TESTIMONIANZE DEL REGIME RETTIFICATO ITALIANO

TESTIMONIANZE DEL REGIME RETTIFICATO ITALIANO

Quando parliamo di “Uomo libero” ci riferiamo solo al pensiero libero o anche a qualcos’altro?
All’inizio le corporazioni dei costruttori accettavano solo persone forti e sane in quanto il lavoro di scalpellino richiedeva una sana condizione fisica; nel corso del tempo acquisivano non solo l’esperienza ma anche la saggezza nell’uso degli strumenti e, con gli anni, tale saggezza faceva sì che venisse conferito loro una posizione più elevata, quella di Maestro. I costruttori avevano anche una grande conoscenza della geometria che nel tempo divenne una forma di espressione divina, poiché i grandi progetti architettonici rappresentavano un legame magico tra la terra el’universo; l’uomo cercava di rappresentare sulla terra un edificio dove viveva o abitava lo spirito divino di
Dio rappresentato nei templi dedicati alle divinità antiche. Fu allora che l’uomo fece un passo gigantesco nella costruzione e queste piccole corporazioni, non solo piene di saggezza ma anche di matematica divina, cercarono di mantenere quei segreti selezionando molto
meticolosamente i nuovi apprendisti. Apparve così un segreto, il modo in cui questi templi venivano progettati, generava quel tipo di connessione tra la terra e l’universo, rendendo questi luoghi centri di culto e venerazione. In quelle antiche società essere un muratore rappresentava il passaggio dal semplice scalpellino ad uno dei maestri nel mestiere più segreto ed apprezzato. I disegni e gli schemi di quelle costruzioni avevano sempre un certo grado di mistero e di esoterismo: dall’orientamento sulla terra secondo i punti cardinali, ai luoghi dove doveva entrare la luce del sole. Questi aspetti oggi passano inosservati per molte persone, ma conservano il loro valore poiché la relazione astrologica non è stata modificata nello spazio, ha semplicemente dei cicli. Con il passare degli anni e l’avvento delle crociate con la
nuova aria d’oriente portata in Europa, le costruzioni subirono una svolta drastica.
Per mantenere alcuni segreti, non solo l’insegnamento della tradizione ed il passaparola erano importanti, ma si dovettero usare alcuni simboli affinché il costruttore venuto da lontano potesse riconoscere e identificare dove si trovava e cosa doveva fare.
Questo segreto era ancora più importante perché era fondamentale non solo la conoscenza della matematica e degli strumenti, ma anche il significato magico di ogni figura che il costruttore doveva inserire nella costruzione. Dopo un periodo buio in occidente e quasi con lo sterminio di gran parte della popolazione da parte della peste nera, era necessario che le nuove menti e quella conoscenza magica e alchemica durassero nel tempo. L’uso dei simboli nelle cattedrali divenne allora molto importante; ma quei simboli non erano rivolti solo a queste persone, ma anche a coloro ai quali era evidente l’interesse per la scienza.
Il Rinascimento contribuì alla causa ponendo quegli elementi di rappresentazione di quel simbolismo non più nella pietra ma nelle nuove
idee e nei simboli iconografici. Emersero menti geniali come Leonardo Da Vinci e Michelangelo che in ogni opera d’arte inserivano quella conoscenza e quel simbolismo che veniva compreso non solo dai costruttori dei templi ma anche da quelli delle anime. Si risvegliò allora il brillante pensiero di un tempo che era, tuttavia, compreso solo da pochi nella sua grandezza; in tutto questo le società segrete divennero indispensabili per poter mantenere un segreto ancestrale che potesse essere svelato solo a chi fosse disposto a riceverlo, vale a dire un iniziato. I riti di iniziazione usati nell’antico Egitto furono riscoperti dai Templari.
Questi si sarebbero concentrati sulla liberazione della mente per dare ingresso a nuove idee e percezioni, facendo entrare una persona in uno stato di morte simbolica e farla rinascere a una nuova vita. Nel più grande studio di quei maestri iniziatici, trasformare una mente intorpidita dalla vita profana e terrena, in una mente affamata di conoscenza era la sfida più importante del tempo. La trasmutazione prima della mente e poi dell’anima divenne il vero scopo della vita: trasformare un uomo comune in un uomo migliore.
Separando la mente da ogni pregiudizio e dogma, si entrava in uno stato di piena libertà nella mente, si studiava l’uomo come è veramente, si guardava allo scopo della vita non da un punto di vista materiale ma da un punto di vista spirituale: chi sono io, da dove vengo e dove vado?
Le società segrete cominciarono a diventare non più solo una corporazione di sapienti costruttori di
architetture sacre e urbane, ma piccoli laboratori dove trasformare quel mercurio in oro era la pietra filosofale del momento. Per questo era necessario che l’uomo fosse sano e in buone condizioni fisiche come gli iniziali scalpellini: un uomo il cui corpo non rappresentava un impedimento affinché il suo spirito potesse operare liberamente.
Essere liberi allora era solo una questione interiore, lo studio dell’anima, lo studio del miglioramento umano doveva essere il vero fine. Leonardo Da Vinci dedicò parte della sua vita allo studio del corpo umano, a quella simmetria della parte fisica dell’uomo che gli avrebbe dato la vera via per uno studio interiore. Ad un certo punto negò la parte sessuale del corpo umano perché non aveva alcun rapporto con l’armonia del resto del corpo e tanto meno con la sua anima. Era importante differenziare la bellezza dal grottesco.
Leonardo da Vinci sosteneva che quando esaltava l’essere umano, la bellezza dei genitali lo trasformava in un essere decadente e del tutto orribile. Questo fu un punto, di partenza molto importante nel corso del tempo per le società segrete: bisognava acquisire il controllo assoluto di quella parte che faceva cadere l’uomo nelle basse passioni.
Anticamente la parte sessuale dell’uomo era nascosta: gli antichi iniziati usavano un grembiule per rappresentare il dominio del più grande simbolo da dominare. Michelangelo nella sua Cappella Sistina dipinse angeli e figure di una simmetria e bellezza unica, ma rappresentò il corpo completamente nudo come simbolo di Supremazia: l’uomo non doveva nascondere questa zona nel cosiddetto Paradiso. Alla domanda come potesse fare sculture così belle e armoniche, rispose “Io sono lo strumento che toglie imperfezioni da quel marmo, la scultura è dentro ansiosa di essere mostrata”. Questa risposta ricorda ai massoni il lavoro quotidiano chiamato £sgrossatura della pietra
grezza”.
Con il passare del tempo e fino ai nostri giorni il simbolismo è stato adottato dalla Massoneria come stile di vita. Entrare in un tempio
massonico da profano e uscirne da iniziato, significa proprio essere entrati in uno stato di morte simbolica, iniziare la vera opera che è con il corpo, rimuovendo le imperfezioni e i vizi che ha appreso nella vita profana e lasciare solo quell’opera divina che è l’uomo pieno di
virtù. Ma siamo consapevoli di quali siano queste imperfezioni? Quando un massone si riferisce alle imperfezioni si riferisce a quei vizi che l’uomo domina con la parte del corpo e libera la mente preparata per il passo successivo, vale a dire estrarre la conoscenza che ci
portiamo dentro.
Per essere un uomo libero, allora le esigenze corporee devono essere sempre meno importanti poiché ci avvicinano alla terra, liberarsene significa che si è cominciato a capire cosa c’è dentro ognuno di noi, capire che quando parliamo di vizi ci riferiamo al materiale e al corporeo. Ma se parliamo di virtù dobbiamo esaminare la parte spirituale. L’opera del massone come libero pensatore è proprio quella, ricercare nella mente quella conoscenza ancestrale, quel segreto che a ciascuno viene rivelato solo il giorno della sua iniziazione, quel giorno in cui vogliamo vedere la luce, quel momento in cui con lo stato di morte simbolica iniziamo a cercare il vero significato della nostra vita, quel risveglio a una nuova vita che ci ricorda che siamo nati allo stesso modo con una mente pulita.
Essere un libero pensatore è il vero lavoro del massone.

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PURUN BHAGAT

PURUN BHAGAT

Venerabile Maestro, Fratelli tutti di ogni dignità e grado carissimi,
nella tornata del 26 settembre scorso, un Fratello Maestro ha parlato di un problema attuale,
che riveste particolare importanza anche per me. Ero assente in tale tornata, ed ho conosciuto solo
in tempi successivi il contenuto della tavola.
All’argomento trattato con chiarezza e completezza dal predetto Fratello, desidero aggiungere
qualcosa. Come molti sanno, in uno dei suoi racconti, Kipling narra il “Miracolo di Purun Dass”.
Purun Dass che era stato primo ministro del regno, amato e stimato da viceré e da missionari,
membro di molte società scientifiche e storiche, aveva vissuto 20 anni di giovinezza, 20 di battaglie
e 20 di governo; ed ora si apprestava a vivere la parte migliore della sua vita: quella contemplativa.
In 3 giorni Purun Dass diventa Purun Bhagat; un mendico vagabondo, senza né tetto né pane, volto
solo a trovare la pace e la serenità. Cito questo racconto del Fratello Kipling, non solo per
appoggiare la tesi della tavola del Fratello menzionato, ma per sostenere anche la necessità, nella
vita dell’uomo, di una ricerca.
Sarebbe impossibile, di certo, riportare nella nostra società una ricerca come quella di Purun
Bhagat; essa è lontana dai nostri schemi di vita, ed esula troppo dal nostro contesto culturale;
eppure mi sembra mettere in luce quello che per tutti gli uomini è l’unico e vero fine da realizzare;
la ricerca della Conoscenza, che è Pace e Serenità.
Lungi dal chiedermi cosa in realtà esse siano, ed in che cosa si realizzino, oso affermare che
pace e serenità si ottengono in un solo caso; con l’arrivare alla Verità.
È pur certo, la vita convulsa d’oggi non riserva alcuno spazio ai vecchi, agli anziani, ma
intendiamoci: quali vecchi, quali anziani?
In fondo, la società moderna non è che lo specchio di giovani-vecchi, giovani che, con le ali
tarpate, non sanno e non vogliono vedere nulla al di fuori di un rigido e disperato materialismo
pseudo-realistico, che li porta ad alienare la miglior parte di sé; ed altri giovani che sentono,
confusamente ma violentemente, l’assurdità di una società che non offre loro che un consumismo
frenetico, una scala di valori basata sulle possessioni materiali, e la prospettiva di una vita sboccante
in una vecchiaia emarginata; e contestano, rifiutano codesta società.
Si è persa la cosa più semplice, la cosa più facile: il “giusto mezzo”, che non è il
compromesso, ma l’equilibrio dell’animo, della mente e dell’anima, che solo consente di indagare
intorno a se stessi, intorno ai misteri della vita e della morte, che solo ci consente un giudizio equo
nelle vicende della vita, e che porta, soprattutto, al giusto rispetto per gli altri.
Tra un vecchio che apre il suo spirito alla Ricerca ed un giovane incapace di reagire ai mass
media non ho dubbi; scelgo di sentirmi un vecchio, perché so che a me è dato qualcosa di
infinitamente superiore: la sete della Verità.
L’ideale sarebbe che in tutta la vita l’uomo fosse sostenuto da un ideale superiore, unico bene
personale ed inalienabile. In realtà non è così: pochi infatti, troppo pochi sono gli interlocutori in un
dialogo che voglia essere insieme filosofico ed essenziale. Invece, man mano che l’uomo si eleva
dal campo del puro pragmatismo o dalla semplice estrinsecazione di una certa Weltanschaung, alla
riflessione più fenomenologica ed all’analisi più filosofica, aumenta sempre di più le proprie
possibilità di comunicazione e, con esse, di una ricerca che non è più solo un fatto personale.
Ma come può un giovane accettare un simile dialogo? Come può centrare la sua vita su di una
ricerca morale se è sempre distratto, direi sempre più distratto, dai modelli di vita che la società
consumistica continua a proporre ed imporre?
In fondo, ciò che condanna il giovane è l’abitudine, che è sia assuefazione, che lo avvezza alla
ricezione di determinati stimoli, sia addestramento, cioè quel processo con il quale si assorbono
determinati principi che prima non si avevano.
L’abitudine, poi, genera l’inerzia – tamas -, l’immobilità che, in un’epoca come la nostra,
origina l’inquietudine del bisogno. Questa è l’inquietudine che il giovane sente e dalla quale viene
pungolato; ma spesso si tratta di un’inquietudine insana che non nasce dal desiderio di fare, ma da
quello di possedere e di godere; e che viene via via soddisfatta dai beni materiali che il mercato crea
in sempre maggior varietà e quantità, e ad un ritmo frenetico.
È questa la Verità?, È scopo supremo della nostra vita il conseguimento, dopo una rincorsa
incessante, di soddisfazioni che appena ottenute si mostrano già appassite e consunte?
In un simile contesto, che coinvolge non solo i giovani, ma purtroppo spesso anche la
generalità dei vecchi che non si rassegnano ad invecchiare, la verità diventa qualcosa di definibile
puramente in un ambito storico; diventa un fatto di contingenza.
Invece, come Kant, io ritengo che vi sia un unico appello al Tribunale dell’uomo: la Verità
che è unica, irripetibile, universale; la Verità che è patrimonio della specie umana; ad a Quella, nel
senso più pregnante della parola, ogni uomo può e deve appellarsi.
Sperare nel raggiungimento della Verità non è utopia, è certezza; è una certezza che è la sola
che possa sorreggere l’uomo e dare un senso ed uno scopo alla sua vita. Forse non è dato a tutti
raggiungerla e prenderne totale coscienza, identificarsi totalmente con Essa; non tutti siamo
preparati a ciò. È quella trasformazione che culminerebbe in una evoluzione integrale, e ben pochi
l’hanno raggiunta. Ma la cosa per tutti più importante è il cercare questa Verità; sapere che esiste e
che è raggiungibile. Questa è una certezza che è solo un bagliore di quell’Assoluto ed è ciò che può
sorreggere e dare scopo ad una vita intera.

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PRIMA DI CONCLUDERE QUESTO LAVORO

