire assennato, saggio o da “kuti”, conoscere,
guardare, ascoltare.
Comunque possiamo sintetizzare che tale
termine esprime: sollecitudine, grande ed assidua diligenza, vigilanza
premurosa, assistenza, grave e continua inquietudine.
Se esaminiamo le definizioni delle
virtù utilizzate per lodare gli imperatori romani, riportate nelle varie fonti
letterarie, epigrafiche, numismatiche o monumentali, oltre alle quattro virtù
fondamentali cioè virtus, clementia, iustitia e pietas, inscritte per la prima
volta nello scudo aureo conferito a Cesare Augusto il primo imperatore,
ritroviamo tra le oltre cinquanta, anche il termine “cura”. La cura, una
virtù simile alla diligentia, ha significato di zelo e di scrupolo con
cui si opera. Cicerone, infatti, comprende la cura come un aspetto della
diligentia.
Il significato della “cura” varia a secondo dell’ente oggetto
della cura. Può essere utile, secondo me, al fine di una più articolata
esposizione e una migliore comprensione del termine, suddividerla almeno in tre
categorie:
1. La cura
di sé
2. La cura
del mondo che ci circonda o delle cose
3. La cura verso
il nostro prossimo
1. LA CURA VERSO SÉ
La Cura verso di sé, è pro-curare nutrimento alla propria
anima, per farla star bene; è energia di vivere; è impulso esistenziale; è
interesse, amore per il proprio essere; è piacere di esistere.
Il significato profondo della “Cura di sé” si disvela in
maniera articolata in Goethe ed in
Heidegger. “La sostanza dell’uomo è l’esistenza”, dice Heidegger (1889-1976) e
la “cura di sé” fa sì che “gli importi del proprio essere”. La cura è un
fenomeno esistenziale, primario e fondamentale. La cura in tal caso è intesa
come “preoccupazione vitale”. Nella cura si fondono sia il volere che il
desiderare, sia la pulsione che l’attrazione . L’uomo deve prendersi cura di sé
apportando o pro-curando un impulso “a vivere “, ad andare “in – avanti verso…..” ad ogni costo.
Il filosofo tedesco Martin Heidegger
nel suo capolavoro “Essere e tempo” del 1927, per fare comprendere meglio il
significato della cura riporta una favola di un poeta latino, Gaio Giulio Igino
. La Cura in questa favola è il nome di una divinità minore.
La favola inizia con «Cura cum fluvium
transiret…»
Mentre attraversava un fiume, la
“CURA” scorse del fango argilloso, lo prese pensosa e cominciò a modellare un
uomo. Mentre considerava tra sé e sé che cosa avesse fatto, sopraggiunse Giove;
l’Inquietudine (cura) lo pregò di infondere lo spirito nell’uomo, cosa che
ottenne facilmente da Giove. Ma siccome l’Inquietudine pretendeva di darle il
proprio nome, Giove (glielo) proibì e disse che invece bisognava dargli il suo.
Mentre l’Inquietudine e Giove disputavano sul nome, si fece avanti anche la
Terra, e sosteneva che bisognava imporgli il suo nome, dal momento che (essa)
aveva fornito il proprio corpo (per plasmarlo). (Allora) presero come giudice
Saturno; ma Saturno decise diversamente: “Tu, Giove, poiché infondesti lo
spirito, dopo la morte dell’uomo riceverai la (sua) anima; tu, Terra, dato che
fornisti la materia, riprenderai il (suo) corpo; l’Inquietudine, siccome lo ha
modellato per prima, lo possieda per tutta la vita. Ma, dal momento che c’è
disaccordo sul suo nome, sia chiamato homo, perché è fatto di humus (terra).
In questa favola emerge bene il significato della cura,
come qualcosa a cui l’essere umano “per tutta la vita” appartiene; inoltre la
presenza della cura coincide con la nota concezione dell’uomo come “compositum”
di corpo (terra) e di spirito (anima). In questa favola il termine latino di
Cura va inteso come preoccupazione vitale, ansia vitale, inquietudine
esistenziale, che personificata a una dea, accompagna l’uomo tutta la vita. Il termine esprime
anche apprensione, affanno, sollecitudine, premura e devozione
tutte caratteristiche inscindibili dell’animo umano. La cura è la vera
creatrice e accompagnatrice dell’uomo. L’uomo si caratterizza secondo
Heidegger, non solo perché sa parlare, o ha la ragione o tiene il logos ma perché gli importa del proprio essere.
L’uomo, dice Heidegger, non è ebreo o greco, razionale o
irrazionale “uomo è colui che si chiede chi e che cosa e come egli stesso sia”.
“È colui che si pone la “domanda”,
rifiutando ogni “ tesi somma”, ogni “verità assoluta ed eterna”. Ecco il senso stesso della “Cura di sé ”, secondo
il filosofo tedesco, rispettare il senso dell’essere anzi del suo esserci.
Anche Johann Wolfgang Goethe (1749-1832 – Letterato tedesco, che
aderì con entusiasmo alla massoneria e fu iniziato a Lipsia nel 1780 nella
notte di S. Giovanni, nella Loggia “Anna Amalia alle tre rose”), affronta nella seconda parte (atto V) della sua opera più
importante il Faust, il simbolismo della cura. Il Faust di Goethe è uno
scienziato, insoddisfatto dei limiti del sapere umano che, ormai vecchio, viene
tentato dal demonio Mefistofele. Gli vende la propria anima in cambio di
giovinezza, sapienza e potere. Ma alla fine del suo viaggio Faust, sente il
desiderio di essere libero, e sotto il dominio della “Cura” ritorna uomo, accettando
di nuovo la vita reale, con il suo susseguirsi di bene e di male, con la sua
alterna vicenda di tormento e di serenità. Faust accogliendo la Cura e sotto il
suo dominio si sente un uomo nuovo, raddoppia le sue energie e sente un impeto
intenso di vivere. Il nuovo Dott. Faust è più completo, più equilibrato e
maturo, specialmente nei suoi rapporti
con gli altri uomini. Faust si sente accresciuto di luce interiore.
“La notte sembra scendere sempre più fonda
ma brilla entro di me una luce chiara…..
Tutta la vita, il pensiero e l’arte di Goethe fu dominata dalla
sua massima prediletta “ricordati di vivere”.
“Memento mori !
perché dovrei ,
in una vita così breve
tormentarmi ?
Queste righe sono un inno alla vita. Fanno comprendere una
disposizione costante: un amore illimitato alla vita, la meraviglia di fronte
alla vita e all’esistenza, benché esse presentino aspetti dolorosi e
terrificanti.
In contrapposizione al “memento mori” (ricordati che devi morire
dei cristiani, neoplatonici e romantici).
Fu proprio durante il suo viaggio in Italia, il contatto con
l’arte antica, incontrata nelle vie di Roma, di Napoli, di Pompei, che scoprì
il modo di vivere degli uomini dell’antichità, da lui chiamato “la salute del
momento” ovvero la gioia spontanea e immediata di vivere, opposta alla
nostalgia di un aldilà cara ai cristiani.
L’esercizio spirituale, caro a Goethe, era quello di
concentrarsi sull’istante presente, che permette di vivere intensamente ogni
attimo dell’esistenza senza lasciarsi distrarre dal peso del passato o dal
miraggio del futuro (Attimo fuggente, arrestati, sei bello!). Un secondo
esercizio spirituale era quello dello sguardo dall’alto (come immaginarsi di
salire su una montagna), che consiste nel distanziarsi dalle cose e dagli
eventi, sforzandosi di cogliere una prospettiva d’insieme, distaccandosi dal
proprio punto di vista individuale, parziale e particolare. Il pericolo che
minaccia l’uomo, diceva Goethe, è di non potersi innalzare oltre la banalità o
la mediocrità. In tal caso la vita risulta una routine banale, senza ideali,
dominata dall’abitudine e dagli interessi egoistici che ci nascondono lo
splendore dell’esistenza. Goethe incarna la figura di un uomo antico e pagano,
ovvero un uomo felice, che vive nel presente, la cui figura viene opposta
all’inquietudine morbosa dell’uomo moderno che si protende quasi costantemente
verso il futuro.
Anche se la rappresentazione
della vita felice per gli antichi greci, fatta da Goethe, è stata oggetto di
critiche. August Boeckh scriveva” I greci erano più infelici di quanto credano
molti” e Schopenhauer metteva in risalto
il profondo pessimismo greco, scrivendo:
“ La miglior cosa per gli uomini di
questa terra è non essere nati e non vedere la luce del sole, ma se son nati,
allora quanto più presto possibile valicare le porte dell’Ade e giacere
profondamente sepolti”
Anche Orazio già parlava dell’”oscura pena degli uomini” e
Lucrezio denunciava l’inquietudine interiore degli uomini :
“Gli uomini sentono il peso del
loro animo che li tormenta e li opprime …
li vediamo non sapere che cosa
ciascuno desideri,
e sempre cercare di mutare luogo
nell’illusione di trovare sollievo.
Così ognuno fugge se stesso e suo
malgrado vi resta attaccato e lo odia”.
Seneca addirittura analizza le “malattie dell’anima” (La moderna
sindrome depressiva) come l’avversione verso se stessi (condizione
completamente opposta della “Cura” che esprime come abbiamo detto amore verso
se stessi, interesse al proprio essere-ci), il disgusto della vita e
dell’universo.
Il pensiero di Goethe riprende sia la dottrina epicurea sia
quella stoica in quanto entrambe privilegiano il presente a scapito del passato
e soprattutto del futuro e stabiliscono di principio che la felicità deve
trovarsi solo nel presente. La saggezza consiste nel ricercare la tranquillità
dell’anima, cioè in definitiva uno stato di piacere. Secondo gli epicurei, gli
stolti, cioè la maggioranza degli uomini, sono divorati da desideri insaziabili
che hanno come oggetto ricchezza, gloria, potere, piaceri carnali disordinati.
Tutti piaceri che non possono essere soddisfatti nel presente. Gli stolti quindi
non sanno godere del presente, aspettano solo i futuri e poiché questi non possono
essere sicuri sono logorati sempre da angoscia e timore.
Il pensiero epicureo impone quindi una vera e propria trasformazione
radicale dell’atteggiamento umano nei confronti del tempo, una metamorfosi che
deve essere effettuata in ogni istante della vita.
2. LA CURA VERSO IL MONDO E VERSO LE COSE
La cura verso il mondo è un
atteggiamento costante di attenzione alla realtà quotidiana, al paesaggio; è la
volontà di stupirsi, istante dopo istante, di essere-ci; è la capacità di
riuscire a trovare dolcezza nel naufragare nell’inesauribile “arcobaleno di
stelle” della nostra breve esistenza.
La “Cura”,
in questo specifico caso, esprime la forza interiore dell’uomo di riflettere,
di interpretare e di interiorizzare tutto ciò che vede.
Ci
sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che
va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice:
“Salve,
ragazzi, com’è l’acqua oggi ?”
I
due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e dice:
“
Che cavolo è l’acqua?”.
L’aneddoto
tratto da “Questa è l’acqua” di David Foster Wallace
(1962-2008) , scrittore americano, esprime bene quello che io intendo con il
termine “Cura verso il mondo o verso le
cose”, cioè una continua attenzione, dedizione, consapevolezza, curiosità,
rivolta con grande cura a tutto ciò che ci circonda, alla nostra realtà, giorno
dopo giorno. Questa è l’acqua!
Dobbiamo
imparare a conoscerla, a guardarla, a sperimentarla, a interiorizzarla.
a) La cura
verso il sublime.
Il
filosofo Ludwing Wittgenstein (1889-1951) figura emblematica della filosofia
del ‘900, scrisse: “In ogni percezione echeggia un pensiero; sia perché
l’occhio è sempre antico da un punto di vista filogenetico, ossessionato dal
proprio passato e dalle suggestioni vecchie e nuove che gli provengono
dall’orecchio, dal naso, dalla lingua , dalle dita, dal cuore e dal cervello”. L’uomo
ha sempre cercato di costruire se stesso sfidando la grandezza e il predominio
della natura. Da tale confronto (uomo/natura) l’individuo sente dentro di sé
risvegliare la parte più profondadell’anima, innalzandola ad altezze che
diversamente non avrebbe mai raggiunto.
Questo
rapporto aiuta l’uomo a ritrovarsi e a forgiarsi. Questa peculiare emozione
definita “calma inquieta”, caratterizzata da un piacere misto al terrore, si
prova quando si contemplano spettacoli “sublimi”, in cui la natura mostra la
sua smisurata grandezza e la sua forza distruttrice e l’uomo sente la sua
debolezza fisica, la sua vulnerabilità, ma anche la sua superiorità dovuta alla
presenza del pensiero. La forte emozione permette al soggetto didilatare la sua
anima e di entrare in armonia con il cosmo, con l’eterno, intuendo il senso
dell’infinito e della trascendenza.
Spettacoli
sublimi sono per esempi: il cielo stellato, il vento che agita le onde del mare
.…. gli oceani, le montagne, le foreste, i vulcani, i deserti. Il sublime si distingue dal bello; sublime è
una bellezza maestosa ma inquietante che ti attrae ma contemporaneamente ti
allontana: “La notte è sublime, il giorno è bello”.
Sublimi
sono quelle situazioni in cui viene meno qualcosa, esprimono l’assenza. Sublima
è l’oscurità (assenza di luce), il silenzio (privazione di suono), il vuoto
(privazione di oggetti); solitudine (privazione di socialità), l’infinito (in
quanto privazione di limiti) e soprattutto l’oggetto più sublime che esista
quello della morte (in quanto privazione della vita). L’individuo comunque esce
temprato da questa prova con il sublime, è un tirocinio che ha come scopo
quello di controllare le proprie angosce e rendere familiare, per quanto
possibile, una realtà piena di pericoli. Quest’aspetto può essere correlato con
il percorso del libero muratore che esegue una sorta di “tirocinio simbolico”
utile ad affrontare le difficoltà insite nella vita, compresa quella della malattia
e della morte.
Shelling
diceva che:
“
La grandezza dell’uomo si manifesta anche nella calma accettazione della morte
e nei rovesciamenti di fortuna, nella virile sopportazione del dolore e dell’infelicità”.