Prima di concludere questo lavoro, vorrei rendervi partecipi di una conclusione cui sono arrivato interpretando i discorsi di Sai Baba in chiave psicoanalitica.
In pratica, siccome la psicoanalisi dice che l’inconscio dell’uomo appartiene al Reale e dato che il Reale secondo i credenti è Dio, se ne potrebbe dedurre che l’inconscio dell’uomo altri non sia che Dio stesso, oppure che Dio controlli l’inconscio dell’uomo. In questo modo, il libero arbitrio dell’uomo, così ampiamente sbandierato da più parti, diventa quanto meno discutibile, perché i suoi stessi pensieri, se non totalmente originati dall’inconscio, sono comunque costantemente condizionati dal suo influsso.
Nel “Gioco Autentico” avevamo già detto che l’Io Reale dell’uomo è Dio, però non avevamo fatto questa semplice associazione, con la quale, visto che l’Io Reale è inconscio, allora, anche Dio è inconscio, oppure, che Dio è anche nell’inconscio (visto che è dappertutto).
Già solo questa premessa spiegherebbe il perché, alla domanda: “Dove sta Dio?”, i cattolici e gli hindù rispondano in maniera differente, infatti, i primi, per indicare la residenza di Dio, puntano il dito indice verso il cielo; i secondi, invece, lo rivolgono verso sé stessi, nella regione del cuore.
Comunque, proviamo a vedere se nell’affermazione, “La dimora di Dio è l’inconscio dell’uomo”, ci sia almeno un minimo di fondamento logico.
Sai Baba dice che l’Io Reale dell’uomo altri non è che Dio stesso e nel Gioco Autentico, utilizzando le teorie psicoanalitiche freudiane e lacaniane, eravamo arrivati a capire che l’ipotesi era tutt’altro che inverosimile; infatti, in quel contesto avevamo dedotto che, se consideriamo Dio come “il Tutto, preso nella Sua totalità e contemporaneità”, ne viene fuori che l’universo intero, non è altro che una Sua creazione immaginaria (le forme) e simbolica (i nomi), una produzione che si sviluppa e si dispiega secondo una logica di Gioco. Dunque, nel suo insieme, la vita non sarebbe altro che un gioco organizzato da Dio, con dei partecipanti, delle Regole, dei Ruoli e dei risultati conclusivi.
Ora però, guardando la stessa cosa da un punto di vista psicologico, potremmo aggiungere che, se Dio nella sua interezza è un unico “Io”, per creare “i partecipanti” nel contesto del Gioco della Vita, Egli si deve moltiplicare in innumerevoli “Io”; perciò, visto che Dio è “l’Io Reale” da cui scaturiscono tutti i partecipanti, se ne deduce che ogni individuo è portatore di un frammento di quell’unico “Io Reale” che è Dio; oppure, viceversa, che l’insieme degli “Io individuali” fanno un unico “Io” (il Brahman, Dio), proprio come l’insieme delle cellule, viventi ed apparentemente autonome, formano l’unico “Io” dell’individuo.
Detto questo possiamo aggiungere un’altra cosa: se viene accettato da tutti gli psicoanalisti che l’inconscio appartiene al Reale, e che esso tende a manifestare la sua presenza con i sintomi più svariati (tra i quali ricordiamo i lapsus, gli atti mancati, i sogni ecc.) e se noi accettiamo l’idea che Dio è il Reale unico (il Tutto preso nella sua contemporaneità), allora, potremmo dedurre che l’Uno (Dio) ha a disposizione l’inconscio di ciascuno (l’Io Reale individuato) e lo può gestire a piacimento.
Capisco che può sembrare un’affermazione folle (ma lo stesso Freud fu considerato un pazzo quando parlò dell’inconscio la prima volta), però, seguitemi con pazienza ancora un po’ e poi traete le vostre conclusioni.
Se proviamo ad osservare la fisiologia del nostro organismo, ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza delle nostre funzioni sono inconsce ma, soprattutto, autonome (il respiro, il battito cardiaco, la digestione ecc.); infatti, i fisiologi distinguono il sistema nervoso in due componenti: un sistema nervoso centrale nel quale interviene la nostra volontà (anche se solo in parte) ed un sistema nervoso autonomo, che funziona da solo e che noi non comandiamo, se non in misura modestissima, per quanti sforzi facciamo.
A grandi linee, il sistema nervoso autonomo gestisce tutti quegli apparati che hanno un’importanza vitale (come appunto, la circolazione sanguigna, la respirazione ecc.), però, ed è questa la nota curiosa, non ha un potere assoluto, in quanto, con la volontà è possibile anche superare i limiti imposti da quel “principio vitale” che protegge la vita a tutti i costi; ne sono un esempio evidente i suicidi: se “l’istinto di sopravvivenza” fosse totalmente predominante, non succederebbero. Quindi, il Reale, o se volete la Natura, governa il nostro organismo, ma non completamente, perché anche noi ne comandiamo una parte: cioè, abbiamo quello che si dice “il libero arbitrio”, che ci permette di orientarci in una direzione anziché in un’altra; ma, come detto più sopra, è ancora tutto da vedere se esista veramente!
Comunque, per capire il funzionamento dell’inconscio è sufficiente rimandare gli interessati ad approfondire la psicoanalisi; piuttosto, per fare un discorso accessibile alla maggioranza, facciamo degli esempi.
Quando camminiamo, ad ogni passo effettuato, il nostro cervello elabora tutta una serie di aggiustamenti:
– per tenerci in equilibrio;
– per farci procedere in una direzione precisa, o per permetterci di cambiare strada;
– per adeguare i nostri passi al tipo di terreno che stiamo calpestando
– per mantenere la visione fissa, senza che balli ad ogni passo, specie se facciamo degli scalini (quella sorta di ondeggiamento che vediamo in certe riprese fatte con telecamere portate a spalla da un operatore che cammina);
– per un mucchio di regolazioni… che riguardano il respiro, la frequenza cardiaca, la digestione, la sudorazione, la produzione di scorie, la loro eliminazione ecc
Tutto questo avviene inconsciamente, quindi, tutto è in mano all’inconscio, perché noi, che ci consideriamo i padroni dell’organismo, in quel frangente, magari abbiamo solo pensato: “Voglio andare là!”
Dunque, all’atto pratico, chi governa davvero la maggior parte delle nostre funzioni è l’inconscio o, più precisamente, il nostro “Io Reale” che gestisce tutto l’organismo.
Come detto, l’inconscio non è sotto il controllo della volontà, anche se, in qualche circostanza, essa può, non solo agire, ma anche interferire con “l’autoregolazione” dell’inconscio.
L’inconscio è un po’ come un cavallo che stiamo cavalcando il quale è in grado, se gli diamo l’ordine, di trasportarci senza problemi anche in zone impervie, piene di crepacci, posti pericolosi che noi non faremmo nemmeno a piedi; però, se egli raggiunge il proprio limite di sicurezza si blocca, perché sa che c’è in gioco la vita; noi però, se volessimo, gli potremmo dare l’ordine di procedere nonostante tutto e lui lo farebbe, anche se incontra la morte. La storia ci racconta di cavalli che sono morti per soddisfare cavalieri incoscienti che pretendevano di continuare a galoppare, disinteressandosi della tenuta dei propri destrieri.
La stessa cosa vale per l’uomo: un individuo che non sappia nuotare prova una naturale paura per l’acqua alta, paura che proviene dall’inconscio, il quale conosce il rischio e lo frena dal buttarsi; però, la volontà può interferire con “la normalità dell’inconscio”, infatti, se volesse, il soggetto potrebbe superare questa paura e gettarsi in acqua lo stesso, rischiando di annegare: dico “rischiando”, perché anche in quel caso l’inconscio si metterebbe in moto, fornendo degli spunti per rimanere a galla, e riuscendoci il più delle volte, specie se l’entrata in acqua è stata involontaria o dettata da altri. Molte sono le persone che dicono: “Ho imparato a nuotare (ma sarebbe meglio dire: “a galleggiare”) quando, da piccolo, mi hanno buttato nell’acqua alta”.
La volontà però, può interferire ulteriormente sulle “azioni protettive” dell’inconscio, infatti, se la volontà è quella di morire, anche gli ultimi tentativi inconsci possono essere bloccati.
In definitiva, questi esempi ci dicono che noi, in continuazione, interagiamo con il nostro inconscio e la nostra vita risulta equilibrata, tanto più, quanto il nostro rapporto con esso risulta armonico.
L’esempio del cavallo e del cavaliere, per spiegare l’inconscio e l’Io, è già stato usato da Freud, egli però arriva a conclusioni diverse. Per capirlo, lo cito testualmente: “Il rapporto dell’Io con l’Es potrebbe essere paragonato a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l’energia per la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere il movimento del poderoso animale. Ma tra l’Io e l’Es si verifica troppo spesso il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là dove quello ha già scelto di andare.”
E poi aggiunge: “Com’è ovvio, l’Es non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità. Il fattore economico o, se volete, quantitativo, strettamente connesso al principio di piacere, domina ivi tutti i processi. Investimenti pulsionali che esigono la scarica: a parer nostro nell’Es non c’è altro”.
Come vedete, secondo Freud l’Es ha come unico scopo quello di soddisfare le proprie pulsioni. L’Io, dal canto suo, deve filtrare o frenare tali pretese in quanto è costretto a tenere conto anche della realtà del mondo esterno (nessuno può soddisfare i propri desideri come vuole) e quelle del Super-io (una struttura immaginaria, retaggio dell’educazione genitoriale e fonte inesauribile di sensi di colpa). In questo caso l’idea è di un Es paragonabile ad un mostro affamato di godimento, cieco e sordo, che non distingue il bene dal male e che obbliga l’Io a trovare mezzi di soddisfazione; e, di fronte a tutto ciò, Freud ipotizza come sbocco terapeutico la psicoanalisi, la quale dovrebbe avere la funzione: “… di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es.
Dove era l’Es, deve subentrare l’Io. E’ un’opera di civiltà, come ad esempio, il prosciugamento dello Zuiderzee.”
Come vi sarete accorti, in Freud la visione è quella di una battaglia tra l’Io ed il Super-io, dove egli cerca “…di rendere l’Io più indipendente”; e tra l’Io e l’Es, dove l’Io “…deve annettersi nuove zone dell’Es”; e questo ipotizzando che i contenuti del Super-io e dell’Es possano essere sostituiti da “… un’opera di civiltà, come il prosciugamento dello Zuiderzee” (opera realizzata grazie alla collaborazione tra l’Io adulto del paziente e quello dello psicoanalista).
l discorso di Freud è fondamentalmente corretto se si ipotizza un inconscio (che lui chiama Es) esclusivamente corporeo o, con problematiche esclusivamente legate alle pulsioni sessuali e di autoconservazione da lui teorizzate. Invece, se ipotizziamo l’esistenza di una componente spirituale, e lo possiamo fare visto che nell’uomo esistono dei principi, come quello dell’Etica, che trascendono il già evoluto “principio di realtà”, allora, il rapporto con l’inconscio non dovrà più essere quello di “…annettersi nuove zone dell’Es”, ma per lui sarà sufficiente capirne la natura e mettere in equilibrio le sue richieste con quelle del mondo esterno.
Per capirci, è sufficiente sviluppare la metafora proposta dallo stesso Freud.
Il prosciugamento dello Zuiderzee, aveva lo scopo di togliere il predominio del mare su una vasta area di terra ferma, invasa in Olanda e, di fatto, è stato uno dei maggiori sforzi compiuti dall’uomo nel novecento per controllare le forze della natura. Oggi però, sappiamo che molte delle grandi opere industriali realizzate in questo secolo (come le dighe, le autostrade, le industrie, le centrali nucleari ecc.) oltre ad aver portato tutta una serie di vantaggi economici, hanno però anche determinato numerosi squilibri nella natura e, a volte, talmente gravi che ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Il risultato è che oggi, sempre di più, ci stiamo convincendo che la natura va lasciata il più possibile intatta, oppure, che gli interventi su di essa devono essere molto accorti.
Sicuramente, Freud viveva in un periodo in cui l’avvento della tecnologia faceva pensare di poter mettere mano al mondo e di adeguarlo a piacimento, secondo la nostra volontà; oggi però, abbiamo capito che quell’idea, non solo è falsa, ma è anche dannosa all’umanità stessa. Se ne potrebbe dedurre che la “vera civiltà” sia la capacità di interagire con la Natura, di cui siamo una parte, accettandone volentieri le indicazioni, piuttosto che quella di scoprire il sistema per poterla piegare ai nostri desideri. E tutto ciò può avvenire grazie all’intelligenza, la quale è in grado di correggere i dettati dell’Es, del Super-io e della realtà circostante, non solo secondo “il principio di realtà”, ma anche secondo “i principi dell’Etica”.
L’Etica è un concetto che l’uomo realizza solo grazie all’elaborazione del Simbolico; essa è una diretta manifestazione del “Principio di Verità” che struttura l’inconscio, componente questa che comunemente viene detta: “Voce della Coscienza”.
Quindi, se iniziamo a pensare che l’inconscio non è solo espressione del corpo (come ipotizzava Freud, quando parlava dell’Es portatore di pulsioni sessuali e di autoconservazione), ma è anche spirituale (l’Io Reale portatore di pulsioni trascendenti) arriviamo a capire che, oltre a crearci (perché l’Io Reale crea l’Io
immaginario, ossia, quello che noi crediamo di essere), ci dà anche tutta una serie di indicazioni sul come vivere in pace (è la Voce della Coscienza che, appunto, è fondata sulla Verità). Allora, se accetteremo tale presupposto esistenziale, forse, non avremo bisogno di conquistare molte regioni dell’Es, ma dovremo solo mettere in equilibrio le indicazioni dell’Inconscio con quelle del mondo che ci circonda.
In questo penso ci sia la vera rivoluzione di Sai Baba, quello di aver indicato nell’inconscio un “serbatoio di saggezza” dal quale attingere per vivere bene e morire serenamente: “attingere” in maniera intelligente, usando, prima di tutto, “il principio di realtà” proposto da Freud (il suo modo per denominare l’intelligenza umana) e non sfruttando la fantasia o l’immaginazione.
Dobbiamo aggiungere che, nel suddetto “serbatoio di saggezza”, ci sono le indicazioni per quello che tutti gli uomini, di qualsiasi epoca e cultura, hanno sempre chiamato: “La Via del cuore o dell’amore”; però, bisogna stare attenti, perché non è semplice seguirla e, per imparare, bisogna prima passare attraverso l’intelligenza.
L’intelligenza è fondamentale, perché grazie ad essa noi arriviamo a:
– distinguere quelle che sono le pulsioni vere legate al corpo (quelle dell’Es, ossia, del nostro essere anche animali, che vogliono vivere e procreare) dai desideri immaginari o dalle costruzioni mentali (le fantasie nevrotiche o perverse);
– discriminare gli obblighi del Super Io (intransigente e persecutorio) dalle Regole comportamentali che organizzano la società in cui viviamo e ordinano le nostre relazioni personali (create con il buon senso, per farci vivere meglio insieme e non con lo scopo di farci sentire degli esseri inferiori);
– capire che oltre ad essere fatti di corpo e mente, siamo anche Spirito, ciò che sopravvive alla scomparsa del corpo e che può esprimersi secondo una logica che trascende i limiti imposti dalla nostra natura animale. Questo non vuol dire che sia sbagliato soddisfare le nostre esigenze naturali e provare piacere, dobbiamo solo accettare che tali esperienze non sono eterne (come dice Baba: “Non c’è nulla di male nel godere dei piaceri della vita, dovete solo ricordarvi che tutto ha una fine.”)
A questo punto, se saremo riusciti ad utilizzare abitualmente l’intelligenza, solo allora avremo la possibilità di trascenderla.
Detto in altro modo: solo dopo aver capito di essere fondamentalmente Spirito ed, inoltre, che tutti gli altri esseri hanno la nostra stessa Natura, solo in quel caso potremo agire in maniera disinteressata e, soprattutto, con amore verso il prossimo.
Personalmente diffido di quelle persone che parlano forzatamente, o in maniera ridondante, di amore: spesso, tali persone, con la scusa dell’amore ad oltranza, tendono a trattare con superficialità le Regole sociali, considerandole solo un impaccio. Di fatto, tali persone non hanno elaborato il Simbolico, perché, se è vero che i saggi hanno superato i limiti imposti dalle Regole umane (in quanto essi sono legge a sé stessi), è anche vero che loro sono i primi a rispettarle sempre e ad invitare i propri discepoli a fare lo stesso.
A volte, qualcuno propone di non pensare troppo e di seguire esclusivamente il proprio intuito, ma anche qui bisogna stare attenti, perché il rischio di interpretare le proposte della fantasia come intuizioni geniali è molto alto: l’immaginazione funziona in continuazione, mentre invece le vere intuizioni sono rare o eccezionali e, per di più, non sono facilmente utilizzabili da tutti. Perciò, vista la loro sporadica comparsa e la loro scarsa maneggevolezza, non possono essere considerate uno strumento ordinario di orientamento comportamentale.
In definitiva, prima ancora che con quelli del cuore o dell’amore, bisogna imparare a vedere con gli occhi dell’intelligenza; e non è facile, perché tendenzialmente, anziché usare l’intelligenza, si usa la fantasia; e quando si segue l’immaginazione per interpretare le indicazioni dell’Es, si rischia di prendere degli abbagli clamorosi.
Sicuramente molti psicoanalisti avranno arricciato il naso al sentire la parola “Voce della Coscienza”, ma, badate bene, ho usato le lettere maiuscole proprio per distinguerla dalla “voce della coscienza” che è, ovviamente, di natura super-egoica o sociale. La Voce della Coscienza ha a che fare con Dio, con la Verità e l’Amore di cui è costituito l’inconscio e non con i mostri della fantasia prodotti da un’educazione bigotta, i quali, con i loro messaggi contraddittori, tiranneggiano l’individuo per tutta la vita.
Tutto ciò ci viene confermato dalla nostra stessa esperienza: infatti, quando siamo in grado di interpretare i messaggi che provengono dall’inconscio e li mettiamo in sintonia con le richieste del mondo esterno (secondo il Principio di Verità, Etico o Trascendente), otteniamo quel senso di benessere (ma, sarebbe meglio dire di pace) che, senza bisogno di spiegazioni ulteriori, ci permette di confermare l’esistenza dello Spirito.
In ogni caso, Freud ha avuto l’enorme merito di aver ipotizzato e dimostrato l’esistenza di un inconscio con il quale l’Io deve fare i conti. Certo, egli non ha contemplato la componente spirituale, ma anche perché non l’ha distinta dalla religione: la spiritualità è cosa diversa dalla religiosità; quest’ultima (e, in questo, lui ha ragione), trattandosi di una traduzione che la mente fa dei messaggi provenienti dall’inconscio, non può che manifestarsi secondo i limiti mentali dell’uomo che la esprime. Ed è chiaro che un analista come Freud non poteva accettare tutte le contraddizioni che ogni singola religione si porta appresso. Nonostante tutto però, pur non parlando di spiritualità, egli ha avuto il buon gusto di ammettere che, al di là delle sue scoperte, nell’inconscio c’è un abisso che lui stesso, con le sue ricerche, non è riuscito a sondare (alla fine Freud disse: “…Cosa daremmo per saperne di più!”).
A proposito della funzione dell’inconscio nel sostenere l’organismo ed, in particolare, per collegarlo alla funzione divina, Baba dice:
“L’uomo si sta distruggendo, perché crede nelle cose materiali ed ignora il Ruolo ed il Potere di Dio…
E’ il Divino che sotto forma di linfa permette a tutti gli organi di funzionare. L’uomo che non riconosce questa verità di base, rimane nell’ignoranza e diventa arrogante ed egoista: crede di essere lui a far tutto e, perciò, va incontro alla sofferenza.”
“Dovreste essere fermamente convinti che nulla accade per uno sforzo umano e non dovete andare tanto lontano per cercare una prova a questa affermazione; la prova l’avete proprio all’interno del vostro corpo: ad esempio, che impegno mettete per mantenere l’incessante battito del cuore o per il continuo movimento di respirazione dei polmoni? Dipende forse dalla vostra volontà la digestione del cibo ingerito? Siete capaci di vivere o morire quando lo volete? Venite al mondo quando e dove lo desiderate voi? Se rifletteste profondamente su questa linea di pensiero, scoprireste che i vostri sentimenti di “Io e mio” sono indebitamente alimentati dall’errata idea di essere l’autore (kartritva) e il fruitore (bhokritva).”
“Tutto accade per volere divino (Daiva-sankalpa). Con le vostre sole forze non siete in grado di ottenere nulla. L’altro ieri vi ho detto come gli uomini, in diversi casi non siano riusciti ad aver il successo che avevano perseguito con ogni sforzo, e come, invece, per altri sia stato facile raggiungerlo, senza averlo cercato. E’ il senso dell’Io (ahamkâra) che vi induce ad appropriarvi del duplice ruolo di chi compie l’azione (kartritva) e di chi ne fruisce (bhoktritva).
Voi siete un’autentica incarnazione della beatitudine: la beatitudine è la vostra vera natura. E’ tragico il fatto che non sappiate individuarla e sperimentarla. Questa beatitudine è adombrata da simpatie, antipatie, dal senso di “Io e mio”, dall’esitazione e dal dubbio, da piaceri e dispiaceri, e così via. Attaccamento (râga) e odio (dvesha) sono il panno pesante che avvolge la vostra beatitudine. Quanto è strano e sciocco che, nonostante voi siate un’autentica incarnazione della beatitudine, l’andiate a cercare altrove!”
A sostegno dell’ipotesi che Dio è inconscio, oppure, che Dio ha sotto controllo l’inconscio di ciascuno, si potrebbe riflettere su quanto ha affermato lo stesso Freud nel suo lavoro dal titolo: “L’appagamento di desiderio”. Dopo aver capito che il sogno rappresenta l’appagamento di un desiderio, l’autore si domanda (senza però rispondersi) chi sia l’organizzatore ultimo del sogno ed azzarda: “Ci considerano già dei pazzi, ora, che parliamo dell’esistenza di un inconscio… figuriamoci cosa direbbero se ne proponessimo due!”.
Un’altra riflessione che potremmo fare è quella sulle regole che governano l’inconscio. Per saperlo sarebbe sufficiente studiare la psicoanalisi di Freud, per arrivare a capire che le regole ci sono e con una certa pratica si riesce pure a conoscerle; comunque, per ridurre il campo di lavoro, diciamo solo che: è innegabile che l’inconscio poggi sulla verità.
La verità è sicuramente la regola per eccellenza, il che è abbastanza ovvio, perchè se non prevalesse la verità o, comunque, se l’inconscio dell’uomo non fosse orientato dalla verità, la vita stessa sarebbe impossibile, sia quella individuale che, tantomeno, quella collettiva: sarebbe come programmare un computer con le più sofisticate e avanzate qualità, senza inserire la regola di rispondere sempre in maniera veritiera ai nostri comandi. Cosa ce ne faremmo di un computer di questo genere, libero cioè di dirci la verità o meno, a seconda dei casi? Sarebbe pericolosissimo!
A sostegno del fatto che l’inconscio è programmato sulla verità, è sufficiente notare che uno degli aspetti più caratteristici dell’inconscio studiati da Freud è il lapsus: esso è l’emblema del linguaggio dell’inconscio ed, in particolare, dei messaggi veritieri che esso ci manda.
Questa scoperta è stata così bene accolta dalla coscienza collettiva che, anche per coloro i quali disdegnano la psicoanalisi, il lapsus è diventato sinonimo di verità ed il suo scopritore è stato beneficiato con la notorietà nei secoli, infatti, nel linguaggio comune è stato simbolizzato il detto: “… è un lapsus freudiano!”.
Ma se l’inconscio funziona sulla base della verità, allora perché esiste la menzogna?
Possiamo fare diverse ipotesi, ma quella che preferisco è che tutto nasca da un errore: l’errore sta nella mente, oppure, detto in altro modo, l’errore sta nel processo di identificazione, favorito dal principio del piacere. In pratica, identificandosi esclusivamente con il corpo e considerandosi diverso dai propri simili, il bambino inizia a ragionare in termini vantaggiosi anche a scapito di altri (“l’Io ed il mio” che troviamo nelle teorie dell’induismo e del buddismo). Tale fatto è naturalmente favorito dall’educazione ricevuta, e cioè, se il bambino è entrato in contatto con la menzogna dei genitori e, soprattutto, con la loro ignoranza di essere Spirito anziché corpo, avrà molte più probabilità di altri di diventare falso anche lui.
Quindi, la menzogna è il risultato di un processo di dissociazione, per cui l’Io immaginario si considera padrone assoluto del corpo e ragiona solo in termini di piacere personale, dimenticandosi di essere invece un prodotto dell’inconscio e, come tale, di essere al suo servizio, anziché padrone.
Questo è il motivo per il quale detto Io (l’Io mentale o immaginario) rimane disorientato e spaventato di fronte alle improvvise irruzioni dell’inconscio nello spazio coscienziale; basti ricordare, oltre ai lapsus, le dimenticanze, i sogni, gli incubi ecc. Ma non basta, perchè queste manifestazioni sono per lo più semplici, curiose, sporadiche e comuni a tutti, ve ne sono invece altre che possono organizzarsi in vere e proprie malattie nervose, ovvero patologie dove compaiono in maniera duratura sia alterazioni psichiche (le nevrosi isteriche, ossessive, fobiche ecc.), sia fisiche (le cosiddette malattie psicosomatiche).
Ma dove stanno scritte le Regole che governano l’inconscio?
Nel codice genetico, allo stesso modo in cui sono inserite le tendenze naturali degli animali (il miele dell’ape, la tela del ragno, il nido dell’uccello ecc.), gli istinti, per intenderci.
Tra le regole dell’inconscio, oltre alla Verità, probabilmente ci sono anche le regole dell’Amore, della Pace, della Non Violenza e della Retta Azione: Regole, che Sai Baba, forse non a caso, chiama Valori Umani Fondamentali; e proprio perchè rappresentano le fondamenta della coscienza umana, come le fondamenta delle case, sono nascoste… quindi, inconsce.
Dice Baba: “I Valori Umani sono contenuti in ogni cellula del corpo, altrimenti non potreste considerarvi umani”.
Il discorso sui Valori Umani è però troppo ampio, ma spero, così come ho detto in precedenza per l’amore, di riproporlo in un lavoro a parte.
In definitiva, se accettiamo che Dio è inconscio (è il nostro Io Reale), oppure, che Dio abbia a disposizione il nostro inconscio, possiamo capire con una nuova luce tutta una serie di affermazioni di Sai Baba in merito a Dio.
Per esempio, quando dice: “Dio è il più vicino, il più affezionato, il più fedele dei compagni, ma l’uomo nella sua cecità, Lo ignora e cerca la compagnia di altri.
Dio è presente ovunque, in ogni istante: Egli è il più ricco e potente protettore, eppure voi Lo ignorate. Il Signore è qui, vicino, amoroso, accessibile e potente, ma molti non aprono gli occhi a questa grande opportunità. Il Suo nome ve Lo porterà vicino: il Nome è sulle labbra, il mondo è nella mente ed il proprietario del Nome è nel cuore. Il mondo e le sue attrattive vi distraggono coprendo la risposta che Dio dà alla chiamata del Nome.”
In pratica, Dio è quello che le filosofie orientali chiamano: “Il nostro Se’ interiore”. E’ inconscio ed è perciò che Baba dice: “Io sono Dio ed anche voi lo siete, solo che non ne siete consapevoli!”.Questa frase ha scandalizzato la gran parte delle persone che l’hanno sentita (sia i credenti che, ancor peggio, gli atei), ma soltanto perché non l’hanno presa alla lettera ed interpretata in chiave psicoanalitica.
Quando Baba dice: “… non ne siete consapevoli.”, è vero! Semplicemente perché non essere consapevoli è un modo diverso di dire inconscio.
L’Io a cui Si riferisce Baba affermando: “Io sono Dio…”, è l’Io inconscio o Reale… e siccome è inconscio, non possiamo esserne consapevoli!
Volendo essere più precisi dovremmo dire che noi siamo l’Anima o lo Spirito individuale, quella parte dell’Anima Universale che si è identificata con il corpo; e traducendolo in termini psicoanalitici, viene fuori che Dio è, al tempo stesso, sia l’inconscio individuale (quando si identifica nel soggetto) che l’inconscio collettivo (quando si identifica con l’umanità o il mondo intero).
Il termine di “Inconscio collettivo” fu coniato da C. Gustav Jung, un altro padre della psicoanalisi, e tratta di un argomento che fu un ulteriore motivo di disputa tra lui e Freud, conflitto che si tradusse poi con la loro separazione; però, guardandolo ora, ci rendiamo conto che entrambi parlavano della stessa cosa, solo che l’attenzione di Freud era concentrata sull’inconscio individuale, mentre quella di Jung sull’inconscio collettivo.
A questo punto, se ammettiamo quanto detto fin qui, possiamo trarre alcune conclusioni:- l’Io non è servo di tre padroni (l’Es, il Super Io e il mondo esterno), come diceva Freud, o meglio, di sicuro lo è l’Io immaginario, fino a quando non riconosce la propria Vera Natura di Io Reale (Anima o Spirito).
– L’Io Reale è l’unico padrone, il Re, ma deve prendere coscienza di questa verità, si deve riconoscere come tale. Per far questo, ha a disposizione la mente che, come dice Baba, è al tempo stesso, l’unico vero ostacolo per questa ricerca, ma è anche l’unico strumento valido per poterla realizzare.
Come fare dunque per riconoscere la propria Vera Natura?
Per ottenere il risultato finale, bisogna saper usare la mente, altrimenti si permane in uno stato di servitù per tutta la vita: prima bisogna imparare a discriminare con gli occhi dell’intelligenza (quello che Freud chiama “il principio di realtà”) e superare la tendenza naturale a vedere con gli occhi della fantasia o dell’immaginazione (che sono invece orientati dal “principio di piacere”) e poi, utilizzare gli occhi del cuore o dell’amore (che sono sostenuti dal “Principio Trascendente”).
Sicuramente, riuscire a vedere con gli occhi dell’amore rappresenta il risultato finale della ricerca di cui abbiamo parlato finora, fatto questo, che tradotto in termini psicoanalitici vorrebbe dire arrivare ad identificarsi con l’Io Reale (“Io sono l’Anima o lo Spirito!”), ovvero, riuscire a prendere contatto con l’Inconscio Spirituale, Individuale o Collettivo.
A questo traguardo sono arrivati i profeti, i veggenti e quelle persone che comunemente vengono dette ”I realizzati in vita”.
Sia nei giorni nostri che nel passato, tale raggiungimento si è reso manifesto agli occhi del mondo con la comparsa di poteri paranormali, quali la capacità di fare premonizioni, diagnosi telepatiche, guarigioni ecc.
(i cosiddetti “miracoli”). Si tratta di argomenti che non hanno, finora, avuto nulla a che fare con la psicoanalisi, ma è stata l’ipotesi dell’Inconscio Collettivo o Spirituale che mi ha permesso di capire come dette persone fossero veramente in grado di fare quanto detto sopra: è il contatto con l’Inconscio Spirituale o Divino, un contatto consapevole, continuo e vero, non come quello che possono far credere di avere certi indovini, maghi e fattucchiere.
I cristiani possono trovare conferma di ciò nella vicenda di Gesù che in mezzo alla folla accalcata su di lui domandò: “Chi mi ha toccato?”… si trattava di una donna che, per la sua fede, unica, in mezzo ad una moltitudine di persone che implorava e toccava il Maestro, ricevette la grazia della guarigione. Questa esperienza di Gesù è una dimostrazione lampante di cosa significhi avere un contatto consapevole, continuo e vero dell’Inconscio Collettivo, una consapevolezza che non necessita né di riti, né di formule preparatorie per realizzarla in quanto continua.
La distinzione tra i veri Realizzati e quelli falsi potrebbe essere un curioso lavoro di esclusiva pertinenza degli psicoanalisti, ma non è questo il contesto appropriato per approfondire l’argomento.
Ora mi fermo e rimando il lettore che volesse sviluppare il concetto dell’Io Divino, alla seconda parte del “Gioco Autentico”.
Prima di concludere però, vorrei riproporre un piccolo enigma di Sai Baba, che ho già inserito nel suddetto libro, ma che ritengo fondamentale per rendersi conto della profondità e della lucidità del Suo pensiero.
Gli psicoanalisti lacaniani saranno felicissimi nel raccogliere la sfida di analizzare e trovare la chiave di lettura di questo indovinello, però, anche gli altri, con un certo impegno, hanno la possibilità di risolverlo.