Per
percepire e ricercare il sentimento del sublime occorre una appropriata
educazione, una “Cura nei confronti del reale” che ci innalza al di sopra della
condizione di mediocre banalità. Se manca si è ciechi e sordi di fronte al
sublime. Il fattore estetico è indispensabile a forgiare il “sé” più nobile
dell’individuo. In Massoneria, l’adepto
percepisce costantemente ed impara a curare il senso del sublime. Il sentimento del sublime, che ha avuto il suo
apice nell’Europa del ‘700-‘800 (Romanticismo), ha inciso infatti in modo
significativo sugli ideali massonici.
b) La cura
verso le cose
Rivolgere
la nostra cura verso il mondo che ci circonda vuol dire non solo verso la
natura, come abbiamo descritto sopra, ma anche verso le “cose”.
Le
cose sono tutto ciò che interessa a noi, che ci sta a cuore. Le “cose” non sono
soltanto cose ma recano tracce umane, recano i segni del tempo.
Esse sono
il nostro prolungamento. Dobbiamo cercare di comprendere la vita delle cose, il
dorso delle cose, cioè intravedere quello che c’è al di là delle cose, dovremmo
fare come i pittori che hanno uno sguardo affinato, riescono a vedere
l’invisibile nel visibile. Le cose stesse sembrano parlare “res ipsa loquitur”
e guardarci. Le cose inoltre nascondono precisi valori simbolici ed i simboli
per la loro natura congiungono il visibile rappresentato all’invisibile
assente.
– Il fascino delle rovine per esempio è forte, la
loro incompletezza offre spunti di riflessione sul passare del tempo, sulla
caducità, sulla natura effimera della vita umana. Gustave Flaubert, dopo una
visita alle Terme di Caracalla, nel 1846 scriveva a un amico:
”…ho
visto alcuni ruderi…pensai di nuovo ad essi ed ai morti che non avevo mai
conosciuto….amo soprattutto la vista della vegetazione che copre le vecchie
rovine, questo abbraccio della natura, che viene a seppellire rapidamente le
opere dell’uomo nel momento in cui la sua mano non riesce più a difenderle, mi
colma di una gioia ampia e profonda”.
– L’analisi dei dipinti, altro esempio, specialmente
delle nature morte, basti pensare a quelle del Caravaggio, di Matisse, di
Picasso, di De Chirico e di Morandi ci
inducono, se non siamo distratti e superficiali, come dicono i critici d’arte, “
a prestar orecchio alla loro voce ”.
L’aspetto
simbolico prende il sopravvento su quello materiale. La capacità di porre
attenzione anche alle cose che ci circondano, di avere cura di esse, significa:
“ordinare e dare senso e bellezza al mondo–
Diakosmesis- , in tal modo diamo senso e bellezza anche a noi stessi.
Credo
che anche questo atteggiamento dell’animo umano espresso sotto forma di “cura
verso le cose”, faccia parte integrante dell’insegnamento massonico,
specialmente riferendosi alla sua formazione simbolica e trascendentale.
3. LA CURA
VERSO GLI ALTRI
La
prima domanda da fare è capire chi è il nostro prossimo? La risposta viene dalla lettura della parabola
del buon Samaritano, che è una lezione sull’”universalità” dell’amore per il
prossimo. “ Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova……Aveva
chiesto a Gesù chi è il mio prossimo? “e Gesù disse: “Un uomo scendeva da
Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e
poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso un sacerdote… lo vide e passò
dall’altra parte, anche un levita… lo vide e passò oltre. Invece un
Samaritano passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione… e si “prese cura”
di lui. Poi Gesù disse: chi di questi tre ti sembra sia il prossimo di colui
che è incappato nei briganti?
Quegli
rispose: “chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va e anche tu fa lo stesso”.
Quindi
l’amore per il prossimo ha i suoi confini, non è come crediamo genericamente l’altro,
chiunque sia ma è “colui che mi è più vicino”. In greco “plesion” è colui che
mi è vicino. Il “Sacerdote” e il “Levita” (a) , ambedue uomini di culto
dedicati alla devozione, anche se erano a lui prossimi, sono passati ma solo il
Samaritano si è chinato verso il sofferente e lo ha soccorso facendosi prossimo
a lui. Mi preme sottolineare che quindi “prossimo si diventa”; un soggetto diventa prossimo all’altro
solamente quando si “fa prossimo egli stesso”. Il mio prossimo è colui che mi soccorre nel
bisogno, è colui che ha avuto compassione di me. In tal modo riusciamo anche a
capire chi, nonostante sia prossimo/vicino a noi, non si comporta o non si è
comportato come mio prossimo.
Noi possiamo
cambiare anche la domanda “chi è mio fratello?”.
Mio
fratello o mia sorellaè colui/lei che potenzialmente potrebbe diventare “mio prossimo”, anche se il “prossimo non si
sceglie”, potrà essere chiunque, anche
il mio peggior nemico, ed io stesso posso essere il peggiore degli uomini, per
il mio prossimo. Se estendiamo il concetto diventano fratelli/sorelle tutti
quelli /e che hanno bisogno del nostro aiuto, delle nostre cure, così “prossimo”
e “fratello/sorella” possiamo considerarli sinonimi.
La
Libera Muratoria essendo un Ordine Iniziatico, è una cerchia limitata di
soggetti “scelti” e quindi tutti vincolati a “curare” nel bisogno, a
farsi prossimi in modo particolare ai propri Fratelli.
Farsi
prossimi all’altro, curare l’altro introduce concetti come l’altruismo e la
carità.
La
carità (b) è dare quello che non si ha, una generosità lontana dall’altruismo,
che invece è addomesticamento dell’altro, è una variante dell’egoismo.
La “caritas”
è quell’impulso interiore, quella “verità interiore” , quella “cura ad agire
nei confronti degli altri, in modo giusto e vero (Caritas in Veritate). I due
termini – cura e carità – coincidono.
La
prima è un’espressione prevalentemente laica, la carità invece è legata all’insegnamento
cristiano – la carità è tutto “ Dio è carità – Deus Caritas est”.
Agostino
indica l’esistenza dentro l’anima umana di un “senso interno” “la nostra
coscienza” – assolutamente vero e certo –
che ci è stato dato e che ci permette di sceglier tra il bene e il male al di
fuori delle normali funzioni della ragione, è un atto intuitivo, istintivo. Il nome che Agostino dà a questa “verità
interiore “ è “Dio”.
La
giustizia è “inseparabile dalla carità”. “Curare” o fare “carità” all’altro, significa dare all’altro quello che gli spetta
in ragione del suo essere e del suo operare, in rapporto a ciò che gli compete
secondo giustizia.
Pertanto
l’individuo deve essere “giusto” nella cura verso gli altri.
La
“Cura” / “Caritas” è alla base non solo
delle micro-relazioni (rapporti
familiari, amicali, di gruppo) ma anche delle macrorelazioni (rapporti sociali,
economici, politici). “Curare” gli altri,
implica quindi anche prendere in considerazione, oltre al bene individuale, il
bene comune (di noi tutti e della comunità sociale, della polis, dei grandi
problemi etici e perfino una posizione politica) al fine di favorire lo
sviluppo umano nella sua integrità.
La
“Cura” verso gli altri, inoltre, sintetizza i tre grandi principi della
massoneria.
1. L’amore fraterno inteso come
tolleranza, rispetto, comprensione nei confronti degli altri.
2. Caritàche deve essere
praticata, non solo per loro, ma anche per la comunità nel suo insieme, sia
come solidarietà che come beneficienza economica collettiva sia come lavoro
volontario dei singoli individui.
3. Verità: i Liberi Muratori cercano la verità in tutte
le manifestazione della vita.
CONSIDERAZIONI
Le
tavole massoniche non dovrebbero mai finire con le “conclusioni” nel vero senso
della parola, perché non raggiungono nessuna certezza, nessuna verità assoluta.
Senza
conclusione sono anche le opere dei grandi letterati russi (Fedor Michajlovic Dostoeisky, Vladimir Nabokof, Anton Cechov),
perché questi autori avevano la presunzione di lasciare al lettore di
aggiungere da sé ciò che mancava nel racconto.
La
finalità di un lavoro in massoneria è di permettere, a colui che lo compila, di
sentire il piacere, non solo dello scrivere, ma di una arricchimento interiore.
Esso deve stimolare alla riflessione e aprire eventualmente nuovi fronti nella ricerca
esoterica o addirittura, se nessuno si prenderà “cura”, non importa, decadrà
nell’oblio.
Nella
tavola è stato analizzato il senso della “cura” nel suo significato latino e
partendo dalla sua etimologia è stato dipanato il suo significato in rapporto all’oggetto
della cura: l’Essere stesso (la cura verso sé); il mondo che ci circonda, con
il suo contenuto simbolico fatto di paesaggi e di cose (la cura verso il mondo);
gli altri (la cura verso gli altri), estesa non solo alle persone ma anche al
bene comune, alla società ed all’umanità intera, espressione della speranza
massonica più utopistica.
Questo
tema sembra essere attuale in rapporto al particolare momento storico e
culturale, in cui si cerca di formare un uomo sempre più tecnologico, meno
riflessivo, meno umano e incapace ad amare o curare.
L’uomo
di oggi sembra aver perso la capacità a pensare e a meditare,da solo, in
rispettoso silenzio.
Questa
tavola vuole essere un’esortazione a tenere sempre vivo questo particolare atteggiamento
virtuoso dell’animo umano cioè quello della “cura”.
Questa
riflessione, penso sia utile anche a noi Iniziati, per non correre il rischio
di comportarsi come il Sacerdote e il Levita, che erano ambedue
uomini di culto, ambedue professionisti della devozione, che pur passando
vicini/prossimi……all’uomo o che scendeva da Gerico a Gerusalemme….…lo
ignorarono e passarono oltre. Erano il “suo prossimo” ma se ne allontanarono
alla svelta.
LETTURE
M. Heidegger . Essere e Tempo. Mondadori 2008
P. Hadot. Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione
degli esercizi
spirituali. R. Cortina Editore 2009
J.W. Goethe. Faust. Feltrinelli, 2008
R. Bodei. Paesaggi Sublimi. Ed. Bompiani 2008
C.Woodward . Tra le rovine. Ugo Guanda Editore- Parma 2008
R. Bodei. La vita delle cose. Ed. Laterza 2009
C. Spinelli. L’intuizione nella Libera Muratoria. Gradus, 55;
2006
C. Spinelli. Considerazioni sulla felicità.Gradus, 64;
2008
Benedetto XVI. Caritas in Veritate. Ed. Vaticana, 2009
A.Sofri. Chi è il mio prossimo. Sellerio Editore- Palermo
2007
Nota (a): il termine Levita deriva dai membri della tribù israelitica di Levi. Ad essi era affidato il compito di sorvegliare il tabernacolo e il Tempio. Leviti avevano il compito di cantare, di suonare e di assistere. I Leviti sono descritti come i guardiani di Dio. Nel deserto non avevano adorato il vitello d’oro, ma avevano appoggiato Mosè, membro della tribù di Levi.
Nota b:La parola carità deriva dal latino “carus” che vuol dire caro, amato, scelta per tradurre in latino la parola greca “agàpê” , uno dei quattro termini usati in greco per esprimere l’esperienza dell’amore: –storghè: l’amore fondato sulla consanguineità o sui vincoli di solidarietà naturale (familiari, amici, compatrioti); eros: l’amore come desiderio veemente, spesso legato alla sfera sessuale; philìa: l’amore come amicizia, libero e gratuito; esso ha però un limite preciso perché è determinato dal valore del soggetto amato; agàpê: rapporto d’amore che non è tra eguali; esso è da un lato amore disinteressato (indipendente dal valore della persona), e dall’altro, sentimento di riconoscenza.
Quando sottoponiamo ad analisi le
antiche usanze massoniche, una premessa appare subito necessaria: non siamo
mossi dall’ ansia di adeguarci al comune sentire dei contemporanei (o allo
“spirito del secolo” come si diceva qualche anno fa). Chi sono i
contemporanei? Coloro che condividono il nostro tempo. Ma quale tempo? In
ambito iniziatico si deve distinguere fra tempo sacro e tempo profano, e
naturalmente soltanto il primo ha rilievo quando si studiano le tradizioni o le
semplici usanze della Libera Muratoria.
Tempo sacro — sarà utile dirlo — non significa unicamente tempo di liturgie o
di ricorrenze religiose: così come immagina la gente comune, al di fuori del
“fanum” degli iniziati. Il tempo sacro è quello che — anziché
consumare. logorare, o addirittura divorare alla maniera di Cronos — offre agli
adepti sostanza vivificante. E tempo che tentiamo di creare nell’azione rituale
massonica, quando una perfetta coralità di
intenzioni e di capacità
unisce i fratelli e li porta in una dimensione “ulteriore”.
Ma la distinzione sacro-profano, e
più esattamente iniziatico-profano, riguarda anche la Massoneria: iniziatici
sono i suoi riti. i suoi fini, la sua origine; profana è l’organizzazione,
l’amministrazione; profano è il meccanismo statutario (pur con riverberi
iniziatici). La profanità s’è del resto insinuata anche in talune parti del
rituale che perciò non si può considerare interamente “sacro”. Basti
pensare al rituale d’agape, con le sue polveri da sparo e le sue cannonate,
tanto intrinseche agli accampamenti militari e alle logge di reggimento. (Non
c’è dubbio che un buon oratore di Loggia saprebbe dimostrare la sacralità del
cannone. ma occorre un limite anche per l’arte retorica).
Questa lunga premessa è ancora più
necessaria quando si affronta lo spinoso problema del segreto. E qui, a
complicar le cose. il segreto massonico si biforca in segreto settario e segreto
settario, e quest’ultimo si ramifica rigogliosamente.
Il segreto iniziatico. Con questa dicitura s’intende quella
illuminazione che il libero muratore riesce a raggiungere (se ci riesce) con
lentezza e fatica, con l’aiuto dei simboli e dei riti, con il sostegno dei
fratelli, con l’ intuizione e la crescita spirituale. II segreto iniziatico
appattiene dunque a un ordine di conoscenze acquisibili su un piano che
trascende il pensiero logico e la parola. Per sua stessa natura, non potrà mai
essere rivelato con parole: è come si ama ripetere ineffabile, indicibile. Non
potrà mai essere comunicato nemmeno con segni, disegni, espressioni artistiche,
atti o gesti. Tecnicamente perciò non dovremmo considerarlo un segreto, perché
il segreto copre qualcosa di conosciuto ma che si mantiene celato, pur essendo
comunicabile. Del resto la storia della Massoneria non parla di segreto
iniziatico ma soltanto di segreti settari, che riguardano segni di
riconoscimento, tecniche di mestiere e simili concretezze. Per la teorizzazione
del segreto iniziatico bisogna aspettare il guru francese René Guénon, il quale
tuttavia avverte: “L’ iniziazione non trasmette il segreto stesso che è incomunicabile,
ma l’influenza spirituale che ha i riti e i simboli per veicolo e che rende
possibile il lavoro interiore mediante il quale ognuno raggiungerà questo
segreto più o meno completamente, più o meno profondamente’
Una cosa non è vera perché la dice René
Guénon; l’ipse dixit non funziona nella Massoneria che si vanta di non porre
limiti alla ricerca della verità. Tuttavia la formula guenoniana era suggestiva
e — come vedremo — rispondeva a un bisogno di camuffamento che lo scrittore
francese non poteva prevedere. Ma intanto notiamo due cose. Prima: ridurre al
concetto di segreto le vette
dell’esperienza iniziatica ci sembra un’operazione intellettuale un po’ rozza
(malgrado il generico aggettivo “iniziatico” incollato al segreto).
Meglio sarebbe stato non definire affatto quelle vette. o cercare
un vocabolo più adeguato benché sempre
imperfetto (tenuto conto della ineffabilità). Meglio lasciare che ognuno
immagini il fine dell ‘ iniziazione secondo il suo background culturale e le
sue aspirazioni: chi pensa al raggiungimento del Sé, chi alla conoscenza
assoluta, chi ai poteri psichici, chi alla mitica Loggia Bianca che
governerebbe il mondo… Seconda nota: la teoria guenoniana nega che
l’iniziazione massonica conferisca il segreto iniziatico. Sul filo del
paradosso. ci si chiede perché definire “Iniziatico” qualcosa che non
vien dato dalla iniziazione.
Ma qui corriamo il rischio di attardarci nel divertimento
accademico. Se del segreto iniziatico non si può dire niente — perché di natura
indicibile è inutile perder tempo a parlarne. Sul piano della concretezza, si
può tuttavia aggiungere che la teoria del segreto iniziatico ha fatto comodo a
molti massoni che non riuscivano a negare resistenza di vaste sacche di segreto
settario nella nostra Istituzione (a qualunque “palazzo”
riferentesi). Quando l’ analisi del segreto settario si fa più stringente. il
massone ha un moto di fastidio, assume un’aria di sufficienza e dice: “Non
puoi capire; si tratta di segreto iniziatico…
Il segreto
settario. Riguarda la composizione e il funzionamento di una associazione,
di una setta (politica, religiosa, mercantile eccetera). Come s’è accennato,
tale tipo di segreto avvolge cose concrete, conosciute (o conoscibili in
futuro) dai membri della setta; cose facilmente dicibile comunicabili a parole
o con altri mezzi umani.
Non vorrei qui ripetere quanto ho scritto nel libro Iniziazione e segreto massonico Problemi e prospettive per il
terzo millennio, distribuito a gennaio dalla casa editrice Bastogi. A
scanso di fraintendimenti, debbo però ribadire la mia convinzione: la
Massoneria è un’associazione del tutto palese, che però si trascina dietro il
fardello di una struttura segreta. Questa è la sua contraddizione, questo il
suo dramma culturale. I massoni non possiedono segreti rilevanti dal punto di
vista morale, giuridico. sociale, politico, economico; tuttavia giurano
centinaia di volte di non rivelare i loro inesistenti segreti. Se inizialmente
questa pratica aveva un valore pedagogico, ormai ha finito per diventare una
follia intossicante.
Si è tentati di dire: s’è sempre fatto così, è la tradizione.
Magari con una bella T maiuscola che stende una patina di antiquariato e di
sacralità sulle cattive abitudini… In realtà non sempre si è fatto così. Il
segreto dei franchi muratori nascondeva le tecniche di lavoro costruttivo, e
non già le persone. I muratori che liberamente percorrevano l’ Europa ci
tenevano che si conoscesse il loro stato di franchi, cioè di liberi. Era questa
qualifica personale che permetteva loro di sottrarsi (affrancarsi) all’obbligo
di residenza territoriale, a disposizione del signore feudale. Costui aveva
tutto il diritto di tassare i suoi sudditi e di sottoporli a corvée (cioè a
lavoro non retribuito).
Anche i luoghi di riunione lasciano immaginare una piena
visibilità dei franchi muratori. La loggia eretta nel cantiere era sotto gli
sguardi di tutti; non era una cripta d’incontri furtivi. E anche nelle mutate condizioni dell’epoca moderna, agli
inizia del Settecento. le cronache massoniche londinesi ci parlano di abituali
incontri nelle taverne. che non sono il posto migliore per nascondersi.
Ricordate la Taverna dell’oca e del girarrosto?
Ma quali
sono i documenti nei quali possiamo rintracciare elementi certi di segreto
settario? I lettori di Nuova Delta sicuramente già li conoscono; sono gli
Antichi Doveri, i Landmarks. gli Statuti di Napoli (travasati nelle norme della
Gran Loggia d’Italia) e i Rituali. Per comodità di consultazione, e per non
incorrere nel “delitto” di violazione del segreto, è più agevole far
ricorso a Le charte fondamentali della
universale Massoneria di Umberto Gorel Porciatti, ed ai Rituali dei lavori dell’Ordine degli
antichi, liberi, accettati muratori nonché ai Rituali dei lavori del Rito scozzese, entrambi di
Salvatore Farina. Tre libri che in cinquant’anni hanno avuto numerose edizioni
diventando i best seller dell’esoterismo. Anche per gli Statuti esiste una
bella edizione critica di facile reperimento in libreria. Naturalmente ci sono
alcune diversità rispetto ai volumetti distribuiti attualmente nelle logge, ma
non tali da impedire un ragionamento di carattere generale.
Vediamo adesso a volo d’uccello quel che scrivono i
sacri testi. Gli Antichi Doveri: “Sarete circospetti nc
el vostro dire in modo che il profano più accorto non
possa capire… Non dovete far riconoscere alle vostre famiglie e ai vostri
vicini quanto concerne la loggia.. Landmarks di Mackey; “La
Massoneria è una società segreta che possiede segreti…”. E i I.andmarks
secondo Findel: “Il massone deve essere segreto con i profani e serbare il
segreto sulle cerimonie massoniche, specialmente in ciò che riguarda le parole
e i segni di riconoscimento”. Ecco ora gli Statuti di Napoli: libero muratore, considerando profani tutti coloro che
non riconosce come fratelli, deve guardarsi dal rivelar loro, o di far
comprendere, il minimo dei lavori, dei disegni o dei segreti dell’Istituto…
Le finestre non si apriranno giammai, se offrano accesso a sguardi profani. Il
segreto è la prima caratteristica dell’Ordine”. ln tutti questi testi si
parla sempre di segreti comunicabili (ma che è proibito
comunicare). Nessun accenno a segreti trascendenti, al mitico segreto
iniziatico (ineffabile) che troppo spesso fa da comodo schermo al segreto
settario. Lasciamo infine alla solerte ricerca dei lettori la scoperta del
segreto settario nei giuramenti d’iniziazione dell’Ordine e del Rito, e nel
giuramento al termine dei lavori.
I giuramenti sul segreto sono
ripetuti tante volte fino a determinare una specie di assuefazione. Il libero
muratore non si rende più conto della gravità di tale atto solenne; e se
qualcuno tenta di parlargli del segreto settario, ha uno scatto di irritazione
e di intolleranza; non vuol sentire ragioni; suppone candidamente che la
critica al segreto nasconda soltanto una colpevole accondiscendenza ai desideri
dei profani.
Ora. non c’è dubbio che il segreto sia
un’arma in mano ai nemici della Massoneria. Cosa tutt’altro che irrilevante ma
che non rientra in questo studio. Qui ci interessa accennare agli effetti che
il segreto produce all’interno della Massoneria, ai riverberi sul tempo sacro
dei liberi Muratori.
E innanzitutto dobbiamo chiederci come mai, fra noi,
persiste la cultura del segreto settario. Ebbene, tutto nasce da un colossale
equivoco culturale, dalla confusione del segreto con il silenzio. Il silenzio è
necessario per proteggere l’iniziato, per non esporlo al logorio di spiegare ad
altri (profani o fratelli meno esperti) cose che egli stesso non sa ancora, ma
va sperimentando.
L’iniziato è soprattutto un “cercatore”. dl
quale non si può chiedere di continuo che cosa ha trovato. Abbiamo detto in
altre occasioni che “il silenzio nutre c protegge, il segreto logora e
consuma”. Il silenzio è una virtù che si impara progredendo nella via
iniziatica, il segreto è una imposizione che non sempre funziona (anzi, spesso
dà frutti avvelenati).
Non si deve credere che l’abolizione del giuramento sul
segreto sia qualcosa di utopico. Abbiamo sott’occhio un rituale francese stampato
nel 1978 d La chaine d’union. Alla
chiusura dei lavori leggiamo: “Les travaux sont fermés; retirons-nous en
paix, en observant la lois du silence”.. Aver superato l’ambiguo concetto
del segreto, a vantaggio del solare silenzio, è già un grandissimo progresso,
proprio in campo esoterico. E bisogna darne atto ai fratelli francesi. Tuttavia
essi non sono riusciti a dimenticare del tutto l’ aspetto coercitivo di questo
brano di chiusura. Sarebbe stato più limpido dire “virtù del
silenzio” anziché “legge”. Infatti la legge ricorda ancora l’obbligo imposto da fuori,
come se il massone fosse un irresponsabile. Il richiamo alla virtù del
silenzio, invece, punta su qualcosa di squisitamente interiore, a una conquista
del massone libero e cosciente.
La mentalità del
segreto, così assiduamente coltivata. si espande in cerchi concentrici. si insinua anche
dove gli usi massonici non la richiedono (e la escluderebbero).
L’abitudine al segreto crea compartimenti stagni,
blocca la circolazione dei fratelli delle logge. erige ostacoli allo scambio
delle idee nella Comunità, favorisce squallide ansie di potere. Ciascun lettore
sappia individuare gli esempi di tale situazione, riesaminando con la memoria
le proprie esperienze.
Le dimensioni di ‘un articolo non consentono di fare un
trattato con tutta la casistica del segreto. C’è solo da aggiungere che
l’uscire dalla cultura del segreto (se mai avremo il coraggio di uscirne) sarà
una vicenda dura e traumatica, specialmente in questo periodo storico
fortemente ostile alla Massoneria. Bisognerà pensare a forme graduali. anche
volontarie, per singoli massoni c singole logge, per abbandonare la semiclandestinità
che aleggia attorno alle Comunità massoniche le quali — lo ripetiamo con forza sono palesi (ma non lo sanno veramente).
Mille volte
i liberi muratori sono stati assediati da una domanda, e ancora verranno
assediati in futuro: “La Massoneria è una società segreta?”. Al
termine di questa veloce escursione nel paese del segreto, risulta ancora
difficile una risposta chiara e precisa. Non per nulla il simbolo più noto (e
più battuto dalle tavole degli apprendisti) è proprio il pavimento bianco e
nero. che introduce alla nostra teoria della ‘verità prismatica” piena di
diverse e luccicanti sfaccettature, tutte diverse.
Forse possiamo rispondere che oggi
la Massoneria è segretamente palese. Sì, Massoneria somiglia a un ossimoro,
quel procedimento retorico che unisce due termini inconciliabili; e che dunque
agisce come un corto circuito intellettuale, scatenando la scintilla dell e
intuizione. Dalla “concordia discors” di Orazio, alla Chiesa
definita “casta meretrix” da Origene, fino alla “docta
ignorantia” di Nicola Cusano, l’ossimoro ha stimolato il pensiero eu-
ropco. Oggi è un po’ in declino e
indugia sulle forme prorompenti di attrici nordiche, titolandole “ghiaccio
bollente”.
Collodi, Gran Galà per Pinocchi Omaggio ai 140 anni dd burattin
Domani il
clou delle celebrazioni:talk show e concerto. Mostra con catalogo doc firmato
“Nano” Campe
il programma si
aprirà con i salu-
co e bresidentedel
Vittoriale de-
per il Galà per Pinocchio condot-
ti delprosidente del
consiglio ve-
gli Italiani,
Giordano Bruni Guer-
to da Corrado Oddi, attore di ci-
gionale @elia Toscana
Antonio
ri e LorenzO
Franchini dell’Uni-
nema, che vanta importanti ruo-
zetta dei Mosaici
di Venturino nale delle Opere di Carlo Loren- Magiche atmosfere alla sera,
Venturi del Parco di Pinocchio, Marcheschi, lo stori- nel Giardino Storico
Garzoni
Mazzeo e delle” altre autorità. Se- versità Europea di Roma. Quindili: tra gli altri ha
interpretato il
guirà una conversazione
con-
la presentazione della
mostra e
magistrato Giovanni Falcone
dotta
dalla direttrice di Qn La
del catalogo Pinocchio sono io!
nel docufilm Rai, ma è stato an-
Nazione, il Resto del
Carlino e Il
di Silvano “Nano” Campeggi e
che al fianco di- Lino Banfi ne
Giorno, Agnese Pini, con
il presi-
la proiezione del trailer girato a
L’allenatore nel pallone 2 e inter-
dente della Fondazione Collodi, Collodi TO the Point — Pinocchio prete di fiction come
CarabiniePier’ Francesco Bernacchi, la del regista Rossano B. Maniscàl- ri 6,
Butta la lune2, I Cesaroni 5, presidente dell’Edizione Nazio-
chi. Che Dio ci aiuti, Squadra antima- fia 6, Il paradiso delle signo
Momento forte della sera concerto del tenore pop Giu pe Gambi, nuovo -talento
musica lirica italiana e già ( te d’onore di diversi progra Rai e Mediaset, che
affascil il pubblico con il concerto d tolo Un viaggio nelle mell più belle
spaziando dalle pii lebri arie liriche ai classici ( canzone napoletana fino
canzone contemporanea concludere con un omagg Morricone con la pianista e violino. Dumnte l’intervallo del con to
avverrà la consegna dei mi 1400 di Pinocchio. Le cele zioni sono
organizzate dalla dazione Nazionale Carlo Co con il sostegno della-FondË ne
Cassa di Risparmiodi Pis e Pescia, di Sviluppo Turis Collodi. Villa e
GiardinoGar
srl, Parco di, Pinocchio, Col Butterfly House e la
collab zione dei Lions Pescia.