Dice Baba:
“La meta dell’umanità è di raggiungere Brahman.
Aksharam e Brahman sono la stessa meta (Akshara significa indivisibile), indicano gli aspetti Nirguna e Saguna della stessa verità.
Akshara significa anche una sillaba, il Prânâva OM, che è uno dei Simboli di Brahman e, perciò, si chiama Aksharaparabrahma Yoga.
Brahman ha due aggettivi, Paraman e Aksharam.
Akshara indica il Prânâva ed anche Mâyâ; e Mâyâ è riassunta nel Prânâva; questi due hanno attributi, sono qualificati, Savishesha. Comunque, Brahman è Nir-vishesha, senza attributi, puro di per sé. Coloro i quali lo comprendono Mi raggiungono.

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ABITARE IL PRESENTE, MIRARE L’ORIZZONTE, GESTIRE LA TRANSIZIONE

ABITARE IL PRESENTE, MIRARE L’ORIZZONTE, GESTIRE LA TRANSIZIONE
di Francesco Borgognoni
Abitare il Presente.
Il nostro presente è la Loggia. Ritualità, Spiritualità e Tradizione, sono le componenti del nostro divenire
esoterico nel Lavoro di Loggia. Senza la Loggia – correttamente interpretata – senza i suoi lavori, articolati nei tre gradi, tutto si degrada e finisce per perdersi. Appare persino inutile dilungarsi sul tema. Dopo le recenti esperienze molto si è palesato. Molti fratelli hanno capito, e coloro che ancora non lo hanno fatto, sono convinto che lo faranno presto, al termine di un processo di valutazione serio, personale, intimo direi, e lontano dalle modalità rumorose della profanità.
Mirare l’Orizzonte.
Coltivare Utopia non è una fuga dalla realtà. La storia d’Europa ci tramanda questo insegnamento. La Città
del Sole di Tommaso Campanella, ad esempio, che rappresenta il lucido trasognamento di un visionario e che si propone, assieme alle sue numerose sorelle di genere, come il luogo ideale dove realizzare bellezza e
giustizia, è un modello e􀆟co. Quel racconto, infatti, ci ricorda la responsabilità morale, che abbiamo in quanto inizia, di col􀆟vare e proporre una visione, un Orizzonte lontano al quale tendere. I fratelli senza dimenticare di abitare il presente e le sue ineliminabili mediazioni, e riunendo ciò che è sparso secondo il mandante dell’Arte Reale, sono chiama􀆟 a riprendere il cammino verso un Orizzonte, irraggiungibile in quanto tale, ai confini del limite della Loggia.
Gestire la Transizione.
Tra Presente, Passato e Futuro il compito dei Maestri è quello di gestire la Transizione. Non s􀆟amo alludendo a un transito di uomini e cose, complementari nel moto a luogo. Bensì ad una articolazione di spazio e tempo che definisce il nostro essere inizia􀆟. La eredità del passato è la garanzia di una continuità che non deve mai essere abbandonata come valore di riferimento, ma è anche la base sulla quale prendere slancio per continuare il cammino e u􀆟lizzare le energie utili ai Nuovi Inizi. Questo è il nostro mandato in questo tempo, mentre ci affacciamo ai duecentoventi anni di storia della nostra Obbedienza. Dal Tempo Circolare della Loggia al Tempo Re􀆫lineo dell’Istituzione, in cammino verso la Luce.

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DI RECENTE UN FRATELLO MI HA FATTO QUESTA AFFERMAZIONE:

DI RECENTE UN FRATELLO MI HA FATTO QUESTA AFFERMAZIONE:

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Il mio contributo è stato il seguente:

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Questo ha, pare, soddisfatto il carissimo Fratello, ma dall’altro lato mi ha spinto a riflettere di più sul senso delle cose che di logica parlano. Il tutto ovviamente alla luce della incomunicabilità insita nei limiti della linguistica quando tali argomenti tratta.

La mia affermazione istintiva copiava il merito delle prime parole del vangelo di San Giovanni “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui”.

In greco antico la parola “verbo” è l o g o s (logos); è facile capire che la nostra parola “logica” trova la sua radice in logos, pertanto se ammettiamo che un Ente Supremo sia il creatore / demiurgo di tutte le cose, è automatico che in tutte le cose troveremo una parte del logos, e quindi che tutte le cose sono dotate di logica.

Il ricercatore, in ogni campo, nella ricerca dei sottili fili che uniscono gli eventi, che formano il divenire, ottiene risultati solo quando è in grado di intravedere e seguire quel logos (o logica) che discende dall’Ente Supremo, sarà pertanto in grado da qualunque punto di partenza, ricerca biomedica, matematica, fisica, filosofica, di raggiungere la Verità finale.