Ingresso gratuito su prenotE ne (0572/429642. Info:
fo, zione@pinocchio.it
Se per tutti gli uomini ogni
determinazione esistenziale costituisce un dramma di comprensione e di
autentica motivazione positiva, quanto più imperscrutabile deve risultare il
tentativo di percorrere i momenti del cammino iniziatico di un artista; il
dissidio sempre sensibilmente acuto tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte
in chi è stato scelto e si è scelto per la ricerca della Vera Luce costituisce
il più problematico dei sottintesi: e quando l’eco di qualche passo iniziatico
sembra offrirsi all’ assetata volontà di intuizione, solo la poesia raccoglie
il grande segreto della parola perduta, si fa vita che affiora insieme all’
infinito caos delle percezioni, che gioca l’ apocalittico mistero dei simboli c
delle imrnagini.
Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il poeta
trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono incasellati
nella . scienza]del dolore…” che mette “verità e lame’ . un
conto/di numeri bassi che tornava esatto,/concentrico, un bilancio di vita
futura”.
di Gianni Rabbia
L’ artista della parola è ferito,
persino per una sorta di suprema vendetta olimpica contro un Prometeo. dal
destino del nomen-otnen plautino.
Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del
protagonista di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di
Victor Hugo pubblicato nel 1831.
In Hugo l’ affronto della bruttezza repellente fa
scatenare l’ odio contro l’uanità “normale” mentre il deforme è fatto
per disperatamente ed intensamente.
Non dissimile, pur nella banalità di
questo accostamento, la concezione essenziale: la vita è una continua
purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli proviene da una sorta di
ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da quello della Milano del
1943 sicuramente non si esce indenni, anche se superstiti. Ma prima ancora.
negli anni della scuola all’Istituto Tecnico “Jaci” di Messina, la
vita è un impetuoso correre verso un futuro, magari anche manieristico, di
impaziente apprentissage letterario. Così ricorda Salvatore Pugliatti il
sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si parlava di letteratura, di
poesia, di politica.
Leggevamo
Dante, Platone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da
Rotterdarn, gli scrittori russi (specialmente Dostojcvskij; ma ci incantava anche
Andrejev… c Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”). Leggevamo
Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero i nostri
numi. Intorno quegli anni —
dal 1917 al
1920 c dopo —a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano
e scrivevano di codesti poeti, dei “simbolisti” si diceva
genericamente e impropriamente… Serpeggiava tra codesti
“simbolisti” messinei una vena di misticismo e di esoterismo. che
riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e lontano, caratteri del
simbolismo russo”.
Quindi “misticismo ed
esoterismo”: sono le vie iniziatiche su cui costruiranno la loro opera
Giorgio La Pira e Salvatore Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia
degli anni post-bellici e prefascisti al soffocamento del provincialismi è
possibile opporre la tensione di un giovanile slancio intellettuale, slancio
poi di tutta una esistenza. Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni
eccentriche: progetto di poesia la vicenda quasimodiana. un progetto di santità
la vicenda lapiriana. Il Poeta e il Santo: due vite parallele nella più piena
accezione plutarchiana. Quasimodo il “greco”, l’intellettuale
mediterraneo che trasfigura la propria sicilianità a contatto con i miti e con
r humus della civiltà classica; La Pira il “romano”, che recupera
tradizione e magistero della chiesa cattolica attraverso la lezione del tomismo
e del misticismo medievale».
Quasimodo giura sulla sua
coscienza di uomo nato libero e di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il
grembiale nella officina Arnaldo da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano
era stato libero muratore.
Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo, i Vittorini
(Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una collocazione
professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata con le vie
ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo verso nuove
mete sociali, economiche. culturali. Mentre il “progresso” batte alle
porte di una regione disastrata dagli uomini e spesso anche dalla natura,
l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel panorama variegato del
decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 — sebbene per pochi anni —
aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura latina ed anche dalle cose di
Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale misticismo oggettivistico e non è
certo difficile trovare nel Pascoli, anche lui Figlio della Vedova, intensi
segni di affratellante e sofferto evangelisrno sociale se alcuni passi sono
connotabili sotto la dimensione delle iniziazioni politiche, pur con ovvie
differenze tra un giovanissimo La Pira
quasi
filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio
socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro
stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con
grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.
Per Quasimodo massone, anche nella
difficile lezione del suo pensiero di “ermetico”, il concetto di
popolo si modifica nel simbolismo talvolta esasperato, alla ricerca di un
legame di solidarietà critica con il mondo per mezzo della “intelligenza
laica”. ln La Pira la solidarietà si farà celebre con il suo farsi
apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con alle spalle i classici
greci e latini oppure i classici della teocrazia medioevale. Ma Quasimodo,
segnato nei sotterranei della coscienza massonica con minore traccia di umori
religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un dcsiderio infinito d’eterna
presenza”, sceglie nel 1930 con Acque e terre e nel 1932 con Oboe sommerso
la durezza di una diversa valenza spirituale: la parola. Quella che in Oboe
sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe mi scarno”. La parola
è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che divenga cubica.
Scrive Quasimodo il 19 marzo 1923 a
La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro, bestiale ed inutile, confortato
soltanto dal tormento dell’anima. Da te aspetto soltanto un po’ di speranza e
la parola dello spirito. Salute e fraternità”. E La Pira a Quasimodo l ‘8
dicembre . la potenza della parola. Essa ti
serva, soprattutto. per imprigionare l’infinito nei tuoi versi. Sii ladro delle
gemme che splendono nella vita eterna; sia che tu le rubi alla natura o al
mondo morale. questo furto non dispiacerà la giustizia di Dio. Il verso, io
credo. quando è perfetto…. è un brano, ma compiuto. dell’eternità… È per
questo che la poesia — l’arte in genere — non perisce; ma sta, malgrado le
vicende umane… Penso che tu potresti col tuo verso felice che ti permette di aprire le mistiche cose
dell’anima racchiudere brani notevoli di mistero…
E Quasimodo
risponde: Si china il giorno Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno, serrato ad ogni
luce.
Di te privo spauro, perduta strada
d’amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.
T’ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai
cieli:
che tristezza il mio cuore di
carne!
E ancora:
Spazio
Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io
evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’ angeli
morti sonde.
Mi rompe. Ed è amore alla terra
ch’è buona se pure vi rombano abissi di acque, di stelle, di luce; se pure
aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.
Per poi gridare: “il Tuo dono
tremendo/di parole, Signore/sconto assiduamente».
Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir
Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella
essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la
chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non
essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione
consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la
tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia
dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il
termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione
dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia
equalitaria
‘pietra” = parola» =
“seme”. La pietra:
Naufrago: e in ogni sillaba
m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e
albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me
stesso brucato dal patire che m’ asserena, profondità d’ amore.
Il seme:
Alberi d’ombre, isole naufragano in
vasti acquari, inferma notte. sulla terra che nasce:
un suono d’ali di nuvola che
s’apre sul mio cuore: nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi: così lieve
son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli
che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che
dorme.
La parola è allora I’ ignis sapientialis, il segno
geroglifico e sacrale che può stare tra la “gnosis” e la
“pistis” del simbolo e dell’allegoria. Non fu Gi0″anni Scoto
Eriugena a coordinarle gerarchicamente, assegnando al simbolo i valori
dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento meno certo della storia, della
fede e della morale?
Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, in attesa del
comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in
“Commiato” da Il porto sepolto:
Quando trovo in questo mio
silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso.
Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia
con 1a prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione
iniziatica. Così per Thomas Mann in LA montagna incantata: “La parola,
anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che
isola” Quasimodo scopre in sé la
vastità di un orizzonte da esplorare:
Le parole ci stancano, risalgono
da un’acqua lapidata; forse il cuore ci resta. torse il cuore…
Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il
poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano
comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido
della poesia quasimodiana: E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il
nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.
Ancora la dolcezza della voce. anche tragica, dopo il
silenzio:
lo pure udivo un urlo talvolta rompere e farsi carne; e
batterc di mani ed una voce dolcezze spalancarmi ignote.
Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente interpretata nel suo etimo
come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamentc alla
concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale c del cosmo: la
coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della
luce è l’ Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle
parole di Lao Tzc, proprio il “silenzio”.
Magistralmente scrive il di
Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare o studiare i
simboli esteriormente, freddamente… Il simbolo è cammino, appoggio, scala a
un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto, esterno a tradursi in
simboli. ma il mondo interiore che li porta in superficie. Alla meditazione
applicata, agli elementi di un simbolismo iniziatico si connette la filosofia
del Silenzio’ .
E quanto per la filosofia del silenzio la massoneria si
allinei autorevolmente con la storia delle grandi società iniziatiche ce lo
spiega almeno la lunga scuola che viene dal Vêdânta indù e dal taoismo cinese.
dallo zen nipponico, dai riti tribali degli aborigeni australiani, dal
totemismo degli indiani d • America, dallo sciamanismo delle comunità africane
e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di Occidente. La necessità del simbolismo
ermetico di Quasimodo, ermetico perché massonico e massonico perché ermetico.
aderisce perfettamente ai modi di una poesia che è dell’intimismo e
dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo che reclama una vacua e
tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi destini. L’ermetismo, nel
complesso problema critico sull’ermetismo di Quasimodo, è la ricerca di una via
per il linguaggio come canto individuale. Ma l’ermetismo, quando è, non si
appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo vale parecchio la cautela di
leggerlo “problematicamente”. Non quindi e solo alla insegna di un
gusto, per analogie, metafore, sincstesismi, aristocraticanœnte elaborato. alla
Rimbaud per intenderci, teso verso l’indefinibile assoluto.
In Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si
indaga sulla “poetica della parola”, alla ricerca di un
metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un po’ arida della
filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della traduzione. alla
scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece apprendere da
Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle radici e al di
sopra del l’ ermetismo: l ‘ acuta sofferenza per uno stato di crisi derivata
dalla amara constatazione dell incapacità dell’uomo a raggiungere e a
conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine in un universo
ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e liberticida,
l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo. la sconsolata aspirazione a
qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana esplorazione
dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli strati più
profondi, oscuri e magari irrazionali, l’unificazione soggetto-oggetto, la
esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di rivolta nei confronti
di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza. ragione di vita e
soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono solamente
scalpellate nei parametri dell ‘ontologia.
Poetica della parola, e non
nominalismo. Ancora Macrì scrive: “La parola è l’elemento base della
tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale,
il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e
puntualizzare tutta I ‘interna corrente della ispirazione e del
“pathos”.
Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il
ridere della gazza, nera sugli aranci, “forse è un segno vero della
vita”, bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel
“forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il
peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà
“La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:
Poesia è il mondo l’umanità la
propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante
fermento.
Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia
come . la ricerca di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca
impetuosa dell’uomo”.
Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una
poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia è
via alla verità, colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del
pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per
questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo,
immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di
amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i
veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella
quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In
una parola: il grande Sapiente.
Ma proprio quando il sentimento
della solitudine sembra scavare nel profondo della vocalità, si assiste con
Quasimodo ad una evoluzione che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia
non stravolge il percorso intellettuale, morale, artistico del poeta, che ha
ben viva la lezione massonica.
La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì
l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo
sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto
sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una
violenza estrema… La poesia della nuova generazione. che chiameremo sociale,
aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie;
scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni” Montale, in Satura, canterà:
Le parole preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute, imbalsamate, ibernate, le
parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari perché c’è sempre il
marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più rari.
Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La
pietà”.
Ho popolato di nomi il
silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per
cadere in servitù di parole?
Amore, ansia religiosa, nostalgia
per il mito di una Sicilia dell’infanzia non sono più i temi chc da soli
bastino a cantare la condizione csistenziale. Si apre la poesia. massonicamente
nutrita, verso una dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di
impegno per tutti.
La poesia ha quindi una possibilità in più. quella
rigenerativa come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua
missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino. cammino appunto
iniziatico, della redcnzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c
solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.
Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa in mezzo
a un cataclisma come la — alla narrazione: si è ispessito l’impegno di
Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna
della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.
Ma neppure con questa nuova
spinta ideale il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasimodo
crede di poter contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema
autenticamente antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal
linguaggio alla comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica
delle realtà sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano
è sottolineato non solo con i caratteri di una trasformazione stilistica o con
un approfondimento tematico: il poeta è il politico. ma con l’avvertenza che
nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E allora la
traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente massonico, tanto
che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai bombarda
menti
— lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi nell’uomo:
non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi esalta la
necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il
contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma comc filtro
interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi
parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si
è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vitlima di uno scontro con la
famigerata banda Corridoni e vive dopo l ‘ 8 settembre in una Milano
babilonica, tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è
dei poeti nei momenti tragici: mentre si ITIuore ed anch’ egli lotta per
sopravvivere, traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella
geenna milanese non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire
la poesia:
Le spie non
possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con gli amici, né dire parole al
cuore di nessuno.
La guerra e le traduzioni fanno ben
capire come non vi possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino
dal punto di vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più
profondo del verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento.
un ricordo: il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di
esule. Così egli è tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in
nome di una umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono
nell’epico. Con in più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco
letterario, rimanendo legato al mondo classico.
“Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per
quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano
ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della
sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle
“speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”.
Così scrive nel 1946, a pochi mesi dalla sua iscrizione al partito comunista
italiano, con una evidente coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed
il politico. in un clima in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano
le più attente ed attrezzate nel perseguire una politica culturale.
Il dibattito fu — come è ben noto
— intenso; la formazione solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in
rotta di collisione con le teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano
soprattutto su Rinascita. Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che
portò alla chiusura de Il Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di
cultura che non intende suonare il piffero della rivoluzione. trova oià
disimpegnato Quasimodo da questa sua militanza politica. Avere “esigenze
rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne,
segrete, recondite dell ‘ uomo da scorgcrc nell’ uomo”, essere
“proprio dello scrittore saper scorgere, forsc accanto alle esigenze che
pone alla politica quell’in più delle esigenze che pone la politica”. sono
le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto Quasimodo massone, un
individualista come solo un poeta può esserlo, che finisce amarxista per esserc
più profondamente un “liberal”, un democratico che vede nel
socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione etica. ma da cui esige
di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità di gesti e di
espressioni, i molti distinguo.
La ripresa post-bellica dci lavori
nellc officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore.
Collabora a MilanoSera, Rinascita. L’ Unità, ma firma con prontezza una
petizione in favore dello scrittore ungherese Tibor Déry imprigionato nell’ Ungheria
del 1956 invasa e calpestata dai carri armati russi, lo stesso scrittore che
aveva patito nel 1919 il carcere per aver partecipato al tentativo
rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene l’alta testimonianza di una
solidarietà, per questo come per noolti altri casi. che trova il suo
coronamento nel discorso da lui pronunciato per il
premio Nobel, dal titolo appunto
“Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe ozioso,
davanti a questo consesso, tentare di sottolineare la valenza massonica di un
premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.
Il Nobel al massone Carducci ( 1
906), al massonc Marconi ( 1 909), quello di Pirandello (1934). con la
parentesi della Deledda (1926) (non a caso assegnato ad una donna proprio nei
momenti in cui il regime fascista iniziava a battere la grancassa della
guerresca vitalità virilistica) sono una lontana ipoteca ad un riconoscimento
da offrire ad un italiano e massone. a distanza di un quarto di secolo.
Una esplorazione. disorganica e
mutila come questa, non può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui.
costanti momenti di massonismo echeggianti nella c dalla poesia di Quasimodo;
questa irrinunciabile ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario
ha dimostrato nel modo più alto. con l’ansia della ricerca e la lotta del
dubbio, che la poesia ha un futuro, anche al di sopra della storia, proprio
come la massoneria. Come la massoneria, la sua poesia soffre sc viene applicata
c derivata dai singoli momenti della cronaca. In entrambe circola il respiro
del bisogno dell’amore come irriducibile resistenza della vita contro la morte,
con la densità energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra
il contingente c l’eterno, l ‘ io e il tutto. che impediscono la generosa
consapevolezza del colloquio tra gli uomini.
Come dice il poeta:
La vita è
senza fine. Ogni giorno è nostro…
E l’uomo che
in silenzio s’ avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di
geranio.
Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo,
poeta: la personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno
dei nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce,
dell’esistenza vissuta in una luce d’amore.
Se per tutti gli uomini ogni
determinazione esistenziale costituisce un dramma di comprensione e di
autentica motivazione positiva, quanto più imperscrutabile deve risultare il
tentativo di percorrere i momenti del cammino iniziatico di un artista; il
dissidio sempre sensibilmente acuto tra l’uomo e il poeta. tra la vita e l’arte
in chi è stato scelto e si è scelto per la ricerca della Vera Luce costituisce
il più problematico dei sottintesi: e quando l’eco di qualche passo iniziatico
sembra offrirsi all’ assetata volontà di intuizione, solo la poesia raccoglie
il grande segreto della parola perduta, si fa vita che affiora insieme all’
infinito caos delle percezioni, che gioca l’ apocalittico mistero dei simboli c
delle imrnagini.
Per un assurdo che è anche la stessa condizione dell’esistenza, il poeta
trascorre per infinite vie e vite, in cui il dare e l’avere sono incasellati
nella . scienza]del dolore…” che mette “verità e lame’ . un
conto/di numeri bassi che tornava esatto,/concentrico, un bilancio di vita
futura”.
di Gianni Rabbia
L’ artista della parola è ferito,
persino per una sorta di suprema vendetta olimpica contro un Prometeo. dal
destino del nomen-otnen plautino.
Quasìmodo, o Quasimòdo, è anche il nome del
protagonista di Esmeralda. o Nostra Signora di Parigi, il celebre romanzo di
Victor Hugo pubblicato nel 1831.
In Hugo l’ affronto della bruttezza repellente fa
scatenare l’ odio contro l’uanità “normale” mentre il deforme è fatto
per disperatamente ed intensamente.
Non dissimile, pur nella banalità di
questo accostamento, la concezione essenziale: la vita è una continua
purificazione dell’uomo attraverso il dolore che gli proviene da una sorta di
ingiustizia cosmica. Dal caos di Messina del 1908 e da quello della Milano del
1943 sicuramente non si esce indenni, anche se superstiti. Ma prima ancora.
negli anni della scuola all’Istituto Tecnico “Jaci” di Messina, la
vita è un impetuoso correre verso un futuro, magari anche manieristico, di
impaziente apprentissage letterario. Così ricorda Salvatore Pugliatti il
sodalizio con Quasimodo e Giorgio La Pira: “Si parlava di letteratura, di
poesia, di politica.
Leggevamo
Dante, Platone, la Bibbia; Tommaso Moro e Tommaso Campanella, Erasmo da
Rotterdarn, gli scrittori russi (specialmente Dostojcvskij; ma ci incantava anche
Andrejev… c Massimo Gorki, con i suoi romanzi “sociali”). Leggevamo
Baudelaire, il primo Mallarmé e Verlaine, Che a poco a poco divennero i nostri
numi. Intorno quegli anni —
dal 1917 al
1920 c dopo —a Messina quelli della generazione precedente la nostra, parlavano
e scrivevano di codesti poeti, dei “simbolisti” si diceva
genericamente e impropriamente… Serpeggiava tra codesti
“simbolisti” messinei una vena di misticismo e di esoterismo. che
riproduceva, in un clima di provincia assai diverso e lontano, caratteri del
simbolismo russo”.
Quindi “misticismo ed
esoterismo”: sono le vie iniziatiche su cui costruiranno la loro opera
Giorgio La Pira e Salvatore Quasimodo. Misticismo ed esoterismo: nella Sicilia
degli anni post-bellici e prefascisti al soffocamento del provincialismi è
possibile opporre la tensione di un giovanile slancio intellettuale, slancio
poi di tutta una esistenza. Giuseppe Barone dice: “Due vocazioni
eccentriche: progetto di poesia la vicenda quasimodiana. un progetto di santità
la vicenda lapiriana. Il Poeta e il Santo: due vite parallele nella più piena
accezione plutarchiana. Quasimodo il “greco”, l’intellettuale
mediterraneo che trasfigura la propria sicilianità a contatto con i miti e con
r humus della civiltà classica; La Pira il “romano”, che recupera
tradizione e magistero della chiesa cattolica attraverso la lezione del tomismo
e del misticismo medievale».
Quasimodo giura sulla sua
coscienza di uomo nato libero e di buoni costumi il 31 marzo 1922, vestendo il
grembiale nella officina Arnaldo da Brescia di Licata. Anche il padre Gaetano
era stato libero muratore.
Famiglia di ferrovieri (per via di zii) i La Pira, i Quasimodo, i Vittorini
(Elio sarebbe divenuto anche cognato di Salvatore): una collocazione
professionale, all’inizio del secolo. sicuramente moderna, legata con le vie
ferrate ad una trasformazione in un mondo arcaicamente agricolo verso nuove
mete sociali, economiche. culturali. Mentre il “progresso” batte alle
porte di una regione disastrata dagli uomini e spesso anche dalla natura,
l’orizzonte spirituale cerca libertà assolute nel panorama variegato del
decadentismo, europeo ed italiano. Pascoli dal 1 897 — sebbene per pochi anni —
aveva avuto a Messina la cattedra di letteratura latina ed anche dalle cose di
Sicilia avrà ispessito il suo sostanziale misticismo oggettivistico e non è
certo difficile trovare nel Pascoli, anche lui Figlio della Vedova, intensi
segni di affratellante e sofferto evangelisrno sociale se alcuni passi sono
connotabili sotto la dimensione delle iniziazioni politiche, pur con ovvie
differenze tra un giovanissimo La Pira
quasi
filo-fascista ed un giovanissimo Quasimodo fondatore di un effimero fascio
socialista, in entrambi è comune un denominatore meridionalista di chiaro
stampo antigiolittiano, del tutto tipico in un ambiente piccolo-borghese con
grandi ed ambiziose aspirazioni culturali, per quanto ancora nebulose.
Per Quasimodo massone, anche nella
difficile lezione del suo pensiero di “ermetico”, il concetto di
popolo si modifica nel simbolismo talvolta esasperato, alla ricerca di un
legame di solidarietà critica con il mondo per mezzo della “intelligenza
laica”. ln La Pira la solidarietà si farà celebre con il suo farsi
apostolo redentivo della povertà. Due epifanie, con alle spalle i classici
greci e latini oppure i classici della teocrazia medioevale. Ma Quasimodo,
segnato nei sotterranei della coscienza massonica con minore traccia di umori
religiosi, quella che Carlo Bo chiamò “un dcsiderio infinito d’eterna
presenza”, sceglie nel 1930 con Acque e terre e nel 1932 con Oboe sommerso
la durezza di una diversa valenza spirituale: la parola. Quella che in Oboe
sommerso è il logos di “tu vedi che per sillabe mi scarno”. La parola
è anche strumento sui cui sgrossare la pietra a che divenga cubica.
Scrive Quasimodo il 19 marzo 1923 a
La Pira: “Eccomi nuovamente al lavoro, bestiale ed inutile, confortato
soltanto dal tormento dell’anima. Da te aspetto soltanto un po’ di speranza e
la parola dello spirito. Salute e fraternità”. E La Pira a Quasimodo l ‘8
dicembre . la potenza della parola. Essa ti
serva, soprattutto. per imprigionare l’infinito nei tuoi versi. Sii ladro delle
gemme che splendono nella vita eterna; sia che tu le rubi alla natura o al
mondo morale. questo furto non dispiacerà la giustizia di Dio. Il verso, io
credo. quando è perfetto…. è un brano, ma compiuto. dell’eternità… È per
questo che la poesia — l’arte in genere — non perisce; ma sta, malgrado le
vicende umane… Penso che tu potresti col tuo verso felice che ti permette di aprire le mistiche cose
dell’anima racchiudere brani notevoli di mistero…
E Quasimodo
risponde: Si china il giorno Mi trovi deserto, Signore,
nel tuo giorno, serrato ad ogni
luce.
Di te privo spauro, perduta strada
d’amore, e non m’è grazia nemmeno trepido cantarmi che fa secche mie voglie.
T’ho amato e battuto; si china il giorno e colgo ombre dai
cieli:
che tristezza il mio cuore di
carne!
E ancora:
Spazio
Un raggio mi chiude in un centro di buio, ed è vano ch’io
evada. Talvolta un bambino vi canta non mio; breve è lo spazio e d’ angeli
morti sonde.
Mi rompe. Ed è amore alla terra
ch’è buona se pure vi rombano abissi di acque, di stelle, di luce; se pure
aspetta, deserto paradiso, il suo dio d’anima e di pietra.
Per poi gridare: “il Tuo dono
tremendo/di parole, Signore/sconto assiduamente».
Quasimodo seppe come solo un poeta sa il dramma di cui avverte Vladimir
Soloviev: il simbolo è la chiave, il grimaldello per cercar di penetrare nella
essenza dell’universo, ma non vi può essere una chiave che spieghi: è solo la
chiave di un mistero. Perciò essa può illuminare, chiarire, condannata a non
essere illuminazione. La fraterna ricerca della luce è questo: partecipazione
consapevole al mistero. La ricerca della “salvezza» passa attraverso la
tribolata grazia dell’iniziazione, costantemente assediata dalla deritmia
dell’essere. Chissà che non abbiano ragione coloro che fanno derivare il
termine “loggia” dal greco “logos”. L’antica equazione
dell’orator = arator sottintende squisitamente nel poeta la trilogia
equalitaria
‘pietra” = parola» =
“seme”. La pietra:
Naufrago: e in ogni sillaba
m’intendi che dalla terra scava il suo spiraglio e nell’ombra s’allarga, e
albero diventa o pietra o sangue in ansiosa forma d’anima che in sé muore, me
stesso brucato dal patire che m’ asserena, profondità d’ amore.
Il seme:
Alberi d’ombre, isole naufragano in
vasti acquari, inferma notte. sulla terra che nasce:
un suono d’ali di nuvola che
s’apre sul mio cuore: nessuna cosa muore, che in me non viva. Tu mi: così lieve
son fatto, così dentro alle cose che cammino coi cieli
che quando Tu voglia in seme mi getti già stanco del peso che
dorme.
La parola è allora I’ ignis sapientialis, il segno
geroglifico e sacrale che può stare tra la “gnosis” e la
“pistis” del simbolo e dell’allegoria. Non fu Gi0″anni Scoto
Eriugena a coordinarle gerarchicamente, assegnando al simbolo i valori
dell’intelletto ed all’allegoria il riferimento meno certo della storia, della
fede e della morale?
Ungaretti, l’ Ungaretti di Vita di un uomo, in attesa del
comandamento quasimodiano di “rifare l’uomo”, dice in
“Commiato” da Il porto sepolto:
Quando trovo in questo mio
silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso.
Parola e silenzio: un rapporto antitetico, che privilegia
con 1a prima il momento sacrale, demiurgico della sofferta rivelazione
iniziatica. Così per Thomas Mann in LA montagna incantata: “La parola,
anche la più contraddittoria, mantiene il contatto; è il silenzio che
isola” Quasimodo scopre in sé la
vastità di un orizzonte da esplorare:
Le parole ci stancano, risalgono
da un’acqua lapidata; forse il cuore ci resta. torse il cuore…
Dalle prigioni del cuore che l’intelligenza non apre, il
poeta trasfigura l’uomo per la magia del simbolo, superando il foscoliano
comandamento de Le Grazie: “Sacro è il silenzio a’ vati” nel grido
della poesia quasimodiana: E quel gettarmi alla terra, quel gridare alto il
nome del silenzio, era dolcezza di sentirmi vivo.
Ancora la dolcezza della voce. anche tragica, dopo il
silenzio:
lo pure udivo un urlo talvolta rompere e farsi carne; e
batterc di mani ed una voce dolcezze spalancarmi ignote.
Ciò non può nascere che dall’autopsia, correttamente interpretata nel suo etimo
come il vedere con i propri occhi, che invita massonicamentc alla
concentrazione sul più profondo del segreto intimo, personale c del cosmo: la
coscienza scopre la propria sorgente e percepisce la luce. La sorgente della
luce è l’ Oriente ed il ritorno all’Oriente, all'”archè” è, nelle
parole di Lao Tzc, proprio il “silenzio”.
Magistralmente scrive il di
Castiglione: “Non serve a niente — o serve a poco — osservare o studiare i
simboli esteriormente, freddamente… Il simbolo è cammino, appoggio, scala a
un ulteriore stato di coscienza: non è il mondo concreto, esterno a tradursi in
simboli. ma il mondo interiore che li porta in superficie. Alla meditazione
applicata, agli elementi di un simbolismo iniziatico si connette la filosofia
del Silenzio’ .
E quanto per la filosofia del silenzio la massoneria si
allinei autorevolmente con la storia delle grandi società iniziatiche ce lo
spiega almeno la lunga scuola che viene dal Vêdânta indù e dal taoismo cinese.
dallo zen nipponico, dai riti tribali degli aborigeni australiani, dal
totemismo degli indiani d • America, dallo sciamanismo delle comunità africane
e, non meno, dalle chiese d’Oriente e di Occidente. La necessità del simbolismo
ermetico di Quasimodo, ermetico perché massonico e massonico perché ermetico.
aderisce perfettamente ai modi di una poesia che è dell’intimismo e
dell’assenza, in netto contrasto con il fascismo che reclama una vacua e
tonitruante cultura solare, imperiale, da radiosi destini. L’ermetismo, nel
complesso problema critico sull’ermetismo di Quasimodo, è la ricerca di una via
per il linguaggio come canto individuale. Ma l’ermetismo, quando è, non si
appaga del proprio stile. Se è, per Quasimodo vale parecchio la cautela di
leggerlo “problematicamente”. Non quindi e solo alla insegna di un
gusto, per analogie, metafore, sincstesismi, aristocraticanœnte elaborato. alla
Rimbaud per intenderci, teso verso l’indefinibile assoluto.
In Quasimodo, dopo Oreste Macrì, si
indaga sulla “poetica della parola”, alla ricerca di un
metalinguaggio che può portare lontano, nella secchezza un po’ arida della
filologia, anche mediante lo sforzo umile ed umiliante della traduzione. alla
scoperta della modernità poetica dei classici. Si vuole invece apprendere da
Quasimodo la lezione sconcertante di una poesia insieme alle radici e al di
sopra del l’ ermetismo: l ‘ acuta sofferenza per uno stato di crisi derivata
dalla amara constatazione dell incapacità dell’uomo a raggiungere e a
conservare la propria dignità e libertà, il senso di solitudine in un universo
ostile, la disperazione di appartenere ad una età arida e liberticida,
l’ angoscia dell’incomunicabilità col mondo. la sconsolata aspirazione a
qualche irraggiungibile certezza duratura. Di qui la quasimodiana esplorazione
dei dati di coscienza per farne affiorare alla superficie gli strati più
profondi, oscuri e magari irrazionali, l’unificazione soggetto-oggetto, la
esaltazione del palpito lirico in se stesso come atto di rivolta nei confronti
di un mondo che sembra aver smarrito fede, speranza. ragione di vita e
soprattutto libertà. L’angoscia e la solitudine non rimangono solamente
scalpellate nei parametri dell ‘ontologia.
Poetica della parola, e non
nominalismo. Ancora Macrì scrive: “La parola è l’elemento base della
tecnica quasimodiana, il principio di valore cosciente, il desideratum finale,
il significato catartico in cui si vuole essenzializzare e risolvere e
puntualizzare tutta I ‘interna corrente della ispirazione e del
“pathos”.
Quante volte, a scuola, ci siamo interrogati sul perché il
ridere della gazza, nera sugli aranci, “forse è un segno vero della
vita”, bloccati dalla perplessità, interna ed esterna, di quel
“forse”. Sarà invece lo stesso poeta a dilatare, liberandocene, il
peso della insicurezza interpretativa quando nel Discorso sulla poesia scriverà
“La poesia è l’uomo”, riassumendo così l’ Ungaretti che definisce:
Poesia è il mondo l’umanità la
propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante
fermento.
Ecco perché Quasimodo giustifica la poesia
come . la ricerca di un nuovo linguaggio [che] coincide… con una ricerca
impetuosa dell’uomo”.
Infatti per noi il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una
poesia, soprattutto se ci pare bella. E poiché solo nell’universo la poesia è
via alla verità, colui che sa contemplarla ed attrarla in sé con le virtù del
pensiero è vicino a conoscere il segreto della vittoria sulla vita. E per
questo che il poeta può essere chiunque si faccia veggente attraverso un lungo,
immenso e ragionato disordine di tutti i sensi. Conosce tutte le forme di
amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i
veleni, per conservarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella
quale diventa il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto. In
una parola: il grande Sapiente.
Ma proprio quando il sentimento
della solitudine sembra scavare nel profondo della vocalità, si assiste con
Quasimodo ad una evoluzione che se da un lato è fortemente innovativa, tuttavia
non stravolge il percorso intellettuale, morale, artistico del poeta, che ha
ben viva la lezione massonica.
La parola che fino all’inizio degli anni ’40 costituì
l’incantesimo della sua poesia viene sottoposta ad una ulteriore indagine. Lo
sconvolgimento della guerra, la tragedia che è nell’aria e in terra tutto
sottopone a revisione: “Un nuovo linguaggio poetico… presuppone una
violenza estrema… La poesia della nuova generazione. che chiameremo sociale,
aspira al dialogo più che al monologo,… è di natura corale. nella sua specie;
scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni” Montale, in Satura, canterà:
Le parole preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio di essere lette, vendute, imbalsamate, ibernate, le
parole sono di tutti e invano si celano nei dizionari perché c’è sempre il
marrano che dissottera i tartufi più puzzolenti e più rari.
Non diversamente Ungaretti si interroga ne “La
pietà”.
Ho popolato di nomi il
silenzio.
Ho fatto a pezzi cuore e mente. Per
cadere in servitù di parole?
Amore, ansia religiosa, nostalgia
per il mito di una Sicilia dell’infanzia non sono più i temi chc da soli
bastino a cantare la condizione csistenziale. Si apre la poesia. massonicamente
nutrita, verso una dimensione di più netta solidarietà umana, che è ricerca di
impegno per tutti.
La poesia ha quindi una possibilità in più. quella
rigenerativa come è del poeta orfico, che integra il vaticinio della sua
missione con il dovere di insegnare agli uomini il cammino. cammino appunto
iniziatico, della redcnzione nel progresso dei valori civili. Non più quindi c
solo storia di anime, ma anche — e sempre più — di popoli.
Da una iniziale vocazione al canto, si trapassa in mezzo
a un cataclisma come la — alla narrazione: si è ispessito l’impegno di
Quasimodo con quei valori civili sicuramente attinti in loggia: la condanna
della violenza, la libertà politica, la pace, la fratellanza universale.
Ma neppure con questa nuova
spinta ideale il poeta si trasferisce sul piano apollineo del mito. Quasimodo
crede di poter contribuire a cambiare il mondo, rifondando l’uomo in un sistema
autenticamente antropocentrico, senza illusioni che mascherino la storia. Dal
linguaggio alla comunicazione, la poesia ha il dovere di incitare alla verifica
delle realtà sociali, politiche, culturali: il passaggio dalla Sicilia a Milano
è sottolineato non solo con i caratteri di una trasformazione stilistica o con
un approfondimento tematico: il poeta è il politico. ma con l’avvertenza che
nessuna dottrina ha mai creato un pittore o un poeta”. E allora la
traduzione del Vangelo di San Giovanni (testo eminentemente massonico, tanto
che è il “libro” del giuramento) è — sotto ai bombarda
menti
— lo stesso che restituire la forza della speranza affinché operi nell’uomo:
non è diverso il traduttore di Catullo o dei lirici greci da chi esalta la
necessità di esprimere tutto se stesso, con un atteggiamento verso il
contemporaneo che non suoni né come chiusura, né come invadenza, ma comc filtro
interpretativo nutrito di sdegno e di religioso ammonimento. Gilberto Finzi
parla di un “passaggio dal monologo lirico al dialogo drammatico”. Si
è nel pieno della guerra. Quasimodo è già stato vitlima di uno scontro con la
famigerata banda Corridoni e vive dopo l ‘ 8 settembre in una Milano
babilonica, tra assassini, eroi e borsari neri con quella difficile calma che è
dei poeti nei momenti tragici: mentre si ITIuore ed anch’ egli lotta per
sopravvivere, traduce. Insieme ad un cumulo di orrori sa distinguere nella
geenna milanese non solo sul metro di un umanissimo odio chi può ancora sentire
la poesia:
Le spie non
possono scrivere versi, lo sai; né bere vino con gli amici, né dire parole al
cuore di nessuno.
La guerra e le traduzioni fanno ben
capire come non vi possa essere neanche nel linguaggio un assetto definitivo: perfino
dal punto di vista formale egli mostrerà il nuovo equilibrio in un ritmo più
profondo del verso che si distende per evidenziare un fatto, un atteggiamento.
un ricordo: il dolore di tutti gli fa mettere la sordina al suo dolore di
esule. Così egli è tra i primi poeti della resistenza, portato alla coralità in
nome di una umanità universale. In breve, l’etico e il lirico si fondono
nell’epico. Con in più il vantaggio di poter guardare con distacco al gioco
letterario, rimanendo legato al mondo classico.
“Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per
quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano
ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della
sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle
“speculazioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno”.
Così scrive nel 1946, a pochi mesi dalla sua iscrizione al partito comunista
italiano, con una evidente coincidenza tra i due nuovi impegni, il culturale ed
il politico. in un clima in cui le forze di sinistra e soprattutto il Pci erano
le più attente ed attrezzate nel perseguire una politica culturale.
Il dibattito fu — come è ben noto
— intenso; la formazione solariana di Elio Vittorini entrò quasi subito in
rotta di collisione con le teorie di Zdanov che Togliatti ed Alicata sancivano
soprattutto su Rinascita. Ma la rottura di Vittorini del dicembre 1947 che
portò alla chiusura de Il Politecnico con le sue ardite parole dell’uomo di
cultura che non intende suonare il piffero della rivoluzione. trova oià
disimpegnato Quasimodo da questa sua militanza politica. Avere “esigenze
rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne,
segrete, recondite dell ‘ uomo da scorgcrc nell’ uomo”, essere
“proprio dello scrittore saper scorgere, forsc accanto alle esigenze che
pone alla politica quell’in più delle esigenze che pone la politica”. sono
le parole di Vittorini, ma vi troviamo tutto Quasimodo massone, un
individualista come solo un poeta può esserlo, che finisce amarxista per esserc
più profondamente un “liberal”, un democratico che vede nel
socialcomunismo l’indubbia pienezza di una rivoluzione etica. ma da cui esige
di essere esonerato, tenendo vivi, anche con spigolosità di gesti e di
espressioni, i molti distinguo.
La ripresa post-bellica dci lavori
nellc officine massoniche lo vede quindi più consapevole di forza e vigore.
Collabora a MilanoSera, Rinascita. L’ Unità, ma firma con prontezza una
petizione in favore dello scrittore ungherese Tibor Déry imprigionato nell’ Ungheria
del 1956 invasa e calpestata dai carri armati russi, lo stesso scrittore che
aveva patito nel 1919 il carcere per aver partecipato al tentativo
rivoluzionario di Bela Kun La sua diviene l’alta testimonianza di una
solidarietà, per questo come per noolti altri casi. che trova il suo
coronamento nel discorso da lui pronunciato per il
premio Nobel, dal titolo appunto
“Il poeta e il politico”, nel dicembre 1959. Diverrebbe ozioso,
davanti a questo consesso, tentare di sottolineare la valenza massonica di un
premio come il Nobel e della gloriosa teoria dei Fratelli premiati.
Il Nobel al massone Carducci ( 1
906), al massonc Marconi ( 1 909), quello di Pirandello (1934). con la
parentesi della Deledda (1926) (non a caso assegnato ad una donna proprio nei
momenti in cui il regime fascista iniziava a battere la grancassa della
guerresca vitalità virilistica) sono una lontana ipoteca ad un riconoscimento
da offrire ad un italiano e massone. a distanza di un quarto di secolo.
Una esplorazione. disorganica e
mutila come questa, non può attardarsi alla sottolineatura di tutti i continui.
costanti momenti di massonismo echeggianti nella c dalla poesia di Quasimodo;
questa irrinunciabile ed imprescindibile voce del nostro Novecento letterario
ha dimostrato nel modo più alto. con l’ansia della ricerca e la lotta del
dubbio, che la poesia ha un futuro, anche al di sopra della storia, proprio
come la massoneria. Come la massoneria, la sua poesia soffre sc viene applicata
c derivata dai singoli momenti della cronaca. In entrambe circola il respiro
del bisogno dell’amore come irriducibile resistenza della vita contro la morte,
con la densità energica di tutte le forze impegnate per rompere gli schemi tra
il contingente c l’eterno, l ‘ io e il tutto. che impediscono la generosa
consapevolezza del colloquio tra gli uomini.