Non credo che tale percorso sia semplice, qualcuno lo ha definito la via dolorosa, ma credo che tantissimi siano quelli che, una volta intrapreso, ce la fanno ad arrivare sino in fondo; quello che si trova in fondo a tale percorso “logico” è per sua stessa natura incomunicabile, in quanto facente parte della costituzione del ricercatore stesso e della strada che individualmente ha intrapreso e seguito

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QABBALAH

QABBALAH

Qabbalah significa Tradizione rappresentando, per così dire, il crogiolo di ogni studio e commento della Torah e più in generale di ogni forma del pensiero ebraico quale si configura nelle dottrine e nei racconti dei rabbini e nel Talmud e, soprattutto, nelle speculazioni cosmogoniche sull’opera della Creazione o Ma’asè Bereshit e nelle meditazioni a sfondo mistico sull’opera del Carro o Ma’asè Merkavah.
In tale prospettiva, non ha senso contrapporre la Qabbalah alla filosofia, né assimilare la Qabbalah al modello delle filosofie occidentali. Infatti, se per filosofia s’intende un Sistema teorico e concettualmente concluso, la Qabbalah non è certamente una filosofia. Così, per esempio, l’universo o albero delle dieci Sephiroth non è il mondo platonico delle idee e il suo manifestarsi da En Soph ‘Infinito’ non ha le caratteristiche proprie dell’emanatismo neoplatonico. Le Sephiroth si collocano sull’Albero e sono luci, numeri primordiali o forme pure. Sono dieci quante le dita delle nostre mani e tramite loro, secondo un ben definito progetto architettonico, si manifesta tutta la realtà.
Si suole innanzi tutto distinguere tra una Qabbalah letterale e una Qabbalah non scritta che attraverso una tradizione orale ininterrotta, verrebbe trasmessa bocca-orecchio di maestro in discepolo. C’è poi una Qabbalah pratica o Teurgia basata sull’idea che ciascuna lettera dell’alfabeto ebraico, con cui Dio ha creato il mondo, rappresenti un Essere Vivente (Haioth Hakodesch), un Geroglifico, un’Idea, un Numero. Combinare le lettere significa allora conoscere leggi e fondamenti della Creazione; di più questo sistema di ventidue lettere si fa corrispondere alla tre Sephiroth superne (Kether – Hochmah – Binah) dell’Albero, alla ruota dello Zodiaco o Galgal e all’asse del mondo o Teli.
Alcuni autori parlano anche di una Qabbalah rituale, con aperto sconfinamento nella magia cerimoniale e dei talismani, mentre una ulteriore distinzione è quella introdotta da Avraham Abulafia, tra una Qabbalah teosofica e una Qabbalah estatica o profetica il cui fine sembra essere quello di accedere a stati di meditazione suscettibili di modificare, anche profondamente, il vissuto di coscienza.
Infine, comune ad ogni aspetto della Qabbalah, tanto sotto il profilo speculativo che operativo, è l’uso di particolari tecniche di apprendimento quali soprattutto la Ghematria, il Notariqon e la Temurah. Sono questi strumenti ritenuti indispensabili, perché vere e proprie ‘scorciatoie’ nel processo conoscitivo e/o teurgico.
Se si guarda alla Qabbalah storica, quella cioè che si diffonde in età medievale, sulle rive del Mediterraneo, tra le fiorenti comunità ebraiche, ci si accorge che la Qabbalah ha anche questo di peculiare rispetto alla Filosofia occidentale: non si afferma nell’opinione pubblica per l’azione di alcuni ‘maitre à penser’, ma si struttura piuttosto in comunità di studio e centri di ricerca in cui entrano solo i più degni. Se mancano i maitre a penser, le cui idee si diffondono rapidamente, creando ‘correnti di pensiero’ o suscitando ‘mode’ più o meno durature, nelle scuole di Qabbalah insegnano tuttavia maestri dotati di grande carisma.
Uno di questi fu Isacco il Cieco, vissuto tra la seconda metà del 1100 e la prima metà del 1200, e primo grande maestro delle scuole di Qabbalah che, in età medievale, operarono in Provenza e in Catalogna, in un clima di grande sviluppo culturale delle comunità ebraiche. Isacco fu detto il Chassid (il pietoso) o il Cieco (paradossalmente, perché ‘possedeva luce’ in eccesso), il parush o il sagghì-nahòr (quello che oggi diremmo un illuminato) e fu uno tra i maggiori peruschim.
Se Isacco fu il primo grande maestro delle scuole storiche di Qabbalah, l’antesignano fu comunque il padre di Isacco, Abraham ben David (1125-1198) di Posquières (Narbonne), autore di scritti in polemica con Maimonide, di commenti sul Talmud e che fondò un’accademia talmudica, dove ben presto si praticò la kavvanah (concentrazione), lo studio della Torah e la lettura del Sepher Bahir.
Di qui si formarono diversi circoli di asceti o perushim. Il più noto fu, in un primo tempo, il gruppo di Jacob Hanazyr dedito in particolare alla meditazione sulle Sephiroth. I perushim provenzali studiavano quasi senza interruzione, praticando digiuni e astenendosi dalla carne e dall’alcol. Si reclutavano tra i primogeniti e preferibilmente tra i discendenti della tribù di Levi. Huqe ha-Torah, un documento provenzale, descrive la vita che si svolgeva in questi centri per lo studio della filosofia e dell’esoterismo: devozione al maestro, piccoli gruppi di studio, diversificazione dei livelli di apprendimento, massima stimolazione per facilitare la libera espressione e il dibattito tra i discepoli.

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PER UNA LETTURA SIMBOLICO-ERMETICA

PER UNA LETTURA SIMBOLICO-ERMETICA
del complesso di San Pietro al Monte a Civate (LC)

I nostri “due passi” si dirigono oggi verso uno dei luoghi più sublimi che ci sia capitato di visitare fino a questo momento: il complesso abbaziale di San Pietro al Monte a Civate, in provincia di Lecco. Si tratta di due edifici medievali di grande bellezza e importanza, collocati ai piedi del Monte Pedale (vecchio nome dell’attuale Monte Cornizzolo), a mezza costa della cosiddetta Valle dell’Oro: la basilica di San Pietro e l’Oratorio di San Benedetto, che dominano il piccolo lago di Annone, sul versante orientale, e sono circondati da un prato verde, boschi lussureggianti e cime montagnose. Recentemente è stata presentata la domanda affinchè vengano inseriti tra i monumenti Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Dal momento che nel nostro sito ci sono già due articoli che trattano ampiamente sia del territorio dove ci troviamo che della storia architettonica del complesso, discuteremo in questa sede alcuni simbolismi segreti, occulti (non evidenti ad una lettura comune) che sono meritevoli di approfondimento.

Oratorio di San Benedetto Basilica di San Pietro

L’erta salita

Per raggiungere il complesso si deve sistemare l’auto o la moto in uno dei parcheggi a fondo valle e intraprendere a piedi la mulattiera che presenta tratti anche impegnativi, all’interno di un fitto bosco. Il percorso è segnalato bene e non vi è alcun timore di potersi perdere, a patto di mantenersi lungo il sentiero. All’inizio diverse mappe consentono di capire dove ci si trova e quali itinerari è possibile scegliere; la nostra meta è ben indicata: si trova a 662 metri di quota s.l.m. Il tempo di percorrenza dipende da fattori individuali (dalle soste che si vogliono fare ad esempio), ma generalmente è necessaria un’oretta di cammino, equipaggiati con scarpe adatte al trekking e un bastone, macchine fotografiche e/o videocamere ed eventualmente il necessario se si prevede di non scendere a valle tanto presto (acqua, cibo, pila, vestiario per la pioggia, ecc.).

Noi siamo partiti dalla località in fraz. Pozzo, storico nucleo sull’antica Via Bergamo-Lecco-Como; qui si è già a 290 m di altitudine, perciò si deve “solo” arrivare a 660…

Come il pellegrino di una volta, dovremmo impiegare il percorso di ascesa “iniziaticamente”, preparandoci a vivere un’esperienza con il sacro che si rivelerà veramente notevole.

Le “casote”

Lungo il tragitto si incontrano delle caratteristiche “casote”: si può fare un percorso ad anello per vederle tutte (sono dieci), ma se si è diretti come noi a San Pietro, se ne potranno comunque incontrare almeno tre. Si tratta di strutture in pietra (massi erratici di ghiandone e serpentino o blocchi squadrati di calcare) tenuta insieme senza uso di collanti (a secco), che possono avere forma diversa; la maggior parte presenta una sommità a volta autoportante ricoperta da zolle di erba e terra per evitare infiltrazioni d’acqua. Sono ritenute una rarità in Italia, essendo tipiche dei gruppi montani che ruotano intorno al Monte Cornizzolo, dove ne sono state censite 120. Rivestono grande importanza per la memoria della passata vita contadina: queste strutture furono costruite nel XIX secolo e sono strettamente legate alle attività agricole, così almeno è il loro inquadramento ufficiale. Luoghi di sosta durante la stagione della fienagione, luoghi di riparo in caso di temporali improvvisi, ricovero di attrezzi, ecc. Progressivamente abbandonate, le casote sono state recuperate in anni recenti da apposte associazioni locali ed è grazie a questo loro lavoro di valorizzazione e tutela che possiamo visitarne alcune anche all’interno.

Ingresso della seconda “casota che si incontra lungo la salita

La sorgente miracolosa

Arrampicarsi su questa mulattiera non dispiacerà nemmeno ai più pigri perché la natura saprà regalare una compagnia meravigliosa: boschi ombrosi con una grande varietà di flora e fauna, piccoli corsi d’acqua che d’improvviso si insinuano tra i ciottoli, e una sorgente canalizzata ed usufruibile detta Fonte Fredda. Fu forse proprio a questa sorgente che si bagnò gli occhi Adelchi, il figlio del re longobardo Desiderio? La leggenda alla base della costruzione dell’edificio racconta infatti che durante una battuta di caccia al cinghiale, il giovane avesse inseguito un esemplare che si era rifugiato in una chiesetta già esistente e abitata da un eremita, tale Duro. Il cinghiale se ne stava rannicchiato impaurito vicino all’altare come chiedendo a Dio di aiutarlo; mentre Adelchi entrava in chiesa per stanarlo e ucciderlo con il suo arco, venne misteriosamente accecato e non vide più nulla. L’eremita, allora, gli prestò aiuto e lo condusse a bagnarsi gli occhi alla fontana miracolosa, che gli fece riacquistare la vista. Il re Desiderio – per ringraziare Dio di tale prodigio- ordinò la realizzazione di una grande chiesa, dove avrebbe portato importanti reliquie: quelle degli apostoli Pietro e Paolo. Tutto questo risalirebbe al 772 d.C.

Un luogo importante

In prossimità del termine della mulattiera si comincia a vedere il profilo di una muraglia e quello absidato di un edificio, ma bisogna salire ancora un pochino fino a giungere davanti ad un arco su cui è presente un epigrafe “Ora et labora” (il motto dei benedettini); il cancello aperto invita ad entrare e ci si ritrova a camminare senza sentire più alcuna fatica! Il magnetismo di un raccolto edificio, l’oratorio benedettino, è troppo forte per resistere e si accelera il passo istintivamente. Girando lo sguardo a destra si domina il lago, in un paesaggio di estrema suggestione, mentre a sinistra si staglia la maestosa architettura della basilica di San Pietro. L’anima vaga alla ricerca di parole ma nessuna è in grado di spiegare cosa succeda davvero: si è ammaliati, si va quasi in estasi contemplativa e si comprende come i monaci avessero eletto questo luogo per pregare, meditare, lavorare, lodando Dio manifestato in tanta bellezza. Le chiese a Lui consacrate non potevano dunque non rispettare fulgore e armonia.

E’ possibile che prima dell’VIII secolo esistesse già un luogo di culto; personalmente ne siamo convinti, forse c’era una chiesa paleocristiana che si era impiantata, a sua volta, su un primitivo sacello (la leggenda longobarda ci parla di un eremita che era già stanziato qui e di una chiesetta nella quale si era rifugiato il cinghiale). In epoche ancora precedenti il luogo non dovette passare inosservato: poteva trattarsi anche solo di una pietra sacra, un altare, una grotta, un menhir (ancora oggi c’è una stele, forse rimodellata a colonna, sulla quale è stata apposta la croce cristiana), secondo i culti “pagani” delle genti locali che trovavano nella natura e nelle sue manifestazioni l’impronta del divino.

E’ anche possibile che vi sorgesse una fortificazione militare, magari romana?

Ad ogni modo, i monaci benedettini si misero d’impegno e realizzarono un complesso che divenne in breve un centro culturale di grande prestigio.

Una lastra presente nel protiro della chiesa di San Pietro ricorda che qui Paolo Diacono stese nientemeno che la revisione della Regola dell’Ordine di San Benedetto; non ci sono documenti che lo confermano ma alcune sue opere come il Carmen Larii , suggeriscono la permanenza del personaggio su questo territorio. Un altro grande intellettuale soggiornò a Civate, Magister Hildemarus, sceso in Italia con un imperatore, Lotario, figlio di Ludovico il Pio.

Per la storia del monastero rimandiamo ad altra sede, ora invece cerchiamo di capire l’orientazione astronomica della chiesa di San Pietro, e poi di quella dell’Oratorio benedettino.

Archeoastronomia

Subito si nota che l’orientazione dell’asse della navata della basilica san pietrina è orientata O-E e che l’abside è a occidente, mentre l’ingresso è a oriente, “al contrario” quindi delle prescrizioni ecclesiastiche medievali, che prevedevano l’ingresso a occidente e l’abside ad oriente, verso il sorgere del Sole (paragonato alla venuta del Cristo-Luce). Ma a tutto c’è una spiegazione… Pare infatti che in origine la chiesa avesse la sola navata con l’abside ad est, quindi fu “girata”: che cosa successe?

Al posto dell’abside orientale vennero ricavate tre piccole arcate che immettono in altrettanti vani quadrati con volte a crociera (tutte affrescate). I due vani laterali sono separati dall’ingresso da plutei o transenne che recano elementi simbolici di cui tra poco parleremo; fu ricavata così una cappella per parte. Il vano centrale continua invece nella navata, essendo stata realizzata una porta d’ingresso tra le due cappelle.

Il particolarissimo “portico” che precede l’ingresso– è più un deambulatorio esterno che abbraccia la chiesa vera e propria – segue un andamento semicircolare, interrotto da diverse bifore che conferiscono luce ed eleganza. Dall’affaccio di queste aperture si apprezza un incomparabile panorama sul lago e sul territorio circostante. La solenne scalinata che conduce dal prato al protiro è postuma: fu infatti realizzata solo nel XVI secolo. Questo atrio era un tempo chiuso, senza scalone, ed è disposto su due livelli: quello inferiore è relativo alla cripta.

Dobbiamo ricordare che durante la presenza dell’arcivescovo di Milano Arnolfo III (che proprio qui a San Pietro morì nel 1097 e fu sepolto), avvennero i mutamenti nelle strutture dell’edificio: venne costruita l’abside a oriente, venne sistemata quella a occidente e venne realizzato appunto l’ambulacro esterno. La navata è unica e sotto di essa c’è la cripta, cui si accede tramite una scala sul lato destro per chi entra, circa a metà dell’edificio.

Grazie ad uno studio del prof. Adriano Gaspani[1] apprendiamo che dal punto di vista archeoastronomico la chiesa di San Pietro rispetta le norme in vigore durante l’ XI secolo d.C. L’asse dell’edificio risulta chiaramente equinoziale, cioè diretto con molta precisione verso il punto di levata del Sole all’orizzonte naturale locale rappresentato dal profilo dei monti nella direzione Est astronomica. Il Sole era quindi visto sorgere lungo l’asse della chiesa nei giorni 17 marzo (equinozio di primavera) e 20 settembre (equinozio d’autunno) del calendario giuliano. Tali date erano esatte all’epoca dell’edificazione ma poiché lo spostamento del punto di levata del sole nei secoli è lento, la levata del sole equinoziale è osservabile ancora oggi lungo l’asse della chiesa.

L’Oratorio di San Benedetto è un edificio dalla forma cruciforme smussata composto da tre absidi semicircolari[2] e un vano rettangolare posto a occidente nel quale si apre una delle due porte d’ingresso, quella principale; l’altra entrata è posta sul lato meridionale. L’asse dell’edificio è molto ben orientato verso il punto delle levata solare equinoziale all’orizzonte naturale locale rappresentato dal profilo delle montagne poste sullo sfondo.

Notiamo che sui frontespizio delle pareti est ed ovest si trovano due finestrelle in forma di croce; qual’era la loro funzione? Secondo A. Gaspani (op. cit.) era eliotropa, ossia quella di catturare i raggi solari all’alba e al tramonto agli Equinozi.

Vediamo la disposizione delle aperture nell’edificio: sul lato Nord vi è una monofora, sul lato sud due monofore e sul lato est (abside principale) tre monofore. Queste collocazioni non furono operate certo a caso dal costruttore ma con l’intenzione di catturare la maggior quantità di luce possibile, in base all’apparente cammino del Sole durante il giorno, che disegna un semiarco diurno. Il prof. Gaspani, che condusse l’indagine sugli orientamenti, ha stabilito che nell’Oratorio sono codificate numerose direzioni astronomicamente significative.

L’abside orientale, esternamente Le tre monofore viste dall’interno

La monofora centrale presente sull’abside centrale faceva entrare il raggio del sole nascente il giorno dell’Equinozio (14 marzo – 17 settembre) ma attraverso la monofora sinistra (diretta a N-E), entravano i raggi del sole che sorgeva all’alba del giorno del Solstizio estivo che, durante l’ XI secolo, cadeva il 16 giugno. Studi ottocenteschi (Barelli) hanno appurato che la monofora centrale era stata chiusa per far probabilmente posto ad un affresco rappresentante la crocifissione, realizzato fra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600 su indicazione prima di Carlo Borromeo e quindi del cugino Federico Borromeo, arcivescovi di Milano. Barelli volle riaprire la monofora ma così facendo distrusse quasi per intero l’affresco.