Come dice il poeta:
La vita è
senza fine. Ogni giorno è nostro…
E l’uomo che
in silenzio s’ avvicina non nasconde un coltello fra le mani ma un fiore di
geranio.
Ecco chi fu il massone Salvatore Quasimodo,
poeta: la personificazione della volontà di preparare e di cogliere in ciascuno
dei nostri giorni la gioia, rara e fuggitiva, ma pur sempre dolce,
dell’esistenza vissuta in una luce d’amore.
In loggia, per antico precetto, non si parla né di
politica né di religione. Ed è giusto dal momento che si tratta di due
esperienze umane che — assai più che all’unità — hanno spesso portato alla
divisione fra gli uomini, anche a divisioni cruente e sanguinose. La Massoneria
è invece unione ideale, catena solidaristica, forza centripeta, potenza
sintetica e unitiva di uomini, donne, idee e sentimenti.
E stupisce come la religione, la cui origine semantica è nel verbo
religare” , riunire, si sia invece dimostrata molto spesso forza di aspra
divisione.
In realtà, il significato tradizionale della parola
“religione” rimanda non tanto ad una unione fra uomini che
condividono le stesse credenze e gli stessi culti ma piuttosto ad una unione
fra il mondo materiale e la sua origine divina, fra l’uomo e il suo principio
spirituale, fra l’anima sola e triste dell’uomo e la sua originaria felicità
primordiale quando ancora non era separata dal tutto.
Fra i vari possibili significati del termine “religione”
forse proprio quest’ultimo può essere assunto come più produttivo per il nostro
discorso: la religione come riunione dell’anima individuale con una realtà più
vasta, più profonda, più filosoficamente “vera .
the dewdrop slips into
the shining sea”. La goccia di rugiada scivola nel mare splendente, come
dice sir Edwin Arnold a conclusione del suo poema sulla Luce dell’Asia. La
coscienza individuale si confonde e si perde nella luce più grande della
divinità, riunendosi alla sua origine. E ciò al di là di ogni culto, di ogni
chiesa, di ogni sacro testo, di ogni predica, di ogni umana e storica divisone.
L’esperienza religiosa è quella in ogni tempo e luogo: è l’esperienza della
riunificazione con qualcuno o qualcosa che ci trascende.
Certo, questa è la verità
dell’esperienza religiosa, è la sperimentazione suprema dell’identità divina, e
come tale riservata a pochi spiriti fortunati. “In questa potenza”,
scrive Meister Eckhart, “Dio incessantemente verdeggia e fiorisce in tutta
la gioia e in tutto l’onore che egli è in sé stesso. Qui la gioia è così
intima, la gioia è così ineffabilmente grande che nessuno riesce ad
esprimerla” (Prediche, In67
travit Jesus in quoddam castellum). Nelle parole di tutti
i grandi spiriti, l’esperienza religiosa più alta ha accenti straordinariamente
simili e concordi. Al di là di fedi e chiese, la loro esperienza — solo in
parte comunicabile — non si contraddice.
Esiste poi una esperienza
religiosa più umile, più terrena e quotidiana. Esiste il desiderio di ogni uomo
e di ogni donna di ‘ appartenere” a qualcosa di più grande, anche se
questo qualcosa non è la Realtà Ultima. Esiste l’umanissimo e diffusissimo
desiderio di non essere soli, di non vivere perennemente nella piccola cella della
propria individualità. Esiste il desiderio di sentirsi parte di un grande
corpo” di un “piano”, di un “processoLa
Religiosità della Massoneria di Elio Ambrogio
In loggia, per antico
precetto, non si parla né di politica né di religione. Ed è giusto dal momento
che si tratta di due esperienze umane che — assai più che all’unità — hanno
spesso portato alla divisione fra gli uomini, anche a divisioni cruente e
sanguinose. La Massoneria è invece unione ideale, catena solidaristica, forza
centripeta, potenza sintetica e unitiva di uomini, donne, idee e sentimenti.
E stupisce
come la religione, la cui origine semantica è nel verbo religareLa
Religiosità della Massoneria di Elio Ambrogio
In loggia, per antico precetto, non si parla né di
politica né di religione. Ed è giusto dal momento che si tratta di due
esperienze umane che — assai più che all’unità — hanno spesso portato alla
divisione fra gli uomini, anche a divisioni cruente e sanguinose. La Massoneria
è invece unione ideale, catena solidaristica, forza centripeta, potenza
sintetica e unitiva di uomini, donne, idee e sentimenti.
E stupisce come la religione, la cui origine semantica è nel verbo
religare” , riunire, si sia invece dimostrata molto spesso forza di aspra
divisione.
In realtà, il significato tradizionale della parola
“religione” rimanda non tanto ad una unione fra uomini che
condividono le stesse credenze e gli stessi culti ma piuttosto ad una unione
fra il mondo materiale e la sua origine divina, fra l’uomo e il suo principio
spirituale, fra l’anima sola e triste dell’uomo e la sua originaria felicità
primordiale quando ancora non era separata dal tutto.
Fra i vari possibili significati del termine “religione”
forse proprio quest’ultimo può essere assunto come più produttivo per il nostro
discorso: la religione come riunione dell’anima individuale con una realtà più
vasta, più profonda, più filosoficamente “vera .
the dewdrop slips into
the shining sea”. La goccia di rugiada scivola nel mare splendente, come
dice sir Edwin Arnold a conclusione del suo poema sulla Luce dell’Asia. La
coscienza individuale si confonde e si perde nella luce più grande della
divinità, riunendosi alla sua origine. E ciò al di là di ogni culto, di ogni
chiesa, di ogni sacro testo, di ogni predica, di ogni umana e storica divisone.
L’esperienza religiosa è quella in ogni tempo e luogo: è l’esperienza della
riunificazione con qualcuno o qualcosa che ci trascende.
Certo, questa è la verità
dell’esperienza religiosa, è la sperimentazione suprema dell’identità divina, e
come tale riservata a pochi spiriti fortunati. “In questa potenza”,
scrive Meister Eckhart, “Dio incessantemente verdeggia e fiorisce in tutta
la gioia e in tutto l’onore che egli è in sé stesso. Qui la gioia è così
intima, la gioia è così ineffabilmente grande che nessuno riesce ad
esprimerla” (Prediche, In67
travit Jesus in quoddam castellum). Nelle parole di tutti
i grandi spiriti, l’esperienza religiosa più alta ha accenti straordinariamente
simili e concordi. Al di là di fedi e chiese, la loro esperienza — solo in
parte comunicabile — non si contraddice.
Esiste poi una esperienza
religiosa più umile, più terrena e quotidiana. Esiste il desiderio di ogni uomo
e di ogni donna di ‘ appartenere” a qualcosa di più grande, anche se
questo qualcosa non è la Realtà Ultima. Esiste l’umanissimo e diffusissimo
desiderio di non essere soli, di non vivere perennemente nella piccola cella
della propria individualità. Esiste il desiderio di sentirsi parte di un grande
corpo” di un “piano”, di un
“processo”, di un “divenire”. Ecco allora le moderne
Religioni dell’Umanità, quelle religioni che non propongono più l’unione
mistica c cosmica con la realtà fondamentale dell’universo, ma più
semplicemente l’appartenenza ad un disegno evolutivo dell’uomo o della storia.
Il Cristianesimo, dopo le altezze metafisiche raggiunte
nel Medioevo, ha finito per offrire più semplicemente un disegno di salvazione
di cui si può entrare a far parte per mezzo della fede e dell’amore reciproco.
Gli ideali rinascimentali hanno invece proposto una salvezza per mezzo della
conoscenza e della bellezza. L’utopia socialista e comunista ha regalato a
generazioni e generazioni di uomini e donne, il sogno di un paradiso terrestre
storicamente raggiungibile mediante il rivolgimento delle strutture sociali ed
economiche. L’idea ecologista fa rilucere alle menti e ai cuori di una umanità
che si affaccia al terzo millennio la visione di un uomo riconciliato con la
natura e ad essa amorevolmente ricongiunto. E ancora, i nostri tempi vedono
nascere e crescere una pluralità di sette più o meno innocue, più o meno
infantili, più o meno razionali che offrono una identificazione col gruppo che
li produce. In tutte queste fenomenologie il senso dell’appartenenza a qualcosa
— al gruppo stesso, al pensiero o al progetto storico — è fortissimo.
In che cosa la Massoneria è diversa da tutto ciò? E in che
cosa è simile? E, più in generale, la Massoneria può inserirsi nel grande
fenomeno dell’esperienza religiosa?
Io credo di sì, a patto che della parola
“religione” si faccia un uso corretto.
Intanto c’è sempre stata e c’è una massoneria
mistica. E la radice più profonda e l’ala più antica della casa massonica. E la
massoneria esoterica e sapienziale anteriore al 1717 che affonda le sue radici
nel templarismo e nella cabala, nel rosicrucianesimo e nell’alchimia. E la
Massoneria di cui poco si può dire perchè è mitica e leggendaria. I suoi segni
e la sua venerabile identità però compaiono e ci parlano ancora oggi nel grande
complesso di simboli e riti che i liberi muratori utilizzano quotidianamente e
assiduamente. E una massoneria difficile e affascinante, per spiriti forti e
non convenzionali, che anche dopo l’anno della “storicizzazione” – il
1717 – ha continuato a sopravvivere in maniera minoritaria ma vivace in
personaggi come Guénon, Canseliet, Fulcanelli. È la “massoneria della
mente e del cuore” di cui ha scritto recentissimamente Alberto Cesare
Ambesi nel suo “I maestri del tempio” (Ed. Terziaria, 1995): una
massoneria che non rinuncerà mai alla realizzazione dell’Uomo Cosmico,
dell’Adamo Primigenio di cui parla la tradizione sapienziale.
Ma c’è anche la massoneria che, molto più
concretamente, coltiva la Religione dell’Umanità, una tradizione tipicamente
illuminista c positivista. E la massoneria del XVIII e del XIX secolo: un
sodalizio di uomini colti e illuminati che crede profondamente nel progresso
della società a patto che si possano impiantare in essa i grandi valori della
libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza. E la massoneria delle
rivoluzioni borghesi, delle due rivoluzioni industriali, è la massoneria che
crede al positivismo di Comte e al socialismo umanitario di Turati, è la
massoneria risorgimentale e garibaldina, è la massoneria romantica che crede al
destino dei popoli e che combatte l’oscurantismo cattolico di Pio IX, è cioè la
massoneria “progressiva”, religiosamente fiduciosa nelle capacità
razionali e morali dell’uomo e nel suo destino di libertà civile e di giustizia
sociale. Il suo scopo è sempre stato veementemente politico: creare classi
dirigenti aperte e liberali in grado di reggere la sfida della modernità. Da
Washington a Nathan, da Churchill a Rabin, da Garibaldi a Roosevelt è sempre stata
una massoneria religiosamente laica, attiva e dinamica, pragmatica e operativa,
assolutamente convinta che la loggia sia l’anticamera della grande politica
illuminata, la fucina dove si forgiano gli strumenti muratori per costruire la
Città del Sole, qui e adesso.
C’è ancora
quella che vorrei chiamare la “massoneria intimista ” , la massoneria
di chi nel tempio cerca quella pace e quell’atmosfera di serena riflessione e
intimità che il duro e convulso mondo profano non offre. È la religione
dell’interiorità. Quella religione che nei secoli ha sempre spinto gli uomini e
le donne più sensibili e miti a cercare luoghi dove i pensieri e i sentimenti
potessero snodarsi, comporsi e crescere con armoniosità. E la massoneria un po’
monastica della condivisione fraterna di esperienze e di ricerche interiori, è
la massoneria della penombra, delle atmosfere, dello scambio profondo ma
gentile delle parole di saggezza che ognuno porta con sé e che ognuno vuole
offrire agli altri fratelli. E anche questa è una massoneria dell’appartenenza:
dell’appartenenza agli altri fratelli. Una
massoneria forse meno ardita sotto il profilo spirituale, meno
impegnata nella costruzione di una società ideale all’esterno, ma ugualmente
forte sotto il profilo di quella crescita umana che resta sempre e comunque a
fondamento della Libera Muratoria.
Esiste dunque una religiosità massonica?
Personalmente credo che là dove
c’è un uomo che cerca una verità, là c’è anche una religiosità. Là dove c’è un
uomo che vuole perfezionarsi, la c’è anche una religiosità. Là dove si
coltivano cose preziose, là c’è anche una religiosità. Là dove uomini e donne
cercano appartenenze più vaste — appartenenze divine, cosmiche, umane,
storiche, ideali — là cioè dove uomini e donne cercano di uscire dalla propria
piccola individualità per riconoscersi come parte di qualcosa di più grande e
di più alto, là c’è religiosità.
L’importante
è che non nasca una Religione della Massoneria, ma continui ad esistere una
Religiosità Massonica. Cioè quel soffio gentile che alita nei nostri templi c
che non si può prendere e incanala
re in dogmi e in forme e strutture materiali ma che, come dice
quella Bibbia che teniamo sui nostri altari, soffia dove vuole. Una
religiosità libera e sottile che non è nient’altro che quella
perpetua nostalgia di verità e di perfezione che gli uomini e le donne si
portano dentro da sempre.
” , riunire, si sia
invece dimostrata molto spesso forza di aspra divisione.
In realtà, il significato
tradizionale della parola “religione” rimanda non tanto ad una unione
fra uomini che condividono le stesse credenze e gli stessi culti ma piuttosto
ad una unione fra il mondo materiale e la sua origine divina, fra l’uomo e il
suo principio spirituale, fra l’anima sola e triste dell’uomo e la sua originaria
felicità primordiale quando ancora non era separata dal tutto.
Fra i vari possibili
significati del termine “religione” forse proprio quest’ultimo può
essere assunto come più produttivo per il nostro discorso: la religione come
riunione dell’anima individuale con una realtà più vasta, più profonda, più
filosoficamente “vera .
the dewdrop slips into the shining sea”.