L’abside di meridione presenta due monofore; da quella che guarda a S-O entravano i raggi solari al tramonto del Solstizio d’inverno (15 dicembre).

E la monofora destra dell’abside centrale e quella sinistra dell’abside meridionale?

Il Prof. Gaspani ha rilevato che entrambe sono caratterizzate da un asse praticamente parallelo che concorda molto bene con il sorgere della Luna al lunistizio intermedio inferiore, quando la sua declinazione assume valori pari a –e+i (ponendo e= angolo di obliquità dell’eclittica ed i= inclinazione dell’orbita lunare rispetto a quella terrestre). Gli allineamenti lunari sono rari in una chiesa cristiana.

A occidente, il portale permetteva l’ingresso dei raggi solari al tramonto del giorno dell’Equinozio.

Risulta con una certa chiarezza quanta cura ebbero i costruttori di assicurare a questo piccolo edificio la maggiore insolazione possibile.

Ma perché? Qual’era la funzione di quello che è definito Oratorio Benedettino?

E’ una domanda interessante, tenendo conto che la sua pianta è, quanto meno, assai insolita. Gli studiosi ritengono che qui i monaci venissero a meditare, forse a studiare o praticare lavori di qualche tipo (essendo riscaldato dalla luce naturale del sole) oppure che venisse usato come “cappella hiemalis” (invernale), in sostituzione alla cripta sotto San Pietro, sicuramente più fredda. Ma il ritrovamento di sepolture attorno all’oratorio stesso ha fatto supporre che vi fosse il cimitero dei monaci: in tal senso l’edificio avrebbe svolto la funzione (anche) di cappella funeraria.

Le due finestrelle a forma di croce del lato ovest (viste dall’interno)

Crediamo che chi commissionò gli affreschi e le sculture originali del complesso di San Pietro abbia voluto inserire qualcosa di più nel codice astronomico, o unitamente a quello. La lettura delle iconografie che ancora oggi si possono ammirare va, secondo noi, condotta non al mero livello didascalico o liturgico, ma esoterico, ovvero nascosto dietro la parabola, l’allegoria, la metafora, il racconto biblico ed evangelico[3]. Cercheremo quindi di considerarli con “altri occhi” seppure la loro adeguata interpretazione ermetica esuli da questo semplice lavoro, e la complessità di tale operazione esigerebbe una trattazione approfondita.

Simbolismi nell’Oratorio di San Benedetto

Nell’Oratorio di San Benedetto non è rimasto praticamente nulla né come opere scultoree né pittoriche, eccetto qualche residuo. Esternamente lo stile ci pare di poter dire che è quello dei Maestri Comacini, e va sottolineata la singolarità della pianta, non unica ma rara. Sopra gli archetti sottogronda, nelle absidi (a nord, est e ovest, ma non a sud) si notano degli elementi disposti “a dente di drago”. Come abbiamo già detto sopra, inoltre, i costruttori inserirono un codice luminoso preciso, collocando le monofore con sapiente abilità.

Non sappiamo se un tempo, internamente, l’edificio fosse arredato; abbiamo notato una piccola acquasantiera che presenta, sul fondo del bacile, una bellissima croce “patente”:

I ricercatori non hanno trovato tracce di decorazione pittorica sulle pareti, che risultavano intonacate; nell’abside est si vede ancora l’affresco –mutilo- della Crocifissione, che venne eseguito nel XVI secolo dopo che era stata ordinata la chiusura della monofora centrale (poi riaperta a fine XIX secolo) da parte del Borromeo.

Un elemento importante ci è pervenuto, però: il piccolo altare quadrato (che ci ha ricordato quelli di matrice bizantina) che presenta, su tre lati del piedistallo, tre opere ad affresco, risalenti verosimilmente sempre all’ XI secolo, sotto la gestione dell’arcivescovo milanese Arnolfo III. Ad una matrice orientale/bizantina sembra risalire anche la scena della faccia centrale dell’altare: una deesis, cioè la rappresentazione di un Cristo risorto, che con la mano sinistra regge il Libro della Parola (aperto).

Il suo volto è mancante: al suo posto c’è una chiazza chiara e la tradizione vuole che i colori siano scomparsi a causa dei continui “sfregamenti” delle mani dei fedeli su quel sacro volto. Anche gli occhi dei due illustrissimi personaggi dipinti accanto a Gesù (Sua Madre Maria e San Giovanni Battista, riconoscibile dalla barba, in quanto l’Evangelista è raffigurato sempre imberbe) sono compromessi. Ricorderemo la leggenda della fondazione di questo complesso, ed è probabile che qui arrivassero pellegrini e devoti che cercavano protezione o guarigione a problemi oculari. Ma a livello simbolico “riacquistare la vista” (come nella tradizione accadde al figlio del re Desiderio) significa “iniziarsi” ai misteri divini, prendere consapevolezza, discernere, illuminarsi. E’ il primo passo verso l’Adeptato.

Sul lato destro fu dipinto un monaco dalla caratteristica “tonsura” ( capelli rasati circolarmente al centro), e infatti questa figura è identificata come San Benedetto, cui l’Oratorio è intitolato (prima che a lui, pare che l’edificio fosse dedicato a San Giovanni Battista).

A sinistra troviamo Sant’Andrea: perché, tra tanti santi, troviamo proprio lui? Un’interpretazione è che egli è il terzo santo delle litanie funebri (dopo San Pietro e San Paolo), e potrebbe ricollegarsi all’uso dell’oratorio come Cappella funeraria. Ma il santo qui effigiato regge un cartiglio in cui è ben visibile la X, che notoriamente è il simbolo del suo martirio (sarebbe stato crocifisso su due pali incrociati, appunto formanti una X). Tuttavia nella Scienza Ermetica, che fa largo impiego di un linguaggio sotteso (“la lingua degli uccelli”), la X è il geroglifico della luce manifestata, indicata dalla lettera greca X=khi, iniziale – scrive Fulcanelli – delle parole χωνευτήριο, χρυσός e χρόνος cioè crogiolo, oro e tempo, triplice incognita della Grande Opera. Fulcanelli suggerisce una fine associazione con la vista umana, che ci sembra pertinente citare: “Il simbolo della luce si ritrova nell’organo visivo dell’uomo, finestra dell’anima, aperta sulla natura. Sta all’incrocio ad X delle benderelle ottiche e dei nervi ottici, che gli anatomisti chiamano chiasma (dal greco χίασμα)[…]”. La X è, nell’Arte Ermetica, la scintilla, il segno dell’illuminazione della Rivelazione Spirituale; è il sale ammoniaco dei saggi perché realizza l’armonia, l’accordo tra l’acqua e il fuoco, è il mediatore per eccellenza tra il cielo e la terra, lo spirito e il corpo, il volatile e il fisso. E’ il sigillo o segno che rivela l’uomo le virtù intrinseche della prima sostanza filosofale, è paragonabile alla chiave di San Pietro… Rimandiamo il lettore interessato all’ampia trattazione che Fulcanelli dedica al simbolo della X in alchimia[4] (per quanti non lo conoscono, susciterà certamente stupore e meraviglia, se si cercherà di penetrarne il senso appropriato che egli ha cercato di rivelare, pur mantenendo il necessario mistero).

S. Andrea, sul lato sinistro dell’altare e il dettaglio del cartiglio che regge, con la X

Notiamo, inoltre, che il santo è rivestito di rosso e tiene con la mano destra una lunga croce.

Simboli a carattere ermetico nella basilica di San Pietro

Abbiamo già avuto modo di accennare al fatto che appena approdati sul pianoro in cui sorge il complesso cultuale, sparisce ogni fatica dovuta alla fatica della salita (definita “prostrante” in alcuni testi). Miracoli del luogo!? Il primo a vedersi è l’incantevole sagoma dell’oratorio benedettino che già rapisce i sensi ma girando lo sguardo a sinistra si ammutolisce completamente perché è impossibile non restare a bocca aperta scorgendo l’imponente, originale e armoniosa mole del San Pietro. L’attuale scalone fu realizzato nel 1500 e si integra comunque bene nell’architettura. Una colonna di pietra su cui è stata issata una croce di ferro è situata tra i due templi.

Intorno è una sinfonia di colori che la natura prodiga ai visitatori; basterà predisporre l’animo per far sì che ciascuno si percepisca poi in un’unica Luce che si concentra tutta nell’edificio, dove gli Elementi paiono fondersi e trasmutarsi in un inno al divino.

La basilica di San Pietro e l’Oratorio Benedettino visti da sud

Approfittando dell’orario di sosta (tra le 12.30 e le 13.30), in cui non c’è anima viva, abbiamo aggirato la chiesa: sul lato sud troviamo tracce di muri perimetrali, che poi verremo a sapere essere appartenuti a delle stalle o magazzini. Gli edifici del monastero dovevano essere infatti sul lato opposto, a settentrione, dove tutt’ora esiste un’ala abitativa: la parte superiore fu però realizzata a metà del secolo scorso mentre quella inferiore potrebbe risalire- in alcune parti- al periodo medievale. Portandosi ad occidente, si osserverà bene l’abside, che non presenta aperture. Il lato nord è poco indagabile a causa della scarpata.

L’abside della basilica situata a occidente

Il grande ambulatorio finestrato che caratterizza l’edificio permette, al piano inferiore, di vedere che è stato impiegato come deposito di attrezzi. Forse qui esisteva un ingresso per la cripta, in antico. Salendo lo scalone si arriva invece al piano superiore, a livello della chiesa.

Resti murari sul lato sud dell’edificio Deposito di attrezzi

E’ bellissimo soffermarsi a godere il panorama sul pittoresco lago di Annone, offerto dalle bifore, che hanno una caratteristica colonnina centrale: si mira e rimira senza desiderio di muoversi, come estasiati. E’ bene comunque fare caso a tutti i dettagli che la muratura dell’edificio può ancora offrire; tracce di affreschi sono ancora visibili sugli archi. Sulla destra si apre un cancelletto che introduce nei locali del vecchio monastero, che sarà possibile vedere durante la visita. In questo atrio è affissa al muro la lapide che attesta che Paolo Diacono soggiornò qui.
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Il portale d’ingresso si trova tre gradini sopra il piano di calpestio dell’ambulacro; nella lunetta sovrastante è dipinta la Traditio legis et clavis, figurazione pittorica della dedicatio della basilica: San Pietro e San Paolo ricevono da Cristo rispettivamente le chiavi, simbolo del potere della Chiesa, ed il libro della parola di verità, il Vangelo. I due apostoli non hanno le mani nude ma velate da dei drappi. Un particolare interessante: le figurazioni dei santi e di parte del Cristo sono in affresco; ma un tempo la testa del Cristo era in stucco, materiale che è poi caduto nel corso del tempo probabilmente per l’umidità e rifatto, male, in affresco; Cristo non è raffigurato per intero ma la parte inferiore del suo corpo continua nella porta stessa: il pellegrino che varca questa porta entra a far parte del corpo di Cristo, che è la Chiesa. A noi questa raffigurazione fa riandare il pensiero ad un significato sotteso, ermetico, non espresso letteralmente: Cristo (lapis, la Pietra dei Filosofi, l’Oro alchemico) è in questo tempio, che è alchimia pura. All’interno, gli affreschi raccontano – in un linguaggio dottrinale e didascalico –i passaggi per la realizzazione del’immortalità dell’Anima, della trasmutazione della materia grezza in spirito divino.

Appena il portone si apre, la percezione sensoriale subisce un lieve sussulto: è come se si cominciasse a vibrare in una dimensione ovattata, indescrivibile. C’è l’alto ciborio, sullo sfondo disegnato dall’abside occidentale, che ricorda molto quello presente nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano (anche se là vi è più ricchezza nei materiali impiegati). Ma è doveroso “iniziarci” alle lettura di quanto sculture e affreschi del corridoio d’ingresso e delle cappelline laterali presentano.

Va ricordato che in origine non si entrava da qui e quelle che noi andremo a visitare e chiamiamo “cappelle” appartenevano ad un luogo privilegiato riservati ai nobili, per questo era chiamata Cappella Regale Da essa i membri della famiglia imperiali, i messi ed i funzionari dell’imperatore assistevano alle cerimonie liturgiche della basilica. Da essa pure, questi personaggi potevano ammirare l’interno di tutta la basilica.

Interessante raffigurazione la notiamo girandoci verso la lunetta che sovrasta il portale d’ingresso dall’interno: Abramo, inteso come Padre dell’umanità, ha tra le braccia tre piccoli personaggi che simboleggerebbero il suo popolo nella fede; questa scena aveva valore dottrinale-teologico inteso a rassicurare i pellegrini che uscivano dal tempio, che si potevano riconoscere stretti nell’abbraccio del Patriarca biblico. In realtà potrebbe avere un significato meno scontato. La parola latina Abraham ha una forte attinenza con Brahma della Trimurti induista (il Creatore), ed è assmilabile all’inconoscibile essenza delle Cose, spirito corporificato in esse, esercitante la sua efficacia sia presso gli animali sia presso i vegetali e all’interno dei corpi minerali metallici (E. Danese “La Vita, la Grande Opera”, p. 84, Italia Editrice).

Quattro eleganti colonne tortili delimitano lo spazio: tre hanno la decorazione ad andamento destrorso e una sinistrorso. Sicuramente avrà un senso anche questo. Raccordano le colonne degli splendidi plutei simbolici: a destra è raffigurato un grifone e a sinistra una chimera.

La Chimera scolpita nel pluteo tra le colonne d’ingresso, a sinistra entrando

Il grifone è un mostro mitologico dalla testa e petto d’ aquila (forza dell’aria e volatile) e il resto del corpo di leone (forza terrestre e fissa): è il simbolo ermetico delle qualità contrarie che devono indispensabilmente congiungersi nella materia filosofale. E’ la prima congiunzione che avviene poco per volta mano a mano si procede sulla strada faticosa della Grande Opera, questa fase viene chiamata aquile. Abbiamo già spiegato questi concetti nella sezione il Linguaggio dell’Alchimia. Nell’espressione alchemica “far volare l’aquila” si rintraccia la capacità acquista di far uscire la luce dalla tomba e portarla in superficie, caratteristica di una vera sublimazione. Questo primo stadio della perfezione, ci informa Fulcanelli, lo può apprendere soltanto chi è dotato di un’intelligenza industriosa e abile e senza un gran lavoro non si avrà vittoria di riuscita. “[…] Per perfezionare la nostra opera c’è bisogno di non meno di sette aquile, e se ne dovrebbero usare almeno nove. Il nostro Mercurio filosofico è l’uccello di Ermes, che viene chiamato anche Oca o Cigno e talvolta anche Fagiano”[5]. Occupiamoci ora della chimera: è la mitologia che ci ha tramandato il suo aspetto descrivendola come un animale a tre teste diverse su di un corpo di leone che finiva con una coda di serpente; una testa appartiene al leone, una a quella di una capra e la terza di un drago. Due parti risultano preponderanti, quelle del leone e del drago perché nella composizione portano l’una la testa e il corpo, l’altra la testa e la coda. “Analizzando il simbolo secondo l’ordine delle successive acquisizioni, il primo posto spetta al drago, che si confonde sempre con il serpente […]. “Si tratta della nostra materia iniziale- spiega Fulcanelli – cioè proprio del soggetto dell’arte, considerato nel suo stadio primitivo e nello stadio nel quale ci è fornito dalla natura […]. Dal contatto prolungato zolfo-leone con il sovente-drago nasce un nuovo essere rappresentato simbolicamente dalla capra o, se si preferisce, dalla Chimera stessa. La parola greca Chimera (χίμαιρα) significa anche giovane capra khi-méter, “madre della luce”), che altri non è che il mercurio filosofico, nato dall’alleanza dei principi zolfo e mercurio e che possiede tutte le facoltà richieste per diventare il famoso ariete dal vello d’oro, il nostro Elisir e la nostra pietra”[6]. Chi l’avrebbe mai immaginato, diranno molti lettori, che dietro la Chimera si celasse tutto l’ordinamento del lavoro ermetico e tutta la Filosofia alchemica? Nell’interpretazione classica cristiana il grifone e la chimera simboleggiano il male che fugge dalla chiesa, intesa come bene.

Nell’Arte Ermetica è assai difficile dare un significato a ciascun dettaglio (ci vorrebbe un Maestro per fare questo), tuttavia ci sembra doveroso sforzarci per andare oltre l’interpretazione letterale e portarci nella sfera simbolica che entra nella profondità del “senso” iconografico che ci è stato tramandato.

A destra del piccolo corridoio d’accesso troviamo la figura di San Marcello (papa), che la tradizione medievale ricorda per aver accolto nella Chiesa i fedeli scismatici. A sinistra c’è San Gregorio Magno (papa), frate benedettino prima di salire al soglio pontificio. Entrambi sono raffigurati mentre accolgono i penitenti nell’edificio e, da sottolineare, è la presenza nel registro inferiore di ambedue le scene, di un grosso pesce immerso nell’acqua. Se è vero che fin dalle origini del Cristianesimo il pesce è stato usato per indicare Cristo (dal greco antico ἰχϑύς traslitterato in seguito nel latino ichthýs), ci sembra assai pertinente aggiungere che è proprio questo pesce ermetico il protagonista principale, lo zolfo prezioso, il piccolo Re (delfino o remora). I due santi sormontano un piedistallo che ricorda una pietra cubica. Fulcanelli scrive che San Marcello è l’equivalente, nel simbolismo ermetico, di San Giorgio e di San Michele che trafiggono il drago ermetico, copie cristiane di Perseo che, a cavallo di Pegaso, uccide il mostro che sorveglia Andromeda, o Cadmo che trafigge il serpente contro una quercia, di Apollo che uccide con le sue frecce il serpente Pitone, di Giasone che uccide il drago della Colchide, di Horus che combatte Tifone del mito di Osiride, di Ercole che taglia la testa all’Idra e ancora di Perseo che taglia quella della Gorgone. E’ in questo “mostro” (drago che sia) che si nasconde la luce, l’oro immortale. L’agente segreto deve saperlo tirare fuori da questa “materia vile, grezza, solfurea” che si cela sotto le sembianze dell’allegoria ermetica, dove si nasconde il combattimento singolare dei corpi chimici la cui combinazione produce il solvente segreto (e il vaso dell’amalgama). San Marcello e San Gregorio non fecero altro, del resto, che continuare l’opera di San Pietro e di San Paolo…

I due papi santi che abbiamo unito, idealmente, nella foto (ma si trovano uno a destra e l’altro a sinistra dell’ingresso); nel registro inferiore, il pesce

Sulla prima volta a crociera troviamo Cristo al centro di una città ideale: la Gerusalemme Celeste, illustrata secondo la descrizione dell’Apocalisse (21, 9-22,5) rivisitata in epoca medievale: una città quadrata con tre porte su ciascun lato (in totale 12 porte dalle quali emergono altrettanti volti), e fondata sulle pietre preziose di cui si leggono le iniziali. Cristo, al centro, è accompagnato dall’agnello ai suoi piedi, mentre lateralmente vi sono gli alberi della Vita. Dai piedi di Gesù sgorga un rigagnolo di acqua che si divide poi in quattro ruscelli che scorrono verso l’interno della basilica. Gesù è in posizione seduta (su un supporto sferico, allusione al mondo), la posa ieratica, con il nimbo intorno al capo (decorato con losanghe contornate da quattro piccoli cerchi); è un uomo barbuto, vestito di rosso; con la mano sinistra regge un libro aperto mentre la destra stringe una lunga asta per la misura della Città Celeste. Ai quattro angoli stanno i nomi delle Quattro Virtù Cardinali: Prudenza, Giustizia, Forza, Temperanza (che secondo la dottrina Scolastica del Medioevo si associavano ai Quattro Elementi: Terra/Prudenza; Aria/Giustizia; Fuoco/Forza; Acqua/Temperanza. Per arrivare alla Gerusalemme Celeste, all’esaltazione dello Spirito Universale, l’illustrazione (ricordiamo eseguita nel medioevo dell’XI secolo) suggeriva di seguire una via trascendente.

Il libro aperto indica la Verità rivelata, essoterica. Ma i Filosofi insegnano che il libro aperto indica la soluzione radicale del corpo metallico che, avendo abbandonato le proprie impurità e ceduto il proprio zolfo, è detto aperto. Fulcanelli si spinge a dire che sotto il nome di liber e sotto l’immagine del libro è celata la “materia che detiene il solvente”, e i saggi hanno inteso rappresentarla come un libro chiuso o sigillato, simbolo generale di tutti i corpi grezzi, minerali o metalli, così come forniti dalla natura. Sottoposti al lavoro ermetico, modificati con l’applicazione dei procedimenti occulti, questi “corpi grezzi o libri chiusi” si esprimono iconograficamente con un libro aperto. Nella pratica è pertanto necessario estrarre il mercurio dal libro chiuso (soggetto primitivo) per averlo vivente e aperto se vogliamo che, a sua volta, sia in grado di aprire il metallo e rendere vivo lo zolfo inerte in esso racchiuso. L’apertura del primo libro prepara quella del secondo; perché nascosti sotto lo stesso emblema ci sono due libri chiusi (il soggetto grezzo e il metallo) e due libri aperti (lo zolfo e il mercurio), benché questi libri geroglifici ne formino in realtà uno soltanto perché il metallo proviene dalla materia iniziale e lo zolfo trae origine dal mercurio[7].

Qui sitit veniat (Chi ha sete venga), dall’Apocalisse (22,6-20)

La rappresentazione della volta seguente mostra quattro personaggi che stanno rovesciando dell’acqua da quattro grandi otri; quest’acqua origina i quattro fiumi del Paradiso Terrestre (Geon, Pison, Tigri, Eufrate), simboleggiando l’unione del Cielo con la Terra. Centralmente spicca il cerchio che racchiude il Chrismon, o Chi-Rho (XP), dalle prime due lettere del nome greco di Cristo (ΧΡΙΣΤΟΣ), che qui risultano affiancate dalla prima e dall’ultima lettera dell’alfabeto greco, alfa (άλφα) e omega (ωμέγα), l’inizio e la fine dei Tempi. In realtà questa scena è molto bella e sarebbe degna di essere approfondita; gli otri somigliano a dei matracci alchemici, vasi ermetici dispensatori di segrete virtù.

Dirigendosi subito a destra dell’ingresso (a sinistra se si sta uscendo), superate le colonne tortili, si accede alla Cappella dei Santi, così definita perché sono state dipinte trilogie di santi nell’absidiola. Trilogie perché, curiosamente, i personaggi sono stati raffigurati tre a tre e risultano ripartiti in sette categorie: quelle dei patriarchi, dei profeti, degli apostoli e quelle degli evangelisti, dei martiri, dei pontefici e degli anacoreti. Il loro studio richiederebbe di soffermarsi in loco un tempo sufficientemente lungo. Cristo all’interno della Mandorla mistica dipinta con quattro colori (tradizionalmente associati alle fasi dell’Opera); è raffigurato come un Uomo barbuto, con il nimbo (decorato similmente al Cristo al centro della Gerusalemme Celeste vista poc’anzi). La mano sinistra regge qui un Libro chiuso. La mano destra è in atto benedicente (con medio e mignolo che toccano il pollice, alla “bizantina”). Due figure, ufficialmente classificate come angeli, stanno ai lati della mandorla mistica, che poi ha più una forma a corone concentriche che a vescica di pesce. Alla luce di questa considerazione, I due personaggi ai lati non sembrano limitarsi a sostenere i dischi circolari entro cui c’è Cristo assiso ma paiono imprimere un movimento alla “ruota solare” (così potrebbe essere inquadrata), di cui Cristo stesso è centro e perno.

Absidiola/Cappella dei Santi

Dettaglio di uno degli angeli

A sinistra dell’ingresso si trova invece la Cappella degli Angeli, cosiddetta perché presenta raffigurazioni di angeli tre a tre e ripartiti in sette schiere o categorie angeliche: angeli, arcangeli, principati, potestà, virtù, dominazioni, troni. L’insieme presenta una straordinaria e singolare composizione pittorica parietale (purtroppo attualmente inaccessibile per lavori ma gli affreschi si possono comunque vedere abbastanza bene). Si svolge un tema relativo all’Apocalisse: sulla parete e nelle vele triangolari i sette angeli dell’Apocalisse, con trombe d’argento, chiamano i vivi ed i morti al Giudizio Universale. Nel catino absidale c’è Cristo similmente ritratto come nella Cappella dei Santi, all’interno della Mandorla mistica dipinta con quattro colori (anche in questo caso, la forma di vescica piscis non è apparezzabile, mentre si è più propensi a considerare la circolarità dei quattro elementi, con il fuoco solare centrale, o quintessenza). Cristo è raffigurato come un Uomo barbuto, con il nimbo, lavorato in modo identico a quello della Cappella dei Santi. La mano sinistra regge un Libro chiuso e la destra è in atto benedicente (con medio e mignolo che toccano il pollice). Si nota un capo d’abbigliamento alquanto anomalo, sotto il manto (quest’ultimo portato da un lato fino all’addome e dall’altro lato appena sopra la spalla): infatti il collo ne viene fasciato. Molto interessanti altre due categorie angeliche (cherubini e serafini con sei ali) che reggono la Mandorla mistica (o la ruota solare?). Hanno il corpo ricoperto di piume e vi sono delle ruote di fuoco ai loro piedi. Questi angeli, tra stelle, hanno un occhio aperto nella mano e altri occhi sono sparsi sulle loro piume, sia sul corpo che sulle ali. Questo trae ispirazione dalla visione profetica di Giovanni nel Libro della Rivelazione o Apocalisse, dove questi esseri sono chiamati “viventi” e assumono caratteristiche del tetramorfo (solo in seguito associato ai quattro evangelisti): “I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere […]” (Ap. 2,7).

In totale si contano nove schiere angeliche[8]. La raffigurazione, in parallelo, indica al Filosofo che la sua materia, raffinata sette volte (calcinata) ha raggiunto uno stato di purezza pressochè totale, una brillantezza degna dell’Elisir bianco, della rigenerazione (il nostro Re morto è resuscitato). Fulcanelli insegna che “tutti i nostri lavaggi sono ignei, tutte le nostre purificazioni sono fatte nel fuoco, dal fuoco e con il fuoco”.

L’affresco più scenografico è quello situato sopra il timpano che chiude l’ingresso e le cappelle, ed è ben visibile al fedele che si appresta ad uscire dalla basilica; probabilmente va letto unitamente alla cornice in stucco, nel centro della quale c’è l’agnello di Dio, e forse anche con la presenza dei due oculi circolari laterali, mentre superiormente una finestrella in forma di croce sintetizza e riconduce la nostra Opera nel suo “contenitore originario”, il crogiolo. Nulla può accadere se non c’è il “donum dei”, il Dono di Dio e l’Alchimista lo sa bene. Il tema dell’affresco è il versetto XII del Libro dell’Apocalisse (Visione della donna e del drago): “[1]Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. [2]Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto. [3]Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; [4]la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna che stava per partorire per divorare il bambino appena nato. [5]Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono. [6]La donna invece fuggì nel deserto, ove Dio le aveva preparato un rifugio perché vi fosse nutrita per milleduecentosessanta giorni. [7]Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, [8]ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. [9]Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. [10]Allora udii una gran voce nel cielo che diceva:

“Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo,
poiché è stato precipitato
l’accusatore dei nostri fratelli,
colui che li accusava davanti al nostro Dio
giorno e notte.
[11]Ma essi lo hanno vinto
per mezzo del sangue dell’Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio;
poiché hanno disprezzato la vita
fino a morire.
[12]Esultate, dunque, o cieli,
e voi che abitate in essi.
Ma guai a voi, terra e mare,
perché il diavolo è precipitato sopra di voi
pieno di grande furore,
sapendo che gli resta poco tempo”.

[13]Or quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. [14]Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. [15]Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. [16]Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca.

[17]Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù.

[18]E si fermò sulla spiaggia del mare.

Sotto le spoglie del drago si nasconde, nel linguaggio degli Alchimisti, la materia minerale grezza, e la sua importanza è cruciale, così come è importante osservarne con cura i segni esteriori e le qualità capaci di permetterne l’identificazione, facendo riconoscere e distinguere il soggetto ermetico tra i tanti minerali che la natura mette a disposizione. Questo soggetto ermetico è volatile, cosa che è tradotta dalle ali membranose che equipaggiano il drago: egli infatti è l’unico dispensatore dei frutti ermetici, né è il depositario, il vigilante conservatore. E’ lui che nasconde e imprigiona l’aurifico mercurio che, sciolto in sale e zolfo, diventa l’umido radicale dei metalli ed il loro sperma animato. Questa prigione è tanto robusta che la natura stessa non riuscirebbe a farlo uscire, se l’arte industriosa non ne facilitasse i modi, constata Fulcanelli. Ovvero solo gli Adepti conoscono il procedimento per farlo. All’interno del mostro, che racchiude i due principi della Filosofia (l’elemento fisso maschile, solfureo e quello volatile, femminile, mercuriale) è nascosta la bianca principessa, simboleggiata dalla Vergine Maria nel cristianesimo. Questa pietra bianca e lucente dovrà essere estratta o liberata dal drago solfureo mediante l’azione dello zolfo, simboleggiato dal cavaliere armato di lancia, di volta in volta Longino, Cadmo, San Marcello, San Giorgio o San Michele che, trafiggendo il mostro, consentirà allo spirito di salire in superficie. La presenza nella scena del Sole e della Luna sono i geroglifici dei due principi d’origine mercuriale e solfurea che, tramite il fuoco continuo, sono destinati a diventare quintessenza. L’unione delle due opposte nature verrà benedetta dalla nascita di un figlio, una creatura divina che l’allegoria alchemica ha collegato al Bambino divino cristiano: Gesù, che nasce ad opera dello Spirito Santo, fecondatore celeste rappresentato generalmente da una colomba bianca dalle ali aperte (croce=crogiolo). Ecco dunque a sinistra la Vergine (mercuriale) che diventa virgo paritura senza perdere la sua purezza, partorisce il bambino divino o rebis, sostanza spirituale e materiale, minuscolo ma potentissimo, incorporato nel sale o vetriolo o smeraldo dei saggi. Si noti che nella scena il “Bambino” ha una mucolatura da adulto, porta già i capelli folti e dagli occhi sembra fuoriuscire un fluido spirituale diretto al drago. E’ piccolo ma ha in sè, insomma, tutta la sua potenza.

Nella scena superiore il “piccolo bambino” viene introdotto nella Mandorla mistica e si rivela Cristo Vincitore (la Pietra Filosofale), seduto in maestà sul trono; nella mano sinistra tiene stretta una pergamena su cui è visibile una legatura a X; la destra è alzata e aperta. Attualmente il volto di Cristo è mancante e i restauri hanno sbiancato quello che un tempo, da immagini trovate su testi d’arte, era nero: giudicate voi cosa si vedeva (a noi sembra che sotto lo strato nero si intravveda un teschio. C’era forse sotto un precedente affresco?). Non si capisce come mai –tra tutte le figure- proprio quella del Cristo manchi; ricorderemo come anche sull’altare nell’Oratorio benedettino il volto del Cristo sia scomparso. In quel caso, lo ricordiamo, la cosa è spiegata, ma nell’affresco che abbiamo appena analizzato è difficile imputare la mancanza del volto del Cristo allo sfregamento delle mani dei pellegrini (troppo in alto).

Dettaglio del volto dell’Uomo assiso in trono: prima del restauro (a sinistra) e dopo (a destra)

Dopo questa lunga sosta ad osservare i simbolici affreschi della prima parte della basilica, notiamo un bel dipinto sulla parete destra: raffigura San Pietro, con la tiara papale, che tiene una grande chiave doppia, che -riunita- sembr auna sola (una è color oro e l’altra argento, ne parleremo più avanti).

La navata della basilica è una sola, è un’aula di tipo romano con copertura a capriate lignee; poco o nulla resta sulla parete Sud, in materia di affreschi, poiché tra il XVI e il XVII secolo venne distrutta l’originaria decorazione. Sull’arco dell’ultima finestra (quella più prossima all’abside ovest) di questa parete meridionale abbiamo notato una croce dai bracci ricurvi.

Alla base del leggìo, a destra del ciborio (per chi guarda l’altare), è scolpita una croce sulla pietra, che è sicuramente uno dei pochi residui della chiesa originaria.

Diversi rimaneggiamenti hanno interessato la navata, che ne hanno compromesso l’integrità primitiva. Sull’abside centrale non si ritrova alcuna traccia di dipinti o decorazioni plastiche. Sopra la porticina settentrionale spicca un agnello e la parete Nord presenta alcuni grandi dipinti a soggetto votivo, eseguiti tra il XV e il XVIII secolo, sui quali non possiamo soffermarci. Mentre vale la pena di dare uno sguardo accurato ai tre plutei simbolici che fungono da parapetto della scala che conduce alla cripta, sia all’interno che esternamente al parapetto stesso. La decorazione della parte interna della scala è quasi del tutto scomparsa e risulta illeggibile, mentre ottimamente integri risultano i plutei che sono rivolti verso la navata.

La loro datazione è forse antecedente all’XI secolo, probabilmente sono di matrice longobarda e la lettura che se ne può fare è indubbiamente ermetica, complessa, perché non si tratta di una semplice decorazione ma di una sequenza iconografica dal significato filosofico che riporta allo spessore intellettuale dei monaci che risiedevano nel monastero in quel periodo. Monaci che sicuramente erano stati influenzati dall’arte del monachesimo irlandese itinerante o dai testi che gli amanuensi copiavano e traducevano pazientemente. L’uso dell’intreccio, caro ai longobardi, è ampiamente attestato su questi eloquenti capolavori plastici.

Nel primo troviamo una cornice di viticci e all’interno, nella parte inferiore e centralmente, c’è un calice rituale da cui emergono elementi vegetali, destinati a nutrire due animali ermetici: il grifone e il leone. Abbiamo già discusso precedentemente del significato assunto in alchimia dal grifone; il leone è qui raffigurato senza darci la possibilità di conoscere il suo colore. Generalmente il leone riveste il ruolo di elemento fisso, è il segno dell’oro, segno sia alchemico che naturale. Il calice allude al “calderone” o crogiolo della trasformazione spirituale, dove le due opposte nature devono ingaggiare il combattimento affinchè possa liberarsi lo spirito immortale, simboleggiato dalle foglie di vite (uno dei simboli di Cristo). Ci sembra che questo pluteo condensi la prima fase dell’Opera Alchemica.