La goccia di rugiada scivola nel mare splendente, come dice sir Edwin Arnold a
conclusione del suo poema sulla Luce dell’Asia. La coscienza individuale si
confonde e si perde nella luce più grande della divinità, riunendosi alla sua
origine. E ciò al di là di ogni culto, di ogni chiesa, di ogni sacro testo, di
ogni predica, di ogni umana e storica divisone. L’esperienza religiosa è quella
in ogni tempo e luogo: è l’esperienza della riunificazione con qualcuno o
qualcosa che ci trascende.
Certo, questa è la verità
dell’esperienza religiosa, è la sperimentazione suprema dell’identità divina, e
come tale riservata a pochi spiriti fortunati. “In questa potenza”,
scrive Meister Eckhart, “Dio incessantemente verdeggia e fiorisce in tutta
la gioia e in tutto l’onore che egli è in sé stesso. Qui la gioia è così
intima, la gioia è così ineffabilmente grande che nessuno riesce ad esprimerla”
(Prediche, In67
travit Jesus in quoddam
castellum). Nelle parole di tutti i grandi spiriti, l’esperienza religiosa più
alta ha accenti straordinariamente simili e concordi. Al di là di fedi e
chiese, la loro esperienza — solo in parte comunicabile — non si contraddice.
Esiste poi una esperienza
religiosa più umile, più terrena e quotidiana. Esiste il desiderio di ogni uomo
e di ogni donna di ‘ appartenere” a qualcosa di più grande, anche se
questo qualcosa non è la Realtà Ultima. Esiste l’umanissimo e diffusissimo
desiderio di non essere soli, di non vivere perennemente nella piccola cella
della propria individualità. Esiste il desiderio di sentirsi parte di un
grande corpo” di un
“piano”, di un “processo”, di un “divenire”. Ecco
allora le moderne Religioni dell’Umanità, quelle religioni che non propongono
più l’unione mistica c cosmica con la realtà fondamentale dell’universo, ma più
semplicemente l’appartenenza ad un disegno evolutivo dell’uomo o della storia.
Il Cristianesimo, dopo le
altezze metafisiche raggiunte nel Medioevo, ha finito per offrire più
semplicemente un disegno di salvazione di cui si può entrare a far parte per
mezzo della fede e dell’amore reciproco. Gli ideali rinascimentali hanno invece
proposto una salvezza per mezzo della conoscenza e della bellezza. L’utopia
socialista e comunista ha regalato a generazioni e generazioni di uomini e
donne, il sogno di un paradiso terrestre storicamente raggiungibile mediante il
rivolgimento delle strutture sociali ed economiche. L’idea ecologista fa rilucere
alle menti e ai cuori di una umanità che si affaccia al terzo millennio la
visione di un uomo riconciliato con la natura e ad essa amorevolmente
ricongiunto. E ancora, i nostri tempi vedono nascere e crescere una pluralità
di sette più o meno innocue, più o meno infantili, più o meno razionali che
offrono una identificazione col gruppo che li produce. In tutte queste
fenomenologie il senso dell’appartenenza a qualcosa — al gruppo stesso, al
pensiero o al progetto storico — è fortissimo.
In che cosa la Massoneria è
diversa da tutto ciò? E in che cosa è simile? E, più in generale, la Massoneria
può inserirsi nel grande fenomeno dell’esperienza religiosa?
Io credo di sì, a patto che
della parola “religione” si faccia un uso corretto.
Intanto c’è sempre stata e
c’è una massoneria mistica. E la radice più profonda e l’ala più antica della
casa massonica. E la massoneria esoterica e sapienziale anteriore al 1717 che
affonda le sue radici nel templarismo e nella cabala, nel rosicrucianesimo e
nell’alchimia. E la Massoneria di cui poco si può dire perchè è mitica e
leggendaria. I suoi segni e la sua venerabile identità però compaiono e ci
parlano ancora oggi nel grande complesso di simboli e riti che i liberi
muratori utilizzano quotidianamente e assiduamente. E una massoneria difficile
e affascinante, per spiriti forti e non convenzionali, che anche dopo l’anno
della “storicizzazione” – il 1717 – ha continuato a sopravvivere in
maniera minoritaria ma vivace in personaggi come Guénon, Canseliet, Fulcanelli.
È la “massoneria della mente e del cuore” di cui ha scritto
recentissimamente Alberto Cesare Ambesi nel suo “I maestri del
tempio” (Ed. Terziaria, 1995): una massoneria che non rinuncerà mai alla
realizzazione dell’Uomo Cosmico, dell’Adamo Primigenio di cui parla la
tradizione sapienziale.
Ma c’è anche la massoneria
che, molto più concretamente, coltiva la Religione dell’Umanità, una tradizione
tipicamente illuminista c positivista. E la massoneria del XVIII e del XIX
secolo: un sodalizio di uomini colti e illuminati che crede profondamente nel
progresso della società a patto che si possano impiantare in essa i grandi
valori della libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza. E la massoneria
delle rivoluzioni borghesi, delle due rivoluzioni industriali, è la massoneria
che crede al positivismo di Comte e al socialismo umanitario di Turati, è la
massoneria risorgimentale e garibaldina, è la massoneria romantica che crede al
destino dei popoli e che combatte l’oscurantismo cattolico di Pio IX, è cioè la
massoneria “progressiva”, religiosamente fiduciosa nelle capacità
razionali e morali dell’uomo e nel suo destino di libertà civile e di giustizia
sociale. Il suo scopo è sempre stato veementemente politico: creare classi
dirigenti aperte e liberali in grado di reggere la sfida della modernità. Da
Washington a Nathan, da Churchill a Rabin, da Garibaldi a Roosevelt è sempre
stata una massoneria religiosamente laica, attiva e dinamica, pragmatica e
operativa, assolutamente convinta che la loggia sia l’anticamera della grande
politica illuminata, la fucina dove si forgiano gli strumenti muratori per
costruire la Città del Sole, qui e adesso.
C’è ancora quella che vorrei
chiamare la “massoneria intimista ” , la massoneria di chi nel tempio
cerca quella pace e quell’atmosfera di serena riflessione e intimità che il
duro e convulso mondo profano non offre. È la religione dell’interiorità.
Quella religione che nei secoli ha sempre spinto gli uomini e le donne più
sensibili e miti a cercare luoghi dove i pensieri e i sentimenti potessero
snodarsi, comporsi e crescere con armoniosità. E la massoneria un po’ monastica
della condivisione fraterna di esperienze e di ricerche interiori, è la
massoneria della penombra, delle atmosfere, dello scambio profondo ma gentile
delle parole di saggezza che ognuno porta con sé e che ognuno vuole offrire
agli altri fratelli. E anche questa è una massoneria dell’appartenenza:
dell’appartenenza agli altri fratelli. Una
massoneria forse meno ardita sotto il profilo spirituale, meno impegnata
nella costruzione di una società ideale all’esterno, ma ugualmente forte sotto
il profilo di quella crescita umana che resta sempre e comunque a fondamento
della Libera Muratoria.
Esiste dunque una religiosità
massonica?
Personalmente credo che là
dove c’è un uomo che cerca una verità, là c’è anche una religiosità. Là dove
c’è un uomo che vuole perfezionarsi, la c’è anche una religiosità. Là dove si
coltivano cose preziose, là c’è anche una religiosità. Là dove uomini e donne
cercano appartenenze più vaste — appartenenze divine, cosmiche, umane,
storiche, ideali — là cioè dove uomini e donne cercano di uscire dalla propria
piccola individualità per riconoscersi come parte di qualcosa di più grande e
di più alto, là c’è religiosità.
L’importante è che non nasca
una Religione della Massoneria, ma continui ad esistere una Religiosità
Massonica. Cioè quel soffio gentile che alita nei nostri templi c che non si
può prendere e incanala re in dogmi e in
forme e strutture materiali ma che, come dice quella Bibbia che teniamo sui
nostri altari, soffia dove vuole. Una
religiosità libera e sottile che non è nient’altro che quella perpetua
nostalgia di verità e di perfezione che gli uomini e le donne si portano dentro
da sempre.
“, di un
“divenire”. Ecco allora le moderne Religioni dell’Umanità, quelle
religioni che non propongono più l’unione mistica c cosmica con la realtà
fondamentale dell’universo, ma più semplicemente l’appartenenza ad un disegno
evolutivo dell’uomo o della storia.
Il Cristianesimo, dopo le altezze metafisiche raggiunte
nel Medioevo, ha finito per offrire più semplicemente un disegno di salvazione
di cui si può entrare a far parte per mezzo della fede e dell’amore reciproco.
Gli ideali rinascimentali hanno invece proposto una salvezza per mezzo della
conoscenza e della bellezza. L’utopia socialista e comunista ha regalato a
generazioni e generazioni di uomini e donne, il sogno di un paradiso terrestre
storicamente raggiungibile mediante il rivolgimento delle strutture sociali ed
economiche. L’idea ecologista fa rilucere alle menti e ai cuori di una umanità
che si affaccia al terzo millennio la visione di un uomo riconciliato con la
natura e ad essa amorevolmente ricongiunto. E ancora, i nostri tempi vedono
nascere e crescere una pluralità di sette più o meno innocue, più o meno
infantili, più o meno razionali che offrono una identificazione col gruppo che
li produce. In tutte queste fenomenologie il senso dell’appartenenza a qualcosa
— al gruppo stesso, al pensiero o al progetto storico — è fortissimo.
In che cosa la Massoneria è diversa da tutto ciò? E in che
cosa è simile? E, più in generale, la Massoneria può inserirsi nel grande
fenomeno dell’esperienza religiosa?
Io credo di sì, a patto che della parola
“religione” si faccia un uso corretto.
Intanto c’è sempre stata e c’è una massoneria
mistica. E la radice più profonda e l’ala più antica della casa massonica. E la
massoneria esoterica e sapienziale anteriore al 1717 che affonda le sue radici
nel templarismo e nella cabala, nel rosicrucianesimo e nell’alchimia. E la
Massoneria di cui poco si può dire perchè è mitica e leggendaria. I suoi segni
e la sua venerabile identità però compaiono e ci parlano ancora oggi nel grande
complesso di simboli e riti che i liberi muratori utilizzano quotidianamente e
assiduamente. E una massoneria difficile e affascinante, per spiriti forti e
non convenzionali, che anche dopo l’anno della “storicizzazione” – il
1717 – ha continuato a sopravvivere in maniera minoritaria ma vivace in personaggi
come Guénon, Canseliet, Fulcanelli. È la “massoneria della mente e del
cuore” di cui ha scritto recentissimamente Alberto Cesare Ambesi nel suo
“I maestri del tempio” (Ed. Terziaria, 1995): una massoneria che non
rinuncerà mai alla realizzazione dell’Uomo Cosmico, dell’Adamo Primigenio di
cui parla la tradizione sapienziale.
Ma c’è anche la massoneria che, molto più
concretamente, coltiva la Religione dell’Umanità, una tradizione tipicamente
illuminista c positivista. E la massoneria del XVIII e del XIX secolo: un
sodalizio di uomini colti e illuminati che crede profondamente nel progresso
della società a patto che si possano impiantare in essa i grandi valori della
libertà, della fratellanza e dell’uguaglianza. E la massoneria delle
rivoluzioni borghesi, delle due rivoluzioni industriali, è la massoneria che
crede al positivismo di Comte e al socialismo umanitario di Turati, è la
massoneria risorgimentale e garibaldina, è la massoneria romantica che crede al
destino dei popoli e che combatte l’oscurantismo cattolico di Pio IX, è cioè la
massoneria “progressiva”, religiosamente fiduciosa nelle capacità
razionali e morali dell’uomo e nel suo destino di libertà civile e di giustizia
sociale. Il suo scopo è sempre stato veementemente politico: creare classi
dirigenti aperte e liberali in grado di reggere la sfida della modernità. Da
Washington a Nathan, da Churchill a Rabin, da Garibaldi a Roosevelt è sempre
stata una massoneria religiosamente laica, attiva e dinamica, pragmatica e
operativa, assolutamente convinta che la loggia sia l’anticamera della grande
politica illuminata, la fucina dove si forgiano gli strumenti muratori per costruire la
Città del Sole, qui e adesso.
C’è ancora
quella che vorrei chiamare la “massoneria intimista ” , la massoneria
di chi nel tempio cerca quella pace e quell’atmosfera di serena riflessione e
intimità che il duro e convulso mondo profano non offre. È la religione
dell’interiorità. Quella religione che nei secoli ha sempre spinto gli uomini e
le donne più sensibili e miti a cercare luoghi dove i pensieri e i sentimenti
potessero snodarsi, comporsi e crescere con armoniosità. E la massoneria un po’
monastica della condivisione fraterna di esperienze e di ricerche interiori, è
la massoneria della penombra, delle atmosfere, dello scambio profondo ma
gentile delle parole di saggezza che ognuno porta con sé e che ognuno vuole
offrire agli altri fratelli. E anche questa è una massoneria dell’appartenenza:
dell’appartenenza agli altri fratelli. Una
massoneria forse meno ardita sotto il profilo spirituale, meno
impegnata nella costruzione di una società ideale all’esterno, ma ugualmente
forte sotto il profilo di quella crescita umana che resta sempre e comunque a
fondamento della Libera Muratoria.
Esiste dunque una religiosità massonica?
Personalmente credo che là dove
c’è un uomo che cerca una verità, là c’è anche una religiosità. Là dove c’è un
uomo che vuole perfezionarsi, la c’è anche una religiosità. Là dove si
coltivano cose preziose, là c’è anche una religiosità. Là dove uomini e donne
cercano appartenenze più vaste — appartenenze divine, cosmiche, umane,
storiche, ideali — là cioè dove uomini e donne cercano di uscire dalla propria
piccola individualità per riconoscersi come parte di qualcosa di più grande e
di più alto, là c’è religiosità.
L’importante
è che non nasca una Religione della Massoneria, ma continui ad esistere una
Religiosità Massonica. Cioè quel soffio gentile che alita nei nostri templi c
che non si può prendere e incanala
re in dogmi e in forme e strutture materiali ma che, come dice
quella Bibbia che teniamo sui nostri altari, soffia dove vuole. Una
religiosità libera e sottile che non è nient’altro che quella
perpetua nostalgia di verità e di perfezione che gli uomini e le donne si
portano dentro da sempre.