Da questo combattimento, una testa deve cadere (metaforicamente è il fuoco o principio solfureo che si è installato nella terra) e nel pluteo seguente vediamo due giovani leoni che si cibano da questo “caput”: lo scopo della seconda fase dell’Opera è proprio quello di estrarre dalla terra rossa (derivata dal caput delle prima Opera), lo zolfo filosofico che costituiva infatti la virtù ignea del leone. Questo oro metallico (zolfo filosofico) deve salire in alto, verso la superficie (attraverso il bagno mercuriale), fondendosi così in un’unica sostanza, nobile e dalla doppia natura.

Il secondo, splendido motivo del parapetto della scala che conduce alla cripta

Il terzo pluteo mostra, quasi confuso nel “caos” vegetale, un serpente o drago che tiene nelle fauci una mela. E’ il pomo delle Esperidi, la mela d’oro custodita dal drago del Giardino Ermetico, il premio per chi ha proceduto rettamente, l’immortalità dell’Anima. Due draghetti alati e messi di profilo tengono nelle fauci un pesce ciascuno. L’intima unione delle due opposte nature, dopo una lunga ripetizione della stessa operazione, fa sì che il metallo morto resusciti e il piccolo pesce nasca, esso è anche la remora[9] degli alchimisti e molto realmente il Figlio dell’Uomo (Cristo era simboleggiato con un pesce nel cristianesimo primitivo, come abbiamo già discusso).

Scendendo nella cripta ci si addentrerà ulteriormente in un mondo in cui le percezioni sensoriali avranno il sopravvento, così deve essere: mettersi in comunicazione e in comunione con il sacro, siamo qui per questo. L’analisi delle sculture in stucco non rientra in questo lavoro, che diventerebbe eccessivamente lungo. Pochi lacerti di affreschi rimangono sulle pareti; l’ambiente è comunque meritevole di una visita accurata, anche perché a rigor di logica andrebbe iniziato proprio da qui un percorso coerente, dato che è il primitivo nucleo dell’edificio chiesastico e conserva la sapiente abilità di maestranze carolingio—ottoniane. Segnaliamo una Dormitio Virginis (abbastanza rara e non descritta nei Vangeli canonici), con l’Assunzione in Cielo della Vergine, e una crocifissione (al di sotto), particolare: si abbia cura di osservare il tronco d’albero usato per crocifiggere Gesù, pronto a ramificare.

Cripta di S. Pietro: veduta dell’absidiola e dell’altare

Tornando nella navata è il momento di vedere, con il giusto spirito, l’opera più rilevante della basilica: il ciborio. Rialzato di tre gradini, è un monumento sorretto da quattro colonne lisce (probabilmente di epoca seicentesca); nella parte inferiore è stata collocata (in epoca moderna) un’urna ritrovata in fase di scavo archeologico in un’altra zona del complesso e posta qui senza apparente intento specifico. Essa infatti non conterrebbe reliquie.

Il ciborio, superiormente, presenta quattro facce per ciascun punto cardinale e le iconografie vanno lette in senso antiorario; alcune parti sono in stucco altre sono dipinte. Il frontone (rivolto a est cioè alla navata) mostra il bassorilievo della Crocifissione di Gesù Cristo, con ai lati la Madonna e San Giovanni Evangelista. Ai lati della testa del Salvatore ci sono il Sole e la Luna. A livello ermetico già abbiamo parlato di questi due astri. Sulla croce, geroglifico del crogiolo alchemico, la materia si mortifica e spiritualizza. Sulla sommità del timpano si trova un volatile (alcuni studiosi la ritengono un’aquila, altri una colomba, cosa più probabile). Sul lato nord è rappresentata la Resurrezione o meglio, il sepolcro vuoto, custodito da due soldati addormentati, mentre l’angelo annuncia alle donne l’accaduto. Nel linguaggio ermetico l’oro filosofico attende di essere esaltato dalle successive operazioni. Nella scena del lato ovest Cristo è seduto in trono, ai suoi lati san Pietro e san Paolo che ricevono da Lui i simboli: Pietro le chiavi e Paolo il Libro chiuso (lo stesso motivo che abbiamo trovato nella lunetta all’esterno, sopra il portale d’ingresso). Fulcanelli sostiene che Pietro detiene le due chiavi incrociate della soluzione e della coagulazione (solve et coagula); è il simbolo della pietra volatile, resa fissa e densa dal fuoco, che la fa precipitare. Non per nulla, fa notare l’Adepto, San Pietro fu crocifisso a testa in giù…[10].

Sul lato sud Cristo-Pietra, agghindato regalmente, è nella Mandorla mistica sostenuta da due angeli; sotto i piedi sembra avere un grosso libro chiuso, un lembo della veste ricade sulla mano sinistra, che tiene un libro chiuso verticalmente, e la destra è in atteggiamento benedicente ma non è classicamente alzata bensì tenuta in laterale (questi particolari sono poco apprezzabili vista la posizione della raffigurazione, piuttosto elevata). I quattro simboli del Tetramorfo (dal greco τετράμορϕος “che ha quattro forme”, da τετρα- tetra- e μορφη,μορϕος -morfo cioè forma) concludono la parte superiore esterna del manufatto. Tale raffigurazione è di matrice orientale (bizantina) ed è associata ai Quattro animali dell’Apocalisse (leone, bue o toro, uomo alato, e aquila) cui i Padri delle Chiesa hanno correlato i quattro evangelisti: Marco/Leone; Luca/Toro; Matteo/uomo alato; Giovanni/aquila. Il tetramorfo, secondo San Gerolamo, sintetizza la totalità del mistero cristiano: l’uomo alato= Incarnazione; il bue= Passione; leone= Resurrezione; aquila = Ascensione.

Lato sud del Ciborio: Cristo in Gloria

Sotto la copertura del ciborio si presenta una scena per l’ennesima volta bellissima ed apocalittica: al centro l’agnello, sovrano, è contornato da diciotto figure di beati (così vengono identificati). Otto vestono di bianco e dieci hanno la veste bianca ma il mantello rosso. All’esterno della cerchia dei beati, corre un’iscrizione; nei quattro angoli si trovano altrettante figure angeliche che reggono con la mano destra il cerchio, mentre dalla sinistra emanano piume foggiate ad ali. E’ una visione celestiale, forse legata ancora alla Gerusalemme messianica riprodotta all’ingresso.

Crediamo di poter concludere che questo edificio è veramente una Grande Opera, un’autentica Dimora Filosofale, che ripetutamente ricorda al Fedele il percorso da compiere per ottenere la Salvezza dell’Anima.

[1] Gaspani, Adriano “Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine”, Priuli & Verlucca Editori, Quaderni di Cultura Alpina, in particolare vedasi le pp.65-66. Si ringrazia lo studioso per aver permesso l’inserimento delle tre immagini “archeoastronomiche”.

[2] Le due laterali sono definite attualmente come “due bracci semicircolari di un singolare transetto”, come riportato nella descrizione dell’Associazione Amici di San Pietro voce Oratorio di San Benedetto

[3] Ricorderemo che un frate dell’Ordine Benedettino fu un notissimo alchimista, Basilio Valentino, autore del Trattato Duodecim Claves Philosophiae (Le Dodici Chiavi della Filosofia), Minuit Ed.

[4] “Le Dimore Filosofali e il simbolismo ermetico nei suoi rapporti con l’arte sacra e l’esoterismo della Grande Opera”, III edizione, Edizioni Mediterranee, 2002, pp. 199-206 del I volume

[5] Fulcanelli “Il Mistero delle Cattedrali”, p.94, Edizioni Mediterranee, 2001

[6] Fulcanelli “Le Dimore Filosofali”, op.cit., vol. II, p.134-135

[7] Fulcanelli “Le Dimore Filosofali”, op. cit., vol. II, p.154-155

[8] Secondo la gerarchia degli angeli: https://it.wikipedia.org/wiki/Gerarchia_degli_angeli

[9] La remora era, mitologicamente, un pesce di dimensioni assai ridotte ma dalla forza erculea che, come un’ancora possente, era in grado di fermare anche le navi più grandi. Il prodotto alchemico di questo stadio, vero e proprio embrione della nostra pietra, è detto anche rebis (la cosa duplice), pulcino, pollo, isola di Delo e indicato anche con molti altri nomi fittizi.

[10] Vedasi anche il riferimento al gallo che canta tre volte in Fulcanelli “Il Mistero delle Cattedrali”, op. cit., p. 133

(Pubblicato nel mese di ottobre 2013 da duepassinelmistero)
Argomento: San Pietro Civate
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SOCIEA’ IN CUI VIVIAMO

SOCIEA’ IN CUI VIVIAMO

Società in cui vivono, percentuale che sale al 72% tra i giovani. È quanto emerge dalla ricerca del Censis ‘La tentazione del tralasciare’, presentata a Roma presso la Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, a 50 anni dal convegno su ‘I mali di Roma’ del febbraio ’74. Ci troviamo oggi di fronte a un paradosso, sottolinea una nota, siamo una società fortemente soggettivista, ma con soggetti deboli; molto individualista, ma con una scarsa forza di affermazione individuale; parecchio egoista, ma fatta di ego fragili. In un mondo in cui alla sovrabbondanza dei mezzi corrisponde un deficit di fini, è diffusa una forte dose di indifferenza, per cui vince l’attitudine al tralasciare: una sorta di peccato di omissione. A 50 anni dal convegno diocesano su ‘I mali di Roma’ del febbraio ’74, denuncia il Censis, è il soggettivismo indifferente il male di cui occuparsi oggi.
L’assenza di comunità: secondo la ricerca del Censis, quindi, al 66% degli italiani non piace la società in cui vivono (e la percentuale sale drammaticamente al 72% tra i giovani). Solo il 15% degli italiani sente di appartenere pienamente a una comunità (al di la’ della propria famiglia). Più della metà dei giovani non si sente parte di una comunità e di questi 3 su 4 non ne sentono neanche la mancanza. La percentuale di chi si riconosce pienamente in una comunità sale solo al 37% anche tra i cattolici praticanti. Lo scarso senso di appartenenza a una comunità si sposa con la sensazione di contare poco nell’ambiente in cui si vive: vale per il 48% degli italiani (il 60% dei giovani).
Dipendenti da tecnologia e Whatsapp, ma si torna a leggere. Le nostre abitudini viste dal Censis
Cresce la tv (ma solo quella via internet) e la radio (ma solo nella forma ibrida). Si consolida il “paradigma biomediatico”
Alla ricerca di un senso profondo della vita: la dimensione spirituale. Complessivamente, però, per il 72% degli italiani la sfera spirituale è “molto” o “abbastanza” importante. Il 56% si sente parte del cammino dell’umanità, il 55% si interroga sul senso profondo della vita, il 54% avverte la mancanza di qualcosa che i beni materiali non possono dare. Tuttavia, il 53% ritiene che il cammino interiore sia una esperienza soggettiva, da vivere individualmente, non in modo condiviso. E solo per il 19% una vita degna di essere vissuta è quella in cui si fa del bene agli altri. Resta però un 28% di persone che coltivano la loro spiritualità partecipando ai riti religiosi secondo la propria confessione.
Poco altruismo, molti rammarichi. Solo il 18% degli italiani ritiene di non avere nulla da rimproverarsi. Il 64% pensa invece di non avere messo a frutto adeguatamente i propri talenti (percentuale che sale al 70% nell’età di mezzo, tra i 45 e i 65 anni). Appena il 18% si rammarica di non avere fatto di più per gli altri. La parabola dei talenti fa riflettere più della parabola del buon samaritano. Poi pero’ il 64% prova sensi di colpa, soprattutto a causa del proprio egoismo.
“Dietro ogni momento di indifferenza tralasciante – ha detto Giuseppe De Rita, presidente del Censis, commentando i dati della ricerca – c’è una dinamica psichica che rinvia agli atteggiamenti soggettivi qui richiamati. Riprendere oggi il filo del ’74 significa approfondire non più i mali di Roma, ma il cruciale male del soggettivismo indifferente”. La ricerca oggi è stata discussa da De Rita e Laura Lega, capo dipartimento Libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno.

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TESTAMENTO FILIARE

Carissimo Gianluca,
Figlio e mai come in questo momento anche e soprattutto Fratello mio,
ti affido il compito di leggere queste poche righe durante la tornata funebre
che, conoscendo l’attuale M. V. ed il prossimo sono sicuro che vorranno e
vorrete riconoscermi.
Queste poche righe sanciscono il mio commiato da questa vita e dal
lungo viaggio comincialo tanti anni fa nella nostra Obbedienza.
L’Oriente Eterno è ormai prossimo, sento che il soffio vitale mi sta
pian piano abbandonando mi sarebbe piaciuto tanto festeggiare con te e
con i nostri meravigliosi fratelli il 70esimo anniversario della mia
appartenenza alla massoneria italiana purtroppo però sento che non ce la
farò, il GADU mi chiamerà prima … e mi dovrò accontentare di questi 69
anni e mezzo trascorsi in questa meravigliosa avventura …
Avventura che ebbe inizio il 1° giugno del 1946 quando un ufficiale
dell’esercito degli Stati Uniti, M. V. di una loggia del Massachusetts, portò
i rituali di quello che noi allora chiamavamo Grande Oriente Statunitense,
rituali che allora in Italia come in tutta Europa vennero aboliti e confiscati
dal regime fascista, ad un mio professore universitario, tale Gaetano
Altomare.
Egli scelse a sua volta 6 studenti universitari di 21 anni per dare vita
ad una loggia denominata “Freedom”, “Libertà” … credetemi fratelli miei,
mai termine fu cosi significativo in quel momento, cosi intriso della voglia
di tutti, noi in primis, di lasciarsi la guerra alle spalle e riassaporare la
libertà …
Ricordo ancora le notti insonni, piene di entusiasmo e i giorni
ridondanti di frenesia per la fretta di alzare le colonne, la sensazione di
entrare a far parte di un mondo libero ed universale …
Immaginate cosa poteva essere per dei ragazzi di 21 anni ancora scossi
dagli orrori della guerra!!!
Rammento anche, con estremo piacere e tantissima malinconia, due
particolarità nel rito di innalzamento delle colonne ed in quello di
iniziazione di un profano: al termine delle varie prove che il Fratello
Terribile (così si chiamava allora) sottoponeva al profano, prima che egli
venisse nominato massone a tutti gli effetti, al profano stesso veniva posto
sul capo un tricorno, simbolo dei patrioti delle guerre di indipendenza
americane e allo stesso tricorno veniva tagliata la punta perché ormai non
serviva più; la guerra era finita e la libertà aveva di nuovo vinto!!!
La seconda particolarità che voglio raccontarvi, ancora ricordo
indelebile nella mia memoria, è rappresentata dal gesto dell’ufficiale
americano al termine dell’innalzamento delle colonne … lo ricordo come
fosse ora: egli prese una banconota da un dollaro, ne fece 7 pezzi e ne
consegnò un pezzo a ciascuno di noi dicendoci “da soli non siete niente ma
assieme siete uno e siete tutto”… quello fu il mio primo insegnamento
massonico … e che insegnamento!!!
L’accondiscendenza e soprattutto la fiducia dei fratelli (cosa di cui
vado particolarmente fiero, del resto si sa che con la vecchiaia si diventa
vanitosi) ha fatto si che ricoprissi varie cariche sia nella mia Loggia che
fuori dalle sue colonne, Presidente del Tribunale Circoscrizionale per
molti anni, Consigliere dell’Ordine e soprattutto Giudice della Corte
Centrale (della prima sezione, quella che allora aveva pieni poteri di
processare direttamente qualsiasi Fratello ivi incluso il Gran Maestro
come poi in effetti accadde) nei primi anni 90.
Periodo molto intenso e travagliato quello dei primi anni 90, forse il
più travagliato della nostra storia, perlomeno di quella recente … tra
attacchi di esponenti politici (Cordova, etc.) smaniosi di farsi pubblicità
alle nostre spalle, P2 e tradimenti, anzi del grandissimo tradimento
interno.
Sin dai tempi della Presidenza di Tribunale Circoscrizionale per finire
all’appartenenza alla Corte Centrale ho avvertito di un’importanza
assoluta l’arduo compito di giudicare ed, in alcuni casi, condannare i miei
Fratelli di qualunque grado fossero e qualunque incarico ricoprissero.
Immaginerete quindi facilmente cosa volesse dire dover giudicare la nostra
guida, l’allora Gran Maestro, da notti insonni, credetemi!!!
Il metro di giudizio che ho sempre avuto è stata la tutela assoluta di
tutti gli altri fratelli, per cui se il sacrificio di uno poteva e doveva voler
dire la protezione e quindi la serenità di tutti gli altri, allora, seppur a
malincuore, si procedeva … proprio seguendo il suddetto criterio non ho e
cosi hanno fatto i Fratelli “colleghi”, avuto nessun dubbio o scrupolo nel
perseguire un’istanza di espulsione per quel, non mi va di chiamarlo
fratello perché non lo merita neppur lontanamente, quell’“essere” che,
appena decaduto dalla carica di Gran Maestro, per fini meramente
utilitaristici ed egoistici, tanto male ha fatto in Italia e soprattutto
all’estero per la nostra Istituzione.
Ma adesso basta parlare del sottoscritto, mi sono concesso un attimo di
vanità tipica come dicevo degli anziani, anzi, visto che ormai vado per i 91
anni, dei vecchi.
Questo lungo monologo è proprio finito … è il momento del commiato,
dicevo all’inizio, ma non può esserci commiato senza i doverosi
ringraziamenti ai miei fratelli.
Mi scuso sin d’ora se ne ometterò qualcuno ma alla mia età
l’arteriosclerosi la fa ormai da padrona.
Uno dei primi fratelli che mi vengono in mente, visto che lo conosco
dal 1970 (abbiamo quindi trascorso assieme quasi 50 anni di vita
massonica), è il Fratello Sergio1, a lui dico grazie della compagnia Fratello
mio …
Il secondo grazie lo devo ad un altro splendido compagno di
1 Sergio Rosso (Iniziato nella Loggia Pedemontana, poi passato alla Loggia Adriano Lemmi n° 864 all’Oriente di Torino,
dal 2012 Gran Maestro Onorario ad vitam, Gran Maestro Aggiunto nella Giunta del Gran Maestro Stefano Bisi)
avventura, al Fratello Maurizio2, che conosco da tempi immemorabili, sin
da quando era un giovanotto e credetemi per l’ultima volta, sebbene non sia
facile, da giovane era un gran bel ragazzo (lo attesta comunque una foto di
lui che possiedo) che carattere “fumantino” che aveva da giovane, non
avete idea!!! In ogni battaglia, anzi definiamola schermaglia, termine che
meglio si addice a quei tempi, lui era sempre coinvolto ma si schierava
sempre solo ed esclusivamente dalla parte del più debole … proprio per
questo gli lascio oltre al mio affetto anche la mia immensa stima.
Un altro grazie lo devo sentitamente, veramente il compimento di un
gradito dovere, al Fratello Beppe3, di lui potrei dire tante cose ma ve ne
dico solo una, la più importante: un grazie per l’immensità del suo cuore …
non fatevi ingannare mai da quell’atteggiamento che a primo acchito può
sembrare burbero perché io che lo conosco benissimo vi assicuro che ha un
cuore così grande che non avete idea …
Un altro Fratello che conosco dagli ultimi anni 60 è il Fratello Guido4,
uno dei fondatori della Monviso … ultimamente lo sto pensando ogni
momento … vorrà dire che ormai sono prossimo a rincontrarlo, quando lo
rivedrò gli dirò con quanto affetto suo figlio, anzi no qui come dicevo
all’inizio, non ci sono né figli né padri, ma solo fratelli, gli dirò appunto
con quanto affetto mi ha trattato il mio M. V., sfiorando perfino la
dedizione … grazie quindi caro Bepi5 per l’ultima volta.
E che dire dei fratelli che ho avuto l’onore e soprattutto la fortuna di
conoscere negli ultimi anni della mia vita … pensando a questi fratelli
capisco di avere avuto davvero una vita fortunata e tra i colpi di fortuna che
ho avuto vi è sicuramente quello di esser stato un massone.
Grazie di cuore al Fratello Piero6 il quale mi ha reso omaggio di un
attestato di stima come quello della Giordano Bruno praticamente quasi
senza conoscermi ma solo fidandosi delle sue sensazioni e, da vero
massone, del rispetto verso un Fratello molto più anziano di lui. Grazie
Fratello mio per un gesto di assoluto amore fraterno.
Il Fratello Paolo 7 , della mia Officina, mi ha accudito con una
delicatezza commovente, grazie mille quindi anche a lui.
Un secondo grazie al Fratello Aldo 8 il quale appena saputo dal
Fratello Paolo del mio ricovero presso l’ospedale di Alessandria si è
immediatamente attivato senza nessun bisogno di essere sollecitato … se
non è fratellanza questa non so come si possa in un altro modo definirla.
Un terzo grazie ai fratelli che sono venuti a trovarmi in ospedale
2 Maurizio Volkhart (Loggia Risorgimento n° 696 all’Oriente di Torino) dal 2006 Gran Maestro Onorario ad vitam
3 Beppe Bolatto (fino al 2000 nella Loggia Pedemontana n° 696 all’Oriente di Torino dove è stato iniziato e dal 2001 nella
Loggia Hermannus van Tongeren n° 204 all’Oriente di Utrecht all’obbedienza del Grande Oriente dei Paesi Bassi)
4 Guido Re (Iniziato nella Pedemontana, tra i fondatori della Loggia Monviso n° 688 all’Oriente di Asti e poi di questa
Maestro Venerabile)
5 Giuseppe Re (figlio di Guido e Ex Maestro Venerabile della Loggia Monviso n° 688 all’Oriente di Asti)
6 Piero Lojacono (Loggia Santorre di Santarosa n° 1 all’Oriente di Alessandria, Gran Tesoriere nella Giunta del Gran
Maestro Gustavo Raffi)
7 Paolo Stobbione (Loggia Monviso n°688 all’Oriente di Asti)
8 Aldo Bellora (Maestro Venerabile dalla Loggia Santorre di Santarosa n°1 all’Oriente di Alessandria)
facendomi sentire il loro sostegno morale, cioè ai fratelli Bepi, Leandro9,
Gianbattista10, Beppe, Piero, Maurizio, Paolo11 ed Alberto12 del quale ho
letto con assoluto compiacimento il suo libro sulla storia della massoneria
alessandrina, invito a fare altrettanto con quella astigiana (oltre a
continuare a produrre il suo ottimo amaro).
Il penultimo grazie va invece al mio ultimo M.V., il Fratello Pier13, il
quale mi ha omaggiato di una pietra con dedica che tengo sempre vicino a
me nel mio letto ormai di morte. A te caro Pier, mio M.V. purtroppo solo
virtuale, mentre sto passando questi ultimi giorni che mi restano,
guardando la pietra, tre volte grazie per l’assoluto rispetto, per
l’ammirazione per la figura, per l’affetto che mi hai dimostrato sin da
subito facendomi l’ultimo onore della mia vita nominandomi Membro
Onorario della tua Loggia. Io non penso di meritare tanto onore, ma invece
che sia un gesto di infinita tenerezza verso un povero vecchio. Non potrò
partecipare alla cerimonia di investitura perché le forze ormai mi mancano
ma so da Gianluca che sei particolarmente interessato al periodo storico in
cui ho ricoperto il ruolo di Giudice della Corte Centrale e ti ribadisco che
la mia dispensa informativa contenente molti documenti originali
dell’epoca è a tua completa disposizione … te l’ho già preparata in una
cartella apposita, il minimo che possa fare per ricambiare tanta gentilezza,
anzi tanta fraternità.
L’ultimo grazie a tutti voi Fratelli miei che siete stati così gentili da
ascoltarmi per l’ultima volta.
Arrivederci a tutti voi, il più tardi possibile, sempre per voi,
all’Oriente Eterno.
Ho detto, veramente per l’ultima volta,
Leo La Rosa
9 Leandro Quarello (Tesoriere e Segretario della Loggia Monviso n: 688 all’Oriente di Asti)
10 Gianbattista Filippone (Maestro Venerabile della Loggia Acacia n° 782 all’Oriente di Asti)
11 Paolo Grecu (Loggia Marengo n°1061 all’Oriente di Alessandria)
12 Alberto Valdata (Loggia Marengo n° 1061 all’Oriente di Alessandria, dal 2015 Consigliere dell’Ordine)
13 Pier Giuseppe Rossi (Maestro Venerabile della Loggia Marengo n° 1061 all’Oriente di Alessandria)
Curriculum massonico del Fratello Maestro Leo La Rosa
Iniziato il 1° giugno 1946 della Loggia “Freedom” all’Oriente di Catania.
Dopo la laurea si traferisce a Torino per svolgere la professione di
avvocato, il 30 settembre 1970 è riconosciuto, con il Grado di Maestro,
nella Loggia Pedemontana n° 696 di questo Oriente.
L’anno seguente è eletto Oratore, carica che ricopre dal settembre 1971 al
giugno 1973; e nuovamente dal settembre 1974 al giugno 1978.
Nel triennio settembre 1979 – giugno 1982 è Maestro Venerabile.
In seguito è Presidente del Tribunale Circoscrizionale del Piemonte e Valle
d’Aosta e poi Consigliere dell’Ordine.
Nel 1986 cessa l’esercizio della professione legale e la sua vita si volge ora
a Moncalvo, il 15 dicembre 1986 gli è concesso l’exeat per la Loggia
Monviso n° 688 all’Oriente di Asti.
Il 16 aprile 1992 è nominato Membro Onorario della Loggia Pedemontana
n° 696 all’Oriente di Torino.
Dal 1991 al 1994 ricopre la carica di Giudice della Corte Centrale.
Nell’anno 2014 il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia gli conferisce
la decorazione dell’Ordine di Giordano Bruno a riconoscimento dei suoi
meriti massonici.
Nell’aprile 2015 è nominato Membro Onorario della Loggia Marengo n°
1061 all’Oriente di Alessandria.
Passa all’Oriente Eterno il 19 novembre 2015

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V.I.T.R.I.O.L

V.I.T.R.I.O.L

di Anna Checcoli

Una stanza buia con le pareti dipinte di nero, il chiarore di una candela, un teschio, il pane, il sale, lo zolfo e tante scritte qua e là. Una per tutte: V.I.T.R.I.O.L. Cos’è? Tecnicamente un acrostico, e non un acronimo. Il primo è costituito da iniziali di parole che formano una frase, il secondo di parole slegate fra loro. Visita Interiora Terrae Rectificandoque Invenies Occultum Lapidem. Visita l’interno della Terra e compiendo opportune modifiche, trova la pietra nascosta. Ma quali modifiche e quale pietra? Sono le famose “trasmutazioni” alchemiche quelle di cui si parla, rettificazioni per niente facili a comprendere, e, una volta -forse- comprese, nemmeno facili da mettere in pratica. La pietra? Quella filosofale! Stiamo parlando di Alchimia. Operativa e Speculativa. Di Esoterismo, di Ermetismo, fors’anche di Kabbalah. Eppure tutto questo, un universo, una immensità di concetti, ridotti a sette lettere (non a caso) poste così, apparentemente senza un ordine, defilate pure se incombenti, in un oscuro stanzino in cui siamo destinati ad esser rinchiusi da profani. Come pretendere che qualcuno che non ha mai visto niente di tutto questo, comprenda? La risposta potrebbe venire dal fatto che alcuni kabbalisti erano convinti che il solo leggere alcune parole portasse le persone ad elevarsi, addirittura a guarire o ad assorbire una conoscenza superiore, quasi per osmosi. Leggo, ed il suono emesso dalla pronuncia di tali vocaboli ha su di me un influsso benefico (o malefico, al contrario), che mi porteranno a comprendere e conoscere. Il Prologo del Vangelo di Giovanni ha una attinenza con quanto sopra espresso. «In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, e Deus erat Verbum». Quel “Verbum” che molto ha perso nella traduzione dal Greco, dove si recitava “Logos”. Nella Kabbalah, che significato ha il suono in relazione al concetto di creazione? Ha un significato complesso, derivante, innanzi tutto, dall’importanza del Silenzio. Il Silenzio è il luogo da cui siamo partiti e dove torneremo. Esso è quel luogo dell’essenza divina dove il principio di tutte le cose poteva ritirarsi a pensare. Il pensiero è dunque il primo atto creatore, che precede la manifestazione. La parola rappresenta la conseguente forza creatrice. Nella Kabbalah ebraica si sostiene infatti che Dio creò l’universo con la sua Parola ineffabile e misteriosa. Senza andare oltre, a cosa è chiamato il recipiendario una volta Iniziato? Al Silenzio. Un silenzio creatore, dove le intuizioni, come semi, germogliano nel caldo umido dell’oscurità interiore, e le idee fioriscono, riscaldate come in una teca di cristallo, come nell’athanor dell’alchimista. Avvicinarsi alla Massoneria è una scelta che dovrebbe venir molto meditata. E che dovrebbe continuarsi a meditare. Siamo chiamati ad incontrarci troppo poco spesso, specialmente se questi giorni di riunione vengon lasciati lì, buttati per caso, segnati su un’agenda o su un calendario. Ritrovarsi non è un momento di ritrovo come ad un aperitivo, non è l’occasione per fare sfoggio delle proprie idee o conoscenze, non è una consuetudine come salutare gli amici in palestra o a teatro. Il giorno dell’iniziazione ci viene consegnato un rituale, e non per riporlo in un cassetto fino alla volta dopo. Quel rituale è il nostro compagno di riflessioni, è la prosecuzione luminosa di quell’oscuro stanzino. Siamo chiamati ad abbandonare i metalli prima di pensare a lavorare al bene ed al progresso dell’umanità. Cosa significa? Suona come una curiosa coincidenza che gli alchimisti lavorassero con i metalli e con sostanze che ci vengono presentate nel gabinetto delle riflessioni, ma non è una casualità. Il Sale e lo Zolfo sono due sostanze base utilizzate da coloro che lavoravano (e lavorano) “al forno” come materia prima per iniziare la loro “opera”. Esse rappresentano Corpo e Anima. Manca il terzo elemento base, il Mercurio simbolo dello Spirito. Il Sale è il corpo fisico, solido, materiale, caratteristica questa che senza dubbio appartiene anche all’essere umano. E rispetto ai quattro elementi dai quali gli antichi ritenevano fosse originato l’universo, il Sale corrisponde all’elemento Terra. Lo Zolfo, che corrisponde all’elemento Fuoco, di colore giallo-oro, è assimilabile all’Anima dell’uomo, che proprio come lo Zolfo si infiamma con facilità e per sua natura sempre arde, tendendo costantemente verso l’alto con la forza di una Fiamma. Nessuno ha mai saputo circoscrivere con precisione il concetto di Anima, ma una definizione interessante è stata data da Julius Cohen: “l’Anima è la scintilla divina in noi”. Il Mercurio, invece, è un elemento particolare per le sue caratteristiche. È solido, ma allo stesso tempo è liquido ed in grado di sublimare con molta facilità tanto che, se non lo si conserva in un contenitore ermetico, col tempo evapora. Così è anche lo Spirito, cioè l’insieme di tutti i nostri istinti profondi e delle forze vitali. E come queste, lo Spirito è volatile, inafferrabile ed ambivalente, risentendo talvolta più degli influssi del Corpo Fisico, altre volte più dell’Anima. Per quale motivo, dunque, il Mercurio non è presente nel gabinetto delle riflessioni? Siamo sicuri che non ci sia? Esso è rappresentato dalla nostra essenza presente in quel momento, siamo noi, eternamente mobili, estremamente complessi, elemento fondamentale per dare avvio all’Opera alchemica. Attraverso il Mercurio si dà origine alla prima trasmutazione, quel primo cambiamento della materia che si chiama Nigredo. E’ l’Opera al nero, la Putrefatio, è il liquido oscuro in cui il Re e la Regina del Rosarium Philsophorum (opera di Arnaldo da Villanova (1235-1315), famoso medico e alchimista dei suoi tempi) si uniranno fino a fondersi nell’Androgino, altrimenti detto Rebis, prima di passare ad altre trasmutazioni. Noi che apparteniamo ad una Istituzione massonica mista, meglio di chiunque altro dovremmo capire questo passaggio: è il principio femminile che si unisce a quello maschile, sono i raggi argentei della Luna che agiscono sulla materia, insieme a quelli d’oro del Sole. Alcun cambiamento può avvenire senza l’influenza congiunta di questi due principi. Nel proseguire il nostro cammino si presuppone che di pari passo vi sia una evoluzione, altrimenti, ribadisco, è frequentazione deprivata del vero ed unico motivo per cui dovremmo essere qui. Alchemicamente, l’evoluzione si estrinseca in altre trasmutazioni, in cui la materia originaria via via si trasforma e, in un certo senso, si raffina, acquisisce caratteristiche più rare e preziose, esattamente come ciò che dovrebbe accaderci nel percorso latomistico. Quando si dice “abbandonare i metalli”, quei famosi metalli di cui simbolicamente veniamo deprivati il giorno della nostra iniziazione, si mette in atto una metafora del lavoro alchemico, durante il quale le sostanze originarie subiscono varie mutazioni volte alla spoliazione delle scorie. Ecco, noi dovremmo fare esattamente questo: abbandonare le sovrastrutture mentali, i pregiudizi, la presunzione, la vanagloria, l’attaccamento alla materialità. Prima di pensare in grande, dovremmo lavorare sulla spoliazione madre di tutte le spoliazioni: l’umiltà. Il percorso iniziatico non è la catarsi delle frustrazioni profane. E’ anzi il coraggio di guardarsi allo specchio e vedere il nemico che ci si para davanti. Parafrasando Nietzsche, il famoso abisso va guardato eccome. Solo così, dopo aver permesso all’abisso di guardare, a sua volta, dentro di noi, potremmo dirci vicini all’Albedo, quell’Opera al Bianco dove la materia comincia a purificarsi e ad assomigliare più ad una colomba che ad un corvo. Per poter, poi, avvicinarci al Sole senza bruciarci, e rinascere dalle ceneri del nostro involucro più che terreno, tanto lavoro va fatto, guardando più al percorso che alla meta. Anche perché, come ci insegnavano gli alchimisti, l’Elisir era un liquido rosso come il fuoco, il famoso Rubedo, che solidificava come una splendida pietra trasparente color di rubino, ma che poteva essere disciolta per cominciar tutto da capo, a dimostrare che il simbolo dell’eterno ritorno, l’uroboro, altro non è che la rappresentazione di un cammino che mai finisce, ma può solo cominciare e ricominciare sempre arricchito di nuove conoscenze.

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